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FONDAMENTI E STORIA DELLA PSICOLOGIA

LEZIONE 5/10/2020.
Introduzione. Bisogna riflettere sull’origine della psicologia considerata come disciplina scientifica e capire
quali sono le matrici culturali della sua origine. È necessario superare la visione che vede i processi
psicologici secondo un senso comune e privi di connotazione scientifica, infatti tale scienza nasce dalla
filosofia, ma se ne distacca per assumere una sua autonomia come disciplina con connotazioni scientifiche. La
psicologia cerca di descrivere nella sua totalità le facoltà psichiche, ovvero i processi psichici di base come
percezioni, emozioni, comportamenti (sia individuali che sociali), ragionamenti, memoria; processi che
riguardano componente mentale, emotiva e comportamentale.

Il termine. Il termine “psicologia” deriva dall’unione di ψυκη (psiche) e λογοσ (discorso), e letteralmente
può essere tradotto come “scienza dell’anima”. Per la prima volta appare nel panorama della cultura
occidentale tra il XVI e XVII sec, coniato da Filippo Melantone, filosofo della Riforma o da Rodolfo
Goclenio, logico di Mademburgo (in realtà non si sa chi lo abbia creato con esattezza). Successivamente fu
utilizzato anche negli scritti del filosofo Wolff (allievo dell’empirista Leibniz) a partire dal 700.

Wolff. Wolff utilizzò questo termine nell’ambito delle riflessioni sull’origine dell’uomo. Wolff usa il termine
psicologia come quarta parte della Metafisica (quest’ultima studia i fenomeni oltre il sensibile, al di là
dell’esperienza) insieme a ontologia, cosmologia e teologia; distinzione che perdura ancora fino al Novecento.
Lo studioso distingue inoltre una psicologia empirica (fatti psichici della realtà) da una psicologia razionale
(essenza dell’anima e delle sue facoltà).

Il decollo ritardato della psicologia come scienza. Soltanto nell’800 il termine psicologia assume una
connotazione scientifica, per cui finalmente tale disciplina non sarà più vista come una branca della filosofia,
ma acquisirà una propria dignità. Va ricordato che la rivoluzione scientifica decolla nel 600, mentre per
considerare la psicologia come una vera e propria scienza bisogna aspettare due secoli. Legrenzi analizza le
motivazioni che stanno alla base della lentezza del decollo della psicologia, considerando due motivi principali:
1. L’evoluzione culturale dei paradigmi scientifici;
2. L’interesse verso la “scienza dell’uomo” è un interesse moderno (nasce dall’Umanesimo in poi).

L’evoluzione culturale dei paradigmi scientifici (1). I paradigmi culturali (ovvero le interpretazioni che
un popolo dà rispetto alla realtà che lo circonda, rispetto ai fenomeni che vive) non evolvono in maniera lineare,
infatti un popolo appartenente ad una determinata sfera geografica assegna ad una serie di elementi un
cambiamento non lineare. Tutti i grandi cambiamenti epocali accadono per discontinuità: ci sono dei momenti
che segnano una crisi all’interno di una cultura e che quindi portano ad un cambiamento radicale, che segna la
nascita di nuovi paradigmi. Proprio da qui la cultura evolve, ed essa lo fa proprio sulla base delle rotture
epistemologiche (rottura del paradigma precedente).
Per capire come nasce la psicologia dobbiamo osservare queste crisi, questi momenti nell’evoluzione storica
della cultura occidentale che hanno segnato una novità e che hanno portato gli studiosi a pensare alla psicologia
come una scienza. I paradigmi sono però frutto del contesto storico nel quale si realizzano, infatti per
comprendere un paradigma culturale dobbiamo considerarne l’origine storica.

N.B. →Wundt può essere considerato il padre della psicologia, in quanto fonda il primo laboratorio di
psicologia sperimentale (cioè per lo studio dei processi psichici) nel 1879 a Lipsia. Egli crea lo strutturalismo,
il quale si fonda sull’utilizzo dell’introspezione, secondo cui l’individuo diventa osservatore di se stesso.
L’interesse moderno verso la “scienza dell’uomo” (2). Gli studiosi susseguitosi fino all’Umanesimo,
non avevano puntato l’attenzione sull’uomo, ma in generale ambivano soprattutto a spiegare l'origine delle
cose, infatti basti pensare all'ontologia, disciplina che vuole stabilire i criteri di esistenza di determinate entità;
nella cultura occidentale, l’uomo diviene oggetto di interesse scientifico solo nell’Umanesimo (ecco perché
diciamo interesse “moderno”), a differenza delle scienze naturali che sono invece da sempre oggetto di
interesse scientifico.
Soltanto durante il periodo umanistico infatti gli studiosi iniziano a
chiedersi “Da dove nascono gli uomini? Da dove veniamo?'”. È
soltanto a partire da questo periodo infatti che si inizia a pensare che
l'essere umano può essere oggettivato e studiato anche in maniera
scientifica. Tuttavia, prima dell'Umanesimo ci sono delle piccole
Filosofia
intuizioni che è possibile andare a rintracciare all'interno del
Astronomia Psicologia pensiero filosofico occidentale. Le intuizioni sicuramente
Fisiologia
provengono, non solo dalla filosofia, ma anche da tutta una serie di
Biologia
altre discipline (astronomia, fisiologia, biologia) che poi, a partire dal
1600, cominciano in qualche modo a formare la psicologia che
soltanto nel 1879 si struttura come disciplina scientifica.

Analizziamo adesso le conseguenze di ognuna di queste discipline per la realizzazione della psicologia.

LA FILOSOFIA
Lo scopo della filosofia era lo studio dell'anima e le domanda a cui i filosofi cercavano di rispondere erano:
“Che cos’è l’anima?” “Dov’è collocata l'anima o l'attività psichica?”

Culture arcaiche. Nelle culture arcaiche l'anima veniva collocata in varie parti del corpo:
 Gli Egiziani, la civiltà cinese e il pensiero ebraico cercano una sede somatica e collocano l’anima nel
cuore, per cui si tratta di una visione molto passionale.
 Nel pensiero greco questa anima “oscilla'”, infatti in Omero la troviamo collocata nel cuore (anche se
non sempre, perché anche Omero dà molta importanza alla ragione nella descrizione degli eroi), in
altri autori invece nel cervello, in quanto i filosofi greci puntavano alla ragione, alla razionalità. Per i
filosofi greci per “anima” si intende anche lo spirito vitale.
Tra i filosofi greci troviamo:

Pitagora. Pitagora (570-489 a.C.) distingue 3 facoltà psichiche, tipiche dell'essere umano:
Intelligenza; Intelligenza e passione (intesa anche come istinto di
sopravvivenza secondo i greci), sono tipici
Passione; dell'uomo e del mondo animale
Ragione.
La ragione è la peculiarità dell'essere umano.

Quindi Pitagora comincia questa dicotomia tra cuore e ragione (il cervello), che accompagna i diversi ambiti
di studio della psicologia. Infatti vi sono modelli che danno maggiore importanza alla parte logica e razionale,
altri invece che assegnano una maggiore attenzione alle passioni e ai conflitti dell’anima.

Ippocrate. Ippocrate (469 a.C.- 361 a.C.) è un medico greco, il quale per primo comincia a studiare la malattia
mentale dell’uomo, di conseguenza assegna al cervello una notevole importanza. Egli descrive deliri e
allucinazioni e afferma che le disabilità intellettive sono conseguenze di traumi cranici e che l'epilessia è una
malattia cerebrale. Quindi Ippocrate intuisce che esistono patologie non collegate al fisico ma alla mente.
Ippocrate sarà fondamentale quando parleremo di “personalità” in quanto lui insieme a Galeno (vedi
sotto→Pensiero filosofico romano) sono i primi ad indagare sui diversi tipi di personalità. Ippocrate propose
il modello dei 4 umori in base ai 4 elementi naturali:
 Acqua
 Aria
 Terra
 Fuoco
A cui associa poi 4 elementi dell'uomo:

 Il sangue;
 Il flemma;
 La bile gialla;
 La bile nera.
Mescolando questi elementi con le stagioni, differenzia 4 tipi psicologici, che indicano non solo individui con
personalità diverse, ma anche soggetti che possono andare incontro a malattie psichiche:

 Sanguigno;
 Collerico;
 Flemmatico;
 Melanconico.
Ippocrate, in quanto medico, cominciò a capire che vi erano patologie/malattie non strettamente associate al
corpo, ma al cervello (malati d'amore, follia...). La connessione mente-cervello la possiamo dunque fare risalire
ad Ippocrate.

Platone e l’Innatismo. Platone (428 a.C. - 347 a.C.) propone la concezione delle idee innate, dunque
dell'innatismo. Secondo quest’ultimo, certi tipi di conoscenze sono innate o connaturate, per cui ad esempio
una bambina acquisisce la padronanza degli aspetti fondamentali della lingua senza aver ricevuto alcuna
istruzione formale. Quindi la propensione all’apprendimento della lingua è qualcosa che i bambini possiedono
fin dalla nascita. Per Platone dunque le conoscenze sono connaturate dentro di noi (mito della caverna*): noi
conosciamo la realtà esterna grazie a delle piccole lenti ci consentono di leggere la realtà esterna e di
individuare la "sostanza".
Esempio→ Ci sono autori che credono che la personalità sia un dato innato. Se consideriamo ad esempio un
individuo estroverso, quest’ultimo sarà tale perché sarà nato con la componente genetica che lo rende
estroverso. Secondo gli innatisti dunque anche la personalità è un dato che possediamo già dalla nascita e che
NON dipende da altri fattori o esperienze.
*Il mito della caverna. Il mito della caverna è la descrizione narrativa del percorso conoscitivo del filosofo, il
quale, nella sua ricerca della verità, si stacca dal mondo sensibile per raggiungere le idee e il Bene, e ritornare
quindi tra gli altri uomini per governare la città nel modo migliore. Il racconto può essere diviso e analizzato
in quattro sezioni.
La caverna, ovvero il mondo della conoscenza sensibile. La
caverna è un luogo angosciante, dove i prigionieri, incatenati
fin da fanciulli, scorgono soltanto alcune ombre proiettate sulla
parete che sta loro di fronte. Essi ritengono che le ombre siano
l’unica e vera realtà esistente e non possono immaginare ciò
che accade alle loro spalle.
Il viaggio verso la luce. Nella seconda parte del mito, Platone
immagina che uno schiavo venga liberato dalle catene e
trascinato all’esterno della caverna. Dopo aver scoperto che né
le ombre che vedeva quando era incatenato, né gli oggetti portati lungo il muro e proiettati sul muro
costituiscono la vera realtà, egli sarebbe abbagliato dalla luce del sole e solo poco per volta imparerebbe
dapprima a discernere gli oggetti del mondo autentico e alla fine a guardare direttamente il sole (l’idea somma
del bene).
Il ritorno nella caverna. Invece di rimanere a contemplare in solitudine il sole e il mondo reale, cioè il Bene
e la verità, lo schiavo liberato decide di tornare nella caverna, per comunicare agli altri prigionieri ciò che ha
visto e per aiutarli a liberarsi a loro volta della prigionia. I suoi occhi, però, faticheranno a riadattarsi al buio
ed egli sarà deriso dagli altri schiavi, che si convinceranno che la luce esterna gli abbia rovinato gli occhi e
quindi non gli crederanno. E alla fine, infastiditi dal suo tentativo di scioglierli e di portarli alla luce del sole,
lo uccidono

Aristotele e l’Empirismo. Aristotele (384 a.C. - 322 a.C.) rifiuta completamente la visione dell'innatismo
e dice che noi non conosciamo la realtà esterna perchè applichiamo le nostre forme innate, infatti il filosofo
propone la visione basata sull'Empirismo, secondo cui tutta la conoscenza si acquisisce attraverso i nostri
sensi e mediante l'esperienza che facciamo del mondo. Aristotele aiuta la riflessione psicologica dell'essere
umano, considerandolo come un oggetto che fa parte della natura e che può essere studiato con i metodi delle
scienze della natura. Aristotele infatti ritiene che come si applicano i metodi empirici per studiare la natura,
così possiamo applicarli anche nello studio dell’uomo, il quale è parte integrante della natura stessa. Il primo
trattato filosofico di psicologia in cui si iniziano a studiare le facoltà psichiche, dove appunto l’uomo è
considerato oggetto di studi, è il De Anima di Aristotele, grazie al quale si fa dunque il primo passo necessario
affinché possa esservi una scienza dell’uomo che conosciamo col nome di psicologia.
Esempio→Consideriamo un individuo estroverso: secondo la visione empirica, questo soggetto avrà una
personalità estroversa grazie a vari fattori ed esperienze che hanno caratterizzato la sua vita (come un
ambiente familiare arricchito, feste frequenti, genitori molto aperti) e che di conseguenza lo hanno reso più
estroverso.

Innatismo vs Empirismo → Interazionismo. Platone e Aristotele, quindi, erano in netta


contrapposizione, Platone era più indirizzato verso l’innatismo mentre Aristotele sull’empirismo e questa
contrapposizione caratterizza tutt’oggi la psicologia e molte riflessioni attuali. Questa contrapposizione si
risolve secondo una prospettiva che si chiama interazionismo, in base a cui siamo l’unione della genetica e
delle esperienze. La filosofia greca getta le basi perché la scienza dell’uomo, ovvero la psicologia possa
progredire.

Il pensiero filosofico romano. Nell’epoca romana la riflessione sull’uomo è molto limitata, perché i romani
non sviluppano particolarmente i temi della psicologia greca. Gli unici filosofi romani che si possono citare in
questo ambito sono:
 Galeno è colui che insieme ad Ippocrate propone la tipologia della personalità e distingue lo pneuma
fisico (che deriva dai vapori del sangue e regola le funzioni corporee) da quello psichico che danno
vitalità e caratterizzano l’essere umano.
 Plinio il vecchio descrive casi mostruosi e anche lui individua questo “pneuma” che ci conferisce
vitalità. Egli colloca la mente nel cuore (continua la dicotomia mente-corpo), ma questa raggiunge il
cervello attraverso lo pneuma, circolando nelle arterie è sempre questa dicotomia tra mente e corpo.
L'idea dello pneuma è quella che porterà attraverso gli studi della fisiologia alla scoperta del sistema nervoso
centrale, lo pneuma è l'energia vitale che ci caratterizza e che poi sarà il sistema nervoso.

Il Medioevo. Passato l'epoca romana, si passa all'età oscura, cioè il Medioevo, periodo esclusivo di Dio, della
Chiesa e della religione. Durante il momento medievale non c'era né spazio, né possibilità di studiare l'uomo
in quanto essere finito, infatti si poteva rivolgere l'attenzione e lo studio soltanto all'essere infinito. Il mondo
in questo momento era visto come una struttura gerarchica con a capo Dio e l'uomo addirittura veniva escluso
dalla natura e ritenuto inferiore. Soltanto la divinità poteva e doveva essere contemplata, tutto il resto era
sempre sottostante ad essa. Si pensava che l'uomo fosse stato creato da Dio e non avesse neppure una sua
dignità in quanto tale, perché tutto ruotava attorno alle riflessioni sulla religione.
Tutto ciò che invece girava attorno all'uomo era considerato oscuro e occulto, infatti questo è il periodo della
magia, dell'alchimia, e ogni tentativo di studiare l'uomo anche nell'anatomia era condannato come eretico e
blasfemo. Poiché c'era questa concezione che l'essere umano fosse un essere creato da Dio e al quale Dio
avesse soffiato l'anima, dato che quest’ultima è una componente spirituale non poteva essere studiata in
maniera scientifica.
Umanesimo-Rinascimento. Bisogna arrivare finalmente al periodo umanistico-rinascimentale affinché
l'uomo venga messo al centro della riflessione filosofica e nasca finalmente l'interesse per lo studio dell'essere
umano come componente e membro della natura. Secondo questa prospettiva l'Umanesimo riprende
l'empirismo aristotelico reinterpretandolo alla luce di una visione più antropocentrica. Sebbene l'uomo
acquisisca dignità, ancora non diviene vero e proprio oggetto scientifico: il mondo della natura è sempre
patrimonio di maghi e alchimisti che praticano una magia naturale e non soprannaturale e demoniaca, per cui
l'uomo all'interno del creato è ancora visto come un elemento della natura ma che ancora può essere studiato
con dei metodi “magici”. La vita dell'individuo è determinata dalle leggi naturali infatti si conferisce un potere
enorme all'astrologia: gli astri influenzando la vita dell'uomo, i suoi comportamenti e i suoi pensieri, quindi
egli non è ancora totalmente libero di agire e decidere, ma è visto come parte del creato.

Rivoluzione scientifica. È soltanto con la rivoluzione scientifica tra il XVI e XVII sec, grazie a personalità
come Keplero, Galileo e Bacone, che nasce la scienza moderna. Finalmente nasce il metodo scientifico-
sperimentale che può essere applicato anche allo studio dell'uomo, inteso come un oggetto che può essere
studiato. In questo momento viene ripreso l'empirismo aristotelico e in particolare sono tre i passi che portano
alla fine del 700 alla fondazione di una scienza dell'uomo, ma non ancora della psicologia intesa in senso
scientifico moderno:
1. Il dualismo e la dottrina delle idee innate di Cartesio;
2. L' empirismo inglese, grazie al quale si registra il passaggio dallo studio astratto dell'essenza della
mente ad un'indagine dei processi di quest'ultima.
N.B. La struttura è il nostro cervello con le nostre varie aree cerebrali associate a diverse funzioni;
il processo invece è ben diverso, infatti si ci riferisce ad esempio ai processi di memoria. In questo
momento dunque comincia questa distinzione;
3. La progressiva ricongiunzione della mente con il corpo, quindi il passaggio da una concezione
del corpo come macchina ad una concezione del corpo come organismo animale in modo da
ricostruire appunto l'unità mente-corpo. Oggi sappiamo che mente e cervello non sono più separati
ma sono un'unica entità.
Analizziamo di seguito questi 3 passi che ci porteranno alla nascita della psicologia sperimentale di Wundt.

Primo passo: Il Dualismo e la dottrina delle idee innate di Cartesio.


Il dualismo cartesiano si basa sulla distinzione tra:

 la res cogitans o spirito pensante, che fa riferimento alla mente, per cui Cartesio riprende l'idea
dell'anima secondo la filosofia greca. La res cogitans è dunque lo spirito vitale privo di estensione,
impalpabile, che non si può né vedere, né sentire, né toccare, ma che ci caratterizza in quanto essere
umani. La.

 la res Extensa o materia, infatti l’uomo non è solo spirito ma anche corpo, dotato di una propria
estensione. Il corpo ha un funzionamento omeostatico, può essere inteso dunque come macchina
idraulica, non spirituale e in grado di funzionare autonomamente (Esempio: se colpiamo il ginocchio
con un martelletto, la nostra gamba si alza secondo il meccanismo di arco↔riflesso nel quale non
viene registrato l'intervento del cervello, infatti la gamba si alza autonomamente come risposta alla
domanda ricevuta dall'impulso). Dunque il nostro corpo è capace di funzionare in autonomia rispetto
allo spirito vitale.
Due entità separate e due studi diversi. La res cogitans non si può studiare a differenza invece della res
extensa, dal momento che si può trovare una spiegazione alla materia ma non allo spirito vitale. La res cogitans
e la res extensa sono dunque due entità separate, tuttavia interagiscono tra di loro attraverso la ghiandola
pineale (o epifisi). Nonostante mente e corpo interagiscano si assiste ad un loro dualismo, infatti essendo
componenti differenti e autonome l'una dall'altra si studiano secondo approcci differenti:
 Lo spirito vitale è patrimonio della filosofia e della religione;
 Il corpo invece oggetto di studio della medicina e della fisiologia.
La visione meccanicistica e la dottrina delle idee innate. Cartesio incarna due riflessioni opposte ma
entrambe fondamentali:
Visione meccanicistica→ Cartesio considerando il corpo come oggetto di studio ne propone una visione
meccanicistica che rappresenta una rottura epistemologica, la quale getta le basi per lo studio scientifico
dell'uomo e del cervello.
Dottrina delle idee →Allo stesso tempo però, il filosofo è sempre figlio del proprio tempo, per cui anche lui
si fa portavoce della dottrina delle idee innate o razionalismo cartesiano. Quest’ultimo contribuisce allo
sviluppo della psicologia perché stabilisce che alla mente NON è necessario il corpo per esplicare la sua azione,
perché in essa sono compresi, innati, i principi che le consentono di funzionare (le idee innate). In questo
modo Cartesio comincia una riflessione circa i processi cognitivi, mentali, clinici, dinamici, sociali, relazionali
che avvengono nella nostra mente, la quale mente ha una sua autonomia rispetto al corpo e può essere studiata
indipendentemente da esso (è quello che farà anche Freud).
Egli afferma che le idee innate nascono dalla nostre esperienze sensoriali ma non si riducono solo a questa.
Infatti alcune di queste derivano dalla nostra capacità immaginativa contenuta nella nostra mente.

I 3 tipi di idee per Cartesio. Le idee innate per Cartesio sono di 3 tipi differenti, questa differenziazione è
importante citarla, perché per la prima volta nella cultura occidentale inizia la riflessione su quelli che sono i
contenuti della nostra mente. La mente, quindi non è solo spirito vitale, ma è composta anche da altre cose,
così si arriverà allo studio delle sue diverse componenti. Per studiare Cartesio dobbiamo tener conto di un certo
dualismo, poiché studia sia mente che corpo, oscillando tra una visione innatista e una visione empirista. In
Cartesio non c'è una definizione specifica di “idea”, ma egli postula l'esistenza delle idee innate e ne considera
tre di natura differente (sono quindi tutte IDEE INNATE!!!!!):
1. Le idee che derivano dai sensi;
2. Le idee che derivano dalla memoria o dall’immaginazione (cioè costruite dalla mente) o dalla nostra
consapevolezza di provare delle emozioni;
3. Le idee innate.
Le idee che derivano dai sensi (1). Le idee che derivano dai sensi sono quelle che nascono dall’esperienza
sensoriale, infatti quando Cartesio propone la concezione che esistano delle idee innate, NON pensa che queste
ultime siano chiare e distinte alla coscienza o che le abbia messe nella nostra testa Dio o un'altra entità
superiore, ma ritiene che le idee innate nascono dalla nostra esperienza (Esempio per capire →Faccio
esperienza dell’albero e quindi creo l’idea dell’albero).
Le idee costruite dalla mente (2). Le idee derivanti dalla memoria, dall’immaginazione o dalla
consapevolezza di provare emozioni per Cartesio sono idee che sicuramente derivano dall'esperienza non si
riducono solo a quella, perché sono delle idee che possiamo creare in autonomia semplicemente
immaginandole:
Pensiamo alla nostra capacità immaginativa →noi possiamo immaginare delle cose che non hanno aderenza
con la realtà: gli gnomi e le fate non li abbiamo mai visti, ma intanto riusciamo a rappresentarli perché ci
atteniamo alle immagini delle farfalle o dei nani, quindi a qualcosa di cui abbiamo fatto esperienza. La
rappresentazione immaginaria dunque ha sempre un dato di realtà che viene ulteriormente rielaborato
dall’uomo a partire dalle proprie concezioni (Esempio per capire→ Io vedo una farfalla, dunque faccio
esperienza di essa, poi rielaboro questa esperienza sensoriale e quindi creo l’idea della fata). Stessa cosa vale
per le emozioni, infatti la gioia o la tristezza non possiamo vederle ma possiamo di certo sentirle.
Le idee innate (3). Le idee innate sono Dio, gli assiomi matematici, il Sé, e sorgono direttamente dalla res
cogitans.
N.B. Le idee innate dunque sebbene derivino dall’esperienza, sono patrimonio esclusivo della mente e
appaiono come predisposizioni innate a formare idee sulla base dell’esperienza; ritorna dunque il dualismo
mente-corpo perché le idee non coincidono con il nostro corpo, ma è qualcosa che è legato alla nostra mente.
→ Il fatto che Cartesio dica che le idee innate derivino dall'esperienza non deve indurre a pensare il filosofo
come un empirista perché non è assolutamente così. Cartesio ha una posizione forte rispetto al razionalismo e
lui sottolinea il valore dei processi mentali intesi quasi alla maniera platonica. Egli ritiene che alcune idee o
rappresentazioni mentali possono partire dall'esperienza, ma il focus cartesiano è sull'indipendenza e sulla
"supremazia" della mente in relazione agli altri elementi, dunque è un fautore del dualismo, in quanto separa
la mente dal corpo e i principi che li caratterizzano e focalizza l'attenzione sull'aspetto della rappresentazione
mentale che guida l'individuo.

LEZIONE 6/10/2020.
Secondo Passo- L’Empirismo inglese.
Il secondo passo necessario per arrivare alla fine del 700 alla fondazione della psicologia come scienza
dell'uomo viene affrontato dagli empiristi inglesi. L'empirismo inglese infatti si concentra maggiormente
sull'indagine dei processi della mente piuttosto che sullo studio dell'essenza di quest'ultima, di conseguenza
non si concentrano più sulla sostanza che caratterizza l'uomo ma sui processi che regolano le facoltà
intellettive. Gli empiristi (Locke, Hume, Mill, Hartley, Bain) fondano l'associazionismo che diventa la base
per spiegare come funziona la mente. Facendo ciò, l'empirismo nella prima metà del Seicento, si contrappone
al razionalismo cartesiano.
P.S. Per esempio circa l'apprendimento del linguaggio vi sono molte teorie che spiegano come l'individuo
impari a parlare e comprendere la lingua madre, e in particolar modo vi è una contrapposizione tra due
prospettive:
 una innatista di Chomsky, il quale ritiene che i bambini imparino a parlare grazie a quella che lui
definisce “grammatica universale” che è presente in ognuno di noi e che porta ogni individuo ad
acquisire il linguaggio (in ogni lingua del mondo, per fare un discorso occorre sempre mettere insieme
soggetto, verbo e predicato, per cui le regole grammaticali si accomunano tutte le lingue
indipendentemente dall'idioma);
 una empirista, secondo cui invece l'individuo apprende il linguaggio partendo dalle sollecitazioni
provenienti dall'ambiente esterno (per esempio la mamma sollecita il bambino a fare delle associazioni
tra suoni e oggetti).
Per gli empiristi:
 Le idee innate non esistono;
 Se per idee si intendono i pensieri non esiste nessun pensiero che non possa essere fatto risalire, se ben
analizzato, a qualcosa di cui precedentemente si è fatta esperienza (per sviluppare il pensiero del fiore,
dobbiamo aver per forza interagito con esso);
 L'intelletto umano è determinato unicamente da fattori ambientali: ciò che l'uomo può conoscere del
mondo deriva unicamente da ciò che l'ambiente scriverà nella sua mente (quindi deriva da
un'esperienza sensoriale, visiva, olfattiva, uditiva, gustativa). È l'ambiente a plasmare l'individuo e a
favorire lo sviluppo della sua mente, come se in origine fosse una “tabula rasa” (Aristotele), sulla
quale attraverso l'esperienza incidiamo le nostre conoscenze.
Le matrici empiriste che vengono poi assorbite dalla psicologia sperimentale sono le seguenti:
 Il punto cruciale è il modo in cui gli empiristi intendono l'intelletto che NON è più una sostanza
(entità), ma una facoltà (un processo);
 Si apre la strada allo studio dei processi dell'anima indipendentemente da quale fosse la sostanza
dell'anima stessa;
 I processi mentali sono gli unici che vanno studiati in maniera scientifica (infatti l'empirismo ha
un approccio molto più scientifico, che rimanda al metodo galileiano basato proprio sull'osservazione
dei fenomeni e la realizzazione di esperimenti);
 Entità o essenza vanno studiati invece attraverso la metafisica.
Quando parliamo di “scienza” (fisica, biologia, etc.) siamo soliti pensare allo studio di tutti i fenomeni naturali
e alla loro descrizione, motivo per cui viene difficile pensare alla psicologia, che ha a che fare con l'uomo,
come “scienza”. In realtà però gli empiristi studiando in modo scientifico i processi mentali che caratterizzano
l'individuo, aprono la strada allo studio SCIENTIFICO dei fenomeni psicologici, contribuendo così alla
nascita di una psicologia scientifica. Possiamo dire dunque che senza la distinzione tra i processi e la natura
dell'anima non sarebbe potuta mai nascere una psicologia scientifica; perché ogni discussione dell'anima
avrebbe avuto a che fare con il problema della sua essenza e quindi con la metafisica.

L’associazionismo. Ciò che ci consente di studiare i processi mentali è il principio dell’associazione, che
viene proposto dal filosofo empirista inglese Hume nella prima metà del ‘700. Quando dobbiamo
rappresentare un qualsiasi oggetto esterno, lo facciamo per associazione: Hume infatti individua nelle
associazioni i processi fondamentali che regolano l’intelletto, fondando così l’Associazionismo.
In particolar modo distingueva 3 tipi di associazioni:
 Le associazioni per somiglianza (Esempio→ Se vediamo un ritratto, molto probabilmente lo
assoceremo per somiglianza al volto di una specifica persona; infatti quando un artista realizza un
dipinto sicuramente si ispirerà a un individuo, motivo per cui un quadro tanto più è fatto bene quanto
più è fedele al soggetto scelto);
 Le associazioni per contiguità (Esempio→ Se mi trovo in una città, per contiguità spaziale associo ad
essa la presenza di alcuni monumenti oppure luoghi, infatti se pensiamo a Roma, ci viene facile
associare la Chiesa di San Pietro);
 Le associazioni per causazione, cioè di causa-effetto (Esempio→ Il figlio viene associato al padre
perché in qualche modo c'è un rapporto di causa ed effetto tra i due individui).

Questo principio dell’associazione verrà poi ripreso da molti altri psicologi quali Freud o Jung, per esempio
quando utilizzeranno la tecnica delle “libere associazioni”, oppure dal Comportamentismo, con gli studi di
Pavlov (secondo il comportamentismo per esempio si creeranno delle associazioni di causa ed effetto tra più
stimoli o tra uno stimolo e una risposta, inoltre affinché si inneschi un processo di condizionamento è
importante la contiguità associativa tra la presentazione di uno stimolo e una determinata risposta).

L’introspezione di Brown. Nell’Ottocento, gli associazionisti introducono con Thomas Brown (1820), un
altro empirista inglese, il metodo dell’introspezione (o auto-osservazione), che consente lo studio sistematico
e scientifico dei processi mentali. L’introspezione è il metodo secondo cui l’individuo ha la possibilità di
osservare se stesso e quanto avviene nella sua mente e successivamente descrivere i processi mentali che vive
in un determinato momento, per cui è un metodo molto descrittivo (Esempi→ Wundt faceva odorare un
determinato fiore ai suoi soggetti sperimentali, chiedendogli successivamente di descrivere soggettivamente le
sensazioni e le emozioni che quel profumo gli suscitava; Anche scrivere un diario è un metodo introspettivo
perché l'individuo narra e scrive di sé stesso).
N.B. Questo metodo sarà utilizzato dagli Strutturalisti e da Wundt nel primo laboratorio di Lipsia dove sorge
ufficialmente la psicologia scientifica. Inoltre bisogna evidenziare che il metodo introspettivo in realtà non è
proprio scientifico in senso stretto, perché l’individuo è soggetto all’autoinganno e alle distorsioni personali.
Nonostante ciò però per l’epoca era una grande scoperta, perché per la prima volta si pensò a un metodo
scientifico per studiare i processi mentali.

Il problema dell’associazionismo. L'associazionismo è un ottimo metodo quando si devono associare


singolarmente degli elementi, tuttavia lascia irrisolto il problema del pensiero complesso frutto di più
associazioni singole connesse fra loro: quando dobbiamo descrivere in modo dettagliato degli stimoli più
complessi occorre una prospettiva più ampia, per cui dobbiamo cercare di trovare una spiegazione che ci
consenta di mettere insieme più elementi tra di loro.

La soluzione di James Mill. Un modo per risolvere la questione circa l’associazionismo


è proposto dal concetto di Associazione sincrona di James Mill (che sarà ripreso in toto per Sensazioni
lo studio dei processi percettivi). Quando dobbiamo rappresentare mentalmente qualsiasi
oggetto ci avvaliamo dell’esperienza sensibile che facciamo di esso (come detto prima). Per Percetto
“esperienza sensibile” si intende che un determinato oggetto stimola diversi organi di senso,
i quali percepiscono sensazioni differenti, dunque: un oggetto è costituito dalla somma di Idea
queste sensazioni diverse (forma, colore, peso, durezza e così via). Quando queste ultime
vengono unite tra di loro e associate simultaneamente costituiscono un “percetto”, al quale Oggetto
l’individuo deve dare un nome, per cui dal percetto deriva l’idea. Dalla somma delle idee
semplici deriva poi l’oggetto con cui possiamo interagire e che facilmente denominiamo
perché entra a far parte della nostra esperienza.
Esempio →Una rosa non è altro che un composto di idee semplici quali i petali, le foglie, il gambo, le radici,
ecc. Ognuna di queste idee semplici è a sua volta un percetto, costituitosi per associazione sincrona di colore,
forma, ecc. Unendo tutte queste idee semplici otteniamo la rosa.

Terzo passo: La progressiva ricongiunzione della mente con il corpo.


Per la fondazione di una scienza dell'uomo ma non ancora della psicologia intesa in senso scientifico moderno
occorreva infine passare da una concezione meccanicistica a una concezione più unitaria e olistica, in cui
mente e corpo sono uniti tra di loro e non più scissi, come pensava Cartesio; l’uomo dunque non è più inteso
come macchina, ma come organismo animale in modo da poter ricostituire l'unità mente-corpo. Tale passaggio
sarà compiuto in Francia dagli Ideologi con Cabanis.

Gli Ideologi. La ricongiunzione mente-corpo avviene in Francia grazie agli Ideologi, che collegano i
processi mentali al funzionamento del sistema nervoso centrale. Secondo questa prospettiva è possibile
studiare in modo unitario l'essere umano perché l'hardware e il software (mente e corpo) sono uniti tra di loro:
in questo modo essi mostrano com’è possibile uno studio scientifico dell'uomo sul piano biologico e mentale.
A fine '700, l'uomo diviene oggetto di indagine scientifica e crollano i muri erti dal pensiero medievale, in
un clima di rinnovato interesse per i “fatti positivi”. In pieno Positivismo dunque contribuiscono alla nascita
della psicologia, moltissime discipline affini a quelle umanistiche come l'antropologia o l'etnologia che
studiano gli usi e i costumi dei popoli. Il 700 è il periodo delle grande rivoluzioni e del Grand Tour, infatti i
giovani intellettuali partivano per esplorare e conoscere il mondo. Tutto ciò avviene perché vi è la necessità di
appropriarsi di una serie di ambiti che attendono alla vita dell'individuo che interagisce con il proprio ambiente
storico e geografico.

La posizione di Cabanis. In questo clima di interesse culturale Legrenzi cita Cabanis, un medico-filosofo,
il quale afferma che il pensiero sta al cervello come il succo gastrico allo stomaco, per cui rifiuta il riduzionismo
meccanicistica, cioè rifiuta la concezione secondo cui il corpo deriva dall'anima. Secondo lui:
 Il corpo non dipende dall'anima, che va ontologicamente distinta, e l'anima non va altresì ridotta ai
meccanismi biologici, dunque sono due entità differenti e distinte;
 Allo stesso tempo però anima e corpo, fisico e morale sono interconnessi tra di loro perché esiste
il sistema nervoso centrale che fa da collante, sono dunque poli opposti di un'unica dimensione.
Egli afferma la supremazia del sistema nervoso: esso raggiunge ogni parte del corpo, governandolo e
regolandolo e nello stesso tempo, attraverso gli organi di senso, raccoglie le impressioni dal mondo in cui
l'individuo si trova ad agire, per poi rielaborarle e formare le idee. Il sistema nervoso viene a sostituire nelle
sue funzioni l'anima o la mente dei precedenti filosofi, in quanto grazie ad esso i processi mentali possono
essere finalmente esplicitati e garantiti. L'unità dell'uomo è finalmente sancita, mente e corpo non sono più
contrapposti ma sono uniti perché rappresentano l'individuo nella sua totalità.

I motivi per cui la psicologia nasce in Germania. Nonostante l'apporto dell'empirismo inglese e degli
ideologi francesi, la psicologia nasce in Germania. Questo succede perché in Germania vi sono una serie di
ragioni storico-culturali connesse sia all'influenza del positivismo, sia all'influsso del pensiero di Kant, il quale
supera la controversia tra empirismo e razionalismo introducendo i giudizi sintetici a-priori, perché l’uomo
non è tutto ragione, ma neppure tutto sensi, per cui è necessaria una sintesi. Inoltre esercitano una notevole
influenza studiosi come Herbart e Fechner che possono considerarsi precursori della psicologia scientifica,
in quanto introducono dei principi fondamentali di quest’ultima.

Johann Friedrich Herbart. Herbart, filosofo tedesco della restaurazione, è il primo ad affermare che la
psicologia è una disciplina autonoma, non subordinata alla filosofia o alla fisiologica. In realtà, egli nonostante
ciò, non viene considerato il padre fondatore della psicologia perché rimane ancorato a una visione filosofica,
in quanto non la considera una scienza sperimentale per studiare i processi mentali, ma come un branca della
metafisica e su di essa va fondata.
Il metodo quantitativo →Herbart è fondamentale perché propone un metodo di studio quantitativo dei fatti
psichici, infatti questi ultimi si devono fondare sulla matematica e quindi vanno misurati. La psicologia infatti
non utilizza soltanto metodi qualitativi e soggettivi come l'introspezione, ma utilizza anche metodi quantitativi
che ci consentono di tradurre i fatti psichici soggettivi (pensieri, sensazioni, idee) in numero. Ciò è importante
perché la possibilità di quantificare un fenomeno è caratteristica di scientificità di una disciplina.
L’inconscio →Un altro concetto importante che Herbart introduce PRIMA di Freud è quello di “inconscio”
e di “pensieri repressi”. Herbart diceva l’anima è unitaria, ma le idee che noi sviluppiamo variano tra di loro
sia dal punto di vista contenutistico ma anche come tempo e intensità, e naturalmente possono presentarsi
contemporaneamente per integrarsi o inibirsi a vicenda. Lui propone il concetto dell' “idea inibita”: le idee per
poter emergere devono possedere un’intensità minima che consente loro di superare il livello di
consapevolezza dell’individuo, indicato come “soglia di coscienza”; per cui se l’idea è tenuta sotto questa
soglia, sarà indicata come idea inibita, di cui il soggetto non è consapevole, ma che comunque continua ad
esistere dentro di lui e ad essere relegata nell’inconscio. Dunque l'idea inibita si indebolisce fino ad andare
fuori dalla coscienza, ma non cessa comunque di esistere.
Ciò ci lascia intendere che Herbart è il primo a parlare di questi concetti importanti, che poi saranno ripresi e
sistematizzati da Freud. Va precisato che Herbart non vi riconosce una matrice conflittuale come farà
successivamente Freud, infatti per il primo non esiste un conflitto che tende a far inibire l’idea e a mantenerla
al di sotto della coscienza.

Gustav Theodor Fechner. Fechner era un fisico che per una malformazione agli occhi si dedicò alla
filosofia, quindi nella sua speculazione filosofica riporta la sua matrice fisica. Fechner è un autore
importantissimo perché va considerato il padre della psicofisica, disciplina che ha un approccio preciso per
lo studio dei processi psichici che sarà poi ripreso da Wundt, il quale anche sulla base anche degli studi di
Fechner farà una serie di esperimenti nel suo laboratorio.
Il materialismo→Il fisico, riprendendo il materialismo radicale, pensava che tutto dovesse essere ricondotto
alla materia, costituita da atomi: egli credeva fermamente dunque nel principio dell'atomismo, secondo cui
ogni cosa è fatta di atomi per cui secondo lo studioso anche l'anima è una proprietà della materia,
organizzata in atomi. Ogni materia (piante, animali, uomini) è composta di anima, ma varia il livello di
complessità, cioè il modo cui la materia si organizza nei vari esseri viventi: è proprio questa diversa
complessità a livello organizzativo che distingue le piante, gli animali e gli uomini. Infatti, secondo Fechner,
la nostra anima essendo più complessa a livello molecolare ci permette di distinguerci. Spirito e materia sono
due aspetti della stessa medaglia.
L’auto-osservazione→Fechner ritiene che auto-osservandoci/ auto-descrivendoci (quindi riprende il
concetto dell’introspezione) possiamo essere consapevoli dei propri pensieri, sensazioni ed emozioni. Questo
processo ci mette in comunicazione con l'anima ed è un modo per studiare i processi mentali. Naturalmente
lui integra le conoscenze mediche del periodo, per cui l'anima e i suoi prodotti sono possibili grazie al sistema
nervoso, il nostro organo fisiologico che ci consente di vivere: permane l’idea che mente e cervello siano uniti
e rappresentino l'una il sostegno dell'altro.
La relazione tra stimolo ed esperienza soggettiva→Fechner sostiene che occorrano metodi differenti per
studiare il corpo, l'anima e i suoi processi mentali, i quali devono sempre avere a che fare con la componente
di funzionamento fisico e sensoriale della nostra esperienza soggettiva. In questo modo getta un ponte tra
anima e corpo, tra l'esperienza soggettiva (anima) che l'individuo è in grado di far emergere attraverso l'auto
osservazione e l’esperienza sensoriale (corpo): nasce così la psicofisica che studia la relazione esistente tra le
caratteristiche degli stimoli fisici e l'esperienza soggettiva di questi stimoli sul piano psicologico.
Fechner dunque mette in relazione l'intensità dello stimolo fisico (misurato in apposite scale) con l'intensità
dell'esperienza sensoriale (misurata con categorie psicologiche). Lui comincia a studiare la visione e la
sensazione uditiva e fa un discorso generale, visionando come cambia l’esperienza soggettiva al variare
dell’intensità dello stimolo (Esempio→ Cerca di capire cosa cambia se vediamo una stanza con 1 candela o
con 100 candele).
Da buon fisico ovviamente vuole quantificare questa relazione attraverso una vera e propria legge, che sarà
poi chiamata legge di Weber-Fechner (vedi dopo), grazie alle scoperte degli studiosi omonomi.

Hrnst Heinrich Weber. Weber cominciò a fare una serie di esperimenti con degli individui sulla “soglia
assoluta” e sulla “soglia differenziale”.
La soglia assoluta →Weber iniziando i suoi esperimenti, si pose una domanda:
Affinché l'individuo faccia esperienza personale di uno stimolo fisico, quest'ultimo deve avere una
determinata intensità per poter essere avvertito?
La risposta è sicuramente SI, infatti i nostri organi di senso non solo si attivano di fronte a determinati stimoli
e non a tutti (ad esempio in natura ci sono i raggi ultravioletti, ma il nostro occhio non li percepisce), ma
devono avere anche una certa intensità affinché i nostri organi possano sentirli. Di conseguenza possiamo
affermare che la soglia assoluta è la quantità minima di energia che uno stimolo deve possedere per essa
rilevato dal soggetto. Inoltre la soglia assoluta è un concetto psicologico sicuramente soggettivo infatti può
variare in ogni individuo, infatti chi è più sensibile a uno stimolo e chi invece non lo è.
La soglia è il valore liminare, cioè indica il confine tra:
 Il valore sovraliminare che fa riferimento a tutti gli stimoli che siamo in grado di sentire, in quanto
superano la soglia assoluta;
 Il valore infraliminare che fa riferimento a tutti gli stimoli che, pur presenti, non possiamo cogliere
in quanto non superano la soglia.
Possiamo ricavare dunque due valori di soglia assoluta:
 La soglia assoluta iniziale (limite inferiore), cioè il punto oltre il quale riusciamo a sentire tutti gli
stimoli;
 La soglia assoluta terminale, cioè il valore massimo oltre il quale non percepiamo più nulla o
avvertiamo dolore perché i nostri organi non sono in grado di reggere stimoli di tale intensità
(Riusciamo a sentire fino 140 dB).
Perché si chiama soglia “assoluta”?→ Possiamo rispondere a questa domanda grazie al seguente schema:

Questa curva psicometrica è data dall'incrocio degli assi cartesiani:

 Sull’asse delle ascisse troviamo il valore dell'intensità dello stimolo;


 Sull’asse delle ordina abbiamo la percentuale di risposte di parte dei soggetti.
Dunque prendiamo in esame un gruppo di soggetti e facciamo sentire loro uno stimolo di intensità 0, che non
sentirà nessuno. Andiamo aumentando il valore dell'intensità dello stimolo e vediamo che la curva man mano
va salendo perché ci sono più soggetti che avvertono quello stimolo e che quindi danno più risposte. Arrivando
al valore di 50 sulle ordinate e di 6 sulle ascisse, otteniamo che questo valore è il valore medio: il grafico ci
dice che nel 50% dei casi del gruppo preso in esame, lo stimolo x viene percepito quando la sua intensità
assume valore 6, che sarà dunque il valore soglia assoluta. Da questo valore in poi la curva sale sempre, per
cui una percentuale maggiore di soggetti risponde a quello stimolo.
Quindi, riassumendo:

 Il valore liminare è 6 e coincide con la soglia assoluta;


 I valori sotto 6 sono quelli infraliminari;
 I valori sopra 6 sono quelli sovraliminari.
Dunque si chiama soglia assoluta poiché è il valore che viene percepito da pù soggetti sottoposti allo stesso
stimolo.
La soglia differenziale→Il nostro sistema sensoriale è molto più sensibile a cogliere le variazioni di intensità
degli stimoli: possiamo avere stimoli che hanno intensità differenti, per cui se devo decidere in che misura uno
stimolo differisce da un altro in funzione della sua intensità, occorre postulare l'esistenza di una soglia
differenziale. Ciò significa che deve esistere una differenza minima tra uno stimolo e l'altro che permette
all'essere umano di capire che lo stimolo A è più intenso rispetto allo stimolo B.
Dunque la soglia differenziale è la quantità minima di cambiamento nell'intensità di uno stimolo (detto
stimolo standard, Ss) necessaria per avvertire la differenza con uno stimolo di confronto (Sc). La soglia
differenziale è detta anche “Differenza Appena Percepibile” (JND) e viene colta nel 50% dei casi.
Esempio→Supponiamo di prendere uno spillo iniziale con un determinato diametro e poi prendiamo altri spilli
che avranno un diametro sempre maggiore. Pungendoci con lo spillo iniziale, continuiamo via via con quelli
successivi, finché non sentiamo una differenza di intensità rispetto a quando ci siamo punti con il primo; a quel
punto avremo trovato lo spillo che ci fa ottenere lo scarto minore, cioè che ci fa sentire questa JND.
La legge Weber-Fechner. La legge Weber-Fechner mette in relazione l'intensità dello stimolo con la
capacità del soggetto di percepire lo scarto. Weber studiando la sensibilità tattile scopre che l'incremento di
stimolazione (ΔI) richiesto per avere una differenza appena percepibile (JND) è proporzionale all'intensità
dello Stimolo Standard (Ss, o stimolo iniziale I). Il valore stimolo che costituisce una JND dipende
dall’intensità iniziale dello stimolo: più grande è lo stimolo iniziale, maggiore deve essere l’incremento
affinché tale incremento sia rilevabile.
La differenza minima rilevabile tra due stimoli ΔI è una funzione k costante dell’intensità dello stimolo
standard (I):
𝜟𝑰
𝒌=
𝑰
Da un punto di vista matematico questa variazione è costante nei vari ambiti, infatti per esempio nel peso il
1
rapporto è , quindi se il peso iniziale è 50 grammi occorre 1 grammo per cogliere la variazione, se il peso
50
iniziale è di 500 grammi ne occorreranno 10.
Esempio→L’incremento di stimolazione (lo scarto, detto anche ΔI) percepibile è proporzionale allo stimolo di
partenza (Ss). Ad esempio:
Se mi trovo in una stanza buia e accendo una candela, immediatamente mi accorgo della differenza
tra buio e luce e quindi subito posso ammettere che la seconda è più luminosa della prima;
Se però sono in una stanza in cui ci sono 100 candele accese, e recandomi in un’altra stanza devo
accorgermi della differenza di luminosità e devo capire se la seconda è più luminosa della prima, non
mi basterà accendere una sola candela, ma ne dovrò accendere almeno 400.
Oppure in una stanza silenziosa sarò più disturbato dallo squillo del telefono, rispetto ad una stanza più
rumorosa.
Weber e Fechner hanno verbalizzato questa legge
secondo il linguaggio fisico, e quindi hanno ottenuto
che l’intensità sensoriale è una funzione logaritmica
che dipende dalla modalità sensoriale:
𝑺 = 𝒌 𝐥𝐨𝐠 𝑹 + 𝑪
 S=intensità sensoriale;
 R=stimolo;
 k=costante di Weber che dipende da C, cioè
dalla modalità sensoriale.

LEZIONE 13/10/2020.

L’ASTRONOMIA
Lo studio di Bessel. Tra la fine del Settecento e i primi dell’Ottocento, Bessel, un astronomo, si impegnò a
misurare la velocità di spostamento dei corpi celesti:
 Egli al telescopio applicava un reticolo e mentre osserva il cielo guardava come il corpo si muoveva
in questo reticolo e contemporaneamente udiva il suono di un orologio.
 Se si voleva misurare la velocità del corpo celeste, quando quest’ultimo entrava nel reticolo
(immaginiamo una il reticolo come una rete composta da tanti quadratini, e questo corpo che si muove
da un quadratino all'altro), l'astronomo cominciava a contare i battiti dell'orologio, e rilevava il numero
di tali battiti nel passare del corpo celeste da un posto ad un altro. Il numero di battiti rilevati nel
passaggio da un reticolo a un altro davano una misura della velocità di spostamento di quel corpo.
Vent'anni prima un altro astronomo era stato licenziato per errori clamorosi (vi era un aumento di scarti con il
passare del tempo, più l'astronomo osservava più aumentavano gli errori); quindi Bessel iniziò a chiedersi se
per caso non ci fosse un effetto della variabilità individuale.
L’equazione personale →Allora l’astronomo confronta i propri tempi di osservazione con quelli ottenuti da
altri astronomi in precedenza e nota delle notevoli differenze: si accorse così che c'era un errore sistematico
in ogni osservazione, per cui i tempi di volta in volta venivano aumentati o diminuiti. A questo punto lui
postula l'equazione personale tipica di ogni osservatore →Bessel si rende conto che ogni osservatore compiva
un errore sistematico, utile per depurare le osservazioni individuali, infatti eliminato questo errore, tutte le
misurazioni erano uguali e corrette.
I tempi di reazione→Questa scoperta porta a riflettere sulla soggettività dell'individuo, per cui nasce il
problema dei “tempi di reazione”, (detti così poi da Exner nel 1871), ovvero il tempo necessario ad un soggetto
per emettere la risposta alla presentazione di uno stimolo ambientale (metodo cardine della psicologia
scientifica). Nel caso degli astronomi, era possibile quindi che mentre osservavano e contemporaneamente
dovevano contare, non emettevano immediatamente una risposta a tutti questi stimoli, di conseguenza nella
loro misurazione venivano contati anche questi scarti che impiegavano per rispondere agli stimoli e che poi
determinavano degli errori.

LA FISIOLOGIA
Lo studio dei tempi di reazione si avvantaggia di una serie di intuizioni che provengono dalla fisiologia, grazie
a molti studiosi che avevano condotto degli studi circa i processi fisiologici dell'uomo.

Helmotz e il metodo sottrattivo. Il fisiologo Helmotz era particolarmente interessato a misurare il tempo
che occorreva affinché una stimolazione giungesse alla radice sensoriale (ad esempio passasse dalla punta del
dito fino al braccio), quindi voleva calcolare la velocità dell’impulso nervoso. Il fisiologo usava il metodo
sottrattivo per cui sottraeva da T2 (tempo impiegato per percepire lo stimolo alla radice del braccio) da T1
(momento in cui era stato stimolato il soggetto nelle estremità del braccio) → T2-T1.
In questo modo otteneva una misura della velocità di trasmissione dell'impulso nervoso dalla punta del braccio
fino alla propria radice (Esempio→Adoperiamo un impulso alla radice del braccio, e supponiamo che T2 sia
di 4 sec e che T1 nel dito sia 1 sec. Facendo T2-T1 (4-1) si ottiene 3, per cui all'impulso nervoso servono 3
secondi per passare dalla radice al braccio).
Oggi sappiamo che la velocità di trasmissione dell'impulso nervoso dipende dal diametro della fibra nervosa e
non ha valore assoluto, tuttavia per l’epoca questa intuizione servì a sfatare il mito che i processi mentali
fossero immediati dopo la percezione dello stimolo.
Il metodo sottrattivo verrà impiegato da Wundt, alla nascita della psicologia scientifica nel suo laboratorio di
Lipsia. Wundt mirava, attraverso compiti più complessi a poter dimostrare con la sottrazione dei tempi di
reazione, l'esistenza delle fasi in cui riteneva si articolassero i processi mentali.

Gli studi di Donders. Donders era un fisiologo e oculista che voleva misurare il tempo di durata dei processi
mentali, per dare dignità scientifica alla psicologia. Egli scopre la cronometria mentale, cioè la capacità di
misurare i nostri processi mentali. Donders per fare ciò si inventa un esperimento, nel quale indica 3
condizioni in cui rilevare i tempi di reazione dei soggetti a un determinato stimolo:
 Nella condizione A, il soggetto osserva uno stimolo e deve emettere una risposta (per esempio al
soggetto venie presentata la lettera A e in risposta a questo stimolo deve pigiare un pulsante)
 Nella condizione B, al soggetto vengono presentati stimoli diversi, a ognuno dei quali corrisponde
una risposto diversa (per esempio al soggetto vengono presentate due lettere A e B, per la prima deve
cliccare il pulsante destro e per la seconda quello sinistro, stimoli diverse-risposte diverse)
 Nella condizione C, al soggetto vengono presentati più stimoli ma solo ad uno occorre dare una
risposta (il soggetto vede le lettere A e B, ma deve pigiare il pulsante solo per la lettera A)
I risultati di tale esperimento furono che:
 I tempi della condizione A erano i più brevi di tutti infatti il soggetto rispondeva quasi immediatamente
allo stimolo;
 Seguivano i tempi della condizione C, leggermente più lunghi rispetto alla A ma con poca differenza;
 I tempi più lunghi erano quelli della condizione B, in quanto il soggetto rispetto alle condizioni
precedenti in cui doveva rispondere a un singolo stimolo, deve rispondere invece a più stimoli quindi
deve emettere più risposte differenti tra di loro.
→La differenza tra le condizioni C e A indicava il tempo corrente a soggetto per discriminare tra gli stimoli
e scegliere quindi quello a cui occorreva rispondere. La capacità di discriminare gli stimoli è chiaramente
soggettiva;
o (Immaginiamo che la condizione A sia una sorta di condizione base; esempio→Nella condizione
A il soggetto vedo la lettera A in 0,5 secondi invece nella condizione B la vede in 0,7 secondi
perché si trova appunto tra altre lettere. La differenza tra 0,7 e 0.5 è 0.2, misura che corrisponde
al tempo che il soggetto impiega per scegliere la risposta che deve fornire);
→La differenza tra le condizioni B e C indicava il tempo necessario al soggetto per discriminare tra le
risposte.
Secondo questo metodo utilizzato dal Donders, tali tempi di discriminazione corrispondevano a processi
puramente psicologici di scelta a cui veniva finalmente fatto corrispondere un indice di misurazione fisico:
SI OTTIENE IL PRIMO CORRISPETTIVO FISICO DI UN PROCESSO PURAMENTE MENTALE.
Questo significa che se un processo prettamente psicologico ed interno può essere misurato scientificamente
la psicologia può essere ritenuta una scienza a tutti gli effetti.

L’Arco riflesso. Un'importante conseguenza dello


studio adoperato dalla fisiologia fu la scoperta
dell'Arco riflesso: stimolando determinati recettori
sensoriali, si provocano automaticamente, senza
l'intervento della volontà quindi, quindi senza
l'intervento del sistema nervoso, delle risposte
automatiche (il classico esempio del martelletto che
colpisce il ginocchio e stimola la gamba che si alza
immediatamente senza l'azione del cervello).
Si parla di “arco” perché il substrato nervoso è
composto di una parte afferente e una efferente, per cui
l'impulso va e ritorna creando un arco immediato, cioè
riflesso. Questo studio sarà fondamentale per supportare gli studi di Pavlov.

La legge di Bell-Magendie. La legge di Bell-Magendie sottolinea l'indipendenza delle vie sensoriali


(afferenti) dalle vie motorie (efferenti). Se per esempio vi é una compromissione motoria in virtù della quale
il soggetto non può agire, non significa che ci sia obbligatoriamente una compromissione sensoriale e viceversa
(per esempio se mi pungono il dito magari sento il dolore ma poi non lo riesco a muovere). Infatti ogni nervo
che origina dal midollo spinale ha due radici:
 Recidendo quella anteriore viene interrotta la possibilità di movimento del segmento corporeo
innervato, mentre si conserva la sensibilità;
 Il contrario avviene se si recide la parte posteriore.
Dunque al di là dell'apparente unità del sistema nervoso, in esso vi sono delle funzioni sostanzialmente distinte
per cui si realizza una dicotomia tra le componenti sensitive e le componenti motorie.

La legge dell’energia nervosa. La legge dell'energia nervosa specifica di Muller ci rende maggiormente
consapevoli che il nostro sistema nervoso ha delle funzioni specifiche, perché uno stesso stimolo produce
sensazioni qualitativamente diverse a seconda dei diversi nervi o organi di senso che stimola.
Esempio→ Se esercitiamo una pressione tattile nella mano potremmo addirittura sentire dolore a seconda della
sua intensità. Se invece questa stessa pressione tattile la applichiamo sul nervo ottico tale da stimolarlo, la
sensazione che riceveremo non sarà tattile-pressoria, ma sarà visiva infatti all’interno del nostro occhio si
proietterà una sorta di luce.
Rappresentazione e cosa rappresentata →Grazie a questo esempio, possiamo dedurre che la sensazione
dipende dallo specifico organo di senso che viene stimolato. Questo significa che esiste una specificità
sensoriale in virtù della quale, per studiare la capacità che l'individuo ha di percepire bisogna distinguere la
rappresentazione e la cosa rappresentata, cioè la caratteristica dello stimolo (la sensazione) e la percezione.
Precedentemente invece secondo il sensismo si riteneva che il modo in cui noi vediamo il mondo corrisponde
a come lo sentiamo (se vedo una penna, io la rielaboro in base a come il mio organo sensoriale l'ha sentita) ma
in realtà questa differenza tra mondo sentito e mondo percepito non è sempre identica: questo porterà a
intendere la realtà come un fenomeno, cioè come qualcosa che può essere rappresentato. Grazie a questo studio
si comincia a definire che la percezione può essere studiata perché c'è un soggetto che percepisce e un
oggetto percepito (il soggetto percepisce la realtà e se la rappresenta), dunque la psicologia diventa
fondamentale per lo studio della realtà soggettiva.
L’inferenza inconscia→Si innesca inoltre anche un processo di “inferenza inconscia” secondo cui il sistema
percettivo aggiusta, all'insaputa del soggetto i valori percepiti sulla base dell'esperienza passata (Esempio→ se
vedo un mio amico che si allontana, dal punto di vista sensoriale il mio occhio percepirà l'immagine del mio
amico sempre più piccola, tuttavia la mia mente continua a rappresentarlo tale e quale per com'è, dunque è la
mente che aggiusta la percezione. Questa è la costante di grandezza). Tutto questo avviene inconsciamente
senza che noi ci pensiamo, per cui non c'è un esatta sovrapposizione tra i processi fisiologici e quelli mentali,
e questo sarà messo in discussione dalla psicologia della Gestalt.

LA BIOLOGIA.
L’evoluzionismo di Darwin. La biologia è fondamentale per lo sviluppo della psicologia scientifica. In
particolar modo è fondamentale a partire dall' evoluzionismo di Darwin (biologo e naturalista britannico
vissuto tra il 1809 e il 1882). Darwin infatti introduce il concetto di selezione naturale in virtù del quale:
 le specie che non riescono ad adattarsi all'ambiente finiscono con lo scomparire;
 al contrario di quelle che invece riescono meglio ad adattarsi alle circostanze ambientali grazie a
determinate caratteristiche che le portano a sopravvivere.
L’esempio delle giraffe→Egli riporta l'esempio delle giraffe: le giraffe inizialmente non avevano il collo lungo
ma corto, tuttavia in seguito al cambiamento climatico, la vegetazione della savana si trasformò, per cui
bisognava che gli animali si alimentassero con le foglie degli alberi. Per questo motivo le giraffe pian piano
allungarono il loro collo in modo tale che gli venisse più facile alimentarsi. Di conseguenza succede che le
giraffe dal collo corto vanno progressivamente sparendo poiché sono incapaci di nutrirsi, lasciando spazio
esclusivamente alle giraffe dal collo lungo che posseggono una capacità adattiva migliore che consente loro di
sopravvivere e portare avanti la loro specie.
L’evoluzione della specie sempre verso il meglio→Darwin inoltre vede il processo di adattamento come un
processo genetico: nel tempo si potrà assistere a un processo di evoluzione, con una progressiva modificazione
della specie, poiché gli individui che sopravvivono, accoppiandosi tra di loro, trasmetteranno ai loro figli le
caratteristiche meglio adattive, dando vita ad una discendenza che presenterà in modo sempre più accentuato
i caratteri adattivi con una progressiva scomparsa dei caratteri disadattivi. Questo significa che la specie
evolverà sempre verso il meglio.
Le conseguenze dell'evoluzionismo→Lo studio di Darwin sottolinea dunque che l'ambiente ha un'importante
influenza sullo sviluppo delle specie. Nel caso specifico della nostra specie possiamo ammettere che forse è
proprio l'ambiente a determinare le nostre caratteristiche psicologiche nonché anche il loro sviluppo. Si arriva
a definire inoltre che come la selezione naturale si applica alle caratteristiche somatiche (cioè avviene la
trasmissione dei geni del colore degli occhi, dei capelli…), così si applica anche a quelle psichiche, cioè
vengono trasmesse anche le caratteristiche psicologiche (avviene la trasmissione del “carattere”, per cui per
esempio se mia madre è estroversa e lo sono anche io, allora lei mi ha trasmesso questo gene). Addirittura si
arriva a pensare che anche l'intelligenza viene trasmessa. L’influenza di Darwin si registra:
 In Inghilterra, con gli studi di Galton (cugino di Darwin). Egli compie lo studio delle caratteristiche
psicologiche individuali (intelligenza) e della loro trasmissione ereditaria. Si apre un'enorme
discussione, perché da un lato è possibile che l'intelligenza che viene trasmessa all'individuo rimanga
invariata nel tempo, dall’altro è possibile che grazie alle sollecitazioni ambientali, questa intelligenza
si modifichi;
 In America, con il Funzionalismo, con cui si studiano i caratteri e psichici in quanto mezzi a
disposizione dell'uomo per adattarsi all'ambiente;
 In Germania con lo Strutturalismo di Wundt;
 Con l'introduzione del concetto di “adattamento”, che è la capacità dell’individuo di addatarsi
all’ambiente ed è legato anche allo studio delle differenze individuali.
Oggi la prospettiva darwiniana viene integrata nella psicologia evoluzionistica e l'uomo viene considerato
come l'esito di un’evoluzione filogenetica (evoluzione della specie umana dalle scimmie, che riguarda tutta la
specie nella sua totalità) e di un’evoluzione ontogenetica (evoluzione dell’individuo dalla nascita all'età
adulta, che riguarda il singolo soggetto). Per esempio alcune caratteristiche legate al controllo del cibo vengono
spiegate in chiave evoluzionistica tenendo conto di comportamenti primitivi che l'uomo aveva in epoca
primordiale.
Esempio→Immaginiamo di trovarci ad un buffet e osservare il classico atteggiamento delle persone di
accaparrarsi al cibo anche se in realtà non ce n'è bisogno; questo atteggiamento richiama un comportamento
primitivo perché l'homo sapiens aveva la necessità di competere con i propri simili per sopravvivere. È come
se possedessimo una sorta di cervello primitivo che ci porta ad agire come possibilmente si agiva in un epoca
primordiale in modo totalmente inconscio e inconsapevole.
DUNQUE, RIASSUMENDO:
(definizione oggetto di studio)→ Filosofia
(problema della misurazione ed errore soggettivo)→ Astronomia
(tempi di reazione e fondamenti percezione)→ Fisiologia Psicologia→ Nascita a Lipsia nel 1879 con Wundt.
(adattamento e differenze individuali)→ Biologia

Una volta che abbiamo introdotto quelli che sono stati gli apporti delle varie discipline, arriviamo alla nascita
della psicologia.
LA NASCITA DELLA PSICOLOGIA: LO STRUTTURALISMO.
Chi è Wundt? →Wilhelm Wundt (Mannheim, 16 agosto 1832 – Lipsia, 31 agosto 1920) è il padre fondatore
della psicologia sperimentale. Nel 1856 ottiene il titolo di dottore in medicina, e successivamente approfondì
gli studi di fisiologia lavorando con Helmholtz (colui che aveva studiato i meccanismi della velocità
dell’impulso nervoso).

L’idea di Wundt. Essendo anche influenzato dagli studi di Donders circa i tempi di reazione, comincia a
sviluppare l'idea di poter costruire una vera e propria psicologia sperimentale (autonoma da tutte le altre
discipline) che si ponesse l’obiettivo di studiare i processi psichici, applicando il metodo sperimentale
delle scienze naturali, sull’esempio degli esperimenti psicofisici fatti da studiosi precedenti.
Il primo laboratorio di psicologia e la nascita della psicologia→Nel 1874 scrive e pubblica la prima edizione
del volume “Elementi di psicologia fisiologica”, che può essere considerata la prima opera sistematica della
psicologia scientifica moderna. Dopo il successo ottenuto con tale volume, nel 1875 viene chiamato alla
cattedra di filosofia induttiva di Zurigo, e poi a quella di Lipsia dove nel 1879 fonda il primo laboratorio di
psicologia sperimentale con cui sancisce ufficialmente la nascita della psicologia come scienza.
Il laboratorio diviene un modello da imitare, oltre che un centro di ricerca dove accorrevano giovani studiosi
da tutta Europa per imparare le basi della nuova psicologia sperimentale e per condurre studi ed esperimenti.
Tra gli studenti che ottennero il dottorato sotto la guida di Wundt si contano:
 Psicologi tedeschi come Oswald Külpe, Emil Kraepelin, Hugo Münsterberg;
 Psicologi statunitensi come James McKeen Cattell, Granville Stanley Hall, Edward Titchener
La fondazione della rivista scientifica→Nel 1881 Wundt decise di fondare la rivista Philosophische Studien
dove pubblicare i lavori scientifici del gruppo: questo è un aspetto importante perché connota tutte le
discipline scientifiche, infatti una scoperta esiste dal momento in cui tutti i risultati vengono condivisi con la
comunità scientifica, in modo da poter arricchire le conoscenze e favorire il progresso scientifico. Wundt in
questo fu molto prolisso infatti scrisse molti articoli, addirittura più di 50.000 pagine
Gli esperimenti eseguiti all’interno del laboratorio→ Nel laboratorio Wundt e i suoi collaboratori,
applicavano i metodi di studio della fisiologia allo studio dei processi e dei contenuti della coscienza umana.
Vennero effettuati esperimenti sulle intuizioni che le diverse discipline avevano già considerato importanti:
 Psicofisiologia dei sensi (sulla scia di Helmholtz) che si occupava di mettere in relazione la visione
dello stimolo con la percezione soggettiva;
 Processi attentivi, applicando il metodo dei tempi di reazione di Donders;
 Processi legati alla psicofisica (esperimenti sulla soglia assoluta e differenziale);
 Associazioni mentali (dato uno stimolo, l’individuo lo associa a qualcosa).
Lo studio della coscienza →Wundt voleva studiare l’esperienza diretta o immediata che gli individui
avevano del mondo, dunque studia l’attività mentale cosciente (coscienza). Per definire questa esperienza
immediata e diretta fa un paragone con altre discipline: un chimico o un fisico (o qualsiasi scienziato in senso
stretto) quando devono studiare un fenomeno, una legge fisica o una relazione chimica applicano uno
strumento di misura, per cui l’oggetto di studio è indiretto.
→Lo psicologo, invece, studia il fenomeno direttamente per come il soggetto lo percepisce, senza la
mediazione di strumenti di misurazione. L’unico metodo che consente al soggetto di percepire il fenomeno in
maniera diretta quando è cosciente, è l’introspezione (il soggetto diventa osservatore di se stesso). Per Wundt
l’esperienza psichica è immediata, legata alla percezione diretta di un fenomeno osservato, dunque lo studioso
NON prende in considerazione l’inconscio.
L’esperienza psicologica→ Quando vediamo, tocchiamo o sentiamo qualcosa stiamo vivendo un’esperienza
psicologica. Ogni esperienza psicologica contiene:
un versante oggettivo, cioè il contenuto dell’esperienza, quando il recettore sensoriale viene attivato;
un versante soggettivo, rappresentato dal soggetto che sta percependo quel determinato stimolo.
L’esperienza psicologia si compone dunque di due elementi:
 La sensazione (ad esempio il suono che complisce il nostro timpano);
 Il sentimento (che non va intenso con una connotazione emotiva, ma è l’esperienza soggettiva che
l’individuo ha di fronte ad uno stimolo sensoriale).
La combinazione di questi due elementi, sensazione e sentimento, è la nostra esperienza psicologica. La
connessione di questi due elementi è alla base della vita psichica nel suo complesso.
Lo studio dei “sentimenti”→Circa lo studio dei sentimenti, Wundt si chiede che esperienza soggettiva può
avere l'individuo di fronte a uno stimolo. Wundt propone la teoria tri-fattoriale dei sentimenti.
Supponiamo il caso di ascoltare dei suoni: ci saranno ritmi gradevoli e spiacevoli, oppure possiamo porre
attenzione alla tensione che suscita l’attesa di un suono, ecc. Questo accade perché ogni sentimento può essere
inquadrato su tre dimensioni indipendenti che determinano uno spazio tridimensionale, di tipo cartesiano:
 Il primo asse, bipolare, è quello del piacere/dispiacere (questa sarà la base del principio di Freud);
 Il secondo asse è di tensione/rilassamento. Questo asse riguarda il fatto che l'esperienza soggettiva
provoca tensione o rilassamento nel soggetto (questo sarà preso come base del conflitto psichico e sarà
anche la base degli esperimenti legati all'emozione);
 Il terzo asse è di eccitazione/calma, cioè se l'organismo di fronte a un determinato stimolo può essere
più o meno eccitato.
Questi assi sono bipolari, per cui significa che uno aumenta e l'altro diminuisce in chiave più o meno
proporzionale.
P.S. Parlando di motivazione, ci sono dei modelli secondo cui vi è un'azione “tensio-riduttiva” in virtù della
quale noi agiamo per ridurre uno stato di tensione che stiamo vivendo, ad esempio andiamo a bere per ridurre
la tensione determinata dallo stimolo della sete. Oppure ci sono delle azioni legate all'attività, per cui facciamo
un qualcosa perché il nostro organismo vuole attivarsi e agire, per cui in base al livello di attivazione siamo
più o meno spinti ad agire.
Il volontarismo→Wundt descrive le fasi attraverso cui si snoda la nostra esperienza soggettiva (ad oggi però
non ci sono evidenze sperimentali di tale teoria). Egli individua 4 fasi:
 La stimolazione, quando il recettore sensoriale riceve lo stimolo;
 La percezione, che rende cosciente l'esperienza psichica, per cui il nostro organismo è consapevole di
stare percependo;
 L’appercezione, è un atto sintetico secondo cui tutte le sensazioni raccolte nella fase della percezione,
vengono poi organizzate in qualcosa di più complesso ed articolato e vengono decodificate. Questo è
l’atto di “sintesi creatrice” che ha la durata di 0,1 sec.
 Questa fase sembra ricordare molto l’esempio del fiore, infatti prima di costruire l'immagine
di quest'ultimo percepivano una serie di elementi come il colore, la forma che fanno parte della
fase di percezione, poi sintetizzavamo tutte queste percezioni, per poi ottenere l'appercezione,
cioè l’idea (vedi meglio prima←).
 L’atto di volontà, che porta a chiamare la riflessione di Wundt “volontarismo”. Secondo Wundt
l'attività psichica non è passiva, ma avviene proprio perché ne abbiamo consapevolezza e perché
l'individuo deve compiere un atto di volontà, per cui è necessario che espliciti il fatto che stia vivendo
un'esperienza psichica. L’atto di volontà richiede dunque due forme di attività:
 L’ identificazione degli oggetti se si riesce a compiere una sintesi delle sensazioni
(cioè la rappresentazione mentale dell’oggetto);
 La reazione agli stimoli che quell'oggetto provoca sull'individuo da un punto di vista
psicologico.
(Esempio→ Se dico che un fiore è bellissimo sono io che scelgo di farlo, perché
identifico l’oggetto e perché tutte le fasi vengono coniugate nella sintesi creatrice, così
alla fine scelgo di esprimere un giudizio)
L'atto di volontà può anche essere ricondotto a Schopenhauer e all'esistenzialismo, secondo il
quale l'individuo è cosciente e compie la propria vita in modo libero e volontario.

Si parla dunque di strutturalismo perché si cerca di individuare le nostre strutture mentali.


Il parallelismo fisico→Wundt enuncia il principio del “parallelismo psicofisico” secondo sui i processi
mentali e fisici sono paralleli, e gli uni non possono esistere senza gli altri, infatti l’individuo non può avere
un'esperienza psicologica se non si attivano ricettori. Lui definisce la sua una “psicologia fisiologica” e non
sperimentale. L'esperienza psicologia e quella fisiologica non sono legate da un rapporto causale, ma sono
interdipendenti, nel senso che il cambiamento in una genera cambiamento nell’altra e viceversa
(Esempio→Quando ascoltiamo una canzone può capitare che inizialmente il ritmo può risultare piacevole, ma
se poi cambia e diventa più monotono, possibilmente non ci piacerà più, per cui come il ritmo fisico, cioè
l’esperienza fisiologica, cambia anche quella soggettiva che si ha di fronte a tale stimolazione), dunque
esperienza oggettiva e soggettiva si influenzano reciprocamente.
Il metodo sperimentale→Wundt codifica l’uso del metodo sperimentale in psicologia, che si compone di
vari momenti:
Definizione delle variabili. Negli esperimenti psicofisici, gli stimoli venivano codificati sulla base
dell'intensità, oppure se studiavano i processi della memoria le variabili venivano codificate come
numero di sillabe da memorizzare;
Controllo sperimentale. Durante un esperimento gli osservatori controllavano e standardizzavano
l’azione sperimentale, infatti era importante che nessuno entrasse nella stanza in cui stava avvenendo
l’esperimento, perché si causava un’alterazione della situazione (Esempio→ Se si stava facendo un
esperimento dedicato all’attenzione del soggetto circa la visione a seguito della stimolazione con
immagini, se qualcuno apriva la porta ed entrava nella stanza il soggetto si sarebbe distratto e
l'attenzione verso lo stimolo veniva meno). Inoltre il controllo sperimentale è legato anche alla
replicabilità dell'esperimento nelle stesse condizioni.
Metodi oggettivi usando misure come i tempi di reazione o l’introspezione. (Per poter capire cosa
accade quando io vedo un colore, una forma, sento un suono, provo un sentimento devo guardarmi
dentro ed analizzare quello che sto provando mentre sto guardando un determinato stimolo).
La psicologia deve studiare fenomeni mentali quali:
 Sensazione
 Percezione
 Memoria
 Linguaggio
Ma deve escludere volontà, pensieri, ed emozioni.
L’oggettività→I racconti introspettivi dei soggetti dovevano essere “puliti” e i soggetti stessi “addestrati”
dallo sperimentatore affinché fornissero dati quantificabili sulle caratteristiche fisiche degli stimoli e delle
elaborazioni mentali. Il soggetto nel momento in cui descrive l'esperienza soggettiva che sta vivendo deve
cercare di essere il più oggettivo e asettico possibile, nel senso che non deve semplicemente soffermarsi a dire
che qualcosa gli piace o meno ma deve entrare nel dettaglio e spiegarne il motivo. Wundt presentava agli
osservatori un determinato (suono o colore) e poi invitava i soggetti a descrivere verbalmente ciò che stavano
provando, cioè chiedeva loro di riferire le loro introspezioni. Gli osservatori descrivevano la brillantezza di
un colore o l'intensità del suono e dovevano riferirsi in termini di percezione non in termini di appercezione,
cioè interpretazione: Esempio→Dovevano dire specificatamente “questo suono è intenso e prolungato” e NON
“questo suono mi provoca piacevolezza/per me è sgradevole”.
Tuttavia è impossibile essere completamente oggettivi, infatti questo metodo sarà criticato dai funzionalist,
sebbene Wundt passasse molto tempo ad addestrare i suoi soggetti all'oggettività. Nonostante ciò questo
metodo aveva sicuramente un suo rigore, per cui pur non essendo esattamente semplice da realizzar, e pur non
dando esattamente vita a delle valutazioni oggettive, era sicuramente un enorme scoperta per l'epoca e consentì
l'avvio di esperimenti sul piano psicologico.
I tempi di reazione→Egli applicando il metodo dei tempi di reazione, provò a differenziare la percezione e
l’appercezione. Il compito dei soggetti era premere un pulsante appena sentivano un rumore:
 G1 doveva concentrarsi sull’atto del premere il pulsante (percezione);
 G2 invece doveva concentrarsi sull’ appercezione del suono (doveva interpretare che suono fosse e
scegliere per esempio se si trattava di un suono proveniente da un campanello o da un altro elemento);
OVVIAMENTE G1 era più veloce di G2, perché un conto era cliccare esclusivamente un pulsante appena
ricevuto lo stimolo, un altro conto invece è concentrarsi sul suono e scegliere di che cosa si tratti.

Il tachistoscopio a caduta→ É uno strumento che consente di studiare le capacità


associative, percettive e di concentrazione attraverso l'analisi delle reazioni prodotte da
stimoli sensoriali di tipo visivo. La macchina esponeva il soggetto dell'esperimento a una
serie di stimoli visivi (cifre, lettere o colori) per un breve lasso di tempo, registrandone
le sensazioni e le reazioni manifestate durante e dopo il test.

L’elementismo→Un altro aspetto importante dello studio di Wundt è l’elementismo: la scomposizione


dell’attività psichica nei suoi elementi costituenti. Nel cercare di trovare un metodo prende a prestito il modello
della chimica, infatti questa disciplina scompone la struttura della materia in elementi di base. Wundt così
adotta un approccio che mira all’analisi degli elementi di base che costituiscono la mente (stimolazione,
percezione, appercezione, atto di volontà): ciò significa che per Wundt l’obiettivo della psicologia sperimentale
era dunque quello di denucleare gli elementi base dei funzionamenti mentali; i quali una volta denucleati,
vengono poi ricomposti secondo un processo di sintesi creativa: in altre parole ciò significa scomporre la
coscienza in sensazioni ed emozioni elementari (però poi sintesi creativa).

LEZIONE 15/10/2020.
Lo strutturalismo di Tichener. In realtà lo strutturalismo deve la sua fondazione a Edward Bradford
Titchener (1867-1927), il quale ingloba il principio dell’elementismo facendone un vero e proprio modello.
Tichener era un allievo di Wundt, che dalla Germania si sposta negli Stati Uniti, in particolare alla Cornell
University. Egli scrisse i primi manuali di psicologia generale (The Postulates of a Structural Psychology del
1898; A Texbook of Psychology del 1910) e fondò una rivista scientifica, l'American Journal of Psychology
(per divulgare il suo obiettivo). Crea il gruppo degli “sperimentalisti” strutturandolo in chiave accademica,
infatti questo gruppo all'interno dell'università comincia a narrare e descrivere tutti gli esperimenti di psicologia
che venivano compiuti dentro l'università. Inoltre scrive per anni il volume Experimental Psychology: manuali
tichneriani di laboratorio.
Per una serie di ragioni storiche e di cambiamento di paradigmi, lo strutturalismo si estingue con la morte di
Titchener, per cui il suo modello non vien tramandato. In quegli anni cominciano a diffondersi sia in Europa
che negli USA delle prospettive differenti che mettono in crisi la convenzione strutturalista, di conseguenza le
idee dello strutturalismo cominciano a essere considerate obsolete e non scientifiche, anche per tutti i limiti
circa il metodo di elezione che gli strutturalisti utilizzavano (introspezione).
La prospettiva di Titchener è piuttosto in linea con quella di Wundt, infatti per entrambi:
 La psicologia studia l’esperienza in reazione al modo in cui il soggetto la esperisce;
 L'esperienza psicologica è diretta/immediata.
La psicologia assume prospettive diverse dunque rispetto ad altre discipline, come la fisica, che necessitano
sempre dello strumento e osservano i fenomeni indipendenti dal soggetto (Esempio→la forza di gravità è un
fenomeno fisico che esiste indipendentemente dall'individuo). Al contrario l'esperienza psicologica necessita
dell'intermediazione del soggetto.
Anche le grandezze fisiche come spazio e tempo, sono viste come soggettive, infatti il tempo è un tempo
percepito, rielaborato dal soggetto. Ad esempio se ci annoiamo o aspettiamo senza far nulla sembra che il
tempo non scorra mai, perché il nostro tempo mentale accelera.
La differenza tra mente e coscienza→Secondo Titchener:
La coscienza è l’insieme dei processi mentali che hanno luogo in un momento specifico. Infatti quando
si studia la coscienza si sta semplicemente studiando uno stato momentaneo che il soggetto vive, “Hic
et nunc” (ora e qui). Il soggetto ha quindi consapevolezza del suo stato psichico in un preciso momento.
La mente invece è un concetto più generale, infatti riguarda la somma di tutti i processi mentali che
hanno luogo nell’intera vita dell’individuo (caratterizza quindi l’esistenza del soggetto).
 P.S. Questa concezione della mente somiglia a quella che svilupperà Freud, il quale dirà che
nella mente si vanno a segmentare i traumi infantili.
Quindi…

 La coscienza si può studiare sperimentalmente, poiché l’esperimento coglie ciò che il soggetto sta
vivendo o sentendo, attraverso l'introspezione in uno specifico momento.
 La mente, dunque l’identità, l'io, il sè non sono studiabili sperimentalmente.
 N.B. Successivamente ci saranno studiosi che invece spiegheranno come sia possibile studiare
questi elementi.
L’obiettivo di studio della psicologia. Secondo Titchener l’obiettivo di studio della psicologia deve essere
scomporre (emerge l'ementismo) e descrivere gli elementi di base della coscienza, evidenziando le leggi che
sottendono alla loro combinazione e ai loro processi. Lo psicologo deve studiare l'esperienza psicologica
dell'individuo in relazione con il mondo, in una specifica situazione, dunque deve scoprire quali sono i
contenuti elementari della coscienza e come entrano in relazione l'uno con l'altro; deve capire poi se l'atto di
volontà è l'atto finale della sintesi creativa che mette insieme sensazione e sentimento.
L’approccio descrittivo. È ovvio che questo metodo si base sull'approccio descrittivo, dunque NON vi è un
obiettivo esplicativo: lo psicologo non vuole scopre perché il soggetto avverte la sensazione o perchè il
soggetto sperimenta un sentimento di piacevolezza o non piacevolezza. Lo psicologo infatti si limita a
descrivere in maniera oggettiva cosa sta sentendo e provando il soggetto e non va oltre per trovare le cause
dell'esperienza psichica.
Questo approccio descrittivo viene usato perché si riteneva che la mente fosse costituita dalla somma di
elementi semplici che si compongo e scompongono tra loro. Dunque il metodo dell’introspezione è
descrittivo, infatti descrive l’esperienza che il soggetto fa di se stesso.
Gli elementi primari della coscienza. Titchener individua gli elementi di base che compongono la coscienza,
i quali sono:
 Le percezioni. Esse sono basate sulle sensazioni (l’organo di senso viene attivato e l’individuo
percepisce una determinata sensazione);
 Le idee. Esse sono rappresentazioni mentali delle cose percepite, dunque immagini che elaboriamo
rispetto ad una determinata esperienza o rispetto a esperienze passate (ricordi). Generalmente noi
ricordiamo in chiave personale e ricordiamo le scene dell'esperienza che abbiamo avuto, infatti ci
troviamo di fronte a un'immagine/rappresentazione mentale di ciò che abbiano vissuto in passato.
 I sentimenti. Essi fanno riferimento agli stati affettivi (ovvero quelle esperienze elementari legate alle
emozioni), dunque si tratta di amore, odio, tristezza ecc.
Gli attributi specifici. Ognuno di questi elementi primari è caratterizzato da attributi specifici:
 Qualità
 Intensità
 Durata
 Chiarezza (tranne stati affettivi).
Questi 4 attributi possono essere attribuiti anche alle idee, infatti anche le rappresentazioni mentali e i ricordi
possono avere una qualità, intensità, durata e chiarezza. In virtù di ciò possiamo avere diversi tipi di ricordi,
pensando ad un’immagine o semplicemente al suono di quella parola; oppure possiamo ricordare in modo più
o meno definito; il ricordo può avere un’intensità in relazione anche alla quantità di tempo trascorso, etc.
Esempio→Prendiamo in esempio la percezione e supponiamo che stiamo avendo esperienza di un raggio
luminoso. Questo raggio (ovvero lo stimolo, la sensazione) è caratterizzato dai 4 attribuiti specifici:

 La luce può avere una qualità differente, infatti può essere rossa o bianca, calda o fredda ed è diversa
anche in relazione al colore;
 Può avere un’intensità specifica, infatti può essere una luce fioca come quella di una candela, o molto
forte;
 Può avere una durata differente, dunque lo stimolo può essere breve come una candela che di consuma
in poco tempo, oppure può durare maggiormente, quindi l'impulso può essere immediato o meno;
 L’attributo della chiarezza (che dipende dal l'intensità dello stimolo) infine ci permette di distinguere
in maniera specifica questo stimolo luminoso rispetto ad altri (questo attributo è facilmente attribuibile
ai colori, distinguiamo il rosso dal verde, oppure il bianco e il nero, sono quindi completamente
diversi).
Anche le emozioni hanno questi attributi, ad eccezione della chiarezza, perché è quasi impossibile avere una
chiara definizione di che cosa siano l’amore o la tristezza.
Esempio→Pensiamo a delle emozioni come la gioia o la paura, queste hanno chiaramente una “qualità”
completamente differente perché:
 Nella gioia vi è l’attivazione dell’asse della piacevolezza di Wundt;
 Nella paura al contrario si attiva l’asse della non piacevolezza, quasi del terrore.
Anche l’intensità può essere diversa, infatti il soggetto può essere più o meno contento/ più o meno impaurito
o meno. Anche la durata è differente, infatti si può sperimentare uno stato affettivo per più o per meno tempo.
Dunque l’unico attributo che gli stati affettivi non hanno è la chiarezza in quanto da un punto di vista
psicofisiologico, la reazione emozionale che si prova è esattamente identica sia che siamo impauriti sia che
siamo gioiosi, infatti NON si può nettamente distinguere l’una dall’altra, poiché è sempre il cuore che batte (la
reazione è identica).
N.B. Scopriremo che in realtà (lo diranno meglio i cognitivisti), che quel che fa la differenza è la “valutazione
cognitiva”, cioè l’etichetta che l’individuo dà a quel suo stato affettivo, che lo porta a definire e quindi
distinguere queste emozioni. Tutto ciò dipende dal contenuto dell’esperienza che il soggetto sta vivendo, della
quale non si può ovviamente avere una piena chiarezza, da un punto di vista sperimentale rigido e controllato,
come volevano gli Strutturalisti.
Il metodo introspettivo. Una volta definito l’oggetto di studio, l’obiettivo degli sperimentalisti era quello di
trovare un metodo che consentisse di studiare questa esperienza psicologica e questi elementi di base della
coscienza.
Il metodo usato dagli strutturalisti per raggiungere tale obiettivo è il metodo introspettivo, infatti essi
individuano l’introspezione come metodo scientifico, perché se voglio cogliere l'esperienza immediata di ciò
che sto vivendo, soltanto io so essere osservato di me stesso: soltanto l'individuo attraverso l’introspezione può
essere in grado di rilevare cosa avviene nel momento specifico, in cui immediatamente sperimenta la realtà.
→Per poter capire cosa accade quando io vedo un colore, una forma, sento un suono, provo un sentimento, c’è
un solo modo per farlo, ossia, devo guardarmi dentro ed analizzare, descrivere quello che sto provando mentre
sto guardando il colore, la forma, il suono, mentre penso a un ricordo, o mentre provo un sentimento.
Perché l’introspezione sia intesa come metodo scientifico occorre che la situazione sperimentale sia effettuata
in una condizione di controllo accurato dello stimolo che produce l’evento mentale da osservare, per cui si
torna all'idea del laboratorio sperimentale, luogo in cui lo sperimentatore può controllare esattamente qual è lo
stimolo a cui il soggetto deve rispondere e verso cui deve narrare la sua esperienza psichica.
Esempio→ Prendiamo in esame gli esperimenti di Wundt rispetto al ticchettio. Il ritmo del ticchettio è
maggiore o minore e il soggetto deve dire cosa prova sia nel primo che nel secondo caso. Il ticchettio deve
essere controllato, per cui l'osservatore deve scrivere a quanti battiti innesca il ticchettio, perché quello dà la
possibilità di capire meglio qual è la reazione soggettiva legata a quello stimolo. Naturalmente oltre al
controllo, è necessario che il soggetto mentre sta sentendo il ticchettio o subito dopo, elabori e stenda un
resoconto dettagliato, accurato e oggettivo dell'esperienza psichica.
Cosa deve fare lo psicologo introspezionista? L'individuo osservatore di se stesso (lo psicologo
introspezionista) deve:
 Adottare il criterio elementista, dunque quando deve raccontare la sua esperienza psichica deve
utilizzare dei criteri e delle parole singole, associabili all'esperienza che sta vivendo, per cui deve
sforzarsi di essere oggettivo. Il soggetto quindi deve scomporre l’esperienza nei suoi elementi
semplici; parole singole che esemplificano l’esperienza cosciente (caldo, amaro, luminoso).
 Per fare ciò, avere chiari quali sono gli attributi che ogni stimolo (sia che lo stimolo sia
percettivo, un'idea, uno stato affettivo) può possedere, aiuta il soggetto a descrivere meglio da
cosa è caratterizzata l'esperienza che sta vivendo.
 Stare attento a salvaguardarsi dall’errore dello stimolo: in questo sforzo di oggettività deve evitare
di attribuire all’esperienza cosciente significati o valori propri. Nel descrivere questa esperienza
soggettiva, l'individuo deve usare termini “scientifici”, che per l'epoca significava essere più oggettivi
possibili.
Esempio→ Se si ha davanti un piano di colore grigio, di media luminosità, per un soggetto può essere una
tavola, per un altro invece una scrivania. Il soggetto deve descrivere lo stimolo che sta vedendo secondo le
caratteristiche degli attribuiti, quindi ad esempio deve dire se è un piano poco luminoso, rettangolare, il
colore...Oppure se si sta ascoltando un suono, il soggetto non deve dire soltanto “sto ascoltando un suono che
mi piace”, ma al contrario deve dire se sta ascoltando un suono rilassante, e così via.
La richiesta di oggettività risiedeva in questo, per cui gli psicologi introspezionisti dovevano essere molto
addestrati nell'applicare questo metodo, perché la soggettività emergeva, infatti è questo che porta i
funzionalisti a criticare questo metodo.

IL FUNZIONALISMO.
Il funzionalismo di James. Nello stesso periodo in cui Titchener si trova alla Cornell University ed elabora
la prospettiva dello strutturalismo, negli Stati Uniti nel 1890 William James, fonda il funzionalismo. William
James è autore dell'Ulisse e colui che per primo ha introdotto il concetto dello “Stream of consciousness” (il
flusso di coscienza) alla fine dell'800.
James adotta una prospettiva completamente differente e in opposizione a quello che pensavano gli
strutturalisti, dunque si oppone all'idea di andare a rintracciare gli elementi di base dell'esperienza psichica;
infatti per James e i funzionalisti quest'ultima NON può essere segmentata, perché è uno Stream of
consciousness, un flusso di coscienza.
James nel 1890 scrive i Principi di psicologia, un volume nel quale comincia a definire e delineare le sue idee
completamente permeate dalle teorie evoluzioniste di Darwin (i funzionalisti sposano completamente l'idea
darwiniana dell'adattamento) e di Spencer. Il funzionalismo risente anche della filosofia pragmatista di Mead
e Dewey dell'Università di Chicago (il pragmatismo era un approccio che coincide molto con l'idea che in
genere si ha sugli americani, visti come individui molto pragmatici, le cui azioni devono sempre avere una
finalità).
La nuova idea di indagare il “perché” e non il “cosa”→ James parte dal concetto darwiniano dall'evoluzione
della specie, che nelle sue variazioni genotipiche e fenotipiche tende sempre ad attarsi all'ambiente nel quale
vive e considera le relazioni di adattamento individuo-ambiente.
 Lo studioso esplicita come i nostri processi psichici non siano altro che l'esito del nostro adattamento
evolutivo: James dice che gli esseri umani hanno sviluppato la mente perché avevano la necessità di
adattarsi all'ambiente, quindi la nostra mente ci serve per entrare in relazione con un ambiente e per
adattarci ad esso modificandolo e modificando anche noi stessi.
In virtù di ciò, è chiaro che piuttosto che pensare a quali siano le strutture della mente, è più importante per lo
psicologo chiedersi perché abbiamo quella mente, perché quest'ultima funziona in un determinato modo,
perché ci servono la coscienza, la memoria...
L'idea del funzionalismo è quindi quella di andare a rintracciare la funzione dei nostri comportamenti e anche
dei nostri processi mentali e capire anche come questi ultimi cambiano ed evolvono in relazione alle mutazioni
ambientali e all'adattamento.
L’approccio esplicativo→ La prospettiva dei funzionalisti è completamente rovesciata rispetto a quella degli
strutturalisti, infatti i funzionalisti non vogliono più scomporre e analizzare le strutture della mente, ma
vogliono capire il motivo per il quale possediamo queste strutture. Dal momento in cui lo sperimentatore
comincia a porsi il perché, significa che deve spiegare ciò che succede, di conseguenza l'approccio
funzionalista è esplicativo, e non più di tipo descrittivo. Il funzionalismo è quindi una psicologia esplicativa
che si interroga sul perché dei fenomeni psichici e cerca di fornire una spiegazione.
Il superamento della scissione mente-corpo e del parallelismo fisico→La coscienza NON si può
segmentare, per cui l'esperienza del hic et nunc per James non ha alcun senso, perché il nostro flusso di pensieri
è un flusso continuo. Per spiegare il comportamento dell'individuo è necessaria una visione olistica, dunque
mente e corpo NON sono più scissi, ma sono integrati e uniti. Noi non possiamo porci dentro un laboratorio
e fare sì che tutto quello che nel frattempo accade nella nostra mente venga lasciato fuori: ad esempio nel
momento in cui vediamo uno stimolo luminoso che colpisce il nostro occhio, e magari abbiamo fame, quel
fascio luminoso possiamo immaginarlo come un piatto appetitoso.
Viene superata anche la visione del “parallelismo fisico”, infatti non sempre processi fisici e processi mentali
sono paralleli, perché possono intervenire una serie di altri fattori che possono influenzare e modificare (in
realtà però pieno superamento di questo parallelismo ci sarà solo con la Gestalt).
N.B. Il funzionalismo e lo strutturalismo sono due prospettive sicuramente diverse ma allo stesso tempo complementari,
infatti il divario tra esse sarà poi risolto dalla psicologia della Gestalt.

Quado emerge la coscienza? Anche i processi mentali coscienti (o coscienza) stanno alle regole del
comportamento adattivo. Il significato della coscienza viene riorganizzato, per cui l'esperienza cosciente
NON è soltanto l'esperienza soggettiva in un determinato momento, ma secondo i funzionalisti la coscienza
emerge soltanto quando l’individuo deve svolgere un compito mai eseguito, e dunque deve impararlo, infatti
una volta imparato diventa un'abitudine e la nostra coscienza si eclissa.
Questa è un'importante scoperta perché i nostri processi attentivi si attivano SOLO nel momento in cui
dobbiamo eseguire dei compiti nuovi e mai svolti, quindi soltanto quando impariamo qualcosa di nuovo
esercitiamo un controllo consapevole, perché (lo vedremo meglio con lo studio sull’attenzione).
Esempio→Prendiamo come esempio la situazione di un individuo che impara a guidare la macchina:
1. Nei primi momenti chiaramente esso sarà molto concentrato nell'eseguire i vari comandi, di
conseguenza qualunque rumore, come quello emesso da una radio, potrebbe essere motivo di
distrazione. L'individuo deve concentrarsi a coordinare i piedi, a coordinare il movimento della mano
che deve indirizzare il cambio, per cui è molto attento e concentrato.
Questo momento secondo i funzionalisti il momento in cui il soggetto esercita un controllo è consapevole,
infatti la coscienza emerge più consapevolmente.
2. Quando poi il soggetto avrà imparato a guidare la macchina, questo livello di consapevolezza non sarà
più presente, e l'individuo mentre guida sarà capace di parlare con il passeggero, oppure fumare una
sigaretta, o ascoltare tranquillamente la radio. Queste azioni comportano il fatto che la nostra
attenzione si suddivida in una serie di azioni che siamo in grado di fare contemporaneamente
(multitasking), perché alcuni processi che abbiamo già automatizzato vengono fatti sotto la soglia di
consapevolezza. Non è più necessario per l'individuo concentrarsi a premere la frizione per cambiare
la marcia, ma sarà tutto “automatico”.
Si innesca quindi un progressivo rapporto tra l'esperienza cosciente, che emerge quando l'individuo deve
esercitare un compito adattivo (come imparare un'azione nuova) e l'automatizzazione del compito imparato
(la coscienza quindi ritorna sotto ed emerge poi in altri contesti).
Il funzionalismo come anti-elementismo. Il funzionalismo si oppone alle elementismo titchneriano.
 I funzionalisti infatti dicono che se il nostro comportamento è adattivo, qualunque attività che
compiamo non possiamo segmentarla, ma dobbiamo considerarla come un atto unico, come un
processo globale (qui viene richiamata la filosofia di Brentano).
Esempio →Se il bambino vede una palla e vuole prenderla, già nell'atto di vedere era implicito il suo desiderio
di prendere o toccare la palla. Questo significa che il “vedere per toccare” è un atto unico e immediato e non
si compone di 3 atti distinti: il bambino sposta la sua attenzione sull'oggetto proprio perché ne è attratto e vuole
prendere la palla, dunque non significa vedere, allungare la mano e poi toccare, perché vedere già implica
allungare la mano.
 La distinzione tra gli atti NON deve essere di tipo strutturale ma soltanto funzionale: la palla è lo
stimolo che attiva il comportamento che il bambino deve fare, ma la risposta è un'azione conseguente
a ciò che aveva spinto il bambino ad agire. Stimolo fisico e risposta/elaborazione mentale non sono
strutturalmenti diversi come diceva Wundt, ma sono uniti e connessi.
L’oggetto di studio del funzionalismo. Il funzionalismo dunque studia:
La sensazione, ma meno rispetto allo strutturalismo;
L'emozione. Le emozioni non vengono scomposte in stati affettivi o in attribuiti, ma sono considerate
nel loro complesso, come una ricaduta affettiva del comportamento che viene messo in atto. Per
esempio la rabbia o la collera sono delle emozioni che l'individuo sperimenta e che rappresentano lo
stato affettivo che precede la messa in atto di un'azione. Le emozioni sono una sorta di spinta ad agire
(emozione e motivazione sembrerebbero essere due aspetti dello stesso comportamento);
L'apprendimento (Thorndike sarà colui che delineerà la “legge dell'effetto” che porterà Skinner a
sviluppare il paradigma del condizionamento operante. Thorndike studiava cosa faceva un gatto, in
una gabbia, che vedeva il cibo fuori e voleva raggiungerlo, quindi lo studioso voleva capire quali erano
i comportamenti che il gatto metteva in atto per raggiungere il cibo, essendo impedito a raggiungerlo);
Il pensiero;
La motivazione;
La percezione.
L’eclettismo metodologico. Il funzionalismo rifiuta completamente l'introspezione che non viene considerata
per nulla un metodo scientifico, perché la coscienza non può essere segmentata e non si ci può concentrare su
un unico atto e descriverlo oggettivamente, perché nel frattempo nella mente ci sono tantissime immagini,
pensieri, che fluiscono ininterrottamente. Dal momento in cui i fenomeni da studiare sono tanti e i
comportamenti adattivi possono risentire di molte variabli, i funzionalisti non hanno un vero e proprio metodo,
ma utilizzano il metodo che meglio si adatta a quello che devono analizzare (Thorndike per esempio utilizzati
agli esperimenti in laboratorio che l'osservazione). Essi si contraddistinguono per l'eclettismo metodologico,
per cui i funzionalisti:

 Fanno gli esperimenti in laboratorio;


 Seguono il metodo genetico;
 Si basano sull'osservazione;
 Considerano la prospettiva sociale ed evolutiva.

Funzionalismo VS Strutturalismo. In virtù di tutte queste differenze sopra citate, tra i due esponenti del
funzionalismo e dello strutturalismo, rispettivamente James e Tichner si innesca un grande dibattito, nella
comunità scientifica nasce quindi una vera e propria guerra tra funzionalisti e strutturalisti impegnati
costantemente gli uni a criticare il pensiero degli altri.
• Titchner metteva in evidenza come fosse impossibile studiare il “come” e il “perché” dei fenomeni
senza prima conoscerne il “cosa”. Egli dunque ribadisce l'importanza di studiare prima di tutto le
strutture mentali di base, infatti non ha senso capire cosa fanno i processi mentali se non si sa neppure
cosa sono.
• James e i funzionalisti invece facevano una critica più dal punto di vista metodologico, infatti essi
ritengono che l'introspezione sia un metodo totalmente inadeguato per studiare le funzioni mentali.
La contrapposizione tra queste due prospettive finisce per determinare due approcci differenti nell'ambito dello
studio psicologico:
 Da un lato ci saranno studiosi interessati alle strutture della mente e a ricerche di base, come le
neuroscienze. Queste ultime risentono molto dello strutturalismo, infatti cercano di studiare e capire
che cosa succede in determinate aree del cervello e quindi cercano di spiegare la strutture di quelle
determinate aree.
 Dall'altro invece ci saranno studiosi interessati a capire il perché dei processi mentali, come per
esempio la psicologia applicata: ad esempio dopo aver capito che possediamo l’attenzione divisa, per
cui ci sono aree differenti del cervello adibite ai processi attentivi, bisogna capire in maniera più
applicativa
 se i soggetti che hanno più risorse di attenzione divisa e sono capaci di effettuare più compiti
contemporaneamente, saranno più adatti a svolgere alcune mansioni piuttosto che altre;
 oppure se questi soggetti possono essere considerati disfunzionali e iperattivi perché la loro
attenzione è focalizzata su tante cose e processano tanti stimoli nello stesso momento.
Quindi in conclusione dagli strutturalisti deriva una ricerca più pura e di base, invece dai funzionalisti una
ricerca applicata.
Le due prospettive coesistono e si sviluppano alla fine dell'ottocento ma poi svaniscono.

L’estinzione dello Strutturalismo→Lo strutturalismo scompare dal panorama psicologico per una serie di
motivi:
L’attenzione alla “normalità”. Lo strutturalismo finisce per studiare soltanto gli “individui sani”, che non
presentavano condizioni di disagio psichico. La scoperta psicoanalitica fatta da Freud surclassa completamente
questo studio della “normalità”, infatti a quell'epoca stava emergendo il disagio esistenziale, e la psicoanalisi
freudiana diventa la risposta quasi scientifica a una condizione storico-culturale che portava gli individui a
sentirsi “decadenti”. Per cui alla fine viene abbandonato lo studio di tutto ciò che non era patologico e si
abbandonarono gli esperimenti su individui finalizzati a capire come percepiamo gli stimoli o come
descriviamo uno stato affettivo.
L'elementismo. Esso era stato già messo in crisi dal funzionalismo, ma viene poi completamente abbandonato
dalla psicologia della Gestalt.
L’inconsistenza del metodo introspettivo. Entra in crisi anche il metodo dell'introspezione in quanto non
replicabile con soggetti diversi, infatti al cambiare del soggetto, cambiavano anche i resoconti, per cui mancava
l'oggettività.

 N.B. Sarà poi il comportamentismo a modificare questo metodo e a rendere gli esperimenti replicabili
con soggetti diversi: i comportamentisti abbandoneranno completamente la soggettività e cercheranno
di concentrarsi esclusivamente sul comportamento, quindi sulle azioni oggettive che possono essere
studiate da un punto di vista scientifico.
L’inconsistenza del metodo descrittivo. Gli strutturalisti si basavano su una psicologia prevalentemente
descrittiva, mirata a spiegare il “cosa” dei processi ma non il loro funzionamento. Ciò rappresenta un limite e
mette in evidenza in contrasto l’importanza di una psicologia esplicativa.
L’attenzione esclusiva ai fenomeni coscienti. Lo strutturalismo si occupava soltanto dei fenomeni coscienti,
tralasciando invece l'inconscio, la grande scoperta del secolo studiata da Freud e dalla psicoanalisi.
I meriti dello Strutturalismo→ Lo Strutturalismo ha meriti nel panorama psicologico per varie ragioni:
 Propone un metodo sistematico (che si assimila al metodo scientifico) per lo studio dei processi
psichici;
 Per primo assegna alla psicologia dignità come disciplina scientifica autonoma e indipendente.
 Grazie al metodo proposto, anticipa lo studio dei processi cognitivi, infatti i cognitivisti che
rivalutano la mente, i processi mentali, la cognizione e la studiano in maniera oggettiva e scientifica.
L’estinzione del Funzionalismo→ Il funzionalismo si estingue perché viene soppiantato dalla scuola
comportamentista di Watson (anni ’20) per i limiti già indicati. Tuttavia alcune idee vengono mantenute
all’interno della storia della psicologia, come.

 Il concetto di funzione negli studi sul problem-solving e sui processi cognitivi;


 L’attenzione all’adattamento e alla concezione psicofisiologica moderna (psicologia evoluzionistica).
Infatti gli stessi cognitivisti o autori come Claparede (maestro di Piaget), risentono di un approccio più
funzionalista per lo studio dei processi mentali e della cognizione.

LA PSICOLOGIA DELLA GESTALT


Caratteri introduttivi. La psicologia della Gestalt, o psicologia della forma (o della buona forma),
Gestaltheorie o Gestaltpsichologie è un movimento che sorge in Germania all’inizio del novecento e si
contrappone allo strutturalismo e funzionalismo.
I maggiori esponenti sono:

 Wertheimer (1880-1943),
 Kohler (18886-1941),
 Koffka (1887-1967)
I quali si occuparono dello studio dei vari processi; in particolar modo la Gestalt si occupó dello studio dei
processi percettivi (ricordiamo gli studi di Kohler con degli scimpanzé in cui spiegò il “problem solving”
come un processo di natura percettiva). Gli esponenti della Gestalt opponendosi allo strutturalismo, si
contrappongono in maniera totale alle elementismo, motivo per cui la Gestalt è definita come una psicologia
anti-elementista. Infatti un po' più in linea con il funzionalismo, i gestaltisti ritengono che l'esperienza psichica
non possa essere composta e ridotta ad aspetti elementari.
N. B. Il motto della psicologia della Gestalt è “il tutto è più della somma delle singole parti” è un'idea che
loro maturanono in virtù dell'influenza di diversi pensatori.

Gli influssi filosofici. La prospettiva della Gestalt risente di alcune influenze filosofiche, in particolare di tre
autori:
1. Kant
2. Brentano
3. Von Ehrenfels
Kant (1). In base all’influenza filosofica kantiana, i gestaltisti ritengono che la nostra esperienza sia qualcosa
che supera anche la somma dei singoli elementi.
Kant rifiuta sia l'empirismo che l'innatismo, infatti egli sosteneva che la mente:

 Non è solo passiva, quindi non la si può ridurre all'esperienza passiva dell'ambiente, con il quale
interagiamo e (anti-empirismo);
 Non è possibile considerarla come l'esito di una serie di attività innate o come il frutto di principi che
esulano dall’esperienza (anti-razionalismo).
In Kant al contrario vi è l'idea della sostanza che si coniuga con la forma, per cui l'atto del conoscere è un
atto unitario, in cui la materia fornita dai sensi viene organizzata dalla mente secondo forme specifiche che
la mente stessa già possiede. Questo è il concetto di sintesi a-priori, infatti per qualunque oggetto che ci
rappresentiamo è necessario integrare sempre la sostanza (che deriva dall'esperienza sensoriale) con le forme
a priori.
Questa idea che ci siano delle forme e dei principi innati nella nostra mente che consentono all'individuo di
organizzare la propria esperienza viene inglobata dalla Gestalt.
Brentano (2). Un altro autore che influenza particolarmente la psicologia della Gestalt fu Brentano.
Quest’ultimo (come già i funzionalisti) aveva messo in evidenza che i fenomeni psichici hanno la peculiarità
di basarsi sull’intenzionalità: egli riteneva che ogni specifico atto fosse già pre-finalizzato a raggiungere un
determinato scopo, per cui ciò significa che ogni atto è intenzionale. Di conseguenza l'oggetto della psicologia
NON è scomporre ma è cogliere l'atto unitario, quindi cogliere l'esperienza fenomenica del mondo.
Von Ehrenfels (3). Un altro autore che venne completamente assorbito dalla Gestalt è Von Ehrenfels. Questi
propone il concetto delle qualità-Gestalt, infatti lo stesso nome Gestalt NON è fatto risalire al capostipite che
è Wertheiner, ma a Von Ehrenfels.
Egli era un filosofo che propone una metafora importante per capire il significato del motto della Gestalt.
Von Ehrenfels dice che una melodia è composta dalle note, ma il risultato finale di quella melodia NON è dato
dalla somma esatta delle singole note, in quanto la melodia finisce per assumere caratteristiche diverse a
seconda della somma delle singole note. Le note sono sette e ognuna di esse è caratterizzata da una propria
intensità, da uno specifico ritmo, ma il modo in cui le note si compongono insieme per far emergere la melodia
non è mai la somma esatta, ma è frutto di come tutte le note sono allineate tra di loro.
La melodia possiede quindi una qualità-Gestalt, che:
 è indipendente dalle caratteristiche delle singole note;
 dipende dalla relazione che si viene a creare tra le stesse note.
L'individuo che non possiede l'orecchio musicale non si rende conto della differenza delle note suonate da
strumenti diversi, oppure non riesce a cogliere la differenza tra una croma e una semicroma: ciò che arriva
fenomenicamente (l'esperimento soggettiva) all'individuo è la melodia, è la qualità gestalt, arriva quindi il
tutto che è più della somma delle singole parti.
P.S. Questo studio è importante perché viene poi applicato anche ad altri ambiti. Kurt Lwein,altro autore della
Gestalt, applica questi principi allo studio delle relazioni sociali, mettendo in evidenza come la nostra
esperienza di vita è un'esperienza fenomenica: l’individuo entra in rapporto con il nostro ambiente grazie
alla relazione con vari elementi; in al mondo in cui questi ultimi si compongono tra di loro, emerge l'esperienza
psicologica che esso fa dell'ambiente. Infatti secondo lo studioso esistono:
 un ambiente esterno, reale;
 un ambiente soggettivo e psicologico.
Tant'è che lui parla proprio di “campo di azione del soggetto” che è governato da una serie di forze dinamiche
al suo interno ed è strutturato in maniera dinamica.
Le qualità-Gestalt finiscono per essere dei principi organizzativi delle singole entità, infatti emerge la
soggettività.
 Le Gestalten sono totalità percettive: organizzate dall’intero alle parti e non dalle parti all’intero.
 Il tutto precede le parti e queste assumono significati diversi a seconda di cui sono parti.
Osserviamo l’immagine:

Di fronte a quest'immagine, ci sarà chi vedrà solo la vecchia e chi solo la donna giovane, oppure chi vedrà
entrambe. Questo succede perché si tratta di uno “stimolo ambiguo” composto da una serie di tratti, che nelle
loro qualità-Gestalt possono essere visti in modo diverso. In questa immagine è possibile vedere una donna
anziana, con un lungo mento, un grande naso, ed è anche possibile vedere una giovane donna, dove la bocca
della signora anziana diventa una “collana”, il naso diventa il mento della giovane, che viene vista di profilo.
Due visioni differenti. Il fatto che questo stimolo venga codificato in modo diverso non è indice di disagio,
ma rappresenta soltanto la capacità soggettiva che si ha di rielaborare e riorganizzare gli stimoli:
 Chi ad esempio vede solo l’anziana, potrebbe avere una visione cognitiva (cioè il modo di interpretare
la realtà) più globale, olistica in quanto guarda la figura nel suo insieme e non in relazione ai singoli
dettagli;
 Chi vede la ragazza, potrebbe avere una visione cognitiva più analitica che lo porta a soffermarsi più
sugli aspetti minuziosi e specifici della figura.
La “fisiognomica”. I gestaltisti hanno parlato anche della cosiddetta “fisiognomica”, la quale ritiene che a
partire dalle nostre esperienze passate, i nostri occhi interpretano alcune figure secondo determinate forme e
poi ognuno di noi tende ad attribuire quei modi di organizzare la realtà a figure nuove: ciò significa che
possiamo interpretare la figura proposta anche in virtù delle esperienze passate.
Tutto ciò ha portato la Gestalt ad affermare per prima che la realtà percepita non è reale, ma è fenomenica
(cioè l’interpretazione soggettiva della realtà). Questo principio enunciato dagli gestaltisti valorizza
l'importanza del lavoro psicologico: la realtà che ognuno di noi vede e descrive è sempre la propria
interpretazione soggettiva.
Il principio base della Gestalt.
 I fenomeni non si possono spiegare per “somma” di elementi dal basso, ma per l'intervento di principi
“dall'alto” che li organizzano e gli danno una struttura (principi top-down, vedi sotto).
 Considerati insieme gli elementi costituiscono qualcosa che è più significativo degli stessi elementi
presi singolarmente.
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Piccolo approfondimento→I gestaltisti non lo misero in evidenza, ma studi successivi hanno sottolineato come
ci possono essere soggetti più o meno creativi, che possono attribuire elaborazioni diversi allo stesso stimolo.
Ad esempio un esperimento prevede di disegnare un tratto su un foglio e poi chiedere ai soggetti di costruire
un disegno partendo da quello schizzo:
o i soggetti più creativi possibilmente creeranno un volto;
o quelli meno creativi invece una casetta.
Questo testimonia come anche la creatività influenza, ma questo è frutto di studi successivi.
La Gestalt spiega ciò in termini strettamente legati agli studi percettivi, come riorganizzazione degli elementi
che compongono la figura, che richiede l’insieme delle stimolazioni che provengono dal basso, ma anche la
possibilità che l’individuo ha di interpretare quella realtà a partire da alcuni principi innati che permettono
di organizzare il fenomeno (o oggetto) percepito.
Non solo l’immaginazione e la creatività contribuiscono a questo fenomeno, ma anche le emozioni che
un’immagine ci trasmette. Sono stati fatti degli esperimenti: durante la visione tachistoscopica di tante
immagini, i soggetti se per esempio erano affamati tendevano a reagire prima a quelle immagini che
riproducevano il cibo, per cui anche la motivazione e l'emozione influiscono, ma i gestaltisti NON
approfondiscono questo aspetto.
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Il principio “Top-down” →Dunque qualunque fenomeno può essere spiegato non come la forma di elementi
dal basso, ma per l'intervento di una serie di principi dall'alto che organizzano e danno struttura a quel
fenomeno. Si dice che l’approccio della Gestalt è “top-down”, che parte da una serie di “principi generali” che
vengono applicati alla decodifica degli stimoli visivi: quello che si percepisce è di più rispetto alla somma dei
singoli elementi, infatti se la percezione fosse soltanto la somma dei tratti presenti nella figura, tutti dovremmo
vedere la stessa immagine, ma così non è.
Il fenomeno psichico non lo possiamo spiegare come la somma degli elementi che lo compongono (quindi che
vanno dal basso/dall'esterno, cioè dalla nostra stimolazione, verso l'interno dell'organismo), perché sebbene lo
stimolo che l'occhio riceve da questi tratti sia uguale, i soggetti vedono immagini diverse. Quindi, se vediamo
la ragazza o la vecchia, vuol dire che intervengono dei principi top-down (cioè del basso verso l’alto), i quali
sono principi innati che ciascuno di noi possiede e che ci consentono di attribuire uno specifico significato allo
stimolo (significato che può dipendere dalle emozioni, dall’immaginazione, dalle motivazioni, dall’esperienza
passata).
N. B. Ci sono anche delle figure reversibili, come ad esempio RAI che diventava una farfalla. Il metodo dei
Gestaltisti è deduttivo.
Wertheimer. A questo punto possiamo parlare di Wertheimer, cioè il fondatore della Gestalt. Wertheimer
scrive e pubblica nel 1912 uno scritto sul “movimento apparente o stroboscopico”, o anche fenomeno fi (che
è alla base del cinematografo e della palla stroboscopica).
Il fenomeno fi→Wertheimer stava studiando un fenomeno tale per cui se su uno schermo nero si proiettano
due stimoli da sinistra a destra con un intervallo l'uno dall'altro di 50-100 msec, dal punto di vista fisico
l’osservatore percepirà un unico stimolo luminoso in movimento da sinistra a destra. Lo stimolo viene
proiettato, quindi arriva e si chiude, se questo arriva/chiudi è l'intervallo di presentazione tra lo stimolo A e lo
stimolo B, compreso tra 50-100 msec, il soggetto NON vedrà due stimoli che si accendono e si spengono, ma
vedrà una sola immagine che si muove: quindi si crea un movimento apparente. Se la proiezione è lenta si
vede questo accendi/spegni, invece se è veloce si vede accendi soltanto.
Questa è un'ulteriore prova del fatto che la realtà è fenomenica ed è il soggetto che la percepisce e che la crea
nella propria mente. Il fenomeno non può essere dato dalla somma degli stimoli, ma è frutto di una
riorganizzazione percettiva, per cui è la nostra mente che organizza gli stimoli e li vede in movimento. Il
fenomeno fi è l'evidenza sperimentale che la realtà è soggettiva/fenomenica ed è contrapposta alla realtà
fisica.
P.S. Questa scoperta aprirà lo studio della percezione e illusioni e portò successivamente i fratelli Lumiere ad
inventare il cinema. Al cinema, i fotogrammi sono fissi, ma è l’osservatore che li organizza percettivamente
unificandoli, per cui vede un insieme in movimento. A Torino alla Mole Antonelliana sono presenti le
animazioni che seguono il principio di Wertheimer, infatti vi sono delle strumentazioni tali per cui se il
soggetto prova a girare velocemente una manovella, le immagini fisse acquisiscono movimento. I disegni sono
statici ma la velocità di trasmissione dello stimolo fa vedere all'osservatore un movimento apparente.
L’atteggiamento fenomenologico →Si parla dunque di atteggiamento fenomenologico, per cui lo psicologo
deve studiare i fatti per come vengono percepiti. I gestaltisti utilizzavano principalmente l'osservazione () del
fenomeno, infatti la Gestalt ha un approccio meno da laboratorio (per esempio Kolher fa delle osservazioni
sugli scimpanzé per studiare i loro stili di pensiero). Dunque l'approccio è quello di voler cogliere il fenomeno
per come il soggetto lo percepisce.
Le leggi di organizzazione figurale→I principi top-down, quindi le qualità-Gestalt, che ci consentono di
organizzare la realtà percepita sono definite leggi di organizzazione figurale:
 vicinanza,
 somiglianza,
 continuità,
 pregnanza,
 destino comune,
 chiusura,
 esperienza precedente.
che ci conferiscono una visione più chiara circa il modo in cui ci rappresentiamo gli oggetti nel momento in
cui li vediamo.
Il pensiero produttivo→Wertheimer fa anche uno studio sul cosiddetto pensiero produttivo: l'esperimento
consisteva nel mettere i numeri in sequenza da 1 a 10 e poi chiedere al soggetto di dire immediatamente la
somma di tutti quei numeri. I soggetti erano molto lenti in quanto facevano un processo di somma sequenziale
molto lento (1+2...).
Wertheimer fece poi lo stesso esperimento con un bambino, il quale immediatamente disse la soluzione, in
quanto il bambino si era accorto che prendendo gli estremi dei numeri, la somma era sempre 11 (1+10 =11;
9+2=11; 8+3=11...), per cui era sufficiente moltiplicare 11 per 5 e il risultato era corretto e immediato. Il
bambino aveva organizzato percettivamente l'operazione, quindi non aveva applicato un pensiero sequenziale,
ma produttivo in quanto aveva immediatamente trovato il modo in cui gli elementi percepiti si potevano
riorganizzare e aveva trovato la soluzione.
Alcuni esponenti. I gestaltisti li troveremo sia nello studio della percezione, ma anche del pensiero, quindi:
 Negli studi di Kohler sul problem solving e sull’apprendimento per insight;
 Negli studi di Duncker sulla fissità funzionale;
 Negli studi di Kurt Lewin.
La fine della Gestalt. Molti esponenti della Gestalt avevano origini ebraiche, e inizialmente lavoravano in
Germania. Tuttavia poi con l'emanazione delle leggi razziali e l'avvento del nazismo, molti di loro migrano
negli Stati Uniti.
 Tra il 1912 e il 1935, si ha il “periodo tedesco”, in cui si registrano la nascita e la definizione
dell’approccio della Gestalt;
 Tra il 1935-1945 si ha il “periodo americano”, durante il quale si ha la lotta per la sopravvivenza dei
gestaltisti e si cerca di opporsi al comportamentismo emergente.
La Gestalt finisce con il fondersi con la psicologia pragmatica, dunque con la psicologia americana e si
sposta sul versante sociale. Infine poi tutti gli studi sulla percezione finiscono per confluire nel cognitivismo
agli inizi degli anni ’60 del secolo scorso. Dunque rimane come approccio generale ma come scuola di estende
in altre prospettive.

LEZIONE 19/10/2020.

FREUD E LA PSICOANALISI
Il termine “psicoanalisi” compare nel 1896 nello scritto freudiano “L'ereditarietà e l'eziologia della nevrosi”
come sinonimo di “analisi psichica” o “analisi”. Il termine Psicoanalisi sarà poi generalizzato a tutta Europa,
ma anche in tutto il mondo, infatti Freud dà il via a una vera e propria rivoluzione. La psicoanalisi è dunque:
Una tecnica terapeutica→ Quando si fa riferimento alla psicoanalisi, è facile immediatamente collegare la
figura dello psicologo inteso come una sorta di strizzacervelli, e immaginare la classica vignetta del paziente
disteso sul lettino. Inizialmente quindi con psicoanalisi si identifica una vera e propria tecnica
psicoterapeutica che mira alla cura dei problemi psichici come le nevrosi. La psicoanalisi mira inoltre ad
analizzare il mondo interno dei pazienti, che per Freud ha una connotazione particolare, infatti proprio Freud
sarà il primo a concentrare l'attenzione sulla dinamica che si crea tra mondo esterno e mondo interno (Freud
parlerà di un mondo interno psichico caratterizzato da numerosi conflitti, pulsioni e difese).
Un metodo di indagine→ Per “eziologia” si intende lo studio delle cause della nevrosi attraverso l'analisi,
quindi la psicoanalisi diventa un vero e proprio metodo di indagine dei fenomeni psichici, basato sull'assunto
che la vita psichica è caratterizzata da processi inconsci e consci.
 N.B. Freud in realtà non può essere inteso un vero e proprio psicologo della personalità nonostante lui
stesso proponga una topologia, cioè una descrizione della psiche e del funzionamento dell'individuo,
perché lui in realtà propone un processo di indagine dei fenomeni psichici e del mondo interno dei
soggetti.
Un nuovo approccio teorico→ La psicoanalisi inoltre dal momento in cui vuole spiegare e descrivere il mondo
interno psichico, diventa un vero e proprio modello epistemologico, cioè un nuovo approccio teorico allo
studio della psiche in cui confluiscono dati provenienti da psicoterapia e altri campi come la religione,
l'antropologia, la linguistica (vi è il saggio di Freud Totem E Tabù che va a rintracciare l'origine antropologica
del conflitto edipico).
La psicoanalisi è un modello nuovo che si affaccia nel nascente ambito della psicologia come un modo di
intendere e definire i fenomeni psichici. Il pensiero freudiano è sicuramente un pensiero complesso che rispetto
a molti altri si è mantenuto nel tempo e continua anche oggi ad essere un grande e importante modello
all'interno delle discipline psicologiche.

LA VITA.
L’infanzia e gli studi di Medicina. Sigmund Freud (1856-1939) nasce a Freiberg in Moravia. Freud
apparteneva a una famiglia ebraica benestante di mercanti tessili che aspiravano ad integrarsi nella cultura
austriaca. La famiglia era ben inserita nel contesto tedesco e ambiva a una scalata sociale. Dato che i genitori
erano molto tradizionalisti nel rispetto della religione ebraica, Freud viene educato di conseguenza. Inoltre è
importante sottolineare che Freud aveva un rapporto piuttosto speciale con la madre, che lo vedeva come una
sorta di figlio prediletto. Come tutti i ragazzi appartenenti a una classe sociale piuttosto benestante anche Freud
viene indirizzato agli studi di medicina, facoltà nella quale si laurea nel 1881. Tuttavia è soltanto all'età di 50
anni che fonda la psicoanalisi, un movimento innovativo e rivoluzionario per l'epoca, destinato a diffondersi
in tutto il mondo.
Charcot e Breuer. Freud studia per un anno in Francia da Charcot frequentando il suo laboratorio e le cliniche
psichiatriche, occupandosi di malattia mentale e sperimentando l'ipnosi, metodo utilizzato per entrare e
studiare il mondo psichico di alcuni pazienti che soffrivano di una condizione clinica particolare che era il
disturbo da conversione o isteria.
Insoddisfatto da tale tecnica, cominciò a studiare con Breuer in Austria. Inizialmente anche Breuer utilizzava
l'ipnosi, tuttavia insoddisfatto da questo metodo e cominciando a dubitare della sua efficacia, sperimentò la
tecnica delle associazioni libere o talking cure che aiutava a risolvere i sintomi.
Studi sull’isteria, l’autoanalisi, L’interpretazione dei sogni. Tra il 1892 e il 1895 scrive e pubblica Studi
sull'isteria, dove espone il metodo utilizzato insieme a Charcot e Breuer. Nel 1897 Freud iniziò un percorso di
autoanalisi che prosegue fino alla morte. Quando fonda la società psicoanalitica si rende conto che l'auto-
analisi non è sufficiente, ma che è necessario un percorso di analisi reciproca tra i membri che facevano parte
della stessa società. Tra Freud e Jung comincia così una trattazione epistolare, nella quale l'uno interpreta i
problemi dell'altro. Nel 1899 scrive L'interpretazione dei sogni, elaborando la concezione dell'uomo come
sistema dinamico.
Freud e Jung. Nel 1909 compie diverse conferenze negli USA, dove si reca con il suo allievo Jung. Durante
questo viaggio tra maestro e discepolo si innesca una vera e propria rottura, perché mentre Jung era piuttosto
aperto nel raccontare i propri problemi e i propri sogni al suo maestro, al contrario Freud sembrava essere più
restio nel fare ciò, in quanto riteneva che essendo il capostipite di questa scuola, alcune cose non fosse
necessario dirle. Il rapporto tra Freud e Jung si incrinò a tal punto che l'allievo decise di rompere con il
movimento psicoanalista e fondare una scuola tutta sua (ad esempio una differenza di pensiero tra i due risiede
nella concezione della libido che Freud intendeva più strettamente connessa alla sfera sessuale, invece Jung
in chiave più generale).
Gli ultimi anni. Nel 1923 Freud lotta contro un tumore al palato e affronta diversi lutti familiari legati alla
morte di una figlia e di un nipotino. Nell'ultima fase della sua vita ha quindi modo di sperimentare sulla propria
pelle il dolore causato da una perdita. Dopo l'emanazione delle leggi razziali del 1938 si sposta dalla Moravia
a Londra dove muore l'anno dopo all'età di 83 anni.
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Piccolo approfondimento→Anna Freud, figlia del grande maestro, è colei che teorizza i cosiddetti
meccanismi di difesa, e che riprenderemo quando studieremo la contrapposizione tra la sessualità infantile
che lei intendeva più alla maniera del padre come risoluzione del complesso edipico, e un'altra allieva di Freud,
Melanie Klein, che poi si stacca dal movimento e inaugura un altro filone di studio dei modelli psicoanalitici,
cioè la psicologia delle relazioni oggettuali.
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Il panorama culturale. Per capire al meglio le concezioni elaborate da Freud è importante sottolineare il
clima culturale in cui egli stesso vive, infatti quando egli si laurea in Medicina nel 1881, culturalmente in
Europa dominavano 2 approcci:
 Il pensiero evoluzionistico darwininano
 Il determinismo biologico che si faceva portavoce dell'ereditarietà biologica dei nostri tratti, delle
nostre caratteristiche di personalità ancorando l'idea che l'uomo derivi dal mondo animale. Questo
principio assegnava un peso importante alla ricerca empirica e all'osservazione sistematica, rispetto
alle concezioni più umanistiche
Freud confrontandosi con i suoi professori, si ritrovava inculcata questa visione del funzionamento umano.
Infatti per esempio all'interno della produzione freudiana si trovano molte sessioni dedicate all'analisi degli
istinti, delle pulsioni originali, che diventano la spinta motivazionale ad agire e anche l’analisi di pulsioni che
si ancorano alla componente biologica di funzionamento dei cosiddetti “istinti di base”. Per istinti di base, si
intende il soddisfacimento dei bisogni primari tra cui anche la riproduzione sessuale: quando Freud parla di
libido, va intesa come un'energia interna di natura sessuale legata ANCHE al funzionamento biologico e che
quindi porta l'individuo a vivere una situazione di bisogno→ “bisogni” sono bere, mangiare ma anche
riprodursi.
Freud si ritrovò inoltre davanti all'idea della scienza come derivato della fisica, la disciplina cardine per
studiare qualsiasi aspetto del reale (Von Brucke) e che necessitava di un esperimento, di un'osservazione
sistematica e della ricerca empirica.

Le influenze. Freud dunque all'inizio dei suoi studi medici era destinato a diventare un bravo fisiologo e
neurologo, tuttavia accanto agli studi accademici, venne influenzato da altre prospettive, in particolare:
1. Dalle lezioni di Meynert, che riprendeva i principi di Herbart;
2. Dalla filosofia di Brentano;
3. Dagli studi di Piaget.
Meynert-Herbart. Freud cominció a frequentare le lezioni di Meynert presente in quegli anni all'Università
di Vienna. Meynert proponeva ai propri studenti la visione di Herbart, per cui sottolinea:
 La predominanza della psicologia sulla fisiologia e in particolar modo la differenza tra i fenomeni
psichici e quelli fisiologici;
 Teorizza l'esistenza delle “idee inconsce” o “piccole percezioni”, che non superano il livello di
coscienza e quindi non si manifestano;
 Evidenzia la necessità di misurare e quantificare scientificamente i fenomeni psichici (vedi meglio
prima).
Freud cominciò a capire che per spiegare il mondo psichico non è sufficiente lo studio del funzionamento dei
processi fisiologici. Questo concetto diventerà più chiaro quando Freud si recherà nelle cliniche psichiatriche
di Charcot e comincerà a studiare i meccanismi dell'isteria, patologia che determinava nelle pazienti il una
serie di disturbi di natura psicosomatica che tuttavia NON erano associati a danni di natura organica (sintomo
di conversione). Per esempio le pazienti isteriche soffrivano di paralisi a un braccio o a una gamba, senza che
fossero implicati danni al midollo, per cui neurologicamente era tutto perfetto, però ugualmente erano
paralizzate). Questo mette in evidenza come il parallelismo tra danno organico e danno psichico non bastava
più come spiegazione.
Brentano. Durante la formazione accademica, Freud comincia a dubitare del predominio della fisiologia e
viene influenzato dalle idee filosofiche di Brentano, autore della psicologia dell'atto, che assegnava un valore
maggiore ai processi mentali ed emozionali, dunque introduceva l'idea che esiste un mondo interno fatto di
pensieri e desideri. Secondo Brentano l'individuo percepisce il mondo perché vuole raggiungere uno scopo,
di conseguenza ciò significa che i processi mentali hanno un ruolo rilevante nel muovere le azioni. La
disciplina che può studiare questo mondo interno è proprio la psicologia che NON deve occuparsi solo dello
studio dell'anima ma anche delle rappresentazioni, dei giudizi e dei moti dell'animo. Questo è importante per
capire perché poi Freud proponga un modello dinamico di funzionamento della psiche umana.
Janet. La vera e propria esperienza che porta Freud a maturare le sue idee (oltre a frequentare le cliniche
psichiatriche di Charcot e Breuer) fu anche la conoscenza di Pierre Janet.
Quest'ultimo era uno psichiatra che per primo ipotizzò che il trauma che i pazienti vivevano, era determinato
da eventi passati che non erano stati ben elaborati, dunque questi traumi infantili secondo Janet realmente
accaduti (secondo Freud invece sia accaduti, ma a volte anche fantasticati), potevano essere la causa del trauma
attuale del paziente (le idee inconsce di Meynert quindi secondo Janet potrebbero derivare esperienze di vita
passate). Janet pensava che i traumi infantili, per necessità di sopravvivenza, dovessero essere tenuti sotto il
livello di coscienza.
Nel volume L'automatisme Psychologique del 1889, Janet studia fenomeni di automatismo totale o parziale:

 Dell’automatismo totale, fanno parte feonomeni quali:


 il sonnambulismo, che porta il soggetto a vivere inconsciamente il sogno che sta facendo
 la catalessia, situazione in cui il soggetto improvvisamente si addormenta. Queste
situazioni sono di perdita totale della coscienza.
 Dell’automatismo parziale, fanno parte fenomeni quali distrazioni, pensieri dirompenti che portano
il soggetto ad agire in un determinato modo (come ad esempio le ossessioni).
Secondo lo studioso, in quei momenti i soggetti, che agiscono in modo automatico senza rendersene conto,
sperimentano una condizione di dissociazione tra la loro vita attuale e la vita passata: tutte le esperienze
archiviate nella loro memoria e non direttamente accessibili alla coscienza, in quanto dolorose, vengono
riattivate. I processi automatici accadono sotto il livello della coscienza. La mente attua questo meccanismo di
dissociazione quando è sopraffatta dal ricordo di un evento traumatico, per allontanare l'affetto e il ricordo
associato al trauma. La mente deve proteggersi perché se il ricordo apparisse nel pieno della sua potenza
traumatica, genererebbe nel soggetto un grandissimo dolore difficile da tollerare nuovamente.
In realtà però, dato che il trauma è stato vissuto, rimane sempre sotto il livello di coscienza, per cui può
riemergere trasformato anche sotto forma di incubi, flashback o sogni.
Janet è colui che ha studiato i disturbi dissociativi associati al disturbo post-traumatico da stress: quando
i soggetti vivono un trauma molto forte, come nel caso di violenze fisiche o psicologiche, è possibile che
soffrono di attacchi di panico, momenti in cui perdono completamente la coscienza e sperimentano una
situazione di dolore che genera una condizione generale di paralisi delle loro azioni, per cui non respirano e
non riescono a muoversi sperimentano dunque.

Gli studi sull’isteria. Freud scopre insieme a Breur che esiste un'origine ideogena dell'isteria, ciò significa
che l’isteria è un processo causale di origine psichica, mentale e non somatica. Freud e Breuer sono stati i
primi a dire che l'isteria, come disturbo da conversione, NON è legata ad una alterazione fisiologica del sistema
nervoso centrale, ma è legata esclusivamente a una causa psichica del mondo interno del soggetto. Infatti
Freud studiando le pazienti isteriche e il modo in cui queste ultime raccontavano i loro traumi sotto ipnosi,
notò come esse riuscivano a eliminare i loro sintomi.

Il caso di Anna O.
Freud era rimasto molto colpito dagli studi di Charcot circa la suggestione ipnotica. Una volta tornato a
Vienna, cominciò a lavorare con Breur su una paziente, ritenuta la figura più enigmatica e curiosa della storia
della psicologia. Conosciuta sotto lo pseudonimo di Anna O, Bertha Pappenheim fu una paziente di Breuer,
trattata con ipnosi in quanto soffriva di vari sintomi isterici. Al caso si interessò anche Freud, e da questo
interesse derivò lo stimolo per la nascente psicoanalisi.
Chi era Anna O? Berta nella vita è stata una scrittrice e giornalista austriaca, promotrice dell'associazionismo
femminile in Germania già all'inizio del 900. Breuer, il più famoso medico tedesco esperto nell'ambito
dell'ipnosi clinica, era anche esperto in materia di isteria, una malattia ritenuta esclusiva delle donne; si
supponeva erroneamente che fingessero di avere problemi fisici per attirare l'attenzione, ma Breuer e Freud
invece non credevano che esse fingessero.
I FASE-La fase di incubazione latente. Anna O era descritta come una signorina per bene e raffinatamente
educata, che purtroppo però conduceva una vita monotona in famiglia per cui si rifugiava in sogni ad occhi
aperti. Nel luglio del 1880, dopo qualche mese che il padre si era ammalato gravemente, ella cominciò a soffrire
di alcuni sintomi che nel loro complesso divennero piuttosto invalidanti. Nei primi mesi della malattia del
padre, la giovane si dedicò con sacrificio al malato, di conseguenza trascurando se stessa andò incontro a un
progressivo deperimento che sfociò in una grave anemia.
Per l'aggravarsi di questi problemi fu costretta ad abbandonare le cure del padre e fu proprio in questa
circostanza che Anna incontrò per la prima volta Breuer. Quest'ultimo dopo aver visitato la paziente, si rese
conto che la tosse che la accompagnava da mesi era un chiaro sintomo nervoso, e considerati gli altri numerosi
sintomi intervenuti, decise di curarla tramite ipnosi. Breuer chiamò questa prima fase della malattia fase di
incubazione latente.
II FASE-La fase della psicosi manifesta. Tra il dicembre del 1880 e l'aprile del 1881 vi fu invece la seconda
fase, cioè la fase della psicosi manifesta, durante la quale la paziente soffriva di paralisi, contratture, disturbi
della vista e disorganizzazione del linguaggio (parlava in una sorta di gergo grammaticale) e la sua personalità
si era scissa in due parti:
una persona normale cosciente e triste;
una persona morbosa volgare e agitata.
Inoltre a volte aveva anche allucinazioni di serpenti neri. Durante tale periodo Breuer la visitò frequentemente
e la curò con ipnosi. Durante l'ipnosi, Anna raccontava i suoi sogni più recenti ad occhi aperti e sembrava stare
meglio; la stessa paziente chiamò questa tecnica Talking Cure.
La morte del padre e il peggioramento. Dall'aprile a dicembre 1881, dopo la morte del padre i suoi sintomi
peggiorarono, infatti a marzo non riuscì più ad esprimersi nella lingua madre, ma soltanto in inglese, così venne
trasferita in una clinica privata di Vienna, dove Breuer andava a farle visita ogni 3-4 giorni e dove la paziente
gli raccontava le sue allucinazioni. A questo punto le due personalità si erano nettamente distinte e Breuer
riusciva a far passare la paziente dall'una all'altra presentandole un'arancia.
L’applicazione di un nuovo metodo. Sotto indicazione di Freud, un esperimento venne condotto per la prima
volta da Breuer sulla malata: l'applicazione del cosiddetto “metodo catartico”. Quest'ultimo consisteva nel
visitare la paziente di sera, ponendola sotto ipnosi e inducendola a raccontare tutti i pensieri che avevano
occupato la sua mente dall'ultima visita del medico.
L’anticipazione del fenomeno del “transfert”. In seguito a questa nuova modalità di relazione, il rapporto
tra Anna e il medico si fece sempre più intenso e ogni volta che quest'ultimo era costretto ad allontanarsi per
qualche giorno, tutti i progressi che la paziente aveva fatto con le precedenti sedute sembravano svanire, infatti
ella diventava irrequieta agitata e intrattabile. Il caso divenne impossibile da trattare a causa del presentarsi del
fenomeno, che successivamente Freud avrebbe indicato come “transfert”, a causa del quale Anna aveva
cominciato a provare sentimenti d'amore per il medico.
L’impossibilità di bere. Uno dei sintomi più strani per Anna fu l'impossibilità di deglutire acqua. Anna
raccontò in una delle sedute che da piccola aveva visto il cane della governante bere da un bicchiere della
cucina, che ovviamente veniva usato in famiglia, e aveva provato molto ribrezzo per la scena, ma essendo una
signorina per bene, non aveva detto nulla. La cosa strana è che dopo avere raccontato sotto ipnosi questa
esperienza, Anna tornò inspiegabilmente a bere acqua.
Breuer e Freud. Alla fine Breuer e Freud raggiungono alla stessa conclusione di Charcot, parlando per quanto
riguarda il funzionamento dell'isteria di “abreazione”, cioè la scarica emozionale attraverso cui un soggetto si
libera di un trauma antico i cui termini essenziali sono rimasti inconsci. L'ipnosi comporta aspetti negativi che
derivano da un trauma, che è avvenuto in uno stato alterato: non potendo quindi reagire al trauma, lo stato
eccitativo non può essere limitato dalla coscienza.
Da questo momento in poi Freud e Breuer si dividono poiché ognuno ha un'idea differente:
 Breuer pensava che la cura dovesse consistere soltanto nell' ipnosi, in grado di far scaricare
all'individuo, l'affetto negativo in eccesso;
 Freud riteneva che non fosse determinante il fatto di essere suggestionabile ad aiutare il paziente a
guarire, ma ciò che più importante notare è che il contenuto affettivo negativo dell'evento è in conflitto
con la maggior parte delle idee e dei sentimenti predominanti del paziente. Dunque la cura consiste
nel permettere al paziente di ricordare l'evento traumatico in modo che si riattivi lo stesso affetto per
poi poterlo scaricare.
Freud e il metodo catartico. Freud a questo punto concentra la sua attenzione sugli eventi della storia del
paziente, convinto che quest'ultimo conosca ciò che effettivamente ha avuto importanza patologica e comincia
quindi a coinvolgerlo attivamente nella ricerca del sintomo utilizzando il metodo catartico. Freud quindi non
userà più lo stato sonnambolico e si limiterà ad esercitare una leggera pressione sulla tempia del paziente
rilassato, affermando che i ricordi cercati si sarebbero presentati spontaneamente sotto forma di immagine o
pensiero.
I meccanismi di difesa. Per Freud è sempre più evidente che si tratta di una dimenticanza motivata, infatti
la difficoltà che il paziente incontra nel far riaffiorare ricordi penosi, indica la presenza di un meccanismo
costantemente attivo che impedisce il riemergere del ricordo stesso. I meccanismi di difesa elencati da Freud
circa l'isteria sono:
 La rimozione, processo inconscio che consente di escludere dalla coscienza determinate
rappresentazioni, connesse a pulsioni il cui soddisfacimento è in contrasto con la realtà;
 La conversione, meccanismo di difesa automatico ed involontario, attraverso il quale un conflitto
psichico viene tradotto in sintomo somatico.
Con Freud e Breuer la malattia mentale comincia quindi ad acquisire una vera e propria dignità in ambito
scientifico. Gli studi di Freud e Breuer dunque, portarono ad affermare che il trauma infantile vissuto da
Anna O deriva dalla malattia del padre a causa della quale lei non aveva potuto soddisfare le sue ambizioni
legittime. Infatti bisogna mettere in evidenza come il caso di Anna O si sviluppi a fine Ottocento, un contesto
socio culturale, nel quale era normale che le brave bambine/signorine si comportassero bene e si prendessero
cura dei genitori, qualora ne avessero bisogno e non potessero dedicarsi ai propri sogni e obiettivi.
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RISPOSTE UTILI DELLA PROF.
Qual è la differenza tra isteria e nevrosi? Isteria e nevrosi non sono la stessa cosa:

 L'isteria è un disturbo specifico;


 La nevrosi è un termine generale che ingloba più disturbi.
I soggetti isterici mantengono il grado di realtà, per cui sono in grado di discriminare mondo interno e mondo
esterno, cosa che invece non accade nelle psicosi, dove i soggetti per essere definiti “psicotici” non hanno la
capacità di distinguere i due mondi, infatti vivono uno stato alterato di coscienza nel quale hanno perso.
L'isteria non è una psicosi, perché per esempio nel caso di Anna O, la paziente era consapevole delle cause che
l'avevano portata ad agire in un determinato modo.
Non esiste l'isteria di massa: Nello scritto Psicologia delle masse e analisi dell'io, studia alcuni meccanismi
che portano le masse ad assumere determinati comportamenti: è come se si venisse a creare una sorta di
modello di condivisione generale, in virtù del quale l'io del singolo non viene più tenuto in considerazione.
Per esempio è più facile che scattino dei comportamenti violenti o omofobi nelle masse piuttosto che da soli.
Anna O aveva un disturbo dissociativo di personalità? È molto importante sottolineare che nonostante Anna
soffrisse di questa scissione della personalità, ancora non si può definire con esattezza che lei possedeva un
disturbo dissociativo di personalità, perché in realtà quest'ultimo indica una condizione ben diversa dall’isteria
che affliggeva Anna. Tuttavia l'isteria per come si presentava a Freud e Breuer presentava dei disturbi
dissociativi, per come li aveva descritti Janet, quindi nel senso che le pazienti non erano esattamente coscienti
e consapevoli in quel momento, e di conseguenza sembravano essere dissociate. Nel caso di Anna O, la
paziente alternava momenti in cui era cosciente a momenti in cui invece soffriva di un'alterazione del grado
di realtà, tanto che sembrava addirittura delirare, e talvolta soffriva anche di sonnambulismo o altri disturbi
del sonno.
Anna O era bipolare? Il caso di Anna non può essere indicato neppure come bipolarismo, infatti il disturbo
bipolare alterna stati depressivi con disturbi maniacali.
Anna O era una paziente isterica che soffriva di disturbo da conversione.
Perché l’isteria era associata più alle donne? L'isteria, da “υστεροσ” che significa proprio utero, veniva
associata principalmente alle donne perché erano presenti forti differenze di genere in quel periodo storico (ci
troviamo in Inghilterra in piena età vittoriana, età che poi si ripercuoteva in tutto Europa). Le donne dovevano
inibire la loro sessualità, le loro aspirazioni e addirittura le donne più provocanti erano considerate delle civette
La repressione della propria sessualità o delle proprie emozioni era più frequente nelle donne. A causa della
repressione della libido, capitava addirittura che le donne durante questi momenti isterici imitavano gli atti
sessuali. Gli uomini avevano la possibilità di seguire le loro aspirazioni, ma poteva capitare che essi
presentassero casi di depressione o di ossessione compulsiva.
Il metodo catartico. Il metodo catartico deve il suo termine alla catarsi aristotelica, una tecnica utilizzata
durante la tragedia greca. E’ un metodo che si fonda su un principio di funzionamento idraulico della nostra
psiche. È un metodo nel quale la paziente, sotto ipnosi, comincia a raccontare a voce il trauma che aveva subito
o il ricordo del trauma: narrando il ricordo, la paziente racconta il suo vissuto, le sue emozioni, i propri pensieri
e si liberava dai sintomi psicosomatici.
Esempio→Immaginiamo un lavandino funzionante e uno che invece si ingorga.
Il lavandino è la nostra psiche;
L’acqua che fluisce dal lavandino rappresenta la dinamica dei nostri bisogni, delle nostre pulsioni, del
rapporto con il mondo esterno.
Quando il lavandino funziona bene, alla sua apertura non vi è nessun problema in quanto il funzionamento
intrapsichico è perfetto e non crea ostruzioni.
Quando invece il lavandino si intasa, significa che qualcosa blocca il passaggio fluido dell'acqua, la quale
continua a depositarsi, per cui crea pressione. L’intasamento del lavandino coincide con il trauma psichico:
quando il soggetto vive una situazione traumatica che non viene sfogata, l’energia psichica interna rimane
bloccata non riesce ad uscire e crea di conseguenza un conflitto.
La catarsi è la liberazione del lavandino che fa fluire l'acqua (cioè l'energia) ed elimina l'ostruzione causata
dal trauma: in questo modo viene meno anche il disturbo somatico.
Il transfert. Il transfert è un altro dei capisaldi dello studio psicoanalitico, perché finisce col diventare il
metodo attraverso cui il terapeuta e il soggetto entrano in interazione. Il meccanismo del transfert determina
che il terapeuta diventi il soggetto nel quale il paziente trasferisce il proprio trauma (nel caso di Anna O ad
esempio il terapeuta finisce con il diventare il padre) di conseguenza quando il soggetto riesce a rielaborare il
trauma, attraverso la figura dello psicoterapeuta, riesce a superare il trauma e la terapia.
Il metodo catartico presupponeva quindi che il rapporto tra paziente e terapeuta divenisse davvero molto
intenso e forte. Questo fenomeno del transfert infatti determinò l'apertura di un grosso dibattito, in virtù del
quale si cominciò a riflettere sull'etica della relazione tra paziente e psicoterapeuta. Il rapporto tra questi ultimi
diventava davvero troppo intenso e intimo, come ad esempio nel caso di Jung, che una delle sue pazienti finì
con il diventare la propria amante. È corretto infatti che tra medico e paziente non ci debba essere nessuna
relazione se non di tipo professionale.
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La frequenza della cattedra di Charcot. La frequenza della cattedra di Charcot a Parigi nel 1885 aveva fatto
venire l'idea a Freud che l’isteria poteva essere curata con l’ipnosi, proprio come faceva Charcot. Durante
lo stato ipnotico (stato di alterazione della coscienza), la paziente raccontava il trauma che aveva vissuto e si
liberava dai sintomi. Tuttavia Freud si rese conto che non appena la paziente non era più sotto ipnosi, poco
dopo, il sintomo si ripresentava; così lo psicoanalista capisce che tale metodo non era risolutivo della malattia
psichica e dell'isteria in particolare.
Gli studi con Breuer sul metodo catartico. Gli studi con Breuer (1886-1894) sul metodo catartico
influenzarono ulteriormente le idee freudiane. Breuer usava il metodo catartico, in base al quale la paziente,
posta sotto ipnosi, veniva sollecitata a ricordare ed era libera di raccontare il trauma che stava vivendo; ancora
una volta Freud si rende conto però che il sintomo spariva soltanto quando la paziente era sotto ipnosi e poi si
ripresentava, di conseguenza lo psicoanalista supererà anche il metodo catartico, perché non è sufficiente
raccontare il trauma ma bisogna rielaborarlo.
→Freud a questo punto comincia a sostenere l'idea che il sintomo era un disturbo isterico da conversione: il
sintomo si originava di fronte al trauma che il soggetto stava vivendo. Dato che non vi era nessuna scarica
emotivo-affettiva immediata/adeguata e l'energia rimaneva incapsulata nella mente del soggetto, tale energia
confluiva nel sintomo (per esempio nell'impossibilità di bere).

 N.B. Il sintomo organico è l’esito del trauma psichico: in questo momento Freud pensa che si tratta di
un trauma vero e reale, successivamente gli studi legati ad altri casi clinici, lo porteranno a pensare
che il trauma non sempre è reale, ma a volte può essere che vi siano relazione fantasmatiche, processi
di rielaborazione mentale del soggetto).
→Quando si risolve il sintomo?→ Il sintomo quindi si risolve quando c'è la scarica catartica: l'energia
dall'inconscio arriva alla consapevolezza/coscienza e la paziente finalmente se ne libera.
→Anna O conió il termine della cosiddetta “tecnica dello spazzacamino”, infatti a quel tempi parlando di
“intasamento” era facile ricondursi ai camini, e quindi alla figura dello spazzcamini che andava a pulire ed
eliminare l'ostruzione della canna fumaria in modo tale che il fumo potesse circolare liberamente.
→I limiti del metodo catartico. Freud si accorge che il metodo catartico è limitante perché:

 Si crea dipendenza del paziente rispetto al terapeuta, in quanto il paziente non poteva ricordare se non
sotto ipnosi.
 Non tutti i soggetti sono suggestionabili e non tutti possono essere ipnotizzati, infatti alcuni resistono
all'ipnosi.
Questo significa che l'ipnosi non era una tecnica valida per tutti, invece Freud voleva una tecnica che potesse
essere applicata in maniere risolutiva per tutti gli individui.

Il distacco da Breuer e le nuove elaborazioni di Freud. A questo punto avviene la crisi con Breuer,
anche perché nella concezione freudiana diventa preponderante l'idea della libido, intesa come energia psichica
legata alla sfera sessuale. Il distacco da Breuer avviene tra il 1895 e 1900, periodo in cui Freud comincia a
scrivere L'interpretazione dei sogni.Dopo il distacco da Breuer, Freud:
Comincia a sperimentare la tecnica delle libere associazioni: il soggetto viene invitato a distendersi in
una posizione confortevole e resta cosciente, libero di parlare raccontare tutto (anche i sogni), senza
alcuna censura. Attraverso lo studio del materiale onirico, Freud comprende che esiste un mondo
psichico inconscio che ogni tanto emerge e si presenta alla coscienza in maniera velata (sotto forma di
lapsus, dimenticanze, moti di spirito, etc.), perché se si presentasse con tutta la sua energia psichica il
soggetto ne sarebbe devastato.
P.S. Nello scritto Psicopatologia della vita quotidiana, Freud mette in evidenza proprio come i piccoli lapsus
e le dimenticanze sono legati a dei traumi, sebbene il soggetto non presenti un disagio psichico vero e proprio.
Ad esempio se ci troviamo a dover affrontare un colloquio di lavoro al quale non vogliamo andare, può capitare
o di dimenticare l'appuntamento oppure di non trovare le chiavi della macchina.
Studiando i meccanismi dell'inconscio, del preconscio e della coscienza, arriverà ad elaborare il
modello strutturale in base al quale la psiche viene divisa in Es-Io-Super Io (arriva alla I topica con
la metafora dell’iceberg).
Considera il sogno come un espediente che la nostra mente utilizza per appagare un desiderio
allucinatorio. Nell'Interpretazione dei sogni Freud dirà che quando si sognano i treni in corsa, significa
che in quel momento il soggetto sta facendo emergere il desiderio/ la paura inconscio/a di perdere i
genitori, in questo caso la visione del treno è frutto della rielaborazione del materiale onirico.
 Il bambino nella fase compresa tra i 3 e i 5 anni vive il complesso edipico (complesso di
Elettra nel caso della bambina) che lo porta a desiderare la morte del padre per unirsi con
la madre; ma dato che desiderare ciò va oltre la morale e l’etica, può capitare di sognare
un treno in corsa: in questo senso il sogno del treno diventa un modo per esplicitare un
desiderio poco etico.

L’inconscio. A questo punto Freud arriva a teorizzare l'inconscio come in qualche modo aveva già fatto
Herbart. L’inconscio è una parte importante e preponderante nel regolare e governare i nostri comportamenti.
→Tutti gli individui (sani, normali, patologici...) posseggono l'inconscio, il preconscio e il conscio (ovvero
le istanze che lui chiamerà ES, IO, e SUPER-IO). Gli individui “normali”, “sani”, rispetto a quelli con malattie
mentali, “folli”, non presentano una differenza qualitativa, perché tutti abbiamo inconscio, ma secondo Freud
la differenza sarà quantitativa, rispetto alla quantità di energia psichica incapsulata dentro il nostro mondo
psichico, che entra in conflitto con le richieste ambientali o con le richieste del nostro stesso mondo psichico.
→Ritorna l'idea darwinista, infatti Freud sottolinea che l’azione umana è governata da istinti, impulsi, pulsioni,
quindi da una serie di bisogni, che hanno origine nella nostra parte istintiva, primordiale: l’Es è il magazzino
dove sono concentrati i nostri istinti ereditati, impulsi di origine biologica, come il soddisfacimento sessuale
per riprodurre la specie (l'atto sessuale non è legato solo a un piacere personale, ma è un vero e proprio bisogno
biologico).
→Quando i nostri istinti creano una situazione di conflitto tra i bisogni personali e le regole della società
(conflitto principio di piacere e principio di realtà) si genera una situazione di ingorgo psichico interno
che può:

 sfociare nella nevrosi se il soggetto mantiene il principio di realtà, quindi può snodarsi in un polo di
maggiore “normalità”;
 sfociare in psicosi se viene il principio di realtà, quindi può sondarsi in un polo più disgregante dove
il soggetto è in balia del proprio mondo fantasmatico.
Quando vi è un equilibrio tra i conflitti intrapsichici e i conflitti interpsichici (tra l'ambiente interno ed esterno),
l’individuo riesce serenamente a soddisfare in maniera adeguata i propri bisogni personali, di conseguenza
vive in una condizione di normalità per cui l’organismo si trova in un equilibrio omeostatico. In queste
circostanze la motivazione (che è un agire tensio-riduttivo) spinge l’individuo a mettere in atto i comportamenti
per soddisfare i bisogni e di conseguenza ridurre la tensione che vive a causa del bisogno stesso.
P.S. Questa idea del mondo pulsionale porterà Freud a rielaborare le fasi dello sviluppo psicosessuale, per
cui il soddisfacimento nasce in particolari zone a seconda delle tre fasi di sviluppo. Le idee a poco a poco
assumono una concezione più organica.
Il merito, da un punto di vista storico, è quello di aver sistematizzato il concetto di inconscio e quello di aver
avviato un movimento che segue un paradigma di interpretazione del mondo psichico interno legato a un
approccio psicodinamico.
La terza mortificazione al narcisismo dell’umanità. Nell’Introduzione alla psicoanalisi (1915-1917) Freud
propone la cosiddetta metafora dell'iceberg, e afferma che il modello della psicoanalisi rappresenta la terza
mortificazione al narcisismo dell'umanità.
1. La prima mortificazione è data dagli studi di Copernico, che hanno dimostrato che non è il sole a
ruotare attorno alla Terra ma il contrario, di conseguenza l'uomo non è più al centro dell'universo.
2. La seconda mortificazione l’ha data Darwin, che con i suoi studi ha mostrato che l'uomo non è un
essere superiore, ma è soltanto il prodotto dell'evoluzione della specie sapiens, e quindi deriva dalle
scimmie (gli uomini sonosolo l'esito di un progressivo adattamento ambientale).
3. La terza mortificazione l’ha causata Freu, perchè sfata il determinismo razionalista che affonda le
sue radici nell'antica Grecia, infatti già i greci parlavano dell'abilità razionale dell'uomo. Freud mette
in evidenza come l'uomo NON sia governato dalla ragione o dal libero arbitrio, quindi dalla possibilità
di compiere delle scelte libere, perché in realtà l'uomo è governato da forze inconsce incontrollabili
che determinano tutte le sue scelte e tutta la sua esistenza.
 Freud quindi pone la sua teoria come una rivoluzione, infatti da un lato gli si deve il merito di aver puntato
l'attenzione alla parte inconscia e irrazionale dell'individuo, dall’altro lato però questa concezione che sia
l'inconscio a padroneggiare su di noi, pone l'individuo in gabbia e non lo fa più sentire libero di agire,
perché tutte le scelte dipendono dal modo in cui Es Io e Super Io si relazionano a vicenda.
N.B. Gli psicologi della terza via sono coloro che si opporranno alla psicoanalisi che ingabbia tutto nel mondo
interno psichico e al comportamentismo che riduce tutto al comportamento, quindi alll'agire oggettivo hic et
nunc.

LEZIONE 20/10/2020.
La prima topica: la metafora dell’iceberg.
La metafora dell'iceberg serve a Freud per esplicitare meglio la sua concezione dei processi psichici interni
che caratterizzano l'essere umano. La visione dinamica dei rapporti tra le forze intrapsichiche che
caratterizzano l'individuo si può esprimere con questa metafora:

 Conscio→la nostra coscienza (la nostra consapevolezza), cioè i nostri processi consci, è soltanto una
piccola parte del nostro grande e immenso mondo interno, infatti rappresenta nella metafora la punta
dell’iceberg;
 Preconscio→ il preconscio è quella parte dell'iceberg intermedia che riusciamo in un certo senso a
immaginare e percepire e si trova si trova proprio sotto il livello del mare, quindi sotto il livello
conscio.
 Inconscio→ la parte più maestosa dell'iceberg è chiaramente quella che si trova più in profondità e
coincide proprio con il nostro inconscio.
I contenuti delle tre parti del nostro mondo psichico.
I contenuti della parte conscia→ Sono le percezioni e i pensieri. Di questi ultimi erano già consapevoli gli
strutturalisti, i quali dovendo individuare i contenuti della psiche parlavano di sensazioni e immagini. Freud
quindi da questo punto di vista si allinea con la visione dell'epoca, secondo cui ciò che possiamo osservare,
dunque i contenuti espliciti delle nostre azioni, sono le percezioni e i pensieri. Tuttavia i comportamentisti
avranno da ridire perché in realtà potremmo osservare solo i comportamenti.
I contenuti invece della parte preconscia→ sono i ricordi e la conoscenza immagazzinata, quindi tutta la
parte di esperienze relative alla nostra infanzia, alla nostra viva.

 Quando studieremo la memoria vedremo che esiste una parte di memoria semantica, relativa alle
conoscenze che noi abbiamo del mondo e una parte di memoria autobiografica, legata ai nostri
personali eventi di vita. Effettivamente questi contenuti possono emergere, infatti quando Freud
utilizza la tecnica psicoanalitica parte proprio dai ricordi del soggetto, in quanto i ricordi sono ciò che
mette in connessione l'inconscio (il nostro mondo interno più profondo), con il nostro conscio.
I contenuti della parte invece sommersa→ in questa prima concezione topologica (“topologica” significa
che fa riferimento a una strutturazione per luoghi→luogo emerso, luogo preconscio, lungo inconscio) sono le
nostre paure recondite, i desideri sessuali inaccettabili, le nostre esigenze immorali, i pensieri irrazionali,
i bisogni: tutta questa parte rappresenta l'urgenza della nostra azione.

La seconda topica: Es-Io-Super-io.


Freud successivamente arriva all’elaborazione della seconda topica, che prevede la suddivisione della psiche
in:
 Es (1)
 Io (2)
 Super-io (3).

L’es è l'istanza inconscia di cui l'individuo non ha


piena consapevolezza. L’io e il Super-io sono due
istanze che hanno una parte di consapevolezza e una
parte di non consapevolezza, in quanto sono
componenti che possono essere sia consce che
preconsce, ma anche inconsce.
L’es (1). L’es è la sede dei bisogni, degli impulsi, degli istinti e segue il principio di piacere. Va sempre
tenuto a mente l'origine biologica della formazione freudiana: Freud era un medico, influenzato anche dalla
matrice darwinista, quindi sapeva perfettamente che il nostro corpo, da un punto di vista fisiologico funziona
per soddisfare i nostri bisogni. Per questo motivo l’es è vista come la parte più ancestrale del nostro
funzionamento e comprende tutti quei comportamenti che gli individui mettono in atto per la sopravvivenza.
→Secondo questa concezione anche la sessualità (libido) va sempre intesa in chiave adattiva, legata al
progresso della specie. Questa visione chiaramente si allontana dai pregiudizi della società dell'epoca, per cui
anche l'autoerotismo che era condannato come una pratica nefasta sia per gli uomini che per le donne.
All'interno della concezione freudiana questo concetto viene sicuramente ridimensionato: l’autoerotismo NON
è un atto legato soltanto a provare piacere (Principio di piacere!!), al soddisfacimento e al benessere sessuale,
ma l’autoerotismo è la possibilità fisiologica che la libido posso scaricare. Ricordiamo sempre la metafora
del lavandino che si ingorga: affinché ci possa essere un funzionamento sano dell'individuo, dunque affinché
non si creino traumi o ingorghi, é necessario che la pulsione si scarichi (si verrà a creare la psicologia delle
relazioni oggettuali, perché per scaricare questa pulsione è necessaria la presenza di un oggetto di
soddisfacimento).
 È chiaro che è l'individuo deve essere in grado di posticipare la soddisfazione della pulsione. Molte
volte la capacità dell'individuo di posticipare la gratificazione del piacere è regolata sia da condizioni
oggettive della realtà esterna, ma anche dalle norme e dalle condizioni sociali. Ciò significa che l’es
spinge costantemente per il soddisfacimento delle pulsioni, in quanto obbedisce al principio di piacere,
ma viene regolato dal Io dal Super-io.
L’Io (2). L’io invece è quella parte di noi che deve tenere a bada le pulsioni dell’Es. L'io riesce a svolgere la
sua funzione applicando il principio di realtà, in base al quale considera le condizioni fattive dell'ambiente e
delle circostanze reali, impedendo all’Es di realizzare costantemente tutte le pulsioni che non sempre possono
essere conseguite nella realtà. In questa dinamica delle tre istanze, l’Io si trova schiacciato dalle pulsioni
dell’es, dalle regole del Super-io, ma anche dalla realtà esterna: l'Io deve costantemente lottare tra le stanze
intrapsichiche e contestualmente anche con la realtà. In virtù della funzione che deve svolgere, l'io deve essere
maggiormente rafforzato durante la terapia: nelle nevrosi, ma anche nelle psicosi, il principio di realtà viene
completamente perso a causa del principio di piacere che padroneggia; di conseguenza la terapia deve aiutare
a recuperare e rafforzare questo io in modo tale che sia in grado di svolgere la propria funzione.
Il Super-io (3). Il Super-io è un'istanza ancora più sovraordinata rispetto all'io, in parte anche inconscia, legata
alle regole etiche e morali che l'individuo interiorizza nel corso della sua esistenza. Il super io nello sviluppo
psico-sessuale dell'individuo, comincia a formarsi all'età di 3 anni quando si cerca di risolvere il complesso
edipico. Il super io ha due componenti distinte:

 La componente della coscienza, che va intesa in termini di “proibizione”, cioè il fatto che l'individuo
è consapevole dell'esistenza di alcune azioni che non vanno compiute, perché vanno contro la morale
in base alla quale siamo cresciuti; morale tipica della nostra famiglia e del macro contesto socio-
culturale.
 Esempio→ L'incesto nella cultura occidentale non è contemplato, sia per un motivo etico, ma
anche per un motivo fisiologico in quanto la consanguineità non porta a un miglioramento
della specie, ma ad un suo indebolimento. In altre culture invece l’incesto è concepito.
 La componente ideale, cioè le nostre aspirazioni, i nostri ideali, i desideri verso i quali tendiamo.
Il Super-Io può essere paragonato a una sorta di “genitore interno”, in quanto le prime figure che ci indicano
cosa è giusto e cosa è sbagliato fare, sono proprio i genitori (questo paragone si può fare soltanto per la
componente della coscienza).
P.S. L'articolazione della psiche in queste tre istanze è molto complessa, però mette in evidenza l'importanza
di analizzare i contenuti inconsci, che essendo la maggior parte dell'iceberg, necessitano di una tecnica per
essere analizzati.
Processo primario e secondario. Tra l’Es e l’Io avviene c’è un interscambio, in quanto essi lavorano insieme,
applicando rispettivamente il processo primario e il processo secondario, l’uno strettamente legato all’altro.
Processo primario→ L’es che segue l'istinto e ha bisogno di una gratificazione immediata segue il processo
primario: immaginiamo un bambino piccolo che ha fame e che piange perché vuole soddisfare il suo bisogno,
quindi vuole il seno della madre, che però in quel momento non c'è. Dato che il bambino NON può soddisfare
il suo bisogno, l’Es attua il progetto primario, secondo il quale porta la mente ad immaginarsi in modo
inconscio l'appagamento del desiderio. È proprio in questo modo che nasce l'inconscio, dato che l’Es non può
realizzare realmente il suo bisogno, crea un'immagine inconscia per scaricare la pulsione e appagare il
desiderio. In questo modo il bisogno diventa desiderio infatti, il primo è una componente più fisiologica, il
secondo invece più psicologica. Chiaramente il bambino non andrà a soddisfare con pienezza il suo bisogno,
ma la pulsione verrà repressa e creerà un minimo ingorgo, perché il bambino rimarrà sempre insoddisfatto.
Processo secondario→ L’Io invece opera il processo secondario: quando arriva la mamma e finalmente il
bambino può soddisfare il suo bisogno, l’Io entra in gioco e fa in modo che il bambino consapevolmente associ
l'immagine inconscia del seno con l'oggetto reale. Quindi l’Io con il processo secondario permette alla mente
di associare l’immagine inconscia del desiderio con l’oggetto vero e reale.
Quindi l’Es, che deve obbligatoriamente scaricare la sua pulsione, crea il desiderio portando l'individuo a
realizzare un minimo di conflitto, in quanto è costretto a mettere da parte quel desiderio; dall'altro lato l'Io
attua il processo inverso consentendo una associazione reale. È chiaro che l'Io e l'Es lavorano in tandem, in
quanto il bambino prima di desiderare il seno della madre, deve averne fatto esperienza e deve aver acquisito
la consapevolezza che il seno è associato al soddisfacimento l'istinto della fame.
N.B. La differenza quindi tra la prima e la seconda topica è che nella prima vi è soltanto l'individuazione dei
concetti di conscio, preconscio e inconscio, mentre la seconda da un'idea più specifica di cosa siano le istanze
e di come agiscono.

Teoria e pratica clinica. La grande rivoluzione che Freud inserisce nell'ambito della psicologia è proprio
quella dell'inconscio, la cui scoperta avvenne in stretta connessione con lo studio dei casi clinici, infatti la
psicoanalisi (come abbiamo già detto) è sia un approccio teorico, ma anche una vera e propria tecnica di cura:
dunque in Freud, teoria psicoanalitica e pratica clinica (osservazione empirica) vanno di pari passo,
coesistono, si accrescono e si intrecciano a vicenda.
L’interpretazione dei contenuti inconsci→Il mondo psichico è sotteso alle leggi dell’inconscio, che però
non è solo una forza biologica e istintuale, ma un mondo dotato di significato, che si manifesta, grazie
all'intermediazione del Io e del Super-Io, secondo una certa logica: ci accorgiamo dell'esistenza dell'inconscio
anche grazie allo studio degli atti mancati, dei lapsus, ma anche dei sogni. L'inconscio quindi si presenta
all'osservatore, che in questo caso è il clinico, come un insieme di fenomeni in “codice” che vanno interpretati
(se ovviamente si è consapevoli dei processi che ci sono alla base, per come Freud li teorizza).
I contenuti inconsci si creano perché l'Es non può immediatamente soddisfare le sue istanze istintuali, di
conseguenza reprimendo queste ultime, si crea una sorta di ingorgo che determina una situazione di conflitto,
che a sua volta genera un disagio emotivo per cui l'individuo si sente insoddisfatto e frustato. Questa
frustrazione determina una situazione di conflitto che aumenta l'energia interna e fa strabordare l'acqua del
lavandini otturato. I contenuti inconsci vanno interpretati perché non possono emergere con la tutta la loro
forza, in quanto il soggetto ne sarebbe devastato: ecco perché la pratica clinica è basata sull'interpretazione
(non a caso il saggio freudiano si chiama proprio L’interpretazione dei sogni). È necessario quindi che il
clinico sia abituato a capire quali sono i contenuti inconsci e i meccanismi per studiarli, motivo per cui Freud
fonda la scuola psicoanalitica. Il clinico deve sapere inserire, cioè risalire, secondo un processo induttivo, ai
contenuti inconsci tramite ciò che l'individuo dice, fa e come lo fa.

Il mondo fantasmatico interno. La pratica clinica è basata quindi sul rapporto tra il terapeuta e il
soggetto, laddove il primo deve aiutare il secondo a prendere consapevolezza in maniera graduale (perché
altrimenti l'energia sarebbe troppo grave da gestire) dei contenuti inconsci. Il compito della terapia è quello di
far emergere il mondo fantasmatico interno.
La sessualità→Nel mondo fantasmatico interno (infantile) la sessualità non è soltanto la gratificazione
immediata, ma è anche la capacità di incanalare l'energia psichica verso specifici oggetti che contribuiscono a
soddisfare la richiesta istintuale, infatti viene intesa come relazioni oggettuali che il bambino instaura con le
figure di riferimento: dagli 0 a 6 anni il bambino passa per la fase orale, anale, fallica per poi approdare alla
fase genitale: ognuna di queste fasi è caratterizzata da un meccanismo tipico di relazione oggettuale tra la
libido e gli oggetti e le zone erogene. Una volta raggiunta la fase genitale l'individuo potrà vivere la sessualità
in modo normale per tutto il corso della sua esistenza. Tramite lo studio dello sviluppo psicosessuale Freud
approda alla definizione di “personalità sana” e soggetti che invece hanno “disturbi della personalità”.
N.B. Freud non può essere inteso come un vero e proprio psicologo della personalità.
La rimozione→I meccanismi di difesa sono quei meccanismi che l'Io mette in atto per riuscire a regolare le
pulsioni dell'Es. In particolar modo quando l’Es spinge per realizzare una pulsione che deve obbligatoriamente
posticipare, l’Io attua il processo della rimozione, un processo difensivo inconscio che allontana dalla
coscienza e rende inaccessibile ad essa pensieri, desideri, fantasie, ritenuti spiacevoli o pericolosi (vedi prima
Il curioso caso di Anna O, I meccanismi di difesa).

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Piccolo approfondimento sul termine “paziente”→Spesso si è riflettuto termine “paziente” che Freud utilizzava
per indicare i soggetti che curava. Uno degli esponenti degli psicologi della terza via, Rogers, riterrà che questo
termine non sia esattamente corretto. Tuttavia Freud essendo un medico adopera questo termine, proprio
perchè egli crea la psicoanalisi come una terapia di cura, quindi considera il paziente come un soggetto che
va curato, anche se si tratta di una cura psichica, basata su progetti psicologici e non su farmaci.
Lo psicologo non può prescrivere farmaci, lo psicologo-psicoterapeuta può soltanto consigliarli, ma poi spetta
allo psichiatra o al neurologo scriverli. Sarà poi Rogers a rovesciare questa prospettiva di natura organicistica,
infatti dirà che il soggetto non va considerato come paziente nell'ambito della psicoanalisi, ma va considerato
come un “cliente” (Rogers creerà una serie di approcci centrati sulla persona e terapie differenti che mettono
in evidenza un rapporto diverso tra psicologo e soggetto bisognoso di cure psicologiche).
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Il ruolo dell’analista. La tecnica psicoanalitica si basa sul rapporto tra analista e paziente, il quale deve
riappropriarsi delle proprie parti inconsce e rimosse grazie all'analista, che lo supporta e lo aiuta in questo
processo. In questo processo l'analista ha un ruolo direttivo in quanto deve fornire la propria interpretazione
dei sogni, di tutti gli elementi che emergono, quindi deve “dirigere il soggetto”. Inizialmente Freud non voleva
che il ruolo dell'analista fosse direttivo, ma come diranno gli psicologi della terza via, finisce poi per esserlo
perché dal momento in cui è il terapeuta che deve interpretare e aiutare il paziente è ovvio che gli sta fornendo
la propria visione del conflitto e della situazione che il paziente sta vivendo.
Il paziente, nel rapporto che instaura con l’analista, si riappropria dunque delle parti dimenticate (rimosse e
inconsce) che però continuano ad agire in lui. Il soggetto paradossalmente scopre che lui è l’unico depositario
di una conoscenza che non sapeva di possedere, ovvero scopre in lui stesso la natura e i processi del suo
malessere. L’analista aiuta il soggetto in questo processo di scoperta, utilizzando i materiali da lui stesso forniti.
Freud per spiegare il ruolo dell'analista utilizza la metafora dell'archeologo: come l'archeologo parte dalle
tracce per riuscire a ricostruire i luoghi, i corpi, tutti gli elementi trovati, così l'analista deve partire dalle tracce
che l'inconscio lascia nei sogni, negli atti mancati, nei lapsus, nei ricordi, che il soggetto di sua spontanea
volontà racconta e a partire da quelli deve operare un processo di ricostruzione, dunque deve aiutare il
paziente a capire quali sono i contenuti inconsci e rimossi.

Il transfert. Nel rapporto tra psicoterapeuta e paziente, è fondamentale il fenomeno del transfert. Questo
meccanismo si basa sulla possibilità che il soggetto ha, all'interno della terapia, di trasferire sull'analista tutti i
suoi stati affettivi (positivi e negativi) che ha vissuto nell’infanzia e che ne condizionano la vita adulta.
Secondo Freud l'intera personalità dell'individuo si forma tra i 0 e i 6 anni, quindi quando qualcosa non va
nella vita adulta, bisogna scavare nel passato dell'individuo e quindi ripescare gli ingorghi infantili vissuti per
rielaborarli, reinterpretarli e riuscire ad aiutare il paziente.
Durante la situazione analitica, si registra il ripetersi o riattivarsi di antiche situazioni emotivo-affettive
dell’infanzia: la relazione terapeutica non è facile, perché ricostruire il passato è molto doloroso, conflittuale
e l'individuo per poter riappropriarsi dei contenuti inconsci deve rielaborare, quindi rivivere quei traumi
attraverso il terapeuta, sul quale trasferisce tutte le dinamiche conflittuali, che aveva vissuto nella vita
passata.
 Nelle pazienti isteriche si realizzava il transfert seduttivo, perché erano esse rimaste fissate
(meccanismo della fissazione) durante la fase fallica del loro sviluppo psicosessuale, e non avevano
risolto il conflitto edipico; di conseguenza la seduzione nasce dal fatto che la donna riattiva le
dinamiche infantili che l'avevano portata a desiderare il padre, e inizia a vedere l'analista come
quest'ultimo e a desiderarlo.
Il rapporto tra analista e paziente deve essere assolutamente gestito dallo psicoterapeuta, altrimenti può sfociare
in delle situazioni scabrose che porterebbero i due individui a instaurare un rapporto amoroso che non deve
assolutamente esserci: lo psicoterapeuta deve essere consapevole e deve avere controllo della dinamica che
emerge durante il setting terapeutico.
Il terapeuta non è una figura passiva, infatti come il paziente ha un transfert, lo psicoterapeuta avrà un
controtransfert nei confronti del soggetto. Lo psicologo diventa quindi una figura fondamentale perché
proprio la base della cura del paziente risiede nella relazione che si instaura tra queste due figure, che entrando
in relazione vivono delle dinamiche simili, che devono essere adeguatamente gestite durante la terapia.
L'analisi del transfert e del controtransfert consente di recuperare ciò che è stato dimenticato e risolvere i
sintomi (idee fisse, ansie, paure) che esprimevano ciò che era stato rimosso, perché attraverso la riattivazione,
le parti rimosse riemergono alla coscienza, e il paziente può finalmente appropriarsene e superarle.
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Il trauma è sempre di origine infantile? All'inizio della sua elaborazione Freud ritiene che i sintomi derivano
principalmente da traumi infantili. Successivamente procedendo con ulteriore analisi Freud contempla la
possibilità che ci siano anche dei traumi vissuti nella vita adulta, ma la spiegazione che lui dà di questi traumi
attuali è sempre legata al passato: Freud dice che il trauma della vita adulta si ripresenta, perché il soggetto
tende a mettere nuovamente in pratica le stesse dinamiche disfunzionali della sua vita infantile. Inizia così un
meccanismo tipico chiamato coazione a ripetere in base a quale l'individuo nella vita adulta tende a riprodurre
in maniera coattiva, inconscia, le stesse dinamiche disfunzionali che caratterizzavano la sua vita da bambino.
Ad esempio se il soggetto ha avuto durante l'infanzia un rapporto problematico con il padre, potrà riproporre
queste stesse dinamiche conflittuali nella relazione coniugale attuale.
Inoltre…Freud in una prima fase appunto pensava che il trauma fosse reale, quindi che fosse realmente
accaduto nel periodo infantile, successivamente però penserà che il trauma ma non sempre sia realmente
accaduto, ma a volte si tratta di interpretazioni che il paziente può aver avuto circa un determinato rapporto.

La tecnica psicoanalitica.
 La tecnica psicoanalitica è una tecnica esplorativa con scopi terapeutici, ma diventa anche un modello
interpretativo teorico-della vita psichica.
 La tecnica psicoanalitica è chiamata anche psicologia del profondo, proprio perché mette in evidenza
come la maggior parte della natura della psiche sia recondita, inconscia, profonda (iceberg). La
psicoanalisi infatti si contrappone a tutti i modelli teorici che identificano la psiche solo con la
coscienza, motivo per cui non studia quest'ultima ma tutti i processi inconsci e inconsapevoli, in parole
povere studia l’inconscio, cioè l'insieme di significati, vissuti e pensieri che il soggetto porta dentro
di sé e che ne condiziona la condotta.
 Essa si fonda sulla dialettica tra inconscio e coscienza, e interpreta la coscienza alla luce dei rapporti
conflittuali che intrattiene con l’inconscio.

L’interpretazione dei sogni. Nel 1899 scrive L’interpretazione dei sogni dove esplicita sia la tecnica
psicoanalitica e l’analisi dei sogni. Freud dice che i sogni (ma anche i pensieri, i ricordi) del soggetto sono
apparentemente sconnessi, ma in realtà sono contenuti emergenti dell'inconscio, e sono tutti anelli di una
catena che consente al soggetto di riappropriarsi dei significati, dei valori e dei desideri che gli appartengono
(e che per qualche motivo ha rimosso).
→I sogni vanno raccontati durante la seduta psicoanalitica attraverso la tecnica delle associazioni libere, in
virtù della quale il soggetto deve rilassarsi e sentirsi libero di parlare rinunciando a qualsiasi censura, proprio
perché è attraverso la narrazione che l'inconscio si può manifestare. La scena onirica è generata da una forza
inconscia interna, creata dai desideri rimossi durante la veglia, dunque è chiaro che nel sogno vi sono i
contenuti inconsci, che devono essere rielaborati.
→Il sogno si avvale dei cosiddetti residui diurni, cioè tutte quelle situazioni che quotidianamente accadono al
soggetto e che in qualche modo rappresentano il canovaccio della scena onirica che va rielaborata in tutte le
sue componenti (personaggi, luoghi, relazioni). Durante il sogno si attiva il lavoro onirico, grazie al quale i
pensieri onirici latenti sono trasformati on contenuti accettabili alla coscienza. Tutti i contenuti quotidiani, i
ricordi delle esperienze che il soggetto compie subiscono il processo di elaborazione secondaria che
determinare la “trama” del sogno: tutte le scene che vediamo durante il sogno sono frutto di questa
elaborazione inconscia che porta l'inconscio a manifestarsi.
RIASSUMENDO→I capisaldi di Freud e della psicoanalisi sono:
 Analisi dei sogni;
 Metodo delle associazioni libere;
 Sessualità infantile (da non intendere come gratificazione o soddisfacimento del piacere, Ma va Intesa
come la libido, cioè la nostra energia, si snoda nell'arco dell'esistenza);
 Transfert e controtransfert;
 Complesso Edipico;
 Pulsioni di vita e di morte;
 Topiche;
 Principio piacere/realtà.

L’evoluzione della psicoanalisi.


La psicoanalisi diventa scuola tra il 1900 e il 1910 perché vi sono degli eventi specifici che portano
Freud alla fondazione della Società Psicoanalitica di Vienna.
Nel 1908 viene fatto il Primo Congresso Internazionale di Psicoanalisi a Salisburgo;
Nel 1910 avviene la fondazione dell'Associazione Psicoanalitica Internazionale al Secondo
Congresso Internazionale di Psicoanalisi a Norimberga.
→A questo punto la psicoanalisi diventa un'associazione, alla quale cominciano ad aderire diversi esponenti:
sono famose le riunioni del mercoledì durante le quali i membri che vivevano in quelle zone si confrontavano
rispetto ai casi clinici che di volta in volta seguivano. Dentro la società psicoanalitica i membri avevano anche
dei “ruoli di supervisione”; inizialmente era Freud a supervisionare i casi dei suoi allievi e faceva determinate
osservazioni e dava i propri consigli.
Di conseguenza si crearono una serie di lavori di altri autori che via via cominciarono a staccarsi dall'ortodossia
del movimento psicoanalitico e fondarono delle idee diverse rispetto a quelle freudiane:

 Sono particolari gli scambi epistolari con Jung e Adler;


 La prospettiva elaborata da Melanie Klein;
 Jung creerà la propria psicologia individuale;
 Reich creerà la scuola reichiana,
 Lacan fonderà la scuola lacaniana.
OGGI→ La psicoanalisi ebbe una grandissima diffusione, e tutt'oggi questo movimento raccoglie studiosi e
analisti fedeli ai dettami freudiani.
Tuttavia oggi abbiamo anche una netta predominanza delle neuroscienze cognitive che hanno consentito di
scoprire il funzionamento del nostro cervello tramite tecniche nuove basate sull'osservazione in vivo
dell'attivazione delle aree corticali. Il metodo delle neuroscienze cognitive purtroppo finisce per essere
riduttivo, perché psicopatologia clinica tende a spiegazioni organiciste e meccaniciste e la psicoanalisi nasce
proprio per superare queste visione meccanicistica e per dare dignità alla relazione, ai processi psichici.
Massimo Recalcati, un esponente delle neuroscienze cognitive, spiega perché marginalizzazione della
psicoanalisi sulla base dei seguenti punti:
 Il tempo lungo del pensiero è sostituito dalla tendenza all’agire;
 Il potere dello psicofarmaco, come risoluzione immediata del problema;
 Il predominio delle terapie cognitivo-comportamentali, più in linea con i tempi;
 Lo scarso investimento nella formazione anche universitaria;
 Il predominio della valutazione “scientista”.

LEZIONI 26-27/10/2020.

IL COMPORTAMENTISMO.
Il comportamento osservabile. Il comportamentismo si contrappone alla visione psicoanalitica e
intrapsichica proposta dal modello freudiano perché a differenza di Freud, i comportamentisti sono mossi da
un'esigenza legata alla necessità di potere studiare i fenomeni psichici solo ed esclusivamente attraverso
l'osservazione del cosiddetto comportamento osservabile. La motivazione di partenza è sempre quella di
assegnare dignità scientifica alla psicologia come disciplina, quindi individuare i criteri che consentono di
definire questa nuova disciplina come scienza. Mossi da questa esigenza epistemologica, i comportamentisti
ritengono che ciò che può essere studiato, osservato e misurato dell'essere umano è il comportamento
osservabile, cioè le manifestazioni che possono essere viste.
La “psiche” come oggetto di indagine coincide con i contenuti psicologici (apprendimento, emozioni,
abitudini) che devono essere studiati attraverso i loro comportamenti osservabili, che sono:

 Comportamenti emotivi,
 Comportamenti abitudinari
 Comportamenti di apprendimento.
I comportamentisti dunque si concentrano solo sugli elementi che si possono direttamente osservare, per cui
rifiutano persino lo studio della coscienza, per cui tutti i contenuti del mondo intrapsichico coscienti e
inconsci di cui avevano parlato gli strutturalisti e Freud, non sono secondo loro studiabili.
L’aspirazione del comportamentismo è collocare la psicologia all’interno delle scienze naturali, dandone una
dignità scientifica, per cui la peculiarità del comportamentista è quindi quella di diventare un vero e proprio
scienziato del comportamento, che studia in maniera scientifica senza alcuna possibilità di farsi influenzare
in questo studio da teorie o modelli legati alla definizione dell'anima, della psiche.

Gli esponenti nordamericani. Gli esponenti sono molti:


 John Watson, che è il caposcuola;
 Tolman;
 Hull;
 Skinner;
 Bandura, ecc.
Si tratta per lo più di psicologi nordamericani, che usano il metodo sperimentale, e solo dopo gli anni ‘50 del
secolo scorso sono conosciuti fuori dagli USA.

La nascita ufficiale del comportamentismo. La psicologia del comportamentismo nasce agli inizi del
900 in America, in particolare nel 1913 quando Watson pubblica l'articolo “La psicologia come la vede un
comportamentista”. Il comportamentismo si sviluppa inizialmente nel Nord America, perché il modello
comportamentista incarna le famose idee legate al pragmatismo, cioè la possibilità che la psicologia studi dei
fenomeni concreti, visibili, e il cui studio possa avere delle specifiche ricadute applicative. Questo movimento
nasce in concomitanza alle scoperte freudiane e nasce in America dove già i funzionalisti si erano molto
concentrati sui meccanismi di apprendimento.
P.S. La prospettiva comportamentista si espande poi fino al 1950 e un po' oltre, ma poi diffondendosi la
prospettiva cognitivista che in parte ingloba il comportamentismo, fa sì che quest’ultimo arrivi fino ai nostri
giorni, infatti oggi ci sono delle scuole di psicoterapia di matrice cognitivo-comportamentale; le terapie
comportamentali vengono utilizzate nell'ambito dei disturbi della condotta in chiave di psicologia infantile,
oppure nella gestione dei comportamenti problematici associati ad alcuni disturbi del neuro-sviluppo o della
disabilità intellettiva con bambini che soffrono di autismo, per cui è una prospettiva che è al pari del modello
psicoanalitico che prosegue ancora oggi.

La vita di Watson.
L’infanzia→ Watson, una sorta di “bad boy”, cresce in una zona povera e rurale della Carolina del Sud, in
periodo di pieno proibizionismo.
 Sua madre era una donna religiosa, ben integrata nella comunità protestante e che aderiva alle posizioni
proibizioniste riguardo al fumo, al ballo e al bere alcolici, di conseguenza impose al figlio una rigida
educazione, che divenne ateo.
 Suo padre era un alcolista che ebbe molti problemi con la legge e partecipò a diverse risse, cosa che
portò il giovane Watson sia a un peggioramento nel rendimento scolastico, sia ad aggredire dei propri
compagni di scuola neri e deridere l'insegnante. Il padre era solito tradire la moglie e, quando il figlio
aveva 13 anni, abbandonò la famiglia per andare a vivere con due donne indiane.
Provenendo da questa famiglia problematica, Watson serbò per il resto della vita rancore verso il padre e negli
anni dell'adolescenza, venne arrestato in due situazioni distinte, la prima volta per rissa e la seconda volta per
aver usato armi da fuoco in una zona urbana.
Gli studi accademici→Watson quindi cercò di sfuggire da questa situazione di disagio familiare e dalla
povertà, cosi la madre vendette la fattoria e si trasferì con il figlio a Greenville, cercando di dargli
un'educazione più consona. La madre dunque decise di far affiancare il figlio dal mentore Gordon Moore,
che lo induce alla passione per la psicologia, tanto da iscriversi all'Università di Furman. Qui emerge come
studente brillante, tanto che si laurea a soli 21 anni e nel 1900 ebbe la possibilità di trasferirsi e continuare gli
studi all'Università di Chicago, dove comincia ad appassionarsi alle ricerche conseguite nei laboratori e in
particolar modo si appassiona alla psicologia comparata e allo studio degli animali.
 P.S. Molti studi sul comportamento che partivano dalle associazioni stimolo-risposta guardavano allo
studio dei processi di apprendimento infantile, inoltre venivano effettuati tantissimi studi di psicologia
sperimentale con la psicologia comparata: per “psicologia comparata” si intende che si studiavano
gli animali da laboratorio e osservando i comportamenti degli animali, si facevano delle deduzioni
circa i comportamenti di specie superiori.
All'Università di Chicago ebbe come professori John Dewey, George Herbert Mead, e lo psicologo
funzionalista James Angell.
Il dottorato e l’inizio della carriera→Nel 1903 Watson ottiene il dottorato di ricerca in psicologia con una
tesi dal titolo Animal Education, che ricevette larghi consensi, tanto che gli venne proposto l'incarico di
assistente del dipartimento di filosofia guidato da Dewey.
Si sposa per interesse, perché la sua provenienza familiare non lo faceva brillare per risorse economiche, così
sposa Mary Icks, ricca moglie, e grazie al suo lavoro e al matrimonio pose fine alle difficoltà economiche che
aveva fino ad allora sofferto e comincia la sua carriera da scienziato. In questo periodo i funzionalisti
criticavano il metodo introspettivo degli strutturalisti, così anche Watson si accoda a questa critica, ma non si
espresse mai apertamente, se non durante dibattiti e congressi, temendo uno scontro frontale con professori
assai più accreditati di lui come Titchener e Angell.
Nel 1908 accettò l'incarico alla prestigiosa università Johns Hopkins di Baltimora, avvicinandosi
all’etologia. Studiò con Lashley il comportamento dei primati nel loro ambiente naturale e si interessò della
formazione dei bambini avvalendosi della collaborazione di uno psichiatra, A. Meyer.
L’articolo→Diviene direttore della Psychological review, nella quale nel 1913 pubblica il suo famoso articolo
La psicologia come la vede un comportamentista, sancendo ufficialmente la nascita del nuovo movimento.
In questo articolo muove una serie di critiche allo strutturalismo, attacca il metodo introspettivo e lo studio
della coscienza, in quanto riteneva che non fossero metodi oggettivi, poiché non studiavano il comportamento
osservabile e di conseguenza li accusava di mancanza di scientificità. Questo articolo gli fa ottenere molto
credito, tanto che nello stesso anno Watson viene invitato a tenere una serie di congressi alla Columbia
University di New York, dove espone le idee che già da tempo stava maturando.
Nel 1914 viene eletto presidente dell'American Psychological Association: ciò significa che il suo pensiero
trova terreno fertile nel panorama culturale, infatti affinché un pensiero diventi un modello di lettura generale
dei fenomeni psichici è necessario che trovi terreno fertile nel background sociale, antropologico, culturale nel
territorio in cui si sviluppa. Sempre nel 1914 pubblica “Behavior” dove parla dell'apprendimento in modo
comparato e approfondisce lo studio della riflesso condizionato (tema già affrontato in Russia da Pavlov).
La guerra e le pubblicità→Nel 1917, con l'entrata in guerra degli Stati Uniti, Watson diventa maggiore
dell'esercito americano: in questo suo nuovo ruolo ha modo di applicare i modelli teorici studiati, infatti elabora
i test di selezione delle truppe (Watson non studia l'intelligenza come faranno invece i successivi test di
selezione, in quanto ritiene che essa non possa essere studiabile, infatti ciò che a lui interessa è studiare il
comportamento osservabile). Si occupa anche delle tecniche persuasive, fondamentali per indirizzare
l'opinione pubblica in un momento come quello della guerra.
Viene coinvolto anche nello studio della propaganda pubblicitaria, in particolare nella preparazione di un
questionario, il cui scopo era verificare l'efficacia di una propaganda pubblicitaria per la prevenzione di
malattie veneree. Anche in questo caso, Watson si ritroverà ad applicare i principi e i modelli del
comportamentismo all'interno del marketing e della pubblicità, perché molto spesso i meccanismi
comportamentisti, legati all'apprendimento associativo, possono essere la base per spiegare i comportamenti
di acquisto, infatti sono proprio quei meccanismi che spingono il consumatore ad acquistare un determinato
prodotto piuttosto che un altro.
La storia d’amore clandestina e il declino→Tornato a Baltimora, Watson conosce Rosalie Rayner, allora
sua studentessa, e tra i due sboccia un'intensa storia d'amore clandestina: i due comunicavano tramite scambio
epistolare in modo discreto, tuttavia alcune lettere compromettenti arrivarono in mano al rettore della John
Hopkins University, e in seguito alla moglie di Watson, Mary. In virtù di questa grande motivazione
chiaramente Watson venne licenziato. Per amore di Rosalie (che nel 1920 sposa), divorzia dalla moglie,
abbandona la carriera universitaria e si trasferisce a New York dove vive un periodo di ristrettezze economiche.
In questo periodo di risorse economiche carenti, Watson accetta anche lavori poco consoni alla sua levatura
intellettuale, infatti viene chiamato ad organizzare un programma di promozione pubblicitaria per la catena
di centri commerciali Macy's (ancora oggi in attività negli USA).
 P.S. Ancora oggi alcune tecniche comportamentiste sono alla base di alcuni modelli comportamentali
del consumatore.
La Psychological Corporation→ Successivamente, assieme a psicologi tra i più accreditati del tempo come
Thorndike e Titchener (esponente strutturalismo, avevano idee diverse!!) fonda la Psychological
Corporation, il cui obiettivo era a studiare tecniche da impiegare nelle aziende per effettuare una selezione
accorta del personale, e per rendere più efficienti i dipendenti nel loro lavoro.
 N.B. L'American Psychological Corporation non è come la scuola freudiana o società
psicoanalitica, nella quale chi aveva idee differenti da quelle di Freud si distaccava e fondava un altro
movimento, ma era un'associazione fondata da studiosi differenti, che pur avendo visioni differenti,
fanno corporazione per scopi comuni Quest'associazione va pensata come una sorta di ordine (ordine
degli psicologi, degli ingegneri).Il modello comportamentista rappresentò il riscatto degli studiosi che
provenivano da piccole comunità americane, infatti Watson proveniva dalla Carolina del Sud, quindi
è come se fosse una sorta di rivalsa che aveva un approccio molto più pragmatico, in quanto fondato
sull'osservazione specifica del comportamento.
Nel 1947 Watson, ormai ricco e famoso grazie al successo in campo pubblicitario e saggistico, si ritira a vita
privata nella sua villa in campagna. Poco prima della sua morte avvenuta a New York nel 1958 a fianco di sua
moglie Rosalie, una delegazione dell'American Psychological Association si reca da lui conferendogli la
medaglia d'oro dell'ordine per il suo alto contributo alla ricerca in psicologia. Questa storta di riconoscimento
alla carriera gli conferisce una specie di dignità scientifica, affidandogli il prestigio che aveva ottenuto, in
quanto fondatore di un modello che ancora oggi ha credito all'interno dei paradigmi attuali.

L’influenza del funzionalismo. Nel periodo in cui Watson fonda la Psychological Corporation con
Titchner e studia i modelli diffusi nella società nord-americana, oltre che dallo strutturalismo viene influenzato
anche dal funzionalismo, dal quale trae maggiore ispirazione. Uno dei principi cardine del funzionalismo è
studiare il comportamento adattivo, cioè la capacità che l'individuo ha di mettere in atto azioni per modificare
l'ambiente nel quale vive (questo è chiaramente permeato dai principi darwinisti). Watson chiaramente sposa
in toto questa visione, per cui la sua intenzione era quella di studiare le azioni che gli individui compiono per
fronteggiare le richieste ambientali, di conseguenza le risposte che gli individui emettono di fronte a
determinati stimoli.

La psicologia animale comparata. Allo stesso tempo si comincia a sviluppare la psicologia animale
comparata sulla scia del darwinismo e quindi sull'idea che le specie condividono dei modelli di
comportamento simili ( basti pensare ad esempio al concetto di istinto, cioè la capacità di emettere delle
risposte riflesse anche da un punto di vista fisiologico) Funzionalisti e strutturalisti avevano già elaborato
queste concezioni, quindi a maggior ragione si cominciò a pensare che poiché non si potevano condurre tutti
gli esperimenti sugli esseri umani all'interno dei laboratori, si potevano effettuare invece cavie animali: così
Watson comincia a fare esperimenti sugli animali (i topi, con i piccioni, etc), ma successivamente anche su
cavie umane. Nasce così la psicologia sperimentale con cavie da laboratorio, perché era più facile identificare
dei comportamenti semplici che potevano essere osservati sugli animali, e che poi diventano l'unità di base di
comportamenti molto più complessi come quelli degli uomini.
N.B. Quando studieremo l'apprendimento (una delle funzioni adattive per eccellenza, come avevano detto
già i funzionalisti e poi i comportamentisti), capiremo che tutti gli studi e le conoscenze su come si può definire
la funzione cognitiva dell'apprendere, quindi il processamento degli stimoli ambientali, è praticamente l'aria
di indagine del comportamentismo.
La psicologia animale NON studia la coscienza→Watson ottiene un dottorato di ricerca, quindi realizza una
tesi dottorale occupandosi del comportamento animale e non della coscienza: lo studio della coscienza era
uno dei temi principali sia degli strutturalisti che dei funzionalisti, per cui Watson innesta una sorta di rottura
in quanto a lui non interessava sapere se l'animale fosse consapevole o meno del comportamento che sta
mettendo in atto (capire ciò infatti può avere senso per gli esseri umani, ma rintracciare un concetto di questa
tipologia negli animali è diverso), ma ciò che gli interessava studiare era come l'animale agiva per tratte
conclusioni circa i comportamenti più comuni e complessi.
Molti autori come anche Thorndike, Skinner, Tolman, utilizzano una serie di apparati sperimentali specifici
che consentivano di fare delle osservazioni:
 Thorndike inventa una sorta di labirinto a T, all'interno del quale mette dei topi e osservando come si
muovevano fa una serie di esperimenti per studiare i meccanismi del rinforzo e dell'apprendimento.
Thorndike faceva i suoi esperimenti da solo nel garage di casa sua, come una specie di salf made man,
dunque ritorna l'idea degli intellettuali americani pragmatici che non fanno ricerche nell'università
o nell'accademia, ma fanno scuola a sé a partire dalle loro idee. Thorndike elabora la legge dell’effetto
come legge comportamentale.
 Skinner inventa la “Skinner box”, una scatola particolare che conteneva una leva. All’interno della
skinner box pone un topolino che pigiando la leva faceva ottenere una pallina di cibo; così dalle
osservazioni di come il topo si muoveva nella scatolina traeva le sue conclusioni.
La differenza con la Gestalt. Anche la Gestalt osservava il comportamento animale (ad esempio Kolher
osserva il comportamento delle scimmie per risolvere il problema della banana legata in alto), tuttavia vi è una
profonda differenza tra gestaltisti e comportamentisti perché:
 I primi nello studio del comportamento volevano cogliere le proprietà gestaltiche, cioè la complessità
del comportamento (Kolher studierà il problem solving come una sorta di lampadina di Archimede,
cioè l'intuizione improvvisa che consente all'animale di ottenere la risposta e dunque di risolvere il
problema grazie al cambiamento degli elementi ambientali del proprio campo percettivo);
 I secondi invece segmentano il comportamento complesso per rintracciare le unità di base del
comportamento, tant'è che uno dei principi del comportamentismo è il cosiddetto molecolarismo
(l’atteggiamento molecolare serve per rintracciare la specifica unità di base di un composto, il quale è
infatti formati da più molecole).

La critica all’introspezione. Watson era spinto dall'idea che bisognasse studiare il comportamento per
come si manifesta e per come lo studioso lo osserva, in quanto solo in questo modo lo si può descrivere in
maniera oggettiva e scientifica. In virtù di quest’idea critica il metodo cardine dello strutturalismo che è
l'introspezione, poiché non è oggettiva né scientifica per due motivi:
1. Si fondava sull'auto-osservazione, per cui osservato e osservatore coincidono, di conseguenza
cambiando osservatore, si cambia l'oggetto stesso dell'osservazione.
 Esempio→ Immaginiamo che il mio oggetto osservato sia la coscienza; così chiedo a diversi
soggetti di riportarmi il loro resoconto sui processi coscienti che ciascuno di loro vive. A
questo punto, sorge una domanda: sto studiando la coscienza come concetto o sto studiando
la coscienza di quei soggetti? Quindi se osservato e osservatore coincidono, si perde di vista
la possibilità di rintracciare le caratteristiche di quel specifico fenomeno inteso come un
fenomeno generale, in quanto si va ad individuare la specificità di quel fenomeno per come
ogni soggetto lo riporta, dunque ogni volta l'oggetto dell'osservazione cambia.
2. I dati introspettivi (sensazioni, idee, etc) non possono essere visti da tutti, ma solo dal soggetto
interessato, per cui non sono oggettivi ma soggettivi. L’osservazione quindi era compiuta da una
persona che parlava di dati che non potevano essere visti da nessun’altro se non da essa stessa.
L'unica cosa oggettiva che gli strutturalisti utilizzavano erano i tempi di reazione, infatti il metodo
introspettivo altro non era che il resoconto sulle idee e sulle emozioni di ogni soggetto.
Il metodo introspettivo è importante, perché per primo ha consentito di cogliere il modo in cui il fenomeno si
presenta soggettivamente, per cui il valore del metodo introspettivo è quello di aver sottolineato che i
fenomeni psichici sono dei fenomeni che caratterizzano il soggetto in quanto tale. L’ introspezione era infatti
approdata a definire concetti come anima, volontà e nell’approccio di Titchener anche a definire la struttura
della coscienza, però da un punto di vista soggettivo.

Il comportamentismo watsoniano. Tra il 1913 e il 1940 si sviluppa il cosiddetto comportamentismo


watsoniano, un approccio radicale fortemente empirista (Quando studieremo personalità lo definiremo
“ambientalismo radicale”, come se tutta la nostra personalità dipendesse dalla esperienze ambientali che
facciamo e non dalla nostra componente genetica). Tuttavia all'interno degli scritti di Watson non vi è una
definizione sistematica/ sistemazione organica del comportamentismo: Watson descrive il comportamento
dandone diverse accezioni, ma sono poi gli studiosi successivi che studiando i suoi scritti e arrivano a definire
come Watson intendeva il comportamento. Watson quando parla del comportamento:
Rispetto alla matrice funzionalista lo vede come un processo di adattamento dell'individuo
all'ambiente, cioè il comportamento ingloba tutte quelle azioni che consentono all'individuo di
adattarsi al proprio ambiente;
Lo intende come un'azione specifica, cioè come una risposta che l'individuo emette di fronte a un
particolare stimolo (l'unità di base stimolo-risposta)
Inoltre in particolari circostanze, quando si riferirà allo studio del linguaggio e del pensiero, il
comportamento finisce quasi per coincidere con le nostre contrazioni muscolari. Watson dice che
impariamo a parlare in un determinato modo perché si creano le cosiddette “abitudini laringiche”. Ad
esempio i logopedisti basano il loro lavoro sulla capacità che l'individuo ha di articolare le lettere
utilizzando l'apparato fono-articolatorio; in effetti quando parliamo muoviamo la lingua in un
determinato modo producendo suoni differenti, per cui vi è anche la componente motoria che va
sempre considerata).
L’unità di analisi è però il comportamento inteso come “azione complessa manifestata dall’organismo”, non
singole reazioni fisiologiche.
Stimolo e Risposta→La definizione di comportamento proposta da Watson è molto complessa. Il
comportamento è complesso, per cui per studiarlo in modo scientifico applicando il metodo sperimentale,
occorre scomporlo (ecco il molecolarismo), quindi è necessario rintracciare le unità di base stimolo e risposta
e definire specificatamente le loro relazioni. Il comportamento, dopo essere stato scomposto, può essere inteso
come tutte le associazioni stimolo- risposta che noi facciamo di fronte all'ambiente, ovvero tutte quelle risposte
(variabili dipendenti) che mettiamo in atto al variare degli stimoli: il comportamento è un'unità molecolare
legata alla capacità di emettere specifiche risposte in relazione a determinati stimoli.

Il molecolarismo. Watson mette in evidenza che moduliamo le nostre azioni quando associamo gli stimoli
tra di loro: per esempio il cane, dopo essere stato addestrato a mangiare a un determinato orario, avvicinandosi
quest'ultimo, comincerà a scodinzolare o a salivare, facendo capire che è affamato, poiché esso ha compiuto
l'associazione tra un nostro particolare comportamento e il cibo.
Stimolo e risposta sono unità molecolari, infatti Watson dice: l'unità di base del comportamento è
l'associazione stimolo-risposta, per cui i comportamenti sono la combinazione di reazioni più semplici, che
seguono il meccanismo dell’associazione, che è basata a sua volta sui meccanismi di:
 Frequenza;
 Contiguità;
 Condizionamento.
Questo vuol dire che tanto più spesso (frequenza) o recentemente un'associazione S-R si è verificata con tanta
maggior probabilità si verificherà di nuovo (ad esempio tanto più spesso facciamo vedere la ciotola al cane,
associando la parola pappa, tanto più spesso il cane di fronte a quel determinato stimolo, emetterà la stessa
risposta). Il comportamentismo è basato sugli stimoli dell'associazione e della contingenza spazio-temporale,
legata alla presentazione di coppie di stimoli tra di loro.

Il principio del condizionamento. Il principio di base è il condizionamento, per cui il comportamentismo


parte dall'idea che gli organismi emettono delle risposte a seguito degli stimoli: se c'è uno stimolo, ci sarà per
forza di cose una risposta. Queste risposte Pavlov e Watson in tempi diversi le indicano come Risposte
Incondizionate, in quanto sono l'esito necessario dati gli stimoli, definiti a loro volta Stimoli Incondizionati.
Ciò dipende anche da un fattore biologico, ad esempio: se il soggetto è affamato, e riceve il cibo, la risposta
sarà la saliva, infatti vi è un importante collegamento tra corpo, comportamento, aspetti fisiologici e aspetti
dell'azione.
→L’esperimento di Pavlov. Per capire il principio del condizionamento vediamo l’esperimento di Pavlov, che
studiava i meccanismi salivari dei cani. Pavlov parte dal riflesso salivare e dice che quando faceva vedere il
cibo, cioè lo stimolo incondizionato, al cane, quest’ultimo emetteva la saliva, cioè la risposta
incondizionata. Così Pavlov decide di provare se era possibile condizionare l'emissione di saliva.
Pavlov inventa un esperimento e associa la vista del cibo al suono di un campanellino: lo stimolo
incondizionato, cioè il cibo, è associato al suono prodotto dal campanello, che è lo stimolo neutro, cioè
qualunque altro stimolo ambientale, che può generare una risposta incondizionata.
Pavlov fa vedere al cane insieme il cibo e il campanello, e quindi il cane salivava. Dopo una serie di
associazioni (frequenza e contiguità), in cui i due stimoli erano vicini e frequenti (quando addestriamo un cane
per fargli imparare dove fare la pipì gli facciamo vedere spesso il guinzaglio), raggiunge la conclusione che il
cane emette la risposta condizionata solo quando sente il campanello.
Ad un certo punto quindi viene eliminato lo stimolo incondizionato (il cibo) che originariamente era associato
alla saliva, e viene tenuto soltanto il campanellino (SN) che porterà ugualmente il cane a salivare: in questo
modo Pavlov ha condizionato il cane ad emettere la saliva e ha innescato contemporaneamente un processo
di apprendimento, perché il cane ha imparato ad emettere la saliva sentendo solo il campanellino.
In questo modo si crea il principio del condizionamento.
→L’esperimento di Watson sul piccolo Albert. Questo principio del condizionamento secondo Watson e i
comportamentisti è alla base di tutti i nostri apprendimenti, per cui noi associamo delle risposte a stimoli
ambientali che originariamente erano neutri e non erano associati a quelle risposte, dunque tutti i nostri
comportamenti li apprendiamo in questo modo (si vengono a creare le abitudini).
Addirittura secondo Watson si possono condizionare anche le emozioni. Egli studia ciò sperimentalmente,
applicando i principi del condizionamento in un bambino, il piccolo Albert, e arriva a condizionare in
quest’ultimo l’emozione della paura. In realtà oggi nel soggetto sperimentale non si deve provocare uno stato
di malessere, ma allora non vigevano queste regole.
Watson prende il bambino e lo fa interagire con alcuni animali tra cui un topolino, un coniglio, un cane e altri
animali e inizialmente il bambino era tranquillo e non aveva paura. Dopo questa prima fase di familiarizzazione
con gli animali, Watson associa all'interazione del bambino con gli animali, un rumore improvviso molto
forte. Questo rumore improvviso faceva spaventare il bambino, così questa continua associazione tra rumore
e animali, fa sì che il bambino non appena aveva vicini gli animali, con cui prima aveva giocato, scappava e
piange perché aveva paura: l'animale inizialmente era uno stimolo neutro, ma successivamente diventa uno
stimolo negativo che provoca paura perché associato al rumore.
In questo esperimento dunque il rumore del martello corrisponde allo stimolo neutro, mentre l’emozione
della paura corrisponde alla risposta condizionata.
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RISPOSTE UTILI DELLA PROF.
Il bambino ha avuto dei traumi? Sicuramente non è stato un esperimento corretto, che avrà avuto di certo delle
conseguenze sul bambino. A volte nella nostra quotidianità capita proprio questo: basta pensare a tutte le
persone che sviluppano delle condizioni di ansia a seguito di traumi o di incidenti stradali; oppure le persone
che hanno paura di nuotare perché da piccole stavano per affogare; o gli individui che hanno paura dei cani
perché durante la loro infanzia un cane li ha morsi. A volte ci sono quindi dei comportamenti che noi
apprendiamo per condizionamento ambientale; però ciò che è inquietante è il fatto che Watson ne fece un
esperimento prendendo un bambino che inizialmente non manifestava alcuna paura (Watson crea la paura
appositamente).
Il bambino era malato? Si dice che il bambino fosse affetto da una malattia e morì poi all'età di 5 anni, ma
questa non è una certezza e in ogni caso l'esperimento da un punto di vista etico e morale non andava bene
ugualmente.
La paura quindi cos’era per Watson? Ogni approccio della psicologia ha un proprio paradigma e dà una
propria spiegazione sui fenomeni psichici.
 Secondo la prospettiva comportamentista le fobie sono l’effetto del condizionamento, dell’esperienza;
 Uno psicanalista direbbe che non è assolutamente così, e direbbe invece che le fobie si sviluppano
perché l’individuo non ha risolto i propri conflitti edipici;
 Uno junghiano potrebbe dire che le paure sono l’esito dei nostri modelli archetipici legati all’inconscio
ollettivo.
Ogni concetto può essere quindi esplicitato in base a vari punti di vista, può avere quindi varie spiegazioni,
che possono essere tutte valide e legittime perché sono esito del paradigma che viene applicato. È normale che
ognuno seguirà un proprio modello a seconda delle proprie inclinazioni.
È possibile applicare il principio del condizionamento al contrario? Se si pensa che le fobie siano l’esito
dell’esperienza, così come: è possibile imparare a diventare fobici perché si associa la propria emozione
negativa alla vista di uno stimolo spiacevole, applicando lo stesso principio al contrario è possibile associare
una risposta positiva allo stimolo nocivo; in questo modo si innesca il contro-condizionamento
(condizionamento al positivo). Le terapie cognitivo-comportamentali si basano su questo metodo, infatti è
proprio così che i comportamentisti agiscono per superare le fobie.
Il cane fa ciò solo con il campanello? Il suono diventa uno stimolo associato ad una determinata risposta,
quindi si innesca poi un condizionamento che va sul canale sensoriale dell'udito, per cui sente il campanello
ed emette la saliva. Chiaramente il cane era stato addestrato a fare ciò con il campanello, ma al posto di esso
poteva essere usato qualsiasi altro stimolo, quindi se avessimo usato al posto del campanello, un guinzaglio,
sarebbe cambiata la natura dello stimolo che da uditivo sarebbe diventato visivo, ma il risultato sarebbe stato
uguale, infatti il cane avrebbe in ogni caso salivato.
Il condizionamento è alla base del marketing? Questi principi sono anche alla base del marketing, infatti vi
sono i modelli comportamentisti del consumatore, che spiegano perché scegliamo alcuni prodotti al posto di
altri: questo accade perché alcuni prodotti anche tramite le pubblicità sono associati a dei bisogni che abbiamo,
poiché si innesca un meccanismo associativo tra il marchio e un determinato oggetto che fa da testimonial
(personaggi famosi, la famiglia del mulino bianco, la balilla). Il meccanismo di base delle sponsorizzazioni è
proprio quello di condizionamento, di cui talvolta non siamo neppure consapevoli.
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RIASSUMENDO
Sempre seguendo l’esempio del cane…
La risposta incondizionata è la risposta che automaticamente viene emessa di fronte a uno stimolo altrettanto
incondizionato, per cui la risposta incondizionata è il riflesso fisiologico.
I Fase:

 Stimolo incondizionato= cibo


 Risposta incondizionata= saliva
La risposta condizionata è quella risposta che scatta dopo aver innescato l’apprendimento. Dopo che ho
associato più volte uno stimolo incondizionato (cibo) con qualsiasi stimolo neutro (campanello), quando faccio
vedere al cane solo il campanello (che diventa lo stimolo condizionato) si avrà una risposta condizionata
(saliva) emessa appunto quando il cane vede il campanello, per cui non è necessaria la vista del cibo. La saliva,
in origine incondizionata, diventa quindi condizionata da uno stimolo condizionato.
II fase:

 Risposta condizionata= saliva


 Stimolo neutro= campanello
 Stimolo neutro→stimolo condizionato= campanello
Il linguaggio. Gli stessi meccanismi di Watson vengono adoperati per spiegare una serie di comportamenti
come il linguaggio. I comportamentisti spiegano l'acquisizione del linguaggio con meccanismi associativi,
per cui i bambini acquisiscono le parole, perché di volta in volta specifiche parole, movimenti o addirittura le
abitudini laringiche (il modo in cui mettiamo la bocca o la lingua frequentemente per parlare) vengono
associate a determinati oggetti ambientali e di conseguenza imparano a parlare, incrementando il vocabolario.

Il ruolo dell’esperienza. La psicologia dell’epoca era influenzata dall’idea che i comportamenti erano
influenzati dagli istinti: per Freud la nostra vita era determinata dagli istinti, dalle pulsioni, dalle istanze del
mondo intrapsichico che governano l'azione umana.
Watson inizialmente accetta questa posizione, ma poi se ne distacca, infatti per i comportamentisti la nostra
esistenza è legata alle esperienze che abbiamo del mondo e ai condizionamenti a cui siamo sottoposti.
La “black box”→I comportamentisti spiegano qualunque processo cognitivo su base comportamentale,
tuttavia il comportamentismo radicale di Watson rifiuta qualunque processo psichico interno: secondo i
comportamentisti i processi mentali (la mente) non esistono nella misura in cui non possono essere studiati
sperimentalmente. La mente per i comportamentisti è una sorta di “black box”, cioè una scatola nera, per cui
ciò che lo psicologo può studiare/osservare è soltanto il comportamento legato all'esperienza/apprendimento,
dunque è come se tutta l'esistenza degli essere umani fosse plasmata dall'esperienza.
La personalità dipende sempre dall’esperienza→Per i comportamentisti la nostra personalità non è
determinata da alcuni tratti e i comportamenti non hanno nessuna base genetica, per cui possiamo nascere in
qualunque modo: l'individuo può avere i suoi tratti genetici, la sua personalità, le sue caratteristiche interne,
ma l'esperienza è più forte nella vita del soggetto, perché tutto si basa sui comportamenti che di volta in volta
apprendiamo. Watson diceva Watson con la sua famosa frase “datemi 10 bambini e ne posso fare quello che
voglio”, intendeva dire proprio questo: se Watson creava le condizioni tali per cui si “addestrano” i bambini,
tralasciando le loro inclinazioni, e decidendo cosa farne, allora sicuramente quei bambini diventeranno ciò che
lui decideva che diventassero.
Piccola nota. Questo principio venne assimilato dai regimi dittatoriali, per cui tutto il modello dei campi militari o di
rieducazione (soprattutto negli USA) segue questi concetti. I programmi di apprendimento sia sul condizionamento
classico che su quello operante modificano veramente il comportamento, per cui tale principio non è condannabile, ma
ciò che diventa tale è l'estremismo, dunque quando i principi vengono applicati in modo poco etico e morale. Ad esempio
io posso “addestrare”, “rieducare”, una persona ad abbandonare una dipendenza che la porta verso un'esperienza negativa,
ma posso anche “educarla” a mettere in atto comportamenti che la inducano alla guerra o alla violenza. Si tratta dunque
di un meccanismo molto forte sul quale bisogna vigilare.

N.B. Per fortuna i cognitivisti daranno molta enfasi alla mente, infatti cognizione diventa poi sinonimo di
mente. I cognitivisti metteranno in evidenza come la relazione non sia esattamente diretta, per cui gli individui
non sono totalmente passivi, ma al contrario hanno un ruolo attivo in virtù del quale possono decidere,
scegliere, rielaborare, pensare e di conseguenza non è così semplice prendere un individuo e “addestrarlo”.
Anche nei campi di rieducazione infatti vi sono stati ragazzini che si sono ribellati alla rieducazione, perché
per fortuna intervengono una serie di processi mentali che vanno a modulare la relazione stimolo-risposta.

Il neo-comportamentismo. L'idea che intervengano altre variabili nel


modulare stimolo e risposta è il passaggio successivo: nel periodo compreso tra il
1930 e il 1950, in cui si lascia un po' da parte il comportamentismo radicale di
Watson. In questo periodo altri autori cominciano a mettere in discussione la
relazione forte tra stimolo e risposta, e frappongono il neo-comportamentismo,
un approccio meno radicale, e propongono il modello S-O-R (stimolo, organismo,
risposta).
I neo-comportamentisti dicono che non è vero che i meccanismi di condizionamento non risentono di alcuna
variabile, che interviene a modulare questa relazione, ma in realtà al contrario vi sono una serie di variabili
che possono modulare la relazione stimolo-risposta. Secondo questa diversa prospettiva l’organismo è
l’insieme delle cosiddette variabili intervenienti o processi mentali interni, tuttavia questo non significa che
ammettono la mente, perché solo i cognitivisti le daranno piena dignità considerandola una struttura con
caratteristiche specifiche: gli autori infatti indicando queste variabili intervenienti, ma ancora non danno una
definizione della mente, per cui ammettono soltanto che vi sia qualche processo senza formalizzato.
 Tuttavia i neo-comportamentisti cominciano a dire che qualcosa cambia in questa relazione, per
esempio Tolman comincia a parlare delle mappe cognitive o del comportamento intenzionale;
 Hull dice che nella relazione stimolo-risposta intervengono anche le pulsioni, cioè i bisogni (il cane
quando deve imparare ad associare la saliva al cibo attraverso il campanello, deve essere affamato,
perché qualora fosse sazio, non comincia a salivare); Hebb;
 Miller;
 Dollard;
 Bandura, colui che si occuperà specificatamente degli esseri umani e parlerà dell'apprendimento
sociale.
Tolman. Tolman parte dal comportamento radicale (il quale crede che i nostri comportamenti siano frutto
delle nostre associazioni s-r), ma progressivamente se ne distacca accogliendo idee cognitiviste.
Tolman dice che se i comportamenti complessi vengono scomposti in unità semplici, alla fine non si analizza
il comportamento, ma la reazione fisiologica. Ad esempio, se si riduce all'essenziale l'esperimento di Pavlov,
in realtà si parla della reazione fisiologica della salivazione di fronte al cibo, per cui Tolman dice che ciò è
molto riduttivo, in quanto gli psicologici dovrebbero studiare lo “specifico psicologico”, cioè il
comportamento nella sua complessità che presenta delle qualità emergenti.
Facendo una serie di esperimenti, Tolman definisce questo comportamento come “comportamento
intenzionale”: lui dice che quando vogliamo mettere in atto un'azione, siamo mossi verso il raggiungimento
di uno scopo, per cui il comportamento non viene emesso in maniera passiva solo perché vediamo un
determinato stimolo, ma in maniera attivo perché vogliamo raggiungere uno scopo. (Tolman poi formalizza
questo modello proponendo le mappe cognitive, il comportamento latente).
Tolman si sofferma sugli scopi e introduce il concetto di “variabile interveniente” di tipo mentale. È possibile
rintracciare una vera e propria funzione matematica, per cui non vi è più il modello lineare che dato uno
stimolo viene emessa una risposta, ma la risposta diventa funzione dello stimolo, e in particolare diventa
funzione dell'interazione tra lo stimolo e la variabile interveniente.
R= f(I X S)
 R è la risposta;
 I è la variabile indipendente;
 S è lo stimolo;
La variabile interveniente può essere la pulsione, la mappa cognitiva, l'azione, ma formalmente non è ancora
la mente, dunque è soltanto una variabile che si frappone tra lo stimolo e la risposta.
N.B. Secondo Hull…Il fatto che il cane emetta la saliva è funzione non solo del cibo, ma anche del fatto che
è affamato, per cui la risposta è data dall'interazione tra lo stimolo e la pulsione, che in questo caso è la variabile
interveniente.
LEZIONE 2/11/2020.

IL COGNITIVISMO
Lo scenario degli anni '50. A partire dal concetto delle variabili intervenienti, comincia a diffondersi il
cognitivismo. Quest'ultimo è un modello epistemologico che si diffonde nella metà degli anni 50, “sulle ceneri
del comportamentismo”, in quanto lo scenario in cui si sviluppa era già contraddistinto da modelli consolidati,
infatti:
 Il comportamentismo continuava a predominare, tuttavia era un comportamentismo diverso da quello
radicale di Watson (1913-1930) dal momento in cui quest'ultimo era stato messo in crisi dagli stessi
esponenti, i quali avevano cominciato a introdurre il concetto delle variabili intervenienti, che
modificavano la relazione S-R.
 Lo strutturalismo alla morte di Wundt (Germania) e Tichener (USA) si era già estinto, ed era
ulteriormente soppiantato dal comportamentismo;
 Il Funzionalismo era stato assorbito anch'esso dal comportamentismo, il quale aveva infatti inglobato
i principi legati all'adattamento o all'importanza dell'apprendimento;
 La Gestalt, dopo la diffusione in Europa si estingue progressivamente soppiantata dalla psicoanalisi e
rimaneva soltanto negli USA con gli approcci di Lewin, legati alla teoria del campo (i gestaltisti si era
allontanati dallo studio dei fenomeni sociali).
 In Europa vi era la predominanza del modello psicoanalitico, della psicologia clinica, dunque degli
approcci terapeutici che in quel periodo venivano particolarmente utilizzati e allo stesso tempo una grande
diffusione del comportamentismo. Per questo motivo si evidenziava la contrapposizione tra la
psicoanalisi, che dava ampio spazio ai processi mentali inconsci e le terapie comportamentali, che si
basavano sui principi del condizionamento sistematico e che negavano l'esistenza dei processi mentali
(Ricorda che i comportamentisti pensavano che l'unica cosa studiabile fosse il comportamento/ le azioni
compiuti dagli individui);
 In Svizzera vi era Piaget, legato principalmente alla psicologia evolutiva, dunque allo studio dei modelli
della cognizione umana;
 Nei Paesi sovietici troviamo invece Pavlov e Vygotskij, il quale ebbe una grande contrapposizione con
Piaget circa lo studio del pensiero e della cognizione umana, etc.

Il cognitivismo come filiazione del comportamentismo. In questo scenario alquanto complesso


comincia a diffondersi il cognitivismo, che può essere veramente considerato come una sorta di filiazione del
comportamentismo: il cognitivismo infatti affonda le radici proprio nei comportamentisti che mettono in
discussione i loro stessi principi, concentrandosi sulle variabili interventi e rimodulando questo concetto al
quale conferiscono via via un'accezione sempre più mentale, abbandonando progressivamente lo studio
esclusivo del comportamento. Questo nuovo modello comincia a strutturarsi tra gli anni 40 e gli anni 50,
quando si sviluppa il cosiddetto Cento-Comportamentismo con Hebb.
N.B. Il comportamentismo poteva essere diviso infatti in 3 fasi:
1. FASE Anni 20-30 Comportamentismo radicale con Watson;
2. FASE Anni 30-40 Neo-comportamentismo con Skinner, Hull, Tolman che inseriscono il concetto di
variabili intervenienti;
3. FASE Anni 40-50 Ceno-comportamento con Hebb.

Hebb. Hebbe era un comportamentista, che per primo dà un'accezione completamente diversa al concetto di
variabili interventi. Per i neo-comportamentisti, le variabili intervenienti erano dei costrutti ipotetici, tuttavia
l'esperimento comportamentista talvolta non poteva essere spiegato neppure con gli stessi principi
comportamentisti. Ad esempio non sempre si poteva spiegare che il cane vedendo il cibo salivava, o dopo il
processo di apprendimento salivava vedendo il campanello, perché il cane non sempre salivava: se il cane non
era affammato non salivava, per cui se il bisogno della fame non persisteva, non era neppure motivato ad
apprendere l'associazione cibo-campanello.
I processi di mediazione→ Hebb invece dice che bisognava studiare i processi di mediazione, cioè delle
strutture interne, che lui assimila a degli “assembramenti neuronali”, che modificano e mediano la relazione
S-R. I processi di mediazione sono processi che consentono agli individui di non rispondere direttamente agli
stimoli presentati, ma che creando delle strutture interne al sistema nervoso, fanno sì che essi possano
comportarsi avendo a disposizione stimolo e risposta interni.
Gli assembramenti neuronali→Hebb dice che le variabili intervenienti non devono essere considerate come
strutture ipotetiche, ma come delle vere e proprie strutture interne presenti nel sistema nervoso. Si tratta infatti
di vere e proprie strutture neuronali (che lui le definisce assembramenti neuronali) da intendere più come
strutture logiche e NON fisiologiche che vanno a modificare il modo in cui lo stimolo e la risposta si
relazionano tra di loro. I neuroni si organizzano in questi “assembramenti neuronali” e formano circuiti
prefissati all'interno dei quali cercano le informazioni (alcuni innati, altri formatisi perfetto
dell'apprendimento).
Esempio cane→ Se il cane saliva e a volte non saliva, significa che ci deve essere per forza una struttura interna,
la quale potrebbe essere la motivazione. Quest'ultima è un circuito neuronale, all'interno del quale circolano
le informazioni relative allo stimolo e alla risposta, che si intrecciano tra di loro; di conseguenza è chiaro che
nel comportamento qualcosa si modifica.
L'anticipazione del software→ Siamo ancora in una fase embrionale del cognitivismo, il quale approderà a
una vera e propria metafora dell'uomo come elaboratore di informazioni. Hebb, tuttavia cominciando a
parlare di assembramenti neuorali, è come se cominciasse a indicare l'esistenza di una sorta di “software”
presente nella nostra mente. Se seguiamo questa metafora hardware-software, diciamo che il computer segue
un sistema binario, in virtù del quale tutte le informazioni che entrano nel pc (foto, video, testi) lo fanno sotto
forma di sequenza numerica, ma è necessario che vengano poi rielaborate dal software in informazioni che per
l'uomo abbiano senso (ad esempio il testo viene recepito come sequenza di 0 e 1, e viene poi rielaborato dal
software sotto forma di lettere che per l'uomo hanno senso e possono essere recepite).
Hebb ancora non li definisce come tali, ma questi processi di mediazione cominciano ad essere il nostro
software, costituiscono dunque una serie di sistemi neuronali all'interno dei quali circola l'informazione che
prendiamo dall'ambiente e che la nostra mente deve rielaborare per poi emettere la risposta. Le variabili
intervenienti non sono dei costrutti, ma sono proprio strutture logiche a cui bisogna dare dignità di esistenza
per spiegare il funzionamento dell'essere umano.
La memorizzazione→ Un esempio di questi assembramenti neuronali è riferibile alla memorizzazione, cioè
la capacità che la nostra mente ha di memorizzare le informazioni con le quali viene a contatto. Hebb dice che
la risposta che emettiamo di fronte a uno stimolo non è sempre immediata, ma talvolta ritarda proprio in
funzione dell'esperienza che abbiamo avuto precedentemente con la stessa classe di stimoli. La memoria
diventa una struttura neuronale interna, una vera e propria funzione cognitiva, che modifica la risposta di
fronte agli stimoli.
Esempio→ I cognitivisti hanno fatto molti esperimenti su processi diversi, tra i quali la memoria. Prendiamo
una serie di soggetti e presentiamo loro due classi di stimoli diversi:
 Una prima classe di stimoli che comprende le parole più frequenti nell'uso linguistico e le cosiddette
“parole a contenuto concreto”, le quali sono parole che possono essere immediatamente tradotte in
immagini (casa, palla, etc) e che ormai sono sedimentate nella mente e nella memoria;
 Una seconda classe di stimoli comprende invece parole meno frequenti e “a contenuto astratto”,
cioè non facilmente traducibili iconicamente (ad esempio se diciamo la parola giustizia, non si può
rappresentare in modo immediato con un'immagine come la parola casa, ma ognuno la rappresenterà
in modo diverso; alcuni potrebbero rappresentarla come il martello del giudice, altri bilancia). In
questo caso la codifica è più profonda e personale da parte della mente.
Di conseguenza si è notato che se si chiede ai soggetti di rispondere più velocemente possibile alle parole
presentate: essi saranno più veloci nel risponde a parole conoscono o che immediatamente sono traducibili in
immagini, saranno molto più lenti a rispondere a parole più astratte. Questa differenza nella risposta del
soggetto ci fa capire che sono intervenuti dei processi interni di mediazione che hanno rallentato o
velocizzato la risposta. Il rallentamento soprattutto nel caso delle parole astratte, è dovuto al processo di
memoria, legato al fatto che il soggetto deve andare a controllare in quale parte della sua mente è collocata
l'informazione che sta cercando (in particolar modo nella memoria a lungo termine).
N.B. I comportamentisti faranno tantissimi esperimenti legati all'apprendimento, invece i cognitivisti
studieranno le funzioni cognitive (la memoria, l'attenzione, il pensiero, il linguaggio, il ragionamento, etc),
dunque una serie di strutture mentali che è necessario analizzare per comprendere le risposte comportamentali
dei soggetti. Non è sufficiente studiare soltanto come l'individuo apprende, ma è necessario comprendere quali
altre funzioni intervengono a modificare il diverso livello di apprendimento del soggetto: è questo che porta a
superare il comportamentismo e a far emergere il cognitivismo.
Le sequenze di fase→ I comportamentisti arrivano a una sorta di modellistica, infatti Hebb dice che i diversi
assembramenti cellulari hanno una struttura sequenziale: gli assembramenti cellulari sono delle sequenze di
fase che spiegano l'esecuzione di comportamenti complessi, dati dall'insieme di comportamenti più semplici
La modellizzazione→ Hebb decreta quindi una rottura con il comportamentismo, elaborando i processi
psichici (gli assembramenti neuronali) come costrutti logici necessari per spiegare i comportamenti/ i processi
degli individui stessi. Inoltre Hebb comincia a elaborare anche una sorta di modellizzazione, in quanto è
possibile creare dei modelli che simulano il comportamento analizzato.
I flow chart ad esempio sono dei diagrammi di flusso, che hanno una serie di box logici, per cui dato un
processo se si sceglie SI accade qualcosa, se si sceglie NO accadrà qualcos'altro, quindi si va a modellizzare
il comportamento, creando una struttura logica che va da un input iniziale ad un outpot finale, infatti
l'informazione passa da una fase all'altra dell'elaborazione fino ad arrivare alla risposta finale.
Il substrato fisiologico→ È importante sottolineare che il peso che i cognitivisti danno al substrato fisiologico
è molto basso: essi ritengono che sia necessario postulare l'esistenza di un cervello (hardware) che consenta
alla mente di esercitare le proprie funzioni, tuttavia si concentrano maggiormente sullo studio dei processi
mentali e non del substrato fisiologico. Dunque quest'ultimo serve come un hardware all'interno del quale si
vanno ad innescare i processi mentali, ma ciò che a loro interessa sono questi ultimi.

I comportamentisti soggettivi. Sebbene tutti gli autori cominciano a nutrire dei dubbi circa il
comportamentismo, nessuno ha il coraggio di tirarsene fuori in modo oggettivo e fondare una nuova
prospettiva, fino a quando Miller, Galanter e Pribram negli anni '60 pubblicano l'articolo Plans and the
Structure of Behavior, decretando una contrapposizione netta alla visione comportamentista e definendosi in
questo scritto come dei “comportamentisti soggettivi”. Chiaramente con questa connotazione “soggettivi”
risultavano essere polemici e ironici, perché il comportamentismo voleva studiare esclusivamente in modo
oggettivo il comportamento osservabile e la mente era la black box. Questi autori cominciano a dare importanza
ai processi di mediazione, agli assembramenti neuronali, quindi a tutti i processi mentali che facevano
riferimento alla soggettività degli individui.

Il mentalismo e l’operazionismo. Il termine “mentalismo” era utilizzato dai comportamentisti con


un'accezione dispregiativa. Essi infatti definivano il cognitivismo come una psicologia mentalistica, poiché
considerava la mente, che invece secondo la loro prospettiva non andava studiata, perché significava mancare
di scientificità. Il comportamentismo si basava infatti sull'operazionismo, cioè sulla necessità di creare degli
esperimenti che avessero un riscontro oggettivo e potessero misurare i fenomeni psichici. Tuttavia in realtà
questo modello vacillava, poiché gli esperimenti non davano i risultati sperati ma riportavano dati
contraddittori, per cui gli stessi comportamentisti erano in crisi. I comportamentisti non riuscivano a spiegarsi
concetti come
 La forza dell'abitudine di Hull, cioè come la motivazione potesse influenzare la risposta;
 La mappa concettuale di Tolman che andava a modulare l'azione del topo in funzione del rinforzo che
otteneva dall'ambiente.
La crisi epistemologica del comportamentismo→. Concetti del genere mettevano in crisi il
comportamentismo in relazione anche all’empirismo sul quale si fondava. Anche l'empirismo aveva assunto
diverse fasi:
 Visione ristretta dell’empirismo. Secondo questa visione ogni costrutto teorico deve
necessariamente fondarsi sul riscontro osservabile, dunque l ‘osservazione empirica deve avere un
riscontro teorico ristretto (ad esempio basti pensare a Galilei e alla legge di caduta dei gravi; la forza
di gravità è un concetto teorico che deve necessariamente fondarsi sull’esperimento della caduta del
grave),
 La prima liberalizzazione dell'empirismo. Secondo questa prospettiva, l'evidenza empirica emerge
soltanto sotto determinate circostanze. Legrenzi fa l’esempio dell’elasticità: un corpo è elastico solo
quando lo tiri, quindi se per esempio guardiamo un elastico, non vediamo l’elasticità ma soltanto un
oggetto, infatti questa caratteristica emerge solo quando lo tiriamo, per cui in determinate circostanze.
 La seconda liberalizzazione. Questa è data dagli studi dei ceno-comportamentisti o da tutti i
comportamentisti che avevano introdotto le variabili intervenienti come costrutti ipotetici, ma non
trovando un riscontro empirico, postulano la mente, cioè il concetto precedentemente negato (black
box) che emerge con tutto il suo profondo significato. Secondo questa prospettiva non tutti i concetti
teorici hanno un riscontro empirico, inoltre occorre introdurre alcuni “concetti primitivi”
indipendentemente dall’osservazione.
Il comportamentismo perde quell'evidenza empirica che lo portava ad essere un modello epistemologico
forte, per cui viene messo in crisi e su queste “ceneri” nasce un paradigma differente, cioè il cognitivismo.
Quest'ultimo dà una forte accezione allo studio della mente, intesa come una struttura ipotetica: questa nuova
prospettiva propone un vero e proprio modello dell’essere umano come elaboratore delle informazioni (vedi
dopo).

Il cognitivismo NON è una scuola. Questo nuovo modello epistemologico tuttavia:


Non può essere definito come una vera e propria scuola come il comportamentismo o la psicoanalisi;
Non è possibile neppure identificare un suo fondatore/capostipite, come invece accadeva per Watson
(comportamentismo) o per Freud (psicoanalisi);
Non si può individuare un manifesto o una data ufficiale della sua nascita.
Il primo volume→ Addirittura il primo volume “Cognitive Psychology" (Psicologia cognitiva, già il titolo
racchiude questo nuovo modello) di Neisser viene pubblicato solo nel 1967, quindi ben 17 anni dopo dai primi
esperimenti e dai primi modelli che autori cominciavano a proporre come visioni alternative al
comportamentismo dominante. Se volessimo identificare una data da punto di vista storico, è il 1967 con la
pubblicazione di questo manuale, tuttavia è possibile rintracciare autori, che senza averne piena
consapevolezza, con i loro studi nel decennio tra gli anni 50 e 60, avevano cominciato a gettare le basi per un
modello epistemologico esplicativo dei fenomeni psichici.

K. J. W. Craick. Un autore che contribuì alla nascita del cognitivismo è K. J. W. Kenneteh Craick, uno
studioso, che morì a soli 29 anni e che alla fine della seconda guerra mondiale aveva studiato il comportamento
di tracking. Quest'ultimo era una situazione sperimentale creata con il computer (infatti è il periodo dei
grandi calcolatori) in cui il soggetto aveva il compito di seguire con il mirino, un bersaglio mobile che si
spostava sullo schermo, di conseguenza doveva tenere il mirino allineato con il bersaglio in movimento. Il
bersaglio si muoveva in una pista (simulata nello schermo) con delle curve, dei rettilinei; e inoltre vi erano
delle manopole che apportavano degli aggiustamenti, dando la possibilità al soggetto che il bersaglio fosse
sempre dentro il mirino.
Cosa si scopre grazie al tracking? Craick scopre qualcosa di assolutamente intuitivo, ma che diede l'idea per
cui i comportamenti vanno spiegati in maniera diversa. I risultati dimostrano che i soggetti umani hanno la
necessità di correggere lo spostamento operando degli aggiustamenti con la manopola; questo aggiustamento
tuttavia non è immediato, infatti i soggetti impiegano una correzione ogni mezzo secondo. Questo significa
che c’è un meccanismo decisore interno che spiega tale tempo di latenza per elaborare le informazioni in
arrivo ed emettere la risposta. Dato che il soggetto perdeva un po' di tempo per compiere gli aggiustamenti, si
continuava a sfatare il mito della risposta immediata e si capiva che esistessero dei processi mentali interni che
modulavano la risposta.
P.S. Nell'esperimento specifico veniva calcolato il tempo medio, tuttavia più avanti ci soffermeremo sul
concetto del carico cognitivo; secondo i cognitivisti quando dobbiamo svolgere un lavoro cognitivo, vi sono:
 Compiti che richiedono un maggior carico computazionale, cioè maggior energia mentale, di
conseguenza il tempo di elaborazione in questo caso sarà maggiore;
 Compiti invece che richiedono un minor carico computazionale, dunque un impiego di energia
minore e di conseguenza un tempo di elaborazione minore.
I cognitivisti riprendono il concetto dei tempi di reazione degli strutturalisti, dandogli un significato mentale
e spiegandoli come un vero e proprio tempo decisionale, cioè il tempo che l'individuo impiega per prendere
la decisione ed emettere la risposta. Con Craick si formalizza dunque una delle metafore tipiche del
cognitivismo dell’uomo come elaboratore di informazioni.

La metafora dell'uomo come elaboratore di informazioni.


Il sistema cibernetico→Il cognitivismo e le scienze cognitive arriveranno allo sviluppo dell'intelligenza
artificiale, infatti il cognitivismo alla sua nascita propone un modello ipotetico dell'essere umano come un
sistema cibernetico. Quest'ultimo è un sistema nel quale vi è un circuito vero e proprio, in cui vi è un input,
che entra in un elemento che processa l'informazione, per poi passare dentro l'elaboratore centrale ed emettere
l'outop. Il sistema cibernetico è un sistema chiuso, per cui tra l'input e l'output vi è la necessità di considerare
anche il feedback, la retroazione.
P.S. Quando studieremo comunicazione, noteremo come in quest'ultima vi sia un emittente e un ricevente: il
messaggio comunicativo va dal primo al secondo passando per un determinato canale (la voce, il telefono,
etc); nel momento in cui il messaggio giunge al ricevente, quest'ultimo lo assolve per emettere la risposta, che
ritorna all'emittente (ad esempio se io parlo con un altro soggetto, quest'ultimo ascoltandomi emetterà una
risposta che ritornerà a me e così via.) Il feedback è la risposta di ritorno, per cui una volta emesso torna di
nuovo al soggetto. L'uomo è un individuo che elabora l'informazione ed emette la risposta che ha valore di
retroazione sul soggetto stesso.
Esempio→ Io studio per superare l'esame, per cui incamero una serie di conoscenze riguardo la disciplina.

 Il momento dell'esame è la risposta, cioè il momento in cui tutte le informazioni processate dovranno
essere esplicitate. In base a come espliciterò queste ultime, farò venire fuori il modo in cui ho
appreso/ho elaborato quelle informazioni.
 L'esame, cioè la risposta, sarà tradotta dall'esaminatore in un voto che potrà più o meno corrispondere
alle aspettative che avevo, in quanto potrà essere congruente o meno al modo in cui ho elaborato gli
stimoli.
 Il voto, un'ulteriore risposta dell'esaminatore ha un effetto comportamentale, in quanto può piacermi
o meno, per cui questo effetto mi retroagisce come feedback andando a modificare le mie aspettative
iniziali: posso avere una conferma delle mie aspettative oppure no, in quanto il voto può corrisponde
o meno alla preparazione che credevo di avere.
Si innescano dunque una serie di meccanismi che vanno a retroagire le nostre aspettative e modificare i nostri
comportamenti in un modo o nell'altro.
È un modello complesso in cui non è sufficiente considerare lo stimolo e la risposta, ma bisogna considerare
l'uomo come un'entità capace elaborare le informazioni e in base a come le elabora di utilizzarle e modificare
i propri comportamenti.
Il modello seriale →Un altro aspetto importante riguardante la metafora dell’uomo, che in un certo rappresenta
un limite del cognitivismo, è l’idea che l’uomo ha un funzionamento discreto e ha la capacità di svolgere le
cose in sequenza.
 N.B. Per capire questo aspetto bisogna considerare il contesto storico, in cui nascono i primi
calcolatori, si sviluppano gli studi informatici sui computer, i modelli matematici diventano forti,
nascono i flow chart per spiegare il funzionamento della memoria, etc.
Viene proposto il modello della memoria sequenziale (ripreso poi da Atkinson), secondo cui quando
memorizziamo, prima memorizziamo l’informazione sensoriale, la quale poi passa nella memoria a breve
temine e poi nella memoria a lungo termine. Dunque si crea una sorta di sequenza, per cui l'informazione
passa da un magazzino all'altro. Il meccanismo decisore era unico, per cui l'essere umano elabora in sequenza
e in modo seriale, cioè un’informazione alla volta, in quanto non è capace di elaborare i processi in parallelo
(questo concetto riprende anche il concetto del carico cognitivo→vedi prima).
P.S. Questo modello verrà poi superato e si approderà ad un modello della memoria diverso (il working
memory di Baddley) nel quale la memoria ha un funzionamento di elaborazione dei processi in parallelo
(modello successivo del connessionismo).

I tempi di latenza. Sulla base degli esperimenti di Craick, che riprendono il concetto di tempo di latenza
evidenziato dallo studio sui tempi di reazione di Donders, verranno condotti una serie di studi:
 Studi di Broadbent sull'attenzione selettiva;
 Studi di Baddeley e Atkinson sulla memoria breve termine;
 L'Interesse per la psicologia applicata: vigilanza;
 Studi di Miller (1956) sul “magico numero 7”; sul limite della memoria, e su come sia possibile
superare tali limiti;
 Attenzione, MBT.
Tutti questi modelli li ritroveremo come spiegazione dei processi psichici.
Miller→ Miller per primo scopre la memoria a breve termine, in base alla quale siamo in grado di ricordare
per un breve lasso di tempo non più di 7 elementi. Chi ha una memoria eccezionale riesce a ricordare dei
numeri in sequenza composti al masismo di 9 cifre. In realtà si è capito poi che non si tratta soltanto di
memorizzare elementi singole, ma di un'unione di informazioni: possiamo unire tutti gli elementi tra di loro e
questi ultimi uniti rappresentato un'unità. Ad esempio i numeri telefonici vengono imparati da ognuno di noi
secondo una determinata sequenza:

 Se il numero telefonico viene memorizzato a cifre singole supera i 9 elementi;


 Se lo impariamo in sequenza di ogni 3 numeri, questi ultimi vengono considerati come un'unica unità
informativa,
Per cui a seconda di come aggrego le cifre posso anche ridurre gli elementi. Viene memorizzata quindi un
unità informativa.

Il modello T-O-T-E. Accanto alla metafora dell'uomo come elaboratore di informazioni, i comportamenti
soggettivi Miller, Galanter e Pibram propongono il Modello T-O-T-E (Test-Operate- Test-Exit).
In questo contesto emerge un’altra caratteristica del cognitivismo: i cognitivisti elaborano dei modelli legati al
funzionamento, tra questi, il modello in eccellenza che spiega il rapporto che esiste tra l’uomo e la capacità
che l’uomo ha di elaborare le informazioni è proprio questo modello TOTE, poiché è un modello cibernetico
e circolare, che ci spiega tutti i nostri comportamenti. Questo modello inoltre è basato sul concetto di
retroazione, in base al quale l'informazione ritorna al soggetto nel momento stesso in cui egli sta compiendo
l'azione.
Nel momento in cui dobbiamo eseguire un determinato comportamento, seguiamo diverse fasi:
1. TEST= verifichiamo nell’ambiente che la situazione sia congruente agli obbiettivi dell’azione da
svolgere;
2. OPERATE= svolgiamo l'azione;
3. TEST= riverifichiamo l'azione;
4. EXIT= se la seconda verifica va a buon finire, possiamo considerare l'azione eseguita e terminare il
comportamento.
Il secondo Test è il feedback, la retroazione, per cui agisco e poi l'azione retroagisce e deve nuovamente essere
verificata, per cui l'informazione ritorna quando l'inviduo compie l'azione.
Esempio→ Se devo piantare un chiodo:

 Prima mi devo procurare gli attrezzi e verificare che la parete sia disponibile per piantare il chiodo
(test);
 Poi inizio a martellare il chiodo nel muro (operate);
 Dopo aver piantato il chiodo devo verificare che sia ben messo nel muro(test);
 Per cui se il chiodo è piantato bene, ho terminato la mia azione (exit);
 Se invece il chiodo non è ben messo (test), devo rioperare l'azione (operate) fino a quando posso
terminare il comportamento (exit).
Tra la prima e la seconda verifica (Test), abbiamo la dimostrazione della capacità dell’individuo di prendere
decisioni, di verificare i propri comportamenti, di rielaborare e assimilare le informazioni, di modificare il suo
comportamento e le sue azioni. Tutte le nostre risposte implicano la messa in atto di questo modello tote, nel
quale ogni risposta emessa viene costantemente sottoposta a verifica e riverifica.
P.S. Questi concetti li riprenderemo anche parlando di emozioni. Per Watson la paura del piccolo Albert era
una comportamento appreso, per i cognitivisti invece l'emozione è uno stato affettivo e mentale che implica
un processo di valutazione cognitiva del nostro stato affettivo, per cui dobbiamo capire cosa accade
nell'ambiente e valutare le condizioni per comprendere l'emozione che stiamo vivendo.

Chomsky. Per i comportamentisti il linguaggio era legato alle abitudini laringiche, ma Chomsky critica
assolutamente questa posizione. Chomsky metterà in crisi i modelli comportamentisti che trascuravano il
“parlante” e si concentrarà sulla struttura del linguaggio: lo studioso diceva infatti che i bambini nascono con
un patrimonio grammaticale innato, cioè la grammatica universale, un meccanismo che ci predispone
all’acquisizione della lingua che lui chiama Language Acquisition device (LAD).
Chomsky parlerà anche della linguistica generativo-trasformazionale che mira a individuare le regole
attraverso cui le frasi sono generate e si trasformano pur nello stesso nucleo di significato (interrogative,
negative, attive, passive).
→Quando i bambini dicono ad esempio “ho aprito la porta”, in realtà non stanno commettendo un errore, in
quanto hanno coniugato in modo SPECIFICO il passato del verbo APRIRE che è irregolare, e che
effettivamente nella sua forma "non" irregolare sarebbe proprio “aprito”.

L'evoluzione del cognitivismo.


 Il cognitivismo si comincia a strutturare intorno agli anni ‘50, quando c’è una rottura del
comportamentismo. Cominciano in questo momento gli studi sull' attenzione, sulla memoria
sensoriale e su altre funzioni cognitive, tuttavia ancora non si struttura come movimento e non vi è un
paradigma.
 Dagli anni ‘60 agli anni ‘70 cominciano ad esserci degli studi più strutturati (nel 1967 Neisser
pubblica il primo volume di psicologia cognitiva) che approdano a una serie di modelli, i quali tuttavia
risultano astratti.
 Dagli anni ‘70 in poi le conoscenze cominciano ad essere più strutturate grazie ai calcolatori e ai
computer (che intorno agli anni ‘80 si diffondono al grande pubblico): in questi anni i cognitivisti
come metodo elettivo di indagine, usano il metodo della simulazione.
Il metodo della simulazione. Questo metodo si basa sull’utilizzo delle reti neurali e consente di ricreare
dei modelli simulati del comportamento. Alcuni processi mentali o sociali che i cognitivisti cominciano a
studiare, non potevano essere studiati sperimentalmente, infatti veniva difficile costruire/ricreare delle
condizioni di laboratorio “pure” nelle quali venivano prese in considerazione le variabili che intervenivano e
che consentivano di spiegare la mente.
Allora aiutandosi con le conoscenze dell’informatica e matematica, cominciano a creare i modelli simulativi,
basati sull’espediente tecnico delle reti neurali (nascono all'interno dell'intelligenza artificiale) e che
consentono di ricreare delle condizioni di simulazione del comportamento: con questo metodo si riproducono
al computer le operazioni mentali che si ipotizza intervengano nell’esecuzione di un certo compito. Ad esempio
vengono studiati così:

 tutti gli aspetti legati alla comprensione delle frasi nel linguaggio;
 tutti gli aspetti legati alla memoria visiva (dunque alla capacità di riconoscere il volto delle persone).
I vantaggi del metodo→ I vantaggi di questo metodo sono differenti, infatti esso:
1. È un metodo scientifico perché consente di ricreare artificialmente un’ipotesi;
2. Consente di studiare i processi interni alla mente che vengono trascritti nelle istruzioni del programma
che possono essere manipolate;
3. Dà la possibilità di introdurre della variazioni e considerarne gli effetti.
Vi sono studi legati alla comprensione delle frasi e in particolar modo alle differenze tra le frasi interrogative,
affermative, negative o attive e passive. L’obiettivo non è studiare il modo in cui i soggetti capiscono le
differenze tra le frasi, ma è quello di enucleare quali sono le caratteristiche della funzione linguaggio in
relazione al tipo di regola grammaticale che sta alla base della frase.
È sicuramente meglio fare una simulazione con un calcolatore o con un computer, dunque fornirgli una serie
di frasi affermative e negative, strutturare la regola grammaticale alla base e vedere in un testo se il calcolatore
è in grado di rintracciare le frasi affermative o negative e così via. È uno studio, più semplice, immediato, e
non è dispendioso in quanto le simulazioni al computer consentono di avvantaggiarsi della velocità
relativamente all'esperimento.
Esempio→ Supponiamo che io sia un ricercatore interessato a studiare all'interno di un gruppo di soggetti, la
capacità di leadership, per cui voglio vedere, data una popolazione di persone, come si vengono a creare i
rapporti sociali tra le persone appartenenti a quel gruppo, e come all'interno di quest'ultimo viene eletto il
leader.

 Io potrei intervistare le persone di tutte le organizzazioni di quel territorio, facendogli domande in virtù
delle quali capire come esse abbiano scelto il loro leader;
 Oppure posso creare un modello di simulazione artificiale, per cui realizzo una serie di agenti
artificiali (individui simulati) e ad ognuno di questi affido un parametro.
Quest'ultimo potrebbe essere la vicinanza o la lontananza tra i soggetti: a questo punto attivo la simulazione
e vedo ciò che accade all'interno del mondo simulato, dunque osservo come gli individui sulla base del
parametro vicinanza/lontananza si aggregano tra di loro. Sulla base di questo parametro dunque posso vedere
se un leader emerge oppure no.
Il ricercatore quindi detta un determinato parametro nella simulazione e quando deve studiare un fenomeno,
sia che esso sia una funzione cognitiva (come l'acquisizione delle regole grammaticali nel linguaggio) o un
modello sociale, ha la possibilità di introdurre delle variazioni e visionare gli effetti (aspetto positivo).
Oggi→Questo è un metodo simulativo artificiale applicato anche a molti giochi (come The Sims), in cui il
soggetto manipola le variabili, modula i parametri a propria scelta (sceglie se il personaggio deve innamorarsi,
quale lavoro deve svolgere...), in base ai quali poi il gioco prende vita. I metodi simulativi sono anche utilizzati
per studiare i comportamenti di panico, come per esempio cosa accade ai soggetti quando scoppia un incendio.
L'evoluzione dei metodi simulativi elaborati dai cognitivisti sono oggi i micro-mondi o i serious games, i quali
sono modelli simulati di comportamento.
Il limite del metodo→Di contro però diventa un metodo artificioso, poco aderente alla realtà dei fatti perché
è un metodo più descrittivo che esplicativo, in quanto la simulazione non ci spiega il fenomeno, ma fa
semplicemente osservare come accade: i modelli cognitivi non ci spiegano le funzioni cognitive, ma
descrivono il processo secondo cui si esplicano (ad esempio quando parlano della memoria, spiegano come
avviene la memorizzazione delle informazioni, ma non ci dicono il motivo per il quale memorizziamo).
In realtà questo metodo è limitativo, perché vi è uno sperimentatore che sceglie i parametri della simulazione,
dunque è sufficiente cambiare il parametro per cambiare completamente lo scenari. Per cui come facciamo noi
ad essere sicuri che la teoria che abbia elaborato sia effettivamente corretta? Come fa a sapere che le
istruzioni sulla base delle quali si attiva la simulazione siano quelle corrette per spiegare quel determinato
fenomeno? La scelta è arbitraria, infatti dipende dallo sperimentatore. Questo è un modello che parte da un
approccio teorico e poi cerca di trovare conferme in una simulazione, ma siccome la quest'ultima è creata e
determinata dallo sperimentatore stesso, allora questo modello del cognitivismo e della simulazione, per certi
versi, stride.
È chiaro che, invece, occorre trovare un approccio più cognitivo e fenomenologico; occorre sempre e
comunque partire dai comportamenti, dalle risposte che i soggetti emettono, infatti per elaborare i modelli
teorici si dovrebbe partire dalle risposte che i soggetti hanno fornito per spiegarci un determinato fenomeno.
Infatti proprio su questa obiezione lo stesso Cognitivismo entra un po' in crisi.

La crisi del Cognitivismo. Questo movimento si frantuma in micro-teorie che però cominciano a stare
strette ai ricercatori che vogliono tornare a macro-teorie, maggiormente rassicuranti, infatti l’eccessivo uso
della simulazione porta i cognitivisti a parcellizzare lo studio di un fenomeno.
Esempio→ Se io devo simulare e devo determinare dei parametri che vanno a spiegare un determinato
fenomeno, quest'ultimo deve essere circoscritto, per cui devo guardarne soltanto un segmento. Per questo
motivo, alla fine in realtà, non sto studiando la leadership in generale, ma sto studiando la leadership sulla base
del fatto che i gruppi di individui di un determinato sistema (composto da non più di 70 persone) manifestano
ipoteticamente comportamenti comunicativi di avvicinamento o allontanamento l’uno dall’altro. Di
conseguenza si tratta di un micro-segmento, dunque non sto osservando la leadership in generale come macro-
fenomeno.
I Cognitivisti finiscono per segmentare in micro-teorie, perché più si segmenta un fenomeno, più è facile
trovare delle evidenze che effettivamente confermino le mie idee. Chiaramente ne derivano una serie di
congressi nei quali questo modello viene messo in discussione:
 Il congresso del 1972 alla Pennsylvania State University sui processi cognitivi e simbolici;
 Il congresso del 1973 all’Università del Minnesota;
 La pubblicazione del libro di Neisser “Conoscenze e realtà” del 1976, in cui l'autore, che prima aveva
formalizzato il cognitivismo, adesso lo autocritica.
Quindi in un decennio l'eccessiva frammentazione e artificiosità, porta lo stesso Neisser che aveva contribuito
a formalizzare questo approccio allo studio dei fenomeni psichici, a rimetterlo in discussione e in particolare
a puntualizzare alcuni aspetti.
Le critiche di Neisser. Neisser mette in discussione e critica diversi aspetti.
1. Il progressivo restringimento di campo: i cognitivisti utilizzavano principalmente ed eccessivamente
il metodo sperimentale. Sebbene gli studi di laboratorio siano assolutamente degni di scientificità e
consentono di tenere sotto controllo tutte le possibili variabili intervenienti, allo stesso tempo sono
poco ecologici, per cui poco aderenti ai fenomeni che accadono nella vita quotidiana; neisser infatti
mette in evidenza la necessità di avere dei modelli meno artificiosi e più applicativi legati al contesto
reale dell'interazione umana.
Per esempio negli studi sulla presa di decisioni, i modelli cognitivisti si basavano su una serie di esperimenti
di laboratorio nei quali venivano confrontate le scelte dei soggetti a partire da alcuni compiti formali che
venivano assegnati loro, come il caso del compito di Wason (o compito di ragionamento condizionale) che
viene studiato in laboratorio con una consegna formale e i risultati che si hanno sono di un determinato tipo.
In realtà si è visto che lo stesso compito se presentato con una maggiore aderenza a quella che è la vita
quotidiana dei soggetti, dà dei risultati completamente differenti, che addirittura finiscono per confutare
totalmente il risultato che si era ottenuto in laboratorio. Dunque questo compito quando viene calato nel
contesto di vita quotidiana degli individui, viene risolto da questi ultimi, per cui ciò dimostra che i risultati di
laboratorio sono probabilmente un po' troppo artificiosi; se invece osserviamo le cose secondo una prospettiva
più ecologica, le cose cambiano.
2. Le ricerche sono sofisticate ed ingegnose, ma finiscono per ancorarsi troppo ai modelli teorici, di
conseguenza poco valore applicativo. Si tratta infatti di ricerche volte più a comprendere i meccanismi
della ricerca stessa più che il funzionamento dell’uomo (questa risulta un po' una conseguenza del
metodo utilizzato).
3. Critica la metafora dell'uomo come “elaboratore di informazioni”, per i limiti che del metodo
simulativo, in quanto le informazioni che il soggetto elabora sono quelle che lo sperimentatore gli fa
elaborare: le informazioni mutano rispetto alle definizioni che gli autori ne danno.
Esempio→

 Se il compito di Wason, che è un compito di ragionamento particolare, lo presento al soggetto con una
formulazione astratta, ottengo un determinato risultato;
 se quello stesso compito lo presento con una formulazione più quotidiana, i risultati cambiano
completamente.
È legittimo dunque domandarsi quale informazione l'individuo stia elaborando, e soprattutto bisogna
sottolineare che l’informazione che lo sperimentatore gli dà da elaborare è fondamentale.
N.B. Per questo motivo si aprirà un dibattito sulla consegna, che approfondiremo più avanti quando studieremo
il cosiddetto Problem Solving, un modello cognitivista proposto come modello universale; che si concentra
sulla possibilità che il problema da risolvere sia mal formulato. Ciò significa che la formulazione del compito
attiva delle strategie di Problem Solving differente.
La prospettiva ecologica. Neisser propone un’impostazione “ecologica”, in base alla quale lo psicologo
deve studiare i processi cognitivi nei contesti quotidiani e non nel laboratorio: l’osservazione deve essere fatta
sul campo, non è sufficiente chiudersi nel laboratorio per controllare tutte le variabili. Secondo Neisser:
La mente accoglie le informazioni ambientali e si si adatta ad esse in modo plastico;
L’ uomo e l’ambiente vanno studiati all’interno di un unico ecosistema (si va verso modelli più
interazionisti).
L’uomo possiede schemi che gli consentono di cogliere le relazioni tra percezione e pensiero.
N.B. Gli aspetti ecologici verranno poi ripresi negli esperimenti sul campo, ma anche negli studi sulla
percezione, infatti i modelli esplicativi dei processi percettivi (che un po' si basavano sulla Gestalt e vengono
poi in qualche modo presi anche dai Cognitivisti) vengono messi in discussione da Gibson.
Il modello ecologico di Gibson→Gibson rifiuta il modello dell’uomo come elaboratore delle informazioni.
Lo studioso mette in evidenza che quando percepiamo l'ambiente intorno a noi, in realtà non segmentiamo gli
aspetti dell'ambiente estrapolandone delle forme che ci consentono di riconoscere gli oggetti ma noi siamo
inseriti all'interno di un flusso informativo che lui indica come stimulus array. Quest’ultimo è la stimolazione
che si presenta al soggetto che coglie le informazioni come affordances senza ricorrere a strutture
rappresentazionali.
Il modo in cui percepiamo il mondo è diverso dalla semplice segmentazione degli oggetti: è un modo che fa
riferimento all'utilizzabilità degli elementi presenti nel mondo, per cui percepiamo gli oggetti in funzione del
fatto che possiamo utilizzarli senza doverli decodificare o rappresentare.
Esempio→ Io percepisco la sedia non perché essa si impone nel mio campo percettivo come una buona forma,
ma perché mi posso sedere, quindi è in funzione del fatto che posso usarla.

Le scienze cognitive. Questi modelli verranno formalizzati dalle scienze cognitive, le quali:
 Sorgono nella seconda metà degli anni ‘70 del secolo scorso (sino ad arrivare ai giorni nostri) per
opera di Schank, Collins e Charniack che fondano l’omonima rivista;
 Hanno un approccio interdisciplinare (intelligenza artificiale e computer science, linguistica,
tecnologie della conoscenza, tecnologie educative; filosofia, ecc);
 Affrontano diversi temi come il linguaggio, l’apprendimento, il pensiero, il ragionamento, HCI.
Lezione 3/11/2020.
La riflessione circa la prospettiva ecologica elaborata da Gibson e Neisser si innesca nell’evoluzione, e
dunque nel progresso culturale della società occidentale.

LE SCIENZE COGNITIVE
La nascita delle scienze cognitive. Le scienze cognitive sorgono ufficialmente nel 1979, quando viene
fondata la “Società di Scienza Cognitiva” e all’interno del convegno La Jolla, viene presentata alla comunità
scientifica come una disciplina autonoma e NON come derivazione del cognitivismo: questa presentazione
delle scienze cognitive come disciplina autonoma è legata all’esigenza dei fondatori delle scienze cognitive di
differenziarsi rispetto il passato per oltrepassare i limiti presagiti.
Gli autori di riferimento sono:

 Schank;
 Collins;
 Charniack;
che fondano l’omonima rivista chiamata Cognitive Science.

L’approccio interdisciplinare. Intorno alla seconda metà degli anni ‘70 si assiste ad una nuova ondata
circa l’evoluzione delle tecnologie, infatti è il periodo in cui iniziano a nascere i primi calcolatori, in cui si ha
l’avvento dell’informatica e della cibernetica. Queste discipline, a fronte di quelle che erano state le
sperimentazioni dei cognitivisti che si erano avvicinati al metodo della simulazione, portano ad una
cognizione interdisciplinare all’interno della psicologia con discipline provenienti dal mondo
dell’informatica, dell’intelligenza artificiale ma anche dal mondo della filosofia. In particolare in questo
momento comincia a nascere anche una nuova disciplina che è la HCI (Human computer interaction)
L'HCI→ Questa nuova disciplina vede profondamente il coinvolgimento degli psicologi, in quanto fa
riferimento allo studio dei processi che coinvolgono alternativamente sia gli utenti (soggetti) che le stesse
tecnologie. Il suo obiettivo è quello di studiare non solo la fruizione da parte dell’utente delle interfacce, ma
anche di verificare quanto gli esseri umani assegnano fiducia alle macchine robotiche. L'HCI si evolve anche
nella Human Robot Interaction quando cominciano ad essere creati i primi robot. Lo psicologo viene
coinvolto in questo ambito per capire quanto gli esseri umani assegnino fiducia alle macchine robotiche. Una
delle ultime aree di ricerca di questo settore è legato alle macchine a veicolo: molte case automobilistiche
stanno sperimentando il pilota automatico, ma il problema è quanto il consumatore (soggetto) si senta
effettivamente sicuro nell’affidare la propria guida, e quindi la propria vita alla macchina artificiale (al robot).
L’intelligenza artificiale→Dall’altro lato c’è un’area di ricerca degli psicologi che si occupano di creare delle
modellizzazioni, ovvero implementare i processi cognitivi umani all’interno degli umanoidi (intelligenza
artificiale). Quest’area di ricerca mira a ricreare l’intelligenza negli esseri artificiali, cioè nei robot. Ad esempio
i robot umanoidi sono quelli che simulano, che sono in grado di prendere decisioni e rispondere
autonomamente, di elaborare una sorta di pensiero decisionale. Una delle tematiche attuali è quella di andare
ad implementare la coscienza del robot tramite l’intelligenza artificiale, ma fortunatamente ancora non si è
arrivati ad un risultato. Quest’area ha tantissime commistioni soprattutto nel mondo dell’informatica,
dell’intelligenza artificiale, della matematica ecc..

La ripresa del cognitivismo. All’interno delle scienze cognitive, molte tematiche comunque richiamano il
cognitivismo classico, infatti continuano ad essere approfonditi i temi presi in esame dai cognitivisti, legati
allo studio delle funzioni psichiche superiori, per cui vengono stabilite da Norman, 12 aree di ricerca
specifiche: studio della coscienza, evoluzione, emozione, interazione, linguaggio, apprendimento,
memoria, percezione, prestazione, abilità, pensiero, sistemi di credenza (quest'ultimo fa riferimento a tutti
quei processi di pensiero che sono le “lenti” che gli esseri umani utilizzano per leggere i fenomeni e per
spiegarli).
Fodor. Uno degli autori che possiamo fare rientrare a pieno titolo all’interno dell’approccio legato alle scienze
cognitive è Fodor.
Fodor presenta una visione che supera la sequenzialità tipica del cognitivismo, il quale descrive le funzioni
psichiche come delle funzioni che svolgono dei processi in sequenza o in serie:

 Ad esempio se consideriamo la memoria come modello, l’informazione deve prima passare dal
magazzino sensoriale, poi passa dal magazzino a breve termine e poi in quello a lungo termine, vedi
prima);
 Un altro esempio, secondo questa visione, riguarda i processi attentivi, e in particolar modo il fatto
che noi siamo in grado di prestare attenzione a degli stimoli che vanno ad incidere su un canale
sensoriale alla volta, quindi se stiamo utilizzando il canale visivo, passa solo l’informazione visiva nel
nostro cervello; se è più impegnata l’attenzione uditiva,noi processiamo soltanto lo stimolo uditivo
tralasciando lo stimolo visivo e così via.
Il modularismo→Questi modelli tipici del cognitivismo vengono superati dai modelli modulari, dove invece
il processamento dell’informazione non è più di tipo sequenziale ma è un’informazione in parallelo. Fodor
stabilisce questo concetto nel suo volume “La mente modulare” pubblicato nel 1989, nel quale rappresenta la
mente umana come una struttura computazionale: se paragoniamo la mente a un computer, allora come ogni
informazione digitale ha un suo peso in termini di bite, allo stesso modo ogni informazione che la nostra mente
processa ha un suo carico cognitivo. Il comportamento è determinato da questa struttura mentale, (o mente
computazionale) che elabora rappresentazioni interne.
I trasduttori→La mente nell’elaborare i processi tiene conto del carico che le informazioni hanno: la mente
processa le informazioni che vengono dall’esterno ed elabora informazioni interne dando degli input. Secondo
il modularismo di Fodor l’input sensoriale (cioè l’informazione esterna uditiva, visiva, tattile ecc)
immediatamente viene raccolto dai sensi, che hanno una funzione di “trasduttori”, (es. la luce, che è una
gamma luminosa, viene trasdotta in input nervoso), che convertono gli stimoli esterni in rappresentazioni
mentali, quindi trasformano l’informazione esterna in energia nervosa.
Sistemi di input e Sistemi centrali→Occorre poi distinguere sistemi di input (o moduli) e sistemi centrali
della mente.
I moduli. Le singole rappresentazioni mentali vengono raccolte da specifici moduli, specializzati appunto per
raccogliere stimolazioni sensoriali differenti o informazioni differenti. Ciascuno di questi moduli manda il
proprio input al Sistema Centrale che rielabora e restituisce un output finale. I moduli sono sistemi interni
della nostra mente che elaborano le informazioni che ricevono automaticamente dai trasduttori (dagli organi
sensoriali). Questo processo è automatico, per cui non siamo consapevoli, dunque non c’è coscienza nel
passaggio dal trasduttore all’elaborazione del modulo.
Fodor propone una sorta di modularismo massivo, nel senso che secondo lui tutti i moduli sono indipendenti
l'uno dall’altro: questi moduli lavorano in autonomia rispetto ai processi centrali (ogni modulo è specializzato
per processare un tipo di informazioni differenti) e rispondono ad uno specifico dominio, il quale è un ambito
della conoscenza specifico di un’area ( per esempio del dominio visivo, del dominio uditivo o altri domini
legati alle conoscenze su me stesso e sugli altri, su atteggiamenti e valori).
Fodor ritiene che i moduli siano “informazionalmente incapsulati”, cioè sono specifici per dominio: ogni
modulo processa su una porzione ristretta dell’informazione che viene elaborata in modo rapido e secondo
modalità fisse e obbligate e senza alcuna influenza di altri moduli o del contesto ambientale. Vi è dunque
l'idea che ci sia un’ “iper-specializzazione” della nostra mente, per cui esistono moduli specifici per ogni
dominio di azione e di conoscenza, e ogni modulo processa soltanto quel tipo di informazione in maniera
indipendente dagli altri. Sarà poi il sistema di elaborazione centrale che permette la rielaborazione e la
rappresentazione complessiva dell’informazione stessa.
I sistemi centrali. I sistemi centrali ricevono gli output dei moduli e li integrano. A questo punto non si registra
più un processo automatico, ma un processo cosciente e volontario, poiché si si ritiene che l’individuo
processi gli oggetti in modo singolo, analizzandone le caratteristiche della forma, del colore, della dimensione,
della consistenza, ecc.., come se ognuna di queste caratteristiche fosse appunto un modulo singolo.
Secondo Fodor, l'attività dei processi centrali è cosciente e si sviluppa sotto il pieno controllo del soggetto,
il quale in quel caso è pienamente consapevole di quello che deve fare. Questo processore interno non è
localizzato in un’area specifica del cervello, ma è distribuito in tutto esso. I sistemi centrali sono responsabili
delle credenze, della volontà, del pensiero e della memoria:
 Dopo di ciò tutte queste informazioni arrivano al sistema nervoso centrale che deve reintegrare tutte
le informazioni legate all’oggetto in questione, in quanto l’utilizzo delle informazioni viene tradotto
in azioni, per cui avviene un processo di pensiero e in particolare un processo decisionale (ad
esempio, decido se utilizzare la sedia per sedermi oppure se usarla come prolungamento della mia
gamba per riparare una lampadina).
 Circa la memoria, invece la funzione ha un significato diverso a seconda di chi deve interagire con
l’oggetto in questione (ad esempio, considerando sempre la sedia, cambia tutto se ad interagire con
essa è un bambino, che ha meno esperienza del mondo e dunque meno informazioni pregresse
depositate nella memoria, per cui non capisce che potrebbe cadere dalla sedia, oppure un adulto che
ha più esperienza).
La metafora del coltellino svizzero→Il modularismo è interessante perché spiega i vari aspetti legati allo
sviluppo. Nella prospettiva della psicologia evoluzionistica, secondo cui il nostro cervello attuale è l’esito
delle nostre esperienze primordiali e pregresse, il modularismo di Fodor viene ripreso proponendo la metafora
del coltellino svizzero, per cui ogni modulo (che è l'esito di tutte le nostre esperienze primordiali, del nostro
cervello primitivo) ci serve per processare una porzione di realtà: come il coltellino svizzero è pieno di attrezzi
che ci consentono di svolgere compiti diversi, così anche i moduli sono specializzati in funzioni differenti.
N.B. L'idea della distribuzione delle facoltà cognitive in aree del cervello comincia ad aprire alla necessità di
dovere considerare, che in realtà noi non operiamo quasi mai in serie, ma il processamento delle informazioni
avviene parallelo, dunque si attivano diverse parti del nostro cervello che poi determinano un esito comune.
Quest' idea della mente distribuita viene inglobata dal Connessionismo (in un certo senso riprendono la legge
dell’energia specifica di Muller).

IL CONNESSIONISMO.
La mente “sa adattarsi”. Il connessionismo sorge intorno agli anni ’80-’90 del Novecento. Esso richiama
le teorie del coltellino svizzero, della psicologia evoluzionistica e del modularismo massivo di Fodor,
postulando il concetto che la mente “sa adattarsi”: gli individui posseggono dei moduli specializzati che
consentono di avere sempre la risposta a tutti i problemi comportamentali e a tutte le necessità; la mente ha
una funzione adattiva, cioè la capacità dell'essere umano di adattarsi all'ambiente e dunque di modificare
quest'ultimo per riuscire a progredire.

Il parallelismo tra hardware e software. A questo punto, con il connessionismo, viene richiamato in
causa il fatto che in questo processo il nostro cervello interviene come organo fisico: l'architettura biologica
e l'organizzazione funzionale della mente coincidono, dunque è come se il nostro cervello (hardware) e la
nostra mente (processi-software) si integrano tra di loro per permettere l’adattamento dell’individuo
all’ambiente.

Il processamento in parallelo. L’attivazione in parallelo è fondamentale e necessaria, infatti si arriva alla


formulazione dell’idea che le informazioni sono elaborate all'interno di reti che procedono per processi “in
parallelo” e attivano le conoscenze per associazioni tra i nodi della rete.
Quest’idea aprirà una serie di scoperte delle neuroscienze, legate alla capacità plastica del nostro cervello: se
i processi funzionano in parallelo e se sono distribuiti in tutto il nostro SNC, allora ha senso la riabilitazione
terapeutica per riabilitare aree del cervello funzionalmente danneggiate, per cui ha senso incrementare le
abilità cognitive: ad esempio, se nell'anziano il deterioramento cognitivo produce un decadimento della
memoria a breve termine, si possono creare una serie di esercizi che consentono di riabilitare quell'area e fare
sì che si attivino in parallelo una serie di aree che supportano quella che progressivamente si va danneggiando.
Le terapie effettuate su soggetti che soffrono di depressione, o su anziani e bambini (neurosviluppo) si basano
infatti sul principio che le informazioni vengono elaborate in rete, per cui i processi mentali si operano con
reti parallele.
Postulare questo concetto significa consentire alla nostra mente di adattarsi, riabilitarsi, modificarsi, laddove
ci sono situazioni di deficit o decadimento, in quanto si creano sempre nuove reti e nuove associazioni.
P.S. Quando studieremo i processi della memoria, vedremo che vi sono dei modelli, che progressivamente si
staccano dall'idea della memoria come una struttura sequenziale, e si approssimano a dei modelli, in cui il
funzionamento della memoria mette in risalto il processamento in parallelo delle informazioni.

Scienze cognitive VS Connessionismo.


 La scienza cognitiva computazionale nasce insieme al computer proponendo che il cervello sia un
computer caratterizzato da un'architettura assimilabile ad una CPU, cioè l’unità elaboratore centrale
del computer che elabora i dati in memoria (Von Neumann). Secondo le scienze cognitive infatti, il
cervello e il corpo sono l’hardware del computer e la mente è il software.
 Nel connessionismo si cerca invece di considerare l'integrazione tra l'aspetto biologico e
funzionale.

Le scienze cognitive.
Per gli scienziati cognitivisti, il software di un computer è un insieme di simboli e di regole, dette
istruzioni, che manipolano i simboli in modo formale, tenendo conto solo della forma dei simboli e
non del loro significato, dunque il software è ciò che detta le istruzioni all'hardware affinché funzioni.
Allo stesso modo la mente umana, secondo le scienze cognitive è come una struttura logica che
dobbiamo necessariamente postulate che esista, in quanto come il software del computer, è colei che
detta le istruzioni al nostro cervello per funzionare. Per questo motivo la mente umana è intesa come
un insieme di rappresentazioni formali e di regole per agire su di esse in modo formale. “Agire sui
simboli in modo formale” si dice “computare ” (o calcolare), per cui la mente sarebbe un sistema
computazionale come il computer.
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Cosa sono questi “simboli”? Quando interagiamo con un oggetto, quest'ultimo ha delle proprie caratteristiche,
che sono una sorta di 0 e 1 all'interno del computer: considerando ciò, questi 0 e 1, devono esse tradotti nella
nostra mente e rappresentati, per cui è necessario un processo di trasduzione e rappresentazione mentale. Lo
stesso vale per la memoria, per cui ogni informazione che dobbiamo memorizzare, deve essere rima codificata,
perché altrimenti non possiamo rappresentarla. Le rappresentazione mentali sono simboliche: gli schemi
mentali e cognitivi sono un insieme di rappresentazioni simboliche che la mente deve elaborare per potere dare
un risultato. Ad esempio se consideriamo la matematica, i numeri alto non sono che i simboli della quantità,
per cui considerando i numeri 3 e 2 significa che:

 ci sono tre quantità, indicate dal numero 3;


 altre due quantità, indicate dal numero 2;
Queste quantità vengono poi vengono sommate e rielaborate. La mente è come se fosse il nostro linguaggio
matematico e opera attraverso simboli che sono gli schemi mentali.
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Gli obiettivi raggiunti. Questo modello permette agli scienziati cognitivi di raggiungere 2 obiettivi:
1. Respingere la critica del comportamentismo (diceva che la mente non esisteva perché non la
possiamo osservare) e avere una garanzia di scientificità dell'esistenza della mente: il software non
è riducibile all’hardware, come la mente non è riducibile al cervello, ma l’informatico che si occupa
del software non è meno scientifico dell’ingegnere che si occupa dell’hardware;
Considerando la mente come il software del computer-cervello, per cui considerando la risposta della nostra
mente dipendente dal carico computazionale che noi assegniamo alla mente stessa, in realtà otteniamo una
garanzia della sua esistenza, perché abbiamo delle evidenze: per esempio si può notare che compiti più facili
vengono risolti più velocemente rispetto a compiti più difficili, dove “facile” e “difficile” sono definiti
operazionalmente in termini di carico computazionale.
Quindi… Per le scienze cognitive quindi la mente è come un computer che cambia continuamente le sue
strutture per adattarsi, e ha una sua esistenza scientifica, perché ne possiamo osservare gli esiti.
N.B. Mentre le scienze cognitive danno un maggiore risalto alla “parte software”, cioè ai processi, alle strutture
logiche, etc, il connessionismo dà un'ulteriore visione, e dice che posto che la mente sia una struttura
computazionale, noi non possiamo non considerare l'integrazione della mente con il nostro cervello (in un
certo senso si riprende il dualismo mente-corpo).
2. Tenere la scienza della mente (la psicologia) ben separata dalle neuroscienze.
Le scienze cognitive non volevano appiattire troppo la psicologia alle neuroscienze, alla biologia, quindi alla
componente medica, infatti secondo loro bisognava mantenere una sua autonomia rispetto all'approccio
organicistico-biologico. Il fatto che gli scienziati cognitivi diano maggiore risalto ai processi simbolici della
mente è un modo per considerare sempre la psicologia autonoma dalle altre discipline
Gli scienziati cognitivi criticavano questo aspetto dei connessionisti, cioè il fatto che con i loro studi,
rischiavano di far ricondurre tutto al campo medico e alle neuroscienze, togliendo l’autonomia che
contraddistingue la psicologia, che nasce proprio per differenziarsi dalla medicina e dalla fisiologia dell’epoca,
come per esempio Freud che si distaccò dalla psichiatria, ottenendo un’autonomia della psicologia.

 Come l’informatica è autonoma dall’ingegneria quando progetta un software che può funzionare su
ogni macchina (dopo una traduzione che ovviamente sarà diversa per macchine diverse), così la
psicologia è autonoma dalle neuroscienze.
Gli psicologici possono dormire sonni tranquilli: lo studio dei processi e delle funzioni mentali è predominio
degli psicologi, invece lo studio dei danni neuronali, del trauma cranico ecc. è patrimonio di altri specialisti
(neurologo, neurochirurgo...) che applicano le loro conoscenze e che non sono psicologi. I neuroscienziati che
conoscono l’hardware possono fare qualche invasione di campo, ma gli specialisti del software che gira su
quell’hardware ovvero della mente sono loro.

La crisi del Connessionismo. Il modello del cervello-computer va in crisi e viene sostituito dal modello
connessionista del cervellorete neurale per tre ordini di motivi:
1. Il progresso delle neuroscienze (1);
2. I limiti dell’intelligenza artificiale (2);
3. L’esigenza di trovare un’alternativa migliore (3).
Il progresso delle neuroscienze (1). È chiaro che i progressi delle neuroscienze rendono sempre meno
plausibile ignorare il cervello: dobbiamo considerare il progresso dello studio sull’attività cerebrale per
svolgere la nostra professione, in quanto questi progressi ci consentono di conoscere il nostro cervello in modo
più preciso e di vedere in vivo come opera. Vi sono una serie di strumentazioni che ci consentono di fare ciò
come le risonanze magnetiche e la TAC: tramite queste ultime ad esempio è possibile far svolgere un
determinato compito cognitivo ad un soggetto e contestualmente registrare l'attivazione dell'area cerebrale in
quel momento. Le tecniche di neuroimaging servono e ci permettono di avere consapevolezza circa lo studio
in vivo dei processi cerebrali.
Se volessimo fare un confronto tra le varie prospettive, dovremmo ricordare che:
I comportamentisti negano totalmente l’esistenza della mente, definendola come una scatola nera;
I cognitivisti, nella relazione tra stimolo e la risposta che i soggetti danno, postulano l’esistenza della
mente come struttura logica;
I connessionisti, mettono in relazione la mente e il cervello.
I limiti dell’intelligenza artificiale (2). Il modello del connessionismo va in crisi anche a causa dei limiti che
erano legati all’impossibilità, nonostante vent’anni di sforzi, di creare “computer che fanno cose da uomini” ,
cioè creare la coscienza/intelligenza artificiale. Questa difficoltà, rende impossibile l’avanzata del
connessionismo, che via via andrà a scemare.
L’esigenza di trovare un’alternativa migliore (3). Trovare limiti e difetti in un paradigma scientifico non
basta per abbandonarlo (Kuhn), occorre anche avere una alternativa migliore. L’alternativa al cervello come
computer simbolico esiste ed è quella del cervello come rete neurale e funziona dove il primo fallisce, perché
anche reti neurali molto semplici hanno prestazioni simili a quelle umane:
 Rete neurale che legge;
 Rete neurale che comprende delle frasi.
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LEGGERE →Sono cose che la prof ha detto di leggere in “autonomia”, ho trascritto le slide.

Le reti neurali. Le reti neurali sono sistemi distribuiti ad alto parallismo ispirati alle proprietà del sistema
nervoso (in genere simulati al computer ma che si potrebbero realizzare fisicamente).
Una rete neurale artificiale è un insieme di semplici unità di elaborazione (neuroni) altamente interconnesse
tra di loro, che interagiscono tra loro e con gli oggetti del mondo esterno mediante lo scambio di segnali
in modo simile alle strutture neurali biologiche.
 Ogni rete neurale è composta da unità o nodi che simulano i corpi dei neuroni.
 Esse ricevono input numerici da altre unità e inviano output numerici ad altre unità.
 Un collegamento tra due unità è detto connessione e ha un peso numerico per il quale viene
moltiplicato il numero in transito.
Un arrivo positivo simula l’arrivo sul neurone di una data quantità di neurotrasmettitore eccitatore e uno
negativo l’arrivo di un inibitore. L’unità somma gli arrivi. Se tale somma supera il valore di soglia, mette il
numero risultante alle uscite. L’elaborazione avviene in ogni unità e ognuna lavora in contemporanea con altre
unità, per cui si ha un processamento parallelo distribuito (PdP). Il numero messo in uscita, moltiplicato per
il peso della connessione, sarà un input numerico per l’unità a cui è connessa.
L’apprendimento della rete avviene modificando i pesi delle connessioni (peso =0 equivale a connessione
assente). La risposta del sistema, costituita dallo stato delle unità di output, tipicamente è casuale all’inizio,
ma una volta che la rete sia sottoposta a ripetute esperienze (cicli), le sue unità modificheranno il peso dei
segnali attivatori o inibitori (pesi) inviati attraverso le connessioni con le altre unità, fino a che non è ottenuta
la prestazione ottimale. Le reti si auto-organizzano, ridistribuendo attivazione e inibizione fino al
raggiungimento di una risposta stabile ed efficace.

Le neuroscienze cognitive: il collegamento tra processi psichici e aree cerebrali.


Broca (1861): autopsia rivela che ha lesione nel lobo frontale sx; afasia di Broca: deficit nella
produzione linguistica;
Principio di scomposizione= funzionamento del cervello è basato sull’interazione di aree isolabili;
aree deputate a funzioni diverse e indipendenti le une dalle altre (automobile); se una funzione è in
atto, le aree cerebrali relative sono più attive delle altre.
Tecniche di neuroimaging (sottrazione attività aree attivate rispetto a controlli)

I neuroni specchio. Sono stati scoperti da Giacomo Rizzolatti. Nelle aree dei lobi parietali e frontali
(programmazione dei movimenti) dei macachi vi sono neuroni che rispondono in maniera selettiva a gesti
aventi scopi specifici: nell’atto di portare cibo alla bocca non si attivano se il cibo NON è commestibile. Si
attivano pure quando il macaco “osserva” un altro macaco compiere quel gesto. Studi con esseri umani hanno
dimostrato che deficit nei neuroni specchio sono alla base della “difficoltà a comprendere lo scopo dei
comportamenti altrui” (Disturbi spettro autistico).

La mente radicata. La mente così intesa è “radicata” nel corpo (embodied mind). Ogni singola conoscenza
si fonda sull’esperienza (grounded cognition) e procede perché non solo integra tutti i vari processi che
concorrono all’elaborazione delle informazioni, ma è anche in grado di prevedere, anticipare e simulare mondi
possibili. Integrazione mente-cervello.

La mente estesa. Oggi con l’avvento delle tecnologie cosa accade? Le tecnologie sono come estensioni
della mente; il processo della “mente estesa” è alla base del progresso e della cultura; vi sono strumenti come
amplificatori cognitivi:

 Ruota;
 Aratro;
 Cannocchiale;
 Microscopio;
 Tecnologie della comunicazione;
 Computer: archiviazione in memoria.

La conoscenza situata. La spinta verso l’esterno della mente che si avvale di strumenti che ne potenziano
le capacità, porta oggi a parlare di “conoscenza situata” (o situated cognition) ovvero la mente che si esplica
all’interno di contesti specifici. Tre sono i principi fondanti:
1. La mente non dipende solo dai processi cerebrali, ma anche dal corpo (embodied cognition);
2. L’attività cognitiva non si svolge solo in laboratorio ma in contesti reali specifici (embedded
cognition);
3. I confini della mente vanno oltre i confini del corpo (extended mind).
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LEZIONE 16/11/2020.

I METODI DI RICERCA.
I metodi di ricerca sono importanti perché finora, abbiamo trattato delle teorie e dei modelli epistemologici
che hanno cercato di studiare la mente e processi psicologici ma, chiaramente, all’interno di ciascuno di questi
modelli abbiamo sempre individuato e discusso di alcuni metodi di indagine, di ricerca.
Per esempio:
Gli Strutturalisti sostengono che solo l’individuo può conoscere la sua mente mediante l’introspezione,
tuttavia l'eccessiva “soggettività” di questa tecnica porta a considerarla non scientifica.
I Comportamentisti introducono il metodo scientifico, quindi uno studio più oggettivo basato sulla
messa in atto degli esperimenti, grazie ai quali è possibile studiare il comportamento, ma appunto
sostengono che si possono studiare solo quest’ultimo.
I Cognitivisti, attraverso il metodo della simulazione e con lo studio di laboratorio, dimostrano che
lo studio scientifico della mente e dei processi psichici (che non sono direttamente osservabili, in
quanto lo sono solo gli esiti) è possibile.
Oggi la psicologia è una disciplina che studia scientificamente sia i comportamenti che la mente
(quindi i processi osservabili e non osservabili del comportamento) e ritiene che qualunque
osservazione venga condotta sull'uomo, possa essere iscritta all’interno dell’ambito della psicologia
scientifica, infatti nonostante si stia trattando una scienza umana e non naturale, sempre di scienza si
parla.
N.B. Di volta in volta tratteremo i diversi metodi in psicologia come dei metodi a sé stanti, ma in realtà oggi
la psicologia va verso una definizione multi-metodo di un determinato fenomeno: ciò significa che non si
utilizza più, per studiare un determinato fenomeno psichico, SOLO un unico metodo (ad esempio solo il
metodo del laboratorio, o la correlazionale l’osservazione), ma un approccio basato sull’utilizzo di più
metodologie. Utilizzando più metodologie, se queste ultime danno vita a risultati simili, allora è più certo che
le conclusioni a cui arrivano gli studiosi sono delle conclusioni valide, attendibili e scientifiche.
Che cosa sono i metodi di ricerca? I metodi di ricerca sono approcci scientifici idonei a rispondere a specifiche
domande; un metodo è un insieme di procedure che il ricercatore mette in atto perché vuole rispondere ad una
domanda di ricerca.
Per esempio lo studio dei sogni è affrontato con metodi di ricerca differenti:
 Racconto del sogno da parte del soggetto (Freud, ad esempio, ha studiato i sogni con un approccio
clinico, ascoltando i sogni da parte dei soggetti);
 EEG (elettroencefalogramma), osservazione movimenti oculari (i cognitivisti, attraverso
l’elettroencefalogramma, quindi registrando le onde cerebrali, hanno notato come il sogno giunga in
una determinata fase del sonno);
 Altri metodi usano approcci più fenomenologici, come nel caso in cui soggetti che in realtà dicono di
non sognare mai, invece sognano e se svegliati in una specifica fase (registrata dall'encefalogramma
mentre dormono) ricordano e raccontano il sogno, per poi riaddormentarsi e al momento del risveglio
dire nuovamente di non aver sognato.
Quindi nello studio di un fenomeno, soprattutto se psichico, è fondamentale utilizzare un metodo di ricerca in
quanto una specifica tecnica di indagine ci consente di supportare le nostre conoscenze e oltrepassare in
maniera scientifica il limite che separa un resoconto soggettivo e da un’oggettività scientifica ed evidente.

Il senso comune. Il metodo ci dà anche garanzie di valicare quelle che sono le conoscenze del “senso
comune”. Piaget infatti diceva:
“Sfortunatamente per la psicologia, tutti pensano di essere un po' psicologi”
In realtà la nostra disciplina in alcuni casi oltrepassa le credenze comuni, portando avanti invece delle evidenze
empiriche che risultano addirittura contraddittorie rispetto a ciò che normalmente si pensa: l’obbiettivo
dovrebbe essere proprio questo, in fondo solo così, si può progredire nella conoscenza.

L’osservazione scientifica→Il primo passo per attuare un metodo scientifico di ricerca è quello di partire
dall’osservazione scientifica: nel momento in cui, posto che ci sia una domanda di ricerca, il ricercatore decide
di studiare un fenomeno, lo deve osservare in maniera sistematica, cioè deve raccogliere sistematicamente e
intersoggettivamente (da parte di più persone) prove empiriche o informazioni derivanti dall’esperienza
(l’utilizzo di più soggetti è un’ulteriore garanzia di scientificità).
Occorre raccogliere osservazioni condotte in più occasioni e da più osservatori per confermare o contraddire
il “senso comune”, cioè tutte quelle credenze di natura psicologica (ma anche più generali) condivise dalla
maggior parte delle persone e che non sempre vengono confermate dai risultati di ricerca. Il senso comune
tuttavia si rivela un affare solo a posteriori. Ad esempio vi è una ricerca ad opera di Francesca Gino e Francis
Flynn (2011) che sfata un mito molto comune che quando si fa un regalo “è il pensiero che conta”, per cui il
valore materiale del regalo fatto o ricevuto è indifferente. Alcuni studiosi hanno voluto approfondire questa
credenza e tramite un esperimento hanno rilevato che:
 Gli individui che devono “ricevere” un regalo preferiscono ricevere quanto da loro è stato richiesto
per essere più soddisfatti;
 I donatori invece hanno la convinzione che in fondo “conta il pensiero” che è indipendente da quello
che sta regalando.
La cosa più interessante da notare è che:
 Gli individui preferiscono ricevere il denaro anziché il regalo in sé, per potere acquistare
autonomamente la cosa desiderata;
 I donatori pensano il contrario.
Quindi se si vuole osservare un determinato fenomeno è importante analizzare le risposte e le rappresentazioni
di entrambi gli interlocutori interessati nel fenomeno. In questi processi non bisogna considerare il valore etico,
perché l’obiettivo è avere un visione più completa e globale del fenomeno, per cui avere soggetti diversi aiuta
a realizzare a pieno questo obiettivo.

Il metodo scientifico. Il metodo scientifico è l‘approccio fondato sulla raccolta di prove empiriche
attraverso descrizioni e misurazioni precise e sulla ricerca di leggi generali attraverso osservazione
controllate e risultati ripetibili. Questa definizione sintetizza tutti gli aspetti necessari ad avere garanzia di
scientificità della propria osservazione, infatti il metodo scientifico nella sua forma ideale è costituito da 6
tappe:
1. Effettuare delle osservazioni;
2. Definire il problema che si vuole studiare;
3. Proporre un'ipotesi di studio;
4. Raccogliere una serie di prove per verificare le ipotesi;
5. Elaborare un modello o costruire una teoria.
6. Pubblicare i risultati ottenuti e condividerli con la comunità scientifica di riferimento
Le prove empiriche devono inoltre utilizzare degli strumenti che misurano quel determinato fenomeno: così
come deve essere scientifico il metodo e la procedura, deve avere garanzie di scientificità anche lo strumento
utilizzato per descrivere e analizzare quel fenomeno. Ad esempio se volessimo indagare il livello di autostima
in una popolazione di soggetti, e volessimo utilizzare un questionario, allora anche quest'ultimo deve essere
valido e deve avere opportune proprietà psicometriche (la psicometria è lo studio dei fenomeni psichici).
Analizziamo le 6 tappe, considerando l’esempio dei colleghi di psicologia dell’Università della California: si
tratta di capire se gli obiettivi siano più facili da raggiungere quando le persone si concentrano sull'obiettivo
(dando importanza a quanto manca per il raggiungimento dello scopo) o sul risultato già ottenuto
(sottolineando gli obiettivi già raggiunti). In particolar modo concentriamoci sull’esempio di un ricercatore
che vuole studiare i comportamenti alimentari dei soggetti e in particolar modo vuole provare gli effetti di
alcune diete, che possono essere condotte dagli individui.

Effettuare delle osservazioni (1). Rispetto alla prima fase del metodo, ciò che muove un
ricercatore/osservatore a fare una ricerca è il fatto di avere delle informazioni rispetto il fenomeno che vuole
studiare, infatti vi sono delle osservazioni sistematiche che il ricercatore fa preliminarmente prima di arrivare
a formulare un’ipotesi nuova per studiare un determinato fenomeno. Naturalmente qualunque fenomeno che
si vuole studiare, di solito è stato precedentemente studiato. Basti pensare a Keplero: le conoscenze che
quest’ultimo possedeva rispetto alla teoria geocentrica costituiscono il punto di partenza delle sue osservazioni,
le quali lo portarono a scoprire che non era la terra al centro dell’universo, ma era il sole e il nostro pianeta
girava attorno ad esso.
Questo lascia comprendere che quando si inizia a studiare un nuovo fenomeno, l’intuizione molto spesso si
trae dalla letteratura precedente, a meno che non sia un fenomeno totalmente nuovo su cui non c’è alcuna
letteratura. Per cui il primo passo per iniziare una nuova ricerca in psicologia è quello di riferirsi alla
letteratura precedente di quel determinato fenomeno e capire cosa fino a quel punto si sa all’interno del
panorama culturale ed eventualmente partire da lì per analizzare il fenomeno stesso.
A proposito della ricerca sulla dieta, i ricercatori sanno che esistono due approcci rispetto all’efficacia delle
diete, il cui obiettivo è quello di perdere peso:
 Un approccio orientato al “countdown”, cioè quell’approccio in cui ai soggetti viene detto quanti
chili mancano per il raggiungimento dell’obiettivo (ad esempio se il soggetto vuole perdere 20 chili
e di volta in volta nei progressi quotidiani, mensili gli viene detto “ti mancano 19 chili, 18 e così via”.
Per cui è come se ci fosse una sorta di countdown da 20 fino a 0 per portare il soggetto a dire quanti
chili a perso).
 Un approccio orientato al raggiungimento di obiettivi intermedi, il quale prevede di dire al
soggetto quanti chili sono stati persi (ad esempio al soggetto in questo caso sarà detto “hai perso 5kg,
complimenti!”)

Definire un problema (2). Data la definizione iniziale di come la letteratura ha studiato un determinato
fenomeno, per poter fare avanzare la conoscenza circa quest’ultimo, il ricercatore deve porsi una domanda,
ovvero definire il problema, l’oggetto di studio. Considerando la ricerca sulla dieta, la prima domanda può
essere:
“Quale dei due approcci favorisce il raggiungimento dell’obbiettivo nella dieta?”
“L'approccio orientato al countdown? O l'approccio orientato al raggiungimento di obiettivi intermedi?”
Deduciamo dunque che qualunque studio di un fenomeno parte naturalmente da una domanda: molto spesso
quando leggeremo i report di pubblicazione di una ricerca, troveremo le domande di ricerca (research
questions) da cui sono partiti i ricercatori, che vengono molto spesso descritte e contribuiscono a spiegare di
cosa i ricercatori si sono occupati.

Proporre un’ipotesi (3). La domanda “Quale dei due approcci favorisce il raggiungimento dell’obiettivo
nella dieta” è troppo vaga per avere una risposta, per cui bisogna tradurre questa domanda di ricerca in una
vera e propria ipotesi. L’ipotesi è un’affermazione o una spiegazione provvisoria di un evento o un
rapporto. In termini più comuni, è un’intuizione verificabile su un determinato comportamento.
È a partire da dall'ipotesi che il ricercatore conduce le osservazioni che vanno a confermare o confutare l’ipotesi
stessa, che viene formulata come una sorta di pensiero ipotetico. Per verificare quale approccio dietetico sia
più valido, bisogna formulare due ipotesi e verificarle:
1. Un’ipotesi rispetto al fatto che se i soggetti adottano il countdown, allora perdono peso;
2. Un’ipotesi rispetto al fatto che se i soggetti adottano l'approccio finalizzato agli obiettivi, allora
perdono peso.
Ciò significa che la domanda generica iniziale sia tradotta in due diverse ipotesi di ricerca, ognuna formulata
rispetto ad un solo fenomeno da analizzare, con il fine di misurare la relazione fra quegli eventi.
P.S. La formulazione dell’ipotesi è fondamentale, perché è proprio in virtù di essa che viene scelto il metodo
di ricerca da applicare o il metodo statistico. Quest’ultimo non va a confermare l'ipotesi del ricercatore, ma
valuta quanto quell'ipotesi sia probabilmente vera e valida per tutti o meno. La scienza ci insegna che ogni
affermazione è valida fino a prova contraria, tuttavia ci dice anche che noi assumiamo che le informazioni
siano vere con una percentuale di errore pari a un tot. A proposito di ciò esiste l' α, un valore che il ricercatore
stabilisce a-priori che definisce la percentuale di errore in termini statistici-probabilistici (ad esempio se
dico che i miei risultati sono significativi al valore di α del 5%, significa che quell'affermazione è vera nel 95%
dei casi,ponendo caso il massimo sia 100 e io accetto che l'errore sia 5)
Le domande teoriche vengono trasformate in ipotesi verificabili tramite definizioni operative che stabiliscono
i procedimenti usati per rappresentare un concetto. Formulare l'ipotesi significa OPERAZIONALIZZARE
IL FENOMENO DI STUDIO, cioè tradurre in operazione un fenomeno. Questo è fondamentale perché se il
ricercato adotta un ragionamento di SE e ALLORA significa che sta avendo una definizione operativa.
(Considerando sempre la dieta, se i soggetti adottano un approccio, allora dimagriscono concretamente e se ne
utilizzano un altro allora non devono dimagrire). La definizione operativa è tradurre l'idea/l'ipotesi in
un'operazione matematica.
La definizione operativa del comportamento→Nell'ambito della ricerca sulla dieta, la definizione operativa
del comportamento viene fatta tramite la creazione un programma di dimagrimento per i soggetti. Conlon e i
suoi colleghi iniziarono creando un programma di esercizi dalla durata di 12 settimane che comprendeva
incontri di gruppo e un sito internet. Il procedimento consisteva nel pesare i partecipanti all’inizio del percorso
e poi una volta a settimana per registrare i progressi fino alla fine del programma. L’esistenza dei due approcci
diversi, presuppone la creazione di 3 gruppi:
1. Un gruppo orientato a mettere in atto un approccio countdown, informando i soggetti sui chili ancora
da perdere;
2. Un gruppo orientato a obiettivi intermedi, per cui di volta in volta si dava un feedback ai soggetti
rispetto ai chili persi con l’avanzare delle settimane.
3. Un gruppo di controllo che non partecipava a nessun programma e non era sottoposto ad un trattamento
sperimentale, dunque faceva una dieta ma senza seguire nessun dei due approcci degli altri gruppi.
Questo gruppo è importante per verificare la tesi e avere un punto di paragone perché altrimenti
l'affermazione non può essere verificata.

Raccogliere le prove empiriche (4). Dopo aver formulato le ipotesi, creato e stabilito il disegno di ricerca
(in questo caso è un disegno di “pre-post”) si procede con l’osservazione dei tre gruppi per raccogliere le
variabili dipendenti dalla misurazione che il ricercatore ha pianificato, ed esse potrebbero essere:
Il peso perso;
Le sensazioni, emozioni, credenze dei soggetti rispetto all’efficacia del trattamento che stanno
facendo;
Etc…
Una volta raccolte le prove empiriche, il ricercatore ottiene dei risultati che confermano o rifiutano la sua
ipotesi. Nel caso della dieta, le prove sono risultate a favore dell’approccio “countdown”.

Costruire una teoria (5). A questo punto nel momento in cui il ricercatore ottiene dei risultati, deve
discuterli, cioè dare una spiegazione dei dati che ha ottenuto. In genere durante la “discussion” dei risultati,
si costruisce una nuova TEORIA su un fenomeno:
 La costruzione della teoria serve per “definire” la conoscenza di un certo fenomeno;
 La teoria riassume le osservazioni fatte e le spiega;
 La teoria offre delle ricadute applicative per gli individui.
L’approccio orientato al raggiungimento di un obiettivo come “countdown” rende i soggetti consapevoli di
“quanto manca” e quindi aumenta la motivazione e favorisce la messa in atto di comportamenti volti al
raggiungimento dell’obiettivo stesso, generando stili di vita salutari e benessere.

 (Ad esempio se l’obiettivo iniziale del soggetto era perdere 20 kg, ha un valore motivazionale
superiore sapere che deve ancora perdere 15 kg, piuttosto che sapere di averne già persi 5. Infatti se il
soggetto sa di aver perso 5 kg, pensa di aver fatto un buon lavoro e dunque ritiene di potersi concedere
qualche eccezione alla dieta. Dunque se il soggetto è consapevole che per raggiungere l'obiettivo
finale ancora ci sono molti chili da perdere, è chiaro che diventerà più persistente per raggiungere
quella meta.)
Formulando un nuova teoria va avanti il progresso scientifico.

Pubblicare i risultati (6). Le ricerche scientifiche si condividono all’interno della comunità di riferimento,
in riviste specializzate e accreditate pubblicando lo studio nella sua interezza (abstract, introduzione, metodo,
risultati, discussione e conclusioni) così da renderlo replicabile da parte di che, È importante che l’esperimento
sia ben descritto e analizzato in tutte le sue parti (introduzione, soggetti, il metodo, i risultati, l’analisi dei
dati…), e soprattutto che sia assolutamente valido e replicabile, affinchè altri ricercatori in futuro, possano ri-
confermarlo o confutarlo.
→Ad esempio io posso prendere una ricerca elaborata da un’altra persona vent’anni prima, rifarla oggi con la
stessa procedura e scoprire che ci sono dei risultati completamente differenti, oppure trovarli esattamente
identici:
 Se i risultati corrispondono, allora viene ulteriormente confermata quella ricerca, anche a distanza di
tempo;
 Altrimenti, se questi dati non corrispondono, si nota come questi ultimi siano stati determinati dai
paradigmi culturali del periodo in cui sono stati formulati.
I risultati della ricerca vengono sottoposti a un processo di revisione da parte dei comitati editoriali, che
leggono gli articoli, vedono se questi ultimi sono chiari, se sono coerenti con la letteratura di riferimento, se
non ci sono errori metodologici, se i risultati sono scritti bene, se le conclusioni sono adeguate, etc. Ci sono
stati tanti casi di lavori che dopo essere stati pubblicati, furono ritirati, e di conseguenza gli autori che li
avevano prodotti sono andati incontro a sanzioni perché possibilmente quei lavori erano stati basati su
affermazioni false o su trial che non sono stati effettuati. Il processo di revisione e pubblicazione dei risultati
è importante perché quei risultati raggiunti diventano patrimonio della letteratura e vengono condivisi dagli
scienziati all’interno di quel settore.

L’etica della ricerca. Gli psicologi devono seguire un codice etico nel rapporto con le persone oggetto dei
loro studi, quindi è chiaro che è fondamentale avere un atteggiamento etico della ricerca. È fondamentale
infatti:

 I dati non devono essere raccolti con l'inganno;


 A tal proposito possiamo riportare l'esperimento di Milgram basato sull'autoritarismo: ai
partecipanti veniva indicato di dare ad altri partecipanti quelle che pensavano fossero delle
dolorose scosse elettriche, ma in realtà non lo erano. Pensando che avrebbero fatto del male
a qualcuno, molti hanno abbandonato l'esperimento risentiti. Chi accettó, nel periodo
successivo all' esperimento, soffrì per il senso di colpa e l'angoscia. Questo tipo di test pone
porta a chiedersi se le informazioni acquisite giustificano i costi sostenuti, cioè se l'inganno
fosse veramente necessario.
 Gli esperimenti non devono essere pericolosi per la salute fisica e mentale dei soggetti;
 Deve esserci consenso informato dei partecipanti;
 La privacy dei soggetti e dei dati raccolti deve essere garantita e tutelata.
Il codice etico si applica anche agli animali, nei confronti dei quali i ricercatori sono tenuti ad assicurare il
benessere ea trattarli con umanità.
Per assicurare l'applicazione delle linee guida, presso la maggior parte delle università e dei dipartimenti di
psicologia, vengono istituiti i comitati etici che controllano la metodologia usata per le ricerche. Infatti
chiunque voglia fare una nuova ricerca deve ottenere il parere positivo del comitato etico, in quanto garantisce
che la ricerca è eseguita non è contraria ai principi dell'etica della ricerca, così facendo il ricercatore
salvaguarda il suo operato.

I METODI: LE DUE CATEGORIE.


Una volta descritto l’approccio scientifico allo studio dei fenomeni, bisogna focalizzarsi sui vari metodi di
ricerca. Questi vengono distinti in due grandi categorie:
 Metodi sperimentali;
 Esperimento
 Metodi quasi-sperimentali (impiegati soprattutto nelle scienze sociali come psicologia, in quanto è
difficile realizzare degli esperimenti veri e propri per studiare i fenomeni psicologici)
 Osservazioni;
 Studi correzionali;
 Caso singolo e metodo clinico;
 Metodo dell’inchiesta.

I metodi sperimentali: l'esperimento.


Per andare oltre la descrizione, e comprendere meglio il comportamento, gli psicologi devono essere in grado
di spiegare perché ci comportiamo in un determinato modo. Per individuare le cause di un determinato
fenomeno o comportamento occorre usare il metodo sperimentale, cioè l’esperimento: una prova formale
per confermare o rifiutare l’ipotesi. Il metodo sperimentale è dunque finalizzato a scoprire le cause di un
determinato fenomeno o comportamento; ci permette di rispondere al perché di quest’ultimo ed è volto a
verificare l’ipotesi sperimentale per confermarla o rifiutarla.
Il laboratorio e il controllo sperimentale→ In questo metodo le osservazioni vengono condotte all’interno
dei laboratori (Ricorda... Quando abbiamo parlato del comportamentismo abbiamo fatto riferimento a
Skinner, Tolman e Watson che eseguivano esperimenti in laboratorio usando cavie animali), infatti l'idea di
un metodo basato sull’esperimento comprende anche l’idea di realizzare un laboratorio all’interno del quale
vengono condotte le osservazioni sperimentali.
Gli esperimenti vanno condotti in laboratorio per «controllare» le variabili che intervengono e «isolare» il più
possibile le cause ipotizzate, infatti una delle esigenze fondamentali di questo metodo è quella di isolare le
variabili che si vogliono studiare.

 Ricordando le variabili intervenienti, queste ultime potevano essere non tenute sotto controllo dallo
sperimentatore. Tuttavia se i comportamentisti volevano analizzare i meccanismi del comportamento
animale legato al condizionamento classico in relazione alla fame, per evitare che i risultati fossero
influenzati dai diversi livelli di fame dei cani, avrebbero dovuto nutrire tutti gli animali allo stesso
orario.
Controllare la situazione sperimentale significa esercitare un controllo sulle variabili che possono influenzare
i risultati sui quali si sta investigando.
La relazione causa-effetto→Gli esperimenti consentono agli psicologi di controllare in modo attento le
condizioni e soprattutto di mettere a fuoco la relazione causa-effetto (cioè una variabile che causa e l’effetto
ottenuto che si deve misurare). Per scoprire questa relazione è necessaria una condizione controllata in cui
NON ci sono delle variabili che intervengono a modificare questa relazione.
Per realizzare un esperimento che consideri la relazione causa-effetto, bisogna procedere nel seguente modo:
1. Modifica in maniera diretta una condizione, che si ritiene influenzi un comportamento.
Nell'esperimento dunque vengono considerate una variabile causa e l’effetto che quella variabile ha
sul comportamento del soggetto;
2. Creare 2 o più gruppi di soggetti, simili tra loro sotto tutti gli aspetti «ad eccezione» della condizione
che si vuole studiare;
3. Verificare se la modifica della condizione modifica il comportamento dei soggetti. L'esperimento
infatti è quella condizione in cui il risultato finale è la presenza di una modifica effettiva del
comportamento del soggetto in relazione alla condizione della causa che si sta indagando.
Esempio→ Supponiamo di voler verificare la relazione causale (causa effetto) che c’è tra l'utilizzo del cellulare
alla guida e l’incremento degli incidenti stradali. Quindi la domanda di ricerca sarebbe: l’uso del cellulare alla
guida aumenta la probabilità che si verifichino più incidenti stradali?
La causa e l’effetto. Naturalmente a fronte di questa domanda se si volesse condurre un esperimento,
bisognerebbe innanzitutto definire in maniera chiara qual è la causa e quale è l'effetto:
 La causa (ipotetica) è la guida con il cellulare, quindi: SE il soggetto sta guidando con il cellulare,
ALLORA avrà più incidenti stradali e sarà meno efficiente nella guida.
 L’effetto che viene misurato è l’efficienza nella guida:
I gruppi. È quindi fondamentale l’operazionalizzazione. A questo punto bisogna creare i due gruppi di
soggetti, sottoporli a due condizioni differenti e poi eseguire un confronto. In particolare:
 Il gruppo sperimentale è formato dai soggetti che guidano usando il cellulare; quindi si misura la
loro efficienza di guida con un test di abilità. Questo gruppo è assegnato alla condizione causa;
 Il gruppo di controllo è formato dai soggetti che guidano senza usare il cellulare; quindi si misura
anche la loro efficienza di guida tramite un test di abilità. Questo gruppo NON è assegnato ad alcuna
variabile causa.
Questi due gruppi vengono sottoposti alle stesse prove a eccezione della condizione o fattore, che
intenzionalmente viene modificata. Questa condizione viene definita variabile indipendente (vedi meglio
dopo).
I disegni between/within-subject. I due gruppi possono essere composti dagli stessi soggetti, infatti si
possono distinguere dei disegni sperimentali, che sono:
Between-subject, (tra i soggetti), per cui ci sono due gruppi diversi, uno appartenente a quello
sperimentale e uno a quello di controllo (come quello dei cellulari);
Within-subject, (dentro i soggetti), dove i soggetti sono gli stessi nei due gruppi, quindi prima il
soggetto è sperimentale e poi è anche controllo di se stesso.
Vi sono dei disegni prestabiliti che danno delle informazioni specifiche rispetto ai risultati/agli effetti che si
possono misurare, però la predisposizione del disegno di ricerca è una scelta del ricercatore, che in base agli
obbiettivi della ricerca, ritiene più efficace usare un disegno piuttosto che un altro. In generale la scelta del
disegno between e within è tipica del ricercatore che spiega perché è stato scelto un metodo piuttosto che un
altro per rispondere alle sue domande.
Poniamo il caso di voler studiare se il tratto dell’estroversione è stabile nel tempo:
I disegni within sono disegni di tipo longitudinale, per cui se volessimo studiare il fatto che il tratto
dell'estroversione è stabile nel tempo in un solo soggetto, dovremmo fare una ricerca di tipo
longitudinale prendendo lo stesso soggetto e facendo delle misurazioni progressive sui suoi livelli di
estroversione nel tempo (quando ha 10 anni, 15 anni,35 anni, etc). In questo caso usiamo il disegno
within-subject perché il nostro obiettivo è studiare il tratto dell'estroversione sempre nello stesso
individuo, che diventa sperimentale ed osservatore di se stesso.
Se volessimo invece misurare il tratto dell'estroversione nelle diverse popolazioni europee,
utilizzeremo un disegno between, in cui confrontiamo quanto il tratto di personalità dell'estroversione
nel tempo risulta stabile nelle varie popolazioni mondiali.
La scelta del disegno dipende quindi dall'obiettivo di ricerca, in base al quale il ricercatore sceglie. Alcuni
disegni sono più efficaci per il raggiungimento di alcuni obiettivi e altri meno.
Le variabili→ Una variabile è qualsiasi condizione considerata che può cambiare valore o essere modificata
durante un esperimento. Per identificare le cause e gli effetti di un esperimento occorre prendere in
considerazione tre tipi di variabili:
1. Le variabili indipendenti sono condizioni o aspetti dell'ambiente studiati empiricamente che possono
essere manipolati dallo sperimentatore che ne decide la grandezza, la quantità o il valore. Le variabili
indipendenti sono le cause ipotizzate di un determinato fenomeno o comportamento.
2. 2. Le variabili dipendenti corrispondono ai risultati dell'esperimento, ossia rivelano gli effetti
osservati attribuiti alle variabili indipendenti. Di solito, sono un aspetto ben definito del
comportamento misurato dallo sperimentatore attraverso dei punteggi ottenuti, ad esempio, nei test.
3. Le variabili estranee o intervenienti sono fattori che possono agire liberamente e influire sulla
variabile dipendente. Queste variabili devono essere controllate per evitare che influenzino risultato
dell'esperimento.
Possiamo applicare questi termini al nostro esperimento sull'uso del cellulare durante la guida in questo modo:
 L'uso del cellulare è la variabile indipendente (vogliamo sapere se l'uso del cellulare influenza
l'abilità di guida);
 L'abilità di guida (definita dei punteggi ottenuti nel test sulle abilità di guida) è la variabile
dipendente (vogliamo sapere se la capacità di guidare bene dipende dal fatto che una persona usi o
meno il cellulare);
 Tutte le altre variabili che possono influenzare la capacità di guidare sono le variabili estranee o
intervenienti (ad esempio il numero di ore di sonno nella notte prima del test, l'expertise di guida
oppure la familiarità con la macchina usata per l'esperimento).
Il controllo sperimentale→ Affinchè si realizzi l’esperimento, si deve controllare la condizione sperimentale.
Il controllo sperimentale consiste nell’escludere le variabili intervenienti.
Riprendendo l’esperimento sulla guida, è necessario controllare le condizioni esterne alla guida, cioè tutti gli
elementi che possono influenzare l’esperimento: non si può verificare con esattezza l’efficienza alla guida in
una strada urbana in cui possono attraversare un gatto, un pedone, dunque una serie di avvenimenti diversi che
alterano i risultati. La strada deve essere un percorso standard uguale per tutti: bisogna fare in modo che
tutte le condizioni siano esattamente equivalenti per i due gruppi.
Non devono essere uguali soltanto le condizione esterne, ma devono essere uguali anche le condizioni interne,
in quanto, ad esempio:
 Non si può fare un confronto tra soggetti stanchi e soggetti riposati, perché i primi saranno indotti a
fare molti più errori nella guida rispetto ai secondi;
 Oppure non si possono confrontare soggetti con un’abilità di guida “normale” e soggetti abituati e
bravi nella guida anche in condizioni di stress, in quanto non si potrà mai essere sicuri che i risultati
siano legati esclusivamente alla guida con il cellulare, poiché potrebbero essere influenzati da altri
fattori (perdita del sonno, expertise di guida..), cioè dalle variabili intervenienti.
L'effetto delle variabili intervenienti si può limitare con l'uso del laboratorio che favorisce la conduzione
dell'esperimento in modo asettico e con l'assegnazione casuale o randomizzata dei soggetti ai due gruppi.
Tramite quest’ultima un partecipante ha la stessa probabilità di far parte del gruppo sperimentale o del gruppo
di controllo; essa consente perciò di distribuire in maniera equilibrata le differenze personali nei due gruppi e
quindi di effettuare un controllo sulle variabili estranee.
Esempio→Quando il ricercatore deve condurre un esperimento, non può condurlo su tutta la popolazione di
riferimento, ma deve creare un campionamento. Il ricercatore non può prendere la popolazione di tutta Italia
con la patente, ma dovrà considerare una popolazione significativa:

 Il ricercatore potrebbe scegliere di escludere i soggetti maggiori di 18 anni, oppure può scegliere di
non considerare l'età e prendere una popolazione varia in possesso di patente dai 18 ai 90 anni; a quel
punto attribuisce casualmente i soggetti al gruppo sperimentale e al gruppo di controllo.
 Il ricercatore deve fare attenzione a scegliere i soggetti, perché ad esempio considerando ironicamente
il detto “donna al volante, pericolo costante”, è ovvio che volendo misurare l'incremento degli
incidenti a causa dell'uso del cellulare, la scelta dei soggetti non deve ricadere soltanto sulle donne,
ma ci deve essere un numero bilanciato di donne e di uomini nei due gruppi (a meno che non cambi
la domanda di partenza).
La valutazione dei risultati→ Come possiamo dire se la variabile indipendente ha davvero avuto un effetto?
Come posso valutare i miei risultati e dire che l'uso del cellulare è la causa degli incidenti stradali?
Questo problema viene affrontato facendo ricorso alla statistica, che permette di confermare o meno l'ipotesi
di partenza. I resoconti degli esperimenti nelle riviste di psicologia quasi sempre includono con l'affermazione
“i risultati sono statisticamente significativi”: questa frase indica che i risultati ottenuti si sarebbero verificati
molto raramente Solo grazie al caso punto per essere statisticamente significativa, una differenza deve essere
tanto rilevante che, se si c'è più il caso, si verificherebbe in meno di 5 esperimenti su 100.
Alla fine dunque il ricercatore conclude dicendo che il risultato ottenuto è statisticamente significativo con un
valore di .90 o .95, ovvero accetta l’ipotesi con un margine di errore casuale del 10% o del 5%. Questi sono i
valori alfa che vengono stabiliti a priori, in quanto è tutto vero fino a prova contraria, e la tabella del risultato
non è mai completamente esente da un margine di errore. Il ricercatore deve considerare che i risultati raggiunti
sono adeguati a questo margine di errore e deve accettare che essi non sono casuali e aleatori, ma risentono
della stima della probabilità.
La metanalisi. Su alcuni temi considerati importanti in psicologia vengono svolti numerosi studi. Sebbene
ciascuno di essi arricchisca le conoscenze complessive, i risultati dei vari studi non sempre sono concordi. Ad
esempio, ipotizziamo di voler verificare se siano maggiormente disposti a correre certi rischi gli uomini o le
donne. Una ricerca, svolta utilizzando internet, rivela che più di 100 studi hanno esaminato i diversi tipi di
rischi.
A questo punto si ci chiede: Esiste un modo per combinare i risultati di tutti questi studi? Si, una tecnica
statistica chiamata metanalisi può essere usata per combinare i risultati di molti studi, come se facessero parte
di un'unica grande ricerca. La metanalisi consiste nel fondere i risultati di una serie di studi. Negli ultimi anni,
questa tecnica è stata utilizzata per riassumere e sintetizzare molte ricerche nell'ambito della psicologia, poiché
consente di disporre di un quadro più ampio e giungere a conclusioni che potrebbero essere poco chiare in uno
studio limitato, su piccola scala.
Gli effetti da controllare. Quando si conducono gli esperimenti scientifici, oltre alle variabili interne ed
esterne, bisogna andare a considerare altri problemi che si possono generare.
L’effetto dei partecipanti→In un esperimento ben progettato occorre prestare attenzione a quanto si comunica
ai partecipanti, poiché delle piccole informazioni potrebbero creare un effetto dei partecipanti, ossia
determinare cambiamenti nel comportamento dei partecipanti causati dall’influenza delle loro aspettative
rispetto agli obiettivi della ricerca.

 Considerando sempre che il ricercatore voglia misurare la reazione che c'è tra l'uso del cellulare e
l'efficienza della guida, se egli dicesse apertamente a tutti i soggetti qual è l'obiettivo della ricerca, è
chiaro che i soggetti potrebbero volere inconsapevolmente dimostrare che pur guidando con il
cellulare, sono ugualmente bravi (dunque è possibile che i partecipanti arrivino il loro livello di
attenzione per soddisfare l'aspettativa del ricercatore). L'aspettativa del partecipante rispetto ai risultati
della ricerca può influenzare i risultati stessi.
Questo viene controllato con la consegna che viene data al soggetto, infatti in essa non deve essere mai
esplicitato lo scopo della ricerca. ATTENZIONE, questo non significa ingannare il soggetto, ma significa
presentare in maniera meno diretta l'obiettivo.

 Il ricercatore nel caso della guida potrebbe limitarsi a dire che questa ricerca esplora le abitudini di
guida dei soggetti mentre sono al volante e usano il cellulare.
L’effetto placebo→Un altro effetto da controllare è l'effetto placebo (lo riprenderemo rispetto alla teoria
cognitivo-attivazionale di Schachter e Singer), in virtù del quale i partecipanti all'esperimento si convincono
che il loro cambiamento nel comportamento è dato dall'assunzione di un farmaco. Le sostante non attive
(pillole di zucchero o iniezioni di soluzione fisiologica) sono spesso usate come placebo; se un placebo infatti
ha qualche effetto, ciò è dovuto alla suggestione, non al principio attivo di un farmaco.
In questo caso ai soggetti veniva fatta un'infezione di soluzione fisiologica e veniva detto loro che gli era stata
inietta dell'adrenalina. Si nota che i soggetti del gruppo sperimentale, convinti del fatto che gli fosse stata
iniettata l'adrenalina, si comportavano in modo diverso a differenza invece dei soggetti del gruppo di controllo
a cui non era stato somministrato nulla
Ma come può una sostanza non attiva quale il placebo avere qualche effetto? I placebo influiscono sulle
aspettative sia consapevoli che non e di conseguenza sulle reazioni emotive e fisiche. Infatti, i soggetti essendo
consapevoli che le loro azioni fossero legate a quel particolare farmaco, hanno modificato i loro
comportamenti. Dunque il comportamento osservato non era quello veritiero. L’assunzione di un placebo
determina un aumento delle endorfine dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene e una riduzione dell’attività
cerebrale collegata al dolore, perciò l’effetto non è solo psicologico, ma anche fisico.
N.B. L'effetto placebo è anche nello stato emotivo, infatti vi è una sorta di valutazione cognitiva della
situazione che si sta vivendo e che quindi poi influenza lo stato fisiologico.
L’esperimento con il singolo cieco→L'effetto delle aspettative e l'effetto placebo possono essere controllati
con l'uso del cosiddetto esperimento con il singolo cieco: in questo caso i partecipanti sono all'oscuro degli
scopi della ricerca a cui prendono parte; non sanno se sono inclusi nel gruppo sperimentale o nel gruppo di
controllo o se viene somministrato loro un farmaco o un placebo. A tutti i partecipanti vengono date le stesse
istruzioni e a tutti viene somministrata una compressa o una iniezione:

 I membri del gruppo sperimentale assumo un farmaco vero;


 Quelli del gruppo di controllo un placebo.
Poiché partecipanti sono ciechi riguardo all'ipotesi della ricerca, e non sanno se hanno assunto o meno un
farmaco, le loro aspettative sono le stesse e qualunque differenza nel loro comportamento deve perciò essere
imputata al farmaco. Tuttavia anche questa soluzione non è una garanzia sufficiente poiché gli stessi ricercatori
talvolta condizionano l'esperimento influenzando con i loro comportamenti i partecipanti.
L’effetto dello sperimentatore→Il ricercatore, spiegando le sue ipotesi ai partecipanti, può influire sui
risultati di uno studio. Infatti i rimane sempre il problema dell'effetto dello sperimentatore: ossia determinare
cambiamenti nel comportamento dei partecipanti causati dall'influenza non intenzionale del ricercatore stesso.
Anche lo sperimentatore può manifestare le proprie aspettative rispetto all'andamento dei risultati della ricerca,
e di conseguenza si corre il rischio che gli sperimentatori trovino nei risultati proprio quello che si aspettano
(questo si verifica perché gli esseri umani sono molto sensibili agli indizi su ciò che ci si aspetta da loro).
→Questo effetto è collegato all’effetto pigmalione di Rosenthal, è alla base della nascita dei pregiudizi, che
sono degli “errori del pensiero”, in quanto ci convinciamo che le persone abbiano una determinata
caratteristica e ci comportiamo con loro in base a tale convinzione. Questo effetto è la causa per cui gli
insegnanti si creano dei pregiudizi rispetto ai propri alunni (esperimento accademia aereonautica pag 31). Se
l'insegnante si convince o ritiene che un alunno abbia un'intelligenza superiore alla media, sarà portato a
ritenere maggiormente bravo quell'alunno. Questo effetto è dunque legato alle credenze che il soggetto può
presentare rispetto all'andamento di un fenomeno. L'effetto pigmalione si può ritrovare anche nei genitori, i
quali sono soliti dire che il primo genito è caratterialmente più pagato, invece il secondo ha un carattere più
vivace: il modo in cui i genitori si comportano con il primo e con il secondo figlio risente di questa convinzione.
La ricerca quindi non esente dalle convinzioni dei ricercatori, per cui per evitare cosiddetti biases (gli errori di
giudizio/pensiero) nell'interpretazione dei risultati viene utilizzato questo esperimento in doppio cieco.
La profezia autoavverantesi→Una profezia autoavverantesi è una previsione che induce ad agire in modo
che la previsione stessa si realizzi. Per esempio, molti insegnanti sottovalutano le abilità dei bambini
appartenenti a minoranze etniche e ciò limita le loro possibilità di riuscita. Per riassumere, le persone talvolta
si comportano proprio come ci si aspetta da loro, ma occorre anche ricordare che alcuni dimostrano di essere
all'altezza delle aspettative nutrite nei loro confronti, altri invece non lo sono.
L’esperimento in doppio cieco→Un modo per risolvere l’effetto dello sperimentatore è quello dell’uso
dell’esperimento in doppio cieco: vi è un coordinatore che sa quali sono gli obiettivi principali della ricerca,
ma i partecipanti e lo sperimentatore sono all’oscuro degli scopi della ricerca.

 Ad esempio Watson era a conoscenza del fatto che stava facendo un esperimento per condizionare la
paura del piccolo Albert, e i suoi collaboratori che materialmente facevano l'esperimento non sapevano
che stavano condizionando le emozioni.

I METODI NON/QUASI SPERIMENTALI. Nelle scienze sociali non sempre è possibile effettuare
degli esperimenti controllati e rigorosi che vadano ad evidenziare le relazioni di causa-effetto tra le variabili,
per cui in questi casi si utilizzano i metodi non sperimentali. Questi ultimi si utilizzando anche quando lo
scopo dello ricercatore non è quello di analizzare le relazioni causa-effetto dei fenomeni, ma possibilmente
quando vuole semplicemente osservare e descrivere in maniera naturalistica un determinato fenomeno; oppure
quando vuole scoprire quali sono le interazioni tra le variabili; o quando in altre circostanze piuttosto che
mettere a confronto gruppi di soggetti differenti, vuole interessarsi esclusivamente a un unico soggetto (un po'
come faceva Freud con i casi clinici).
La maggior parte degli studi in psicologia si configurano come studi quasi sperimentali, in quanto la psicologia
difficilmente riesce a creare campioni rappresentativi nella popolazione di riferimento, infatti molto spesso
gli psicologici si ritrovano a lavorare con gruppi di individui preformati.

 Esempio→ Se io volessi fare una ricerca nelle scuole del territorio palermitano, potrei prendere
casualmente gruppi di soggetti che appartengono alle varie classi, ma in realtà la popolazione di
riferimento è una popolazione già preformata in quanto si tratta di classi già costituite.
L’osservazione naturalistica. Uno dei metodi non sperimentali è l'osservazione naturalistica. Essa si basa
sull'osservazione di un fenomeno nel contesto naturale in cui si realizza. L’osservazione naturalistica ci
consente di studiare un comportamento che non è stato alterato o sul quale non sono intervenute delle influenze
esterne.
Perché è un metodo “descrittivo”? L'osservazione naturalistica è un metodo descrittivo che non spiega i
fenomeni e che non permette di formulare delle ipotesi circa le relazioni causa effetto di un determinato
comportamento. Esempio→ Riprendendo l’esempio della ricerca nelle scuole, supponiamo di voler osservare
all’interno di queste ultime il fenomeno del bullismo. Osservando tale fenomeno potrei effettivamente
descriverne le caratteristiche, ma non posso assolutamente realizzare un'affermazione causa effetto, in quanto
non sottopongo i soggetti a un test.
Esempi di osservazione naturalistica sono:

 L'esperimento di Kolher e di Jane Goodall sugli scimpanzè. Quest’ultima osservò che questo animale
usava un filo d’erba per catturare le termiti di un termitaio;
 Gli esperienti eseguiti su strade con telecamere nascoste, finalizzati a osservare il comportamento dei
passanti alla vista di due bambine sul ciglio della strada, una vestita bene e una vestita male; da questo
esperimento si nota che i passanti sono più predisposti a dare aiuto alla bambina vestita bene piuttosto
che a quella vestita male.
L’influenza dell’osservatore→L'osservazione naturalistica presuppone la presenza di un osservatore.
Questo metodo è una condizione nella quale l'osservatore non entra nel contesto di osservazione, ma rimane
all'esterno. Il metodo naturalistico può avere delle conseguenze nel soggetto che viene osservato, infatti
l’influenza dell’osservatore si riferisce ai cambiamenti nel comportamento di un soggetto causati dalla
consapevolezza di essere osservato. Il soggetto sapendo che è preso in esame, modifica il comportamento
normale, alterando le condizioni che avverrebbero nel caso in cui non sa di essere osservato.
Per questo motivo, nel caso dello studio degli animali, gli etologi devono stare molto attenti a mantenere le
distanze ed evitare di diventare “amici” degli animali oggetto dell’osservazione. Uno sbaglio frequente da
evitare nell’osservare gli animali è l’errore di antropomorfizzazione che consiste nell’attribuire pensieri,
sentimenti o motivazioni agli animai per spiegare il loro comportamento. Questo errore può condurre a
conclusioni molto erronee. Analogamente, se i passanti sanno che vengono osservati, allora presteranno aiuto
alla bambina vestita male; oppure se la madre sa che viene osservata mentre gioca con il proprio bambino,
allora possibilmente non lo andrà a rimproverare, quando invece in situazioni normali possibilmente lo avrebbe
chiaramente rimproverato.
La distorsione dell’osservatore porta quest’ultimo a leggere le dinamiche in maniera soggettiva e non sempre
oggettiva, registrando e vedendo ciò che si aspetta di vedere e non tutto il contesto. In alcune situazioni la
distorsione dell’osservatore può avere conseguenze molto gravi, come nel caso in cui un poliziotto aspettandosi
un atteggiamento criminoso, può sparare a una persona che sta cercando soltanto il suo portafogli, in quanto
gli sembra che stia per estrarre una pistola.
Esempio→Se io voglio dimostrare che le donne sono meno esperte nella guida e sto conducendo una
osservazione naturalistica al semaforo, tenderò a registrare tutte le volte che le donne perdono tempo al
semaforo perché parlano al cellulare, piuttosto che tutte le volte che gli uomini sbagliano nel medesimo modo
o in altri modi che comportano gli stessi errori del sesso opposto.
P.S. Questo aspetto sarà meglio compreso quando parleremo dell'attenzione selettiva, perché chi osserva un
fenomeno è normale che lo osservi con le proprie risorse attentive e cognitive di conseguenza può commettere
degli errori.
Come si evita la distorsione? Per evitare questa “distorsione”, viene utilizzato l’esperimento “in doppio cieco”
nel quale gli sperimentatori non sanno qual è lo scopo della ricerca; inoltre gli psicologi utilizzano anche la
registrazione dell’osservatore o un campionamento dettagliato di dati e osservazioni. Le osservazioni
naturalistiche dunque vengono fatte:
 Sul campo tramite l’utilizzo di telecamere nascoste, ad esempio sulla strada come gli esperimenti
eseguiti per visionare le cause degli incidenti stradali;
 Tramite l’utilizzo di uno specchio unidirezionale. Nello studio delle relazioni di attaccamento madre
bambino viene creata una particolare condizione di laboratorio (che si chiama strange situation) nella
quale madre e bambino interagiscono in una stanza in cui vi è uno specchio unidirezionale al di là
del quale ci sono gli sperimentatori che osservano ciò che accade;
 Oppure tutte quelle condizioni in cui vengono fatti entrare degli individui in una stanza (come un
laboratorio) e il loro comportamento viene registrato con le telecamere.

Gli studi correlazionali. Un altro metodo di ricerca è rappresentato dagli studi correlazionali, i quali
analizzano le relazioni o le correlazioni tra due o più fenomeni o variabili, oggetto di studio. Anche in questo
caso all’osservatore non interessa analizzare il rapporto causa-effetto tra le variabili, ma gli interessa
fondamentalmente comprendere se quelle variabili sono associate tra di loro.
Esempio→Supponiamo che il ricercatore sia interessato ad analizzare le relazioni tra ansia e rendimento
scolastico, in questo caso l’oggetto di studio non è “l’ansia è la causa di un minor rendimento scolastico?”,
ma il fatto di voler vedere se i livelli di ansia sono associati e in che misura sono associati con il rendimento
scolastico, studiando quanto questi due fenomeni variano insieme.
Il primo passo in ricerche di questo tipo consiste nel misurare due fattori e poi si utilizza una tecnica statistica
per trovare il loro grado di correlazione. La ricerca correlazionale è un tipo specifico di ricerca non
sperimentale, poiché il ricercatore non fa un vero e proprio esperimento, in quanto non manipola
intenzionalmente le variabili oggetto di studio. Il ricercatore crea un disegno di ricerca, nel quale va ad usare
alcune misure di ansia e alcune di rendimento scolastico, analizzando ad esempio una popolazione studentesca,
somministrando questionari relativi alle variabili in analisi, facendo poi la media degli stessi con metodi
statistici specifici che misurano il coefficiente di correlazione che stabilisce la correlazione tra i due fenomeni.
I coefficienti di correlazione→ La forza e la direzione di una relazione vengono espresse dal coefficiente di
correlazione che equivale a un numero compreso tra +1 e -1, passando per 0. I grafici delle relazioni possono
aiutare a comprendere meglio tali indici.
Supponiamo che il grafico cartesiano qui presente sia formato:

 Dalla retta delle ascisse che indica il rendimento scolastico;


 Dalla retta delle ordinate che indica l'ansia.
Questo grafico utilizza i puntini rossi, cioè i punteggi del campione dei dati ottenuti, che in base al loro
posizionamento stabiliscono la relazione tra due variabili:

 Se i puntini rossi sono distribuiti casualmente, dunque se il numero è 0 o vicino allo zero, la relazione
tra le due variabili è debole o inesistente (figura 3);
 Se i puntini sono disposti in maniera lineare, vuol dire che esiste una correlazione positiva (+1, figura
5)) o negativa (-1, figura 1) tra le due variabili.

1 2 3 4 5
La correlazione positiva perfetta (+1) indica che altri esseri e dei valori di una variabile crescono
progressivamente anche i valori dell'altra; quindi i valori dell'ansia crescono e anche quelli del rendimento. Un
altro esempio di correlazione positiva esiste tra i voti nelle scuole superiori e quelli all'università, così agli
studenti che sono bravi nelle scuole superiori tendono a essere bravi anche all'università.
La correlazione negativa perfetta (-1) indica che al crescere dei valori di una variabile diminuiscono i valori
dell'altra, quindi i punteggi dei soggetti al questionario d'ansia diminuiscono e aumentano quelli del rendimento
scolastico. Per esempio, esiste una correlazione negativa tra il numero di ore che gli studenti passano a giocare
con i videogiochi e risultati scolastici; ossia, più tempo si passa a giocare con i videogiochi, più bassi sono i
voti a scuola. Questo è il cosiddetto “effetto zombie”.
Ciò consente di affermare che se si passa troppo tempo con i videogiochi voti diminuiscono? Potrebbe
sembrare così, ma, il modo migliore per essere sicuri dell'esistenza di una relazione causale è svolgere un
esperimento controllato.
Correlazione e Causalità→Se la correlazione è 0 indica l’assenza di relazioni tra le variabili, quindi i punteggi
sono completamente indipendenti. È importante sottolineare che la correlazione NON deve essere confusa
con la causalità (una relazione causa-effetto). Considerando sempre il caso dei videogiochi e dello scarso
rendimento, se la correlazione è 0 significa che queste due variabili sono l'una indipendente dall'altra. Per
questo motivo è possibile che gli studenti che non sono interessati allo studio abbiano più tempo per giocare
ai videogame. Se ciò fosse vero, il fatto che non studino e prendano voti bassi sarebbero due conseguenze
causate entrambe dal disinteresse, e non dal fatto di giocare troppo con i videogame. Quindi solo perché un
fatto sembra collegato a un altro non significa che esista tra i due una relazione causa-effetto.
N.B. Molti degli esperimenti in psicologia sono di tipo correlazionale. Nonostante sia difficile, ultimamente si
ci sta approssimando con i modelli di equazione strutturale per individuare delle relazioni causa-effetto, ma
questi stessi modelli di equazione strutturale sono basati su cross-sectional study, cioè studi nei quali si guarda
alle associazioni delle variabili e non agli effetti della causa del l'uno dell'altro.
Qual è la differenza tra esperimento e correlazione? La differenza fondamentale tra un metodo di ricerca
basato sull'esperimento e il metodo di ricerca basato sugli studi correlazionali è relativa al fatto che:
 L'esperimento è finalizzato a rintracciare le relazioni causa ed effetto tra le variabili;
 Gli studi correlazionali misurano la forza dell’associazione, non si può dire se una variabile è causa
dell’altra o viceversa, ma si può osservare l’andamento delle variabili in maniera associata.

LEZIONE 17/11/2020.
Il caso singolo e il metodo clinico. Accanto al metodo basato sull’osservazione, sugli studi sperimentali o
su quelli correlazionali vi è anche l’analisi del caso singolo che, in parte, coincide con il metodo clinico. Lo
studio del caso singolo viene utilizzato dal ricercatore che prende in esame solo un individuo, dunque
corrisponde all’analisi approfondita di un solo soggetto, che può funzionare come la fonte migliore di
informazioni.
Metodo clinico→Il caso singolo è tipico del metodo clinico per studiare le malattie mentali e l’effetto delle
psicoterapie, infatti i single case hanno fornito molte conoscenze utili sul modo di curare alcuni disturbi
psicologici (un esempio di caso singolo è quello di Anna O). È un approccio qualitativo e non quantitativo
allo studio dei fenomeni psichici ed è descrittivo, in quanto il caso viene narrato dal clinico (nel caso di Anna
O venivano descritte le caratteristiche della paziente, il decorso della sua malattia e il percorso terapeutico,
etc).
Dunque…Il metodo clinico è dunque lo studio approfondito di un singolo soggetto, e può essere applicato allo
studio di un paziente che presenta una malattia psichica e alla relativa terapia che il clinico mette in atto per
aiutare il soggetto a superare il suo problema psichiatrico/psicologico.
Disegno sperimentale→ Il caso singolo non viene utilizzato solo in ambito psicoterapeutico o con finalità
descrittive di ciò che accade nella terapia, ma viene anche utilizzato quando si vogliono valutare sul singolo
individuo gli effetti di uno specifico trattamento. Nel disegno sperimentale osservativo ABA il
comportamento di un individuo viene osservato:
Prima di un trattamento (A),
Durante il trattamento (B)
E quando il trattamento è stato interrotto (A).
La condizione A rappresenta la baseline e la condizione B può essere una procedura di rinforzo, di estinzione,
una terapia, etc. Quando il comportamento ritorna alla condizione A è probabile che, se si verifica un
cambiamento, questo sia dovuto al trattamento somministrato. Negli studi con un soggetto singolo non sono
ovviamente presenti le differenze individuali tra i partecipanti e il soggetto funge da controllo di se stesso.
Esempio di questo metodo. Nel 2004 è stato effettuato un esperimento basato su questo metodo (lo ha fatto la
prof durante il suo dottorato). L’obiettivo degli osservatori era quello di vedere se un bambino con disabilità
intellettiva incrementava il suo interagendo con i robot, dunque coinvolgendo in una costruzione in un piccolo
laboratorio di robotica (volevano testare la robotica educativa, creando dei robot e programmandoli tramite un
kit della lego ancora oggi presente).
 La variabile indipendente che veniva manipolata era l’utilizzo della robotica (che era la causa
dell'incremento del rendimento scolastico e della motivazione all’apprendimento dell'apprendimento);
 Le variabili dipendenti, che dovevano misurarsi prima e dopo, corrispondevano alla variabile legata
all’rendimento scolastico e quella legata alla motivazione all’apprendimento.
Dato che il soggetto era uno non era necessario fare un test con una misurazione, ma era più opportuno
utilizzare il disegno ABA anche in virtù della disabilità che presentava.
Baseline iniziale (A). Inizialmente, nella baseline iniziale (A) sono state fatte 8 osservazioni distanti
l’una dall’altra di una settimana, misurando con dei voti inseriti in una griglia, il grado di motivazione
allo studio di ogni singola giornata. Questo dava una prima visione della situazione del bambino, grazie
alla considerazione dei punteggi medi.
Trattamento (B). Successivamente è stato introdotto il trattamento, cioè il laboratorio di robotica
(condizione sperimentale). Durante il laboratorio di robotica, le variabili dipendenti sono state
riosservate per altre 8 volte.
Baseline post-trattamento (A). Infine, è stato misurato per altre 8 volte il rendimento scolastico e la
motivazione ad apprendere dopo che il bambino aveva terminato la partecipazione al laboratorio.
Alla fine gli osservatori hanno confrontato tutti i punteggi: dal confronto dei punteggi tra la baseline iniziale e
la baseline post-trattamento si comprende l’effetto del trattamento, per cui se ad esempio prima il bambino
partiva da un livello 3 e poi arriva a un livello 8 significa che vi è stato un incremento di 5, quindi il trattamento
di robotica ha avuto effetto. Questo aspetto dà un ulteriore dettaglio rispetto agli studi longitudinali effettuati
nel tempo. In realtà il bambino dalla fase iniziale alla fase finale avrebbe potuto migliorare semplicemente
grazie alla sua maturazione nel corso tempo, per cui è possibile che l’incremento ci sia stato a prescindere dalla
partecipazione al trattamento B. Per escludere ciò, si fanno degli ulteriori confronti, in particolare tra i punteggi
ottenuti durante la fase di trattamento e quelli ottenuti prima e dopo.
N.B. In realtà lo studio del caso clinico non è alternativo all’esperimento o al disegno osservativo, ma è una
particolare condizione che quando si realizza può comprendere vari approcci e vari metodi. Questo consente
di avere un’idea della possibilità di utilizzare delle procedure di studio multi-metodo (che utilizzano tanti
approcci differenti e non necessariamente uno).
Chiaramente la differenza rispetto a tutti gli altri disegni è che, mentre negli o negli studi correlazionali si
lavora su gruppi di soggetti, la peculiarità del caso singolo è che la ricerca riguarda solo ed esclusivamente
un individuo alla volta (nell’applicare questa procedura al singolo soggetto posso utilizzare un metodo
osservativo, un metodo sperimentale misto, un metodo correlazionale o altro).
Neuropsicologia→Un’altra applicazione specifica dello studio del caso singolo è in neuropsicologia, quindi
anche negli studi neuropsicologici viene prediletta questa modalità. I casi singoli possono, talvolta essere
considerati test clinici naturali, ossia incidenti o altri eventi naturali che forniscono dati).
La neuropsicologia è la disciplina psicologica che studia gli effetti cognitivi, emotivi e comportamentali del
danno cerebrale, dunque cerca di studiare le funzioni psichiche in relazione alle compromissioni del sistema
nervoso centrale. L’approccio neuropsicologico non ha una sua specificità all’interno della psicologia come
disciplina generale, ma nasce all’interno di un approccio medico allo studio dei processi psichici, per poi
transitare all’interno della psicologia. Ciò significa che gli studi di neuropsicologia in realtà si sono sviluppati
a partire da particolari situazioni di trauma o particolari situazioni cliniche di tipo medico che caratterizzavano
i soggetti.
N.B. Oggi esistono le tecniche di neuroimaging (risonanza magnetica, TAC) e altri vari strumenti che
consentono di osservare il funzionamento cerebrale, ma quando ancora non esistevano questi strumenti
(parliamo dei primi anni dell’800, quando nasce la psicologia generale), è chiaro che i medici del tempo
utilizzavano quello che avevano, ovvero i soggetti che subivano dei traumi cranici, oppure delle asportazioni
di parti del cervello per delle situazioni tumorali, quindi in generale individui che avevano delle alterazioni
organiche al livello del SNC.
In particolare il caso di tipo neuropsicologico che diede l’avvio allo studio della neuropsicologia attraverso
l’utilizzo del metodo clinico, fu il caso riferito dal dottor J.M. Harlow (1868) che riguardava Phineas Cage,
un giovane caporeparto rispettabile, integrato nella società, onesto e fidato lavoratore che aveva delle relazioni
sociali tranquille con i suoi familiari.
Lui lavorava per le ferrovie, ma un giorno ebbe un terribile incidente: una spranga di ferro a causa di
un’esplosione di dinamite gli oltrepassò il cranio da punta a punta, entrando nella testa ed uscendo sotto l’orbita
oculare. P. rimase miracolosamente vivo, rimanendo cieco di un occhio, ma l’incidente cambia
completamente il suo carattere: da persona pacifica e socievole, diventa una persona irritabile, impulsiva,
senza controllo, incapace di pianificare gli eventi. Questo cambiamento della personalità avvenne perché era
alterata, a seguito dell’incidente l’area frontale (lobotomia frontale accidentale) deputata al controllo degli
impulsi, alla pianificazione, all’organizzazione.
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La lesione al lobo frontale (sindrome frontale) determina disinibizione, mancato controllo degli impulsi,
incapacità di pianificare le cose a lungo termine, quindi vengono compromesse le funzioni frontali. Per
esempio le lesioni frontali sono quelle tipiche delle cadute in motorino: il trauma si localizza il più delle volte
al livello frontale e quindi inizialmente si pensa che la persona non abbia nulla e poi invece viene fuori che c’è
un’alterazione di tipo frontale. Quando ci sono gli incidenti stradali, a seconda dell’area che viene colpita il
soggetto può presentare delle afasie, legate alla produzione o alla comprensione.
Ciò che succede con la sindrome frontale, può capitare anche con i tumori cerebrali. Una volta una signora
iniziò a presentare come primo sintomo l’impossibilità di denominare oggetti familiari, per cui a poco a poco
si stava manifestando un'afasia di produzione che però con una serie di approfondimenti con TAC si rivelò
essere un tumore cerebrale.
Quindi a seconda delle aree colpite piccoli campanellini si possono manifestare con alterazioni di funzioni
cognitive. È indubbio che nel nostro cervello ci siano delle aree specifiche legate alle diverse funzioni. Ci sono
aree soprattutto della corteccia che sono deputate al controllo delle funzioni cognitive della memoria,
dell’attenzione, delle emozioni, del linguaggio e così via, per cui se c'è un trauma di tipo organico (causato da
un incidente, da un tumore o da un problema vascolare legato ad un ictus) è chiaro che poi si possono fare
degli studi che coniugano entrambe le anime: l'anima neurologica e l'anima psicologica.
Per esempio parlando dell'attenzione, parleremo anche della sindrome da neglect, cioè quella che colpisce i
soggetti che hanno dei traumi a livello del midollo spinale. -
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Questo caso divenne un caso clinico che portò gli studiosi a chiedersi se c’è una relazione tra il modo in cui
regoliamo le nostre emozioni, il modo in cui pianifichiamo gli eventi a lunga distanza, e il nostro cervello.
Dunque nasce l’approccio neuropsicologico che è legato all’utilizzo di test clinici naturali.
N.B. Il falegname Michael Melnick ebbe un incidente simile a quello di P.G., ma guarì completamente senza
conseguenze durature. La reazione del tutto diversa di Melnick a un incidente simile dimostra perché gli
psicologi preferiscono gli esperimenti controllati, infatti nello studio dei casi singoli non ci sono gruppi di
controllo con cui fare dei confronti, e si ci limita alle conclusioni a cui è possibile aggiungere attraverso le
osservazioni cliniche.
Gli studi di neuropsicologia:
 Riguardano anche sindromi;
 Hanno studiato le afasie;
 Gli effetti della dislessia in termini di alterazione neurobiologica;
 Danno un grande impulso all’area dell’analisi delle demenze, delle malattie neurodegenerative che
determinano delle alterazioni nella memoria (ad esempio alla sindrome di alzheimer, in cui soggetti
affetti mantengono i ricordi presenti nella memoria a lungo termine, ma perdono completamente la
memoria a breve termine).
Quindi gli studi neuropsicologici partono da condizioni cliniche di tipo medico e da lì conducono una serie di
esperimenti legati allo studio dei fenomeni, delle funzioni psichiche ecc.
Piccolo approfondimento→Le sorelle Genain. Gli studi sui casi singoli possono fornire delle speciali
opportunità per rispondere a interrogativi interessanti. Per esempio, uno studio classico nella psicologia
riguarda 4 gemelle identiche, le sorelle Genain, che avevano gli stessi geni e divennero tutte e quattro
schizofreniche prima dei 25 anni. Il fatto che condividessero gli stessi geni suggerisce che i disturbi mentali
sono influenzati dall' ereditarietà, ma anche le condizioni ambientali avevamo una qualche importanza poiché
alcune sorelle erano più disturbate di altre (infatti la meno grave delle 4 era la sola ad essere capace di sfuggire
al padre, un alcolizzato che terrorizzava, spiava e molestava sessualmente le figlie).
Il metodo clinico oggi. Tradizionalmente lo psicologo usava il metodo clinico nel tentativo di aiutare il
paziente a risolvere i problemi personali attraverso strumenti quali il colloquio clinico e l'interpretazione. Oggi
viene inteso invece come raccolta di informazioni riguardo alla persona dalla nascita in poi tramite colloqui
clinici, test e questionari. Gli obiettivi principali sono:
 La ricerca dei fattori che hanno causato i problemi della persona da cui consegue la formulazione di
ipotesi generali per la ricerca e la convalida o meno di un determinato trattamento);
 La raccolta di ulteriori dati per confermare o meno le ipotesi;
 L'aiuto all'individuo per ottenere un miglioramento della sua condizione.

Il metodo dell’inchiesta. Il metodo dell’inchiesta è un metodo largamente impiegato che utilizza particolari
tecniche per creare domande e codificare risposte, nello specifico quelle dell'intervista e del questionario.
Lo psicologo (o quantomeno quello che si vuole occupare di ricerca), dovrebbe avere delle competenze legate
alla costruzione di strumenti di rilevazione, infatti per costruire un questionario o un'intervista, bisogna
rispettare determinati principi come la lunghezza del questionario oppure i contenuti delle domande.
N.B. Circa i contenuti delle domande, per esempio nei questionari on-line, solitamente in seguito a delle
domande legate a specifiche aree vengono poste alla fine del questionario domande circa le caratteristiche
socio-anagrafiche (il sesso, l'età, la provenienza) Perché queste domande vengono fatte alla fine e non all'inizio
dell'inchiesta? Perché si tratta di domande che vanno a toccare lo specifico personale del soggetto, quindi
possono a volte risultare intrusive. Pensiamo alle situazioni legate alla definizione del proprio genere: per chi
vive dei conflitti legati alla propria identità di genere queste domande (che sembrano apparentemente banali),
in realtà possono rappresentare dei temi molto delicati, ecco perché vengono generalmente poste alla fine, per
evitare di non turbare già all'inizio lo stato d'animo del soggetto, che altrimenti potrebbe dare delle risposte
non pienamente sincere.
Va ricordato che qualunque metodo venga applicato o qualunque questionario venga somministrato non si
deve mai, per i principi dell'etica della ricerca, mettere il soggetto in una condizione di malessere o di difficoltà.
A volte, per esempio, alcuni questionari che misurano le condizioni cliniche come la depressione o la solitudine
possono creare del disagio nel soggetto che risponde, per cui il ricercatore deve essere consapevole e tenere
conto di questi aspetti. Ovviamente nella maggior parte dei casi, nei questionari che vengono utilizzati non ci
sono delle risposte giuste o delle risposte sbagliate (in quanto possono essere dei questionari che raccolgono
dati su atteggiamenti, convinzioni, conoscenze, credenze).
In genere, dopo aver costruito uno strumento di rilevazione con un'apposita tecnica, viene somministrato a un
gruppo di persone appartenenti a un campione rappresentativo. Quest'ultimo è un piccolo gruppo di persone
che riflette le caratteristiche della popolazione generale. Un campione adeguato è costituito nella stessa
percentuale di uomini, donne, giovani, anziani, professionisti, impiegati e così via presenti nell'intera
popolazione. Anche se lo psicologo è interessato a un'intera popolazione, un piccolo campione consente di
trarre conclusioni su un gruppo più ampio, evitando di dover intervistare tutti gli individui. I campioni
rappresentativi sono spesso ottenuti selezionando casualmente dalla popolazione generale le persone da
includere.
Il metodo dell'inchiesta è abbastanza preciso, tuttavia se un sondaggio è fondato su un campione non
rappresentativo, che non riflette in modo preciso la popolazione che dovrebbe rappresentar, anche il quadro
risultante potrebbe essere errato. A tal proposito i sondaggi realizzati da riviste, siti internet e servizi di
informazione in rete sono spesso poco rappresentativi della popolazione generale; tuttavia la possibilità di
porre delle domande agli intervistati per telefono, rende più facile ottenere dei campioni molto ampi e anche
se una persona su tre si rifiuta di rispondere al sondaggio, è ancora possibile considerare attendibili risultati.
Sondaggi attraverso il web→Di recente gli psicologi hanno iniziato effettuare sondaggi ed esperimenti
utilizzando internet, infatti spesso vengono condotte le cosiddette ricerche on-line. Da questo punto di vista vi
è tutta una letteratura che mette a confronto i dati raccolti attraverso i questionari telematici on-line, con i
dati raccolti attraverso i cosiddetti “strumenti carta-matita”, cioè i questionari cartacei da compilare
manualmente. Si è visto che vi è un buon grado di correlazione tra il punteggio ottenuto dal questionario carta
matita e il punteggio ottenuto dal questione del telematico, quindi vi è anche un buon grado di attendibilità e
validità.
Bisogna però anche considerare che le conclusioni che si possono trarre dagli studi condotti attraverso il web
presentano il problema che non è facile controllare chi davvero risponde ai questionari on-line, pertanto gli
psicologi stanno cercando dei modi per raccogliere informazioni completamente attendibili attraverso la rete.
Il problema del metodo dell'inchiesta→ A fronte delle domande a cui il soggetto vuole rispondere e a fronte
del fatto che le misure del cosiddetto “self-report” sono legate alla risposta stessa che il soggetto dà, si viene
a creare una situazione di distorsione nella risposta. Questa distorsione viene chiamata desiderabilità
sociale, e rappresenta il problema principale del metodo dell’inchiesta, in quanto il soggetto talvolta potrebbe
essere indotto a rispondere in maniera falsata, dando di sé un profilo maggiormente desiderabile.
Per esempio (questo caratterizza molto i questionari di personalità) oggi tutti quei ragazzi che vogliono
intraprendere la carriera militare o richiedere il porto d'armi, devono affrontare un processo di valutazione
psicologica e, in particolare, vengono somministrati loro alcuni questionari di personalità che consentono di
rintracciare anche delle caratteristiche poco adattive dei soggetti (come tratti antisociali o tratti
psicopatologici). Chiaramente in questi questionari a volte ci può essere la tendenza del soggetto a presentare
un'immagine migliore di sé, infatti si verifica che gli individui rispondano in maniera alterata per nascondere
o celare aspetti più devianti della propria personalità.
Per evitare questo problema e dunque per controllare il fenomeno della desiderabilità sociale, all’interno dei
questionari esistono diverse tipologie di scale:
 Le “scale lie” hanno l'obiettivo di controllare l'attendibilità, la tendenza a falsare il proprio profilo
rispondendo in modo veritiero o mentendo alle domande. In virtù di queste scale, capita che ci siano
delle domande un po' strane, che non c'entrano molto con il questionario in generale: ad esempio
(considerando un questionario che prevede solo le risposte si e no), una domanda che si potrebbe
trovare è la seguente “ho badato a me stesso fin da quando avevo 2 anni”; chiaramente se il soggetto
risponde si (preso dalla foga di dare le risposte o perché non sta apprestano molta attenzione),
sommando poi tutte le risposte date a queste “domande lie”, se il punteggio della scala lie è troppo
alto, allora è chiaro che il soggetto non ha risposto in modo veritiero alle domande.
 Vi sono altre scale che controllano il “set della risposta”, cioè se le risposte vengono messe
casualmente, per cui. Per fare sì che il soggetto abbia i livelli attentivi vigili ad ogni domanda alla
quale sta rispondendo, può trovarsi di fronte a domande formulate in maniera negativa che
interrompono il flusso attentivo per tenere il soggetto sempre vigile ed evitare che risponda sempre
allo stesso modo. Può capitare che in un questionario ci sia una domanda che si ripete più volte o
formulata in modo diverso, infatti questo consente di avere una misura della coerenza del soggetto,
per capire se sta rispondendo consapevolmente o a caso.

SENSAZIONE E PERCEZIONE
La funzione primaria dei sensi è di agire come trasduttori biologici, strumenti che convertono un tipo di
energia in un'altra. Ciascun senso trasforma un particolare tipo di energia fisica in immagini di attività
(potenziale d'azione) nei neuroni. Quotidianamente siamo circondati da molteplici stimoli (visivi, acustici,
olfattivi, ecc), come melodie, odori, immagini, per cui riceviamo tantissime informazioni sensoriali attraverso
i nostri organi di senso (vista, udito, tatto, gusto, olfatto, ma anche dolore, pressione, vibrazione…). Ma come
fanno il corpo e la mente ad attribuire un significato agli stimoli?
Le informazioni che arrivano al cervello dagli organi sensoriali creano le sensazioni che rielaborate dal
cervello si trasformano in percezioni.
 Sensazione (1);
 Percezione (2).
Quasi tutte le fasi di questo processo sono inconsce, mentre, di solito, siamo consapevoli solo del risultato: ciò
che è percepito.

LA SENSAZIONE (1).
Quando parliamo di sensazione, ci riferiamo all’attivazione degli organi di senso che vengono stimolati da
una sorgente di energia fisica (come l'onda sonora).
L’attivazione degli organi di senso produce un’impressione soggettiva immediata e semplice, che corrisponde
ad una certa intensità di uno stimolo fisico. Ad esempio se io sono al buio, il mio occhio è abituato a una certa
energia luminosa, ma non appena vado fuori e c'è molto sole, i recettori sensoriali captano la variazione
dell'intensità luminosa e inviano questo segale al cervello, che da un punto di vista fisiologico attiva una
risposta somato-sensoriale e motoria, grazie alla quale il mio occhio comincia ad abituarsi alla luce. Dunque:
La sensazione è il processo basale per cui i recettori sensoriali elaborano l’impulso neuronale trasmettendolo
al cervello:

 La luce è lo stimolo per la visione


 Il suono è lo stimolo per l’udito
 L’odore è lo stimolo per l’olfatto, ecc..
I recettori hanno la capacità di cogliere la variazione di intensità tra due stimoli, attivando una risposta somato-
sensoriale e motoria. Ricorda…la legge di Weber-Fechner regola il rapporto tra la stimolazione, l’intensità
di stimolazione e la percezione sensoriale (vedi prima).
Definizione di “sensazione”→La sensazione è l'effetto immediato ed elementare del contatto dei recettori
sensoriali con uno stimolo fisico o chimico proveniente dal mondo esterno (o interno) e dotato di intensità
sufficiente a suscitare una risposta più o meno complessa.
Posto che ci sia un'energia esterna che deve essere captata dai nostri recettori sensoriali, e quindi che deve
essere dotata di un'intensità sufficiente per esserci una risposta, si aprono due sotto-concetti:
 L'incapacità fisiologica del nostro sistema visivo a cogliere alcuni stimoli presenti nell'ambiente, per
cui la realtà esterna non può essere colta nella sua “totalità” dall’uomo (stimoli come gli Ultrasuoni o
i raggi UV, non sono percepiti dall’uomo, ma ad esempio lo sono dai pipistrelli e dai cani);
 I nostri recettori sensoriali sono specie-specifici, cioè legati alle nostre caratteristiche in quanto essere
umani. C'è dunque una variabilità tra le specie:
 Visione a colori per uomo, che possiede coni e bastoncelli, ma scarsa acuità visiva (non
riusciamo a vedere a lunga distanza o di notte);
 Visione notturna e in bianco e nero per gatti e felini.

Gli stimoli. Lo stimolo è qualsiasi sorgente di energia che provoca una risposta a livello degli organi di senso.
Dobbiamo distinguere tra due diversi tipi di stimoli:
 Stimolo distale, cioè l’energia di stimolazione proveniente dall’esterno che arriva al recettore
sensoriale.
 Stimolo prossimale, cioè la parte di tale energia che viene raccolta dal recettore sensoriale, tradotta
in attività bio-elettrica e avvertita come stimolo dal soggetto.
Quando l’energia di stimolazione sterna attiva i nostri organi di senso, lo stimolo diventa da distale a
prossimale. Gli stimoli variano per intensità e per qualità (possono essere più o meno forti, oppure possono
essere di diverse tipi, come la luce di una candela e la luce del sole, etc.)

La soglia. Per essere recepita dai nostri recettori (quindi per avere una sensazione), l’energia deve avere
un’intensità minima, detta soglia assoluta, cioè la quantità minima di intensità che uno stimolo deve avere per
essere recepito da un essere umano. Va ricordata anche la curva psicometrica; in relazione alla quale vi è una
grande variabilità individuale, infatti ci sono soggetti che hanno una soglia del dolore più alta rispetto ad
altri (vanno ricordati gli esperimenti di Fechner e Weber a proposito della soglia; loro pizzicavano i soggetti
con la punta dello spillo e chiedevano loro se si fossero fatti male, dunque svolgevano una serie di esperimenti
mirati a stimare la soglia).
Approfondimenti. Anche i pazienti affetti da insensibilità congenita al dolore hanno una soglia, però hanno
delle alterazioni in termini di percezione soggettiva della soglia del dolore. Ad esempio in alcune forme di
autismo, alcuni bambini hanno delle alterazioni rispetto la soglia del dolore, infatti a volte capita che si facciano
veramente male, o abbiano dei comportamenti legati all’autolesionismo, perché non avvertono il dolore.
Quest’ultimo è necessario perché ci fa avvertire una situazione di pericolo. Il dolore ha una valenza fisiologica
importante e purtroppo in alcune circostanze, in alcune patologie questa è alterata.

La stima di grandezza. È importante sottolineare il concetto di “stima di grandezza”, per cui i soggetti sono
in grado di effettuare delle stime e quindi sono capaci di valutare ed eventualmente decidere se rilevare o meno
le differenze di intensità (ricordiamo l’esperimento “1 candela-100 candele” della legge di Weber e Fechner).
Il meccanismo della stima è un meccanismo di tipo decisionale. A volte ci sono delle situazioni in cui:
 Possiamo avere delle omissioni (nel senso che lo stimolo è presente ma noi non lo rileviamo);
 Oppure i cosiddetti “falsi allarmi”, per cui lo stimolo non c’è ma secondo noi c’è stato.
Questi due aspetti sono legati alla capacità decisionale rispetto al fatto che è presente o meno lo stimolo.

L’adattamento sensoriale. In realtà siamo più sensibili alle variazioni di intensità dello stimolo, infatti i
nostri recettori sensoriali sono caratterizzati dall’adattamento sensoriale, in virtù del quale rispondono meno
agli stimoli che non cambiano. Esempi di adattamento sensoriale sono:
 L’intossicazione da monossido di carbonio è un intossicazione di cui i soggetti non hanno
consapevolezza. I soggetti non si accorgono della presenza del monossido di carbonio, perché esso
mantiene un’intensità costante, per cui i recettori olfattivi si abituano a tale intensità e non si
accorgono della fuga di gas; infatti sono gli altri (chi è fuori) ad accorgersi di quest’ultima.
 La mamma che cucina il pollo fritto non si accorge della di frittura sparsa per casa, se invece
qualcuno arriva da fuori e passa da una stanza che ha una concentrazione diversa rispetto a quell’odore
si accorge dell’intensità.
 Il meccanismo dell’adattamento sensoriale nella luce solare è fondamentale; Pensiamo all’atto fisico
di camminare per strada, che può sembrarci assolutamente banale, ma non lo è: le ombre e la
luminosità cambiano ad ogni piccolo passo che facciamo, per cui se i nostri occhi non avessero questo
meccanismo di adattamento sensoriale, noi ci confonderemmo a camminare perché cambia
continuamente la luminosità all’esterno. Non sempre il meccanismo fisico sensoriale è assolutamente
identico alla nostra rielaborazione percettiva dell’ambiente attorno a noi. Per noi il mondo esterno è
un mondo stabile, caratterizzato da una luce stabile, da oggetti che sono posti nell’ambiente, ma in
realtà quello che accade da un punto di vista fisico in termini di energia luminosa è completamente
differente.
 Quando abbiamo un anello al dito per tanto tempo, nonostante esso abbia un suo peso, noi non lo
percepiamo più, infatti non ci rendiamo più conto della sua presenza e del suo peso, poiché i recettori
sensoriali si sono adattati a questo peso, per cui lo stimolo è costante.
Questi esempi accadono perché i nostri recettori sensoriali olfattivi o anche uditivi, visivi, sono sensibili alla
variazione di intensità, quindi: più siamo esposti alla stimolazione, meno i nostri recettori sensoriali
rispondono.
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La sensazione di cadere nel letto mentre si dorme è legata ai processi del sonno. Vi è una spiegazione
fisiologica che è legata all’equilibrio in termini ormonali, di rilascio del cortisolo e altri ormoni, e anche legata
alla fase di addormentamento, durante cui l’organismo si sta predisponendo, per cui si questa sorta di scarica
dal punto di vista motorio, e si la sensazione di cadere mentre si dorme, che è dunque legata al funzionamento
cinestetico del nostro organismo.
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L’analisi sensoriale. L’adattamento sensoriale è un processo fisiologico importante, che ha un grande valore
adattivo, ma la nostra esperienza sensoriale, cioè l’esperienza che noi abbiamo della sensazione è influenzata
dal processo di analisi sensoriale.
I nostri recettori visivi sono specializzati nel selezionare le informazioni esterne in base a stimoli di base
specifici, che sono riconducibili alle caratteristiche percettive fondamentali attraverso cui selezioniamo gli
oggetti esterni. Queste caratteristiche sono ad esempio:
Linee;
Forme (l’oggetto quindi di base può essere rotondo, quadrato…);
Colori ecc.
Una serie di studi fatti con i primati dimostrano che noi condividiamo con le
scimmie la capacità di distinguere l'orientamento di uno stimolo. Nell'immagine
le barrette sono tutte oblique tranne una, per cui il nostro sistema visivo coglie
l'orientamento spaziale: questo effetto è chiamato pop-out visuale, ed è colto anche
dai bambini di 3 mesi.
Approfondimento. Sebbene la sensibilità alle percezioni sia una caratteristica innata
del nostro sistema nervoso, essa è anche influenzata dalle esperienze della prima
infanzia. Alcuni studiosi dell'università di Cambridge hanno allevato dei cuccioli di gatto:

 Un gruppo di cuccioli è stato allevato in una stanza decorata con linee verticali sui muri;
 Un altro gruppo di cuccioli è stato allevato in una stanza con le linee orizzontali.
Una volta tornata in ambienti normali:

 I gatti del primo gruppo saltavano con facilità su una sedia, ma quando camminavano sul pavimento
andavano a sbattere contro le gambe delle sedie÷
 i secondi, invece, scansavano con facilità le gambe delle sedie, ma non riuscivano a saltare su superfici
orizzontali.
Dunque: I gatti cresciuti con le strisce verticali non vedevano le linee orizzontali e i gatti abituati a quelle
orizzontali agivano come se le linee verticali fossero invisibili.

La codifica sensoriale. Nel momento in cui l’informazione viene captata dal recettore sensoriale,
processata e analizzata rispetto agli stimoli di base, deve essere codificata: il nostro sistema sensoriale possiede
il meccanismo della codifica sensoriale, cioè la capacità che l’informazione in base alle caratteristiche
percettive, venga tradotta in un input nervoso che raggiunge il cervello e di conseguenza viene rappresentata.
Dal punto di vista della codifica sensoriale, noi siamo in grado solo di inviare differenze rilevanti tra stimoli,
dunque rispondiamo alle variazioni di intensità (soglia differenziale e soglia assoluta, vedi prima).

LEZIONE 23/11/2020.
LA PERCEZIONE (2).
Bisogna adesso fare un passo avanti rispetto ai processi di elaborazione degli stimoli esterni a noi, che sono
dunque alla base dei processi fisiologici legati alla sensazione. Dalla sensazione si passa dunque alla
percezione:
 L'energia fisica si trasduce a livello recettivo in impulso neuronale, che raggiunge il cervello,
 Quest'ultimo elabora l'esperienza sensoriale nelle diverse aree corticali del nostro sistema nervoso
centrale, determinando diverse “sensazioni”.
 A livello più profondo, l'informazione sensoriale si combina con altre informazioni, cioè con altri
processi mentali e cognitivi che provengono dalle aree associative del cervello.
Ecco la percezione.
La percezione dunque non coincide esattamente con la sensazione, perché quest'ultima è soltanto un processo
fisiologico, passivo in cui uno stimolo fisico si traduce in attività cerebrali. Tuttavia nel momento in cui a
questa sensazione si deve applicare un processo di elaborazione dello stimolo, si deve parlare di percezione,
che è appunto l'elaborazione cognitiva dello stimolo sensoriale. La percezione è un processo di elaborazione
veloce, immediato, automatico e inconsapevole, infatti pensiamo che ciò che vediamo è quello che percepiamo,
ma non è sempre così: a volte, ciò che noi vediamo da un punto di vista sensoriale non per forza coincide con
ciò che percepiamo.

 Ricorda...Di fronte l’immagine ambigua della vecchia e della giovane, vedevamo tutti lo stesso
stimolo, perché i tratti erano sempre gli stessi, ma in realtà alcuni percepivano una giovane e altri una
vecchia.
La percezione è dunque un processo soggettivo e fenomenologico, cioè psicologico, di interpretazione della
realtà esterna alla luce di una serie di altri processi complessi (aspettative, esperienza passata, etc, dunque una
serie di principi innati che possediamo). EsempioPoniamo il caso di mostrare ad un soggetto un cellulare,
che ha delle proprie caratteristiche:

 Dal punto di vista della sensazione, il cellulare manda una serie di stimoli luminosi o stimoli con colori
differenti;
 Dal punto di vista della percezione, il soggetto non vedrà gli stimoli luminosi, ma percepirà un
cellulare.

La catena psicofisica. Quando si parla della percezione visiva, si fa riferimento alla percezione della realtà
come l'esito della cosiddetta “catena psicofisica”.
 L'energia luminosa, cioè lo stimolo fisico (o stimolo distale), viene raccolta dai nostri recettori
retinici;
 A questo punto lo stimolo diventa prossimale. Si attiva dunque un processo fisiologico, per cui
l'immagine cade nella retina, viene tramutata e attraverso il nervo ottico arriva al cervello;
 Dopo di ciò, avviene l'elaborazione di alto livello nel SNC, che porta alla definizione di un oggetto,
che è il percetto.
Dallo stimolo si arriva al percetto, che è l'esito finale di questo processo di attribuzione.

L’informazione parzialmente indeterminata. Nel momento in cui lo stimolo arriva al SNC subisce dei
processi di elaborazione. Tuttavia lo stimolo prossimale è già un'informazione sensoriale filtrata e selezionata,
ovvero un'informazione parzialmente indeterminata: lo stimolo distale viene recepito dai nostri organi di
senso e a livello di questi ultimi, i nostri recettori, già lo modificano e codificano, cioè modificano la
sensazione; a livello periferico, nel momento in cui il recettore capta lo stimolo, già lo rielabora prima di
tradurlo in impulso nervoso. A questo punto il SNC, deve applicare dei sistemi di elaborazione finale per
“risalire” dall’immagine, all'oggetto che ha determinato l'informazione parzialmente indeterminata
(consentendoci di passare dalla sensazione alla percezione) utilizzando dei criteri organizzativi.
P.S. Il concetto di informazione in informatica è un concetto di base, cioè un dato che viene elaborato, quindi
può essere qualsiasi cosa.

I processi di elaborazione delle informazioni. Al fine di riorganizzazione l'informazione, il SNC può


eseguire due tipi di processi di elaborazione delle informazioni:
 I processi bottom-up (1). Significa che l'elaborazione parte dal basso, ovvero dai processi sensoriali,
verso l'alto, fino ai processi centrali, cioè fino ad una percezione globale. Quindi l'informazione viene
captata dai nostri recettori sensoriali e arriva al SNC dove viene elaborata per arrivare a una percezione
globale.
 Tale elaborazione dell’informazione è stata studiata dai teorici della percezione diretta, e in
particolar modo dalla prospettiva ecologica di Gibson, che si concentra sulle caratteristiche
degli stimoli che dal basso verso l'alto raggiungono la nostra mente e guarda ai processi
percettivi come una serie di processi bottom-up.
 I processi top-down (2). Significa che elaborazione dall'alto va verso il basso. Per processi top-down,
si intende dunque che la conoscenza pregressa viene utilizzata per organizzare rapidamente gli
elementi in un insieme dotato di significato.
 Tale prospettiva è proposta da alcuni studiosi appartenenti alla psicologia costruttivista,
cognitivista e connessionista, secondo qui la percezione avviene in maniera indiretta. Si
tratta di un processo attivo e costruttivo, che non dipende solo dagli stimoli esterni, ma è
influenzato da emozioni, motivazioni e aspettative del soggetto.
Il nostro sistema nervoso centrale non è una tabula rasa, ma ha delle leggi innate (come dicono gli psicologia
della Gestalt) che ci permettono di dare un'interpretazione dell'informazione sensoriale: i dati bottom-up si
coniugano dunque con i dati top-down, cioè con tutte le nostre conoscenze pregresse e con i nostri principi
innati, che ci consentono di organizzare in maniera veloce e automatica gli elementi percepiti dandogli
significato. Dunque da una parte, l'informazione arriva dal basso verso l'alto, per cui si arriva all'interpretazione
globale del mondo intorno a noi, ma dall'altra il nostro SNC mette del suo.
N.B. La Gestalt si colloca a metà, perché parte dalle caratteristiche degli stimoli che arrivano al nostro SNC,
ma dall'altro lato propone anche i principi top-down, cioè le leggi di organizzazione figurale (vedi prima).
Esempi:

 I corridori durante una gara di atletica leggera sono messi in fila per partire, ma a volte accade che uno
di loro parta prima ancora dello sparo che segna l’inizio della gara. Questa falsa partenza è frutto di
un'aspettativa percettiva perché il corridore sa che prima o poi sentirà lo sparo che segnerà il via, e
in qualche modo facendosi guidare dalle aspettative percettive, sente lo sparo anche se in realtà non
c’è stato. Questo è un processo top-down, perché l'aspettativa (un processo cognitivo e mentale che
ciascuno ha nella propria memoria) porta ad anticipare il suono che in realtà non c'è stato, in quanto il
corridore ha usato uno schema mentale per interpretare la realtà esterna.
 Un’esperienza simile a quella appena descritta, può presentarsi quando si sente la suoneria del
cellulare, ma in realtà esso non sta squillando. In questi casi, l'individuo potrebbe trovarsi in uno stato
d'ansia, per cui aspettando una determina notifica, senta che quest'ultima arrivi, ma non è così, per cui
si va incontro a queste allucinazioni percettive, che si accentuano in situazioni di stress.
 Altra esperienza del genere è la percezione del cosiddetto “arto fantasma”, nel soggetto a cui è stato
amputato un arto. Accade che nella memoria del soggetto rimane sedimentata l'esperienza motoria di
utilizzo dell'arto, per cui il soggetto continua a percepire di avere ad esempio la gamba, ma in realtà
non c'è.
Al contrario quando si segmenta la realtà esterna, e quando quest'ultima dopo essere arrivata al SNC viene
interpretata, si sta usando un processo bottom-up.

Definizione di “percezione” La percezione è il processo di individuazione di oggetti ed eventi


presenti nell'ambiente volto dare loro un significato.
Il percetto è ciò che è percepito, ovvero l'esperienza fenomenologica (interpretazione soggettiva della realtà
esterna) vissuta e non coincide esattamente con la sensazione, in quanto risente dell'influenza dei processi
bottom-up e top-down (il corridore parte senza aver sentito lo sparo).

Esempio I soggetti ciechi alla nascita, dopo aver effettuato il trapianto di cornea, riacquistano la vista, ma
sebbene riescano a vedere il mondo, non sono capaci di riconoscere in esso qualcosa. I soggetti infatti devono
imparare a percepire il mondo e non solo a vederlo, cioè a riconoscere gli oggetti, a leggere i numeri, le lettere,
a valutare le dimensioni e le distanze.
La realtà fisica e la realtà percettiva fenomenologica NON coincidono. Gli studi della percezione superano il
realismo ingenuo o sensismo che porta a credere che la realtà esterna è quella che noi percepiamo
soggettivamente. È chiaro però che vi sono delle leggi universali, innate nella specie sapiens che portano gli
individui a percepire il mondo tutti allo stesso modo.
N.B. DOMANDA FREQUENTE ALL’ESAME: QUAL È LA DIFFERENZA TRA SENSAZIONE E
PERCEZIONE?
In questa figura dal punto di vista della
sensazione vi sono una serie di linee,
macchie di colori, ma in realtà ciò che
percepiamo è un albero, per cui significa
che automaticamente applichiamo un
processo di interpretazione della realtà.

Quest'immagine invece la vediamo in movimento sebbene sia


statica. Anche in questo caso percepiamo in maniera illusoria
un movimento che nella realtà non esiste, perché si tratta
soltanto di linee.
P.S. Se guardiamo un punto dell'immagine sembra fermarsi,
ma non appena sbattiamo le palpebre, riprende
immediatamente il movimento perché intervengono una serie
di processi di interpretazione della realtà che metteno insieme
colori e forme.

I principi della Gestalt. Gli psicologi della Gestalt, fra cui Koffka, Kohler Wertheimer, ma anche Kaniz
studiano la percezione come fenomeno globale. Il motto della Gestalt era proprio “Il tutto è più della somma
delle singole parti”: è chiaro che se secondo i gestaltisti, nel momento in cui noi percepiamo il mondo esterno
non facciamo altro che segmentare gli elementi che ci sono all’interno del nostro campo visivo, attribuendo
significato ad ognuno di loro. Per cui se da un lato ritengono che l'atto percettivo sia un atto globale, dall'altro
quando devono studiare quest'ultimo hanno la necessità di segmentarlo, andando a enucleare i singoli
elementi che definiscono l'atto percettivo stesso.
I gestaltisti sostenevano che per percepire il mondo, una parte del campo visivo deve essere distinta e separata
dal resto per effetto di un attributo (colore, forma, trama o contorno). La percezione è un processo primario,
immediato e innato, che ci porta a considerare come gli elementi estratti dall'ambiente abbiano un significato
globale, risultante dall’organizzazione delle forze che si creano tra le diverse componenti di uno stimolo.
Di fatto guardando queste due figure le identifichiamo come un triangolo e un
pentagono, perché secondo il principio della buona forma organizziamo gli
elementi che compongono le varie figure (i lati, gli angoli, i contorni) e separandoli
dal resto del campo visivo, dunque dall'ambiente esterno, attribuiamo ad essi colore
forme contorno ecc. Le diverse componenti dello stimolo fisico si organizzano tra di
loro e determinano l'unitarietà dello stimolo stesso e viene fuori la buona forma.
Il principio della buona formaIl principio base è appunto il cosiddetto “principio della buona forma”.
Secondo questo principio i dati sensoriali sono organizzati dal nostro cervello a livello percettivo nella forma
più semplice e lineare possibile. In altre parole, l’organizzazione percettiva più semplice viene costruita dal
raggruppamento di alcune sensazioni in un oggetto o figura che si staglia su uno sfondo uniforme. (Ricordiamo
sempre la giovane e la vecchiaTutti gli elementi concorrevano a creare la forma che per noi era quella più
semplice e lineare, che ci consentiva di vedere una giovane o una vecchia).

Le leggi di organizzazione figuraleAlla base dell'elaborazione dello stimolo visivo stanno alcune leggi di
organizzazione figurale, che sono principi innati di tipo top-down, i quali ci consentono di organizzare nel
mondo più semplice e lineare possibile i dati sensoriali organizzano i dati sensoriali. Inoltre è importante
sottolineare che la prospettiva gestaltica è innatista, in quanto ritiene che l'atto percettivo sia poco influenzato
dall'esperienza passata.
I gestaltisti focalizzano il loro studio soprattutto sulla percezione visiva. Le leggi di organizzazione figurale
sono processi per cui il cervello segmenta i dati sensoriali per formare venti e unità dotate di significato. Questi
principi, leggi sono:
 Figura-sfondo (1);
 Vicinanza (2);
 Somiglianza (3);
 Buona continuazione (4);
 Chiusura (5);
 Continuità o destino comune (6);
 Regione comune o contrasto cromatico (7).
Il principio di organizzazione figura-sfondo (1).
In quest'immagine vediamo due sagome di due omini che emergono in virtù del
contorno dello sfondo. Questo contorno, è l’attributo che fa emergere dallo
sfondo queste due figure: la figura emerge da un campo di base a partire da
un attributo specifico (forma, colore, contorno, trama).

Se noi togliessimo lo sfondo, ci rimarrebbe soltanto la parte interna tra le due


sagome, che non ha nessun senso, quindi: non c'è figura senza sfondo.
Ciò che si impone come stimolo vero e proprio da essere interpretato (cioè ciò
che si impone come percetto) è la figura che ha una forma, rispetto allo sfondo
che è amorfo.
Il contorno appartiene alla figura, ma non allo sfondo, perché anche se togliessimo il riquadro esterno, le due
figure si imporrebbero lo stesso e lo sfondo sarebbe tutto bianco.
La figura ha una sua caratteristica perché vi è il contorno che la determina e ha anche una sua estensione
definita, cioè quella parte di spazio occupata dalla figura stessa dentro il contorno.
Lo sfondo non ha una sua estensione, in quanto può essere qualunque cosa, perché è tutto ciò che continua
dietro la figura.
La figura risalta sullo sfondo: è “una cosa”, mentre lo sfondo non è nulla. Nonostante lo sfondo non sia nulla,
non esiste figura senza sfondo, perché la figura diventa importante solo quando assume una sua pregnanza
nello sfondo.
Il tutto è più della somma delle singole parti, perché la figura e lo sfondo hanno senso soltanto nel momento
in cui le consideriamo entrambe.
L’articolazione figura-sfondo è resa possibile da alcuni fattori:

 Inclusione;
 Convessità;
 Area relativa;
 Orientamento.
Inclusione. A parità di altre condizioni, poiché una figura emerga dallo sfondo,
diventa figura la regione inclusa, cioè quella messa dentro uno specifico contorno.

Convessità. A parità di altre condizioni, diventa figura la regione convessa, rispetto a


quella concava. L’oggetto convesso prevale sul concavo.

Area relativa. A parità di altre condizioni, diventa figura la regione di area minore
(vediamo di più la parte bianca)

Orientamento. A parità di altre condizioni, diventa figura la regione i cui


assi sono orientati secondo le direzioni principali dello spazio percettivo
(spicca di più il nero perché è la parte minore rispetto allo sfondo bianco).
Si impongono di più le figure nere che sono determinate dall'orientamento
spaziale secondo le bisettrici orizzontali e verticali o secondo le direzioni
oblique.
Vi sono una serie di studi che documentano come le bisettrici orizzontali e verticali siano alla base della
rappresentazione delle simmetrie. Le simmetrie caratterizzano la natura, infatti vengono percepite in modo
innato perché siamo abituati ad avere a che fare con gli elementi simmetrici. Vi sono una serie di studi legati
alla percezione dei volti, che spiegano come vengano percepiti più piacevoli i volti che sono simmetrici rispetto
a quelli più asimmetrici.
Dunque ci sono degli elementi che diventano innati e preganti in uno specifico campo visivo, che diventa lo
sfondo della nostra percezione. Gli oggetti si percepiscono in relazione al modo in cui si collocano all'interno
di un contesto che fa da sfondo all'oggetto stesso.
Le figure ambigue e reversibiliGeneralmente, i fattori di inclusione, convessità, area relativa e
orientamento, vengono applicati per interpretare la figura. Quando viene meno la possibilità per il nostro
cervello di applicare questi principi di organizzazione figura-sfondo (quindi quando questi fattori non si
possono applicare per le caratteristiche dello stimolo stesso) si creano le condizioni per le figure reversibili,
dove emerge alternativamente la figura o lo sfondo a seconda di ciò che faccio prevalere. Per esempio, in
questa figura:
 Se considero come sfondo il nero, vedo un vaso;
 Se invece considero come sfondo il bianco, vedo due profili neri.
In questo caso non riesco a stabilire cosa è figura e cosa è sfondo, perché la figura
è costituita in maniera tale che non posso applicare quei principi di inclusione,
convessità, simmetria ecc. Ad esempio, il logo della Rai diventava una farfalla
perché in quel caso il blu e il bianco alternativamente potevano essere lo sfondo e
la figura.
La figura ambigua è invece una figura nella quale, alternativamente io posso
riorganizzare gli elementi presenti e fare prevalere un elemento piuttosto che un
altro, quindi in altre parole un’immagine dove si registra un’alternanza periodica
tra figura e sfondo.
In questa figura, ad esempio:
 Se consideriamo come sfondo tutta la veletta allora emerge il profilo della
giovane (la giovane la devo estrarre considerando la parte già colorata
come sfondo).
 Se consideriamo come sfondo tutto il bianco allora viene fuori il profilo della vecchia.
Dunque, quando viene meno uno dei due principi di organizzazione figurale allora è chiaro che ci sono le
figure reversibili o ambigue.
Il principio di vicinanza (2). Secondo il principio di vicinanza, a parità di condizioni si unificano gli elementi
prossimi. Ad esempio, guardando gli stimoli rossi, neri e blu; in questo caso, a parità di condizioni, si unificano
gli elementi prossimi, vicini.

 Se avvicino i pallini sulla base della loro dimensione verticale, vedrò le tre strisce verticali rosse;
 Se avvicino tutti assieme fra di loro i pallini, vedrò un quadrato nero;
 Se avvicino tra di loro i pallini sulla base della loro vicinanza in orizzontale, vedrò le tre strisce
orizzontali blu.
Allontanando e avvicinando i pallini fra di loro ottengo tre configurazioni diverse di elementi, che sono
accumunati dal fatto di essere più vicini sulla base di una dimensione dello spazio piuttosto che di un’altra.
I processi di vicinanza li applichiamo anche nei contesti sociali: se vediamo delle persone molto vicine fra
loro, anche da un punto di vista spaziale, ci immaginiamo che quelle persone siano un gruppo, la vicinanza ci
dà quindi anche una percezione sociale.
N.B. Poi scopriremo che la vicinanza o la lontananza sono degli elementi che influenzano i nostri stili
comunicativi, in quanto si tratta di un elemento della comunicazione non verbale: più vediamo le persone
vicine fra loro, più riteniamo che siano intime (se vedo due persone camminare accanto o abbracciate è chiaro
che la percezione che ho da un punto di vista sociale rispetto la loro relazione è differente). Anche in questo
caso applichiamo sia dei processi di segmentazione del campo visivo, sia dei processi legati all’attribuzione
sociale, di conseguenza questi elementi hanno anche valore di comunicazione perché se vediamo due persone,
queste ultime ci comunicano il loro status di vicinanza o lontananza).
Il principio di somiglianza (3). Secondo questo principio, gli elementi simili tendono ad essere raggruppati
insieme. La somiglianza può riguardare la forma, il colore, la dimensione, la grandezza, il movimento.
Per esempio, in questa figura è più facile considerare la figura
come composta da barrette fatte tutte di X o tutte di O.

Per quanto riguarda questa figura, probabilmente nessuno


direbbe che è composta da una serie di pallini bianchi e da una
serie di pallini neri; la maggior parte direbbe che vi è una
striscia di pallini neri, che sembrano formare una “W”.
La similitudine che accomuna gli oggetti fra di loro (in questo
caso i pallini neri) ce li fa percepire in maniera più pregnante
come elementi a sé stanti.
N.B. Anche in questo caso si possono aprire una serie di aspetti sociali, ad esempio le caratteristiche di
similitudine di persone che appartengono alla stessa razza (poi vedremo che questo ha un significato legato
all’apprendimento percettivo).
Il principio di buona continuazione (4). Il principio di buona continuazione è legato al fatto che quando
alcuni elementi formano linee curve o continue, vengono raggruppati insieme. Si impone come unità percettiva
quella il cui margine offre il minor numero di cambiamenti e interruzioni. Le percezioni visive tendono dunque
verso la semplicità e la continuità.
Nella prima figura, diventa più pregnante per il nostro occhio il fatto di vedere due figure sovrapposte fra loro:
una greca rettangolare che sta sotto una ad una curva obliqua. Dunque
in questa figura faccio prevalere la buona continuazione perché continuo e
il mio occhio non si ferma ai singoli elementi.
Quando invece coloro i singoli elementi, do loro un’altra connotazione (in
questo caso includo la regione), di conseguenza vedo tante piccole figure
messe una accanto all’altra e sparisce l’idea della buona continuazione.
 Nella prima figura vedo la greca e potrei andare all’infinito e lo
stesso accade per la linea obliqua;
 Nella seconda figura l’effetto di buona continuazione sparisce perché prevale altro, ad esempio la
somiglianza fra gli elementi.
A seconda di come sono create le figure prevale un principio piuttosto che un altro. È chiaro però che interviene
anche la creatività di ognuno di noi, infatti nella figura 1 potremmo vedere le cime di un castello su cu sventola
un festone; nella figura 2 una specie di portone d’ingresso.
Il principio di chiusura (5). Un altro elemento interessante è il principio della chiusura, in base al quale
elementi che formano unità chiuse vengono raggruppati insieme. La chiusura designa la tendenza a completare
una figura in modo che abbia una forma complessiva coerente.
Questo principio viene sfruttato quando i bambini imparano a leggere o a scrivere (pregrafismo), infatti lo si
usa per promuovere nei bambini la rappresentazione della lettera, del grafema: il bambino impara a chiudere i
puntini e quindi impara la figura. Ad esempio, nel gioco “unisci i puntini”, ci sono dei numeri per ogni puntino
e progressivamente il gioco porta a chiudere la figura dal punto 1 al punto 40; una volta uniti tutti questi punti,
la figura assume un significato.
N.B. È fondamentale considerare questi principi per capire anche i bambini che hanno difficoltà a distinguere
le lettere, infatti possono avere dei profili di discriminazione visiva alterati. Ad esempio nelle disabilità di
apprendimento, come la disgrafia, vi è una discriminazione visiva alterata.
Gli elementi che formano unità chiuse tendono ad essere rappresentate
insieme, in questa immagine le forme sono figure illusorie, fondate su
forme che non sono affatto collegate da un contorno, tuttavia non
vediamo delle linee aperte, ma vediamo un quadrato o un cerchio.
Questo accade perché nel momento in cui chiudiamo mentalmente la
figura, la percepiamo come un oggetto a sé stante.

Il principio di contiguità o destino comune (6). Secondo questo principio, elementi vicini e contigui nello
spazio e nel tempo sono percepiti come causa gli uni degli altri.
Noi non percepiamo soltanto gli oggetti, ma anche il tempo che passa e le relazioni temporali degli oggetti tra
di loro: da questo punto di vista la legge della contiguità o destino comune tende a prendere in considerazione
questi aspetti legati alla vicinanza e alla contiguità nello spazio e nel tempo, che vengono in qualche modo
percepiti come gli uni causa degli altri.

 Quando ci spieghiamo per esempio la nostra crescita, in questo processo abbiamo messo in relazione
come gli elementi del passato causano gli elementi del presente, quindi elementi che sono vicini nello
spazio e nel tempo vengono percepiti come la causa gli uni degli altri.
Per l’appunto, il destino comune è effettivamente legato a questo aspetto, infatti le parti del campo visivo che
noi segmentiamo sembrano avere un destino comune, ovvero si modificano insieme nel tempo e sono percepite
come figura. Da questo punto di vista, per esempio, si prendono, in considerazione come stimoli visivi, le
costellazioni; gli antichi astronomi hanno dato un nome alle costellazioni, che unite insieme tra di loro vengono
rappresentate come caratterizzate da una loro specifica forma, quindi attribuendo a ciò che vedevano una
contiguità spaziale.
Regione comune o contrasto cromatico (7). Secondo il principio del regime comune o contrasto cromatico,
gli elementi presenti all'interno di un’area comune vengono percepiti come gruppo.
Se guardiamo l’immagine, è più facile vedere i quadrati dentro il box
rosso, e poi i quadrati nello sfondo bianco, in quanto vengono raggruppati
sulla base della regione spaziale che occupano e che condividono.
Per esempio, le persone che si collocano in una specifica regione dello
spazio e, quindi in una regione comune, vengono percepite come un
insieme, cioè come un gruppo.
Ricorda: Per “regione comune” si intende la porzione di spazio occupata;
invece, la “vicinanza” fa riferimento alla contiguità tra i singoli elementi.
Naturalmente tutti questi processi, secondo la psicologia della Gestalt, sono dei principi che guidano la nostra
interpretazione della realtà, ciò vuol dire che di volta in volta quando noi ci rappresentiamo il mondo,
quest’ultimo noi in realtà lo interpretiamo in maniera fenomenologica, perché elaboriamo una vera e propria
ipotesi percettiva.

L’ipotesi percettiva. La corrispondenza tra mondo reale e mondo fenomenico è frutto di processi di
elaborazione e organizzazione di informazioni (ipotesi percettiva) che può andare incontro ad alcuni errori.
Noi elaboriamo la realtà esterna sulla base di processi di elaborazione specifici che ci portano a fornire
un'interpretazione, ma essendo una nostra interpretazione vuol dire che si tratta di un'ipotesi.
Proprio perché è un ipotesi percettiva, possiamo commettere degli errori, infatti possiamo compiere delle stime
sbagliate e quindi in qualche modo essere tratti in inganno o ancor più possiamo andare incontro a delle
illusioni percettive, come le seguenti:

Il cubo di Necker Il cubo di Necker è un cubo particolare che cambia


la sua organizzazione sulla base dell'orientamento:
 Se pensiamo che questo cubo sia orientato con la faccia verso l'alto,
allora è chiaro che le linee interne non le percepiamo e quindi lo vediamo
come se fluttuasse nell'aria;
 Se invece lo vediamo orientato verso il basso con la faccia posta
all'ingiù, allora le linee di sopra vengono appiattite, pe cui ci
concentriamo dietro e lo vediamo che fluttua dall'altro lato.
Quindi in base al punto di vista cambia completamente la percezione del
cubo e naturalmente questa è un'illusione ottica.

La forchetta di Schuster Questa è una figura impossibile, perché non


rende possibile un’organizzazione percettiva stabile, infatti non si capisce
se è un parallelepipedo oppure sono dei cerchi. Noi sappiamo, per effetto
della nostra esperienza che se un elemento è tondo, allora non può essere
quadrato, eppure:

 Se ci concentriamo nel blu vediamo la parte quadrata;


 Se invece ci concentriamo nel verde vediamo la parte tonda.
Naturalmente traiamo anche qui in inganno l'interpretazione, perché
otteniamo una figura che nella realtà non esiste. Quindi in questo caso non
riusciamo ad applicare un principio tale per cui l'oggetto che percepiamo
ha una sua organizzazione stabile, infatti non rimane tale e quale da
qualunque prospettiva lo guardiamo; cambiando la prospettiva di
osservazione, cambia anche l’interpretazione dell'oggetto stesso.
I principi di organizzazione percettiva sono importanti perché appunto ci consentono di avere una
stabilità nella nostra percezione del mondo.
Le costanze percettive. Appurati quali sono i principi che ci consentono di leggere gli oggetti e interpretare
il mondo intorno a noi, un altro problema importante che noi abbiamo è la possibilità che il nostro mondo
esterno sia caratterizzato da stabilità, da ordine, sia caratterizzato da una serie di costanze percettive. Quando
noi esploriamo l'ambiente, i nostri stimoli prossimali cambiano in funzione della distanza in cui sono disposti
gli oggetti, della nostra vicinanza o lontananza dall'oggetto stesso, e quindi è chiaro che a livello fisiologico
gli stimoli hanno delle caratteristiche specifiche, ma noi abbiamo la necessità adattiva di percepire un mondo
costante, un mondo che non è in continuo mutamento.
Appena cambiamo prospettiva, da un punto di vista fisiologico al cervello arrivano numerosi nuovi stimoli
completamente differenti rispetto a quando si ha una visione frontale ad esempio. Ciò significa che da un
punto di vista fisiologico è sufficiente girare la testa per avere una visione completamente diversa del mondo,
ma da un punto di vista psicologico questa visione non può cambiare repentinamente, perché altrimenti non
vi è capacità di adattamento al mondo: le costanze percettive sono importanti perché consentono il nostro
adattamento all'ambiente circostante.
Cos’è la costanza percettiva? La presenza delle costanti percettive ci permette di orientarci in maniera corretta
ed adeguata nel nostro mondo esterno, infatti quando guardiamo un individuo che si allontana:
 Da un punto di vista sensoriale l’immagine retinica
che viene proiettata nella nostra retina di volta in volta
diviene sempre più piccola, infatti più distante è il
soggetto, più piccola sarà l’immagine proiettata (come
quando facciamo una foto, dobbiamo sistemare lo zoom,
perché l'oggetto in lontananza rappresentato nella
fotografia appare piccolissimo);
 Da un punto di vista fisiologico-percettivo, la
rappresentazione percettiva del mondo esterno non ci porta a pensare che l’individuo diventi più basso
o più piccolo, ma percepiamo soltanto un uomo e non una sua variazione di dimensione...in altre parole
mai penseremmo che “rimpicciolisce”.
Nella relazione tra oggetti e mondo esterno si verifica il fenomeno della costanza percettiva, per cui oggetti
fisici sono percepiti come invariabili e dotati di stabilità nonostante lo stimolo prossimale cambi continuamente
in funzione dei cambiamenti dell’ambiente fisico, cioè al variare dello stimolo.
La relazione tra lo stimolo distale (stimolo lontano, esterno che non viene accolto dal recettore sensoriale) e
il percetto (la nostra interpretazione) rimane invariata. Infatti al variare dello stimolo prossimale, nel nostro
recettore retinico l’immagine varia e diventa progressivamente più piccola, ma il rapporto rimane costante.
Abbiamo 3 costante percettive:
La costanza di grandezza (1);
La costanza di forma (2);
La costanza di luminosità (3).
La costanza di grandezza (1). La grandezza percepita dell’oggetto rimane sempre la stessa, anche se
cambiano le dimensioni della sua immagine retinica. Questo accade perché si attivano:
 L’effetto dell’esperienza passata che ci aiuta a ricostruire, interpretare e a fare delle ipotesi percettive
adeguate;
 I nostri schemi innati, cioè la capacità che abbiamo, attraverso gli schemi top-down, di interpretare
la realtà intorno a noi e di costruire la nostra percezione.

EsempioQuando si guardano le macchine dai grattacieli, vengono viste davvero piccole, quasi come delle
macchina giocattolo. Tuttavia noi non abbiamo la percezione che quelle macchine che stiamo vedendo così
piccole, siano realmente così, infatti continuiamo a vedere, pensare una macchina nelle sue reali dimensioni.
Questo accade perché la nostra esperienza passata ci guida a dare quell’interpretazione della grandezza delle
macchine che stiamo osservando, sebbene ci troviamo ad altissime distanze.
La costanza di forma (2). Accanto alla costanza di grandezza, c’è la costanza di forma, in base alla quale la
forma percepita di un oggetto rimane la stessa anche se cambia la sua immagine retinica.
Per esempio pensiamo a quando entriamo in una
stanza e osserviamo una porta: in realtà a seconda
di dove ci collochiamo nella stanza e a seconda che
la porta sia aperta o chiusa, noi proiettiamo nella
retina immagini completamente diverse, a volte
anche di tipo trapezoidale.
Se ci mettiamo a sinistra o destra e guardiamo la
porta, ciò che arriva in termini di spettro luminoso
e stimolo visivo alla retina è una parte più lunga e
una più corta della porta stessa, quindi non arriva un rettangolino, ma dal punto di vista fisiologico arriva un
trapezio, eppure da qualunque punto noi osserviamo la porta continuiamo a vederla sempre come un
rettangolo invariato, perché continuamente e automaticamente interpretiamo lo stimolo.
Queste due costanze vengono alterate dall’abuso di alcool.
La costante di luminosità (3). Una terza costante fondamentale accanto a forma e grandezza, è la costante di
luminosità, per cui la luminosità percepita di un oggetto rimane la stessa anche se cambia il tipo di luce che
riceve.
Pensiamo ad esempio quando camminiamo
per strada: in base agli alberi, ai palazzi, alle
macchine posteggiate, il bombardamento di
stimoli (in termini di spettro luminoso) che
arriva ai nostri occhi varia da secondo in
secondo man mano che andiamo
camminando. Nonostante ciò, noi
percepiamo la luminosità degli oggetti
invariata. Tuttavia questo è vero solo se gli
oggetti sono illuminati tutti dalla stessa quantità di luce.
N.B. A maggior ragione possiamo capire la differenza tra percezione e sensazione, perché questi aspetti sono
comunque comandati dalla corteccia associativa e legati al funzionamento neuronale, tuttavia bisogna
considerare le nostre funzioni cognitive, e non fermarsi semplicemente allo scambio biologico o
neurobiologico dei neuroni che comunicano tra loro, perché altrimenti non riusciremmo a capire la nostra
esperienza fenomenologica del mondo. Quindi è fondamentale l'importanza dei processi psichici di base per
capire come funziona l’individuo.

La percezione della profondità. Un altro aspetto riguardo le relazioni tra la posizione del soggetto e la
distanza dell’oggetto dal soggetto che lo guarda e che percepisce è la percezione di profondità o stereopsi.
 Da un punto di vista fisiologico, l’immagine che viene registrata nella nostra retina è un immagine
bidimensionale, eppure come riusciamo a vivere in uno spazio 3D? Se noi proviamo a chiudere un
occhio e a fissare un oggetto nella stanza, lo vediamo un po’più piatto rispetto al normale quando lo
guardiamo con entrambi gli occhi, ma manteniamo sempre la percezione di profondità quindi lo
vediamo ugualmente. Com’è possibile?
La percezione di profondità è dunque la capacità di vedere lo spazio tridimensionale e valutare correttamente
le distanze. Alcuni psicologi come i gestaltisti ritengono che la percezione di profondità sia innata, mentre gli
empiristi ritengono che sia appresa nel corso dello sviluppo. Probabilmente è in parte appresa e in parte innata.
La percezione di profondità potrebbe essere un meccanismo innato, spiegato su base adattiva, in quanto la
nostra specie è sopravvissuta nell’epoca primitiva evitando di cadere dai precipizi, dalle montagne o nei fossi,
o rimanendo sugli alberi per salvarsi dalle prede, quindi ci sono una serie di meccanismi che hanno fatto
progredire la nostra specie e ci hanno portato a percepire la tridimensionalità, in quanto era fondamentale per
la sopravvivenza.

Esperimento del precipizio visivo Per dimostrare ciò, gli psicologi Gibson e Walk negli anni Sessanta hanno
creato un particolare apparato sperimentale, chiamato precipizio visivo, costituito da un vetro trasparente
posto su un disegno a scacchiera; il disegno a scacchiera da una parte era regolare e si trovava subito sotto il
vetro, mentre dall'altra veniva fatto scendere verso il basso, in modo che variassero, a seconda delle diverse
condizioni sperimentali alcuni indizi di profondità. I risultati mostrano che la profondità veniva percepita dalla
maggior parte dei neonati, che si allontanavano dall'apparente precipizio, anche quando le mamme di
chiamavano da quella parte. Ricerche recenti hanno dimostrato che la percezione della profondità inizia a
svilupparsi a partire dalle prime due settimane di vita, tuttavia lo sviluppo della stereopsi non è completo fino
a circa 6 mesi: ciò suggerisce che essa sia innata ma dipende anche da allo sviluppo cerebrale e dall'esperienza
individuale.
P.S. Gli esseri umani sanno anche calcolare la distanza, infatti quando camminiamo non sbattiamo sugli
oggetti, ma sappiamo regolare la nostra distanza. In realtà per quanto riguarda i bambini questa regolazione
segue anche i processi della coordinazione motoria in chiave di sviluppo, diversa rispetto all’adulto.

Gli indizi di profondità Per studiare la percezione della profondità diventano, allora, fondamentali due gli
indizi di profondità che ci permettono di avere il senso della profondità, infatti ci forniscono informazioni
ambientali sulla distanza e sullo spazio:
 Gli indizi binoculari, che interessano il funzionamento di entrambi i nostri occhi (1);
 Gli indizi monoculari (o pittorici), che riguardano la visione monoculare (2). Sono espedienti
applicati dagli artisti, scultori, pittori, per rappresentare la tridimensionalità nella rappresentazione
pittorica che per eccellenza è bidimensionale. Ad esempio nelle opere rinascimentali, la prospettiva
lineare rappresenta un indizio monoculare o pittorico che garantisce di dipingere in 3 dimensioni.

LEZIONE 24/11/2020.
Indizi binoculari (1).

La disparità retinica Riguardo gli indizi binoculari, uno dei meccanismi fondamentali che ci consente di
percepire la percezione della profondità è la disparità retinica, ovvero la differenza di visuale tra un occhio e
l’altro. La disparità retinica o binoculare è fondata sul fatto che gli occhi sono distanti circa 6,5 cm, per cui in
virtù di questa caratteristica, ogni occhio ha una visione leggermente diversa del mondo. Guardando lo spazio
intorno a noi alternativamente con l'occhio destro o con l'occhio sinistro, abbiamo due visioni completamente
differenti, infatti se proviamo a chiudere un occhio e guardare soltanto con uno, tutto ciò che fa parte del lato
dell'occhio chiuso lo perdiamo, in quanto sebbene ruotiamo l'occhio aperto, ci sarà sempre qualcosa che non
riusciremo a vedere, perché i due emicampi visivi non corrispondono (la differenza tra l’emicampo destro e
quello sinistro è proporzionale alla vicinanza dell’oggetto).
Ciò implica, dal punto di vista del funzionamento della retina, che nel momento in cui guardiamo un oggetto
posto di fronte a noi, la proiezione dell’oggetto nella retina risente della distanza tra i nostri occhi. Dunque,
la distanza tra i due occhi fa sì che ciascuna retina riceva un’immagine lievemente diversa dall’altra.

La visione stereoscopica I nostri occhi ottengono due proiezione retiniche differenti (due immagini), il
cervello poi le integra in una fusione binoculare alla base della visione stereoscopica, cioè quella
tridimensionale. Bisogna sottolineare che gli più distante è l'oggetto da noi, più la proiezione delle due
immagini negli occhi varia. Da cosa dipende la visione stereoscopica? Essa dipende dalla distanza tra
osservatore e oggetto osservato
 La convergenzaI nostri occhi non solo ottengono due proiezione retiniche differenti che poi devono
integrare, ma sono anche dotati del meccanismo della convergenza, cioè la rotazione degli occhi verso
l’interno per la messa a fuoco di oggetti vicini. Quando i due occhi convergono su un oggetto di fronte
a noi, è grazie alla convergenza (messa a fuoco) che le due immagini si fondono tra di loro nello stesso
punto della fovea, per cui si vede un solo oggetto quando si ha corrispondenza tra le immagini delle
due retine.
N.B. Dobbiamo immaginare questo meccanismo come quando scattiamo una foto e dobbiamo mettere
a fuoco affinché l'obiettivo si veda bene nella fotografia scattata sebbene sia più o meno distante.
 La visione doppiaQuando le immagini retiniche non corrispondono, dunque nel momento in cui
cambiamo la messa a fuoco, vediamo due oggetti e si ha dunque il fenomeno della visione doppia.
 Se proviamo a mettere i due indici uno a 15 cm davanti al naso e l'altro a 40 cm, succede
che.
o Se focalizziamo lo sguardo sul dito esterno, allora si raddoppia il dito interno,
o Se invece focalizziamo lo sguardo sul dito esterno, si raddoppia quello esterno.
Si può quindi sperimentare questo meccanismo di visione stereoscopica rispetto all’integrazione.
La discrepanza tra le immagini dell’occhio sinistro e dell’occhio destro variano in funzione della nostra
distanza rispetto all’oggetto. Noi stimiamo la profondità in quanto valutiamo la distanza dall’oggetto a fronte
di questo meccanismo: riceviamo degli indizi rispetto al fatto che un oggetto è più vicino e uno è più distante,
e di conseguenza abbiamo l’esperienza fenomenologica della profondità dello spazio.
 Se osserviamo due oggetti e stimiamo che uno è più vicino a noi rispetto all’ altro avremo un maggiore
senso di profondità;
 Viceversa se li vediamo alla stessa distanza percepiremo meno il senso di profondità. In termini
fenomenologici è come se vedessimo un mondo più “piatto”, perché i due oggetti sono alla stessa
distanza fra noi.
Naturalmente l’integrazione stereoscopica viene effettuata a livello della corteccia visiva primaria che integra
tutte queste informazioni e poi produce l’immagine unica retinica dell’oggetto.
Indizi monoculari (2). Gli indizi monoculari di profondità vengono utilizzati dal SNC per costruire una
percezione tridimensionale a partire delle informazioni ricevute da un solo occhio che ottiene, integra e riesce
a creare sulla natura tridimensionale dell’oggetto e sul senso dello spazio e della profondità. Il fatto che questi
indizi siano legati al funzionamento di un singolo occhio (indipendentemente da quale sia) non significa che
accadono solo in un occhio e non nell’altro, ma significa che questi indizi non necessariamente richiedono
l’intervento di entrambi gli occhi.

L'accomodazione Uno di questi indizi monoculari è l’accomodazione, ossia il meccanismo fisiologico che
prevede il cambiamento nello spessore del il cristallino per mettere a fuoco gli oggetti vicini. Il cristallino
effettua delle accomodazioni, aggiusta in maniera automatica e fisiologica in funzione della vicinanza o
lontananza degli oggetti da noi:
Nel momento in cui l’oggetto si avvicina, il cristallino diventa più convesso;
Quando l’oggetto si allontana diventa più concavo.
I segnali fisiologici che provengono dai muscoli collegati a ogni cristallino sono trasmessi al cervello: tali
segnali ci aiutano a giudicare le distanze brevi, quindi il cristallino funziona per oggetti che sono vicini a noi
entro 1-2 m circa dall’occhio. Se la distanza dell’osservatore dal punto di fissazione supera questi metri, allora
l’accomodazione risulta irrilevante, infatti se guardiamo all’orizzonte non possiamo fare tante accomodazioni.

Indizi pittoriciCiò che ci dà il senso della profondità rispetto allo sguardo in lontananza (verso lo spazio
distante da noi) sono altri fattori, più di natura ambientale, che sono stati sfruttati dall’arte e dai pittori
soprattutto; vengono infatti chiamati indizi pittorici, in quanto il problema della pittura è quello di traferire un
mondo tridimensionale nella tela bidimensionale. Sono indizi monoculari che forniscono informazioni su
spazio, distanza e profondità. I pittori hanno sperimentato delle tecniche e gli studiosi di percezione hanno
rintracciato che queste tecniche sono quelle che spiegano il modo in cui noi percepiamo la profondità. Essi
sono:
 Prospettiva lineare
 Grandezza relativa
 Posizione rispetto all’orizzonte
 Ombreggiatura
 Interposizione
 Gradiente di tessitura
 Prospettiva aerea
 Parallasse di movimento.
La prospettiva lineare. Nel rinascimento la grande scoperta degli artisti dell’epoca fu la prospettiva lineare,
un principio secondo cui, guardando verso un punto, chiamato punto di fuga, tutte le linee parallele rispetto
al piano frontale convergono man mano che si allontanano dall’osservatore verso il punto di fuga. Tutti gli
studiosi del Rinascimento, da Leonardo a Raffaello, cominciarono ad applicare la prospettiva lineare nei loro
quadri per rappresentare la tridimensionalità. Collocare gli oggetti più vicini al punto di fuga sul piano
dell’orizzonte, significava metterli più distanti dall’osservatore che guardava il quadro frontalmente, e in
qualche modo “bucare” la tela e permettere a chi osservava di fare esperienza della tridimensionalità. Se
spostiamo lo sguardo verso un punto fisso in lontananza si viene a creare nella nostra visione una prospettiva
lineare e di conseguenza gli oggetti che sono più vicini al punto di fuga, ma più lontani dall’osservatore,
vengono percepiti come più distanti e ci danno l'idea della prospettiva e della tridimensionalità.
In particolar modo:
Questa tecnica si applica quando noi guardiamo i
binari del treno: se li guardiamo verso l'orizzonte
è come se fossero uniti, ma in realtà sono paralleli,
dunque la distanza è enorme.

Immagine Reale Prospettiva Lineare

Mantegna, nel quadro del Cristo Morto fa tutto uno studio a riguardo: per creare i piedi del Cristo impiega
molto tempo perché riuscire a realizzare
nel quadro bidimensionale, la
prospettiva della persona supina con i
piedi rivolti verso l’osservatore, non è
semplice, ma lui ci riesce mediante
l’applicazione della tecnica della
prospettiva lineare.
Nella vita reale se proviamo a fare la
foto ad una persona distesa nel letto con
i piedi verso di noi, in primo piano
avremo i piedi. Ciò che Mantegna realizza nel quadro, non accade in una foto scattata nella vita reale, infatti
il dipinto sicuramente è più equilibrato, ma non è esattamente reale.
I bambini sono bravissimi a rendere il mondo in prospettiva, infatti riescono a
realizzare il prato, il cielo, e a dare l’idea immediata di un mondo tridimensionale
ponendo i tronchi degli alberi più vicini e altri più distanti.

La grandezza relativa. Uno degli altri indizi pittorici è la grandezza


relativa per cui, lo stesso oggetto rimpicciolito viene percepito come più
distante. Se guardassimo due alberi, sicuramente quello che ci
sembrerebbe più distante è quello più piccolo, invece quello che ci
sembrerebbe più vicino è quello più grande. Il meccanismo fisiologico
adattivo ci fa percepire gli oggetti che si allontanano progressivamente
più piccoli e distanti sebbene noi manteniamo la costanza di grandezza e
quindi non abbiamo la percezione che diminuiscano.
La posizione rispetto all’orizzonte. Gli oggetti più vicini all’orizzonte
vengono percepiti come più distanti rispetto a quelli che sono messi più
vicini. La tecnica per inquadrare bene gli oggetti, ad esempio un
tramonto, è quella di utilizzare sulla nostra macchina fotografica o sul
nostro cellulare la griglia, perché essa consente di collocare una linea
effettiva: collocando la griglia nella linea dell’orizzonte è possibile fare
delle inquadrature, focalizzandosi su elementi che sono più vicini o più
lontani.

L’ombreggiatura. La luce che colpisce un oggetto solido ne illumina


alcune parti più di altre. Il rapporto tra luce e ombra dipende dalla
struttura tridimensionale dell’oggetto e determina una forte percezione
di profondità, infatti le parti illuminate appaiono più vicine, mentre
quelle in ombra appaiono più distanti. Dunque nell’arte è possibile
rendere ancora più suggestiva la tridimensionalità dell’immagine o
giocando con il chiaroscuro nella realizzazione del quadro o stando
attenti agli aspetti legati alla luminosità.
L’interposizione. Tale fenomeno si verifica quando un oggetto ne copre parzialmente un
altro, allora verrà automaticamente percepito più vicino rispetto quello posto dietro.
Il gradiente di tessitura. Le superfici naturali
possiedono sempre una “grana” o una
“tessitura”, la quale è uniforme quando la
superficie si trova davanti l’osservatore,
mentre si infittisce quando la superficie si
allontana da esso.
Questo indizio fa riferimento a tutti gli
elementi che sono presenti nel nostro campo
fenomenico (campo di osservazione):
maggiormente si infittisce la trama in uno spazio, più gli oggetti che sono messi dentro la trama fitta, vengono
percepiti distanti: il gradiente di tessitura fornisce informazioni sulla distanza in quanto i dettagli degli oggetti
lontani risultano meno distinti e con una diversa inclinazione diversa rispetto quelli più vicini.
Guardando la prima figura, i pallini (oggetti più vicini all'osservatore), sono più distinti l’uno dall’altro, man
mano che lo sguardo va verso l’orizzonte, il gradiente di tessitura si infittisce e gli oggetti diventano indistinti,
quindi cambia anche l’inclinazione perché dipende sempre dall’angolo di convergenza dei nostri occhi.
N.B. Naturalmente possono esserci diversi gradi di tessitura, per esempio questo gradiente è importantissimo
nei processi si atterraggio: il pilota mentre plana verso la pista, ottiene informazioni su quello che viene definito
“flusso ottico”, relativo a questo gradiente, che fa riferimento a tutti gli elementi sulla pista, ma anche a tutti
quelli presenti nell'aeroporto.
Prospettiva aerea. Inquinamento, nebbia, polvere e foschia contribuiscono a far sembrare un oggetto ancora
più lontano. A causa della prospettiva area, gli oggetti distanti tendono ad apparire ancora più confusi, poco
brillanti, e con pochi dettagli indistinguibili. Una parte della luce che attraversa l’aria subisce un assorbimento
e una diffrazione (è un fenomeno associato alla deviazione della traiettoria di propagazione delle onde quando
queste incontrano un ostacolo sul loro cammino): le diverse lunghezze d’onda vengono in parte assorbite e in
parte rinviate in tutte le direzioni delle particelle dell’aria. Per questo motivo la luce riflessa dagli oggetti
lontani, subisce una dispersione più elevata, rendendo vaghi e indistinti i contorni e i dettagli.
Si capisce l’importanza della foschia quando è assente, ad esempio dalla costa palermitana, nelle giornate
limpide sono visibili e sembrano molto vicine alla costa le Isole Eolie o Ustica, non visibili invece in condizioni
di foschia a causa delle quali possono apparire molto lontane.
Parallasse di movimento. Il rapporto tra la velocità di 2 oggetti, uno più distante e uno più vicino, sulla retina
è inversamente proporzionale al rapporto tra le distanze dall'osservatore. Il movimento degli oggetti (o
dell’osservatore) ha una differente velocità angolare secondo la distanza.
Ad esempio assistiamo a questo fenomeno quando ammiriamo il paesaggio dal finestrino della macchina
mentre siamo in movimento, quando guardiamo dal finestrino di un aereo o di un treno. Mentre ci stiamo
muovendo abbiamo una determinata velocità di spostamento e contemporaneamente guardiamo gli oggetti
fuori dal finestrino, quindi succede che:
 Gli oggetti più vicini alla visuale dell’osservatore sembra che si spostino più velocemente, ma in una
direzione contraria a quella di chi osserva (se sul treno andiamo verso una destinazione, vedremo gli
oggetti vicini spostarsi verso la direzione opposta);
 Gli oggetti più distanti dalla visuale dell’osservatore sembra che si spostino più lentamente, ma
nella stessa direzione (se sul treno guardo gli oggetti a lunga distanza allora sembrano seguire la mia
stessa direzione di movimento)
 Gli oggetti posti in una posizione intermedia alla visuale dell’osservatore sembrano fermi (se sul
treno ci capita di vedere un contadino su un trattore, sembra quasi fermo, poi il treno si avvicina e in
realtà si muove).
È importante sottolineare che il parallasse di movimento NON è un vero e proprio indizio pittorico, in quanto
si attiva solo in movimento, per cui è un indizio cinetico, non tanto spaziale quanto temporale.
N.B. Gli indizi pittorici non sono universali, infatti ci sono culture che non li adoperano, o che li adoperano
solo in parte, per cui tendono a realizzare raffigurazioni piatte.
L’illusione della luna. L’illusione della luna ci fa comprendere come gli indizi pittorici si collegano
all’esperienza quotidiana.
Quando la luna è vicina all'orizzonte, è molto simile a una grossa moneta, mentre quando è in alto nel cielo
non è più grande di una monetina da pochi centesimi. Questa è un'illusione spiegata sulla base dell'ipotesi
della distanza apparente, che spiega perché l'orizzonte sembra più distante rispetto al cielo notturno:

 Quando la luna è in alto nel cielo, è circondata da pochi indizi di profondità;


 Quando invece è all'orizzonte, si trova dietro case, alberi, pali del telefono e montagne. Questi oggetti
forniscono numerosi indizi di profondità che determinano la percezione dell'orizzonte come più
lontano rispetto alla volta celeste.

Esempio Dipingete due palloni, uno a distanza di 3 metri e l'altro a distanza di 6 metri. Supponiamo che il
pallone più lontano venga gonfiato fino a quando la sua immagine sia uguale a quella del pallone più vicino.
Come sappiamo che il pallone più lontano è più grande? Perché la sua immagine è grande quanto quella del
pallone più vicino. Allo stesso modo, la luna all'orizzonte sembra più lontano poiché ci sono più indizi di
profondità, di conseguenza, la luna all'orizzontale deve essere percepita come più grande.
Se guardiamo l'immagine del ragazzo che tiene la luna, ciò che in
realtà stiamo ottenendo è l'informazione del ragazzo posto in
quella posizione, quindi dell'elemento ambientale, cioè del crinale
della collina che vediamo, di conseguenza la luna è percepita più
grande, in quanto viene messa in relazione con questi elementi
ambientali che spariscono completamente quando invece la luna è
alta, momento in cui la stimiamo come più piccola e più distante.

Inoltre se due oggetti sono percepiti di uguale grandezza, quello più distante è percepito come più grande
(invarianza grandezza/distanza o legge di Emmert).

L’apprendimento percettivo. Tutte le nostre esperienze riguardano l’apprendimento, il quale è legato aa


tutte quelle modificazioni del comportamento per effetto degli stimoli e dei processi di condizionamento che
si sono venuti a creare nel corso della nostra esistenza. Dal momento in cui tutte le esperienze facciamo di
interazione con gli oggetti nel corso del nostro sviluppo influenzano la nostra percezione, gli studiosi hanno
parlato di apprendimento percettivo: i processi di apprendimento influiscono nella percezione mediante il
cosiddetto apprendimento percettivo, il quale indica cambiamenti a livello cerebrale che alterano il modo
in cui strutturiamo i dati sensoriali in percezioni.
I processi di apprendimento non sono legati alla modificazione dei comportamenti o abitudini come era stato
detto dai comportamentisti, infatti ci sono molti esperimenti attuati con dei topi che dimostrano come in realtà
vi sia anche un cambiamento a livello neuronale durante l’apprendimento. Nelle nostre strutture cerebrali si
creano delle nuove associazioni tra i neuroni, nuovi scambi, dunque delle modificazioni tra le aree associative
del cervello che finiscono per determinare il modo in cui ricostruiamo gli oggetti da un punto di vista
percettivo (Ricorda…La percezione è la ricostruzione dell’oggetto anche alla luce delle esperienze di
apprendimento che l’individuo ha avuto con quell’oggetto in passato), quindi ci sono dei cambiamenti che
alterano il modo in cui strutturiamo i dati sensoriali rispetto all’elaborazione del percetto.
Esempi:

 Per usare un computer, è necessario imparare a prestare attenzioni a stimoli precisi come icone e
cursori. Inoltre, si impara progressivamente a individuare le differenze tra stimoli che inizialmente
sembravano identici.
 Così come un cuoco alle prime armi impara a poco a poco distinguere tra il basilico essiccato, l'origano
e dragoncello.
 In altre situazioni impariamo anche a concentrarci su una parte degli stimoli presenti ed evitiamo così
di dover elaborare tutti gli elementi, anche quelli non rilevanti. Ad esempio, un giocatore di seconda
linea difensiva nel football potrebbe capire che tipo di colpo è stato messo a segno osservando un paio
di giocatori fondamentali anziché l'intera squadra rivale.
Anche una percezione semplice quanto quella figura-sfondo viene condizionata dall'apprendimento. Per
esempio, se ritagliamo una sagoma da un foglio di carta scuro e la posizioniamo su uno sfondo bianco,
probabilmente alcune persone la percepiranno come una figura se somiglierà a un oggetto a loro familiare.

Le abitudini percettiveIn genere, l’apprendimento crea delle «abitudini percettive» ovvero dei modelli
stabiliti di organizzazione della percezione e dell’attenzione, che condizionano la nostra esperienza quotidiana.
Nel momento in cui stiamo esplicando delle attività quotidiane mettiamo in atto queste abitudini percettive
legate alla possibilità di capire subito le idee, dove sono collocati gli oggetti e come utilizzarli e naturalmente
questo va a condizionare la nostra esperienza quotidiana.

Esempi: Il cuoco “riesce a cucinare a occhi chiusi”, infatti sa dove prendere gli ingredienti o dove sono
collocati gli oggetti nella sua cucina; da questo punto di vista infatti tutti gli chef sono “gelosi” della loro
postazione perché l’hanno organizzata e la usano nelle loro attività, hanno appreso e sono diventati esperti
nella loro professione, e naturalmente da un punto di vista percettivo sanno dove mettere le mani;

 La massaia sa dove sono gli oggetti, non li cerca, ma prende immediatamente cioè che le serve;
 Gli esperti del computer non hanno bisogno di cercare le icone, ma immediatamente cliccano il
bottoncino che serve loro.

Le aspettative percettiveAccanto alle abitudini percettive ci sono anche le aspettative percettive:


esperienze passate, motivazioni ci portano a prevedere ciò che percepiremo e a vedere ciò che ci aspettiamo di
vedere. Fondamentalmente un’aspettativa è un’ipotesi percettiva che molto probabilmente applicheremo ad
uno stimolo, anche se tale applicazione sarà inappropriata.

EsempiEsempio di aspettativa percettiva sono le false partenze dei corridori ai blocchi di partenza: il
corridore sa che ci sarà lo sparo che darà il via alla gara, quindi l’esperienza passata lo porta ad anticipare
l’azione e a crearsi una aspettativa percettiva per cui sente il suono dello sparo anche se non c’è stato e inizia
a correre. Anche la nostra motivazione interviene, infatti il giocatore essendo particolarmente motivato a
vincere la gara, allora sarà molto fremente per ottenere il proprio obbiettivo e più predisposto a correre prima.
Anche i trucchi di magia giocano sull’aspetto delle aspettative percettive: noi vediamo quello che ci
aspettiamo di vedere, perché ci facciamo guidare dalla nostra esperienza passata, e questo porta a prevedere
ciò che percepiremo e anche a essere vittime di processi di suggestione. L’aspettativa percettiva dunque diventa
un vero processo di suggestione.

Gli errori percettivi La conoscenza pregressa di tutte le informazioni degli oggetti presenti intorno a noi
ha un valore adattivo, infatti è chiaro che l’apprendimento percettivo ci serve per percepire il mondo in
maniera costante: l’apprendimento percettivo ci serve per evitare che ogni giorno ci tocchi ricostruire ad
esempio i volti dei nostri familiari altrimenti dovremmo quotidianamente chiederci chi è la persona che
abbiamo di fronte (ma è mio padre? Ma è mia madre? Ma è mio fratello?...)
L’elaborazione di alcune percezioni abituali come volti, figure e oggetti talora crea degli errori percettivi,
determinati dalla forza dell’esperienza. Noi siamo abituati a rappresentarci il mondo in un determinato modo,
infatti abbiamo l'aspettativa che se un oggetto è vicino a noi, allora è più grande, viceversa se è più distante
allora sarà più piccolo e così via, ma non sempre le nostre aspettative corrispondono alla realtà.
La camera di Ames. La conoscenza delle dimensioni degli oggetti aiuta a giudicare la distanza da essi e da
quelli che li circondano: poiché abbiamo visto migliaia di stanze approssimativamente simili a una scatola per
abitudine costruiamo le nostre percezioni basandoci su quel dato, ma questo non è necessariamente vero. Un
esempio di ciò è rappresentato dalla camera di Ames, presente al famoso museo delle illusioni di Trapani. La
camera di Ames, è costruita ad hoc, infatti è uno spazio asimmetrico, che ad una prima occhiata sembra essere
di forma regolare: viene percepita dall'osservatore come fosse un rettangolo, in quanto gli indizi presenti dentro
la camera, e quindi gli oggetti che mandano determinate informazioni, portano l’occhio a cadere in errore e
come risultato finale si ottiene una percezione differente della camera che si sta osservando. In realtà la
camera di Ames è una stanza particolare di forma trapezoidale.
Cosa succede nella camera di Ames? L’osservatore ha una percezione alterata della stanza poiché non la vede
trapezoidale ma la vede rettangolare, ottenendo questa visione alterata rispetto alla realtà. Se ci sono due
persone che entrano dentro questa stanza e una terza persona le guarda da uno spioncino collocato al centro,
nonostante la posizione reale delle persone corrisponda agli angoli del trapezio, l'osservatore attraverso lo
spioncino ha una percezione alterata:
Poiché l'angolo sinistro della stanza è più lontano rispetto all'angolo destro (perché la forma è appunto a
trapezio), la persona nell'angolo sinistro viene percepita dall’osservatore come più piccola rispetto a quella che
si trova nell'angolo destro, che appare molto più grande.

Nella figura a sinistra, il pallino rosa è la posizione


apparente della persona, che sembra posizionata più avanti
rispetto a dove invece realmente si trova, tanto è vero che la
figura appare molto piccola.
Ciò avviene perché la proiezione che si viene a creare è
studiata ad hoc per trarre in inganno e trasmettere delle
informazioni differenti rispetto alla grandezza reale della
persona che si sta osservando. Chiaramente questo effetto è
determinato dalla forza dell'esperienza passata che ci porta
a giudicare la grandezza sulla base della distanza percepita,
proprio perché stimiamo la distanza sulla base della posizione
dell'oggetto rispetto a noi, dunque si crea questo effetto di
“grandezza apparente”.
L’effetto della razzaIl cervello è sensibile ad alcuni elementi percettivi come forme, colori, contorni e
punti e linee e tale sensibilità è in parte appresa e in parte innata; quindi un bambino che precocemente viene
esposto a riconoscere le forme, è chiaro che sarà maggiormente predisposto a riconoscere quelle forme stesse.
Nella percezione dei volti si viene a determinare il cosiddetto “effetto dell'altra razza”, un effetto tale per cui
noi siamo in grado di distinguere meglio le differenze che ci sono tra i volti di persone appartenenti alla nostra
razza che non a razze differenti. Una ragione di tale differenza è che, in genere, si ha una maggiore esperienza
con le persone della propria razza, infatti siamo più sensibili (proprio per effetto della nostra esperienza di
discriminazione dei volti della nostra appartenenza culturale), a distinguere ed individuare le differenze tra gli
elementi che caratterizzano un volto piuttosto che un altro nella nostra razza.
Quando invece ci confrontiamo con culture, razze diverse dalla nostra, questa sensibilità a rintracciare gli
elementi salienti di un volto viene meno, perché naturalmente siamo meno esposti alle caratteristiche facciali
delle persone di altre culture, per cui ad esempio i cinesi ci appaiono tutti uguali. Questa minore sensibilità a
notare differenze percettive deriva proprio dalla poca familiarità.
P.S. Bisogna sottolineare che rispetto al riconoscimento di volti, già a partire da pochi mesi di vita i neonati
riescono a distinguere fra facce di persone e di scimmie e a identificare correttamente alcune espressioni
facciali.
Gli adulti rilevano immediatamente alcune caratteristiche, fra cui la direzione dello sguardo e la
categorizzazione (sesso, razza, età). La detenzione di queste caratteristiche non è determinata da un singolo
elemento, ma da un largo set di indizi che contribuiscono a far percepire e categorizzare il volto. Ad esempio,
per determinare la razza a cui appartiene una persona viene posta l'attenzione soprattutto sulla forma del volto
piuttosto che sul colore. La discriminazione sessuale, invece, richiede una combinazione di un largo set di
indizi bidimensionali, come lo spazio fra le sopracciglia, e tridimensionali, come la forma del naso, che
solitamente è concavo per le femmine e convesso per i maschi.

Il “mondo capovolto” L'effetto dell'apprendimento percettivo è stato studiato per vedere se noi risultassimo
capaci a vivere soltanto nel mondo culturale in cui siamo abituati a stare (quindi un mondo statico con oggetti
determinati che non cambiano mai) oppure no.
Sono stati fatti degli studi nei quali i soggetti sono stati portati ad interagire in delle stanze (stanza del “mondo
capovolto” nel museo delle illusioni di Trapani), dove l’ambiente era rappresentato al contrario, quindi un
mondo capovolto rispetto a come si è abituati a vederlo, ad esempio con il lampadario giù e le sedie su.
Nonostante ciò gli studiosi hanno visto che i soggetti erano in grado di adattarsi a questi nuovi ambienti, infatti
gli esseri umani sono dotati di una buona capacità di adattamento tale per cui se l'ambiente si modifica, sono
in grado di adattarsi alle modifiche di quell’ambiente. Pur con qualche difficoltà, i soggetti riuscivano non solo
ad adattarsi ma anche a migliorare la loro capacità di adattamento quando dovevano interagire con quegli
oggetti, per effetto di esposizione all'ambiente.

La visione invertita Un adulto riuscirebbe ad adattarsi a un mondo percettivo completamente nuovo? La


risposta a questa domanda emerge da un esperimento in cui era stato chiesto ad alcuni volontari di indossare
degli occhiali che facevano apparire il mondo capovolto e gli oggetti spostati da destra a sinistra. All'inizio,
anche i compiti più semplici come camminare e mangiare si rivelavano incredibilmente difficili. I partecipanti
all'esperimento riferivano, inoltre, che i movimenti della testa causavano uno spostamento violento del mondo
nello spazio, che procurava loro forti mal di testa e una sensazione di nausea. Ma dopo alcuni giorni iniziarono
ad abituarsi alla visione capovolta e la loro capacità di adattamento, anche se incompleta, fu impressionante.
Tutto ritornò nella giusta posizione per queste persone? No. Mentre indossavano gli occhiali, le immagini
rimasero sottosopra. Ma a poco a poco impararono a svolgere la maggior parte delle attività abitudinarie, e il
mondo capovolto cominciò ad apparire piuttosto normale. In altri e più recenti esperimenti, alcune persone che
indossavano le lenti invertite riuscivano anche a guidare, e una persona pilotò persino un aereo (Kohler, 1962).
Queste imprese equivalgono a guidare o volare a testa in giù, con la destra e la sinistra invertite.
Interagire con un nuovo mondo visivo tramite un movimento attivo sembra essere la chiave per un
adattamento rapido. In un esperimento classico, fra le persone che indossavano questo tipo di occhiali
sperimentali, coloro che potevano camminare si adattavano molto più velocemente di quelli che venivano
trasportati su un carrello a ruote.
Perché il movimento fornisce un aiuto? Forse perché i comandi sono collegati al feedback sensoriale. Restare
immobili sarebbe come guardare un film sul quale non abbiamo alcun controllo: sarebbe meno probabile il
verificarsi di un apprendimento percettivo. A tal proposito, gli studi di Gibson rimangono fondamentali per la
comprensione di alcuni fenomeni percettivi.
Gli esperimenti di mondo capovolto e di visione invertita ci garantiscono la possibilità che:
 Da un lato è vero che nella nostra interazione percettiva con l’ambiente esterno ci facciamo trascinare
dalla nostra esperienza pregressa e quindi ci abituiamo a vedere il mondo in maniera stabile;
 Dall’altro lato però è pur vero che se il mondo attorno a noi cambia, noi siamo in grado di adattarci
al mondo stesso (questo significa che i principi innati di cui ci hanno parlato i gestaltisti o tutti quegli
aspetti legati alla tridimensionalità sono dei principi validi).
Anche nello studio della percezione non si può avere una visione nettamente innatista o nettamente
ambientalista, i due aspetti del patrimonio innato, genetico, di funzionamento cerebrale del SNC e così via
interagiscono con gli elementi ambientali, in una prospettiva interazionista che poi ci garantisce un adeguato
adattamento all’ambiente esterno.

Il contesto percettivo La possibilità di adattarci all’ambiente è ulteriormente confermata dall’esistenza del


fatto che noi molto spesso quando percepiamo uno stimolo, lo valutiamo sempre in relazione al contesto nel
quale lo stimolo si colloca: il contesto percettivo riguarda l’informazione che circonda uno stimolo ed è
importante perché influenza la percezione.
Ad esempio un uomo alto tra soggetti bassi sembra ancora più alto, viceversa un uomo basso tra soggetti alti,
sembrerà ancora più basso.
La figura al centro può alternativamente essere percepita o come un numero (13) o
come una lettera (B), a seconda di quale dimensione, contesto, consideriamo:
 Se consideriamo la dimensione verticale, cioè il contesto delle lettere,
vedremo la lettera B;
 Se considero quella orizzontale, cioè il contesto dei numeri, vedremo il
numero 13.
Il contesto influenza la nostra percezione ed è quello a cui si fa riferimento quando si parla dello spazio nel
quale si colloca l’oggetto, il gruppo, l’appartenenza. Quindi sia da un punto di vista di funzionamento di base,
ma anche rispetto ai nostri processi di interazione sociale: capita che un individuo venga in qualche modo
giudicato in funzione delle persone con cui interagisce. Le qualità di una persona variano rispetto ad un’altra
(qualità legate all’altezza, alla bellezza, la prestanza fisica ecc.) in funzione del contesto nel quale si trovano;
quindi il contesto dell’informazione che circonda lo stimolo naturalmente ne influenza la percezione dello
stimolo stesso.

Le illusioniLe illusioni percettive sono una serie di inganni del sistema visivo che dipendono
dall’apprendimento percettivo (esperienza del mondo) o perché si percepisce qualcosa che non è presente,
oppure si percepisce in modo scorretto quello che è presente.
Si distinguono in:
Illusioni ottiche (1);
Illusioni percettive (2);
Illusioni cognitive (3).
Le illusioni ottiche (1). Le illusioni ottiche oppure ottico-geometriche causate da fenomeni ottici legati alla
fisica della visione e quindi al fatto che l’energia luminosa, cioè lo spettro luminoso cambia in relazione alle
condizioni di illuminazione, e non sono connesse con processi fisiologici. Ad esempio, la strada appare bagnata
quando le temperature sono molto alte, ma in realtà sappiamo che non è realmente così.
Le illusioni ottico-geometriche sono studiate principalmente dagli psicologi della Gestalt, vediamone alcune
di seguito:

 Nell'illusione di Ehrenstein, vi è un quadrato iscritto in una serie di cerchi concentrici, percepito poi
come una sorta di rombo. Se guardiamo nel punto bianco, i lati del quadrato sembrano un po' piegati
verso l'interno, ma in realtà sono dritti.
 Nell'illusione di Ponzo la barretta posta sopra sembra più lunga rispetto a quella posta sotto, ma in
realtà sono uguali.
 Nell'illusione di Titchner ciò è più evidente perché il cerchio all'interno è sempre della stessa misura,
ma viene percepito come più grande o più piccolo a seconda che sia circondato da altri cerchi più o
meno grandi (se i cerchi attorno sono piccoli, allora quello al centro viene percepito come grande e
viceversa). In questa illusione abbiamo anche l'idea dell'effetto del contesto percettivo.
 L'illusione di Hering è legata al fatto che le rette parallele vengono percepite verso l'interno come
leggermente bombate. Questa è un'illusione ottica che gli antichi greci sfruttarono nella costruzione
dei templi, infatti le colonne che reggono il frontone sembrano avere un rigonfiamento al loro interno
(questa tecnica si chiama stasi), proprio per evitare che l'osservatore abbia la percezione che il tempio
gli cada davanti; se noi vedessimo delle linee dritte infatti penseremmo che il tempio stia cadendo di
fronte a noi, per cui ingannando l'occhio grazie a questa illusione, l'osservatore percepisce una
maggiore stabilità dell'edificio che osserva.
Le illusioni percettive (2). Le illusioni percettive generate dalla fisiologia dell’occhio. Ad esempio tra queste
illusioni vi sono le immagini postume; quando fissiamo un’immagine postuma con dei contorni e colori
particolari, per un quantitativo di tempo stabilito (come 30 sec) e poi spostiamo lo sguardo verso una parete
bianca apparirà una figura, che nella realtà non esiste. Questo si chiama effetto dell’immagine postuma, cioè
l’immagine che viene fissata nei nostri recettori retinici, cioè nella nostra memoria e poi viene proiettata.
Ad esempio in quest'immagine vi è la bandiera americana in giallo e verde: se proviamo a fissarla per un tot
di tempo e poi guardiamo sulla parete bianca verrà riproiettata bandiera americana con i colori reali.
L'immagine postuma viene addirittura riconvertita in funzione dei
colori che stiamo osservando (in virtù della teoria tricromatica, per cui
coni e bastoncelli funzionano in base ai colori complementari, se
vediamo l'immagine in giallo, verde e nero, andiamo a vedere poi blu
rosso e bianco). L'immagine postuma è illusoria perché di per sé nella
parete bianca non vi è alcuna immagine.

Le Illusioni cognitive (3). Queste illusioni sono dovute all’interpretazione (esperienza


fenomenologica) che il cervello dà delle immagini percepite (figure impossibili).
Tra le illusioni cognitive rientra il triangolo di Kanizsa: in questo caso l'oggetto
fenomenico è presente, ma quello fisico, no, in quanto guardando la figura sembra
esserci un triangolo bianco, che nella realtà non esiste, eppure vediamo questo
triangolo come “pulsare” ed ergersi dallo sfondo, per cui sebbene non lo sia, sembra
essere una figura prevalente. Si tratta dunque di un'illusione cognitiva di un oggetto
che in realtà non c'è.

Illusioni vs AllucinazioniQuando parliamo di illusioni, è giusto distinguerle dalle allucinazioni, perché:

 Le prime sono stimoli percettivi che esistono davvero e che il sistema visivo interpreta in vari modi
 Le seconde invece sono percezioni di oggetti o eventi che non corrispondono a nessuna realtà esterna,
infatti è il soggetto che gli assegna una realtà che invece non esiste, in quanto non c'è alcuno stimolo.
Per esempio, i soggetti in questi casi odono voci, vedono oggetti o persone, sentono odori che non
esistono.
Le illusioni e le allucinazioni possono essere distinte con un esame di realtà. Quest’ultimo fa la differenza tra
una condizione di normalità e una condizione di psicosi, infatti le allucinazioni si hanno in condizioni di stati
alterati della coscienza, dove l'individuo si convince di vedere, vivere o sentire cose che non esistono. La
discriminante tra queste condizioni è proprio l'esame di realtà, che rende il soggetto più o meno consapevole
rispetto alle sue caratteristiche, infatti consente di ottenere informazioni aggiuntive per controllare le nostre
percezioni.

 Se pensiamo ad esempio di aver visto una farfalla grande 90 cm, possiamo avere la conferma che si
tratta di un'allucinazione cercando di toccarne le ali. Per scoprire se si tratta di un'illusione, farse
occorrerà misurare un disegno o usare un metro.
Rientra nei fenomeni illusori anche il movimento stroboscopico, il quale è un movimento apparente percepito
quando si mostrano due stimoli statici in rapida successione. A seconda di come si illuminano questi stimoli,
si determina nel soggetto un'esperienza percettiva illusoria, infatti il soggetto vede un unico stimolo luminoso
anziché due. Il movimento stroboscopico fu coperto da Wertheimer ed è alla base dell’invenzione del cinema
da parte dei fratelli Lumiere (vedi prima, La psicologia della Gestalt).

I movimenti oculari e l’esplorazione visiva. La risposta iniziale a uno stimolo visivo, un'ambiente,
un'immagine, una frase scritta, può avvenire con un unico colpo d'occhio, ossia con non più di una singola e
breve fissazione. Oltre al fatto che non siamo in grado di coprire l'intero campo visivo con una sola occhiata,
il ruolo fondamentale del movimento degli occhi è dato dal fatto che l'occhio, spostandosi, fa sì che le diverse
parti del campo su cui, di volta in volta, rivolge l'attenzione, siano sempre proiettate sulla fovea, quella zona
che si trova al centro della retina dove è concentrato il maggior numero di recettori (coni) e dove quindi l'acuità
visiva è maggiore.
Oggi l'utilizzo delle tecniche di trading è molto diffuso soprattutto negli studi di ergonomia, delle interfacce
grafiche, delle plance automobilistiche o della dislessia. I movimenti oculari sono alla base della lettura, infatti
attraverso l’eye-tracker (dispositivo che si mette sugli occhi e registra il punto di fissazione) si è visto che
ognuno di noi ha delle strategie di analisi visiva differenti.
Si è visto per esempio che:
 Nei soggetti normali nell'esplorazione di un brano partono sempre da sinistra verso destra, e così via;
 Nei soggetti dislessici l'occhio si muove in diverse direzioni e l'esperienza soggettiva che i dislessici
descrivono come se “ballassero le lettere” è reale in quanto testimoniata dai movimenti oculari nel
foglio che si sta leggendo
Un' esplorazione visiva è un'alternanza di fissazioni e movimenti. Bisogna premettere che ogni persona
ha una sua strategia di esplorazione personale, per cui ogni generalizzazione deve tener conto delle differenze
individuali. Il movimento oculare è anche detto “saccade” e durante la fase esplorativa si compiono,
mediamente, 3-4 saccadi per secondo. La durata di una fissazione può variare: dipende, per esempio,
dall'interesse che un determinato particolare della scena suscita nell'oservatore. In media però possiamo
stabilire che la durata di una fissazione è di 200-300 millisecondi.
Il movimento, infatti, ci serve per spostarci all'interno della scena e poterla osservare interamente; la fase di
conoscenza visiva vera e propria, però, si ha nei momenti di fissazione in cui gli occhi rimangono fermi. In
realtà, gli occhi non rimangono mai veramente fermi, perché, anche quando sono in quiete, compiono un
leggerissimo movimento, un tremore, il cosiddetto «nistagmo fisiologico». Infatti, se l'occhio è rimasto
immobile durante la fase di fissazione di un'immagine, questa, dopo poco, scomparirebbe, perché il pigmento
presente nei recettori eccitati si esaurirebbe, causando la scomparsa dell'immagine.

 È stato possibile osservare questo fenomeno nelle immagini stabilizzate: immagini che inviate su un
piccolissimo specchio posto sull'occhio, che seguiva continuamente i movimenti che l'occhio compiva,
in maniera che l'immagine attivasse sempre lo stesso gruppo di recettori; il risultato finale era che
l'immagine scompariva dopo pochissimo tempo.

Gli studi di YarbusI primi studi sperimentali sui movimenti degli occhi risalgono al 1967 con i lavori di
un fisiologo russo, Alfred Yarbus. Questo ricercatore riteneva che il tempo impiegato nell'osservare i
particolari di un'immagine fosse proporzionale all'informazione contenuta che l'osservatore riteneva rilevante.
Il maggior numero di fissazioni è concentrato sulle parti del volto ritenute salienti (occhi, naso, orecchie) ai
fini della comprensione dell'immagine. In un altro lavoro, Yarbus dimostrò che l'esplorazione si modifica
sensibilmente in funzione dello scopo che l'osservatore si prefigge.

Gli studi di Noton, Stark e MolnarL'esplorazione visiva, attraverso il movimento degli occhi, può anche
essere descritto come un “ciclo esplorativo” costante che viene ripetuto più volte durante il periodo di
osservazione di un'immagine. Noton e Stark (1971) propongono un modello di esplorazione dei movimenti
degli occhi che segue un percorso definito, detto anello delle caratteristiche, che si compone dei seguenti
passaggi:
1. Caratteristica dell’immagine;
2. Fissazione,
3. Movimento.
Si ammette che, generalmente, un individuo di cultura occidentale cominci l'esplorazione di un'immagine da
sinistra a destra e dall'alto in basso. Anche se questo tipo di strategia è, con ogni probabilità, il punto di
partenza di un'esplorazione, è pur vero che, come afferma Molnar (1981), questa modalità è spesso
contraddetta dai fatti, in quanto certe proprietà dello stimolo influenzano la direzione dei movimenti degli
occhi. Se, per esempio, la scena è sbilanciata sulla destra (perché magari c'è una figura rilevante) è molto
probabile che la strategia di osservazione inizi da destra verso sinistra (Mastandrea, 2015). Si possono dunque
fare solo delle approssimazioni, per quanto riguarda i cicli esplorativi, ed è fondamentale tenere presente le
caratteristiche strutturali dell'immagine che si osserva.
Molnar (1981) afferma che l'esplorazione visiva di un'immagine potrebbe essere ricondotta, in termini molto
generali (tenendo conto delle differenze individuali e della complessità strutturale dell'immagine) a tre fasi di
esplorazione, in successione:
1. La prima fase è costituita da saccadi che sono lunghe in ampiezza e da fissazioni brevi (questo
risponde a una necessità iniziale di percepire l'immagine in poco tempo e nella sua globalità);
2. La seconda fase corrisponde a una saccadi più corte con fissazioni lunghe (per permettere
l'identificazione più dettagliata dell'immagine);
3. La terza fase, infine, si caratterizza per le lunghe pause fra le saccadi.

LEZIONE 3/12/2020.

L’ATTENZIONE.
L’attenzione è un processo molto complesso che riguarda vari aspetti del nostro funzionamento cognitivo e
dell’interazione che abbiamo con l’ambiente. Dopo aver compreso come processiamo gli stimoli esterni
attraverso i processi percettivi, a questo punto la domanda che sorge riguarda cosa accade nel momento in cui
sia ha un percetto (quindi quando c'è qualche informazione esterna o interna che deve essere elaborata dal
sistema cognitivo), dunque quale processo interviene a modulare questa situazione.

Cos’è l’attenzione? Ogni giorno siamo bombardati da una miriade di stimoli di natura visiva, uditiva, tattile,
che provengono sia dal mondo esterno ma anche dal mondo interno (anche i nostri pensieri a volte sono
degli stimoli intrusivi; se ad esempio mi devo concentrare a studiare e penso ad altro, chiaramente questo
pensiero distoglie la mia attenzione, concentrazione). In generale l’attenzione è un processo cognitivo che fa
da filtro, cioè opera una processo di selezione delle informazioni esterne, dunque per dare una definizione più
specifica:
“L’attenzione è un processo che opera una selezione tra tutte le informazioni che in un certo istante
colpiscono i nostri sensi (informazioni esterne) o i nostri ricordi (informazioni interne) consentendo
solo ad alcune di passare agli stati successivi di elaborazione.”
Noi siamo, come dicono i cognitivisti, degli organismi “a capacità cognitive limitate”, ciò significa che il
nostro cervello non ha la capacità di elaborare contemporaneamente tutte le informazioni che provengono sia
per un fattore di tempo, di processamento, sia per un fattore di elaborazione e di gestione del dato informativo,
infatti se tutte le informazioni arrivassero contemporaneamente, il nostro cervello andrebbe in corto circuito.
Per evitare ciò, abbiamo il sistema attentivo, che opera questo processo di selezione delle informazioni interne
ed esterne consentendo soltanto ad alcune di passare alle nostre funzioni cognitive alte (al SNC) ed essere
successivamente processate. Vi è dunque il filtro percettivo/sensoriale: nel momento in cui l’informazione
viene colta e deve accedere, quindi quando viene processata dai livelli superiori, deve attivarsi l’attenzione che
opera questo filtro rispetto e informazioni circostanti.

La definizione di James. Lo studio dell’attenzione ha matrici molto antiche, infatti già James, funzionalista,
nel libro Principi di Psicologia, uno dei primi manuali di psicologia generale, definisce l’attenzione così:
“È il prendere possesso da parte della mente in chiara e vivida forma di uno fra i tanti oggetti e fra i
tanti treni di pensieri possibili, essa comporta il ritrarsi della mente da alcune cose per poter operare
su altre con grande efficienza…”
Quindi, in altre parole prendere possesso, da parte della mente, di uno stimolo esterno o interno (un oggetto o
un pensiero) e dato che l’obiettivo è processare l’informazione, noi abbiamo bisogno di un sistema che filtri
effettivamente l’informazione che per noi è necessaria, affinché la mente si ritira dagli oggetti esterni.
 Da una parte James considera l’attenzione come filtro, come processo che seleziona stimoli esterni o
interni, importanti e necessari;
 Dall’altra parte considera anche l’attenzione come concentrazione, ovvero utilizziamo i nostri
processi cognitivi nell’elaborazione di una specifica porzione di informazione che in quel momento
suscita il nostro interesse.
Così orientiamo le risorse cognitive e le rendiamo efficienti, infatti, se mi concentro nel compito apprendo
meglio, ricordo meglio le informazioni necessarie per quel compito ecc.

Le varie forme dell’attenzione. Chiaramente la complessità di questa funzione diventa ancora più
pregnante nel momento in cui consideriamo che ci sono diverse forme dell’attenzione: Questo processo
cognitivo può essere legato:
L’attenzione selettiva, cioè la capacità di selezionare gli stimoli dall’ambiente;
L’attenzione sostenuta, cioè la possibilità di concentrazione che viene mantenuta per lungo tempo
nello svolgimento di un compito. Se mi devo concentrare, infatti devo mantenere l’attenzione per
lungo tempo verso il compito che sto svolgendo,
L’attenzione divisa. Noi riusciamo a svolgere più compiti contemporaneamente, ad esempio se sto
guidando, contemporaneamente posso ascoltare la musica; questo perchè il sistema cognitivo è diviso
nel processamento della percezione visiva ma anche della percezione uditiva, della coordinazione del
movimento e così via. Quindi l’attenzione è divisa, infatti siamo predisposti per svolgere più azioni
contemporaneamente; tanto è vero che oggi, in relazione all’interazione con le tecnologie, si parla di
multitasking (la possibilità che viene garantita dall'organizzazione delle interfacce a finestra, per cui
nello stesso tempo possiamo avere più programmi aperti sul pc e questo presuppone che riusciamo più
o meno a seguirli tutti).

Le fasi dello studio dell’attenzione. Nello studio dell’attenzione è possibile individuare delle fasi di studio,
che sono interconnesse con il progresso della psicologia delle varie prospettive dagli anni ’50 in poi.

 Anni ’50-’60. Lo studio dell'attenzione ha matrici vecchie perché anche i funzionalisti e gli
strutturalisti studiavano l'attenzione, ma viene codificato in chiave sperimentale tra gli anni ’50 e gli
anni ’60. In questi anni l'attenzione viene vista come una funzione che seleziona gli stimoli esterni e
consente di focalizzare la concentrazione su quelli necessari. Dal momento in cui si ritiene che
l'individuo non possa fare più cose contemporaneamente si parte dal principio che l'essere umano è un
processore con una capacita limitata; parte quindi lo studio dell’attenzione selettiva.
 Anni ’70-’80. Successivamente tra gli anni ’70 e gli anni ’80 si comincia a capire che emerge il
multitasking. Vi è una ragione storica, poiché questi anni sono quelli in cui vengono sviluppate le
interfacce al computer, le finestre, e gli psicologi si chiedono come l’individuo possa fare più cose
insieme, per cui parte lo studio dell’attenzione divisa (lo shifting è la capacità di prestare attenzione a
più stimoli contemporaneamente).
 Anni ’80-in poi. A partire dagli anni ’80 in poi, con lo sviluppo del connessionismo e dei vari modelli
di tipo neurologico e neurobiologico si cominciano a fare una serie di studi approfonditi sulle relazioni
tra processi attentivi e substrato neurobiologico, basati sulle tecniche di neuroimaging, potenziali
evocati, simulazioni, che ci danno dei dati rispetto al fatto che vi è un’unitarietà mente corpo.

I problemi dell’attenzione. L’attenzione è un processo variegato che implica.


 La selezione delle informazioni esterne e interne;
 La concentrazione;
 Lo svolgimento di più compiti contemporaneamente;
 La «cattura» dell’attenzione da parte di stimoli rilevanti. Parleremo infatti dei processi di “cattura”:
se ad esempio supponiamo che in questo momento in cui siamo tutti concentrati a seguire una lezione,
ci fosse un fortissimo rumore; è chiaro che il nostro sistema cognitivo catturerebbe lo stimolo
improvviso sonoro o una forte luce ecc.. Dobbiamo dunque anche capire quali caratteristiche lo
stimolo deve avere per catturare la nostra attenzione.
 La distrazione, perché nel momento in cui sono concentrato a svolgere un particolare compito, devo
isolarmi dall’ambiente esterno e devo essere meno propenso alla distrazione, infatti la distraibilità è
un aspetto speculare dei processi attentivi;
 Gli «errori attentivi», in quanto a volte i nostri processi attentivi possono sbagliare, e noi possiamo
effettuare degli errori attentivi di cattura o legati all’intervento dell’esperienza passata.
Chiaramente a fronte di questa eterogeneità di definizione e dei processi che sono implicati in questa funzione
cognitiva, i problemi per lo studio dell’attenzione riguardano:
 La selezione;
 Il controllo;
 Il ruolo del tempo (vigilanza, concentrazione);
 L’interconnessione con altri processi cognitivi attraverso una serie di compiti

I paradigmi sperimentali. Il contributo della psicologia cognitiva allo studio dell'attenzione, oltre che nella
formulazione di diversi modelli scientifici, è evidente anche nell'ideazione di paradigmi sperimentali utili per
misurare tutti i fenomeni discussi. Quelli più famosi in particolar modo sono:
 I paradigmi di filtraggio (1);
 I paradigmi di selezione (2).
N.B. I paradigmi di priming (3). Inoltre si è trovata ampi utilizzazione anche di paradigmi provenienti da
altri comini cognitivi come il priming, sviluppato all'interno degli studi sulla memoria semantica
I paradigmi di filtraggio (1). Essi si basano sulla presentazione rapida e continua di stimoli rilevanti per il
compito che soggetto deve svolgere e stimoli irrilevanti. In questa serie di esperimenti, il soggetto veniva
posto in una condizione di osservazione, e gli veniva affidato un compito, al quale doveva prestare attenzione
selezionando e filtrando le informazioni necessarie, cioè solo gli stimoli rilevanti e ignorando altri stimoli
irrilevanti.

 Il più noto di questi paradigmi è quello dell'ascolto dicotico: in questi compiti soggetti devono
riportare il messaggio che viene presentato a un orecchio, mentre ignorano il messaggio che viene
contemporaneamente presentato all'altro orecchio
I paradigmi di selezione (2). Sono dei paradigmi nei quali lo sperimentatore si concentra maggiormente sulla
capacità del soggetto di selezionare in maniera specifica lo stimolo importante dall’ambiente. In particolar
modo sono rappresentati da compiti di ricerca visiva e paradigma di Posner (nell’ambito dell’attenzione
visivo spaziale). In questi esperimenti i soggetti devono individuare in un display lo stimolo rilevante tra una
serie di distrattori nel minor tempo possibile (tempi di reazione).
I paradigmi di priming (3). I paradigmi di priming studiano come uno stimolo preliminare (stimolo
preattivante o prime) influenzi la prestazione successiva. Negli studi di memoria semantica è noto che è uno
stimolo che appartiene una determinata categoria semantica, come ad esempio la parola “medico” può
accelerare il rilevamento di uno stimolo target di una categoria semantica correlata (ad esempio la parola
“ospedale”) più di quando non faccia uno stimolo appartenente a una categoria semantica non correlata (ad
esempio la parola “ombrello”).
L’ATTENZIONE SELETTIVA.
Partiamo a questo punto dallo studio
dell’attenzione selettiva. Osservando questa
figura, proviamo ad individuare nel minor tempo
possibile l’uomo con il turbante. (Si trova nella
macchinina blu sotto la giostrina).

Per svolgere questo compito, quindi per arrivare allo stimolo target, abbiamo dovuto focalizzare l’attenzione
nel processamento della figura per selezionare dall’ambiente l’informazione che ci interessa (quella target).
Questo processo è un tipico esempio del fatto che noi, per svolgere questo compito, abbiamo applicato
l'attenzione selettiva, cioè quel processo che ci consente di selezionare gli obiettivi per noi rilevanti in quel
momento. Nello studio iniziale dell'attenzione, gli unici stimoli che vengono processati e trasferiti quindi a
livelli più alti sono solo quelli rilevanti, infatti nel momento in cui processiamo la figura non abbiamo
rappresentato nella mente la bambina con il palloncino, l’orso o altre immagini, ma abbiamo selezionato lo
stimolo rilevante, cioè l’uomo con il turbante, che è arrivato alle aree corticali del nostro SNC e, di conseguenza
è stata emessa la risposta.
In particolare secondo la prospettiva cognitivista di Kanheman (1973) l’attenzione è l’insieme dei meccanismi
che permettono la selezione di alcuni stimoli rilevanti per gli obiettivi dell’individuo. Nell’ottica cognitivista,
solo gli stimoli rilevanti saranno quindi avviati a processi più elevati di elaborazione dell’informazione per
venire incontro alle limitate capacità di processamento del sistema. Gli stimoli irrilevanti invece vengono
soppressi o perduti, dunque l’attenzione selettiva fa passare soltanto gli stimoli necessari, sopprimendo tutti
gli altri, per non sovraccaricare il sistema cognitivo.

Il filtro “a collo di bottiglia”. Il modello Human Information Processing (HIP) descrive il sistema
cognitivo come un elaboratore delle informazioni che vengono ricevute e progressivamente elaborate in modo
seriale nei successivi livelli di elaborazione (percezione, memoria) al fine di selezionare ed emettere la risposta.
L'attenzione selettiva è come un filtro cognitivo, infatti, gli psicologi per capire meglio questo fenomeno
hanno proposto la metafora che consiste nel rappresentare l’attenzione selettiva è un filtro «a collo di
bottiglia», ossia un restringimento nel canale delle informazioni che collega i sensi alla percezione.
Quindi cosa succede? Vi sono tantissimi stimoli, ma quando si devono incanalare per passare ai livelli
successivi, succede che nel collo della bottiglia viene fatto passare uno stimolo alla volta e le informazioni
sensoriali vengono processate una alla volta man mano che entrano nel collo della bottiglia. Il processamento
delle informazioni è dunque un processo di tipo seriale: l'attenzione filtra le informazioni una alla volta, le
fa passare e poi entrare nel nostro sistema cognitivo, che le processa serialmente secondo il funzionamento
tipico del computer (il dato entra, arriva nel computer, va alla memoria, viene processato ecc.). Le
informazioni esterne dunque per essere elaborate vengono filtrate dall’attenzione selettiva che funziona come
un collo di bottiglia.
Le teorie del filtro. Secondo l’approccio cognitivista ciò significa che noi non siamo in grado di processare
informazioni che ci provengono dallo stesso canale sensoriale.

EsempioSe stiamo guardando un film e ascoltando il dialogo dei personaggi, e ci chiama qualcuno al
cellulare, il dialogo dei personaggi non possiamo più processarlo perché il quel momento il nostro filtro
attentivo viene saturato dalla voce della persona che ci chiama.
Al contrario, nel momento in cui parliamo al cellulare, e continuiamo a prestare attenzione alle vicende che
accadono nel film, processando le informazioni da un punto di vista visivo, abbiamo svolto un doppio
compito, impegnando il sistema cognitivo sia al processamento uditivo della voce della persona con la quale
parlavamo, sia al processamento visivo. In questo senso, non avremo perso completamente il filo del film, ma
riusciremo più o meno a capire cosa è successo, in quanto le immagini venivano processate per via visiva e
non più verbale.
A questo punto sorgono delle domande…

 Quando vengono selezionate le informazioni?


 Vengono filtrate «prima» di essere riconosciute o «dopo»?
 Considerando sempre l'esempio del film e della telefonata, le informazioni che provengono dalla voce
della persona che sta chiamando e tutte le informazioni perse circa i dialoghi del film, sono bloccate
prima che si attivi il processamento cognitivo o dopo?
Occorre individuare il «punto di selezione» e la relazione tra attenzione e processi percettivi connessi al
riconoscimento degli stimoli.
Per rispondere a queste domanda sono state proposte tre diverse teorie del filtro:
1. Teoria del filtro precoce (1);
2. Teoria del filtro attenuato (2);
3. Teoria del filtro tardivo (3).
Tutte e tre le teorie condividono l’idea che l’attenzione selettiva sia un filtro che ponga un cancello rispetto al
passaggio delle informazioni, quindi permettendo il passaggio solo di una certa informazione, ma rispondono
in maniera diversa rispetto al momento in cui si attiva il processo di filtro selettivo dell’informazione se prima
o dopo l'elaborazione cognitiva.
L’effetto cocktail partyPer comprendere la teoria del filtro/della selezione precoce di Broadbent, si parte
dal porre attenzione ai processi dell’attenzione uditiva. In particolare ci si è soffermati sull'effetto cocktail
party, cioè quella situazione vissuta nelle feste rumorose o negli ambienti affollati, che consiste nella
possibilità di processare le informazioni da parte dell’individuo che tenta di iniziare una conversazione con un
interlocutore, sopprimendo le altre. In altre parole, durante una festa, dunque, ci sono in un orecchio tutte le
informazioni necessarie e rilevanti per mantenere il dialogo con l’interlocutore, e nell’altro orecchio passa il
brusio di fondo della festa e di tutte le altre conversazioni che si stanno realizzando.
La teoria del filtro precoce (1). Broadbent e altri ricercatori hanno tradotto l'effetto del cocktail party in un
contesto sperimentale di laboratorio, utilizzando la tecnica della ascolto dicotico, ossia una situazione in
cui vengono fatti ascoltare dei messaggi contemporaneamente attraverso due canali audio.

1 Esperimento. In un primo esperimento, hanno presentato ai soggetti che indossavano una cuffia, una
serie di 6 numeri alle due orecchie e successivamente, hanno chiesto loro di ripetere i numeri ascoltati
dell'ordine che essi preferivano. Si è osservato che i soggetti riportano prima i numeri presentati a un orecchio
e poi quelli presentati all'altro, dunque non erano capaci di mescolare i numeri sentiti dalle due orecchie.
Si dimostra la capacità limitata del sistema cognitivo per esistenza del «filtro» che come «unico canale» fa
passare le informazioni in modo seriale. Questo fu un primo risultato rispetto al fatto che il nostro sistema
cognitivo attentivo necessita di un processo di filtraggio dell’informazione che è proprio a collo di bottiglia.
2 Esperimento. In un secondo esperimento, al soggetto vengono presentati contemporaneamente due
messaggi differenti), quindi ad esempio parole da una parte numeri e dall’altra una frase, oppure frasi diverse
in ogni orecchio. In questo caso ai soggetti viene chiesto esplicitamente di fare attenzione al messaggio di un
solo orecchio. La consegna successiva era riportare ciò che si era capito: lo sperimentatore chiedeva al soggetto
di ripetere le informazioni che aveva specificamente sentito in un orecchio e o nell'altro. Questo è chiamato
overshadowing.
I risultati di questo esperimento evidenziano che i soggetti erano in grado di ripetere quello che veniva richiesto
loro di ascoltare ma, al contrario, non erano in grado di ripetere riportare per esteso tutto il messaggio «da
ignorare» che avevano ascoltato dall’orecchio irrilevante, tuttavia, erano in grado di capire le caratteristiche
di base dello stimolo ascoltato, per esempio se i numeri venivano pronunciati da una donna o da un uomo, se
il tono della voce era basso o altro, etc.
Il risultato teorico è la spiegazione della teoria del filtro precoce, proposta da Broadbent, secondo cui:

 Ci sono degli stimoli esterni che vengono percepiti dal nostro registro sensoriale;
 Una volta entrati nei nostri canali sensoriali, vengono filtrati dall’attenzione precocemente (quindi
immediatamente si percepisce e si attiva il filtro attentivo);
 Dopo di che passa solo l’informazione rilevante ai fini del compito per essere successivamente
elaborata.
L'informazione non rilevante viene bloccata
precocemente, non facendo passare il significato
dello stimolo. Infatti l’informazione irrilevante
non arriva ai centri superiori (pensiero, memoria,
linguaggio), ma arrivano le caratteristiche fisiche
basilari dello stimolo sensoriale (il timbro, il tono
di voce, altezza, frequenza, etc). Ciò significa che
queste ultime legate al processamento sensoriale
vengono elaborate in maniera preattentiva, cioè
senza l’intervento dell’attenzione selettiva, in
quanto sono in grado di passare ugualmente.

La teoria del filtro attenuato (2). Secondo Anne Treisman, quindi questo filtro non è una vera e propria
barriera che fa passare un'informazione alla volta, ma è attenuato, in quanto l’attenzione blocca gran parte
dell’informazione e non tutta completamente.

3 Esperimento. La Treisman negli anni 1960 applicò nuovamente il paradigma dell’ascolto dicotico, inserì
la rilevanza dello stimolo da processare, e fece un esperimento: il soggetto indossava sempre una cuffia come
negli altri esperimenti, quindi una frase veniva processata con l'orecchio destro e una con il sinistro. Veniva
dunque chiesto al soggetto di prestare attenzione soltanto alla frase nell'orecchio destro; ma poi nel corso delle
frasi che venivano pronunciate, la studiosa inserisce nell'orecchio sinistro anche il nome del soggetto, a cui
però non si doveva dare ascolto. Chiaramente il nome è un suono piuttosto importante e significativo, infatti
quando veniva chiesto al soggetto di riportare cosa aveva sentito, era normale che riferisse tutto ciò che aveva
sentito dall'orecchio destro, ma ammetteva anche di aver sentito il proprio nome dall'orecchio sinistro
pronunciato da uomo o da una donna.
Il nome è uno stimolo che supera la sola caratteristica fisica, infatti ha un suo significato molto significativo
per quanto riguarda la rappresentazione cognitiva, e il processing cognitivo si attiva. Quindi il modello viene
cambiato, perché l'attenzione non può essere considerata solo un “filtro a bottiglia”, ma deve essere come una
retìna, che si attiva, filtra e non fa più passare le informazioni una per volta ma in modo parallelo. Quindi
l'informazione passa, l'attenzione attenua e:
 Se lo stimolo non ha rilevanza per il soggetto, decade;
 Se ha importanza viene processato in modo parallelo.
Il filtro non è più precoce, ma è attenuato: l'informazione del canale trascurato non viene eliminata, ma
viene attenuata ed elaborata se rilevante.

Quindi, secondo le teorie della Treisman:


 Gli stimoli cui non si presta attenzione sono riferiti solo occasionalmente e non da tutti. Questo
implica che il filtro riduce ma non blocca l'elaborazione delle informazioni irrilevanti.
 Gli stimoli rilevanti hanno una maggiore attivazione e raggiungono più facilmente la consapevolezza,
rispetto a quelli irrilevanti che restano sotto la soglia della consapevolezza, a meno che non siano
particolarmente importanti (ad esempio il proprio nome). Secondo la Treisman quindi vengono
comunque processati anche gli stimoli non rilevanti, per cui nel filtro attenuato c'è un processo
cognitivo, ma ciò che fa la differenza è la consapevolezza (coscienza) che fa percepire lo stimolo come
più o meno rilevante, indipendentemente dalla sua natura o dalla sua connotazione emotiva.
Cosa hanno in comune e in cosa si differenziano la teoria 1 e 2? Entrambe le teorie affermano che la selezione
dell'informazione avvenga PRIMA del riconoscimento e dell’elaborazione del contenuto semantico, e
l'informazione non è rilevante decada progressivamente. Il filtro è sempre precoce nel senso che si attiva
immediatamente, ma.
 Nella teoria di Broadbent l'informazione viene bloccata;
 Nella teoria della Treisman, l’informazione viene attenuata e passa solo quella rilevante.
La teoria del filtro tardivo (3). Deutsch e Deutsch hanno proposto la teoria del filtro tardivo nel 1963 e
affermano che:
Lo stimolo, sia rilevante che irrilevante, arriva al nostro sistema cognitivo e viene elaborato a livello
semantico. L'attenzione, secondo le teorie del filtro tardivo, NON si attiva nella fase di ingresso delle
informazioni nel nostro sistema cognitivo (come avevano detto le teorie precedenti), ma nella fase di
uscita, quando una volta raggiunti i livelli centrali, il soggetto deve emettere la risposta. (Input-outpot)
Questo accade perché l'attenzione è un processo cognitivo che modula l'emissione delle nostre risposte
e non l'ingresso delle informazioni, infatti i meccanismi di attenzione selettiva si baserebbero su
processi di selezione della risposta (Metafora dell'uomo come elaboratore di informazioni).
Si arriva a queste conclusioni tramite degli esperimenti sull'effetto di interferenza.

L’effetto di interferenzaEriksen e Eriksen nel 1974 fecero un esperimento: essi dicono ai soggetti “se al
centro di una stringa di 5 lettere c'è una specifica lettera bersaglio (H o K), bisogna premere un tasto del
computer, se invece appare un'altra lettera bersaglio (S), bisogna premerne un altro. L'obiettivo è rispondere
più velocemente possibile. Quindi:
 KKHKK (premere lo stesso tasto);
 SSHSS (premere due tasti diversi).
SPIEGAZIONE FACILE Vedo questa stringa; devo riconoscere la lettera presente al centro e la devo confrontare con
le altre lettere (distrattori) che la circondano, quindi la H va messa a confronto con la K o con la S, per decidere il testo
da premere.

 Quindi se c'è la stringa KKHKK, poco importa perché H e K sono entrambe lettere bersaglio, per cui
la risposta sarà molto veloce.
 Quando invece appare la stringa SSHSS, la risposta è più lenta, perché il soggetto si trova di fronte
due lettere bersaglio S e H, quindi deve premere due tasti diversi, e di conseguenza il processo di
confronto è più rallentato.
Si osserva quindi che nella stringa SSHSS (stimolo incongruente) la lettera H viene riconosciuta più
lentamente e vengono commessi più errori, rispetto a quando è collocata nella stringa KKHKK (stimolo
congruente), dove la lettera H viene riconosciuta velocemente e con molti meno errori di riconoscimento dello
stimolo target.
Si osserva il Flanker Compatibility Effect o effetto di interferenza, che si manifesta soprattutto negli stimoli
incongruenti perché le risposte incongruenti mandano in conflitto il soggetto rallentandolo (tempo di reazione
più lungo) e facendolo sbagliare.

L’effetto stroopUn compito per dimostrare l'effetto di interferenza è l’effetto stroop, che prende il nome
da Ridley Stroo. Nell’esperimento classico vengono presentate ai soggetti alcune parole scritte con inchiostro
colorato e viene chiesto di denominare il colore con cui è scritta la parola, dunque a seconda della situazione
sperimentale, la parola-stimolo può possedere congruenza o incongruenza.
In questo caso lo stimolo è congruente perché il colore e la parola
coincidono, dunque il soggetto sarà veloce a rispondere, in quanto
non interviene l’interferenza.

In questo caso lo stimolo è incongruente perché il colore e la


parola non coincidono, e il soggetto impiega più tempo (i tempi
di reazione di reazione si allungano), a causa dell’effetto di
interferenza tra il colore e la parola stessa.
Quindi si viene a creare l'interferenza tra il significato della parola
(caratteristica non rilevante dello stimolo) è la denominazione del
colore (caratteristica rilevante).
L'attenzione interviene dunque quando emettiamo la risposta, per cui la teoria del filtro decade. Se
quest’ultima fosse valida infatti, gli stimoli a cui non bisogna prestare attenzione (distrattori) non dovrebbero
essere analizzati prima dell'emissione della risposta, quindi non dovremmo avere differenze tra stimolo
congruente o incongruente, quindi non si otterrebbe interferenza, in quanto dovremmo concentrarci soltanto
su una caratteristica (il colore).

 Se realmente fosse soltanto l'informazione del colore in ingresso a passare, il soggetto dovrebbe essere
veloce in entrambi i casi, ma invece così non è: il soggetto nella seconda matrice non è veloce, perché
deve decidere cosa sopprimere, quindi questa è un’ulteriore conferma del fatto che l’attenzione si attiva
quando si deve dare la risposta, quindi quando abbiamo entrambi gli stimoli ma dobbiamo rispondere
solo ad uno.
N.B. Questo metodo viene poi utilizzato per misurare oggettivamente le capacità attentive dell'individuo.
Tuttavia l’interferenza avviene perché entrambi gli stimoli quindi sia quelli bersaglio che i distrattori, sono
elaborati contemporaneamente in parallelo (infatti l'elaborazione in ingresso è parallela, ma il cancello si attiva
quando dobbiamo emettere la risposta). Ma vi può essere una sola risposta alla volta, in quanto interviene un
processo decisionale per determinare quale risposta emettere.
L'effetto interferenza rappresenta una prova a sostegno della teoria della selezione tardiva, in virtù della quale
in questa prima fase si pensa che siamo in grado di compiere un unico compito alla volta, perché la nostra
risposta è determinata da questo processo di filtraggio dell'informazione in uscita.
Tramite questo schema possiamo
notare come secondo la Treisman e
Brodbent la selezione avviene in
maniera precoce perché ci sono
questi input sensoriali che vengono
percepiti e analizzati dal punto di
vista della semantica (attribuzione
significato) e successivamente
determinano le nostre risposte;
Secondo le teorie tardive, le
informazioni passano, vengono
organizzate percettivamente,
vengono elaborate semanticamente e
poi l'attenzione si attiva quando
dobbiamo decidere. Il filtro si attiva
dopo gli input sensoriali, e prima di
emettere la risposta.

Processi automatici e processi controllati. Come interviene l’attenzione? Quali tipi di processi di
elaborazione cognitiva si possono attivare? Esistono due processi, due stadi successivi di elaborazione
dell’informazione, ovvero:
 I processi automatici avvengono prima dei processi attentivi, infatti consentono l’elaborazione
dell'informazione al di fuori della consapevolezza (elaborazione dunque non consapevole), quindi
non richiedono l’impiego di risorse attentive. In essi le singole caratteristiche fisiche sono analizzate
in parallelo.
 I processi controllati richiedono una focalizzazione sulle relazioni e sull’integrazione tra le varie
caratteristiche in base alle quali si identifica un oggetto. Quando il soggetto ha una chiara
rappresentazione di come è composto lo stimolo può emettere la risposta; essi seguono
un’elaborazione seriale.
Per capire questa differenza, riproponiamo l'effetto stroop.
 Nel caso degli stimoli congruenti (quando parola e colore coincidono) scatta la nostra velocità di
esecuzione, che è accelerata grazie all’effetto dell’automatismo della lettura. Il soggetto, per effetto
dell'apprendimento, ha automatizzato la lettura, quindi il processamento degli stimoli avviene quasi in
automatico, a maggior ragione se parola e colore coincidono: è come se il soggetto svolgesse questo
compito perché ha già automatizzato la lettura, quindi va veloce perché si concentra solo sul colore.
 Nel secondo caso, ovvero nel caso in cui lo stimolo è incongruente (parola e colore non coincidono)
allora il soggetto deve attivare un processo controllato dell’attenzione perché deve integrare il
processamento del colore (stimolo fisico) con il processamento dell’informazione linguistica con cui
è scritta la determinata parola. Dovendo integrare due caratteristiche, cioè il significato della parola
con il colore, allora dobbiamo attivare un processo controllato e non sarà più automatico come invece
accadeva nel primo caso.
EsempioPer capire ancora meglio questo concetto, riprendiamo l'esempio di chi impara a guidare.
Quando un soggetto impara a guidare, ha la necessità di prestare attenzione e processare in maniera controllata
tutte le azioni necessarie per guidare la macchina (lo sguardo, la coordinazione delle marce...). Dunque è chiaro
che nelle prime fasi di apprendimento, si ha la necessità di controllare a tal punto i movimenti, che il sistema
attentivo ha bisogno di sopprimere tutto ciò che accade intorno: se qualcuno ha la radio accesa,
immediatamente il soggetto chiede di spegnerla, perché altrimenti si confonde, in quanto anche il
processamento uditivo impegnerebbe il sistema attentivo, impedendo al soggetto di svolgere più compiti
contemporaneamente. Dunque si attiva un processo controllato in questi primi momenti.
Al contrario, quando il soggetto impara a guidare, tutte le azioni legate al guidare che prima erano determinate
da un processo controllato diventano un automatismo, allora è chiaro che l'individuo mentre guida riesce a
svolgere più compiti.
Questo processo viene applicato ogni volta che dobbiamo processare concetti nuovi, per cui:
1. Abbiamo necessità di attuare un processo controllato, perché dobbiamo integrare tutti i concetti nuovi,
oppure integrarli anche con quelli vecchi;
2. Quando poi per effetto dell'esperienza i concetti diventano automatismo, allora si acquisiscono nuove
conoscenze e ormai non c'è più bisogno di un processo controllato, perché si realizza poi un processo
automatico.
P.S. In questi processi automatici possono anche capitare degli errori attentivi, che interrompono
l'automatismo.

L’elaborazione pre-attentiva. Gli autori hanno poi fatto degli esperimenti specifici per vedere come
funziona il processamento automatico e controllato, dunque gli autori si sono dovuti concentrare, secondo
quello che era il paradigma della Treisman, sulle caratteristiche dello stimolo. In particolar modo si è puntata
l’attenzione sul fatto che le caratteristiche elementari dello stimolo (forma, colore, movimento) vengono
rilevate senza la presenza dell'attenzione selettiva, per cui effettivamente vi è un'elaborazione pre-attentiva.
Quest’ultima indica un tipo di processamento in cui l’informazione è processata in modo rapido e non è
influenzata dalla presenza di stimoli distrattori.
Sono stati fatti svariati esperimenti basati sui cosiddetti “compiti di ricerca visiva”. Questi esperimenti hanno
evidenziato che:
In questo primo caso supponiamo di proporre al soggetto nello
schermo del computer una matrice (immagine 1) e chiediamo di
individuare subito la X rossa. Il soggetto di fronte ad una matrice di
questo tipo dove lo stimolo target e i distrattori condividono la stessa
proprietà e variano solo per una caratteristica (in questo caso il colore),
allora è chiaro che la risposta sarà immediata, infatti l’individuo riesce
a individuare lo stimolo target. Il processamento è automatico, veloce,
immediato, poiché gli stimolo sono processati parallelanente. In questo
caso i tempi di reazione (TR) sono indipendenti dal numero di
distrattori.
Nel secondo caso è invece la situazione è più difficile, in quanto nella
seconda matrice lo stimolo target e i distrattori sono differenti: sia la X
nera, che le O rosse sono distrattori, inoltre le O rosse hanno lo stesso
colore dello stimolo target, che è sempre la X rossa. Il soggetto non più
elaborare in parallelo, perché:
o la forma è coincidente nel caso della X e non coincidente nel caso
della O;
o il colore è lo stesso nel caso della O e diverso nella X.
Nel momento in cui forma e colore sono discordanti, ne conseguirà un maggior carico cognitivo e quindi la
risposta sarà più lenta e il tempo di reazione dipenderà da quante O e X sono presenti nella matrice, perché
chiaramente più distrattori ci sono, più il compito diventerà difficile, in quanto il soggetto deve attivare un
processo di elaborazione seriale dell’informazione confrontando prima per forma e poi per colore. Non
possiamo attivare il processamento parallelo quando le caratteristiche sono diverse. In questo caso i TR sono
dipendenti dal numero di distrattori

La teoria dell’integrazione delle caratteristiche. Anne Treisman (1998) ha studiato la percezione degli
oggetti in esperimenti di ricerca visiva in cui si deve identificare la presenza di uno stimolo bersaglio in mezzo
a dei distrattori. Questi esperimenti sono approdati alla cosiddetta teoria dell’integrazione delle
caratteristiche, che ci spiega come funzionano i processi controllati dell’attenzione.
Naturalmente in questi esperimenti, la Treisman doveva variare il numero dei distrattori presenti all’interno
delle diverse matrici, dunque vediamo di seguito quali stimoli proponeva ai soggetti. Proponeva ad esempio
diverse immagini, e chiedeva ai soggetti di trovare la lettera L blu.

In una matrice del genere , i soggetti erano velocissimi, riuscivano


immediatamente a puntare e dire dove si trovava la “L” blu perché
attivavano un processo pre-attentivo di elaborazione
dell’informazione quasi automatico.

In questo altro caso invece il compito era un po’ diverso, più difficile, perché qui
vi è la “L” blu come bersaglio, ma come distrattori ci sono sia la “L” verde
diversa per colore, che la lettera “T” diversa per forma e non per colore.

Oppure addirittura presentava questa matrice, chiaramente molto più


difficile rispetto alla precedente, in quanto aveva un numero di
distrattori maggiore.

Cosa si deduce? Quindi lei dopo aver assegnato questi tre compiti comprende che quando siamo impegnati in
un compito di ricerca visiva, in una prima fase le caratteristiche visive elementari (colore, orientamento,
dimensione, posizione, 3D, movimento) verrebbero rilevate e rappresentate in diverse mappe in parallelo,
simultaneamente e pre-attentivamente.
Nel caso della prima immagine quindi parliamo di forma, colore, orientamento e posizione rilevati in maniera
pre-attentiva e simultanea, per cui il soggetto sa rilevare subito lo stimolo dal momento che si rappresenta
immediatamente e visivamente una mappa, una posizione della lettera all’interno dello schermo.

L’attenzione automatica: l’effetto pop out Secondo la Treisman, si viene a creare il famoso effetto pop
out (o pop-up): quando lo stimolo è diverso per una sola caratteristica dai distrattori (quindi in questo caso lo
stimolo è diverso solo per il colore), il TR non varia all’aumentare del numero di distrattori, quindi a prescindere
dalla quantità di questi ultimi, l’effetto rimane (prima fase).
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Piccoli approfondimenti. L’effetto pop out è quello che, dal punto di vista di famosi psicologi che si occupano
di sviluppo di programmi informatici, sta alla base delle notifiche; in fondo le notifiche che arrivano nei nostri
cellulari sono contraddistinte dall’icona rossa uguale per tutti i social. Quindi in quel caso a fare la differenza
non è l’icona (sempre rossa perchè c’è la notifica, il pop-up), ma il confronto dei vari social in relazione al
logo: Facebook, Twitter, Messanger. Pertanto l’idea è che non abbiamo pop-up di notifiche differenti a
seconda dei social, in quanto il palloncino rosso è uguale per tutti, perché appunto si sta sfruttando questo
effetto, tant’è che poi scatta l’automatismo nell’utilizzo.
Nella serie “The Social Dilemma” si fa riferimento proprio a questo effetto deleterio delle notifiche che in
qualche modo condizionano in maniera specifica l’utilizzo dei nostri strumenti tecnologici. In particolare gli
stessi tecnici e ingegneri di aziende che collaboravano con grossi marchi si sono pentiti delle loro stesse
ricerche o dei loro stessi prodotti commerciali venduti, in quanto si sono resi conto che l’effetto pop-out
incentiva sempre all’utilizzo dello strumento. Di conseguenza, suggeriscono per fare un uso consapevole dei
social, di eliminare le notifiche o di silenziarle, perché se nel telefonino c’è una notifica, in automatico
clicchiamo per leggerla; al contrario se silenziamo le notifiche, decidiamo autonomamente quanto tempo
dedicare ai social, senza essere risucchiati da esso.
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L’attenzione volontaria Nel caso di una matrice un po’ più complessa, nella quale i distrattori variano sia
per colore che per forma, quindi per 2 o più caratteristiche, combinarle in un oggetto richiede che l’attenzione
si focalizzi sulla posizione occupata dall’oggetto. Il soggetto deve attivare un processo di ricerca visiva
volontario e consapevole che porta ad analizzare quasi serialmente tutti i vari stimoli per andare a rintracciare
lo stimolo target: l’attenzione può essere focalizzata solo su una posizione alla volta, serialmente (seconda
fase). Quindi il soggetto deve processare, confrontare i vari elementi nella matrice fino ad individuare lo
stimolo corretto.
DUNQUE: La teoria dell’integrazione delle caratteristiche della Treisman, solo con l’intervento
dell’attenzione riusciamo ad individuare e percepire un oggetto in maniera specifica, dunque dice che
l’elaborazione degli stimoli avvenga in due fasi:
1. Nella prima fase, vi è un'elaborazione pre-attentiva delle diverse caratteristiche degli stimoli in
parallelo, secondo una modalità di tipo automatico, quando non è richiesta un’attenzione cosciente e
quando non c’è interferenza con altre attività mentali.
2. Nella seconda fase, l’attenzione selettiva viene impiegata per congiungere e integrare le singole
caratteristiche (focalizzandosi in modo seriale su una per volta), fino ad arrivare
all’individuazione/creazione specifica dell’oggetto target, secondo una modalità di tipo controllato.
A questo punto, emettiamo la risposta corretta rispetto all’individuazione dell’oggetto in uno specifico
punto.
N.B. Fondamentalmente nell’esperimento di ricerca visiva, i soggetti vanno immediatamente ad individuare
la posizione occupata dall’oggetto in relazione a tutti gli altri distrattori. Ovviamente per concentrarsi sulla
posizione, la nostra mente fa una sorta di scanning visivo all’interno della figura, in cui confronta le
caratteristiche degli stimoli proposti (dei distrattori), in relazione allo stimolo target.
La concentrazioneL’attenzione, quindi non è soltanto selezione delle informazioni, ma è anche
concentrazione: un altro aspetto dell’attenzione visiva selettiva è infatti la capacità di concentrarsi su
quell’oggetto. È come se ci fosse un doppio processo: seleziono ciò che mi serve, filtrando e lasciando
decadere quello che non mi è necessario, e allo stesso tempo mi concentro sulle caratteristiche specifiche di
quell’oggetto per raggiungere il mio scopo. Ed ecco che la concentrazione va di pari passo con la distraibilità,
quindi il soggetto è più distraibile quanto più processa stimoli irrilevanti.
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Ripresa dei piccoli approfondimenti sopraRiprendendo il piccolo approfondimento circa l’idea degli
ingegneri, aggiungiamo inoltre che essiritengono di voler abolire le notifiche, ma in realtà, dal punto di vista
psicologico, poco importa spegnere o accendere la notifica, in quanto ciò che fa la differenza è l’atto di volontà
del soggetto, dunque la capacità di autoregolare i propri comportamenti, di scegliere liberamente di accedere
o meno al sociale e lasciarsi distrarre.
Ad esempio, quando le mamme devono far studiare i bambini, tolgono loro tutti i giocattoli, e questo è buono
perché tolgono elementi da processare, ma in realtà non rafforzano la capacità cognitiva del soggetto di
autoregolare il suo comportamento. Bisogna produrre invece delle strategie di controllo consapevole e
cosciente dei propri processi di apprendimento. Dunque l’attenzione spiega alcune cose, ma poi dobbiamo
anche introdurre la coscienza, intesa in termini di monitoraggio e controllo consapevole delle nostre azioni,
che è un aspetto un po’ diverso rispetto al semplice processo attentivo.
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Gli aspetti dell’attenzione volontaria e delle differenze tra processi automatici e processi controllati sono
fondamentali anche per il successivo studio dei disturbi dell’apprendimento.

LEZIONE 4/12/2020.

L’attenzione spaziale.
Una componente importante dell’attenzione selettiva, è l’attenzione spaziale, cioè la capacità cognitiva di
distribuire le nostre risorse attentive nello spazio. Essa è fondamentale in quanto è grazie ad essa che riusciamo
a orientarci, a collocare gli oggetti nello spazio intorno a noi, riusciamo a evitare gli ostacoli che si frappongono
tra noi e una meta, riusciamo a orientare i nostri movimenti verso elementi improvvisi dell'ambiente, infatti se
c'è un rumore immediatamente giriamo la testa nello spazio, e tante altre funzioni. L’attenzione spaziale viene
studiata dagli studiosi dell’attenzione ma anche dell’apprendimento, come Tolman, il quale fonda il processo
di apprendimento sulla possibilità di costruire delle vere e proprie ≪mappe≫ spaziali che consentono
all’individuo di orientarsi e raggiungere i propri obiettivi.

Il modello spotlight. Circa l'attenzione spaziale gli studiosi si sono posti molte domande, e in primo luogo
si sono chiesti se sia possibile orientare le risorse attentive è solo su oggetti o persone, oppure se sia possibile
orientare le anche in porzioni di spazio vuote, ossia in assenza di oggetti o persone.
Secondo alcuni autori, la nostra attenzione è esclusivamente spaziale, per cui a tal proposito è stato formulato
il cosiddetto “Modello Spotlight” o “occhio di bue”. La nostra attenzione è stata paragonata a questo modelo,
che può essere immaginato come il riflettore tipico dei palcoscenici dei teatri, che quando si accende, proietta
un fascio di luce che illumina una specifica porzione dello spazio. L’attenzione spaziale dunque funziona come
uno spotlight, che si sposta progressivamente nello spazio e processa, segmenta tutto ciò che cade sotto il suo
fuoco, quindi porzioni specifiche dello spazio. In altre parole, tutto ciò che ricade sotto la lente dell’attenzione
(o focus attentivo o porzione illuminata) viene selezionato o processato più rapidamente.

Il paradigma di Posner. Lo studio teorico dell’ipotesi dello spotlight è stata susseguito anche da uno studio
sperimentale, in particolar modo è stato Micheal Posner uno dei primi a testare se effettivamente mettiamo a
fuoco la porzione di spazio che ci interessa maggiormente e se ci attendiamo che accada qualcosa in quella
porzione che abbiamo selezionato.
Il paradigma di Posner studia sperimentalmente la fenomenologia di tale dislocamento di risorse attentive nello
spazio. Posner ha ideato un esperimento partendo dal presupposto che traiamo benefici in relazione al fatto
che conosciamo o meno la posizione di uno stimolo nell’ambiente. Il paradigma di Posner infatti si basa
sull'analisi dei costi e dei benefici che si osservano quando conosciamo o non conosciamo a priori la posizione
di uno stimolo nello spazio: se l’individuo conosce in anticipo la posizione nella quale l’oggetto si trova, e
sposta lo sguardo da quella parte impiega più risorse o meno risorse cognitive?
Esperimento: Presentava uno stimolo target, un quadratino nero, sul lato destro o sinistro dello schermo del
computer. Mentre loro osservavano lo schermo, il quadratino era sempre preceduto da una freccia o indizio
che nella maggior parte dei casi, segnalava la corretta posizione in cui sarebbe stato presentato lo stimolo
target. Questo inizio segnale veniva chiamato “cue attentivo”.
N.B. In tutti gli esperimenti che studiano i processi attentivi, in genere vi è una X centrale che fa riferimento
al fuoco di fissazione.
Posner chiedeva ai soggetti di non muovere la testa, quindi essi guardavano frontalmente lo schermo e
spostavano solo gli occhi velocemente. In questo esperimento Posner tiene sotto controllo soprattutto il
movimento della testa, in quanto se doveva studiare solo ed esclusivamente l’attenzione (quindi il processo
cognitivo), doveva controllare il punto di fissazione della testa dei soggetti.
Vengono create tre condizioni sperimentali:
 Prova valida: il cue era congruente rispetto alla posizione
del quadrato, quindi la freccetta è verso destra, e il quadratino
spunta a destra,
 Prova invalida: il cue era incongruente rispetto alla
posizione del quadrato, quindi la freccia va nella direzione
opposta rispetto alla quale sarebbe poi apparso il quadratino. Il
soggetto infatti si aspettava che il quadratino spuntasse a sinistra,
ma poi spuntava a destra;
 Prova neutra: il cue indicava entrambi i lati, quindi il
quadrato poteva apparire indipendentemente da un lato o
dall'altro.

Nelle prime due prove, ai soggetti veniva suggerito di affidarsi all'indizio e di spostare l'attenzione, cioè gli
occhi da una parte o dall'altra dello schermo continuando a fissare con gli occhi la croce al centro, quindi senza
muovere la testa. Nella terza prova l'istruzione che veniva dal soggetto era quella di distribuire uniformemente
le risorse aggiuntive sui due lati dello schermo
In generale, i soggetti dovevano fissare il centro dello schermo e spostare l’attenzione, cioè gli occhi, o a destra
o a sinistra e successivamente premere il tasto destro o sinistro in funzione di dove appariva il quadratino.
Anche in questo esperimento si registrava la correttezza della risposta, e il tempo di reazione legato al tempo
di risposta del soggetto.
Risultati: I risultati dimostrano che i soggetti hanno tempi di reazione più brevi e rapide nelle prove valide
rispetto alle prove neutre, quindi il fatto di sapere dove deve apparire il quadratino fornisce già un minore
dispendio di energia.
Tuttavia, la correttezza della risposta, cioè il riconoscimento del target, è migliore e avveniva più velocemente
nella prova neutra (di controllo) rispetto alla prova invalida; paradossalmente, nella condizione di controllo:
 se il quadrato appare a sinistra o a destra il soggetto non sbaglia,
 se si ha un indizio incongruente ci sono maggiori possibilità di commettere errori, perché il soggetto
si confonde, dunque il fatto di non sapere implica un costo maggiore.
Ciò significa che sapere anticipatamente la posizione del target rende più veloce la sua identificazione. Il costo
dei TR nelle prove invalide è la prova di questo spostamento attentivo. Inoltre, il fatto che si sbagliava nella
prova invalida più in termini di correttezza che in termini di lentezza (TR più lunghi) dimostra che vi è uno
spostamento dell'attenzione, perché il soggetto deve cambiare il focus a seconda di dove va il riflettore.
N.B. In un certo senso anche l'aspettativa gioca un ruolo in questi esperimenti, e in un certo senso rientra nella
metafora del focus attentivo: immaginiamo di essere a teatro e vedere il riflettore che si accende,
immediatamente ci aspettiamo che sul palco appaia il personaggio.
L' esperimento di Posner dimostra che noi spostiamo la nostra attenzione da una parte all’altra, e facendo ciò
abbiamo un costo: immaginiamo di guardare a destra, in quanto ci aspettiamo che qualcosa appaia da quella
parte, quindi senza dubbio orientiamo la nostra attenzione sul lato destro e se qualcosa apparisse lì saremmo
già pronti a visualizzarlo. Ma se poi inaspettatamente appare qualcosa a sinistra, dobbiamo immediatamente
spostare lo sguardo, e quindi spostare la nostra attenzione. Questo spostamento comporta una perdita di
tempo, dunque un rallentamento nell’emissione della risposta.
Ciò significa che il sistema cognitivo è impegnato nello svolgimento dalla funzione: questo spostamento
dell’attenzione è evidenziato in quanto vi è un tempo di latenza affinché si attivi il processo, il quale non è
automatico, ma è volontario e richiede che il soggetto si impegni a svolgere quell'azione. Questo indica che
attiviamo un processo mentale che viene osservato e misurato.

L’attenzione spaziale e il sistema visivo. Il fatto di aver controllato la posizione della testa, quindi il fatto
che i soggetti spostavano solo gli occhi e non la testa, ha dimostrato che, spesso, non è necessario utilizzare il
movimento oculare. Posner, infatti, osservava che non tutti spostavano gli occhi, ma rimanevano fissi al
centro: l’attenzione si muove come un processo cognitivo, per cui mentalmente esploriamo e processiamo vari
elementi di alcune parti dello spazio.
Gli studi e le scoperte di Posner, che ha tenuto sotto controllo in parte i movimenti oculari e il movimento della
testa, ha aperto una nuova questione della relazione tra l’attenzione e il sistema oculomotorio:
Se attenzione si sposta senza muovere gli occhi, l’attenzione dipende dal sistema oculo-motorio o è
indipendente da esso?
Da un punto di vista comportamentale, infatti, è lampante la relazione tra uno stimolo esterno che attrae la
nostra attenzione è la realizzazione di un movimento. Sono i movimenti della testa e dell'occhio, infatti, che
fanno in modo che i nostri occhi si allineano con lo stimolo in questione: l'allineamento della sorgente
sensoriale con la fovea mette lo stimolo nella condizione di essere elaborato dalle due preposte al
processamento delle informazioni visive.
Le varie teorie formulate per risolvere questo dilemma.
 da un lato ritengono che ci sia l'indipendenza assoluta dell'attenzione dal sistema visivo;
 dall'altro lato la totale coincidenza dell'attenzione con il sistema motorio.
In particolare Posner ritiene che i due sistemi siano indipendenti (non c'è bisogno di spostare occhi e testa
per spostare la nostra attenzione), perché secondo lui nel momento in cui prestiamo attenzione a un determinato
stimolo, effettuiamo un processo che si articola su tre fasi (3 operazioni mentali necessarie per prestare
attenzione allo stimolo):
1. Fase di ancoraggio dalla posizione corrente (cognitivamente l’attenzione si ancora a quella parte
dello spazio che sta in quel momento processando). N.B. Il libro dice “fase di disancoraggio dalla posizione
corrente”, ma la prof dice altro, non so cosa sia giusto o sbagliato;
2. Fase di orientamento verso una nuova posizione (successivamente se dovessi spostare l’attenzione
in un altro punto, devo iniziare ad orientare il sistema attentivo mentale verso la nuova posizione);
3. Fase si ancoraggio alla (nuova) posizione spaziale target (il mio focus attentivo si è spostato sulla
nuova posizione e si è ancora ad essa).
Queste fasi rispecchiano un pò l’esperimento del paradigma: i soggetti guardavano lo schermo, avevano la
freccia ed erano ancorati ad essa, poi dovevano spostare l’attenzione a destra o a sinistra a seconda della
congruenza o incongruenza della prova stessa.
Al contrario Giacomo Rizzolatti, psicologo e neuropsicologo di fama mondiale (colui che ha scoperto i
neuroni specchio) è di un’altra opinione, in virtù della quale ha formulato la teoria premotoria
dell’attenzione, secondo cui non c'è un’indipendenza totale dell’attenzione dalle aree motorie, quindi
l’attenzione non è un sistema indipendente e specifico, ma è un processo cognitivo strettamente legato
(governato) dalle aree motorie del nostro cervello.
In particolare, lui propone l’effetto meridiano, per cui i soggetti.
 Hanno un costo attentivo maggiore quando devono spostare attenzione da destra a sinistra (da un
emicampo all’altro) attraversando il punto centrale da fissare, cioè il cosiddetto “meridiano
visivo/corporeo”.
 Hanno un costo attentivo minore quando l’attenzione si sposta tra due punti all’interno dello stesso
emicampo visivo, ossia senza attraversare il meridiano.
N.B. Secondo il libro “meridiano visivo”, secondo la prof “meridiano corporeo”.
I movimenti oculari e la componente motoria hanno un ruolo fondamentale in questo processo.
Il meridiano è quel punto di riferimento o una coordinata che consente di organizzare il nostro movimento o
la nostra attenzione nello spazio. Le linee meridiane/coordinate motorie sono il braccio, il tronco, la testa, le
mani, a seconda dell’azione che stiamo conducendo nello spazio.

La rappresentazione dello spazio. Chiaramente, sia che si accolga la visione di Posner, sia che si accolga
la visione di Rizzolatti in qualche modo, il fatto di dover compiere azioni nello spazio intorno a noi implica
l’impiego di risorse sia attentive che motorie. L’esecuzione di azioni nello spazio impegnano tutto il nostro
corpo. Relativamente alla rappresentazione dello spazio, noi siamo inseriti in un sistema di coordinate
spaziali che mette in relazione il nostro corpo con l’ambiente e gli oggetti presenti in esso: il nostro sistema
cognitivo «costruisce» lo spazio intorno a noi (apprendimento spaziale di Tolman), infatti l’individuo si muove
e percepisce gli oggetti perché li costruisce.
Il nostro cervello non solo organizza e coordina i gruppi muscolari per originare i movimenti, ma deve anche
tener conto della disposizione degli oggetti intorno a noi per produrre comportamenti finalizzati ed evitare di
incorrere in errori di valutazione come avviene per esempio quando inciampiamo o urtiamo gli ostacoli. Lo
studi tutti questi errori ha contribuito moltissimo la documenta le nostre conoscenze riguardo alle modalità con
cui gli individui e animali codificano lo spazio.

Attenzione e codifica nello spazioLa questione circa le modalità con cui costruiamo lo spazio intorno a noi
e percepiamo una realtà ha alimentato i dibattiti filosofici e scientifici di tutti i tempi. In particolar modo,
secondo le condizioni più moderne, lo spazio viene attivamente costruito dall’individuo ed è funzione della
sua continua interazione con l'ambiente.
Questo approccio focalizzato sull'apprendimento è sostenuto dagli studi sulla deprivazione sensoriale che
mostrano che animali posti in una condizione di prolungata deprivazione, quindi privati della possibilità di
interagire attivamente con l'ambiente, perdono l’orientamento spaziale e temporale.
In particolar modo, è assodato il fatto che l'attenzione eserciti una
funzione di rilievo in questo processo. La capacità che noi abbiamo
di rappresentarci lo spazio è stata studiata attraverso una particolare
sindrome clinica, cioè la sindrome di negligenza spaziale
unilaterale o più comunemente neglect, in cui il paziente sembra
assolutamente incapace di prestare attenzione a intere porzioni di
spazio.
Il neglect rappresenta un disturbo della cognizione spaziale
conseguente a una lesione cerebrale. In questa condizione clinica,
tipicamente, il paziente fatica a esplorare e percepire lo spazio
controlaterale alla lesione stessa. In altre parole, se la lesione
cerebrale ha coinvolto parte dell'emisfero destro, il paziente colpito
mostrerà di non avere consapevolezza dello spazio alla propria
sinistra (se ho un problema all’emisfero destro, tutto quello che viene
rappresentato nella parte sinistra non lo riesco a percepire).
I soggetti, infatti a seconda di dove hanno la lesione, disegnano
soltanto la parte destra o sinistra della figura.
Un disturbo spaziale che spesso si associa alle condizioni di eminattenzione spaziale è la cosiddetta estinzione
visiva che si verifica in condizioni di doppia stimolazione. Quando a un paziente vengono presentati
contemporaneamente due stimoli visivi in ciascun emicampo visivo (ad esempio un quadratino nero alla
sinistra e uno alla destra del punto di fissazione): soltanto lo stimolo ipsilaterale alla lesione sarà percepito,
mentre quello presentato controlateralmente alla lesione verrà ignorato.
Questo deficit è stato interpretato a sfavore di un alterato equilibrio delle capacità attenzionali dei due emisferi:
Da un lato, l'emisfero non lesionato potrebbe non essere in grado di controllare l'orientamento
dell'attenzione su entrambe le porzioni di spazio;
Dall'altro, la lesione potrebbe causare una polarizzazione delle risorse attentive nell'emisfero non
lesionato, in seguito alla quale gli stimoli che cadono nella parte di spazio controllata dell'emisfero
sano hanno un più facile accesso alle le soste cognitive.
In entrambe le ipotesi, il deficit sarebbe il risultato di una competizione per l'accesso alle limitate risorse
attentive e residuo. A sostegno di questa ipotesi, è da notare che l'estinzione dello stimolo controlaterale si
verifica solo in condizioni di doppia stimolazione, infatti quando al contrario gli stimoli sono presentati su un
emicampo alla volta, la percentuale di riconoscimenti è identica nei due emicampi.
L’attenzione selettiva è fondamentale perché ci consente di selezionare le informazioni che ci servono, ci
consente di entrare e fare accedere all’elaborazione cognitiva i nostri percetti, le informazioni sensoriali e così
via, quindi è chiaro che senza attenzione non ci può essere né percezione né elaborazione cognitiva ecc.
Lo spazio è definito dalla presenza degli oggetti? Sorge spontaneo chiedersi se lo spazio sia definito dalla
presenza degli oggetti, cioè se noi riusciamo ad orientarci all’interno di uno spazio vuoto o meno, se
l’orientamento dello spazio dipende solo dalle nostre coordinate propriocettive, dal nostro movimento, dalla
nostra attività motoria ecc.
A questa domanda non è stata data una risposta univoca, infatti ci sono due modelli:
 I modelli object-based attention: la selezione attentiva dipende dagli oggetti presenti nell’ambiente
(come dice Posner c’è bisogno dell’ancoraggio per riuscire a focalizzare la nostra attenzione e
selezionare le cose che ci interessano);
 I modelli space-based attention: in cui sono soltanto le porzione dello spazio verso cui ci orientiamo
che guidano la nostra selezione selettiva.
Sono dei modelli entrambi validi e vanno in qualche modo integrati: non ci può essere spazio senza oggetti
e non ci possono essere oggetti senza spazio.

Il nostro sistema motorio di coordinamento necessita alcuni elementi, quindi se per esempio si è in una
stanza bianca completamente vuota, o in una prateria colma di neve si possono perdere dei punti di riferimento
e incorrere al disorientamento (le persone che hanno delle buone strategie di orientamento sono quelle che si
creano una mappa mentale perché fissano dei punti di riferimento nell’ambiente). I famosi “concetti
topologici” che i bambini sviluppano fino ai cinque anni sono fondamentali perché appunto stabiliscono la
distribuzione e l’orientamento nello spazio. Se abbiamo interiorizzato i modelli topologici e ci dicono “vai
avanti, vai a destra, vai a sinistra” chiaramente riusciamo a orientarci nella stanza vuota, ma se ci troviamo in
delle condizioni nelle quali gli elementi ambientali risultano uniformati (bosco, tormenta di neve) è più facile
andare in contro al disorientamento, girare nello stesso punto ecc.

Questi modelli interagiscono in maniera dinamica in funzione degli obiettivi dell'individuo e delle proprietà
fisiche degli stimoli che popolano l'ambiente per determinare delle rappresentazioni dello spazio e
dell'ambiente che siano universalmente condivise da tutti gli appartenenti alla specie.
È grazie a questa fondamentale funzione che gli oggetti, le distanze tra gli oggetti e le distanze tra gli oggetti
e gli individui hanno le stesse proprietà per tutti noi. Questa universalità della realtà rende possibile la
comunicazione tra gli esseri umani (ad esempio una macchina è uguale per tutti gli esseri viventi). La
condivisione di sistemi di riferimento spaziali comuni rende possibile l'interazione tra le persone, ma anche
l'interazione tra le persone e gli oggetti, ed è proprio grazie a queste rappresentazioni che siamo in grado di
raggiungere e agire sugli oggetti e siamo perfino in grado di raggiungere gli oggetti senza guardarli (ad esempio
tutti siamo in grado di effettuare i calcoli per bere una tazzina di caffè, e tutti riusciamo a controllare il mouse
senza guararlo).

In quest'ottica, alcuni modelli interessanti sono quelli che vedono lo spazio organizzato intorno alle
caratteristiche delle azioni dell'individuo. Il contributo delle neuroscienze ha messo in luce il fatto che non
esiste un unico sistema di coordinate per rappresentare lo spazio e organizzare i nostri comportamenti. Piuttosto
l'individuo fa un uso continuo di molteplici mappe spaziali che possono avere i sistemi di riferimento centrati
su diverse parti del corpo oppure sugli oggetti che sono i bersagli delle nostre azioni. Ad esempio, per
manipolare il mouse utilizzeremo un sistema di coordinate centrato sulla mano, che a sua volta si accomoderà
in funzione della posizione del polso e del braccio, che a loro volta risponderanno al sistema di riferimento
della spalla e della testa.

Orientamento esogeno ed endogeno. Un'altra domanda riguardo l’attenzione selettiva è legata alla
volontarietà dello spostamento attentivo. Lo spostamento attentivo infatti è un atto volontario, ma esistono 2
modi di controllare l’attenzione:
 L’orientamento endogeno o top-down, in cui l’attenzione è controllata dagli scopi e della intenzioni
dell’individuo. Secondo questo orientamento, il soggetto in maniera volontaria orienta le proprie
risorse attentive da una parte all’altra dello spazio rispetto lo scopo che vuole raggiungere.
 Esempio dell’orientamento endogeno è il caso di uno studente, che durante una prova
monitora una ben precisa porzione di spazio per non farsi sorprendere dall’insegnante
mentre cerca di guardare il compito del collega vicino. In questo caso lo studente non solo
muove la testa, ma anche lo sguardo. Naturalmente dunque lo studente VUOLE sbirciare,
orienta in maniera endogena, volontaria, la sua attenzione in una parte dello spazio piuttosto
che un'altra.
 L’orientamento esogeno o bottom-up in cui l’attenzione viene elicitata dalla presenza di stimoli
sensoriali ambientali, improvvisi, insoliti, nuovi.
 Esempio Immaginiamo di essere sul divano di casa nostra intenti a guardare un bel film
mangiando pop corn quando a un tratto qualcosa ci distrae ... un rumore insolito e insistente.
Questo stimolo influenzerà la nostra attenzione che sarà immediatamente spostata dalla
televisione alla probabile sorgente spaziale di provanienza dello stimolo misterioso.
L’inibizione di ritornoLa modalità di controllo dell'attenzione bottom-up, è stata anch'essa studiata
sperimentalmente mediante adattamenti del paradigma di cueing spaziale di Posner. L'esperimento era
identico a quello che abbiamo poc'anzi descritto con la differenza che il cue non compariva più al centro
dello schermo, ma piuttosto in corrispondenza delle posizioni spaziali dove sarebbe comparso il target,
trattandosi quindi di un indizio periferico (cue periferico). Inoltre, questo indizio non era più affidabile come
prima ma indicava correttamente la posizione del target solo nel 50% dei casi. L'equivalenza della proporzione
di prove valide e invalide scoraggiava i soggetti a spostare preventivamente l'attenzione nella posizione
indicata dal cue, tuttavia l'effetto di facilitazione a opera di questo indizio periferico aveva comunque luogo:
le prove valide producevano rilevamenti del target più veloci delle prove invalide.
L'attenzione dunque è un sistema multidimensionale e sofisticato che ci permette anche di riconoscere
prontamente stimoli potenzialmente pericolosi. L'orientamento esogeneo può operare dunque come un sistema
di allerta, che automaticamente mette l'individuo nella condizione di orientarsi verso lo stimolo che ha attirato
la sua attenzione, per capire di cosa si tratta e organizzare, se necessario, una risposta: si tratta dunque di una
funzione adattiva.

Esempio Supponiamo di essere a letto e sentire un rumore improvviso, così orientiamo la nostra attenzione
verso la fonte di quel rumore, e capiamo che è prodotto dal rubinetto che gocciola. Allora, ci alziamo e andiamo
a chiudere il rubinetto e poi ci corichiamo di nuovo. Dopo di ciò, qualora sentissimo gocciolare nuovamente il
rubinetto, non presteremmo più attenzione a quel rumore, e riusciremmo a dormire tranquillamente.
Questo accade perché si verifica l'effetto di inibizione di ritorno, per cui una volta esplorata la porzione di
spazio che aveva attirato la nostra attenzione, il nostro sistema cognitivo non ci torna più per favorire
l'esplorazione di regioni dello spazio nuove. L'inibizione di ritorno è stata interpretata come una funzione
adattiva proprio dell'attenzione che tende a favorire l'esplorazione di oggetti o posizioni spaziali nuove
rendendo più efficiente l'interazione con l'ambiente.

Il principio di economiaIl nostro sistema cognitivo, in virù di questo effetto, è come se applicasse una sorta
di ≪principio di economia≫, di ≪risparmio delle risorse cognitive≫. Quando si dice che la nostra memoria
a lungo termine ha una capacità illimitata di raccolta delle informazioni, non significa che le nostre risorse
mentali siano infinite, in quanto tutto ha un costo cognitivo, e noi in maniera adattiva ci proteggiamo da
questo dispendio di risorse. È vero che spostiamo l’attenzione perché siamo curiosi, vogliamo capire cosa e
successo, però una volta processata quell’ informazione non ci torniamo nuovamente, perché se così fosse
sciuperemmo delle risorse attentive aggiuntive che pagheremmo care, in quanto qualunque risorsa sprecata
significa che va recuperata (va recuperato il costo speso).
Il principio dell’economia cognitiva è un principio fondamentale nell’approccio cognitivista, rispetto il
funzionamento adattivo della specie umana. Tale principio può avere dei risvolti negativi in quelle condizioni,
in cui, per effetto dell’apprendimento, l’esposizione a stimoli nocivi, può portare il soggetto all’assuefazione,
alla mancanza di pensiero critico. Perché i soggetti leggono un post e lo girano? Vanno a risparmio cognitivo.
Leggono il post sensazionale, non controllano la fonte, e comincia la notizia virale fake perché non c'è stato il
soffermarsi un attimo attentamente per controllare la fonte. Ci possono essere quindi conseguenze positive ma
anche negative.

La cattura dell’attenzione L’orientamento esogeno determina il fenomeno di cattura dell’attenzione,


pche fa riferimento allo spostamento volontario dell’attenzione guidato da alcune proprietà fisiche degli
stimoli. In particolare, queste caratteristiche fanno sì che gli stimoli possano catturare la nostra attenzione
anche se non sono rilevanti per le attuali intenzioni dell’individuo. Le caratteristiche sono:
 La salienza e la possibilità che lo stimolo si imponga nello sfondo dell'ambiente (ricordiamo il
principio figura-sfondo della Gestalt) in quanto differisce da tutti gli altri (ad esempio un forte rumore,
la persona che apre improvvisamente la porta, un oggetto artistico particolare);
 La modalità di comparsa, in quanto deve essere uno stimolo improvviso, quindi deve comparire in
una situazione in cui il soggetto non si aspetta di vederlo/sentirlo. Ad esempio nell'esperimento di
Posner, il soggetto non si aspetta che deve apparire qualcosa, infatti se si aspettasse l'apparizione dello
stimolo, in qualche modo rivolgerebbe già l'attenzione. Dunque se lo stimolo deve catturare
l'attenzione, il soggetto deve essere colto di sorpresa;
 L’intensità, in quanto lo stimolo deve essere tanto intenso da superare il livello di soglia sensoriale.

L'ATTENZIONE DIVISA.
L’attenzione divisa è quel processo attentivo che ci consente di compiere due o più azioni contemporaneamente
(ad esempio guidare la macchina e ascoltare la radio).

Il paradigma del doppio compito. Ciò dimostra che noi riusciamo a fare più compiti contemporaneamente
(multitasking), ma anche questo ha un costo in termini di risorse. Gli autori infatti hanno voluto studiare in
che modo siamo in grado di dividere l’attenzione tra più compiti e quanto questo pesa in termini di carico
cognitivo. L’attenzione divisa viene studiata con il paradigma del doppio compito:

 Ai soggetti viene chiesto di svolgere un compito primario (per esempio prestare attenzione a stimoli
rilevanti, come un particolare stimolo target, quindi il soggetto guida la macchina e deve prestare
attenzione alla strada);e contemporaneamente svolgere un compito secondario (ad esempio recitare
una sequenza di parole o cantare, prestando attenzione alle parole, al ritmo).
I risultati di questo esperimento dimostrano che vi è un’efficienza minore nello svolgimento del primo
compito, mentre si svolge quello secondario. Quindi, se il soggetto guida e contemporaneamente canta, può
andare incontro a maggiori errori, perché il sistema attentivo è diviso e il fatto di svolgere il compito secondario
toglie risorse utili per lo svolgimento del compito primario, e di conseguenza il soggetto è meno efficace.

Processi automatici e processi controllati #pt.2Questo paradigma si basa sulla cosiddetta “teoria delle
risorse”, ma chiaramente in questo processo possono intervenire anche i processi automatici e i processi
controllati. Si tratta di un discorso di processamento; pensiamo sempre al modello cognitivista che vede
l'uomo come elaboratore di informazioni: se facciamo svolgere al computer in contemporanea 70
applicazioni, è normale che ne risenta e che sia più lento. Lo stesso vale per il nostro sistema cognitivo, se
svolgiamo più compiti contemporaneamente è chiaro che dobbiamo distribuire le nostre risorse, e questa
distribuzione ci crea un carico maggiore.
Quando leggiamo un brano svolgiamo un doppio compito perché stiamo processando le lettere in chiave
fonologica, e contemporaneamente stiamo comprendendo ciò che leggiamo:
 La lettura, come processamento automatico delle parole che si susseguono viene automatizzata;
 Invece la comprensione è un compito che richiede un processo controllato.
Come si stabilisce se un compito è primario o secondario? Sono moltissimi i fattori che influiscono e primo fa
tutti l'expertise (si pronuncia expertis), cioè il grado di padronanza del compito automatico. Uno dei due compiti
si deve automatizzare per essere svolto insieme all’altro (grazie all’esperienza si automatizza), quindi per
distinguere quale è primario e quale è secondario, sarà primario più probabilmente il compito che si
automatizza.
Dunque, la capacità di effettuare più compiti e distribuire le risorse attentive dipende da:
 La complessità del compito, che può essere più o meno impegnativo;
 Livello di competenza o expertise del soggetto in quel compito;
 Similarità tra i compiti richiesti (effettivamente quando dobbiamo svolgere compiti simili tra di loro
che vanno a saturare lo stesso canale sensoriale, abbiamo un maggior carico cognitivo, quindi maggiori
difficoltà. Posso ad esempio leggere, orientarmi visivamente o guardare le immagini di un film che
scorre, tuttavia posso anche ascoltare anche dialoghi, ma ciò necessita di un atto attentivo maggiore);
 Automatismo, dunque processi automatici e controllati
L'allocazione delle risorse cognitive di tipo attentivo sul primo o sul secondo compito nella vita quotidiana
dipende dal grado di familiarità/expertise che il soggetto ha con uno dei due compiti. Sulla base di questo si
va a modulare l'efficienza del soggetto che in ogni caso sarà meno efficiente sul compito primario, perché sta
svolgendo il compito secondario. Considerando sempre l'esempio della guida: il guidatore esperto riesce a
svolgere ormai tanti compiti insieme, invece il guidatore inesperto che ha meno padronanza di uno dei due
compiti, dovrà convogliare le risorse, e dovrà prestare più attenzione.

Trail Making Test. Un altro test tipicamente utilizzato per misurare l'attenzione divisa in ambito clinico è
il Trail Making Test, originariamente sviluppato daggli psicologi dell'esercito americano (TMT; Army
Individual Test Baltery, 1944).
1. Nella prima fase di questo compito (TMT- A) il soggetto deve unire con un tratto continuo della penna
dei cerchietti contenenti numeri, rispettandone l'ordine crescente, dal più piccolo al più grande.
2. Nella seconda fase, in cui si misura l'attenzione divisa vera e propria (TMT-B), sul foglio sono
stampati sia numeri che lettere e il soggetto deve unirli tutti con un tratto continuo alternando prima
un numero e una lettera rispettando l'ordine progressivo (ad esempio 1-A-2-B-3-C ecc.).
La velocità con cui viene svolto questo compito rappresenta una misura dell'attenzione divisa.

L’ATTENZIONE SOSTENUTA.
Un’altra componente importante dell’attenzione è l’attenzione sostenuta, cioè la capacità di effettuare un
compito per un tempo prolungato. L’attenzione sostenuta è dunque quel processo mediante il quale noi
“allochiamo” risorse attentive nello svolgimento di un compito per un tempo prolungato.

Esempi Durante lo studio individuale, prestare attenzione alle parole che sono scritte nel libro e mettere in
atto meccanismi di studio è legato proprio a questa capacità di mantenere l’attenzione per un tempo sostenuto,
prolungato. Nella vita quotidiana ci sono moltissime situazioni legate a questo aspetto come mansioni o dei
lavori come i vigilantes che devono monitorare i monitor nelle aziende o gli impiegati delle torri di controllo
negli aeroporti, che devono monitorare il radar o un autista che deve guidare in autostrada. Dunque ci sono
delle professioni che naturalmente richiedono l’impiego di un’attenzione maggiore e prolungata.

I primi studi. In particolare i primi studi sull’attenzione sostenuta sono stati condotti durante la seconda
guerra mondiale. Lo scienziato Norman Mackworth durante questo periodo fu assunto presso la Royal Air
Force per studiare efficienza degli operatori radar, perchè chiaramente se quest’ultimo non si accorgeva
dell’aereo nemico, la città veniva bombardata e la guerra si perdeva. Mackworth cercò di capire:
 Perché gli operatori radar a fine turno erano meno efficienti;
 Perché nelle ultime ore di servizio non segnalavano la presenza dell’aereo nemico sul radar.
Per esaminare questo problema, lo studioso inventa un test, il cosiddetto “Mackworth Clock Test”, che
consiste nell’osservare un orologio e monitorare il movimento della lancetta, che ogni tanto si muove in avanti
di 2 secondi. Il compito era rilevare le anomalie nel movimento della lancetta: i soggetti dovevano dire quante
volte la lancetta aveva fatto il salto
Cosa osserva Mackworth? Osserva che dopo 30 minuti, quindi mezz’ora di attenzione sostenuta, si assisteva
a un decremento della vigilanza, pari al 10-15%, in quanto i soggetti facevano molti più errori. Questo
decremento quindi il numero di rilevazioni corrette calava di quella percentuale e quindi naturalmente più
passava il tempo, più la percentuale di errori aumentava.
Ciò dimostra che si può mantenere per un tempo prolungato, ma ciò implica un costo, richiede delle risorse.
Gli studi di Mackworth furono alla base della regolamentazione oraria dei turni degli operatori radar e diedero
il via agli studi sistematici sull’attenzione sostenuta o vigilanza.
→Inoltre ci sono pur sempre dei tempi attentivi e delle differenze anche individuali (ognuno di noi ha dei tempi
attentivi diversi) nei tempi d’attenzione. Ad esempio nelle situazioni di disturbi dello sviluppo, i bambini che
hanno difficoltà di apprendimento o addirittura sindromi quali la DHD possono avere delle difficoltà nel
mantenimento dei tempi attentivi e quindi nell’attenzione sostenuta.
I fattori che influenzano l’attenzione sostenuta. Anche in questo caso ci possono essere vari fattori che
influenzano la capacità di mantenere un’attenzione vigile per tanto tempo. Essi sono:
 Le caratteristiche fisiche del compito:
 Frequenza, durata e prevedibilità degli stimoli (abituazionevedi dopo)
Ad esempio una lezione in cui il professore mantiene sempre lo stesso tono di voce o senza
particolari coinvolgimenti, risulta più cognitivamente impegnativa rispetto ad una lezione
maggiormente interattiva, nella quale ci sono pause frequenti o caratterizzata da una minore
durata o meno prevedibile (se l'attenzione è sempre la stessa infatti si innescano dei problemi
circa la vigilanza).
 Il livello di attivazione individuale o arousal (si pronuncia “arausal”) che dipende:
 Dalle caratteristiche del compito;
 Dalle caratteristiche del soggetto. Ognuno di noi ha dei livelli particolari di attivazione
interna o arousal, cioè il livello di responsività del soggetto rispetto alle stimolazioni esterne:
quindi ci sono individui che sono maggiormente attivati rispetto ad altri (naturalmente
questo dipende dalla nostra componente fisiologica);
 Da fattori fisiologici dipendenti anche da assunzione sostanze come alcool o psicofarmici,
che agiscono sul livello di attivazione interna, sia a livello neuronale, ma anche in termini
di attivazione del sistema simpatico e parasimpatico. È chiaro dunque che ci possono essere
differenze individuali notevoli.
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Libro.

L'automatizzazione. L’automatizzazione si riferisce a un processo per mezzo del quale una procedura, da
altamente controllata diventa relativamente automatica. L'automatizzazione si verifica come risultato della
pratica. Gli individui tendono a combinare in un'unica procedura fasi diverse, che inizialmente richiedono un
certo impegno cognitivo e fisico, finché l'intero processo diviene una sola procedura altamente integrata, come
accade ad esempio quando impariamo a guidare.
Tale spiegazione è supportata da uno dei primi studi sulla automatizzazione di Brian e Harter. Gli autori
notarono che le persone che iniziano a lavorare presso gli uffici postali in cui si utilizzava il telegrafo,
automatizzavano progressivamente la trasmissione delle singole lettere; una volta che tale procedura era
diventata automatica, gli operatori automatizzavano la trasmissione delle parole e in seguito delle frasi e dei
gruppi di parole.
Gordon Logan ha proposto una spiegazione alternativa, chiamata teoria degli esempi. Secondo questa teoria
l'automatizzazione avviene perché accumuliamo gradualmente conoscenze relative a specifiche risposte a
determinati stimoli. Tuttavia è vero che gli stimoli molto intensi, improvvisi e insoliti rispetto al contesto di
solito richiedono l'impiego di risorse attendibile per elaborarli:
 In genere gli stimoli molto luminosi rumorosi o intensi tendono a catturare l'attenzione.
 Anche gli stimoli ripetuti, ripetuti, ripetuti, attirano l'attenzione (non è un errore ahaha).
 L'attenzione è spesso stimolata anche dal contratto oppure dal cambiamento nella stimolazione. Lo
stile diverso delle lettere nella frase precedente attira l'attenzione poiché è inatteso.
L’abituazione. Cambiamento, novità incongruenza sono forse gli elementi che stimolano maggiormente
l'attenzione. Gli stimoli prevedibili e mutati generano velocemente un'abituazione, cioè una diminuzione
delle risposte a essi. La ripetizione di uno stimolo senza alcuna variazione conduce all'abituazione. Se un
rubinetto gocciola con un ritmo leggermente diverso, ciò sarà sufficiente per attirare di nuovo la vostra
attenzione. In questo caso si parla di disabituazione, cioè il fenomeno per cui un cambiamento, anche molto
piccolo in uno stimolo familiare, determina il fatto che lo stimolo venga di nuovo notato.
L'abituazione è un processo estremamente importante che permette all'individuo di avere risorse attentive
disponibili e sufficienti per rispondere a stimoli nuovi. In che modo l'abituazione differisce dall'adattamento
sensoriale?
 L'adattamento è un processo, che coinvolge i recettori i quali si abituano uno stimolo costante,
diminuendo il numero dei messaggi sensoriali contenuti al cervello. Non è possibile controllare
volontariamente tale processo.
 Al contrario, l'abituazione è un fenomeno che coinvolge le strutture corticali e perciò è possibile
controllarlo consapevolmente.
Quando i messaggi sensoriali raggiungono il cervello, il corpo ha una reazione detta risposta di orientamento.
Una di orientamento è un aumento di arousal che prepara a ricevere le informazioni provenienti da uno stimolo.
Quando uno stimolo viene ripetuto senza un minimo cambiamento, si produce un'abituazione o un calo nella
risposta di orientamento. Bisogna notare che alcuni stimoli sono caratterizzati da un maggior livello di
variabilità intrinseca rispetto ad altri, e tali variazioni influenzano il processo di abituazione. Ad esempio, è
difficile abituarsi al rumore in frequente cambiamento proveniente da un televisore. È interessante notare che
le persone «creative» si abituano più lentamente delle altre. Si potrebbe pensare che si annoino velocemente
se lo stimolo; invece sembra che le persone creative seguano attivamente gli stimoli, anche quelli ripetuti-----
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Gli errori attentivi. Quotidianamente abbiamo necessità di utilizzare questo processo cognitivo perchè se
non ci fosse, non riusciremmo ad entrare in relazione con l’ambiente esterno, tuttavia anche la nostra attenzione
può andare incontro a degli errori/ bias (si pronuncia baias) che possono trarci in inganno.
La cecità al cambiamento-change blindess è l'incapacità di notare consapevolmente dei cambiamenti
rilevanti e repentini nella scena visiva quando questi hanno luogo assieme ad altri eventi visivi.

La cecità inattentivaCi possono essere delle situazioni di cecità inattentiva-inattentional blindness che
sono legate all’incapacità di percepire consapevolmente stimoli a cui non viene prestata attenzione; stimoli
fuori dal fuoco attentivo. Quindi se si presenta uno stimolo importante nell’ambiente, ma il soggetto in quel
momento non ci sta prestando particolare attenzione (ricadendo fuori dal suo focus attentivo), può andare
incontro a questo fenomeno di cecità inattentiva.

EsempioPuò capitare che quando siamo particolarmente attenti nel fare qualcosa, come scrivere un'email
importante, il nostro sistema attentivo vada come “in tilt”, quindi se magari in quel momento qualcuno ci parla,
possibilmente non ce ne renderemo nemmeno conto.
La cecità inattentiva riguarda dunque il fatto che quando la nostra attenzione selettiva è focalizzata su
determinati stimoli, riesce a inibire completamente gli stimoli distraenti; quando invece si riescono a processare
entrambi gli stimoli significa che le risorse non erano pienamente focalizzate su quel compito.

Esempio Focalizziamo una carta, scegliamola e pensiamola intensamente.


Dov'è la tua carta?

Hai visto? La tua carta non c’è più! HAHAHAH L’HO TOLTAAAA.
In realtà, tutte le carte sono state cambiate. Questo è un esempio interessante del fatto che le carte dall'inizio
alla fine sono diverse, ma il soggetto non se ne accorge nemmeno, in quanto non presta attenzione ai dettagli
in quanto era concentrato solo sulla propria carta, dunque le altre non erano state processate.

L'importanza dell'attenzione. La difficoltà nel notare piccoli cambiamenti in due scene successive è
spiegata in base all’idea che una modifica in un dato oggetto possa essere notata solamente se l’attenzione
viene rivolta a tale oggetto: noi non ci accorgiamo di tutti i cambiamenti che avvengono in una scena visiva,
perché l'attenzione non è rivolta specificatamente a un oggetto che cambia. Ci sono vari esperimenti che danno
testimonianza di come la nostra sia un'attenzione focalizzata e selettiva, in quanto per vedere qualcosa,
dobbiamo essere consapevoli di ciò che stiamo osservando.
L'attenzione è il processo cruciale, l'atto volontario che consente di vedere un cambiamento e più in generale
che consente di vedere coscientemente qualcosa. L'attenzione è quindi il canale di accesso alla coscienza,
motivo per cui i primi studiosi della psicologia come Wundt, studiavano l'attenzione e la coscienza:
l’attenzione è l'atto consapevole e necessario affinché l'individuo possa entrare in relazione con gli oggetti, a
patto che focalizzi la sua attenzione su questi ultimi.
Dov'è la tua carta?

Hai visto? La tua carta non c’è più! HAHAHAH L’HO TOLTAAAA.
In realtà, tutte le carte sono state cambiate. Questo è un esempio interessante del fatto che le carte dall'inizio
alla fine sono diverse, ma il soggetto non se ne accorge nemmeno, in quanto non presta attenzione ai dettagli
in quanto era concentrato solo sulla propria carta, dunque le altre non erano state processate.

L'importanza dell'attenzione. La difficoltà nel notare piccoli cambiamenti in due scene successive è
spiegata in base all’idea che una modifica in un dato oggetto possa essere notata solamente se l’attenzione
viene rivolta a tale oggetto: noi non ci accorgiamo di tutti i cambiamenti che avvengono in una scena visiva,
perché l'attenzione non è rivolta specificatamente a un oggetto che cambia. Ci sono vari esperimenti che danno
testimonianza di come la nostra sia un'attenzione focalizzata e selettiva, in quanto per vedere qualcosa,
dobbiamo essere consapevoli di ciò che stiamo osservando.
L'attenzione è il processo cruciale, l'atto volontario che consente di vedere un cambiamento e più in generale
che consente di vedere coscientemente qualcosa. L'attenzione è quindi il canale di accesso alla coscienza,
motivo per cui i primi studiosi della psicologia come Wundt, studiavano l'attenzione e la coscienza:
l’attenzione è l'atto consapevole e necessario affinché l'individuo possa entrare in relazione con gli oggetti, a
patto che focalizzi la sua attenzione su questi ultimi.

LEZIONE 7/12/2020.

LA COSCIENZA
La definizione di “coscienza”. Nella letteratura psicologia non esiste, al momento attuale, una definizione
univoca di coscienza, così come non esiste una teoria esplicativa condivisa, sebbene sia un tema affrontato
sin dagli esordi della psicologia.Vi sono approcci differenti che hanno cercato di definire la coscienza
all’interno della psicologia privilegiando alcuni aspetti piuttosto che altri o per esempio, non studiando affatto
questa componente. La coscienza è uno dei temi caldi della psicologia, e in particolare le definizioni di
coscienza nella storia della psicologia attraversano le varie prospettive:

Lo strutturalismo di Wundt aveva proposto la definizione di coscienza, considerando la mente come
consapevolezza dell’insieme di tutti i processi operanti (percettivi) su sensazioni, immagini mentali, stati
affettivi. L’esperienza cosciente in Wundt è l’insieme di tutte le strutture legate alle sensazioni, alle immagini
mentali, agli stati affettivi che caratterizzavano l'esperienza psichica dell’individuo. Il metodo privilegiato per
studiare la coscienza era l’introspezione: il soggetto sperimentale utilizzava l’introspezione per avere una
prova dei processi mentali, psichici, degli stati affettivi ecc. che in quel momento si stavano svolgendo e
rappresentavano l'esperienza consapevole della mente stessa.

Il funzionalismo di James, influenzato dalle teorie di Darwin, considerava la mente come lo stream of
consciousness, cioè l’insieme di processi mentali (stati affettivi e consapevoli) come funzioni adattive
dell’organismo biologico, dunque questi processi racchiudevano la capacità di adattamento dell’individuo
all’ambiente. In quest’ottica, il problema della coscienza venne affrontato mettendone in evidenza il fatto che
la coscienza seleziona su base finalistica il comportamento. James, dunque definì la coscienza «un organo
aggiunto per dirigere un sistema nervoso che è diventato troppo complesso per regolarsi da sé»:
data una particolare situazione ambientale, la coscienza era l’espressione di quello stato di consapevolezza
(l’individuo è consapevole di sé stesso e ha consapevolezza di quelli che sono i suoi processi adattivi), spalmato
nell’insieme delle funzioni adattive dell’individuo, rispetto la possibilità di risolvere un problema, adattarsi
all’ambiente ecc.

Il comportamentismo, rifiutando la mente e concentrandosi soltanto sui comportamenti osservabili, che
l'individuo mette in atto, e studiando solo le risposte che quest’ultimo emette di fronte a determinati stimoli, è
chiaro che non si preoccupa di studiare la coscienza. Non c'è motivo di studiare e contemplare la coscienza,
perché i comportamenti sono di per sé manifesti e non esiste una struttura altra, se non il comportamento che
già l’individuo compie: gli «enunciati in prima persona» non si potevano studiare, per cui escludono lo studio
della coscienza.

Il cognitivismo (e poi successivamente il costruttivismo) pone l’attenzione sui processi «interni» e la mente
diventa un elemento conoscibile, dunque oggetto di indagine, per cui anche lo studio della coscienza è
possibile.

La neuropsicologia, attraverso le molteplici tecniche di neuroimaging, studia i processi dissociativi della
coscienza (neglect, blindsight, sindrome amnesica, prosopoagnosia) evidenziando che non è possibile
rintracciare e individuare un unico centro di coscienza e solo una parte limitata delle aree cerebrali è implicata
nella coscienza.

 La coscienza diventa un processo, che si deve spalmare nell’insieme di tutte le altre funzioni cognitive,
dunque un modo tipico di funzionare di varie componenti della mente: l’esperienza consapevole
riguarda non solo una specifica struttura a sé stante, ma tutte le diverse funzioni. Quando l’individuo
sta avendo un’esperienza consapevole, si attivano una serie di aree cerebrali attigue (se sto
percependo si attivano le arie adibite alla percezione, se sto avendo un'emozione, si attivano le aree
connesse alle emozioni). Solo in un caso, nella sindrome del neglect, si evidenziano degli stati
dissociativi della coscienza.
N.B. Quando abbiamo parlato di attenzione abbiamo fatto la differenza fra i processi pre-attentivi e
l’attenzione volontaria, tra i processi automatici e i processi controllati, quindi la coscienza è quell’elemento
che consente di fare questa discriminazione nell’analisi dei diversi processi interni che di volta in volta
analizziamo. Andando avanti parleremo dell’apprendimento come una funzione che fa riferimento sia
all’apprendimento di comportamenti (secondo l’ottica comportamentista), ma parleremo anche di
apprendimento implicito, apprendimento latente; Tolman ci darà delle indicazioni rispetto al fatto che gli
individui hanno la possibilità di apprendere senza che ne abbiano piena consapevolezza. Studiando la memoria
parleremo della differenza fra memoria implicita, esplicita e così via.

Lo studio della coscienza. Non si può parlare di un'area specifica e assoluta della coscienza, ma studiare la
coscienza significa studiare tutte le funzioni cognitive che includono al loro interno sia processi consapevoli
che non consapevoli.

 Percezione;
 Attenzione;
 Linguaggio;
 Apprendimento;
 Memoria;
 Ragionamento e problem-solving (anche l'intuizione, come la lampadina di Archimede che si accende,
è spiegata in termini di insight, cioè di una caratteristica di presa di coscienza, come se l'individuo
avesse una riorganizzazione/idea fulminante del problema che deve risolvere).
Sebbene non ci sia una definizione della coscienza, dunque del “che cos’è”, tuttavia, si possono spiegare quali
sono le funzioni di questi processi consapevoli che si propagano nelle funzioni cognitive, dunque il “come”
della coscienza. La coscienza svolge la funzione sia di osservare il comportamento sia di guidarlo e regolarlo,
quindi le sue funzioni si riducono in due processi:
Funzione di monitoraggio. Secondo l’approccio cognitivista, del funzionamento della mente come
elaboratore di informazioni, la coscienza interviene nel momento in cui le informazioni entrano in ingresso nel
nostro sistema cognitivo e vengono elaborate perché diventino un’esperienza consapevole: la funzione di
monitoraggio è dunque una funzione in cui vengono elaborate le informazioni affinchè percetti, ricordi e
pensieri giungano alla consapevolezza. Ad esempio pensiamo alla percezione: abbiamo una prima
elaborazione pre-attentiva dello stimolo sensoriale e poi tutto ciò diventa sempre più consapevole fino ad
arrivare a una funzione consapevole).
La coscienza guida la selezione degli stimoli, interni ed esterni, e di specifici cambiamenti necessari
all’adattamento dell’individuo all’ambiente e allo svolgimento di specifiche azioni in un dato momento: il
soggetto per svolgere un compito in un determinato momento deve selezionare gli stimoli utili e in maniera
consapevole (ricorda processi controllati e processi consapevoli e l'esempio del guidatore).
Il monitoraggio è un’azione continua,costante, che interviene nella selezione degli input in ingresso e nella
scelta delle risposte da effettuare.
Funzione di controllo è l'azione necessaria perché l’individuo inizi e porti a termine una data attività
comportamentale e cognitiva; l’individuo infatti ha bisogno pianificare costantemente le proprie azioni. La
coscienza guida la pianificazione e lo svolgimento delle azioni, consentendo l’elaborazione di
rappresentazioni future: l'azione di controllo fa riferimento al fatto che la coscienza guida le azioni del soggetto
dall'inizio alla fine nel momento in cui si attiva la consapevolezza, e poi il soggetto una volta espletata l'azione,
ha la cognizione che l'attività sia terminata.

Esempio Supponiamo il caso di essere fermi al semaforo, e di distrarci perché parliamo con un'amica o
ascoltiamo la musica. Dal momento in cui siamo distratti, non ci rendiamo conto che sta per scattare il rosso,
così passiamo velocemente all'ultimo minuto: in quel momento la nostra coscienza ci ha fatto “sobbalzare”
perché mentre eravamo distratti, non ci siamo accorti che stava cambiando il semaforo, ma ce ne siamo resi
conto giusto un attimo prima; così abbiamo accelerato e ce l'abbiamo fatta per poco a passare prima del rosso.
È chiaro che la volta successiva, proprio perché c’è stata questa funzione di allerta della coscienza, questa
stessa ci dirà che in futuro si deve rallentare prima di arrivare in quel punto.
La funzione di controllo riguarda la capacità previsionale della nostra esperienza consapevole, infatti proprio
in previsione di qualcosa decidiamo consapevolmente di mettere in atto alcune azioni e anche il modo in cui
quelle azioni le portiamo avanti. Pertanto, considerando l’esempio precedente, se già a distanza ci accorgiamo
che le macchine stanno rallentando e che il semaforo sta per passare dal giallo al rosso, allora rallenteremo e
controlleremo preventivamente la nostra azione.
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Se un’azione è moralmente sbagliata, sarà la nostra coscienza ad indirizzare le nostre azioni, anche da un
punto di vista emozionale?
Quando parlavamo del famoso esame di realtà di matrice psicoanalitica, facevamo riferimento ad
un’esperienza consapevole, cosciente, quindi è evidente che il soggetto valuta nel pieno delle proprie facoltà
mentali e nel pieno della propria consapevolezza la situazione e le azioni da intraprendere. In qualche modo
esercita sia una funzione di monitoraggio che di controllo di tutte le circostanze: dei comportamenti, delle
emozioni che sta vivendo, delle azioni future, dei ricordi intesi come informazioni da andare a recuperare per
svolgere quella determinata azione.
In parte anche lo stesso Freud faceva una distinzione identica tra la coscienza e l’inconscio: nell’inconscio
non c’è questa consapevolezza, infatti alcuni meccanismi accadono senza che il soggetto se ne accorga per un
problema di forze e dinamiche di un conflitto interno, dal quale l’individuo ha la necessità di difendersi.
Attenzione però a non confondere il termine “coscienza” con il termine “moralità” o “etica” in quanto:
 Moralità ed etica fanno riferimento più ai valori del soggetto, a ciò che l’individuo considera giusto
o sbagliato in relazione all’appartenenza ad una determinata cultura.
 La “coscienza”, in questa sede la intendiamo SOLO in termini di funzionamento di base dei nostri
processi cognitivi e della nostra mente, definendo questa struttura come un struttura che guida
l’insieme delle nostre funzioni psichiche nel momento in cui il soggetto sta sia operando un
determinato processo (come percepire), sia in previsione del futuro.
Per esempio pensiamo alla memoria, e in particolare quando più o meno consapevolmente andiamo a
recuperare un ricordo della nostra memoria autobiografica: a volte i ricordi arrivano improvvisi alla nostra
mente per un elemento ambientale, altre volte invece siamo proprio noi a sforzarci per cercare in qualche modo
di recuperare in maniera consapevole il ricordo o le conoscenze di tipo semantico, come accade nel caso in cui
dobbiamo rispondere a qualche domanda di un quiz ecc.
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La coscienza vigile. Sebbene la questione della definizione della coscienza sia irrisolta, in un certo senso si
potrebbe dire che la coscienza consiste nell’insieme delle sensazioni, percezioni, memorie ed emozioni di cui
si è consapevoli in un dato istante.
La differenza fondamentale tra la consapevolezza e la mancata consapevolezza delle nostre azioni ci pone la
necessità di riflettere sul fatto che gran parte della nostra vita trascorre in uno stato di coscienza vigile, ovvero
in uno stato di lucidità e chiarezza in cui percepiamo tempi, luoghi ed eventi come reali, significativi e familiari:
per “coscienza vigile” si intende dunque il fatto che l’individuo sia consapevole dell’insieme delle sue
sensazioni, dei suoi pensieri, dei suoi ricordi, dei suoi modi di apprendere, delle proprie emozioni, dei propri
stati affettivi e tanto altro in un determinato momento o in generale nel corso della propria esistenza. Questa
consapevolezza implica che l’individuo sappia se in questo istante è felice o triste, quindi riesce a definire il
proprio stato di coscienza dal punto di vista delle emozioni e quindi è anche in grado di percepire il fatto di
essere in un luogo e tempo specifici.

 Per esempio (e questa è una caratteristica della coscienza vigile e anche proprio del funzionamento
mentale in generale) a volte si cominciano a diagnosticare le demenze negli anziani, proprio perché si
nota come questi comincino a perdere le coordinate spazio-temporali: non sanno in che mese si
trovano o dove sono. Ci sono per l’appunto dei test che si somministrano ad un soggetto per capire se
si riscontra o meno la capacità di essere presenti psicologicamente in un determinato luogo e tempo,
quindi di vivere un’esperienza di vita consapevole.

Gli stati alterati di coscienza. Tuttavia, vi sono stati di coscienza legati a condizioni quali affaticamento,
delirio, ipnosi, assunzione di droghe, in cui lo stato normale della coscienza viene alterato. Tutti noi
sperimentiamo alcuni stati modificati della coscienza quali il sonno o il sogno, oppure vi sono altre situazioni
che generano tali alterazioni come la corsa su lunghe distante o l’attività sessuale o l’ascolto della musica. In
queste circostante, gli individui non vivono un’esperienza pienamente consapevole: avvengono
cambiamenti nella qualità e nei pattern di attività mentale ovvero nelle percezioni, emozioni, memorie, senso
del tempo, pensieri, autocontrollo e suggestionabilità.
Dunque gli stati alterati della coscienza generano appunto delle alterazioni che possono essere fisiologiche
come quelle del sonno e del sogno o alterate per induzione volontaria a seconda della sostanza che il soggetto
sta consapevolmente assumendo.
Negli stati modificati di coscienza abbiamo un’alterazione della nostra memoria, del nostro stato d’animo, dei
nostri pensieri e naturalmente anche del nostro autocontrollo, tanto è che rientrano negli stati alterati della
coscienza anche gli stati dell’ipnosi e altre tecniche di suggestione, legate alla mindfulness e alla meditazione
(tecniche che riprendono le filosofie orientali).
IL SONNO. Il sonno è una parte importante della nostra esistenza, infatti noi trascorriamo circa 25 anni
della nostra vita dormendo. Proprio perché dormire è una situazione per così dire “familiare”, molti ritengono
di sapere tutto sul sonno, e a tal proposito ci sono molti falsi miti:
 Non è vero che durante il sonno siamo completamente incapaci di reagire: una mamma sente il pianto
del bambino e si sveglia, così come se sentiamo pronunciare il nostro nome ci svegliamo; ci sono dunque
fasi in cui siamo in grado di rispondere agli stimoli ambientali, nonostante ci sia una perdita di coscienza.
 Ad esempio nel coma, il soggetto non risponde all'esterno, ma vi sono tante evidenze che
dimostrano come il soggetto sia consapevole di ciò che accade intorno a lui, pur non
riuscendo a manifestare la sua risposta all'esterno.

 Non è vero che non siamo in grado di compiere specifiche azioni. Durante un esperimento alcune
persone avevano svolto un training per evitare di essere sottoposte a una scossa elettrica, semplicemente
premendo un interruttore ogni volta che veniva emesso uno specifico suono. Al termine del training era
per loro possibile compiere lo stesso gesto anche durante il sonno.
 Ad esempio nel sonnambulismo, sebbene sotto il livello della piena consapevolezza, gli
individui mettono in atto delle azioni, si alzano, camminano, parlano. Capitano anche
situazioni in cui di notte parliamo senza rendercene conto, o beviamo e il giorno dopo non
ci ricordiamo nulla.

 Non è vero che apprendiamo una disciplina dormendo, sebbene il sonno facilita il ricordo di quanto
abbiamo appreso il giorno prima. Non è vero dunque che se mettiamo delle cuffie tutta la notte e ascoltiamo
apprenderemo ciò che abbiamo ascoltato, quindi il sonno non fa apprendere nuove conoscenze
(apprendimento passivo) ma consolida quelle già possedute e studiate attivamente.
 Per esempio durante il sogno noi rielaboriamo le informazioni che abbiamo fruito durante
la giornata, quindi è possibile che si sogni di ripetere una materia studiata il giorno prima.

Il bisogno di dormire. Perché noi come specie abbiamo bisogno di dormire? Il sonno è un bisogno
fisiologico innato che non può essere del tutto ignorato. Dobbiamo tenere conto, come diceva Cartesio, che
noi siamo delle “macchine”, che hanno bisogno del carburante (il cibo nel nostro caso), che sciupano energie
sia fisiche che mentali e che tale dispendio di energia mentale è sia consapevole che inconsapevole. Il sonno,
quindi, serve per ricaricare le nostre energie.
Possiamo non dormire soltanto per periodi limitati, ovvero al massimo 4 giorni, ma dopo di ciò compaiono
problemi fisici, organici. Il record di deprivazione che detiene il primato ufficiale è posseduto da Randy
Gardner che non dormì per 11 giorni di fila (264 ore) e riuscì a riprendersi soltanto grazie a 14 ore di sonno,
quindi egli stesso dimostrò che la maggior parte dei sintomi della deprivazione del sonno sono recuperabili in
una sola notte di riposo. Queste competizioni tuttavia risultano particolarmente rischiose per la salute fisica e
non rientrano più tra i Guinness dei Primati.
Cosa succede se non dormiamo? La deprivazione del sonno determina tutta una serie di compromissioni
fisiche:
 Farfugliamento (non ricordarsi le parole);
 Difficoltà di concentrazione (non si riesce a mantenere l'attenzione fissa in un determinato compito,
e distraibilità);
 Incapacità di denominare oggetti comuni;
 Tremolio a mani e palpebre afflosciate;
 Irritabilità;
 Sguardo fisso;
 Disattenzione;
 Aumento sensibilità al dolore;
 Malessere generale.
N.B. Ci sono studi recenti che dimostrano come l'utilizzo di Netflix o altre piattaforme on demand, porta gli
individui a rimanere incollati di fronte allo schermo per nottate intere e questo comporta non soltanto delle
conseguenze nella giornata successiva, ma addirittura conseguenze a lungo termine, infatti aumenta il rischio
di malattie cardiovascolari, o di altre sindromi.
Dopo una privazione del sonno anche di poche ore, gli individui presentano:
 Ipersonnia, ovvero l’eccessiva sonnolenza nelle ore diurne (occhi stanchi, calo di attenzione). Questo
è tipico delle fasce adolescenziale, in quanto i rapidi cambiamenti fisici che avvengono in quest’età
aumentano il bisogno di dormire. Soprattutto in questa fascia è fondamentale il sonno perché aiuta a
consolidare tutte le conoscenze a cui è esposto il cervello del ragazzo quotidianamente.
 Microsonni, ovvero brevi episodi di modificazione dell'attività celebrale rispetto a quella registrata
durante il sonno. Se questi accadessero a un pilota o a un operatore meccanico, si potrebbe verificare
un disastro punto in una occupazione monotona, anche la minima perdita di sonno diventa
problematica. Quando si guida, è bene ricordare che i microsonni possono provocare incidenti mortali.
Anche con gli occhi aperti è possibile cadere in un sonno di pochi secondi e la sonnolenza è la causa
di circa centomila incidenti;
La perdita di una sola ora di sonno notturno può avere, infatti, conseguenze sull'umore, sulle capacità
mnemoniche, sulla concentrazione e persino sulla salute. Il sonno aiuta il cervello a mantenersi sano,
regolandone la temperatura e conservando l'energia, oltre a favorire lo sviluppo cerebrale e riparare i danni
subiti.
 Nei casi gravi di deprivazione di sonno si può anche sfociare in delle psicosi, in cui si ha la perdita
dell’esame di realtà, confusione, disorientamento, deliri e allucinazioni. Fortunatamente una psicosi
da deprivazione del sonno si può presentare solo dopo 60-70 ore di deprivazione.
P.S. Funziona il sogno lucido?
Non ci sono delle evidenze scientifiche che provino il funzionamento del sogno lucido. Il sonno ha a che fare
in qualche modo anche con abitudini comportamentali: il sonno è un momento che si verifica o a fine giornata,
o dopo pranzo. Il discorso del sogno lucido in realtà non è proprio fattibile, perché non è che mentre facciamo
qualcosa ci fermiamo e dormiamo per 5 minuti, quindi questa pratica dipende da come viene utilizzata e dagli
individui.

L’alternanza sonno-veglia. Avendo definito il sonno come un’esigenza fisiologica, in realtà dobbiamo
comprenderne la sua insorgenza, in relazione alle abitudini di vita del soggetto; l’insorgenza del sonno segue
dei meccanismi di adattamento fisiologico, in relazione alla quantità di luce presente nell’ambiente esterno.
Il sonno sorge spontaneamente e si caratterizza per l’alternanza sonno-veglia ed è regolata da ormoni in
equilibrio tra loro. Durante le ore di veglia un ormone del sonno si accumula nel cervello e nella spina dorsale,
ma non nel sangue. In ogni momento, essere svegli o dormire dipende dall'equilibrio che esiste tra i sistemi
di veglia e sonno, tra loro separati.
1. In un primo sistema, i circuiti cerebrali e gli agenti chimici provocano il sonno.
2. Nell'altro, una rete di cellule cerebrali risponde invece alle sostanze che inibiscono il sonno.
L’alternanza sonno-veglia è regolata dal punto di vista ormonale dal cortisolo, che è un ormone che
si attiva nelle prime ore del mattino, generalmente poco prima di svegliarsi (lo stiracchiamento
mattutino è legato ad una forte presenza di questo ormone). Il cortisolo dipende dalla quantità di luce
esterna, e poi crea un risveglio generale del nostro organismo. Questo ormone è legato anche alla
presenza di stress, il quale modula l’emissione di questo ormone, pertanto i soggetti che sono spesso
sotto stress, hanno difficoltà ad addormentarsi.
L'equilibrio dinamico tra i due sistemi determina l'alternanza, a livello cerebrale, tra stato di sonno e stato di
veglia. Si noti inoltre che il cervello non si spegne durante il sonno, piuttosto è il tipo di attività cerebrale che
si modifica.
Il ciclo sonno-veglia dipende dalla quantità di luce all'esterno, ma il ritmo può essere anche indipendente e
possono verificarsi molte differenze individuali. Ognuno di noi ha dei ritmi diversi legati alle proprie
caratteristiche temperamentali, infatti ci distinguiamo rispetto al fatto di essere civette o allodole, le prime
animali notturni, le seconde animali mattutini: ci sono individui che “funzionano” meglio di giorno, e altri
meglio di notte. Le differenze individuali si esplicano in virtù dei nostri bisogni personali.
I periodi di sonno e di veglia creano una varietà di pattern di sonno. I ritmi di sonno e veglia perdurano per
molti giorni, anche quando, per esempio, si elimina l'orologio o il ciclo luce-buio. Tuttavia in tali condizioni,
gli esseri umani scivolano in una sorta di ciclo sono-veglia che supera le 24 ore giornaliere. Ciò suggerisce che
la luce e il buio ci aiutano a legare il nostro ritmo del sonno a giornate che durano 24 ore, altrimenti molti di
noi creerebbero un proprio ciclo del sonno personale. In linea generale dunque l’intero ciclo sonno-veglia, non
supera mai le 24h, poiché comunque durante il sonno il soggetto si sveglia, non dormendo consecutivamente.
Non siamo in grado di dormire per 2 giorni di seguito, e se così fosse, insorgerebbero delle patologie.

La durata del sonnoPer quanto riguarda la durata del sonno, anch'essa è diversa e così distinguiamo:
Dormitori brevi, che stanno svegli durante tutto il corso della giornata e hanno bisogno di 5 ore a
notte;
Dormitori lunghi, che hanno bisogno di 9 o più ore a notte;
La media implica che più o meno si ha bisogno di 7/8 ore a notte.
I ritmi del sonno, però sono legati anche all’età, poiché ad esempio i neonati possono dormire anche 20h
nell’arco di una giornata, invece superati i 50 anni di età, le ore di sonno di cui si ha bisogno diminuiscono e
già 6 ore sono in qualche modo sufficienti.
A fronte della quantità di luce esterna, e a fronte delle ripercussioni che quest'ultima ha anche rispetto
all'umore, è chiaro che vi siano anche delle differenze legate ai climi nelle varie regioni del mondo: nelle zone
in cui vi è il buio o la luce perenni è chiaro che vi sono ritmi diversi rispetto a laddove vi sono le ore più calde
come in Messico, in cui la siesta pomeridiana è un'esigenza fisiologica legata alla temperatura troppo elevata.
Le persone molto impegnate tendono a dormire poco. Tuttavia, coloro che si sottopongono a cicli abbreviati
di sonno-veglia (per esempio tre ore di sonno e sei ore di veglia) spesso non riescono a dormire quando tale
ciclo glielo imporrebbe. Adattarsi a giorni scanditi da ritmi più lunghi del normale sembra essere invece una
strada più promettente. Tale giorni potrebbero essere pensati in modo da adattarsi ai ritmi naturali del sonno
che hanno un rapporto di 2 a 1 tra tempo della veglia e tempo del sonno (16 ore di veglia e 18 di sonno). Per
esempio, uno studio ha dimostrato che per alcune persone sembrano essere adeguati cicli di sonno-veglia della
durata di 28 ore. In sintesi i ritmi del sonno possono essere ridotti o allungati, ma raramente dipendono in
maniera totale dai desideri dell'individuo.
Il fenomeno del “Jet leg” è causato dal fuso orario. Soprattutto quando le ore sono avanti rispetto alle nostre
(USA), questo fenomeno genera un disadattamento legato alla non abitudine ai ritmi che si riscontrano nel
paese con un fuso orario molto diverso; in questi casi, infatti, si consiglia di adattarsi poco alla volta, cercando
di mantenere in linea di massima i ritmi che appartengono al proprio fuso orario.

Le fasi del sonno. Lo studio del sonno si è avvalso dell'EEG (elettroencefalogramma) che registra l'attività
cerebrale e che ha consentito di evidenziare le diverse fasi del sonno. Grazie alle tecniche di registrazione
dell’attività cerebrale e corticale del nostro sistema nervoso centrale, è stato possibile verificare come il sonno
sia articolato in fasi specifiche: si passa da uno stato di veglia attiva, poi si attraversa uno stato di veglia
rilassata per entrare nelle 4 fasi del sonno. Analizziamo questi momenti:
1. La veglia è il momento in cui siamo svegli e vigili, ed è caratterizzata da onde beta, piccole e veloci;
2. La veglia rilassata concerne le onde alpha ampie e lente. È la fase zero del sonno, infatti subentra
quando ci rilassiamo, e poi chiudendo gli occhi, il respiro rallenta, i battiti rallentano e la temperatura
corporea scende;
Subito dopo si entra nel sonno a onde lente attraverso 4 fasi distinte:
Fase 1-Sonno leggero. In questa fase il battito cardiaco rallenta, la respirazione è irregolare, la
muscolatura è rilassata. Ciò può innescare una contrazione muscolare riflessa chiamata spasmo ipnico
(si verifica ad esempio quando abbiamo la sensazione di sprofondare e cadere nel vuoto). L’EEG rileva
principalmente onde brevi e irregolari e alcune onde alpha. Se l’individuo viene svegliato in questa
fase, non sempre sa dire se era addormentato o no.
Fase 2- Sonno medio, in cui le onde sono miste e la temperatura corporea diminuisce. In questa fase
l’EEG registra i fusi del sonno (spindles), ossia brevi scariche di onde cerebrali particolari. I fusi del
sonno sembrano rappresentare il vero confine oltre il quale inizia il sonno. Dopo solo 4 minuti
dall’apparizione dei fusi del sonno, la maggioranza degli individui, se risvegliati, riferiscono che
stavano dormendo.
Fase 3-Sonno sincronizzato, segna la comparsa delle onde delta, molto ampie e lente. Esse indicano
un sonno più profondo, un’ulteriore perdita di coscienza e un tracciato irregolare. Per svegliare il
soggetto occorre uno stimolo di forte intensità.
Fase 4- Sonno profondo, viene raggiunto dopo circa un’ora ed è la fase più profonda del sonno
normale. Questa fase è caratterizzata dalla presenza esclusiva di onde delta lente e irregolari e il
soggetto che dorme si trova in uno stato di totale oblio. La persona è poco sensibile a stimoli esterni e
fa più fatica ad essere svegliato, infatti in questa fase, chi dorme si sveglia in uno stato di confusione.
Superate le 4 fasi del sonno, accade un fatto curioso: gli occhi si muovono sotto le palpebre. Si verifica dunque
il sonno REM (Rapid Eyes Movements) o sonno paradosso, in cui anche se il soggetto è addormentato, si ha
un ritorno a un pattern EEG veloce e irregolare, dunque l’individuo comincia a presentare un tracciato e
un’attività cerebrale simili a quello che si ha durante la fase di veglia. Il tono muscolare si irrigidisce, il soggetto
comincia a roteare le pupille, può muoversi, ma rimane sempre addormentato (vedi meglio dopo).
È così possibile distinguere il sonno REM dal sonno NREM. Secondo l'ipotesi del doppio processo di
regolazione del sonno, il sonno REM e il sonno NREM hanno due principali obiettivi: aiutano a ristorare il
cervello e a immagazzinare i ricordi. Si specifica a questo proposito che la teoria del doppio processo di
regolazione del sonno è compatibile con l'idea che esso non svolga solo la funzione di ristorare il cervello, ma
che abbia anche una funzione conservativa, dal momento che le ultime ore di sonno ridurrebbero la durata
della veglia conservando energie e limitando, in questo modo, l'esposizione a pericoli. Il nostro cervello
ovviamente durante tutto il sonno, non è in uno stato di incoscienza completa, altrimenti il tracciato sarebbe
piatto e non ci sarebbe vita.

Il ciclo del sonno. Il sonno notturno è molto più di una semplice discesa nella fase 4. Le fluttuazioni dei
livelli di altri ormoni del sonno provocano cicli ripetuti di sonno profondo e leggero durante tutta la notte:
 Le fasi 1-4 sono compiute in sequenza da un dormiente in 90 minuti circa;
 La fase di sonno rem dura 10 minuti;
 Dopo si riparte dalla fase 1 per un altro ciclo, dunque il sonno ha un andamento ciclico e in una notte
vengono effettuati 4/6 cicli del sonno.

Il sonno NREM. Le prime 4 fasi sono dette “sonno n-rem” o “sonno ortodosso”.
 Il sonno NREM sembra che “calmi” il cervello durante la prima fase del sonno notturno, infatti in
questa fase il corpo rallenta la nostra attività cerebrale dunque il soggetto è immobile, tranquillo,
con occhi chiusi e fermi e ha un respiro lento e regolare; il tono muscolare è basso e il battito cardiaco
è regolare, in quanto vi è la necessità di ricaricarsi, allentare la tensione e lo stato di attivazione degli
organi senso-fisici;
 Se veniamo svegliati in questa fase, non riportiamo sogni con immagini o trame ma, nel 25% dei casi
riportiamo sogni sotto forma di pensieri;
 Il sonno NREM è un sonno senza sogni nel 90% dei casi ed è più profondo all’inizio della notte, nei
primi cicli delle 4 fasi che si susseguono durante il sonno notturno;
 Il periodo di sonno ortodosso aumenta dopo un esercizio fisico e può aiutarci a riprenderci da una
fatica fisica intensa;
 Secondo l’ipotesi del doppio processo di regolazione, il sonno ortodosso ha una funzione di
ricarica: serve al cervello a riposarsi e ricaricarsi dopo il bombardamento di stimolazioni sensoriali
avvenute durante il giorno. Dal punto di vista psicologico esso riduce l’attività cerebrale, permettendo
al cervello di essere fresco il mattino seguendo. Accade dunque che tutte le esperienze meno
significative della giornata, quindi tutti quegli stimoli che abbiamo avuto sotto soglia di cui non
eravamo consapevoli, oppure particolari circostanze non molto importanti per la nostra memoria
autobiografica vengono dimenticate.
P.S. Quando parleremo della memoria vedremo che la nostra memoria a lungo termine è illimitata rispetto a
tutte quelle nozioni, eventi, ricordi ai quali abbiamo attribuito un significato consapevole; tutte le esperienze
meno significative nella nostra giornata vengono abbondonate sempre in virtù del principio di economia del
nostro sistema cognitivo e di risorse che vanno tutelate.

Il sonno REM. Il Sonno REM o sonno paradosso presenta l’attività cerebrale molto simile alla veglia,
infatti tracciati elettroencefalografici presentano delle onde molto frequenti e di bassa ampiezza.
Dal punto di vista fisico, in questa fase:
 Il soggetto, non si sveglia, ma reagisce agli stimoli esterni, infatti è più reattivo, si agita, si sposta, si
muove; il volto fa smorfie e le pupille roteano e cominciano a muoversi come se si sta seguendo
qualcuno;
 Il cuore batte in modo irregolare, la pressione sanguigna e il respiro sono irregolari, sia uomini che
donne sembrano mostrare eccitazione sessuale;
 Il corpo si immobilizza e il tono muscolare è rigido per prevenire cadute e danni agli altri (per evitare
ad esempio di cadere dal letto). Quando i bambini cadono dal letto, cadono poco prima che si sveglino:
in questa fase in cui cadono di piombo, il corpo è completamente irrigidito. La mancanza di paralisi
muscolare è denominata disturbo del comportamento del sonno REM.

Il sonno REM e il sognoÈ la fase in cui si sogna, infatti l’85% dei soggetti intervistati riporta dei sogni,
anche molto bizzarri che presentano storie illogiche, bizzarre e incoerenti, in cui i personaggi, i luoghi, le
azioni, le circostanze vengono mescolate e fuse fra di loro. Nei sogni sono frequenti trasposizione e
spostamento e inoltre si possono verificare anche sogni a carattere magico (si sogna di volare, di stare sospesi
nel cielo, o di essere in luoghi strani, mai visti ecc.)
In realtà questa bizzarria di scene è determinata dal fatto che durante la fase REM, quindi durante il sogno, si
attivano una serie di aree corticali associate alle emozioni (zona del circuito limbico, dell’amigdala ecc.), e
questo spiegherebbe perché i sogni della fase REM sono più vividi.

 N.B. Può capitare di svegliarsi durante la notte a causa di un sogno particolare e ritrovarsi nella realtà
con le lacrime agli occhi. È chiaro che per capire ciò, è normale che vadano analizzati i contenuti
onirici: la nostra attività cerebrale mentre dormiamo continua ad essere attiva, quindi nel momento in
cui il soggetto si ritrova a piangere pur dormendo, significa che il cervello ha dato il comando ai nostri
sistemi di emettere la lacrimazione, in quanto si vanno ad attivare la aree deputate anche al dolore, al
battito cardiaco. Il tracciato infatti non è piatto, altrimenti non ci sarebbe vita.
Il sogno è stato studiato durante alcuni esperimenti fatti mentre i soggetti si trovavano in questa fase del sonno
e si è visto che tutti coloro che vengono svegliati durante la fase REM, ricordano o si sorprendono del sogno
che stavano facendo e anche se non ricordano le scene la consapevolezza che stavano sognando. Si sogna a
intervalli di 90 minuti, dopo la fine delle 4 fasi. I sogni nell’intera notte durano:

 Il primo 10 minuti,
 L’ultimo 30 minuti o anche 50
 Man mano che finiamo i vari cicli, si possono accumunare fra di loro, quindi il soggetto può avere la
sensazione di aver sognato tutta la notte perché ricorda i sogni che si sono succeduti nelle diverse fasi.
 La durata della vicenda non corrisponde alla durata effettiva del sogno, mentre
sogniamo distorciamo il tempo reale? Noi possiamo avere la sensazione di avere sognato
tutta la n otte, e in realtà abbiamo sognato gli ultimi 10 minuti. La letteratura si basa sui
self-report degli individui che fanno parte dell’esperimento.
Quanto è importante il sonno REM? Quanto è importante sognare? Per rispondere a questa domanda, lo
studioso del sonno William Dement ha effettuato un esperimento con alcuni volontari, svegliandoli ogni
qualvolta entravano nel sonno REM. Questo esperimento ha dimostrato che anche il sogno ha una sua funzione
fisiologica, infatti noi abbiamo la necessita di sognare: ben presto, il bisogno dei soggetti di «tempo per
sognare» si fece impellente.
Alla quinta notte, i volontari venivano svegliati circa 20/30 volte per impedire loro di entrare nella fase REM.
Quando ai volontari è stato finalmente permesso di dormire indisturbati, la fase REM del sonno si è dimostrata
assai lunga, come se volessero recuperare il tempo che veniva tolto loro quando venivano svegliati. Questo
rimbalzo REM, o REM rebound, spiega perché gli alcolisti hanno incubi terribili dopo aver smesso di bere: è
come se il corpo dovesse recuperare il sogno perso e poi magari lo fa in maniera devastante. L'alcol riduce la
qualità del sonno sopprimendo il sonno REM. Quando si smette di bere, si innesca quindi un potente effetto
di rimbalzo.
Nei volontari dell'esperimento di Dement, si sono osservati vuoti di memoria, mancanza di concentrazione
e ansia. Per qualche tempo si è avuta l'impressione che le persone private di sonno REM potessero impazzire.
Ma esperimenti successivi hanno mostrato che la perdita di qualunque fase del sonno può provocare un effetto
di rimbalzo di quella fase. In generale, i disturbi che ci colpiscono durante il giorno sono legati alla quantità
totale e non al tipo di sonno perso.

IL SOGNO. Il sogno è un’esperienza psichica e mentale tipica caratterizzata da:


 Illogicità;
 Esperienza percettiva, in quanto ad esempio noi abbiamo veramente l’esperienza di fluttuare nell’aria
mentre stiamo volando, oppure se sogniamo di essere in un prato e odorare un fiore è chiaro che nel
sogno abbiamo la percezione dell’odore, della scena, dell’interazione;
 Svolgimento sequenziale, infatti si susseguono delle scene anche se a volte questa sequenzialità
contraddice la logica, per cui magari ricordiamo che nel sogno prima eravamo in un posto, poi ci
ritroviamo in un posto differente con una persona, e poi accanto a noi c’era una persona diversa dalla
precedente;
 Eventuali elementi di bizzarria;
 Frequente vissuto di partecipazione personale, l’individuo ha la sensazione di essere protagonista
del proprio sogno, di partecipare attivamente con la propria esperienza affettiva, emotiva;
 Inefficienza dell’esame di realtà;
 Perdita di controllo volontario del pensiero, infatti non possiamo sognare a comando, perché il
sogno ha una vita propria che a seconda delle varie interpretazioni anche psicodinamiche può essere
legata ad altre esigenze del nostro funzionamento psichico e mentale.

Le teorie del sogno. I contenuti del sogno riguardano esperienze della vita quotidiana (perché si attivano
una serie di aree) che però molto spesso vengono stravolte.
Alcuni autori che abbiano un significato nascosto e profondo (1);
Altri pensano che i sogni siano privi di significato (2);
Altri ancora che riflettano ciò che viviamo e proviamo durante lo stato di veglia (3).
Analizziamo queste posizioni:
La teoria psicodinamica del sogno (1). Questa teoria si focalizza sui conflitti interni e sulle forze inconsce.
Freud, nell’Interpretazione dei sogni, definisce il sogno come la guida per l’inconscio. Secondo lo
psicoanalista infatti il sogno è la soddisfazione allucinatoria di un desiderio inconscio. Il sogno per Freud
presenta:
 Un contenuto manifesto, che è la trama, il contenuto visibile, la scena vera e propria del sogno;
 Un contenuto latente (inconscio; contenuto simbolico), che è l'esito delle pulsioni non soddisfatte,
dei desideri rimossi che tendono a riemergere (ad esempio il complesso edipico), delle istante difensive
dell'io.
Dato che i sogni rappresentano desideri che minacciano la coscienza, i contenuti del sogno sono simboli onirici
o immagini a carattere simbolico: si arriva dunque al simbolismo onirico che attraverso il sogno consente
all'inconscio di svelarsi. Per Freud il sogno è l'esperienza inconscia che viene alla coscienza e deve venire
mascherata altrimenti causerebbe un trauma nel soggetto, per cui ad esempio
 Sognare treni in viaggio o viaggi generali può ricondurre alla morte;
 Se una donna sogna di rubare la fede all'amica, è perché è attratta dal marito;
 Andare a cavallo può indicare danzare o un rapporto sessuale.
Si arriva quindi a interpretazioni psicodinamiche del sogno che sono coerenti con la teoria che Freud propone.
L’ipotesi di attivazione/sintesi (2). Gli psichiatri Allan Hobson e Robert McCarley propongono una
spiegazione del sogno secondo l’ipotesi di attivazione/sintesi, per cui dobbiamo spiegarci il sonno a partire
da una base biologica.
1. Durante la fase REM si attivano in modo casuale i centri cerebrali inferiori, quindi il tracciato presenta
caratteristiche simili a quella del veglia.
2. Chiaramente, poiché i messaggi non possono essere trasferiti al corpo immobile, le cellule
comunicano l'attività ai centri corticali superiori: si attivano tutta una serie di aree a casaccio, per cui
si attiva l’area visiva, l’area percettivo-motoria, l’area delle emozioni, del movimento.
3. Per interpretare tali segnali il cervello attinge ai ricordi e crea il sogno.
Il sogno in realtà è caotico e bizzarro perché il processo di attivazione è caotico, in quanto i neuroni vanno
per così dire a “pescare” informazioni nelle varie aree del nostro cervello. Di fatto secondo queste ipotesi
biologiche non c’è un vero e proprio significato del sogno perché è soltanto frutto di una rappresentazione
casuale di informazioni, piuttosto che dalla censura come sosteneva Freud. In un certo senso, dunque siamo
noi che in qualche modo a posteriori, nel momento in cui ci svegliamo e prendiamo consapevolezza del sogno,
alla luce delle nostre esperienze precedenti o in vista di ciò che ci aspettiamo, diamo una rappresentazione del
sogno che abbiamo appena fatto. Questa ipotesi ritiene comunque che il sogno riflette e si crea sulla base di
tutte le esperienze passate, le conoscenze sedimentate nel nostro cervello che poi vengono rielaborate in
maniera casuale.
La teoria neurocognitiva del sogno (3). Secondo la teoria neurocognitiva elaborata da William Domhoff
non c’è una differenza qualitativa tra quello che accade da svegli e quello che accade mentre si dorme: i sogni
sono simili ai pensieri e alle emozioni vissute da svegli, per cui essi riflettono le nostre possibili preoccupazioni
o le nostre ansie quotidiane.
Durante il sonno, l’attività cerebrale rimane sempre attiva, pertanto i sogni sono un’esperienza quasi
consapevole/conscia dei vari processi che accadono durante la fase REM (di cui chiaramente noi non abbiamo
consapevolezza), e che continuano ad immagazzinare le esperienze quotidiane vissute. Per esempio
 I bambini affamati sognano il cibo;
 Il fidanzato deluso sogna la fidanzata in una condizione che le provoca imbarazzo e così via.
Quindi non bisogna ricercare dei significati reconditi e nascosti nel sogno, quanto invece ripensare un po’ alle
esperienze che più o meno nella realtà quotidiana abbiamo già vissuto. A volte per esempio gli studenti
sognano l’esame, e hanno come una sorte di anticipazioni rispetto a quello che può accadere per l’esame o
meno.
Qual è la funzione del sonno REM? Secondo l'ipotesi del doppio processo di regolazione del sonno, mentre il
sonno NREM «calma» il cervello, il sonno REM, grazie all’attivazione di una serie di centri, «mette a fuoco»
i ricordi legati alle esperienze più significative della giornata, che in qualche modo emergono nel sogno.
Il sonno REM ci serve un po’ per fare da supporto al “tempo del sognare”, per “allentare” le tensioni, lo stress
che si è accumulato, quindi ha una funzione di regolazione emotiva. Dunque laddove il sonno ortodosso, ci
fa ricaricare l’energia fisica, il sonno paradosso ci fa ricaricare per così dire l’energia emotiva, come se
attraverso il sogno (a prescindere che si tratti di desideri o ansie), allentassimo la tensione vissuta durante la
giornata.
Eventuali tensioni quotidiane tendono ad ampliare il tempo del sonno REM, che può dilatarsi quando, per
esempio, si verificano eventi quali lutti in famiglia, problemi di lavoro, conflitti coniugali o altri eventi
emotivamente pregnanti. Il sonno REM ci aiuterebbe a classificare e conservare i ricordi, soprattutto quelli
legati alle strategie utili alla risoluzione dei problemi (dormire dopo aver studiato!).
Attraverso il sonno REM riusciamo anche a consolidare le nostre esperienze e attraverso la rappresentazione
onirica riusciamo ad anticipare gli eventi come se fossero “sogni premonitori”.
N.B. In realtà però non possiamo dire se i sogni siano davvero promonitori o semplicemente se il nostro
cervello, che ha tante potenzialità nascoste, ci fa in qualche modo prefigurare degli scenari attesi, che poi per
casualità si verificano e trovano delle conferme a posteriori rispetto a quello che noi in qualche modo avevamo
già anticipato sulla base delle nostre reti di conoscenze di una determinata situazione, fenomeno o evento.
Jung, amante della cultura sciamanica, credeva ai sogni promonitori, in quanto secondo lui erano delle
anticipazioni di situazioni che possono capitarci nel futuro. Secondo invece l’ipotesi di attivazione/sintesi, il
sogno non è premonitore ma magari fa venire fuori in maniera casuale tutta una serie di attese che ognuno di
noi ha e che poi per coincidenza accadono davvero nella realtà.
Si evidenzia così l’importanza di utilizzare il sonno come capacità di recuperare le esperienze effettuate durante
la giornata, a maggior ragione quelle legate all’apprendimento, al consolidamento delle conoscenze e così via.

I disturbi del sonno. Esaminiamo adesso alcune problematiche legate al sonno, e in particolare:
L’insonnia Un’esperienza comune è l’insonnia, che può manifestarsi con l’incapacità o la difficoltà a
prendere sonno, risvegli frequenti durante la notte con incubi, risvegli precoci, o la combinazione di tutti questi
fenomeni.
Le cause. Questo disturbo può essere causato da preoccupazioni, eccitazione, ma in particolare dallo stress
che incrementa l’attività mentale e quindi impedisce di addormentarsi. L’insonnia infatti si inquadra nei
cosiddetti disturbi da stress, per cui si attiva il cortisolo, ed essendoci uno sbalzo ormonale che va ad attivare
i centri corticali, si crea questa difficoltà nell’addormentamento. In qualche modo si va a creare un circolo
vizioso, perché lo stress altera l’attività mentale, quest'ultima rende difficile l’atto del dormire, incrementando
l’insonnia. In questi casi infatti è consigliabile fare azioni piacevoli e andare a letto solo quando non si riesce
e si fa fatica a stare svegli
L’insonnia può anche essere causata da dipendenza da farmaci. Se il soggetto fa uso di sonniferi, avrà bisogno
sempre di quantità maggiori per favorire il sonno, così una volta sospesi i sonniferi che creano dipendenza, si
genera l’insonnia. Sebbene alcol e sonniferi aiutino nell’addormentamento, è vero che distruggono la qualità
del sonno e possono portare molti effetti collaterali (depressione, sonnambulismo…)
I rimedi. Il trattamento dell’insonnia cronica inizia con un’attenta analisi delle abitudini di sonno del paziente,
del suo stile di vita, dei livelli di stress a cui è sottoposto e di eventuali problemi medici. Naturalmente
l'insonnia può essere prevenuta o risolta con diverse tecniche:

 Controllo degli stimoli. Esercitare un controllo degli stimoli significa legare una risposta a specifici
stimoli, per esempio mantenendo dei ritmi costanti, andando a dormire sempre allo stesso orario ed
evitare di fare a letto altre attività che non siano il dormire (lettura, smartphone, ecc.);
 Limitazione o restrizione del sonno. È importante evitare di frammentare il sonno, con frammenti di
riposo alternati nell’arco di una giornata;
 L'intenzione paradossa, che consiste nel restare gli occhi aperti al buio il più a lungo possibile in
modo che il sonno arrivi inatteso;
 Il rilassamento tramite tecniche che rilassano la muscolatura, la meditazione o la visualizzazione di
immagini che calmino o allontanino l’ansia;
 L’esercizio fisico, il quale genera, dopo l’affaticamento, la necessità di riposo;
 L’assunzione di carboidrati, i quali secondo uno studio favoriscono il sonno (come le patate).
 Le sostanze stimolanti dovrebbero essere bandite.

Il sonnambulismoUn altro disturbo del sonno è il sonnambulismo (tipico dei bambini) il quale si manifesta
durante il sonno profondo (fase 3-4), quindi a differenza dell’insonnia, che si realizza nelle prime fasi, il
sonnambulismo si verifica quando il soggetto non è consapevole. Il sonnambulismo chiaramente non è
associato ai sogni, perché si verifica nelle fasi NREM.
L'attività motoria viene mantenuta: i soggetti si muovono con agilità nell’ambiente circostante (si alzano,
parlano, possono uscire di casa, quindi si deve prestare molta attenzione per la tutela del soggetto), hanno gli
occhi aperti, il viso pallido e un’andatura trascinata). Eccetto per casi di estremo pericolo, è un disturbo
innocuo e si deve avere la precauzione di non svegliare mai l'individuo, perché potrebbe generarsi un forte
trauma, ma accompagnarlo semplicemente a letto.

Incubi e terrori notturniAltri disturbi sono quelli degli incubi e dei terrori notturni.
 L’incubo è il cosiddetto sogno agitato, legato allo stress e si realizza nella fase del sonno REM, in
quanto l'incubo attiva delle paure recondite. A volte gli incubi sono sintomi disturbi post-traumatici
da stress, come nel caso di bambini che vengono maltrattati fisicamente o psicologicamente.
 I terrori notturni sono risvegli improvvisi durante il sonno N-REM (fase 4) accompagnati da paura,
panico, talora allucinazioni e forte eccitazione fisiologica. Un attacco può durare fino a 15-20 minuti:
i soggetti a volte urlano, si svegliano sudati, salvo poi riaddormentarsi subito e dimenticare l’attacco.
Questi sono tipici dei bambini di 3-4 anni (disturbi emotivi).
N.B. La melatonina non aiuta molto nei disturbi del sonno, infatti è meglio evitare l'introduzione di farmaci e
provare delle vie differenti per la risoluzione dei problemi del sonno. In forme particolarmente gravi si ricorre
all'assistenza terapeutica, per cui dato che lo psicologo non può prescrivere farmaci, viene affiancato dal
medico che ne ha facoltà.

L'apnea del sonno Una persona che russa sonoramente, con brevi silenzi, annaspamenti e sbuffi, potrebbe
soffrire di apnea nel sonno. Durante l'apnea, il respiro si ferma per periodi che possono andare da 20 secondi
a 2 minuti. Quando il bisogno di ossigeno diventa impellente, la persona si sveglia e respira, poi riprende a
dormire. Ma presto il respiro si ferma di nuovo e il ciclo si ripete, anche centinaia di volte per notte. Le persone
affette da apnea notturna soffrono anche di sonnolenza diurna.
Le cause. In alcuni casi la causa è il mancato invio da parte del cervello dei segnali che consentono al
diaframma di mantenere il ritmo del respiro. Un'altra delle cause è il blocco delle vie aeree superiori.
I rimedi. Uno dei rimedi più efficaci consiste nell'uso di una maschera che assicura la ventilazione delle vie
aeree e aiuta a respirare meglio durante il sonno, denominata CPAP a pressione continua positiva. Altre cure
possono essere la perdita di peso corporeo e la chirurgia per liberare le vie respiratorie ostruite.

SIDS. Sembra che l'apnea del sonno possa essere una delle cause della sindrome della morte in culla
(Sudden Infant Death Syndrome o SIDS). Ogni anno circa 2.500 lattanti muoiono a causa della SIDS.
Tipicamente accade che un neonato prematuro o molto piccolo con alcuni segni di tosse o raffreddore venga
avvolto nelle coperte e messo a letto. Dopo poco, i genitori scoprono che il bimbo è morto. Se un latente è
privato dell'aria, solitamente fa di tutto per respirare. Sembra tuttavia che i bambini colpiti da SIDS abbiano
una reazione di risveglio molto debole. Questo gli impedisce di cambiare posizione e riprendere a respirare
dopo un episodio di apnea.
I lattanti a rischio SIDS devono essere monitorati durante i primi sei mesi di vita. Per aiutare i genitori in questo
compito è possibile utilizzare un piccolo apparecchio che emette un segnale di allarme quando il respiro o il
polso diventano deboli. I lattanti a rischio di SIDS sono spesso prematuri, hanno un pianto molto acuto, durante
la notte sembra che a volte gli manchi il respiro o che «russino», e si svegliano di frequente durante il sonno;
respirano prevalentemente con la bocca aperta o rimangono passivi quando la faccia affonda nel cuscino o
viene coperta da un lenzuolo.
Un modo per diminuire il rischio della SIDS è usare la posizione supina, evitando cuscini, coperte, peluche,
etc.

La narcolessia Uno dei problemi più gravi legati al sonno è la narcolessia, ovvero attacchi di sonno
improvvisi e irresistibili, che durano da pochi minuti a mezz’ora. Questo disturbo è associato anche a situazioni
emotive importanti, quindi se ci sono situazioni di stress.
Colpisce i soggetti da svegli, indipendentemente dall’attività che stanno svolgendo, e si addormentano
dovunque, quindi la narcolessia è piuttosto pericolosa a seconda anche dell'azione che si sta svolgendo.
L’eccitazione emotiva, specialmente il riso, causa gli attacchi. I soggetti soffrono pure di cataplessia, una
paralisi temporanea e improvvisa dei muscoli che porta al collasso del corpo. Essi passano direttamente da
veglia a sonno REM; si è visto inoltre che gli attacchi di narcolessia e la cataplessia avvengono quando il sonno
REM si insinua nello stato di veglia.
L’ossibato di sodio riduce la frequenza e intensità degli attacchi. Bisogna attivare un lavoro psicologico per
capire se il problema è più medico o psicologico, in quanto la narcolessia aumenta in situazione di forte stress
emotivo, per cui i soggetti collassano.
La terapia psicologica di sostegno è fondamentale quando la narcolessia è un sintomo causato da un malessere
emotivo: è associata infatti con il disturbo post-traumatico da stress, quindi andando a risolvere quest'ultimo
si risolve la narcolessia che non è un disturbo primario. Se invece è il disturbo primario si deve intervenire con
supporti farmacologici.
Fortunatamente la narcolessia è rara, ma colpisce membri di una stessa famiglia: ciò dimostra che è ereditaria
e quindi ci sono anche cause genetiche.

Altri stati alterati della coscienza. Ci possono essere altri stati alterati di coscienza, oltre al sonno, essi
sono:
Ipnosi (1);
Meditazione (2);
Uso sostanze psicoattive (3).
 Assuefazione/dipendenza
Ipnosi (1). Mesmer nel 700 usa magneti per ipnosi. Braid nel 800 con il termine ipnosi da hypnos, che nella
sua traduzione significa “sonno”, indicò lo stato ipnotico. L’ipnosi è uno stato modificato di coscienza,
diverso dal sonno, che consiste in un restringimento dell’attenzione e una maggiore disponibilità alla
suggestione.
Hildgard sostiene che l’ipnosi causa uno stato dissociativo della coscienza. Esperimento della bacinella
d'acqua fredda dove gli ipnotizzati mettono la mano e scrivono mi fa male (osservatore nascosto; uso di
memoria implicita durante le azioni sotto ipnosi).
Per gli altri autori sono arrendevolezza, obbedienza, rilassamento, o autosuggestione. I soggetti ipnotizzati
agiscono per l'effetto primario di suggestione, ovvero compiono le azioni richieste come se fossero
involontarie, automaticamente senza sforzo. Esistono differenze individuali nella suscettibilità ipnotica.
Quali sono gli effetti dell’ipnosi?
 Non aumenta la forza fisica.
 Incrementa la memoria, ma anche i falsi ricordi (no testimonianza ai processi).
 Determina amnesia nel soggetto.
 Genera sollievo dal dolore.
 Consente la regressione infantile.
 Determina modificazioni sensoriali (odori, colori, ecc.)
Meditazione (2). La meditazione è un esercizio mentale che focalizza l'attenzione interrompe il flusso di
pensieri e preoccupazioni. E’ un efficace metodo di rilassamento. Ci sono due tecniche di meditazione:
 Mediazione concentrativa (training autogeno) con essa si aiutano le partorienti aiutandole a
focalizzarsi su un punto fisso per superare i dolori del parto.
 Mindfulness è una meditazione di consapevolezza che allarga l'attenzione fino ad una consapevolezza
totale: è una tecnica basata sulla consapevolezza emotiva che porta il soggetto ad avere piena coscienza
del suo stato emotivo fino a creare una sorta di “straniamento” rispetto alla situazione di stress che sta
vivendo per avere una consapevolezza di quella che è la condizione emotiva (camminare in foresta in
modo calmo e rilassato).
Sono tutte tecniche di rilassamento che cercano di allentare le tensioni. Determina una risposta di rilassamento
innescata anche da brevi e intense esperienze di deprivazione sensoriale; viene usata da sportivi per favorire la
prestazione atletica, ma anche in ambito psicoterapico.
Sostanze psicoattive (3).
 Vi sono farmaci che alterano le capacità di attenzione, giudizio, memoria, autocontrollo, senso del
tempo, ecc.
 Si snodano lungo il continuum di sostanze stimolanti (aumentano attivazione corporea) e calmanti
 Uso e abuso di sostanze è sintomo di disagio psicologico, più che causa dello stesso.
 La dipendenza fisica porta effetto di tolleranza (risposta ridotta all’uso della sostanza; aumento e
overdose) e crisi di astinenza.
 Dipendenza psicologica: bisogni e gratificazioni associati alla sostanza;
 Uso sperimentale, sociale-ricreativo; situazionale; intensivo e compulsivo della sostanza.
 Stimolanti/Calmanti/Allucinogeni
LEZIONE 11/12/2020.

L’APPRENDIMENTO
L’apprendimento è un argomento che riguarda il modo attraverso cui, secondo un processo continuo,
acquisiamo nuovi comportamenti in maniera stabile e duratura nel tempo. È fondamentale capire quelli che
sono i meccanismi che stanno alla base di questo processo fondante dell’esistenza umana.
Le domande che bisogna porsi sono: cosa significa fare esperienza? Che cosa significa cambiamento stabile
e duraturo nel tempo?

Che cosa significa apprendere? L’apprendimento è un processo continuo basato sull’esperienza che si traduce
in un mutamento relativamente stabile e duraturo del comportamento. Fare esperienza significa:
 entrare in relazione con l’ambiente esterno;
 acquisire dei dati di quell’ambiente (secondo approccio comportamentista, cognitivista;
 raccogliere delle informazioni su quell’evento, situazione, fenomeno;
 emetto delle risposte connesse alla modifica del fenomeno stesso.

Caratteristiche dell’apprendimento. Le caratteristiche dell’apprendimento sono:


La capacità che l’individuo ha di acquisire dei dati dall’ambiente (fare esperienza di qualcosa) ed
emettere delle risposte come conseguenza a quell’evento che ha appena esperito (situazione che è
capitata). Le risposte emesse dall’individuo sono legate a precedenti esperienze, precedenti
acquisizioni che l’individuo ha depositato nella sua memoria a lungo termine.
Un'altra caratteristica dell’apprendimento, come processo cognitivo, è quella di non poterlo dividere
dalla memoria. Non ci può essere apprendimento senza memoria e non ce memoria senza
apprendimento. Cosa metto nella memoria? Eventi, conoscenze che io ho appreso o delle quali ho
fatto esperienza. Il fare esperienza è una pima caratteristica dell’apprendimento che si integra con altre
funzioni cognitive.
Un'altra importante differenza è la necessita di dover separare nettamente il concetto di apprendimento
con il concetto di maturazione. Quando pensiamo a fare esperienza di qualcosa pensiamo ad una
relazione continua con l’ambiente e quindi in qualche modo pensiamo, rispetto alle nostre conoscenze,
che gli individui imparano perché crescono, maturano. La maturazione, lo sviluppo è un processo
biologico che riguarda la maturazione biologica.
Esempio→ il bambino che impara a camminare, non sta apprendendo a camminare ma sta maturando
biologicamente, sta maturando il suo sistema psico-motorio e arrivato ad un certo punto della sua esistenza, da
zero al primo anno, raggiunge quelle tappe di sviluppo biologico, fisiologico ed evolutivo. In questo modo il
suo sistema motorio riesce a supportare la capacità di alzarsi e camminare in maniera bipede come gli adulti.
Il bambino non ha imparato a camminare, è maturato biologicamente.

Quando impariamo qualcosa? Quando acquisiamo dei comportamenti nuovi o delle abilità nuove che prima
non possedevamo. Se io non so giocare a calcio e decido di prendere lezioni, ho imparato un nuovo repertorio
di comportamenti che prima non avevo. Se siamo in grado di replicare, significa che l’apprendimento non è
uno stato transitorio, ma l’apprendimento è una modificazione che si mantiene stabile nel tempo.

L’esito prestazionale. Che cosa vuol dire che siamo in grado di acquisire un nuovo comportamento?
Significa che noi, nel momento in cui, abbiamo frequentato il nostro allenamento sportivo alla scuola calcio,
a quel punto siamo in grado di giocare a calcio perché ne osserviamo gli esiti: l’ESITO PRESTAZIONALE.
L’apprendimento determina un cambiamento comportamentale nelle nostre prestazioni, ovvero le nostre
azioni, le cose che siamo in grado di fare. Questo cambiamento prestazionale non è soltanto un effetto che noi
osserviamo empiricamente, ma ci sono una serie di esperimenti di tipo neuroscientifico che dimostrano come
vengono modificati i nostri neuroni.
Gli effetti neuronali. Si attivano al livello neuronale una serie di reti, nuove connessioni neuronali, che
determinano la sedimentazione di quella esperienza che abbiamo fatto nel nostro cervello. Questa riattivazione
o attivazione di nuove reti neuronali è possibile in virtù della caratteristica di plasticità del nostro SNC che è
capace di creare nuove connessioni neuronali.
La plasticità cerebrale è fondamentale perché ci consente di acquisire nuove conoscenze e ci consente, laddove
alcune precedenti acquisizioni vengono perse, di trovarne delle nuove. È importante anche per i processi di
neuroriabilitazione cognitiva: ci possono essere dei processi di nuova riorganizzazione neuronale che portano
gli individui ad essere in grado di emettere nuovi comportamenti o essere in grado di riprendere quelli
precedentemente acquisiti. Si verificano dei cambiamenti neuronali, si modificano le connessioni sinaptiche
tra i neuroni. L’esito comportamentale (prestazione) può essere influenzato dall’ansia, dalle nostre
motivazioni ad apprendere ecc…

Cambiamento stabile e duraturo. La prestazione comportamentale è stabile e duratura e si manterrà costante


nelle diverse circostanze. Se interrompo l’esercizio, regredisco a livelli precedenti ma il recupero è più veloce
rispetto a chi non ha mai fatto pratica. Questo spiega il fatto che l’apprendimento è permanente e rimane nella
nostra memoria a vita.

Tipi di apprendimento. È possibile distinguere due tipi di apprendimento:

 Apprendimento associativo, che si verifica quando un essere umano o una persona opera
un’associazione tra diversi stimoli e/o risposte;
 Apprendimento cognitivo, che comporta attività di comprensione, conoscenza ed è fondato su
processi mentali superiori. Forme di apprendimento cognitivo complesse sono prettamente umane, ma
vi sono delle forme più semplici adottate dagli animali.

L’APPRENDIMENTO ASSOCIATIVO.
Ripetere un determinato comportamento (sport), non è sufficiente per l’apprendimento, ma l’individuo deve
creare un’associazione tra stimoli antecedenti e stimoli conseguenti, quindi questo principio si basa
sull’associazione tra un evento che accade prima (stimoli antecedenti) e un evento che accade dopo (stimoli
conseguenti), in risposta all’evento antecedente. Pertanto, essendoci, un evento che accade prima, l’individuo
emette una risposta e a quel punto l’apprendimento avviene, creando un’associazione.
All’interno dell’apprendimento associativo, distinguiamo due grossi modelli, che sono:
 Il condizionamento classico: l’associazione è tra due stimoli al quale poi si associa una risposta;
 Il condizionamento operante: l’associazione è tra la risposta e la conseguenza della risposta stessa,
cioè il rinforzo.
Il condizionamento classico, con Pavlov, non si concentrerà sul conseguente, ma solo sul rapporto tra stimolo
e risposta. Nel caso di Pavlov, l’associazione sarà tra due stimoli che causeranno una risposta, cioè
l’APPRENDIMENTO.
Nel condizionamento operante, l’associazione che si crea è tra risposta e rinforzo; lo stimolo sarà presente,
ma non determinante per la risposta, la quale si associa alla conseguenza stessa, cioè il rinforzo (elemento
chiave del condizionamento operante).

Il condizionamento classico.
Nasce con Ivan Pavlov, fisiologo russo, che stava conducendo degli esperimenti sui meccanismi digestivi dei
cani, che lo portarono alla scoperta del condizionamento classico e alla vincita del premio Nobel.
I suoi studi erano mirati sullo studio del riflesso salivare dei cani alla visione del cibo, infatti, per misurare tale
riflesso, lo studioso, usava una fistola che era in grado di misurare la salivazione dell’animale che corrisponde
allo stimolo incondizionato, in quanto privo di condizione, azione che il cane svolgeva naturalmente.

Lo studioso notò a lungo andare che i cani iniziavano a salivare, prima della visione del cibo; a causa di questa
osservazione Pavlov si dedicò ad uno studio più approfondito. Egli notò che ogni volta che l’assistente entrava
all’interno della stanza per somministrare il cibo all’animale, una luce si accendeva e, i cani, associando la
visione della luce alla somministrazione del cibo, iniziavano a salivare prima. Ciò significa che gli animali in
osservazione avevano associato due stimoli: lo stimolo luce e lo stimolo cibo.
La luce (stimolo neutro) che non produceva una risposta si era associato con un altro stimolo incondizionato
(il cibo) che invece produceva una risposta fisiologica, per produrre una risposta condizionata (saliva). A
questo punto, la saliva non è più un riflesso ma è frutto dell’associazione tra luce e cibo.
Dunque, vi sono due stimoli:
- Stimolo cibo, che produce la saliva (incondizionato);
- Stimolo luce o campanello, che è neutro prima del condizionamento.
Durante il condizionamento comincia l’associazione, Pavlov inizia a far vedere in maniera contingente i due
stimoli associati e inizia il processo di apprendimento. È in questa fase che il cane inizia ad emettere il riflesso
incondizionato, poiché il cane vede il cibo che automaticamente gli fa produrre la saliva, quindi non si può
ancora essere certi che il cane abbia compiuto l’associazione.

L’apprendimento vero e proprio nasce quando il cane saliva alla sola vista del campanello, e questo ci
conferma che ha appreso il comando, in quanto emette un riflesso condizionato alla sola vista del campanello,
che non è più uno stimolo neutro ma condizionato.

Alcuni termini:
 Riflesso= risposta innescata naturalmente, attivata da stimoli specifici, biologicamente rilevanti per
l’organismo (cibo, acqua, sesso, scossa elettrica, ecc);
 Stimolo incondizionato (SI)= qualsiasi stimolo che attiva un riflesso sul piano fisiologico (cibo);
 Risposta incondizionata (RI)= comportamento attivato naturalmente dalla risposta incondizionata
(ovvero non appresa perché non vi è ancora apprendimento);
 Stimolo neutro (SN)= qualsiasi stimolo non inizialmente associato ad alcuno stimolo o risposta
comportamentale. Presentato per la prima volta produce una risposta di orientamento (RO), legata
ad una risposta attentiva (campanello, stimoli luminosi, guinzaglio);
 Stimolo condizionato (SC)= stimolo, inizialmente neutro, che attiva un comportamento, a condizione
che sia associato con uno stimolo incondizionato;
 Risposta condizionata (RC)= comportamento attivato dallo stimolo condizionato, dopo una serie di
prove.

I Principi del condizionamento classico. I meccanismi del condizionamento sono:


1. Acquisizione (1), fase di acquisizione del comportamento;
2. Estinzione (2), fase di estinzione del comportamento (non sempre accade);
3. Recupero spontaneo (3), recupero del comportamento (se prima si è estinto);
4. Generalizzazione dello stimolo (4), emissione di risposte simili attuando dei principi di
generalizzazione;
5. Discriminazione dello stimolo (5), emissione di risposte diverse attuando principi di discriminazione.
Acquisizione (1). Nella fase di acquisizione vengono presentati entrambi gli stimoli (SC: campanello e SI:
cibo) e il livello di salivazione aumenta. La risposta
condizionata (RC) è appresa come reazione a uno
stimolo condizionato (SC). La RC aumenta
gradualmente di frequenza in funzione delle prove
ripetute.
In questa fase è fondamentale la contiguità spaziale
e temporale tra i due stimoli associati.
Associazione: SC+SI deve essere ripetuta più volte
nel tempo perché si attivi la RC.
Contiguità spaziale e temporale tra SC e SI è
fondamentale perché si inneschi il
condizionamento.
- Lo SI deve essere fornito immediatamente dopo lo SN (da mezzo sec a 5 sc).

AspettativaUn altro elemento importante nella fase di acquisizione è che lo stimolo condizionato
(campanello) deve precedere, di massimo 5 secondi, la presentazione dello stimolo incondizionato (il cibo)
perché si crea un’aspettativa, cioè si innesca nelle aree sottocorticali del talamo e dell’amigdala l’aspettativa.
Dunque, la reazione fisiologica, cioè la salivazione seguirà sempre dopo lo stimolo condizionato. Se vogliamo
far salivare il cane solo alla vista del campanello, dobbiamo creare l’aspettativa del fatto che il campanello gli
porterà il cibo. Per fargli creare tale aspettativa, prima devo suonare il campanello e immediatamente dopo gli
devo presentare il cibo.
Lo stesso esempio lo si può fare con il mare; se io stavo per annegare in mare, ogni volta che vedo quest’ultimo
mi allontano.

Condizionamento di ordine superioreDurante il nostro apprendimento creiamo delle condizioni e siamo


in grado di creare dei condizionamenti di ordine superiore, cioè la risposta precedentemente appresa si associa
ad un nuovo stimolo (battito delle mani) e, a quel punto, si è innescato un condizionamento di ordine superiore,
creando un nuovo apprendimento. Ad essere basato su questo principio sono le tecniche pubblicitarie, di cui
ha parlato Watson.

Estinzione (2). Quando si toglie lo SI (cibo) dalla vista del cane e si presenta solo lo SC (campanello) ancora
i livelli di apprendimento sono alti ma, pian piano, i livelli di salivazione diminuiscono. Dunque, se si continua
a presentare solo lo stimolo condizionato senza far vedere più il cibo, la risposta condizionata diminuisce, fino
a dimenticare quasi l’apprendimento.

Recupero spontaneo (3). Quando i due stimoli vengono ripresentati insieme, inizia il processo del recupero
spontaneo, in cui il cane inizia di nuovo a eseguire la risposta condizionata. Questo dimostra che
l’apprendimento è permanente, perché il cane non dimentica il comando.

Generalizzazione dello stimolo (4). La risposta condizionata viene generalizzata a classi di stimoli aventi
caratteristiche simili allo stimolo condizionato iniziale però ci sono dei livelli soggettivi in quanto ognuno di
noi può essere più o meno sensibile a rispondere a stimolo che hanno caratteristiche simili. Si tratta di un
processo adattivo che favorisce la capacità di rispondere a diverse situazioni aventi caratteristiche simili. Se le
caratteristiche dello stimolo sono diverse da quelle originarie, non innescheremo alcun processo di
generalizzazione.

Discriminazione dello stimolo (5). Così come vi è un processo di generalizzazione dello stimolo per cui
la nostra risposta si amplia, c’è anche un processo di discriminazione dello stimolo, cioè noi siamo condizionati
a rispondere in maniera specifica solo ad un tipo di stimolo. Tale processo, connesso alla capacità di rispondere
in modo differente a stimoli simili, è fondamentale per la categorizzazione mentale (tono di voce dei genitori).
In relazione alla generalizzazione e discriminazione possiamo affermare che si tratta di due meccanismi
speculari:
 La generalizzazione ci fa ampliare;
 La discriminazione ci fa restringere i repertori comportamentali.
Tuttavia, sono entrambi necessari perché consentono all’individuo di mettere in atto delle risposte specifiche
a quelle che sono le richieste ambientali.

Comportamenti appresi mediante condizionamento classico. Così come noi apprendiamo repertori
comportamentali legati ad azioni, prestazioni, apprendiamo anche le nostre paure e possiamo emettere anche
risposte emotive condizionate. Questo lo abbiamo visto con l’esperimento sul piccolo Albert di Watson, in cui
il bambino viene condizionato ad avere paura dei conigli e caratteristiche simili.
Quindi anche le nostre paure, secondo la visione comportamentista, sono esito di condizionamenti,
associazioni.

Paure oppresse. Una fobia è una paura che si manifesta anche quando non esiste un pericolo reale. Molte
fobie sono risposte emotive condizionate o reazioni emotive apprese a uno stimolo precedentemente neutro.
Tutte quelle fobie che nascono per associazioni si possono generalizzare (fino a compromettere il benessere
del soggetto) e vengono regolate fisiologicamente dal funzionamento dei centri dell’amigdala e del sistema
limbico, che regola la paura. Così come veniamo condizionati ad avere delle reazioni di paura di fronte a
stimoli neutri, in realtà con nuovi apprendimenti possiamo essere in grado di superare, e quindi di estinguere,
le paure apprese. È per questo motivo che i comportamentisti hanno inventato le cosiddette tecniche di “contro-
condizionamento’’.

Contro-condizionamento. Il contro-condizionamento è la tecnica utilizzata per condizionare il soggetto; se


io associo una paura ad un’esperienza positiva si può superare la paura.
Le paure condizionate possono essere estinte attraverso una particolare tecnica, utilizzata nella terapia
comportamentale, la “desensibilizzazione sistematica”, realizzabile mediante l’avvicinamento progressivo
allo stimolo per produrre un nuovo comportamento, cioè una graduale esposizione allo stimolo temuto in
condizioni di relax.
Quando si tratta la fobia, quindi quando voglio fare si che il soggetto superi una situazione di paura utilizzo
uno stimolo positivo/appetivo, ma se per esempio voglio contro-condizionare un soggetto alcolista è chiaro
che devo utilizzare uno stimolo avversivo.
Il condizionamento vicario. Il condizionamento classico vicario si verifica quando impariamo a rispondere
a uno stimolo neutro osservando le reazioni emotive di un'altra persona. Per esempio, i bambini che imparano
ad avere paura dei tuoni guardando le reazioni dei loro genitori, subiscono lo stesso tipo di condizionamento.

Il condizionamento operante.
Se il condizionamento classico dimostra che si applica in varie circostanze della nostra vita, dall’altro lato è
pur vero che la condizione sperimentale è l’idea di un soggetto completamente passivo che in qualche modo
registra stimolo dall’esterno alla quale poi ci abituiamo.

Pavlov nei suoi esperimenti metteva il cane in una posizione di “passività” e quindi non poteva agire
liberamente nell’ambiente, ovvero non poteva operare delle risposte spontanee. Quindi si passa da un
condizionamento classico ad un condizionamento operante (o apprendimento strumentale) che si basa sullo
studio di comportamenti “volontari’’ e autonomi messi in atto dal soggetto e non sui riflessi automatici, passivi
di fronte a determinati stimoli. Cambia la prospettiva, in quanto da una condizione di passività ad una
condizione di attività del soggetto, libero di agire e, quindi, di apprendere per effetto dell’esito che la risposta
ha sull’ambiente.
Dunque, noi agiamo per l’associazione che si viene a creare tra le risposte spontanee che noi mettiamo in atto
e l’effetto che quelle risposte hanno sull’ambiente.
Legge dell’effetto di Thorndike. Thorndike è un comportamentista ed è colui che ha scoperto la “legge
dell’effetto”.

Esperimento: a differenza di Pavlov che presentava ai cani


cibo e campanello, Thorndike fa i suoi esperimenti con i gatti.
I gatti vengono inseriti all’interno di una scatola con
all’interno una leva che se è premuta si apre la porticina che
permetterà al gatto di andare a prendere il suo cibo.
In realtà in questo momento, il cibo è messo fuori dalla scatola
di plexiglass e viene di conseguenza visto dal gatto, i cui
comportamenti sono attentamente osservati.
I comportamenti, più o meno casuali, emessi dal gatto sono
ovviamente tutti finalizzati al cercare di aprire la porta: graffia,
si muove, cerca di toccare la leva; fino a quando ad un certo
punto fa tutta una serie di prove, che chiaramente sono anche
associate ad una serie di errori. Alcune volte, toccando o
muovendosi, riusciva ad aprire attraverso la leva e andarsi a prendere il cibo, altre volte no.

Che cosa osserva Thorndike? Egli osserva che:


• Gatti agivano una serie di risposte impulsive per uscire dalla gabbia; a poco a poco, scoperte quelle
azioni che garantivano un “effetto” positivo (aprire la porta), fissarono solo quelle che li avevano
portati al successo.
• Gatti scoprono la connessione Stimolo-Risposta dopo una serie di tentativi, o “prove ed errori”.

Meccanismo di prove ed errori. Thorndike osserva proprio che date le risposte impulsive che il gatto
cominciava ad emettere per cercare di uscire dalla gabbia e prendere il cibo; a poco a poco il gatto metteva in
atto quelle azioni che gli garantivano l’effetto positivo, cioè mette in atto quelle azioni che gli garantivano di
aprire la porta e raggiungere il cibo.
Il meccanismo di apprendimento che scopre Thorndike è il meccanismo di prove ed errori, per cui mette in
evidenza come l’apprendimento avvenga solitamente dopo una serie di tentativi, i quali poi vengono
differenziati tra loro in quanto si tende progressivamente a mantenere quelli che hanno meno errori; quelli che
hanno un effetto positivo.
Esempio: se un certo metodo di studio adottato mi porta ad un esito positivo, è chiaro che studierò tutte le
materie applicando sempre quel metodo di studio; ricorda il famoso detto: “Sbagliando si impara”.

La legge dell’effetto che Thorndike formula include la probabilità di attuare una risposta dipende
dall’effetto che ha; è più probabile che vengano ripetute le risposte che hanno un effetto positivo.
Secondo tale legge tendiamo a ripetere delle azioni solo se queste hanno avuto esito positivo.
Viene in questo modo rovesciata la prospettiva del condizionamento classi e la relazione che viene a crearsi è
tra il comportamento e le sue conseguenze (positive o negative).
Mentre Pavlov è più a livello di antecedenti (due stimoli= una risposta), il condizionamento operante è più sul
versante dei conseguenti (associazione risposta-conseguenza).
E’ chiaro quindi che veniamo influenzati dall’esperienza passata perchè le esperienze pregresse ci consentono,
così come succedeva con il famoso gattino di Pavlov, di affinare i nostri errori, di mettere in atto quelle azioni
di maggiore successo, che ci hanno portato agli esiti sperati.
Skinner e la “skinner box”. Gli esperimenti di
Thorndike vengono sistematizzati da Skinner che
fa alcuni esperimenti con i ratti. Partendo dalla
legge dell’effetto appunto, Skinner
(comportamentista, appartenente alla corrente
watsoniana) inventa la famosa “Skinner box” o
“scatola di Skinner”, grazie a cui inizia, in
laboratorio, una serie di esperimenti su cavie
animali, i ratti.
Rispetto alla preparazione di Thorndike, in questo
caso il cibo è ben visibile al gatto e dentro la
scatola è presente solo una leva, dunque, l’animale è libero di muoversi e quando pigia la levetta ottiene la
pallina di cibo. Dunque, viene messo in atto un comportamento operante o strumentale, perché il fatto di pigiare
la leva è strumentale all’ottenimento del cibo. Risulta strumentale perché fa ottenere una ricompensa e pertanto
il soggetto opera attivamente nell’ambiente.
EsempioA volte il pianto dei bambini è un comportamento strumentale, il bambino infatti piange perché
vuole attirare l’attenzione della mamma per ottenere un beneficio.
Per tornare all’esperimento quindi, il ratto inizialmente gira nella gabbia e poi preme casualmente la leva.
Ottiene il cibo e quindi inizia a “modellare” il suo comportamento sulla base degli effetti che il comportamento
stesso ha sull’ambiente.
In questo caso il cibo ha valore di rinforzo (cioè quell’elemento che tende ad aumentare la probabilità che il
comportamento in questione venga messo in atto, in quanto ogni volta che il ratto preme la leva ottiene una
pallottola di cibo e si manifesta così un esito positivo nell’ambiente) quindi altera la frequenza di emissione
di un comportamento in relazione all’ottenimento del cibo. La prima volta può anche toccare la leva per caso,
ma nel momento in cui la pigia e nota di ottenere qualcosa, il rinforzo, l’effetto che la risposta ha nell’ambiente
modella il comportamento del topo.

LEZIONE 17/12/2020.
Informazioni e Contingenza. Il condizionamento operante è un meccanismo di apprendimento che si fonda
sul fatto che il soggetto che apprende è consapevole delle informazioni che sono presenti nel suo ambiente
circostante (il ratto è consapevole che c’è la leva e pigiandola otterrà qualcosa) e sull’aspettativa riguardo al
fatto che una determinata risposta avrà un determinato effetto (il ratto è infatti consapevole del risultato della
sua azione); l’aspettativa è una rappresentazione mentale che ci consente di anticipare le conseguenze che il
nostro comportamento avrà (io mi aspetto che facendo qualcosa cambierà l'ambiente).
Il processo del condizionamento operante si basa, come in Pavlov, anche sul principio della contingenza:
 Mentre per Pavlov la contingenza doveva essere legata alla presentazione simultanea dello stimolo
condizionato e dello stimolo incondizionato (campanello e cibo) in un determinato spazio e tempo;
 Per il condizionamento operante, invece il principio della contingenza è legato alla risposta.
Per questo motivo, in base alla seconda prospettiva, l’apprendimento è migliore se il rinforzo è contingente
alla risposta. Il principio della contingenza nel condizionamento operante è legato alla presentazione
simultanea tra emissione della risposta e ottenimento del rinforzo. Per esempio pensando sempre
all’addestramento degli animali, è chiaro che se dò una pallina di cibo nell’immediata emissione della risposta
da parte dell’animale, quella forma di apprendimento sarà ovviamente più consistente, quasi immediata.
Quindi questo principio della contingenza tra la nostra risposta e l’effetto che quell’azione produce
nell’ambiente è anche alla base di tutta una serie di comportamenti di natura sociale che si possono
rappresentare come le nostre credenze superstiziose; infatti la superstizione nasce perché alcuni nostri
comportamenti vengono innescati da dei rinforzi contingenti che capita abbiano degli effetti nel positivo o
nel negativo della realtà, innescando una serie di comportamenti rituali. Ad esempio se uno sportivo bacia una
monetina e poi vince, ricollega la vittoria al bacio della moneta.

Il momento del rinforzo Il rinforzo operante è più efficace quando segue rapidamente una risposta corretta.
Infatti per i ratti nella gabbia di Skinner l’apprendimento è limitato o nullo se i tempo tra la pressione sulla
leva e quello in cui ottengono il cibo è superiore a 50 sec. In genere si possono avere dei risultati migliori se
viene somministrato un rinforzo immediatamente dopo una risposta che si vuole cambiare. Per questo ad
esempio un bambino gentile e disponibile deve essere lodato subito dopo per il suo comportamento.

Il modellamento o shaping. Talora si vogliono <<insegnare>> specifiche risposte complesse da emettere.


Applicando i principi del condizionamento operante, noi riusciamo a modellare il comportamento
dell’individuo, nel senso che riusciamo in qualche modo ad insegnare agli altri (un po’ come aveva fatto Pavlov
quando insegnava al cane ad emettere la saliva al suono del campanello), per mezzo della tecnica del
modellamento o shaping ad apprendere comportamenti complessi attraverso il rinforzo di comportamenti che
di volta in volta si avvicinano al comportamento desiderato.
Un comportamento complesso viene scomposto nei comportamenti che lo caratterizzano e, per rinforzo
progressivo, si arriva al comportamento finale; quindi piano piano si modella il comportamento in relazione
al raggiungimento della meta finale. Ad esempio, invece di aspettare che il ratto prema la prima volta la leva
in modo accidentale, il che potrebbe richiedere moltissimo tempo, potremmo modellare il suo comportamento.
Immaginiamo che l'animale non abbia ancora imparato a premere la leva. Come prima tappa decidiamo che
debba soltanto arrivare davanti alla leva. Perciò, ogni volta che si dirige verso la leva, viene rinforzato con del
cibo. Ben presto il ratto passerà la maggior parte del tempo di fronte alla leva. Poi, rinforziamo il suo
comportamento ogni volta che fa un passo verso la leva. Se invece torna indietro, non riceverà alcun rinforzo
positivo. In altre parole, si rinforzano le <<approssimazioni successive>>.

Questa tecnica è alla base di tantissime tecniche di istruzione programmata, come l’apprendimento di una
disciplina sportiva, la strutturazione di un percorso accademico.
 Ad esempio quando un allenatore deve insegnare ad un bambino a giocare a calcio, lo deve aiutare a
padroneggiare una serie di comportamenti che lo porteranno ad essere efficace rispetto a quel gioco;
quindi se l’obiettivo è fare goal, bisogna prima saper correre, saper tenere la palla ai piedi, saper fare
i passaggi, saper anche ricevere la palla dagli altri...
 Quando la meta finale è l’ottenimento della laurea, essa si può raggiungere solo attraverso il
superamento dei vari esami per rinforzo (il voto) o dal superamento/non superamento dell’esame
stesso (in questa tecnica di modellamento poi vedremo però che si innescano anche diverse variabili
personali).
 Questa tecnica di modellamento è importantissima perché ancora oggi viene utilizzata in vari campi
di riabilitazione clinica o psicologica, per esempio nelle tecniche di gestione dei comportamenti
problematici o dell’acquisizione di nuovi comportamenti da parte di soggetti con disturbi dello spettro
autistico, come la tecnica ABA.
Nel condizionamento classico accadeva che il processo di acquisizione del comportamento era caratterizzato
dalla frequenza di presentazione contingente dei due stimoli; adesso la tecnica di acquisizione di un
comportamento è basata sul modellamento, caratterizzata dall'avvicinamento progressivo, e quindi sul
rinforzo progressivo delle varie risposte che il soggetto emette.

L’estinzione operante. L'estinzione di un comportamento, secondo la prospettiva del comportamento


operante, si verifica quando la risposta non viene seguita da un rinforzo per diverse volte, quindi il
comportamento si estingue quando questo non viene più rinforzato. A differenza nel condizionamento classico
in Pavlov, l’estinzione era legata alla continua presentazione dello stimolo condizionato, senza che questo fosse
seguito da quello incondizionato.
Inoltre, mentre per Pavlov tutto era immediato, vi era un calo brusco nella frequenza di un comportamento,
l’estinzione operante è un processo lento: inizialmente la frequenza di emissione della risposta diminuisce
rapidamente; poi però può esserci una fase di recupero spontaneo e quindi si ripresenta la risposta. La semplice
eliminazione del rinforzo non fa estinguere completamente un comportamento.

Esempio Poniamo il caso di essere uno studente che ha sviluppato la credenza che un determinato metodo
di studio porti ad eccellere. Chiaramente replicheró questo comportamento, ma ad un certo punto il metodo di
studio non mi dà più gli esiti sperati. È chiaro che a quel punto, tenderò a desistere e a non mettere di nuovo
in atto lo stesso comportamento. Poi accade che supero una materia applicando di nuovo quel metodo, e allora
il comportamento si ripresenterà. Quindi si tratti di un processo lento e graduale.
Al contrario, secondo il comportamento operante, per fare estinguere completamente un comportamento non
è sufficiente non rinforzarlo più, ma occorre associare ad esso un rinforzo, quindi bisogna associare un rinforzo
ad un'azione positiva.

Esempio Poniamo il caso di un bambino capriccioso che viene considerato e rimproverato dai genitori ogni
volta che fa capricci, e ignorato tutte le altre volte in cui non ne fa. Paradossalmente questo finisce per
rinforzare il comportamento del bambino, in quanto quest'ultimo ha l'attenzione dei genitori quando fa i
capricci e tendenzialmente ne farà di più. Per estinguere il comportamento bisognerebbe ignorare tutte le volte
in cui fa i capricci e gratificarlo, dargli un rinforzo tutte le volte che non fa capricci.

Rinforzo e rinforzatori. A questo punto è possibile attenzionare meglio il concetto di rinforzo e di


rinforzatore:
 Un rinforzo è un evento che segue una risposta e che aumenta la probabilità che questa si verifichi
nuovamente. Dunque il rinforzo è un processo.
 Un rinforzatore è ogni tipo di stimolo utilizzato in questo processo che aumenta la probabilità che un
comportamento venga messo in atto. Per promuovere dunque il processo del rinforzo si possono
utilizzare diversi rinforzatori, stimoli (la caramella per il bambino).
Affinché sia il rinforzo che il rinforzatore siano efficaci devono essere associati ad una sola risposta positiva,
quella desiderata, al fine di evitare situazioni di confusione nel soggetto; dunque si attua un processo di
selezione della risposta: il rinforzatore deve essere selettivo alla risposta desiderata. Considerando sempre
l'esempio del bambino, se i genitori utilizzano la lode per cercare di rinforzare tutte le volte che il bambino si
comporta bene, è chiaro che non si può utilizzare la lode in altre circostanze, perché questo lo porterebbe a
confondersi.
Inoltre il rinforzo è un processo soggettivo, infatti i soggetti non sono tutti sensibili allo stesso tipo di rinforzo,
dunque affinché questo possa considerarsi tale, deve essere adeguato al soggetto che lo riceve.Ad esempio i
genitori per premiare i figli possono usare una semplice lode, oppure una paghetta, e chiaramente questi due
rinforzi hanno valori completamente diversi in base al soggetto: infatti possibilmente per un figlio arrabbiato
con i genitori, il ricevere denaro significherebbe nulla rispetto al ricevere una carezza, altri figli invece il
contrario.
Si possono usare diversi rinforzatori nella stessa situazione? Il meccanismo di associare un rinforzo a una sola
risposta è un discorso di tecnica, che va applicata quando si vuole creare una vera e propria modifica del
comportamento. Ad esempio se lavorassimo con un bambino autistico, e volessimo promuovere il fatto che il
bambino riesca a mangiare da solo, allora è chiaro che dovremmo concentrarci sulla tecnica applicandola nel
dettaglio, e utilizzare il rinforzo in modo selettivo tutte le volte che il bambino mette correttamente le posate
nel piatto.
N.B. Nelle situazioni di vita quotidiana si possono usare diversi rinforzatori. Questo si capirà quando i teorici
della social commution metteranno in evidenza il fatto che non siamo soltanto comportamenti, ma aspettative,
motivazioni, desideri, e quindi tutti questi elementi possono concorre. Ad esempio lo studente che concorre
per la laurea, può essere sensibile al voto ricevuto e tutto ciò che ne comporta come le lodi dei genitori.

Rinforzo positivo e rinforzo negativo. L’aggettivo “positivo” e “negativo” è associato all’ottenere o al


non ottenere qualcosa dall’ambiente. Il concetto di rinforzo è associato alla legge dell’effetto, quindi rinforzare
significa che quel comportamento è più probabile che venga ripetuto. Per aumentare questa probabilità posso
attuare:
Un rinforzo positivo. Si verifica quando un comportamento è seguito da un evento gradevole e
desiderato. L'ottenimento di qualcosa dall'ambiente aumenta la probabilità che il soggetto svolga un
determinato comportamento; la risposta dunque è seguita da un evento piacevole. Ad esempio lavoro
perchè poi prendo lo stipendio, il figlio si comporta bene perchè poi riceve la paghetta.
Un rinforzo negativo. Si verifica quando un comportamento ha come conseguenza la diminuzione o
l’eliminazione di un evento spiacevole. Ad esempio il farmaco agisce da rinforzo negativo al
comportamento di malessere, così prendo l’oki in modo che diminuisca il mal di testa, oppure indosso
i guanti perché seno freddo, cambio canale perché il programma mi dà fastidio).
 Altro esempio di rinforzo negativo accadeva nella skinner box. Skinner procedeva così:
nella scatola vi era la griglia elettrificata e ogni volta che il topo pigiava la leva, Skinner
eliminava la scossa. Quindi, l'eliminazione dell'elettrificazione, che è il rinforzo negativo,
è legato al fatto che il topo pigia la leva: in questo caso il rinforzo è l'eliminazione
dell'elemento nocivo.
Entrambi i rinforzi aumentano la probabilità che un determinato comportamento venga messo in atto:
 Il rinforzo positivo aumenta la probabilità che un comportamento venga ripetuto perché fornisce una
conseguenza piacevole;
 Il rinforzo negativo aumenta la probabilità perché elimina una conseguenza spiacevole.
Ci può essere il rischio che sapendo di ottenere una ricompensa, si attua un comportamento solo in virtù di
ciò? Secondo i principi del comportamentismo operante non è un rischio, ma è un meccanismo di
apprendimento: entra in gioco anche la motivazione di tipo estrinseca, in quanto agiamo perché otteniamo
qualcosa, quindi è proprio un meccanismo di funzionamento. Il rischio può essere più legato ai mezzi che si
usano per ottenere la risposta, infatti si possono creare le dipendenze: l'ottenimento della sostanza finisce per
attivare meccanismi di rinforzo, quindi il soggetto pensa che attraverso la sostanza sta bene, e questo innesca
un meccanismo additivo di azione rinforzata.

Rinforzo negativo e punizione. È importante non confondere il rinforzo negativo con la punizione in
quanto:
 Il rinforzo negativo si verifica quando un comportamento ha come conseguenza la diminuzione o
l’eliminazione di un evento spiacevole e aumenta la probabilità che il comportamento si verifichi di
nuovo.
 La punizione si riferisce a un evento che fa seguito a una risposta con una conseguenza dolorosa e
spiacevole e diminuisce la probabilità che la risposta si verifichi di nuovo (si viene puniti quando si
dà qualcosa di spiacevole all'altro). La risposta del soggetto viene punita perché gli viene fornita
dall'ambiente un'esperienza dolorosa.
Quindi sono due cose diverse:

 Se con il rinforzo negativo tolgo qualcosa di spiacevole e aumento la probabilità che mi comporto in
un determinato modo;
 Con la punizione do qualcosa di spiacevole e diminuisce la probabilità che mi comporti in un
determinato modo, perché vado incontro a qualcosa di spiacevole.
Il rinforzo aumenta la frequenza di un comportamento, la punizione diminuisce.

Esempi La differenza tra rinforzo negativo e punizione può essere osservata in un esempio ipotetico.
Supponiamo di vivere in un appartamento e lo stereo del nostro vicino ha un volume così alto che non
riusciamo a concentrarsi nella lettura di un libro. Se battiamo forte contro il muro e il volume improvvisamente
si abbassa (rinforzo negativo) è più probabile che anche in seguito batteremo di nuovo contro il muro. Se
invece battiamo contro il muro e il volume aumenta ancora (punizione) oppure il vicino si alza e si mette a
sua volta a battere contro il nostro muro (punizione) è meno probabile che ci mettiamo di nuovo a battere
contro il muro.
Presentiamo altri due esempi di punizione in cui una risposta viene seguita da un risultato sgradevole:

 Stiamo guidando a velocità elevata, siamo intercettati dal autovelox e prendiamo una multa per eccesso
di velocità. Per tale ragione è probabile che la nostra velocità diminuisca. La velocità è stata punita
dalla multa.
 Ogni volta che diamo il nostro parere a un'amica, lei subito diventa fredda e distaccata. Negli ultimi
tempi non diciamo più nulla. I nostri pareri sono stati puniti con il rifiuto.
Schema riassuntivo:
 Se l’effetto desiderato è l’aumento del comportamento, viene utilizzato un rinforzo;
 Se l’effetto desiderato è la diminuzione del comportamento viene utilizzata la punizione.
Rinforzo positivo: Il rinforzo positivo è legato al fatto che l’ambiente aggiunge un rinforzatore positivo al
soggetto. La risposta del soggetto è seguita da un evento piacevole, quindi si aumenta la probabilità che il
comportamento si verifichi di nuovo.

 Esempio Gli individui vanno a lavorare perché sanno che a fine mese avranno lo stipendio; lo
stipendio è il rinforzatore positivo di quel comportamento (andare a lavoro).
Punizione positiva: La punizione positiva si usa nel caso della diminuzione del comportamento. La punizione
positiva è dare un elemento che ha una conseguenza spiacevole per il soggetto, e questo comporta che il
comportamento indesiderato diminuisca. In questo caso l’ambiente dà in risposta al soggetto, una conseguenza
spiacevole. Il fatto che io ottengo questa conseguenza spiacevole, mi fa diminuire il mio comportamento.

 EsempioSe una mamma vuole punire il comportamento indesiderato di mio figlio, urla, alza la
voce, utilizzo altri tipi di punizione, gli do una conseguenza spiacevole perché voglio diminuire il
comportamento in questione.
Rinforzo negativo: Il rinforzo negativo è legato al fatto che l’ambiente elimina o diminuisce una conseguenza
spiacevole. La risposta del soggetto è seguita dall’eliminazione di un evento spiacevole. Quindi questo fa sì
che aumenta la probabilità che il comportamento si verifichi di nuovo perché voglio evitare di ottenere una
conseguenza spiacevole dall’ambiente.

 EsempioPrendo la pillola per diminuire il mal di testa. La sostanza quindi fa aumentare l’uso di
quel farmaco, cioè aumenta questo tipo di comportamento; la pillola è il mio rinforzatore negativo
che prendo per diminuire il mio mal di testa.
Punizione negativa/costo della risposta: La punizione negativa o costo della risposta si verifica quando
l’ambiente toglie una conseguenza piacevole. La tecnica del costo della risposta è utile perché in qualche
modo togliendo una conseguenza piacevole al soggetto diminuisce la frequenza di quel comportamento
indesiderato: si chiama costo della risposta, perché perdo qualcosa che mi piace, devo “pagare” togliendo
qualcosa che mi piace.
 EsempioSe sono disordinato e mia madre mi dice che non posso utilizzare il telefono fino a
quando non ordino la mia stanza, sta utilizzando una punizione negativa o costo della risposta,
perché la mia risposta ha un costo (sistemare la stanza). Mia madre mi punisce perché vuole che io
diminuisca il mio essere disordinato (diminuisca questo comportamento), però non mi sta urlando
o andando contro, o dicendo brutte parole, o dandomi uno schiaffo, ma mi sta togliendo qualcosa
che mi piace (utilizzare il telefono).
RIPETIAMO PER L’ULTIMA VOLTA:
Rinforzo positivo= l’ambiente dà qualcosa di piacevole.
Rinforzo negativo= l’ambiente toglie qualcosa di spiacevole.
Punizione positiva= sto ottenendo una conseguenza spiacevole
Punizione negativa=sto eliminando una conseguenza piacevole.

Le variabili riguardanti la punizione. La punizione è la via più rapida per modificare, diminuire un
comportamento “pericoloso” e problematico. Essa fa diminuire subito la possibilità che una risposta si
verifichi di nuovo, quindi ha anche una sorta di valore adattivo del nostro comportamento. Spesso andiamo
incontro a delle punizioni; ad esempio il bambino piccolo che tocca la stufa e si brucia il dito, sta subendo una
conseguenza spiacevole legata ad una sua azione, quindi ottiene una punizione inconsapevole e immediata da
parte dell'ambiente che lo porta a capire che non deve toccare la stufa se non vuole bruciarsi.
La punizione risente delle differenze individuali, infatti così come ognuno di noi è più sensibile ad alcuni
rinforzi piuttosto che ad altri, lo stesso vale per le punizioni che non sono uguali per tutti e inoltre non hanno
efficacia su tutti.
La sua efficacia dipende da:
 Tempo (contingenza).
 Essa risulta più efficace e dà un risultato migliore quando se è associata per contingenza alla
risposta, cioè quando si verifica mentre viene data la risposta, oppure subito dopo. Ad
esempio, se il comportamento si verifica in un giorno, e poi la punizione viene data nei giorni
successivi alla risposta, è chiaro che non abbia più efficacia.
 Coerenza.
 Per essere efficace deve essere somministrata sempre (coerenza) ogni volta che si verifica
una certa risposta. N.B. I nostri comportamenti dipendono dagli stili educativi, che possono
essere più o meno coerenti (i genitori possono mantenere delle riposte punitive più o meno
correnti nel tempo) e questo influenza molto in termini di apprendimento/modellamento di
comportamenti, e quindi in chiave di sviluppo di personalità.

DUNQUE ad esempio se la mamma urla e rimprovera tutte le volte che il figlio fa il bullo è fondamentale
che sia contingente e coerente, perché basta che per una sola volta qualcuno dica al ragazzo che ha fatto
bene (in questo modo sta rinforzando il comportamento), e immediatamente il comportamento si ripresenta
e tutti i rimproveri della madre perdono significato.

 Intensità.
 Una punizione severa è sicuramente molto più efficace rispetto ad una punizione lieve che
elimina solo temporaneamente una risposta. Se quest’ultima viene rinforzata in altri
momenti, nonostante sia stata precedente punita, il comportamento si ripresenta e la punizione
sarà inefficace.
Questo effetto è stato dimostrato tramite un esperimento in cui un gruppo di ratti ben
addestrati a premere la leva nella gabbia di Skinner, è stato punito con un colpetto ogni volta
che la premeva e un altro gruppo non riceveva alcuna punizione (in entrambi i casi la
pressione della leva non era associata all'erogazione di cibo). Si potrebbe pensare che, a causa
del colpetto, l'estinzione sarebbe avvenuta più velocemente. Invece no. La punizione rallentò
la risposta, ma non determinò un'estinzione più veloce. I colpetti sulle zampette dei ratti o
quelli dati ai bambini non hanno un effetto duraturo sulla risposta rinforzata.

Gli svantaggi e i rischi della punizione. Vi sono molti rischi nell'usare la punizione, e tutti diventano
problematici quando la severità di una punizione aumenta. In genere la punizione è avversiva, dolorosa e
imbarazzante; di conseguenza le persone nelle situazioni associate alla punizione, tendino a provare timore,
risentimento o avversione. Il comportamentismo nasce nel 1913 e diventa un modello forte intorno al 1950,
periodo in cui vi erano all'interno dei campi militari e delle scuole delle punizioni corporali, oggi assolutamente
inaccettabili. Le punizioni (anche fisiche) finiscono per “rinforzare” l’idea che la violenza sia il comportamento
adeguato e desiderabile e incutono solo “paura”, indebolendo l’autostima.
I rischi a cui si può andare incontro sono:
L’apprendimento della fuga (1);
L’apprendimento dell’evitamento (2);
L’aggressività (3).
L’apprendimento della fuga (1). Nell’apprendimento della fuga si impara a dare una risposta per porre
fine a uno stimolo avversivo.
La fuga riflette semplicemente la risposta a un rinforzo negativo, come mostra l'esempio seguente: Un cane
viene posto in una gabbia divisa in due compartimenti chiamata «shuttle box». Se il cane riceve una scossa
elettrica in un compartimento, imparerà velocemente a saltare nell'altro per sfuggire alla scossa. Se viene
suonato un cicalino 10 secondi prima dell'inizio della scossa, il cane subito imparerà ad associare il cicalino
alla scossa. Perciò eviterà il dolore saltando prima della scossa.
L’apprendimento dell’evitamento (2).L' apprendimento dell'evitamento significa dare una risposta per
rinviare o evitare un disagio. Per esempio, se lavoriamo con una persona sgradevole e detestabile, potremmo
inizialmente evitare di parlarci per non essere infastiditi e, successivamente, potremmo cercare di evitarla del
tutto. Ogni volta che schiveremo quella persona, il nostro evitamento sarà rinforzato dal senso di sollievo.
Considerando l’esempio precedente del cane, possiamo dire che il suo apprendimento sembra coinvolgere sia
il condizionamento classico sia quello operante. In una «shuttle box» il cane prima impara, attraverso il
condizionamento classico, a temere il suono di un campanello (il campanello è uno SC seguito da una scossa,
uno SI che provoca dolore e paura). Ogni volta che il campanello suona, il cane ha paura ma, saltando nel
compartimento «sicuro», il cane pone fine alla paura provata. Perciò l'azione di imparare a saltare prima che
venga data la scossa è rinforzata negativamente dalla riduzione della paura. Questa è la parte operante
dell'apprendimento dell'evitamento.
Una volta appreso, l'evitamento è piuttosto duraturo. La scossa elettrica in una «shuttle box» può essere
interrotta, ma il cane continuerà ad allontanarsi dal compartimento ogni volta che suonerà il campanello.
Sembra che il cane abbia imparato ad aspettarsi che il campanello sia seguito dalla scossa e se salta nell'altro
compartimento prima che la scossa venga data, non riceve nessuna informazione nuova per cambiare le sue
aspettative.
Dunque…Gli stimoli avversivi, ovvero le punizioni, innescano per effetto del rinforzo negativo
l’apprendimento della fuga, per cui ad esempio il bimbo scappa e si nasconde dai genitori che vogliono punirlo
e, dell’evitamento, per cui con il tempo il bimbo mente, o sta lontano da casa.
L’aggressività (3). La punizione inoltre può far aumentare l’aggressività per effetto della frustrazione. In
genere, la punizione è dolorosa e frustrante, perciò può creare le condizioni per l'apprendimento
dell'aggressività. Quando viene sculacciato, un bambino può arrabbiarsi, sviluppare un senso di frustrazione e
un desiderio di rivalsa. Perciò se picchia ad esempio il fratello, il pericolo è che le azioni aggressive possano
farlo sentire meglio in quanto permettono di scaricare la rabbia e la frustrazione. Se è così, l'aggressività viene
ricompensata e tenderà a scatenarsi di nuovo in altre situazioni frustranti: se un bambino è sottoposto sempre
ad atteggiamenti punitivi che si basano sulla violenza verbale o fisica, è normale che vada ad apprendere quasi
per rinforzo che quel comportamento di violenza sia efficace.

Esempio Pensiamo ad un bambino un po' vivace che deve andare al supermercato con la madre. Quest'ultima
già sa che sarà una situazione difficile, perché il bambino vivace e capriccioso tenderà a voler comprare tutto,
a muoversi qua e là. La mamma allora può avere due atteggiamenti:
 Un atteggiamento di minaccia, per cui rimprovera e spaventa il bambino ancor prima di andare al
supermercato e gli indica tutto quello che non deve fare. La mamma dice tutto cioè in termini punitivi,
facendo capire al bambino che deve aspettarsi una conseguenza spiacevole al suo eventuale
comportamento;
 Un atteggiamento propositivo, per cui la mamma può dire al bambino, con un tono calmo i
comportamenti che deve assumere e ciò che deve fare, fatti i quali lui otterrà una conseguenza per lui
piacevole. Così facendo sarà più probabile che il bambino obbedirà, mettendo in atto i comportamenti
positivi per ottenere una conseguenza piacevole. Questo ha ricadute positive anche in termini di
relazione, rapporto con il bambino; il rapporto che si innesca così sarà più genuino, aperto.

EsperimentoSkinner per testare il valore del rinforzo negativo in ambito sociale, fa un esperimento. Pone
in una classe una bambina che non socializzava con nessuno e che tendeva a isolarsi; così la maestra ogni volta
che la vedeva sola le chiedeva perché non andasse a giocare con i suoi compagni. Inconsapevolmente e
implicitamente la maestra stava rinforzando il comportamento della bambina a starsene da sola, perché ogni
volta ella finiva per avere l'attenzione esclusiva della maestra.
Così per destrutturare il comportamento problematico della bambina, fu necessario che la maestra ignorasse la
bambina quando si isolava, e al contrario quelle volte che lei si avvicinava ai compagni, per effetto del
modellamento per rinforzo positivo, veniva lodata. A poco a poco la tendenza ad isolarsi diminuì e cominciò
a socializzare con i compagni.
Quindi paradossalmente non si dovrebbero punire i comportamenti negativi, perché si finisce per rinforzarli.
Bisognerebbe al contrario promuovere delle situazioni tali per cui, i comportamenti negativi vengono ignorati
e quelli positivi vengono rinforzati, tramite la tecnica del modellamento o shaping.

Usare la punizione in modo saggio. Gli educatori quindi hanno 3 strumenti per controllare
l'apprendimento:
1. Il rinforzo positivo che rafforza le risposte;
2. La mancanza di rinforzo che determina l'estinzione;
3. Il costo della risposta.
Questi strumenti funzionano meglio se usati insieme. Di solito è preferibile iniziare facendo un uso generoso
del rinforzo positivo, per incoraggiare un comportamento positivo. Inoltre è utile provare prima l'estinzione:
bisogna vedere quindi cosa accade se signora un comportamento problematico oppure se si sposta l'attenzione
su un'attività desiderabile e poi rinforzare con la lode. Rinforzare comportamenti positivi è sempre meglio che
punire. Se tutto dovesse essere iinutile, forse sarà necessario ricorrere alla punizione però in quei casi vi sono
alcuni principi da ricordare:
 Evitare una punizione severa;
 Usare una punizione lieve necessaria a eliminare un comportamento errato. La punizione in
questi casi consegue gli effetti migliori quando produce delle azioni incompatibili con la risposta che
si desidera eliminare. Ad esempio se un bambino si avvicina a un fornello acceso sarebbe meglio dare
un colpetto sulla mano in modo che venga allontanato della causa del pericolo, piuttosto che dare una
sculacciata.
 Praticare la punizione durante o immediatamente dopo il comportamento errato.
 Essere coerenti. Bisogna essere molto chiari riguardo quello che si considera un comportamento
errato. Bisogna punire ogni volta che il comportamento errato si verifica, ma non punire un
comportamento una volta ignorando un’altra.
 Usare il contro-condizionamento. La punizione lieve tende a essere inefficace se i rinforzi sono
ancora disponibili nella situazione. È questo il motivo per cui è meglio ricompensare anche una
risposta alternativa, desiderata. In questo senso il soggetto deve essere ricompensato se mostra un
comportamento che è contrario a quello non desiderato. Man mano che i comportamenti desiderati
diventano più frequenti, quelli indesiderati diminuiscono. La punizione dice una persona o un animale
soltanto che la risposta era sbagliata e non dice quale sia la risposta giusta, perciò non insegna dei
comportamenti nuovi. Se manca il rinforzo, la punizione diventa meno efficace.
 Aspettarsi una reazione di rabbia da una persona punita. È importante accettare questa reazione,
ma bisogna stare attenti a non rinforzare la rabbia.
 Punire con cortesia e rispetto. Bisogna evitare di impartire una punizione quando si è arrabbiati,
infatti è importante punire con cortesia e rispetto: la persona punita potrà così conservare il rispetto di
sé stessa.
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Approfondimento prof. Il costo della risposta è spesso utilizzato tramite particolari rinforzi simbolici (vedi
meglio dopo).
La prof ha fatto dei particolari interventi psicoeducativi con bambini che avevano disturbi dell'apprendimento.
In questa circostanze si aveva la necessità di fare esercizi che li aiutassero a migliorare la loro velocità e la loro
correttezza nella lettura. Poteva capitare anche che questi bambini avessero dei problemi comportamentali, per
cui era ulteriormente problematico ottenere dei risultati.
La prof usava dunque la tecnica del costo della risposta con rinforzatori simbolici.
 All’inizio venivano stabilite delle regole che non dovevano essere trasgredire.
 I bambini avevano delle schede in cui venivano segnati dei punti. Dopo aver raggiunto un tot di punti,
che venivano scelti all'inizio (esempio 100 punti) il bambino poteva scegliere un premio da ottenere.
 Al bambino veniva spiegato che per arrivare a questi 100 punti, ad ogni seduta gli sarebbero stati
affidati 5 gettoni, che a loro volta per essere mantenuti implicavano il rispetto del regole. Ogni volta
che il bambino trasgrediva una delle regole iniziali, doveva consegnare un gettone, quindi pagava un
costo.
 A fine seduta, il bambino doveva segnare i propri punti sulla scheda, e consegnare eventuali monete
nel caso in cui avesse trasgredito.
 I bambini, in vista dell'ottenimento del premio finale e del costo della risposta per ogni seduta
tendevano a mantenere le loro monete, in quanto più monete=più punti= più possibilità di avere il
premio, e quindi si comportavano bene e raggiungevano la meta desiderata dall'educatore.
In questa struttura vengono utilizzati:
 Il rinforzo positivo in vista dell’ottenimento del premio visivo;
 Il costo della risposta per controllare il comportamento problematico dimostrabile.
Si è visto che nelle tecniche psico-educative di tipo comportamentale, questa tecnica funziona sia per un
singolo individuo che per gruppi.
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I rinforzi operanti. Negli esseri umani, qualunque cosa può fungere da rinforzo (un scatola di caramelle,
delle parole di lode). Nel categorizzare i rinforzi, può essere avanzata una distinzione utile tra rinforzi primari
e rinforzi secondari; è inoltre importante distinguere il rinforzo, che esercita la sua azione attraverso
l'apprendimento associativo, dal feedback, una componente chiave dell'apprendimento cognitivo.
 I rinforzi primari producono un senso di conforto, la fine del disagio, soddisfano i bisogni biologici e
operano in modo naturale indipendentemente dall'esperienza della persona. I rinforzi primari sono naturali
e non appressi, ad esempio il cibo per la persona affamata, il caldo per la persona infreddolita,
l'antidolorifico per il dolore, il sesso. In un certo senso, ha natura materiale, perché è sempre legato
all'ottenimento di un qualcosa che aiuta a rinforzare un determinato comportamento.
 I rinforzi secondari sono associati a un rinforzo primario e sono appresi: ad esempio il denaro è un
rinforzo secondario che appunto rafforza quello primario, perché lo usiamo per comprare il cibo, i vestiti,
l'auto. Sono rinforzi secondari anche gli apprezzamenti, il successo, l'affetto, la stima. Possiamo definirili
“rinforzi secondari” in virtù del fatto che agiamo anche perché vogliamo ottenere una lode da parte
dell'ambiente, quindi possono avere natura emotiva.
 I rinforzi secondari simbolici possono essere scambiati con i rinforzi primari desiderati, e
pertanto, sono molto potenti ed efficaci ai fini dell'apprendimento. Ad esempio una banconota non
ha ovviamente un valore di per sé, infatti non possiamo mangiarla o berla, ma può essere scambiata
con acqua, cibo, alloggio e altri rinforzi primari.I rinforzi simbolici sono quindi rinforzi secondari
arbitrari (denaro) o condizionati (fiches) e hanno un valore di scambio. Essi sono basati sulla
tecnica del token economy (costo della risposta). Considerando l'esperimento fatto dalla prof, i 5 gettoni
che venivano consegnati al bambino erano proprio dei rinforzi simbolici.

 Esperimenti: In una serie di esperimenti classici, agli scimpanzé sono state insegnate alcune azioni
che consentivano loro di guadagnarsi delle fiches. Inizialmente sono stati addestrati a mettere le
fiches del poker in una macchina distributrice, la «Scimp-O-Mat», e, per ogni fiches, ricevevano
alcuni chicchi di uva passa. Una volta che l'animale aveva imparato a scambiarle con il cibo,
veniva addestrato a svolgere altri compiti per guadagnarsi le fiches. Perché non dimenticassero
ilvalore delle fiches, si permetteva di tanto in tanto agli scimpanzé di usare la «Scimp-O-Mat».

 Il vantaggio maggiore dei rinforzi simbolici è che non perdono il valore di rinforzo tanto quanto i
rinforzi primari. Per esempio, se usiamo le caramelle come rinforzo per un bambino con disturbi
del linguaggio in modo da spingerlo a pronunciare gli oggetti con il loro nome corretto, il bambino
potrebbe perdere l'interesse a farlo quando sarà sazio o non avrà più voglia di caramelle. È perciò
meglio attribuirgli dei punti come ricompensa immediata dell'apprendimento che egli, in seguito,
potrà scambiare con caramelle, giocattoli o ciò che desidera..
P.S. I meccanismi di marketing per fidelizzare il cliente si basano proprio sull'utilizzo dei rinforzi simbolici.
Ad esempio, la raccolta punti con omaggio al supermercato; oppure i punti dal benzinaio per ottenere un
premio, o ancora tutte le fidely card usate nei negozi. Per questi motivi le tecniche comportamentiste sono
molto delicate, persuasive e talvolta pericolose. In virtù di ciò gli individui devono stare attenti e devono essere
consapevoli delle proprie azioni e di questi meccanismi, in modo da operare sempre secondo spirito critico.
 I rinforzi sociali sono i desideri appresi di approvazione e attenzione sociale (lodi) Il rinforzo sociale è
legato ad un’azione di tipo sociale, legata alla relazione con gli altri.
Esperimento: Vi era un docente che faceva lezione guardando sempre alla parte destra dell’aula.
Implicitamente stava fornendo un rinforzo sociale agli alunni che poi cercavano di mettersi nella parte
destra dell’aula per ricevere l’attenzione.
L'effetto dei rinforzi sociali si riversa dunque nello sviluppo delle nostre relazioni.
LEZIONE 18/12/2020.
I rinforzi continui e parziali. Gli schemi di rinforzo sono fondamentali perché rientrano all’interno delle
tecniche di modifica del comportamento, che sono finalizzate alla promozione di nuovi apprendimenti. Così
come Pavlov aveva la propria condizione sperimentale del cane, anche Skinner crea una serie di programmi
di rinforzo variando la presentazione del rinforzo in relazione alla risposta del soggetto o in relazione alla
frequenza di emissione della risposta. Possiamo avere due tipi di rinforzi:
 Il rinforzo continuo segue ogni risposta corretta; è utile all'inizio dell'apprendimento per imparare
risposte nuove. Esso produce un apprendimento veloce, ma facilmente estinguibile. Ad esempio, ogni
volta che il soggetto pigia la leva, che è il comportamento che si vuole determinare e fare apprendere,
ottiene il rinforzo positivo o negativo. Crea un immediato apprendimento, in quanto giocando
sull'aspettativa dell'ottenere il premio, è normale che apprenda velocemente. Tuttavia il continuo
rafforzamento porta all’estinzione dell’apprendimento, che è ancora più veloce del primo.
 Il rinforzo parziale non segue tutte le risposte; mantiene più elevata l'attesa e la motivazione
all'apprendimento, perché il soggetto non sa quando otterrà e quando non otterrà il premio. Pertanto
produce un apprendimento più lento, ma più persistente e resistente all'estinzione. L'apprendimento in
questo caso è più duraturo del tempo, per cui tenderà ad emettere quella risposta perché pensa che
prima o poi otterrà un rinforzo. Questo effetto viene chiamato effetto del rinforzo parziale.

SCHEMI DI RINFORZO PARZIALE.


Il rinforzo parziale può essere somministrato secondo varị modelli o
schemi di rinforzo (progetti per determinare quali risposte saranno
rinforzate). Le risposte tipiche di ogni schema sono illustrate nel
grafico: risultati di questo tipo sono ottenuti con un registratore
cumulato connesso a una gabbia di Skinner. Il meccanismo è
costituito da un nastro di carta scorrevole e da una sorta đi penna che
si muove segnalando con i vari movimenti, la risposta che viene
data. Una risposta immediata determinerà un picco nel tracciato,
invece una linea orizzontale indica l'assenza di risposta. I piccoli
segmenti sul tracciato mostrano la somministrazione di un rinforzo.

Analizziamo i quattro schemi fondamentali che hanno alcuni effetti interessanti su di noi:

 Schema di rinforzo parziale a rapporto fisso (1);


 Schema di rinforzo parziale a rapporto variabile (2);
 Schema di rinforzo parziale a intervallo fisso (3);
 Schema di rinforzo parziale a intervallo variabile (4).
Lo schema a rapporto fisso (1). RF mette in relazione la risposta fornita dal soggetto e il rinforzo ottenuto,
quindi si somministra il rinforzo dopo che l'organismo ha prodotto un numero fisso di risposte. Supponiamo
dunque che ogni 5 risposte giuste, si dia un rinforzo al soggetto; il valore di 5 è un valore costante. Un esempio
dell'utilizzo dello schema a rapporto fisso si ha quando i soggetti lavorano a cottimo, oppure i lavorati di call-
center. Questi ultimi, ad esempio, dopo aver stipulato e venduto 5 contratti ricevono lo stipendio.
Questo produce tassi di risposta molto alti perché vi è una correlazione diretta tra risposta ottenuta (contratto
stipulato) e rinforzo (stipendio). Tuttavia se il rapporto è troppo alto, per cui vi sono troppe risposte necessarie,
ovvero troppi contratti da fare per ottenere la ricompensa, si genera l'estinzione; c’è più motivazione da parte
del soggetto se la richiesta non è eccessiva:
 Se il lavoratore sa che ottiene il suo stipendio dopo 5 contratti, allora sarà molto motivato in quanto
penserà di poter raggiungere più facilmente quell'obiettivo;
 Se invece il lavoratore ottiene lo stipendio dopo 100 contratti, è chiaro che il comportamento si
estingue e il lavoratore si licenzierà.
Lo schema a rapporto variabile (2). RV prevede che il numero di risposte fornite e la somministrazione del
rinforzo sia variabile e non un valore fisso, quindi si somministra il rinforzo dopo che l'organismo ha prodotto
un numero medio di risposte. Quindi si può decidere se dare il rinforzo dopo 3 risposte corrette, oppure una
volta dopo 5 o ancora dopo 8. Questi schemi sono meno prevedibili perché il soggetto non sa quando riceverà
il premio, per cui producono tassi di risposta molto alti e più resistenti all’estinzione, perché il rinforzo non
dipende dal numero di risposte corrette, ma in un certo senso dalla casualità.
Ad esempio, il gioco d'azzardo, della lotteria, e i videogiochi si basano proprio su questo schema.
 La signora va a giocare e spendere soldi nella lotteria e lo fa sempre perché non sa quando vincerà.
 Il giocatore d'azzardo ottiene un compenso in modo variabile (tendenzialmente ogni 1000 giocate).
 Anche i giochi classici sono a rapporto variabile, in quanto il soggetto gioca sempre di più per ottenere
i primi posti in classifica, oppure gioca sempre ai videogiochi per salire di livello e ottenere punti, i
quali sono rinforzi simbolici.
Lo schema a intervallo fisso (3). IF prevede che si somministra il rinforzo solo quando viene emessa una
risposta corretta, dopo un intervallo di tempo costante e stabilito (ad esempio ogni 5 secondi, ogni ora). Questo
intervallo di tempo viene misurato dall’ultima risposta rinforzata; le risposte date durante l’intervallo non
vengono rinforzate. Gli schemi a intervallo fisso producono percentuali di risposte modeste. Gli animali che
agiscono con uno schema IF sembrano sviluppare un senso profondo del passaggio del tempo, infatti si
registrano poche risposte appena dopo che è stato dato un rinforzo e vi è uno scatto di attività poco prima del
rinforzo successivo.
Ad esempio gli esami universitari seguono gli schemi a intervallo fisso, che producono tassi di risposta molto
alti in prossimità dell'intervallo temporale, si realizza per cui la “curva a festone”: il soggetto inizia a studiare
maggiormente (emette la risposta più intensamente e per tempo maggiore) quando si avvicinano gli esami.
Lo schema a intervallo variabile (4). IV prevede che si somministra il rinforzo dopo un tempo medio
stabilito, tempo che comunque è variabile e non fisso. Questo schema porta il soggetto ad una condizione di
attesa, ma dato che si introduce una variabile temporale, è normale che producono tassi di risposta lenti, ma
costanti. La persistenza dell'apprendimento è costante
Ad esempio, l'interrogazione a sorpresa si basa su questo schema: i soggetti studiano in modo costante perché
non sanno quando sarà l’interrogazione.

I processi del condizionamento operante: lo stimolo. Mentre per Pavlol rispondevamo in maniera
generalizzata e discriminata stimoli che si associavano a risposte e ricompense positive/negative, adesso i
processi che si vengono a creare sono:
Il controllo dello stimolo→ Gli stimoli che anticipano una risposta con una ricompensa tendono a influenzare
quando e dove la risposta si verificherà e il modo in cui il soggetto risponderà.
Consideriamo di nuovo il topo nella Skinner box. Immaginiamo che, mentre il ratto imparava la risposta di
premere la leva per ottenere del cibo, nel corso di molte sessioni di addestramento, una luce venisse accesa o
spenta in modo alterno:
o Quando la luce era accesa, premendo sulla leva scendeva del cibo;
o Se la luce era spenta la pressione non produceva alcun risultato.
Ben presto il ratto avrebbe imparato a premere solo quando la luce era accesa e a ignorare la leva quando la
luce era spenta. In questo esempio la luce segnala le conseguenze di una certa risposta. La prova per il controllo
dello stimolo potrebbe consistere nell'azionare la distribuzione del cibo quando la luce è spenta. Un animale
ben addestrato potrebbe non scoprire mai che le regole sono cambiate.
Esempio del controllo dello stimolo è anche il fatto che rispondiamo solo al telefono che squilla e non quando
tace, poiché se ci arriva la notifica nel cellulare lo prendiamo per capire che succede, in quanto quello stimolo
(notifica) anticipa il modo in cui quella risposta verrà ricompensata. Oppure, il fatto che se vogliamo ottenere
una risposta desiderata, ad esempio se vogliamo la macchina a nostro padre, la chiederemo quando è di buon
umore, in quanto la richiesta molto probabilmente sarà seguita da una ricompensa positiva; infatti se padre è
di cattivo umore, non gli chiederemo la macchina, perché sicuramente non avremo una risposta non
ricompensata.
La discriminazione dello stimolo operante→ è legata all'utilizzo di stimoli specifici a cui si associa una
specifica risposta, per cui è la capacità di differenziare tra stimoli che segnalano la ricompensa (stimoli
discriminativi) e stimoli che non la segnano:
Uno stimolo che prece delle risposte rinforzate viene raffigurato dagli psicologi attraverso il simbolo
S+,
Gli stimoli discriminativi che precedono le risposte non ricompensate sono simbolizzati con S-.
Considerando sempre l'esempio del cane, se cominciamo a non dargli più da mangiare mentre siamo seduti
agli altri tavoli, la risposta del cane che originariamente si era generalizzata, scomparirà a causa dell'assenza
di rinforzo. Perciò la sua risposta sarà costantemente ricompensata solo in presenza di un tavolo particolare; la
stessa risposta si estingue vicino agli altri tavoli. Attraverso la discriminazione dello stimolo operante il cane
ha imparato a differenziare tra gli stimoli antecedenti quelli che segnalano la ricompensa da quelli della non
ricompensa.
Questa tecnica viene utilizzata nei programmi di modifica del comportamento in situazioni problematiche.
Quindi ad esempio il bambino che deve imparare a mangiare, ottiene un rinforzo ogni volta che prende bene
il cucchiaio, quindi se prende il coltello per mangiare la minestra è chiaro che NON otterrà un rinforzo. La
discriminazione del cucchiaio è fondamentale affinché acquisisca autonomia nella gestione del pranzo.
La generalizzazione dello stimolo operante→ è la tendenza a rispondere agli stimoli simili a quelli che hanno
preceduto il rinforzo operante. Ossia, una risposta rinforzata tende a essere data di nuovo quando sono presenti
antecedenti simili. Per esempio, il nostro cane ha cominciato a saltarci addosso ogni volta che siamo seduti a
tavola, ed è colpa nostra perché abbiamo ricompensato il suo comportamento dandogli degli avanzi di cibo.
Adesso il cane ci salterà addosso ogni volta che siamo a tavola, perché ha imparato che il rinforzo tende a
essere somministrato mentre siamo seduti a mangiare. Il comportamento del cane ha subito il controllo dello
stimolo. Tuttavia nella nostra casa ci sono anche altri tavoli e sono tutti molto simili, il cane probabilmente ci
salterà addosso anche quando saremo seduti agli altri tavoli, in quanto la sua risposta si è generalizzata. Una
simile generalizzazione spiega perché i bambini possono per un certo periodo di tempo chiamare tutti gli
uomini papà suscitando imbarazzo.

L’APPRENDIMENTO COGNITIVO.
Grazie al condizionamento classico ed operante, comprendiamo che i processi associativi stimolo-risposta
sono utili per anticipare la ricompensa o l'esito di una punizione. In quanto essere umani, infatti siamo in
grado di creare degli elementi mentali o cognitivi, come l'aspettativa.
Con questo concetto di aspettativa si sconfina dall’approccio comportamentista classico che riteneva la mente
una scatola nera. Dunque, nel passaggio tra gli approcci comportamentisti e gli approcci più cognitivisti (le
famose variabili intervenienti di Thorndike o di Tolman, in qualche modo fanno riferimento esattamente a
questo processo) comincia ad emergere anche nella relazione stimolo-risposta, e quindi nell'analisi del
comportamento, l’esigenza di introdurre degli elementi più mentali, più riferiti a delle capacità cognitive dei
soggetti:
Memoria
Pensiero
Problem-solving
Linguaggio
Quindi si passa ad un approccio differente nel quale l’apprendimento viene inteso come un apprendimento
di tipo cognitivo che si fonda su due processi importanti:
1. Acquisizione di nuove informazioni dall'ambiente. Noi apprendiamo quando raccogliamo nuovi
informazioni che entrano a far parte del nostro repertorio di conoscenze ed esperienze.
2. Collegamento di informazioni acquisite a conoscenze pre-esistenti. Questo concetto sarà ben
spiegato parlando delle reti neurali, per cui i ricordi si associano tra di loro creando delle reti di
informazioni che cominciano ad integrarsi con le conoscenze pre-esistenze.

Tolman. Uno degli autori che diede un contributo fondamentale in questo processo è Tolman. Tolman
lavorava alla Berkeley University e, sebbene nasca come comportamentista, egli cominciò a mettere in dubbio
i processi dell’apprendimento associativo perché secondo lui non era possibile escludere totalmente la
componente mentale nell’apprendimento. Egli dunque riteneva che l’apprendimento non è un apprendimento
solo di stimoli e risposte o di risposte e rinforzi, ma è anche un apprendimento che viene particolarmente
influenzato dai nostri processi mentali.

L'esperimento del labirinto Egli cerca di dimostrare la sua ipotesi attraverso l'esperimento del labirinto:
Tolman crea un piccolo labirinto con alcune strade che portano all'uscita e altre invece no, e al suo interno fa
circolare alcuni ratti. All’uscita del labirinto vi era collocato il rinforzo (formaggio), disponibile solo quando
il ratto trovava l’uscita:
 La risposta desiderata era trovare l’uscita
 Il rinforzo era il cibo.
Lo studioso modula la variabile sperimentale su 3 gruppi di ratti:
1. Un primo gruppo (G1) di ratti che vagavano dentro il labirinto e ottenevano sempre e comunque il
rinforzo ogni volta che trovavano all’uscita;
2. Il secondo gruppo (G2) era formato da un gruppo di ratti che vagavano nel labirinto per 17 giorni
senza ricevere nessun rinforzo (cibo);
3. Il terzo gruppo (G3) è invece formato da ratti che per 10 giorni vengono lasciati liberi dentro il
labirinto senza ottenere rinforzo e dall’undicesimo in poi cominciano ad ottenere cibo (il rinforzo).
Che cosa scopre Tolman? Scopre che i primi giorni tutti i ratti facevano moltissimi errori, non riuscendo a
trovare l’uscita. A poco a poco
1. I ratti del gruppo G1, che venivano di volta in volta rinforzati, diminuiscono gli errori facendone, dal
diciassettesimo giorno in poi, veramente pochi, quindi trovavano facilmente l'uscita.
2. Il gruppo G2 continua invece a fare un maggior numero di errori, nonostante il passare dei giorni.
Quindi tra il gruppo G1, che ottiene il rinforzo, e il gruppo G2, che non ottiene mai il rinforzo, c’è una grande
differenza perché in media i primi fanno 8 errori, i secondi 18.
3. La prestazione interessante è quella del gruppo G3, perché per i primi 10 giorni i ratti si comportano
tutto sommato come gli altri facendo un alto numero di errori, ma dal undicesimo giorno in poi, in cui
cominciano ad ottenere il rinforzo, diventano ancora più bravi a trovare l’uscita rispetto ai ratti del
gruppo sperimentale sempre rinforzato (G1).
Allora Tolman, notando queste sostanziali differenze conclude che non è il rinforzo a migliorare la prestazione,
ma vi era un altro elemento che aiutava i ratti ad imparare a trovare subito l’uscita. La spiegazione che lui ne
dà è in termini di apprendimento latente e mappa cognitiva.
L’apprendimento latente Tolman, scoprendo il cosiddetto apprendimento latente, afferma che il gruppo
G3 sapeva dov’era l’uscita, ma non manifestava un comportamento concreto fin quando non otteneva il
rinforzo: il rinforzo non è l’elemento che innesca l'apprendimento, ma è l’elemento che fa venire fuori
l’apprendimento che già possediamo nel nostro sistema cognitivo.

Le mappe cognitiveInvece quello che ci fa apprendere è il fatto che ci creiamo delle rappresentazioni
mentali dell’ambiente delle informazioni che ci circondano: le mappe cognitive. Una mappa cognitiva è una
rappresentazione mentale di una determinata area, che funziona come guida.
I ratti nei primi 10 giorni si erano creati questa sorta di mappa cognitiva del labirinto, per cui apparentemente
lo esploravano in maniera casuale, ma in realtà avevano ben identificato qual era l’uscita, solo che non
ottenendo nulla non avevano motivo di stare là. Tanto è vero che nel momento in cui veniva posto il cibo,
quindi il motivo specifico per muoversi verso quella zona, i ratti conoscevano e intraprendevano
immediatamente la strada da seguire perché ne avevano già fatto una rappresentazione mentale. Quindi il loro
apprendimento era già presenta in loro, e viene semplicemente esplicitato maggiormente dalla presenza del
rinforzo.

L'esperimento di Tolman su mappe cognitiveTolman fa una piccola variante per capire meglio come si
sviluppano le mappe cognitive.
Per studiare meglio queste rappresentazioni mentali, crea tre percorsi alternativi:
 Uno più breve;
 Uno intermedio;
 Uno più lungo.
Che cosa osserva? All’inizio i ratti vagano senza ottenere cibo; dopo l’introduzione del cibo invece, i ratti
prendono la via più breve per raggiungerlo, pur essendoci tre possibili percorsi. Inoltre, se in qualche modo
la via più breve veniva ostruita, immediatamente loro prendevano quella intermedia per raggiungere il cibo,
non quella lunga. Quindi Tolman effettivamente dimostra che i ratti si erano creati una rappresentazione
spaziale del labirinto all’interno del quale si trovavano, in quanto sceglievano la via più opportuna per
raggiungere l’uscita.
P.S. Pensando sempre allo studio, il rinforzo (ottenimento di un buon voto) è un elemento (come diranno più
avanti gli studiosi della motivazione-Bandura) che incrementa ulteriormente la prestazione; ma la prestazione
di apprendimento è di tipo cognitivo: abbiamo bisogno di leggere, ripetere, reiterare le informazioni e quindi
poi in effetti vi è un’integrazione tra la memoria, gli aspetti emotivi, gli aspetti motivazionali. Si arriverà ad
una maggiore chiarificazione dell’intero processo, che non è soltanto appunto di tipo associativo e
comportamentale.

L’apprendimento cognitivo nella vita quotidiana. I cognitivisti e i comportamentisti in chiave


sperimentale cominciano con la psicologia animale comparata, per cui i risultati ottenuti con i ratti vengono
generalizzati agli esseri umani e quindi si stabilisce che effettivamente anche noi apprendiamo in questo modo,
creandoci le rappresentazioni mentali.

La curiositàNegli esseri umani, l’apprendimento latente è connesso ad abilità di livello superiore, come
anticipare una ricompensa futuro. L'apprendimento cognitivo nella nostra vita quotidiana avviene per effetto
della curiosità che ci spinge ad esplorare l’ambiente circostante (Harlow): non apprendiamo perché già
conosciamo un evento o semplicemente non ci interessa, ma è la curiosità che ci spinge ad avere una
rappresentazione cognitiva dell’ambiente, ad imparare.
 Ad esempio, i bambini vivaci mostrano curiosità ed anche intelligenza da questo punto di vista, perché
volendo esplorare l’ambiente esterno, stanno cercando di apprendere più informazioni possibili su ciò
che li circonda. Quindi paragonando un bambino che sta fermo in un angolo a giocare da solo e un
bambino che si muove e tocca tutto, la vivacità cognitiva fa presagire una prestazione migliore al
bambino che fa mille cose piuttosto che al bambino che sta sempre fermo a non fare niente; questo
perché la curiosità è motore di apprendimento (di questo ne parleremo anche con Harlow, che lo
dimostrerà con le scimmie).

Il feedbackUn’altra componente cognitiva del nostro apprendimento è il valore di feedback che ha il


rinforzo (ne parlerà meglio Bandura). Il feedback è un elemento chiave per l’apprendimento cognitivo che
consiste nel fornire un’informazione sul risultato ottenuto a seguito di una determinata azione.
Noi riceviamo i feedback rispetto alle nostre prestazioni, quindi ad esempio quando raggiungiamo il successo
in un determinato ambito, per cui sono molto importanti. Per esempio se sto giocando a pallone e vinco la
partita o se sto facendo l’esame e ottengo 30, è chiaro che quel rinforzo ha valore di feedback per quel soggetto
e questo valore di feedback, nella logica cibernetica del modello human information processing (modello
HIP cognitivista), è un elemento di ritorno che porta all’apprendimento.

EsempioOgni volta che un giocatore fa qualcosa, il videogame risponde immediatamente con suoni, azioni
animate, e l’assegnazione di un punteggio più o meno alto: i segnali di aver ucciso il nemico, oppure anche il
fatto di vedere il nemico verde (inteso come la vittoria per averlo sconfitto), piuttosto che rosso, (inteso invece
come una propria sconfitta) sono dei feedback tecnologici legati a degli elementi visivi che in qualche modo
evidenziano il raggiungimento dell’obiettivo. La reattività della macchina e il flusso di informazioni che
fornisce motivano il giocatore a vincere.
L'istruzione programmata, ad esempio, fornisce informazioni a piccole dosi, favorisce l'immediata applica-
zione empirica e restituisce un feedback continuo agli studenti, permettendo loro di non ripetere gli errori
commessi e di lavorare ciascuno alla propria velocità. L'istruzione programmata viene spesso presentata via
computer e viene anche chiamata istruzione assistita da elaboratore (CAI) o «drill and practice». Oltre a
fornire un feedback, il computer può indicare perché la risposta è scorretta e suggerire come modificarla.
Sempre più spesso, alcuni programmi CAI chiamati «giochi seri» utilizzano elementi ludici come storie, sfide
con un avversario, effetti sonori e una grafica accattivante per aumentare l'interesse e la motivazione. Uno dei
«giochi» più complessi è costituito dalle simulazioni che consentono agli studenti di esplorare una situazione
immaginaria o «micromondo» per imparare a risolvere i problemi del mondo reale. Osservando gli effetti delle
loro scelte, gli studenti scoprono i principi generali delle materie più varie. I programmi CAI permettono a
insegnanti e studenti di guadagnare tempo ed energie, anche se il livello delle competenze e delle conoscenze
non è superiore a quello raggiungibile con i metodi tradizionali. Inoltre, spesso le persone lavorano meglio
quando il feedback è dato da un computer perché possono sbagliare liberamente e imparare dai propri errori.

La conoscenza dei risultatiUn aumento dei feedback, la cosiddetta “conoscenza dei risultati” porta quasi
sempre a un miglioramento delle prestazioni e dell’apprendimento; la possibilità di conoscere gli esiti della
nostra prestazione ci spinge ad apprendere sempre meglio.
Il fatto di guardare gli esiti che le nostre o altrui prestazioni hanno sul nostro apprendimento è utilizzato anche
dagli allenatori sportivi: negli sport, il replay delle partite permette di avere una conferma su qualsiasi azione,
di riguardare la prestazione e far notare gli errori commessi, e quindi questo ha un valore di ritorno per
migliorare l’azione in campo.
P.S. Le famose “aspettative” in realtà poi sono legate alle conseguenze delle nostre azioni. Questo ce lo
dimostrerà bene Bandura nel concetto di autoefficacia. L’autoefficacia percepita è l’elemento di riuscire ad
avere una consapevolezza rispetto alle nostre capacità di svolgere un determinato compito con successo,
ottenendo un rinforzo positivo dall’ambiente.
N.B.

 Il feedback è il singolo elemento ambientale di ritorno, che funziona da rinforzo; se il feedback è legato
per esempio al voto: 30 piuttosto che 18.
 La conoscenza dei risultati è invece legata al fatto che io so che se studio in un determinato modo
posso prendere o 18 o 30.
Quindi mentre il feedback è proprio l’elemento, ciò che materialmente o simbolicamente ottengo, la
conoscenza dei risultati è più la rappresentazione cognitiva che il soggetto ha di quelli che saranno gli esiti del
suo comportamento.

L’apprendimento per scoperta o insight. Un’ altra importante modalità dell’apprendimento cognitivo è
l’apprendimento per insight, di origine gestaltista, di cui si occupò Kohler, studioso gestaltista che
introdusse una serie di esprimenti con dei primati sull’isola di Tenerife.
Esperimento: Di grande impatto furono gli esperimenti con uno scimpanzé di nome Sultano.
 Quest’ultimo venne introdotto in una gabbia, e al di
fuori di essa vi era un casco di banane che si trovava appeso
sul soffitto, dunque una situazione problematica legata alla
difficoltà di raggiungere il cibo. Nel campo percettivo di
Sultano erano stati introdotti diversi oggetti, in questo caso
delle casse, la cui sovrapposizione consentiva al soggetto di
raggiungere il cibo.
 Kolher cercò di creare un ambiente più naturale possibile nel quale realizzare le varie condizioni
sperimentali, e notó che Sultano riuscì ad attuare un’organizzazione percettiva del problema:
inizialmente lo scimpanzé si limitò ad osservare le scatole, in seguito ci giocò, e infine guardandole
rassegnato e sconfitto, si disperò per la difficoltà del compito. Improvvisamente, sebbene sembrasse
rassegnato, cominciò ad assemblare le casse e raggiunse il casco di banane come se avesse avuto un
colpo di genio (lampadina di Archimede).
Kolher fece lo stesso esperimento con oggetti differenti al posto delle casse, come una serie di bastoni che uniti
gli permettevano di prendere il cibo, e così via.
Egli spiegò la cosiddetta intuizione improvvisa dell’animale come una riorganizzazione percettiva e
funzionale degli elementi presenti nel campo percettivo: Sultano, infatti, per risolvere il problema, ha
dovuto realizzare un’idea creativa prendendo gli oggetti che aveva a disposizione, combinandoli tra loro,
riorganizzandoli e dandogli una funzione diversa da quella che avevano singolarmente. Le casse, che da un
punto di vista percettivo, erano contenitori, messe l'una sopra l'altra assumono la funzione di scala, e di
prolungamento degli arti inferiori.
È importante sottolinearne che l'animale non ha operato una scomposizione degli elementi che lo conducono
alla soluzione problema, ma ha adoperato un'organizzazione improvvisa e creativa basata sul processo
fenomenologico della comprensione del problema, e non della scomposizione: la comprensione del
problema consiste nel considerare tutti gli oggetti insieme e dar loro una nuova forma/funzione.
Dunque l'insight è un processo cognitivo che, piuttosto che analizzare un problema nei dettagli tramite un
processo di avvicinamento progressivo alla soluzione, consiste di raggiungerla attraverso un’intuizione
creativa e improvvisa della relazione esistente tra vari elementi che prima sembravano tra loro scollegati.
Questi ultimi vengono sono sottoposti ad una riorganizzazione percettiva e funzionale, per cui gli vengono
attribuite anche dal punto di vista funzionale nuove funzionalità (attribuzione funzionale).

La fissità funzionale: l’esperimento della candela Questo processo di organizzazione gestaltica può
presentare degli intoppi, delle limitazioni. Questo si verifica perché i soggetti tendono a restare ancorati alle
funzioni standard e singole di un oggetto: siamo soggetti alla cosiddetta fissità funzionale, per cui l’influenza
dell’esperienza passata non ci permette di essere creativi e di vedere nuove funzionalità in uno stesso oggetto,
infatti noi tendiamo a rappresentarci le cose sempre nello stesso modo.
Ad analizzare questo concetto è il gestaltista Dunker che spiega tale fenomeno nell’esperimento della candela.
 Dunker fornisce ai soggetti una scatola di chiodi, dei fiammiferi e una candela, dicendo loro di trovare
un modo per appendere la candela al muro.
 Non tutti i soggetti arrivano alla soluzione del problema in modo immediato, questo perché tendono a
restar ancorati alla funzione base dei singoli oggetti, ad esempio il considerare la scatola solo come un
contenitore.
 Infatti la soluzione del problema prevede che la scatola dei chiodini sia usata come sorta di base per
far sì che la candela possa avere una base per essere appesa. Bisognava dava una nuova funzione anche
percettiva alla scatola. Grazie all’idea creativa si è data una nuova
funzione agli oggetti e ciò ha permesso il raggiungimento degli
obbiettivi.
Questo ha portato allo studio di un nuovo tipo di apprendimento,
l’apprendimento per scoperta. Ognuno di noi ha talvolta imparato
delle idee in maniera meccanica, sebbene l'apprendimento meccanico
possa essere efficace, molti psicologi ritengono che l'apprendimento sia
più duraturo e flessibile quando le persone scoprono i fatti e i principi da sole. Nell' apprendimento per
scoperta, infatti le abilità sono acquisite attraverso l'approfondimento e la comprensione, non in modo
meccanico.
Esempio di apprendimento per scoperta è la didattica laboratoriale: gli studenti all'interno dei laboratori
hanno la possibilità di fare delle osservazioni chimiche e hanno così l'opportunità di capire/scoprire le
differenze chimiche tra i vari elementi, o cosa succede nelle varie reazioni. L'apprendimento basato sulla
scoperta personale è molto efficace perché, a differenza del condizionamento dove il soggetto non è totalmente
libero di agire, il soggetto ha la possibilità di essere attivo nell’ambiente ed essere protagonista del suo stesso
apprendimento.

L’apprendimento per osservazione o modelling. Un altro importante tipo di apprendimento, scoperto


da Bandura, è l’apprendimento sociale, conosciuto anche come modeling o apprendimento per
osservazione. Bandura si colloca a cavallo dal modello comportamentista al modello cognitivista, ed è lui a
riflettere molto sulla funzione del rinforzo.
Talvolta nelle relazioni sociali non sempre entriamo a contatto con dei rinforzatori fisici e concreti, infatti
spesso spesso apprendiamo solamente osservando come i comportamenti degli altri vengono rinforzati
positivamente o negativamente: questo tipo di rinforzo è detto rinforzo vicario. Dunque soltanto tramite
l’osservazione delle azioni di un’altra persona, il nostro apprendimento viene influenzato. Questo accade
perché durante il corso della vita abbiamo dei modelli di riferimento, i cui comportamenti vengono intuiti
come un modello da seguire e quindi da imitare. Il bambino ha come modelli di riferimento i genitori, uno
studente può avere i docenti e gli amici e così via.
Il rinforzo vicario può essere paragonato all’apprendimento vicario della paura di Watson?

 In un certo senso sì, anche se in realtà Watson guarda sempre ad una situazione di tipo contingente:
per Watson nell’apprendimento della paura è necessario che si crei un’associazione tra lo stimolo
fobico e l’esperienza emotiva che il soggetto fa, per cui secondo lo studioso c’è sempre una
componente presente nell’apprendimento della paura (reazione emotiva);
 Bandura invece fa un discorso diverso legato più all’osservazione di altri e non alla diretta esperienza
del soggetto rispetto il rinforzo ottenuto.

L’esperimento Bodo dollPer capire come avviene il modellamento, quindi questo apprendimento per
sociale, concentriamoci adesso sull'esperimento Bodo doll di Bandura (l’esperimento della bambola Bobo).
 Bandura prendeva dei gruppi di bambini (indipendentemente dal sesso), li metteva in una stanza e gli
faceva osservare dei filmati nei quali c’era un adulto che interagiva con una bambola gonfiabile
(chiamata Bobo).
 Nel filmato presentato ai bambini vi era una donna
che aveva degli atteggiamenti aggressivi e violenti nei confronti
della bambola gonfiabile: la tirava in aria, le dava calci e così
via.
 Dopo aver visto questo filmato, i bambini venivano
lasciati soli in una stanza nella quale c’erano una serie di
giocattoli, tra cui la bambola gonfiabile. Bandura osserva che i
bambini tendono a replicare il comportamento che avevano
osservato: i bambini prendevano la bambola e la tiravano in
alto, le davano pugni, calci; i fotogrammi sembrano riportare
una sorta di imitazione in termini di replica del
comportamento osservato in relazione alla visione del filmato.
Si evidenzia così la forte importanza del modello e soprattutto del rinforzo ottenuto dal modello, perché
Bandura scopre che se i bambini vedevano che entrava una persona, mentre la donna dava calci e pugni alla
bambola, e le faceva un apprezzamento o le dava una carezza, chiaramente questo tendeva ad aumentare la
frequenza con cui i bambini replicavano questi comportamenti.

Le tappe dell’apprendimento osservativoI rinforzi ottenuti dal modello hanno una condizione vicariante
per l’apprendimento del soggetto. Naturalmente Bandura spiega questo processo di apprendimento osservativo
secondo una prospettiva cognitivo-sociale che prevede 4 tappe (che fanno riferimento all’insieme dei processi
cognitivi):
1. Prestare attenzione e percepire le caratteristiche critiche del comportamento altrui. E’ chiaro
che intanto il soggetto deve prestare attenzione al modello. Noi non apprendiamo tutto per rinforzo
vicario, ma apprendiamo quei comportamenti ai quali abbiamo prestato particolare attenzione e ci
concentriamo sulle caratteristiche peculiari del comportamento che stiamo osservando.
2. Ricordare il comportamento. Nel momento in cui prestiamo attenzione a un comportamento, è chiaro
che l’informazione diventa un nostro patrimonio interno, infatti l’osservazione fatta si sedimenta nella
nostra memoria, entra a far parte dei nostri ricordi.
3. Riprodurre l’azione. In situazioni che hanno caratteristiche simili a quelle che noi abbiamo
precedentemente osservato, ricordiamo i comportamenti (ormai sedimentati nella nostra memoria), e
quindi li replichiamo, e produciamo l’azione similmente.
4. Essere motivati ad apprendere e ad eseguire il comportamento nel futuro. Il soggetto deve essere
motivato a rimettere in atto lo stesso comportamento, che ovviamente viene modificato in base alle
proprie esperienze e i suoi schemi cognitivi (come ci dirà Bandura).
Nella replica del comportamento non vi è la mera imitazione, ma si innesca un ricapitalizzazione
dell’apprendimento altrui: il soggetto fa tesoro del comportamento che ha osservato ma in qualche modo lo
adatta, o reinterpreta alla luce di quelle delle proprie esperienze specifiche di apprendimento pregresso, delle
proprie caratteristiche di autoefficacia, alla luce dei propri schemi cognitivi, delle aspettative. Quindi è vero
che noi apprendiamo per osservazione e per imitazione, ma subentrando la dimensione legata alle differenze
individuali, l’imitazione non è una replica totale e fedele ma è una reinterpretazione dell’esperienza altrui alla
luce dei nostri modelli cognitivi.
E quindi, quando è utile il modellamento nella vita quotidiana? Negli interventi chirurgici, infatti i medici
apprendono per imitazione o per osservazione. Quando i chirurghi non sono ancora pronti per operare guardano
il loro maestro operare, osservano i filmati, assistono alle operazioni chirurgiche, altrimenti non potrebbero
applicare dei modelli alternativi. Anche i piloti d’aereo apprendono in questo modo, per cui tutti i vari
simulatori che molte professioni utilizzano questo tipo di approccio.
Vi è una base di natura neurofisiologica che è legata al concetto di neuroni specchio proposto da Rizzolatti:
la scoperta di questi neuroni che si attivano nel momento in cui osserviamo gli altri, replichiamo
comportamenti altrui; c’è anche una componente attiva, fisiologica dell’imitazione.
Il modellamento: l’aggressività nei media. Bandura fece tantissimi studi sull’aggressività veicolata
attraverso i media. Molti studi hanno confermato che i videogiochi violenti o le scene violente dei film
aumentano i comportamenti aggressivi nei bambini e negli adolescenti che per esempio ci giocano/imitano
nell’ambiente circostante di vita. Tuttavia non necessariamente è così, in quanto va considerato sempre un
processo legato alle esperienze personali che si intrecciano fra di loro nel momento in cui tendiamo a replicare
i comportamenti.
Inoltre ci sono studi su questa letteratura che mettono in relazione il numero di crimini effettuati in un
determinato territorio in relazione all’uscita di un determinato videogioco. Ad esempio, quando viene messo
in vendita un gioco violento, si è osservato se in una determinata area geografica aumentavano i crimini? E se
sì, che tipo di crimini erano aumentati. Vi è un’attenzione di tipo correlazionale, che non è sempre quello di
causa-effetto, per cui sei crimini aumentano allora si può affermare che il gioco abbia avuto influenza, invece
se i crimini rimangono invariato, non si può tenere in considerazione questa variabile.
Ci sono una serie di studi anche per quanto riguarda i rapporti tra aggressività e condizioni familiari. Non è
detto che tutti gli individui che vivono delle condizioni di violenza in famiglia, dopo manifestino queste stesse
caratteristiche, alcuni sì e altri no. Molto dipende dalle variabili individuali, dalle caratteristiche di personalità
degli individui esposti a queste osservazioni e imitazioni di comportamenti più o meno positivi o più o meno
negativi.
La replicazione del comportamento ne vale anche della maturazione del soggetto? Chiaramente, pensando al
famoso mercato dei videogiochi, alcuni hanno dei contenuti più o meno violenti, altri poco etici.
Bandura ci spiegherà anche i meccanismi della dissonanza cognitiva e del disimpegno morale.
L’osservazione dei comportamenti altrui violenti, si lega con il disimpegno morale che è una dimensione
cognitiva di elaborazione del soggetto, che tende ad applicare dei meccanismi di distorsione del pensiero e
dell’interpretazione della realtà a suo uso e consumo per stare in pace con se stesso; ma per fare questo ci vuole
una maturità negli individui:

 Se un gioco violento viene f faccia un bambino di 4 anni che non ha ancora la rappresentazione formale
e astratta delle cose gioca con un gioco violento non è in grado di rimanere circoscritto lì in una
situazione di gioco, lontano dalla realtà;
 Invece se a giocare è un individuo di 16-18 anni la situazione è diversa, in quanto dovrebbe già aver
acquisito una rappresentazione mentale e quindi un’elaborazione del pensiero, per cui riesce a
comprendere che il gioco che sta facendo è ben diverso dalla realtà dei fatti.
Riassumendo. Le diverse fasi dell’apprendimento:
 CONDIZIONAMENTO CLASSICO DI PAVOLV: il soggetto è legato e non può interagire
nell’ambiente, cane imbracato.
 CONDIZIONAMENTO OPERANTE: il soggetto è relativamente libero di interagire con
l’ambiente. Animale più o meno libero.
 APPRENDIMENTO PER SCOPERTA O INSIGHT: il soggetto è totalmente libero di agire
nell’ambiente secondo le sue volontà. Gioca con gli elementi, li cambia, li combina e scopre da solo
la soluzione del problema.
 APPREDIMENTO PER OSSERVAZIONE O MODELLING: il soggetto apprende in virtù
dell’osservazione, tuttavia l’apprendimento non è soltanto imitazione, in quanto intervengono le
variabili individuali, le quali fanno s’ che il soggetto riadatti il comportamento in modo differente
LEZIONE 21/12/2020.

LA MEMORIA
Non ci può essere apprendimento senza memoria e non ci può essere memoria senza apprendimento. La
memoria è quella funzione cognitiva, cioè la capacità di codificare, immagazzinare e recuperare le
informazioni con cui di volta in volta il nostro sistema cognitivo entra in contatto. Gli studi sulla memoria
iniziano con i cognitivisti, che cominciarono a interessarsi alle variabili interne, legate alla nostra mente, che
operano una trasformazione rispetto ai dati ambientali, sensoriali, percettivi con i quali entriamo in relazione.
È importante sottolineare che nello studio della memoria, vanno esplorate le sue due principali tipologie, infatti
sono presenti:

 La memoria a breve termine (MBT);


 La memoria a lungo termine (MLT).
Suddivisibili a loro volta in altre componenti. In generale però i processi mnestici di codifica,
immagazzinamento e recupero riguardano tutta la memoria.
Naturalmente gli studi della memoria sono legati ad un background neurofisiologico che fa riferimento alle
aree dell'ippocampo del nostro cervello, capace di memorizzare 100 miliardi di bit (unita binarie) di
informazione. Ricordiamo il modello della HIP, in base a cui assimiliamo la mente a un calcolatore, per cui
parlando di informazioni le intendiamo sempre come unità di 0 e 1.
Nonostante la memoria sia illimitata e perdura nel tempo, è importante sottolineare il perché della
dimenticanza e quali sono i meccanismi sottesi ad essa, la quale risulta comprensibile e necessaria.

I processi mnestici.
La codificaLa codifica è la fase iniziale dell’elaborazione delle informazioni per organizzarle e
rappresentale nella memoria. Generalmente quando si parla di memoria, si fa riferimento alla metafora della
biblioteca: al pari di tutti i libri catalogati in una biblioteca, allo stesso modo le informazioni devono essere
catalogate nella mente, e per fare ciò ad ognuna di esse deve essere attribuito un particolare codice.
Quest'ultimo è il modo attraverso cui l'informazione viene rappresentata nella nostra mente: il processo di
codifica è finalizzato alla creazione di rappresentazioni mentali o cognitive delle informazioni stesse.

L’immagazzinamentoNel momento in cui le informazioni sono codificate e catalogate, devono essere


immagazzinate nella nostra memoria, così come nella biblioteca i libri vengono conservati nel tempo. Dunque
il processo di immagazzinamento prevede la conservazione nel tempo del materiale codificato a breve o a
lungo termine.

Il recuperoÈ il reperimento delle informazioni codificate e immagazzinate, in un tempo successivo. Quando


ci rechiamo in biblioteca e cerchiamo un libro, naturalmente partiamo dal codice assegnato a quest'ultimo.
Nella fase di recupero diventa quindi importante riflettere sul modo in cui le informazioni sono state codificate
in ingresso: i meccanismi di recupero sono detti chiave-serratura, in quanto occorre trovare la giusta chiave
che ci consente di decodificare l'informazione già archiviata e memorizzata. Il recupero è dunque una sorta di
processo di decodifica.
Il modello dei 3 sistemi della memoria. Nel tempo sono stati elaborati diversi modelli della
memoria, e tra questi il primo fu il modello dei 3 sistemi della memoria elaborato da Atkinson e Shiffrin
(cognitivisti, tra il 1969-1971). Questo modello è il più conosciuto e fondamentale per capire il funzionamento
della memoria, anche se è stato superato in letteratura. Questo modello presuppone l'esistenza di tre tipi di
memoria caratterizzati ognuno da elementi differenti:
Memoria sensoriale (1);
Memoria a breve termine (2);
Memoria a lungo termine (3).

LA MEMORIA SENSORIALE (1).


Le informazioni in ingresso vengono memorizzate dalla memoria sensoriale: i nostri recettori hanno la
capacità di riconoscere le informazioni sensoriali ad esempio, il lampo nel cielo, il rumore del mare, la puntura
di una zanzara, il fruscio del vento. Tutte queste sono informazioni che dobbiamo memorizzare anche per un
breve periodo di tempo.La memoria sensoriale si distingue in:

 Memoria ecoica, che è una memoria legata al mantenimento dei suoni, e dura circa 1-2 secondi;
 Memoria iconica, legata alla vista, con una durata minore di 1 secondo.
La memoria sensoriale ha un’alta capacità discriminativa, cioè riesce a discriminare bene le informazioni. Essa
anche se è breve, è una memoria di tipo adattivo, in quanto ci consente di riconoscere, ad esempio, i pericoli
nell'ambiente (se vedo il lampo scappo).
Questa memoria sensoriale è un magazzino molto breve, infatti ha un decadimento dell’informazione quasi
immediato: l’informazione, se non si attiva un processo di codifica, cioè se non le si presta attenzione, decade
(e si crea l'oblio), per cui viene completamente persa.

Gli studi di SperlingLa memoria sensoriale è stata studiata da Sperling, che ne ha provato l'esistenza. Egli,
con un esperimento, ha dimostrato l'esistenza del registro sensoriale, il quale è una memoria a brevissimo
decadimento, per cui se non si innesca subito il processo di codifica, l'informazione viene persa quasi
immediatamente, in quanto le informazioni nuove sostituiscono continuamente quelle vecchie, prima che la
persona riesca a riferirne la presenza e differenza.
L’esperimento consisteva nel mostrare questa matrice di lettere ai soggetti per circa 200
msec e poi dopo averla tolta dalla vista dei soggetti, Sperling chiedeva loro di ricordare
quante più lettere possibili tra quelle viste. I soggetti riuscivano a ricordare 4-5 lettere
tra tutte quelle viste, anche se erano consapevoli che ne avevano viste molte di più.
Dunque in virtù di questo registro sensoriale, i soggetti perdevano le informazioni nel
momento in cui dovevano verbalizzare il ricordo: i soggetti avevano la consapevolezza di aver visto le
lettere, quindi le informazioni erano arrivate agli organi di senso, ma quando essi dovevano riportare quali
lettere avessero visto non le ricordavano perché non c'era stato il tempo di codificare le informazioni.
Sperling poi fece una seconda variante dell’esperimento associando tre
suoni diversi (alto, medio e basso) alle tre righe orizzontali. I soggetti
dovevano riferire tutte le lettere della riga associata al suono che veniva
emesso (sentivano il suono basso e dovevano riferire F T Y C; sentivano il
suono alto e dovevano riferire rie Y W B M, etc).

In questo caso, i soggetti erano in grado di riportare tutte le 12 lettere della matrice, poiché si era creata
un'associazione tra il suono e le lettere. Si dimostrò che il registro sensoriale è accurato, poiché la
presentazione degli stimoli era sempre di 200 msec, tuttavia l’associazione suono-immagine dipendeva
dall'intervallo temporale tra la presentazione dei due stimoli. Aumentando questo intervallo, l'associazione
non si creava, per cui la prestazione del soggetto era deficitaria. L'esperimento di Sperling per questo motivo
rivela fondamentale anche il principio della contingenza, infatti variando l'intervallo temporale tra la
presentazione del suono e la presentazione delle lettere scopre che la memoria sensoriale dura circa un secondo,
dopodiché l'informazione è persa, in quanto l'associazione non viene effettuata.
Le caratteristiche del registro sensoriale quindi sono:

 Capacità illimitata
 Accuratezza
 Organizzazione pre-categoriale e pre-attentiva delle informazioni
 Rapido decadimento dell’informazione
N.B. Si ritiene che per ogni diverso sistema sensoriale esista uno specifico deposito di memoria a brevissimo
termine: in altre parole la memoria sensoriale può essere anche olfattiva, gustativa, tattile e percettiva. La
memoria sensoriale coinvolge gli organi di senso e le cortecce primarie, le prime stazioni d'elaborazione gli
stimoli. In generale, la memoria sensoriale trattiene le informazioni solo per il tempo necessario a spostarle nel
secondo sistema di memoria, cioè la memoria a breve termine.

LA MEMORIA A BREVE TERMINE (2).


Le informazioni trattenute dalla memoria sensoriale, una volta che l’attenzione selettiva le ha selezionate
dall’ambiente e si è attivato quindi un processo attentivo (ad esempio, se ascoltiamo una canzone e prestiamo
attenzione attiviamo un meccanismo di selezione attentiva, alla musica che stiamo ascoltando, per cui la
memorizzemo più facilmente ed entrerà nella memoria a breve termine), subiscono un processo di codifica
ovvero di rappresentazione per poter passare nella MBT e dopo nella MLT.

 La codifica è una prima rappresentazione mentale che consente un immagazzinamento a breve


termine, per cui la ritenzione, cioè la possibilità di mantenere l'informazione nel tempo è breve.
La MBT è il primo posto dove le informazioni acquistano un “significato”, sebbene la durata massima di
ritenzione sia comunque breve.

La codifica. Il processo di codifica è importante e presuppone dei meccanismi differenti. La codifica si può
fare su base fonologica, su base percettiva, legata anche al significato della parola: le informazioni della
memoria a breve termine possono essere codificate in forme diverse:
 Una codifica iconica, per immagini;
 Una codifica verbale, con parole (informazioni fonologiche, suoni e parole).
Lo stesso contenuto può essere modificato in forma specifiche usando un solo codice (visivo, cronologico,
semantico) o usando più codici insieme (codifica multidimensionale). Il codice è un insieme di regole e
operazioni tramite cui la mente trasforma l'informazione in una forma che può essere conservata in memoria.

 Ad esempio per le parole a contenuto concreto e di uso frequente come “casa”, usiamo una codifica
multidimensionale, per cui abbiamo sia il termine linguistico, ma anche l'immagine;
 Invece per le parole a contenuto astratto come “giustizia” non possiamo avere una rappresentazione
iconica chiara e veloce (alcuni possono pensare al giudice, altri a una bilancia), ma abbiamo soltanto
chiara codifica verbale.

La MBT è limitata. Un'altra caratteristica della memoria a breve termine è che è limitata: l’informazione
che può entrare a far parte della nostra memoria a breve termine è un'informazione limitata, per cui la MBT
conserva un numero limitato di informazioni. Esempi di informazioni che nella vita quotidiana memorizziamo
nella memoria a breve termine sono: il numero di telefono, la lista della spesa, la strada verso casa, ecc. Tutta
una serie di informazioni che sono caratterizzate da una sorta di ordine e sequenza. La MBT trattiene piccole
quantità di informazioni a livello consapevole per circa 12 secondi, per cui è molto difficile svolgere più di
un'attività mnestica nello stesso momento.

Il rehearsal. Le informazioni per poter essere mantenute nella MBT devono essere «reiterate» (aggiornate)
o ripetute mentalmente altrimenti vanno perse per sempre: questo meccanismo è il cosiddetto “rehearsal”, una
specie di ripetizione sub-locale. La MBT è sensibile a interruzioni e interferenze. Se durante questo processo
veniamo interrotti o se nel frattempo intervengono delle interferenze, la nostra informazione può decadere.
Stesso tipo di discorso si può fare con i pensieri, per cui può capitare che se veniamo interrotti andiamo incontro
al fenomeno del “ce l'ho sulla punta della lingua”, in quanto interviene un processo di interferenza.

Gli studi di Miller. In particolare Miller ha scoperto che l’ampiezza massima della memoria è legata a 7
(più o meno 2) elementi. Questo magico numero 7, in base ai meccanismi tramite cui le informazioni si
organizzano, cambia. Miller per scoprire che noi possiamo mantenere 7 più o meno 2 elementi, ha fatto i
cosiddetti esperimenti di Digit Span Test, ossia un test che misura la capacità della memoria verbale a breve
termine.

EsperimentoMiller dava ai soggetti delle liste di numeri o di lettere da memorizzare in sequenza e i soggetti
dovevano elencarli nello stesso ordine in cui li avevano ascoltati. Queste liste avevano un ordine sempre
crescente di elementi, quindi una volta venivano presentati 2 elementi, poi 3, etc. Con questo esperimento si
è scoperto che i soggetti hanno uno span di memoria (ampiezza), in media di 4-5 elementi, mentre chi ha una
memoria eccezionale arriva massimo a memorizzare 7 elementi, ovvero 7 chunk di informazione, o addirittura
9.

Il chunking Più avanti si è evidenziato che questo numero di 7 elementi non deve essere considerato come
singola unità informativa, perché in virtù dei meccanismi associativi della memoria a breve termine, noi
possiamo associare più elementi tra di loro applicando il meccanismo Chunking (cianching), cioè il
raggruppamento significativo di stimoli che vengono immagazzinati come singole unità nella memoria, che
favorisce la codifica e il recupero. Questo meccanismo in altre parole consiste nell'organizzazione del materiale
in unità più ampie dotate di significato e facilita i processi di codifica e recupero dell'informazione, in quanto
riduce la quantità di materiale da elaborare.
 Ad esempio prendiamo in considerazione il numero 3391837918. Il numero può essere scomposto e
raggruppato in vari modi come per esempio 339-18-37-918 o 33-91-18-37-91-8. Quando per esempio
raggruppiamo i numeri 339 non li vediamo più come singole unità, ma come un unico chunk di
memoria, dunque come un unico elemento.
 Per capire il chunking facciamo un esempio con il gioco degli scacchi. Ogni pedina può svolgere
determinati movimenti nella scacchiera: l'insieme di passi che ciascuna pedina può fare sono diversi,
infatti il cavallo si muove di diverse caselle per formare una L, per cui la mossa in generale che sarà
memorizzata come L rappresenta dunque un unico chunk di memoria. Si è visto infatti che gli
scacchieri hanno delle buone capacità di rappresentazioni mentali di memoria viso-spaziale a breve
termine.

La reiterazione delle informazioni. Abbiamo già detto che la memoria a breve termine si differenzia dalla
memoria a lungo termine perché le informazioni decadono rapidamente: il tempo di persistenza dei ricordi a
breve termine è rapido se non interviene la reiterazione o rehearsal, che svolge 2 funzioni:
Conservare le informazioni nella MBT;
Trasferire le informazioni nella MLT.
Il processo di reiterazione può essere diviso in due tipi:
La reiterazione ripetitiva, che consiste nell’apprendere per mezzo della semplice ripetizione. È un
apprendimento meccanico che contribuisce a fissare le informazioni sono nella memoria a breve
termine. Ad esempio ripetere a mente un numero;
La reiterazione elaborativa: è un apprendimento significativo che utilizzando la codifica
elaborativa attribuisce significato all’informazione e la collega ad altre già depositate nella MLT.
Dunque si attribuisce un significato all’informazione e la si va a collegare con quelle già possedute, e
in questo senso l'informazione dalla memoria a breve termine passa in quella a lungo termine.

La memoria di lavoro. La MBT è stata riformulata e adesso si preferisce parlare di “memoria di lavoro”. Il
termine stesso fa notare una differenza dalla visione classica della MBT, che è appunto vista come un mezzo
per immagazzinare passivamente le informazioni che servono per un determinato momento. Tuttavia ha anche
una funzione operativa, perché noi utilizziamo spesso la nostra MBT quando dobbiamo effettuare una serie
di operazioni cognitive:

Esempio Se dobbiamo leggere un libro o svolgere un calcolo matematico, è chiaro che abbiamo bisogno di
una memoria operativa. Poniamo il caso del processo della lettura: in una pagina le parole si susseguono l'una
dopo l'altra in sequenza, per cui mentre leggiamo dobbiamo elaborare progressivamente tutte quelle
informazioni linguistiche, recuperandone altre nella MLT (dobbiamo ricordare che L+A forma LA). Nel meccanismo
della lettura la memoria deve mantenere l'informazione, in quanto il soggetto deve ricordare ciò che ha letto
prima e cosa dopo in quanto si tratta di una lettura non soltanto meccanica, ma finalizzata anche alla
comprensione.
Quindi la memoria di lavoro è una memoria operativa e attiva che noi utilizziamo quando dobbiamo
svolgere «operazioni cognitive». Essa ha le funzioni:

 di mantenere l’informazione nel momento in cui serve;


 di recuperare le informazioni nella MLT;
 di elaborare le informazioni stesse. Il soggetto ha bisogno di accedere al significato delle informazioni.
Questo avviene in compiti di apprendimento come la lettura, compiti di problem-solving, di pianificazione di
attività (spesa, strada).

La tecnica del doppio compitoLa memoria di lavoro è stata studiata da Baddeley ed Hitch intorno alla
metà dei anni 70’ utilizzando la tecnica del doppio compito. Tale tecnica parte dal presupposto che per la
limitata capacità della MBT, se essa è impegnata a risolvere un compito primario, allora l’altra prestazione nel
compito secondario risulta compromessa e deficitaria.
Negli i soggetti devono svolgere 2 compiti contemporaneamente:
 Compito di ragionamento: verificare che una frase fosse vera o falsa;
 Compito di memoria: ripetere sequenze di numeri composte da 0 a 8 cifre.
Lo sperimentatore quindi chiedeva al soggetto di dire se le frasi prese in esame fossero vere o false e poi di
ricordarsi le ultime due parole delle due frasi e così via, aumentando di volta in volta il numero delle frasi.
Questo paradigma del doppio compito evidenziò nei risultati che il compito di memoria diventa sempre più
difficile in funzione della lunghezza delle sequenze da memorizzare. Se il soggetto deve ricordare una-due
parole avrà una prestazione diversa rispetto a quando deve ricordarne di più. Il compito di ragionamento
veniva rallentato, ma non impedito del tutto.
Gli autori conclusero quindi che occorreva ridefinire la MBT come composta non da un magazzino unico, ma
da un magazzino multicomponenziale, ovvero fatto di un serie di magazzini temporanei che
“contemporaneamente” reiterano ed elaborano le informazioni. Questi magazzini o servosistemi sono a loro
volta in qualche modo governati da un meccanismo attentivo che viene chiamato “esecutivo centrale”.
Il modello di memoria di lavoro si rappresenta con questo schema:

Questo schema presenta:


 Il circuito fonologico- articolatorio (o loop articolatorio) deputato a elaborare l’informazione
fonologica;
 Il taccuino visuo-spaziale, deputato a elaborare l’informazione viso-spaziale;
 L’esecutivo centrale che è responsabile del controllo attentivo e della coordinazione del materiale.
Questa memoria di lavoro deve essere in stretta relazione con la memoria a lungo termine che, attraverso il
buffer episodico, una sorta di cuscinetto tra la nostra memoria a breve termine e le informazioni depositate
nella memoria a lungo termine, recupera le informazioni dalla memoria a lungo termine. La memoria di lavoro
è una memoria più operativa che caratterizza meglio il processamento a breve termine delle nostre
informazioni.

EsempioAlla luce di questo modello della memoria di lavoro riprendiamo l'esempio della lettura.
Quando leggiamo, utilizziamo la memoria di lavoro, per cui:
 Si attua inizialmente il circuito fonologico articolatorio perché mentre leggiamo, nella mente
ripetiamo le parole tramite i loro suoni;
 Simultaneamente si deve attivare il meccanismo del taccuino visuo-spaziale poiché nella lettura il
processamento delle informazioni è un processamento sequenziale (infatti noi leggiamo in sequenza
le parole) e il nostro SNC elabora quindi le informazioni visive.
Quindi mentre il cervello elabora le informazioni acustiche e fonologiche allo stesso tempo processa quelle
visive, ovvero sia la sequenza delle parole, che le lettere stesse che sono le une diverse dalle altre per
caratteristiche come la forma.
 Quando si legge si deve inoltre prestare attenzione a ciò che si legge, in modo da comprendere ciò che
si è letto, quindi è necessario un esecutivo centrale che consente il controllo attentivo e il
coordinamento tra le informazioni visive e quelle fonologiche (il cervello vede A e dice A).
Analizziamo meglio le 3 componenti:
Il loop fonologico-articolatorio. Si compone di un magazzino fonologico (buffer fonologico) che ha il
compito di mantenere l’informazione linguistica e di operare un processo di controllo articolatorio, per cui vi
è un meccanismo di ripetizione sub-vocalica, basato sul linguaggio interno. Le informazioni contenute in
questo magazzino dopo circa due secondi decadono, e a quel punto non possono più passare o essere recuperate
se non tramite il processo della reiterazione.
Il taccuino visuo-spaziale. Esso interviene nella memorizzazione delle informazioni visive e spaziali tramite
la loro rappresentazione, lavora infatti come un vero e proprio taccuino, ovvero un foglio bianco sul quale
possiamo fare schizzi delle immagini, delle lettere che compongono le parole, cioè sul quale la nostra mente
scrive le rappresentazioni visive.Nella vita quotidiana il TVS ci serve per orientamento spaziale.
L’esecutivo centrale. È un meccanismo di controllo attentivo (se si legge per comprendere l’attenzione deve
essere selettiva, focalizzata e sostenuta nel tempo), che interviene nella pianificazione e nella presa di decisione
(fermarsi per comprendere meglio o proseguire nella lettura). Viene paragonato ad un sistema attentivo
supervisore (Sistema Attentivo Supervisore di Norman e Shallice) che è alla base delle funzioni esecutive
che regolano i processi automatici e controllati.
P.S. Le persone che soffrono di dislessia e concentrano tutta la loro attenzione nella decodifica delle
informazioni che leggono possono avere dei problemi nella comprensione del brano. Questo accade quando
interviene l’esecutivo centrale, il quale, mentre processa le informazioni, alcune le processa in automatico e
altre in modo consapevole e conscio per favorire la prestazione in quel compito complesso che necessita più
operazioni cognitive che devono essere svolte nello stesso momento.

LA MEMORIA A LUNGO TERMINE (2).


La differenza fondamentale tra la memoria a breve termine e la memoria a lungo termine è la capacità di
ritenzione delle informazioni, infatti nella memoria a breve termine le informazioni permangono per un
tempo relativamente breve a meno che non avvenga il meccanismo di reiterazione elaborativa che le sposti
nella memoria a lungo termine. La memoria a lungo termine invece è un magazzino a capacità illimitata, nel
quale si registrano e conservano tutte le informazioni nell'arco della nostra vita che abbiamo necessità di
ricordare. La sua capacità di permanenza delle informazioni è illimitata sia nel tempo sia nell’ampiezza,
quindi si conservano tutte quelle informazioni che possono essere recuperate per le azioni che le necessitano;
dunque è la sede dei ricordi.

La teoria della specificità della codifica. Per essere depositate e archiviate nella memoria a lungo termine,
le informazioni devono essere codificate. Il principio che sta alla base della MLT è il principio della
specificità della codifica, proposto da Tulving, un eminente studioso della MLT, secondo il quale tutti gli
elementi che dobbiamo depositare nella nostra memoria e che necessitiamo di ricordare, devono essere
codificati. Secondo questa teoria, l’elemento da ricordare è codificato in relazione al contesto nel quale viene
appreso e produce una traccia mnestica unica che incorpora informazioni sia sull’elemento che sul contesto.Ciò
significa che la codifica non caratterizza solo la singola informazione ma anche il contesto in cui questa è stata
codificata.

Esempio Poniamo attenzione alla relazione esistente tra la memorizzazione delle informazioni e il nostro
stato affettivo (il nostro umore). I soggetti che si trovano in un uno stato affettivo positivo tendono a ricordare
più spesso, in quel momento, azioni positive della loro esistenza. Questo avviene perché c’è una sorta di
congruenza tra lo stato effettivo del momento, ovvero il contesto in cui il soggetto si trova in quel momento,
e le informazioni depositate nella sua memoria.
Durante alcuni esperimenti venivano intervistati degli studenti universitari dopo il conseguimento di un esame:
 alcuni avevano ricevuto un voto positivo, e quindi era in uno stato emotivo gioioso;
 altri invece ne avevano ottenuto uno negativo, e quindi erano più tristi o arrabbiati.
Dunque entrambi i diversi gruppi di soggetti si trovavano in due condizioni emotive diverse. Venne chiesto ad
entrambe le categorie di ricordare i vari eventi della propria esistenza (memoria autobiografica) che venivano
in mente in quel momento:
 I primi, che erano in uno stato affettivo gioioso, tendevano a ricordare eventi felici;
 I secondi ricordavano eventi spiacevoli.
In conclusione, lo stato affettivo del contesto era congruo all’esperienza codificata: la codifica non riguarda il
singolo evento ma anche il contesto in cui questo viene codificato.

I diversi livelli di codificaA fronte di questo principio della specificità di codifica e a seguito di ulteriori
studi a riguardo, i ricercatori hanno evidenziato che i processi di codifica possono interessare un’informazione
secondo diversi livelli, inoltre più è profonda la codifica di una particolare informazione, più è facile che quella
stessa informazione rimanga depositata nella memoria a lungo termine. L’informazione in ingresso può essere
decodificata secondo una codifica che si va ad approfondire sempre di più:
 Percettiva, la parola è codificata secondo una sequenza di lettere scritte con lo stesso carattere. Ad
esempio la parola CANE è un insieme di lettere scritte in maiuscolo. Questa codifica è molto
superficiale, perché di per sé concentrandosi solo sul carattere della parola cane, quando la si vedrà
scritta in un altro modo, non la si saprà riconoscere in quanto non è stata codificata a sufficienza per
entrare nella MLT.
 Fonologica, la parola è codificata in termini di proprietà acustiche e fonologiche, è una codifica più
profonda. La parola CANE fa rima con PANE, per cui possiamo ricordare la rima e riconoscere la
parola.
 Semantica, la parola è codificata sulla base del suo significato, si attua quindi una classificazione della
parola in una rete di altri significati. La parola Cane sarà quindi legata a un animale, a un quadrupede.
 Semantica approfondita, la parola non viene codificata solo in relazione al significato rispetto ad
altri ma viene inserita all’interno di un contesto di informazioni, come quello della frase. Ad esempio
il cane è il migliore amico dell'uomo.

I diversi tipi di memoria a lungo termine. Vi sono diversi tipi di MLT, in relazione alle informazioni
che vi depositiamo.
Noi possediamo:
1. Una memoria a lungo termine esplicita, detta anche memoria dichiarativa. Essa è legata al ricordo
cosciente e consapevole di fatti, nozioni e informazioni e definizioni (il significato dei vocaboli, una data
particolare, etc). La memoria dichiarativa si divide a sua volta in:
 Memoria semantica, ovvero una memoria fattuale che riguarda la conservazione delle conoscenze e
dei fatti generali, quindi relativa ai concetti, alla definizione e alla classificazione degli oggetti
(nozioni, concetti, definizioni, formule, ortografia)
 Memoria episodica, che indica il ricordo di singoli eventi connotati secondo una dimensione spazio-
temporale. Essa è legata agli episodi della nostra vita che noi riteniamo i nostri ricordi relativi alla
nostra esistenza (memoria autobiografica) o a eventi e situazioni che caratterizzano la nostra vita. Un
particolare tipo di memoria episodica è la memoria autobiografica, che si riferisce al ricordo di eventi
strettamente personali. Essi ci rendono possibile viaggiare mentalmente all’indietro nel tempo e ri-
vivere gli eventi.
Entrambe sono in stretta relazione tra loro, infatti non ci può essere memoria episodica senza memoria
semantica:
 Ad esempio l’aver imparato a leggere è passato attraverso episodi della nostra infanzia relativi alla
nostra frequenza delle scuole. In parole povere, la conoscenza dell’alfabeto è un ricordo della memoria
semantica, in quanto è una nozione vera e propria, ma allo stesso tempo noi lo abbiamo imparato alle
scuole elementari, e quindi ricorderemo tutti quei momenti vissuti mentre apprendevamo, e questi
ricordi d’infanzia fanno parte della nostra memoria episodica.
 Lo stesso vale ad esempio quando facciamo un viaggio oppure quando ci rechiamo in un museo: la
conoscenza delle opere che vediamo al suo interno fa parte della memoria semantica dato che è sempre
una nozione, ma allo stesso tempo l’essere andati al museo è sempre un’esperienza di vita che fa parte
della memoria episodica.

2. Una memoria implicita o procedurale che riguarda l’acquisizione, il mantenimento e l’uso delle abilità
e delle procedure per fare le cose in maniera automatica e abitudinaria. Per implicita si intende infatti che
non ne siamo completamente consapevoli, quindi contiene repertori di azioni automatiche (andare in
bicicletta).
I ricordi espliciti sono conoscenze apprese in maniera diretta intenzionale o esperienze passate che possono
essere revocate consapevolmente. In particolare, riguardano tutto il materiale che può essere descritto
verbalmente o consapevolmente soggetto e comprendono la memoria episodica e la memoria semantica.
Viceversa, i ricordi impliciti sono indiretti e incidentali, inoltre non sono consapevoli poiché non sono stati
memorizzati intenzionalmente.
Priming. Gli psicologi hanno verificato per la prima volta l'esistenza di ricordi impliciti studiando la perdita
della memoria causata da danni cerebrali. Immaginiamo ad esempio che a un paziente venga mostrato un
elenco di nomi comuni e dopo qualche minuto, lo si invita a ricordare i nomi dell'elenco, ma purtroppo non ne
ricorda nessuno. Ora, anziché chiedere al soggetto di rievocare esplicitamente l'elenco di nomi, potremmo
fornirgli un prime, suggerendogli le prime due lettere di ciascuna parola. Accade che il paziente pronuncia
proprio la prima parola dell'elenco pur non essendo consapevole di ricordarlo. Le due lettere sono degli indizi,
cue, che hanno attivato il priming, ricordi impliciti che a loro volta hanno influenzato le sue risposte. I ricordi
impliciti spesso attivati fornendo alla persona indizi o cue di memoria, come la prima lettera di certe parole
o disegni portale di oggetti.

Memoria retrospettiva e prospettica. La memoria a lungo termine è una memoria:


 retrospettiva, cioè che riguarda il ricordo di eventi del passato;
 prospettica, cioè relativa all’intenzione di compiere azioni nel futuro, quindi ci fa ricordare le cose
che dobbiamo fare in futuro. Serve per definire e pianificare i nostri schemi di comportamento e azione
e utilizza la memoria semantica ed episodica e la WM.
Possiamo avere due tipi di memoria prospettica:

 Memoria prospettica che riguarda il ricordo degli eventi, quindi compiti basati sull’evento, per cui
facciamo qualcosa in base a quell’evento (ad esempio per il compleanno di mia madre).
 Memoria prospettica sulla base del tempo, cioè compiti basati sul tempo, per cui facciamo qualcosa
rispetto alla scansione oraria della giornata, in relazione al passare del tempo ufficiale (ad esempio mi
alzo quando suona la sveglia, prendo la pillola di sera)
La memoria in generale è sensibile al declino cognitivo (quando siamo più anziani tendiamo a dimenticare le
cose), e in particolare la memoria prospettica sulla base del tempo è più soggetta al declino cognitivo
rispetto a quella basata sull’evento: l’anziano, magari si dimentica che la sera deve prendere la pillola, ma si
ricorda che tra due giorni sarà il compleanno del nipote.
Quindi: la memoria prospettica legata agli eventi va mantenuta e quella legata al tempo subisce un declino.

La memoria semantica. Un’attenzione particolare va rivolta sulla memoria semantica, che governa
l’insieme di tutte le conoscenze che abbiamo del mondo, quindi è la conoscenza generale sul mondo e sul
linguaggio che nel tempo abbiamo immagazzinato nella MLT.

Il modello delle reti gerarchicheQuesta memoria deve essere ben organizzata, un po' come una biblioteca:
più è organizzata la nostra biblioteca anamnestica, meglio recuperiamo le informazioni o le conoscenze che
abbiamo sul mondo. Tantissimi studi hanno cercato di evidenziare qual era il modello di organizzazione della
memoria semantica e in particolare Collins e Quillians propongono il modello delle reti gerarchiche per
spiegare l’organizzazione delle informazioni nella memoria semantica: quest’ultima, replicando il meccanismo
degli scambi neuronali, scambia informazioni secondo un modello di organizzazione a reti gerarchiche; le
informazioni nella nostra memoria sono organizzate in diversi nodi, ognuno dei quali è un nodo informativo.
Quando cominciano a conoscere una nuova parola e dobbiamo associare ad essa un nuovo significato, è chiaro
che dobbiamo far appartenere quell'elemento a una categoria, che a sua volta sarà interconnessa con altre.

Esempio
 L’uccello vola, ha le ali e le piume;
 Il concetto di uccello è subordinato a quello dell’animale che mangia, respira e
cammina;
 dentro la categoria animale sono presenti la sottocategoria uccello, pesce;
 poi la sottocategoria può specificarsi nelle diverse speci
(anatra).
Quindi tutta la nostra memoria
semantica ha
un’organizzazione a nodi
informativi ed è stata studiata
con una serie di compiti vero o
falso. Attraverso questi
compiti si è visto che le
informazioni sono collegate
tra loro, ma hanno diversi
rapporti in termini di distanza,
in quanto ci sono dei nodi tra
di loro più vicini e alcuni più
distanti. Tutta una serie di
esperimenti che misurano i
tempi di reazione hanno riscontrato che più tempo perdono i soggetti per dare una risposta, tanto più distanti
sono le informazioni tra di loro.
Esempio La balena ha la coda? FALSO, perché la balena è più legata al nodo animali, ma meno legata al
nodo animali con la coda.

P.S. Questo concetto sulla distanza informativa lo capiremo meglio dopo, quando parlando di
rappresentazione categoriale delle informazioni. Ad esempio, di fronte alla domanda il pinguino è un
uccello? Alcuni potrebbe dire subito si, altri invece no perché non vola. Per cui se per me l'uccello tra le sue
caratteristiche ha che deve saper volare, allora posso considerare quel nodo più distante dalla categoria di
appartenenza.

La teoria della propagazione dell’attivazione Collins e Loftus sostennero che la memoria va considerata
in termini di associazioni di differenti informazioni (connessioni semantiche). La memoria è costituita da
rappresentazioni mentali di gruppi di informazioni interconnesse. Questo significa che le informazioni sono
collegate tra di loro secondo dei meccanismi associativi e quando noi le creiamo o le recuperiamo nella nostra
memoria a lungo
termine, dobbiamo
andare a recuperare le
connessioni semantiche
(le relazioni di
significato) che ci sono
tra le informazioni
perché tutte le
informazioni sono
interconnesse.

EsempioSe noi partiamo dal nodo informativo ROSSO, questo nodo può essere legato alla ciliegia che è
rossa, ma la ciliegia è un frutto legato ad altri frutti (pera,mela).
Quindi sia quando strutturiamo le nostre informazioni dentro la nostra memoria a lungo termine di tipo
semantico, sia quando le andiamo a recuperare, il meccanismo è un meccanismo di connessioni semantiche
organizzato gerarchicamente e i nodi della memoria si attivano secondo la teoria della propagazione
dell’attivazione (cioè un nodo attiva l’altro).

I ricordi parziali. Non sempre i nostri ricordi sono rappresentativi della totalità degli eventi e delle nostre
conoscenze che abbiamo su quel particolare dominio, infatti nella memoria sono molto frequenti i ricordi
parziali. Due forme specifiche di ricordi parziali sono:
 Esperienza di TOT (tip of tongue, o ce l’ho sulla punta della lingua) per cui il ricordo è presente ma
non pienamente recuperabile, dunque non si trova la chiave per aprire la serratura;
 Esperienza di deja-vu, un’esperienza nuova stimola vaghi ricordi di un’esperienza passata che aveva
caratteristiche simili, ma senza fornire nuovi particolari. Il deja vu è l’illusione di aver già sprimentato
o vissuto una situazione che in realtà si sta vivendo per la prima volta, questo accade perché il ricordo
preesistente è troppo debole per arrivare al livello della consapevolezza. Capita spesso di dire "questa
cosa mi è familiare", per cui viviamo situazioni simili ad altre di cui non abbiamo piena
consapevolezza.
L’esistenza dei ricordi parziali porta a focalizzare l'attenzione sui meccanismi di recupero della nostra
memoria, che seguono il processo chiave-serratura.

Misurare la memoria. Nel momento in cui andiamo a recuperare le informazioni possiamo avere 3 tipi di
meccanismi:
Test di rievocazione o di richiamo libero (1);
Test di riconoscimento (2);
Test di riapprendimento (3).
Test di rievocazione (1). Il meccanismo della rievocazione o richiamo libero richiedono spesso richiedono
una memoria verbatim (parola per parola). Questo test prevede di chiedere al soggetto di richiamare
liberamente un’informazione dalla sua memoria. Ad esempio se l'insegnante chiedesse allo studente la
definizione di memoria a lungo termine, egli dovrebbe andare a recuperare nella sua mente una definizione.
Questo meccanismo interessa:
- Sia il recupero della memoria a lungo termine, perché richiede di andare a prendere una determinata
definizione o parola sedimentata nel magazzino della MLT. Per esempio un ricordo di rievocazione a
lungo termine è l’identikit che viene fatto dai poliziotti.
- Sia la memoria a breve termine infatti per esempio, quando si fa il digit span test e si chiede al soggetto
di ricordare 9 numeri in sequenza, egli deve rievocare le informazioni che ha memorizzato a breve
termine.
Si nota che in questo meccanismo basato sul ricordo libero, applicato a compiti di MBT, l’ordine in cui le
informazioni vengono memorizzate ha un effetto sulla rievocazione, determina gli effetti di posizione seriale:
 L’effetto primacy;
 L’effetto recency.
I soggetti tendono a ricordare più facilmente o le informazioni presentate inizialmente (prime parole o numeri-
Primacy) o si ricordano le ultime parole (recency).

EsempioAd un party, se ci vengono presentate tante persone, è più probabile che ci ricordiamo i nomi del
primo e dell’ultimo che abbiamo conosciuto piuttosto che quelli in mezzo. Ciò si verifica perché si verificano
questi effetti di posizione seriale, per cui le informazioni che stanno in mezzo sono delle info più sensibili
all’interferenza: mentre il primo e l’ultimo nome non vanno in contrapposizione con nessuno, perché non c’è
un elemento che li precede o che li segue, invece quelli al centro vanno in conflitto (in interferenza) con gli
elementi che li precedono o seguono in base alla posizione.
Test del riconoscimento (2). Il meccanismo del riconoscimento è basato sul riconoscimento delle
informazioni depositate nella memoria a lungo termine. Per esempio i test a scelta multipla si basano su questo
meccanismo, in quanto di fronte una domanda, il soggetto deve soltanto riconoscere la risposta giusta tra quelle
presenti (chi ha fondato il laboratorio a Lipsia? Avendo tra le scelte Wundt lo riconosco subito).
Lo stesso meccanismo è la base dell’interrogatorio della polizia con le foto segnaletiche: il testimone è invitato
a riconoscerei il criminale tra tutti quelli presenti.
Questo è un metodo preciso ma risente dei distrattori utilizzati, cioè falsi elementi inseriti accanto
all’elemento da riconoscere. Se i distrattori sono molto simili all’elemento corretto, il ricordo può essere
carente, in quanto si possono creare dei falsi ricordi o falsi positivi. Per esempio un testimone può affermare
di aver visto un criminale di colore. In questo caso se il poliziotto gli mostra in un gruppo di foto di uomini
bianchi, una sola che ritrae un uomo di colore, è chiaro che il testimone indicherà lui, essendo l’unico di colore,
tuttavia la falsa identificazione è molto probabile. Per evitare problemi del genere, un metodo più affidabile è
quello di inserire tutti i distrattori di aspetto simile a quello della persona desiderata, per cui il poliziotto
dovrebbe prendere l'uomo di colore e farlo confrontare con tante altre persone di colore.
Per attuare un meccanismo di riconoscimento si deve aver avuto un’esperienza pregressa con l’informazione;
quindi il testimone deve effettivamente averlo visto che commetteva il crimine.
N.B. Il meccanismo del recupero dell’informazione è un meccanismo che risente della codifica, quindi è chiaro
che se in ingresso si codifica bene l’informazione, perché il codice attribuitole è sbagliato, è normale che poi
si ha più difficoltà a richiamare l’informazione. Pertanto in realtà l’immagazzinamento e il successivo recupero
dell’informazione vanno di pari passo.
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DOMANDE.
-Si possono distinguere i veri dai falsi ricordi? Non sempre c’è una netta linea di demarcazione tra un ricordo
vero e un ricordo falsato, a volte la differenza la fa la presenza di altri spettatori ad un determinato evento
oppure dipende anche dalla consapevolezza: il soggetto può essere pienamente consapevole di aver vissuto
quel ricordo, altre volte no, ma non è così immediata la distinzione.
-In psicocibernetica si dice che la nostra mente non distingue ciò che viviamo veramente da ciò che
immaginiamo, è così? Noi studiamo le funzioni differenziando le une dalle altre, ma è chiaro che poi tutti i
processi siano interconnessi tra di loro, quindi anche nella memoria si frappongono poi i processi legati alle
nostre emozioni, alle nostre motivazioni, alle nostre rappresentazioni mentali in termini di elaborazione di
pensiero, di pregiudizi, di stereotipi.
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Test di riapprendimento (3). Un altro metodo (che è lo stesso metodo che ha utilizzato anche Ebbinghaus
quando studiò i meccanismi dell’oblio) per andare a misurare la memoria, è il test di riapprendimento, cioè il
tempo utilizzato per riapprendere nuovamente una serie di informazioni precedentemente memorizzate. Esso
è legato ai famosi meccanismi del recupero spontaneo di cui ci hanno parlato i comportamentisti.
Questo meccanismo è molto semplice: noi in genere abbiamo un tempo di apprendimento di alcune
informazioni e poi, dopo una pausa, possiamo andare a riapprendere il materiale che abbiamo precedentemente
immagazzinato. Se la prima fase di apprendimento è stata adeguata, la fase di riapprendimento è naturalmente
più veloce, quindi il risparmio del tempo è la misura della memorizzazione.
 Si tratta del famoso ripasso degli studenti; infatti se si è studiata bene la lezione, il successivo ripasso
sarà molto più veloce: il tempo del riapprendimento è appunto molto più breve, proprio perché si
vengono a creare una serie di chiavi associative del ricordo adeguate che consentono di recuperare le
informazioni, e a quel punto anche questa è una misura della memorizzazione.
 Anche gli schemi motori e le abilità procedurali, rimangono illimitate nel tempo: quando ad esempio
si impara ad andare in bicicletta, anche se poi non la si prende per tanti anni, è chiaro che il soggetto
nel momento in cui la si guiderà di nuovo, avrà bisogno prendersi un attimo per coordinare l’equilibrio,
ma non cadrà perché si riattiva immediatamente lo schema motorio e procedurale che era stato
memorizzato dalla nostra memoria implicita di tipo procedurale (o guidare dopo un incidente), per
quei pattern motori vengono nuovamente rimessi in atto.

L’OBLIO.
Gli studi di Ebbinghaus. Il test di riapprendimento è stato utilizzato da Ebbinghaus, che è stato uno dei
primi autori che ha studiato i meccanismi dell’oblio. Ebbinghaus voleva studiare sperimentalmente la
memoria, quindi a memorizzazione di elementi, di bit di informazioni. Egli si ispirava ai principi dello
strutturalismo, quindi fondamentalmente utilizzava sé stesso come cavia sperimentale.
Lo studioso per fare ciò, memorizzava delle sillabe senza senso, utilizzava le cosiddette “non parole”, quindi
delle triplette di lettere come F-K-J oppure Y-Z-H e attraverso l’esercizio, cercava di leggere e ripetere più
volte fino a quando non arrivava a memorizzare l’intera lista. Egli utilizzava queste sillabe per essere sicuro
che i risultati non fossero inficiati da un apprendimento precedente, infatti se ad esempio ci dicessero di
memorizzare le parole cane-pasta-casa, noi potremmo memorizzarle attribuendole a un significato, o creando
una storia in cui c’è un cane dentro la casa che mangia la pasta e allora immediatamente le tre parole verrebbero
memorizzate sulla base di questo significato, e quindi fissate nella MLT.
Lo studioso dunque calcolava il tempo impiegato per apprendere le liste, e il tempo necessario per
riapprenderle dopo la prima volta, cioè quante volte le doveva andare a ripassare per ricordarsele bene.
Egli adopera il metodo del risparmio: confrontando il numero di prove necessarie a riapprendere la lista con il
numero di prove necessarie per apprenderla la prima volta, quindi calcolando questo scarto tra il primo
apprendimento e il riapprendimento della lista, egli misura il decadimento delle informazioni cioè l’oblio,
perché quelle che richiedevano più prove, cioè più ripassi erano quelle che erano decadute di più rispetto alle
altre.

La curva dell’oblio. Facendo questi esperimenti, lo studioso scopre una vera e propria curva: la curva
dell’oblio di Ebbinghaus. Questa curva mostra:
o Verticalmente a sinistra il numero di triplette
ricordate in percentuale, quindi da 0 a 100;
o Invece orizzontalmente in basso il tempo
trascorso dall’apprendimento, cioè i giorni
che passavano.
Pertanto lui memorizzava le stringhe di “non parole”
misurava il riapprendimento dopo intervalli temporali
(di solito diversi giorni) e scopre che dopo soli due
giorni, c’è un decadimento immediato, in quanto si
ricorda meno del 30% delle informazioni, e poi la
curva si stabilizza, per cui anche se arriva a valori
minimi, non arriva mai allo 0.
Il decadimento immediato delle informazioni avviene dopo sole 9 ore: inizialmente dunque il soggetto ricorda
tutto, ma man mano che va passando il tempo, va ricordando sempre meno, fin quando arrivo alle 9 ore dove
già si vede come il numero di parole ricordate passa da 100 a 25; quindi l’individuo dopo due giorni ricorda
soltanto il 30% delle informazioni precedentemente memorizzate.
Ebbinghaus di fatto scopre che l’oblio esiste, anche se in realtà questa sua concezione di oblio è basata solo
sulla tecnica della reiterazione e ripetizione, dunque su un apprendimento meccanico, il quale è efficiente
soltanto nell’immediato. Esempio Se io ripasso il giorno prima, l’indomani bene o male dovrei ricordare;
invece se il ripasso lo si fa due giorni prima dell’esame, il 70% delle informazioni, se non si è applicato un
giusto processo di attribuzione di significato a quelle informazioni, è decaduto.

Perché dimentichiamo? Il fatto che esista un decadimento della traccia mnestica è dimostrato
sperimentalmente, ma bisogna capire perché accade ciò.La ragione più comune per cui dimentichiamo è legata
al fatto che non abbiamo prestato attenzione al materiale da ricordare, quindi essendoci un deficit nella fase
di codifica, significa non abbiamo utilizzato un meccanismo adeguato di codifica delle informazioni e non
creando una rete di significato, non creiamo il ricordo e dimentichiamo.

Le 3 teorie. Tuttavia dimentichiamo anche informazioni già codificate per effetto di 3 processi:
 Teoria del decadimento della traccia (1);
 Teoria dell’interferenza (2);
 Oblio dipendente dal segnale (o cue) (3).
Teoria del decadimento della traccia (1). Questa teoria è quella dimostrata da Ebbinghaus, per cui con il
passare del tempo, il ricordo si affievolisce: il ricordo che si deposita nel nostro sistema cognitivo sotto forma
di engramma (si definisce appunto così un ricordo depositato nel cervello), in realtà con il tempo si perde. La
traccia mnestica decade naturalmente: la modificazione fisica dell’encefalo (engrammi) che si forma quando
viene appreso un nuovo materiale, scompare per il semplice trascorrere del tempo (oblio dipendente dalla
traccia).
Ciò avviene per effetto del risparmio cognitivo che ci porta a “liberare spazio” quando viene appreso un
nuovo materiale, perché in fondo la nostra memoria è illimitata ma le risorse non lo sono. Un meccanismo per
evitare il decadimento nella MLT è dunque l’organizzazione delle informazioni, che spazia dalle più semplici
forme di strutturazione concettuale, alle forme di strutturazione più specializzate. Facendo sempre l’esempio
della biblioteca: se i libri sono messi a casaccio nella biblioteca, prima o poi esploderà, per cui devo liberare
spazio per far entrare i libri nuovi. Se invece i libri sono già ben organizzati, archiviati, sistemati, è chiaro che
ho più spazio da sfruttare.
Il decadimento riguarda:
 La memoria a breve termine, in quanto le informazioni conservate in essa sembrano avviare una
breve e intensa attività a livello celebrale, che cessa molto presto. La memoria a breve termine opera
in questo senso come un secchio bucato: vi vengono riversate continuamente informazioni che
sfuggono via e vengono sostituite da nuove informazioni, pertanto se i contenuti fonologici, visivi o
spaziali della memoria di lavoro non sono continuamente e reiterati, quindi se non c’è l’immediata
codifica elaborativa, vengono perduti in pochi secondi
 La memoria a lungo termine dove si ipotizza che si tenda a perdere quelle informazioni che non
utilizziamo più. Il disuso potrebbe essere la causa della perdita di quelle informazioni che non venendo
rievocate si affievoliscono fino a diventare troppo deboli per poter essere recuperati. In un certo senso
questo decadimento può essere inteso in chiave adattiva in quanto ci possono essere delle informazioni
che in un determinato periodo della vita possono essere necessarie e utilizzabili, ma poi con il tempo
vengono dimenticate perché non le si sfrutta più. Il disuso tuttavia non spiega i meccanismi di
riapprendimento.
Teoria dell’interferenza (2). Un’altra teoria alternativa è l’ipotesi dell’interferenza, per cui sempre per
quella necessità di dover “liberare” spazio, a volte le informazioni già immagazzinate in memoria disturbano
la rievocazione delle altre.Noi possiamo avere due tipi di interferenza:
 L’interferenza proattiva è quel fenomeno per cui ciò che è stato precedentemente appreso, va ad
interferire con l’apprendimento successivo. Ad esempio se conosco bene i meccanismi di
funzionamento della lingua inglese, che ho appreso prima, e poi devo apprendere il francese, accade
che le informazioni ottenute precedentemente creino interferenza con le nuove informazioni che devo
incamerare nella memoria a lungo termine. Quindi la mia conoscenza dell’inglese mi porta difficoltà
ad apprendere il francese: le informazioni della lingua inglese vanno perciò ad esercitare
un’interferenza proattiva sull’acquisizione del francese.
 L'interferenza retroattiva è quel fenomeno per cui ciò che è stato appreso prima viene danneggiato
o dimenticato per effetto di quel che viene appreso dopo. Quindi per esempio imparo il francese e
dimentico l’inglese, si tratta perciò del fenomeno opposto.
Mentre con l’interferenza proattiva ciò che è appreso prima interferisce con l'apprendimento successivo,
nell’interferenza retroattiva ciò che è appreso prima viene danneggiato dalla’apprendimento successivo.
Trasfert di apprendimento. Il fenomeno dell’interferenza va legato anche al concetto di transfert. Abbiamo:
 Un transfert negativo, quindi le abilità acquisite in una certa situazione sono da ostacolo e
interferiscono negativamente con quelle necessarie per apprendere un nuovo compito. Ad esempio
quando impariamo a guidare, durante la marcia tradizionale impariamo che lo in base a come
sterziamo, la macchina va a destra o a sinistra. Quando dobbiamo parcheggiare in marcia indietro
dobbiamo controsterzare, quindi se vogliamo fare andare la macchina a destra dobbiamo
controsterzare a sinistra, viceversa se vogliamo fare andare la macchina a sinistra dobbiamo sterzare
a destra. Dobbiamo quindi operare un movimento contrario rispetto a quello che abbiamo imparato
quando dovevamo semplicemente imparare a guidare. Quindi l’interferenza crea un transfert negativo
perché le abilità che già possediamo sono da ostacolo per le abilità nuove che dobbiamo acquisire.
 Un transfert positivo, per cui la padronanza di un compito agevola l’apprendimento di un secondo
compito, quindi le abilità precedenti si traferiscono a quelle successive. Ad esempio se so andare in
bicicletta sarà più facile andare in motorino.
Oblio dipendente dal segnale (o cue) (3). Si genera un oblio quando i segnali di recupero o cue sono
insufficienti o inappropriati a risvegliare le informazioni depositate in memoria. La presenza di stimoli o cue
appropriati migliora il ricordo I ricordi sono depositati, disponibili, sebbene quindi i ricordi sono disponibili,
ciò che viene a mancare è la chiave giusta per aprire la serratura, cioè per poterli andare a recuperare. Ciò
significa che i ricordi devono rimanere sempre accessibili (localizzati o recuperati) perché si possa ricordare.
Ad esempio, se perdo le chiavi della macchina, per ritrovarle, devo operare una decodifica, cioè “andare
all’indietro” e ripercorrere tutto il percorso per andare a trovare l’elemento che mi ha consentito di recuperare
l’informazione.
L’ interferenza e l’oblio dipendente dai cue sono i due fattori principali dell’oblio.

Le disfunzioni della memoria. Naturalmente ci sono diverse patologie della memoria. Quelle più comuni
sono le amnesie, ovvero la perdita di memoria in assenza di altre difficoltà mentali. Non si intende per amnesia
la dimenticanza legata ad un evento traumatico o post traumatico, ma una condizione clinica per cui il soggetto
ha un’area compromessa, generalmente si tratta delle aree ippocampali, e si creano due forme di amnesia:
amnesia retrograda e amnesia anterograda.
 L’amnesia retrograda è quella più comune, per cui dopo i traumi cranici il soggetto perde tutte le
informazioni della memoria relativamente a quello che era prima del trauma (perdita selettiva). È una
forma molto rara, infatti non tutti quelli che hanno traumi cranici hanno queste amnesie. Ci può essere
un recupero molto lento e a volte l'amnesia è molto selettiva, per cui non si ricordano gli eventi di un
dato periodo.
 L’amnesia anterograda è quella più frequente, e molto invalidante. Si perdono tutti gli eventi
successivi alla lesione. Le informazioni restano solo nella MBT e non passano mai nella MLT; per cui
il soggetto sa chi è, ma è come se rivivesse ogni giorno da capo.

Script e frame. Schank e Abelson propongono i concetti di script (copione) e frame (struttura; scenario):
 Script= conoscenza immagazzinata di sequenze attese di azioni (andare a lezione, andare al
ristorante);
 Frame= conoscenza immagazzinata delle comuni scene visive (agriturismo; ristorante giapponese).
Le informazioni contenute nello script provocano distorsioni della memoria (parti script non menzionate
comparivano nella rievocazione di storie)

Processi costruttivi della memoria. La nostra memoria non è passiva, infatti Bartlett, autore di matrice
costruttivista, ha evidenziato che la memoria va incontro a processi ricostruttivi che creano delle distorsioni
rispetto alle informazioni originali, quindi la memoria è un processo ricostruttivo. Un po' come accade nel
gioco “il telefono senza fili”, quando l’informazione passa da un mittente ad un ricevente e viene un po'
distorta, lo stesso accade per la nostra memoria: le persone ricordano le informazioni in termini di schemi,
ovvero pacchetti di conoscenza organizzati e immagazzinati, utilizzati durante il ricordo, che distorcono il
modo in cui le nuove informazioni vengono recuperate (ipotesi ricostruttiva).
Secondo Brandsford questi schemi influenzano nella fase di codifica delle informazioni (ipotesi costruttiva),
quindi i nostri ricordi consisterebbero in questa ricostruzione degli eventi della nostra vita alla luce delle
esperienze che abbiamo fatto.
Per Bartlett, i nostri ricordi sono il risultato di una ricostruzione generale basata su esperienze precedenti.
Quando ricordiamo gli eventi, tendiamo a dare rendere coerente la storia secondo un processo di
razionalizzazione. Questa coerenza è in stretta relazione con la nostra distorsione del pensiero, quindi con gli
stereotipi, i pregiudizi, le aspettative che abbiamo e che vanno ad inficiare l’attendibilità del ricordo.

I falsi ricordi e le testimonianzeDato che la memoria è un processo ricostruttivo è chiaro che soprattutto
nella testimonianza giudiziaria gli errori di memoria, cioè i falsi ricordi, sono molto frequenti. Questi ultimi
possono portare un soggetto testimone, per effetto del trauma, a non essere pienamente consapevole di quello
che sta accadendo oppure a ricordare meglio le cose che sono accadute dopo l’evento traumatico.
La Loftus e Palmer hanno fatto uno studio: hanno mostrato ai soggetti il filmato di un incidente
automobilistico e successivamente
 Ad una parte di loro hanno chiesto di stimare la velocità delle auto al momento dello “scontro”,
ponendo delle domande come ad esempio “Le macchine che si sono SCONTRATE a che velocità
andavano?”;
 Ad un’altra parte invece hanno posto le stesse domande ma sostituendo la parola “scontro”, con altre
come “urto”, come ad esempio le macchine che si sono URTATE a che velocità andavano?”
Dopo una settimana, a ciascuno dei partecipanti veniva chiesto “hai visto dei vetri rotti?”. I risultati dello studio
dimostrano che i soggetti a cui erano stata posta la domanda con la parola “scontro rispondevano
positivamente, anche se nel filmato che avevano visto non c’era alcun vetro rotto, invece gli altri
negativamente.
 P.S. La Loftus ha dimostrano ha dimostrato la distorsione con le domande e anche con la visione di
immagini: faceva vedere ai soggetti delle immagini in cui prima c’era uno STOP e poi un segnale di
precedenza; i soggetti dicevano che la macchina non si era fermata perché non aveva rispettato il
segnale di precedenza; poi si scopriva che nel filmato che avevano visto c’era o STOP e non il segnale
di precedenza.
Questo dimostra che ci può essere l’induzione del falso ricordo per effetto delle domande post-evento: siamo
in grado di accettare le informazioni successive che ci vengono date come parte del ricordo, perché in virtù
dell’ipotesi ricostruttiva della memoria, se dobbiamo ricostruire un ricordo ci viene più facile ricostruirlo
quando ci viene offerto uno schema di significato.
Inoltre la distorsione della testimonianza ha un effetto più forte in relazione al tempo. Il soggetto quando deve
ricostruire un ricordo lo deve fare nell’immediatezza, altrimenti se passa troppo tempo, verrà ulteriormente
distorto: nelle indagini di polizia, l’interrogazione dei testimoni deve essere fatta nell’immediatezza del
crimine, in quanto se il testimone nel frattempo raccontasse la sua storia ad altri soggetti che a loro volta gli
fornirebbero le loro visioni, queste ultime potrebbero essere incamerate e di conseguenza il ricordo del crimine
sarebbe.

Memorie represse. Quando si parla di traumi subiti, degli eventi traumatici e repressi nell’inconscio, questo
fenomeno dei falsi ricordi è ancora più forte: la Loftus evidenzia che si tratta di “false memorie” che le persone
sviluppano quando sono incapaci di ricordare la fonte del ricordo di un evento di cui hanno ricordi vaghi e
ambigui. Il soggetto tende una rappresentazione vaga e non definita.
Molti ricordano più facilmente gli eventi positivi che le delusioni e le arrabbiature. Questa tendenza è detta
rimozione, attraverso la quale i ricordi dolorosi, minacciosi o imbarazzanti vengono inibiti e tenuti fuori,
involontariamente dal livello cosciente. La rimozione è ben diversa dalla soppressione, cioè il tentativo attivo
e consapevole di non pensare a qualcosa. Alcuni psicologi hanno messo in dubbio l'esistenza del meccanismo
della soppressione, ma alcune ricerche evidenziano che possiamo decidere di sopprimere attivamente ricordi
dolorosi in modo consapevole di un evento emotivo doloroso: il soggetto che vive un’esperienza dolorosa,
probabilmente eviterà tutti i pensieri che lo richiamano alla mente; in questo modo si tende a tenere lontani i
segnali e stimoli che potrebbero risvegliare un ricordo doloroso

Flashbulb memoriesIl meccanismo delle memorie represse risulta ancora più pregnante anche perché la
memoria è in stretta relazione con le nostre emozioni. Si realizzando i cosiddetti flashbulb memories,
immagini che sono così vivide che sembrano essere congelate nella memoria in occasione di eventi
particolarmente traumatici. Le esperienze emotigene attivano il sistema limbico, e una sua aumentata attività
sembra intensificare il consolidamento della memoria; ne deriva che i ricordi flashbulb tendono a formarsi
quando si prova un'emozione intensa. Questo accade anche quando si vivono delle tragedie che hanno un
importante impatto tematico come l'attentato del 11 settembre alle Torri Gemelle: ci sono una serie di
testimonianze che dimostrano come i soggetti abbiamo sviluppato flashbulb memories su questo evento, per
cui ricordano in maniera vivida l'evento ma anche tutto ciò che lo ha accompagnato e preceduto.
LEZIONE 22/12/2020.

IL PENSIERO
Il pensiero fa riferimento ad una funzione psichica superiore e lo possiamo definire un processo di
rappresentazione mentale interna e soggettiva di un problema o di una situazione. Grazie al pensiero
siamo in grado di effettuare:
1. Immagini mentali, rappresentazioni iconiche o sensoriali (1).
2. Concetti, ovvero delle idee che rappresentano categorie di oggetti o eventi.
3. Ragionamenti, ovvero la capacità della nostra mente di operare delle combinazioni tra gli elementi
con cui entriamo in contatto, dunque di attuare operazioni mentali astratte.
All’interno del ragionamento rientrano diversi tipi di processi mentali:
Ragionamento deduttivo;
Ragionamento induttivo;
Problem solving;
Decision making.

Le immagini mentali (1).


Le immagini mentali sono rappresentazioni mentali di un particolare oggetto o evento che l’uomo elabora
sulla base di una specifica modalità sensoriale; il concetto di “immagine” non coincide obbligatoriamente
con l’elaborazione di una rappresentazione visiva, infatti all’interno di questa categoria rientra anche la
capacità di rappresentare un odore, un gusto ecc.

Le sinestesie. Questa capacità di rappresentare eventi, situazioni, ricordi attraverso questa capacità di
immaginazione è legata alla possibilità di rappresentarci le singole esperienze sensoriali; tuttavia l’uomo è in
grado di rappresentare, tramite le immagini mentali, le cosiddette sinestesie, delle rappresentazioni mentali
per cui non evochiamo una singola stimolazione sensoriale ma mettiamo insieme più stimolazioni sensoriali
distinte componendole tra loro (per esempio definiamo la voce umana come una voce pungente/calda. In
questo caso uniamo il tatto e l’udito).
Usiamo le immagini mentali in varie circostanze:
- quando dobbiamo scegliere un capo da acquistare, infatti ci rappresentiamo nella mente la nostra
immagine con quel particolare capo indosso;
- per cambiare l’umore: quando siamo tristi, il pensare ad un fatto felice influisce sul nostro umore
poiché ci rappresentiamo quella situazione serena;
- per migliorare le abilità (rappresentarsi la mossa da fare);
- migliorare la memorizzazione, ad esempio, tramite l’associazione di un nome alla corrispettiva
professione.

Nonostante vengano chiamate “immagini”, non hanno una struttura bidimensionale ma, hanno una doppia
rappresentazione:
Superficiale, fa riferimento agli elementi presenti nella memoria a breve termine, qui le immagini
mentali vengono raffigurate come su di uno schermo o visual buffer.
 Profonda, fa riferimento agli elementi presenti nella memoria a lungo termine, qui sono invece
immagazzinate le forme base degli oggetti.
Al variare della rappresentazione varia anche l’immagine mentale, ad esempio nel rappresentare gli animali, li
si immagina lateralmente, le persone invece riusciamo a rappresentarli quasi sempre frontalmente e siamo
anche in grado di rappresentare delle immagini tridimensionali o colorate.
Capacità di imagery. La capacità immaginativa, “capacita di imagery”, è la base della creatività e del
pensiero creativo, che dipende dalla capacità rappresentativa della realtà.
La capacità di elaborare immagini mentali è associata al saper ruotare le immagini nello spazio secondo i
diversi assi.
Immagini cinestetiche. Le immagini cinestetiche sono immagini mentali che aiutano nella replicazione
mentale dei movimenti, sono utili nell’arte, nella musica o nello sport in quanto rappresentano un’azione in
movimento.

Concetti (2).
Così come siamo in grado di elaborare rappresentazioni per immagini, siamo anche in grado di creare
rappresentazioni mentali che fanno riferimento ai concetti, ovvero delle idee (capacità ideativa) che
rappresentano una categoria di oggetti o eventi.
I concetti hanno una funzione adattiva, ci servono per entrare in relazione con il mondo e l’ambiente attorno
a noi.
Noi prendiamo un oggetto e lo categorizziamo, ovvero lo includiamo o lo escludiamo, da una specifica classe
(insiemistica) attribuendo a quello specifico oggetto le proprietà condivise con altri elementi che appartengono
a quella stessa classe.
Per esempio, se io vedo un gatto per strada, avendolo categorizzato nella categoria degli animali domestici, è
chiaro che mi metterò lì ad interagire con il gatto, mi avvicino, me lo porto a casa ecc., se invece vedo un
animale che ha caratteristiche simili ma che presenta delle differenze rispetto all’animale domestico gatto,
quindi è sempre un felino ma per esempio è selvatico perché è una tigre, a parte che ha delle caratteristiche
morfologiche differenti, è chiaro che io scappo.

Come si formano i concetti?


Si formano per mezzo di questa categorizzazione, effettuiamo in termini di base una classificazione degli
oggetti sulla base delle loro caratteristiche. Stabilite quest’ultime, tutti gli altri oggetti possono appartenere o
non appartenere a una determinata classe. Questo processo risulta rischioso, quindi se utilizziamo soltanto
questo criterio (ha alcune caratteristiche allora condivide le proprietà di una classe) a volte potremmo
commettere anche degli errori.
Se, per esempio, una bambina cammina per strada con il padre e vede un animale grande e il papà le dice
‘’quello è un cane’’. Poi la bambina cammina per strada e vede un animale più piccolo e allora il padre le dice
‘’ quello è un gatto’’; poi la bambina va avanti e vede un pechinese, che è un cane piccolo e non grande, la
bambina vede il pechinese e dice ‘’ guarda papà un gatto’’ e il padre le dice ‘’no è un cane’’.
Questo perché? Perché la caratteristica grande/piccolo, sebbene accomuni gli oggetti non ci basta per
discriminare quelle che sono le caratteristiche che l’oggetto deve possedere per entrare a far parte di una
determinata categoria.
La definizione delle categorie segue un processo induttivo o deduttivo legate all’appartenenza o meno di un
oggetto ad una classe in funzione delle caratteristiche che quell’oggetto possiede.

Inferenze di tipo deduttivo. Vengono utilizzate delle procedure differenti che non si basano soltanto sulla
singola caratteristica ma applicano in qualche modo i processi del ragionamento di tipo deduttivo; quindi noi
per definire un concetto, per comprendere se un elemento appartiene o meno ad una determinata classe,
abbiamo la necessità di fare delle inferenze di tipo deduttivo, dobbiamo dedurre che alcune caratteristiche che
quell’oggetto possiede sono degli elementi che permettono di includere quel particolare oggetto in una classe
generale; quindi non ci basta un solo elemento ma abbiamo la necessità di considerare più elementi (dal
generale al particolare o viceversa).
Quindi le categorie sono degli schemi, delle rappresentazioni mentali organizzate gerarchicamente. Per
esempio, abbiamo la classe generale ‘’animali’’, all’interno degli animali abbiamo la sottocategoria
“mammiferi/ovipari/pesci”, all’interno dei mammiferi abbiamo le specie: cane, gatti e così via fino ad arrivare
al mio cane, l’elemento peculiare che presenta le caratteristiche e condivide in maniera gerarchica le
caratteristiche degli elementi di quella specifica classe.
Queste caratteristiche le deve possedere in maniera necessaria ma non sufficiente perché appunto a volte
potrebbe non averne alcune ma appartenere comunque a quella classe.

Inferenze di tipo induttivo. Tuttavia utilizziamo nella definizione dei concetti sia un processo dal generale
al particolare (deduzione) o al contrario dal particolare verso il generale (ragionamento induttivo) quando
vediamo un oggetto che ha una determinata caratteristica e lo includiamo nella classe di appartenenza
superiore.
Per esempio la musica trap per induzione appartiene alla categoria musica.

I tipi di concetti. Ci sono diversi tipi di concetti che si applicano secondo quella che è la definizione classica
normativa dei processi di categorizzazione:
 Concetti congiuntivi, un oggetto può essere definito da diversi elementi che lo compongono, da una
o più caratteristiche. Ad esempio una moto è un oggetto che presenta due ruote, un manubrio e un
motore;
 Concetti relazionali, quei concetti che mettono in relazione le cose fra di loro, quindi un oggetto si
può trovare sotto, sopra, accanto;
 Concetti disgiuntivi per cui possiamo, all’interno di una stessa categoria, andare ad individuare degli
elementi che possono essere o/o, ad esempio un’auto può essere o a benzina o a diesel o a GPL e così
via. Questo rientra nella definizione classica dell’insiemistica.

Teoria dei prototipi. Un modello alternativo di definire le categorie che è contrario a questa
rappresentazione gerarchica, semantica, basata sulla classificazione e quindi sulle caratteristiche che gli
elementi hanno, è la così detta teoria dei prototipi. Secondo questa teoria, nel momento in cui dobbiamo
definire un concetto non necessariamente dobbiamo considerare le singole caratteristiche ma ci dobbiamo
maggiormente concentrare sul grado di tipicità che quell’elemento ha rispetto quella categoria e sul grado di
somiglianza che quell’elemento ha con un esemplare caratteristico.
Quindi mentre prima abbiamo detto che ci soffermiamo sulle caratteristiche che l’elemento può possedere,
seguendo questa teoria io mi concentro sul singolo elemento e considero un elemento tipico di quella classe
perché ha un certo grado di somiglianza con l’esemplare più specifico di quella classe.

EsempioConsiderando il pinguino o un canarino, quale fra i due volatili è più tipicamente iscrivibile alla
categoria degli uccelli? Chiaramente il canarino perché presenta in media tutte le caratteristiche di quella
categoria perché ha le piume, ha le ali, vola, ha il becco, fa le uova. Mentre il pinguino ha un minor grado di
somiglianza rispetto all’esemplare tipico di quella classe perché non ha le ali o le ha piccole ali, non ha le
piume, ha una pelliccia simile alle foche, fa le uova, però non vola. Nel momento in cui dobbiamo iscrivere un
oggetto a quella determinata classe non andiamo a guardare più le caratteristiche che lo compongono ma al
grado di tipicità che quell’oggetto ha e al grado di somiglianza con il prototipo.

Il prototipo e la visione stereotipata. Il prototipo è un modello ideale, un punto di riferimento per andare
a valutare la somiglianza o la non somiglianza di un oggetto all’elemento prototipico. Questo modo di generare
le categorie ci può far cadere in errore perché ci porta a delle distorsioni del pensiero, per cui possiamo
sviluppare una visione stereotipata della realtà (per esempio l’omofobia è una rappresentazione stereotipica
che nasce dal fatto che, secondo la visione de nazionalismi, l’uomo doveva avere delle caratteristiche e tutto
gli elementi che si discostavano dal modello ideale, venivano considerati innaturali).
Ragionamento (3).
Il ragionamento è una forma di pensiero basata sulla combinazione di elementi tra di loro e sulla capacità che
la nostra mente ha di operare delle trasformazioni degli elementi con cui interagiamo.
Problem-solving.
Cos’è la capacità di risolvere i problemi?
Nella nostra vita quotidiana siamo sempre alle prese con nuovi problemi da risolvere, ci possono essere
problemi mal definiti (problemi più frequenti nella vita quotidiana, quelli che mi fanno prendere decisioni etc)
e problemi ben definiti (problemi che contengono in sé tutti gli elementi per portare l’individuo a una
soluzione).
In relazione alla natura del problema le soluzioni possono essere differenti:
1. Per prove ed errori : Thorndike metteva il gatto nella gabbia e la soluzione del gatto era una soluzione
per prove ed errori, quando noi cerchiamo di risolvere un problema spesso applichiamo questa
strategia risolutiva per prove ed errore che ci porta ad affinare ed eliminare gli errori e a fare tanti
tentativi per trovare la soluzione finale (se il mio problema è passare l’esame di fondamenti e applico
una strategia per prove ed errori vado a provare l’esame e vedo se va bene, se non va bene riprovo
ecc).
2. Algoritmo: Per problemi che richiedono una soluzione
ottimale, applico una procedura algoritmica, ovvero una modalità
di risolvere il problema in maniera sequenziale, step by step. Il
soggetto attua un approccio sistematico nella soluzione del problema
valutando di volta in volta tutte le possibili soluzioni fino ad arrivare
alla soluzione corretta. Le procedure algoritmiche sono quelle che
utilizziamo nella soluzione dei problemi aritmetici o algebrici. Le
procedure algoritmiche sono state approfondite poi nello sviluppo dei
sistemi intelligenti (dei calcolatori) che molto spesso hanno questa
funzione.
General problem solver: all’interno del cognitivismo, Newell e
Simon creano il modello “general problem solver”, un modello ipotetico nel quale la rappresentazione del
problema è una rappresentazione nella quale il risolutore (soggetto che deve risolvere il problema) deve
metaforicamente attraversare il cosiddetto “spazio del problema” passando da diversi stati di soluzione del
problema(generalmente da uno stato iniziale a uno stato finale),applicando specifici operatori (regole) nei
diversi stati. È una modalità sequenziale di risoluzione, per cui il soggetto passa tutti gli stati del problema fino
a trovare la soluzione.

Torre di Hanoi. Un’applicazione del modello General Problem Solver è quella che si utilizza nella cosiddetta
Torre di Hanoi, in cui vi sono tre pioli; nella condizione iniziale ci sono tre cerchi nel primo piolo e l’obiettivo
è quello di far passare tali cerchi nel terzo piolo esattamente nello stesso ordine. Per passare dallo stato iniziale
allo stato finale il soggetto deve rispettare delle regole, degli operatori, che in questo caso sono: spostare un
disco alla volta e mettere un disco solo su uno più grande e mai più piccolo.

Per la risoluzione di questi problemi vi sono delle strategie algoritmiche:


- Ricerca in avanti (data-driven), dallo spazio iniziale a quello finale, mediante stadi intermedi;
- Ricerca a ritroso (goal-driven), dall’obiettivo al punto di partenza;
- Ricerca in profondità (deep-first), si sceglie un percorso alla volta e lo si segue fino in fondo
(successo/fallimento);
- Ricerca in ampiezza (dreadth-first), si esplora ciascuno stato da dx a sx prima di passare allo stadio
successivo.
Euristiche. Naturalmente le strategie algoritmiche sono molto dispendiose da un punto di vista cognitivo,
quindi, per risparmiare energie e tempo applichiamo le cosiddette “euristiche”, cioè scorciatoie del pensiero
che possono però indurci in errore perché riduciamo le soluzioni ma non sempre troviamo quella corretta
(bias).
Un tipo di euristica che si può applicare alla torre di Hanoi è l’euristica ‘’analisi mezzi-fini'’, cioè calcolare
le differenze tra stato iniziale e obiettivo finale, producendo sotto-obiettivi che riducono la differenza e sui
quali vengono applicati specifici operatori.

Ruolo dell’expertise. Il ruolo dell’expertise, dell’esperienza, crea delle differenze. In particolare i soggetti
“esperti” in un particolare campo hanno delle metodologie alla risoluzione dei problemi migliori di quelli dei
“novizi”, coloro che si accingono per la prima volta a quel tipo di problemi.
Sono stati effettuati molti studi a riguardo, uno tra questi è stato fatto su degli scacchisti e ci si è resi conto che
gli esperti:
 conoscono più mosse e sanno quando applicarle (hanno più esperienza);
 hanno migliori strategie di memoria;
 usano meccanismi di elaborazione automatica delle informazioni.

Insight. Un altro modo per risolvere i problemi è l’Insight ovvero una soluzione creativa, non algoritmica,
basata sulla ristrutturazione degli elementi che definiscono il problema, che va compreso e non spiegato.
Mentre la procedura algoritmica va a spiegare le operazioni che si devono fare, nel caso dell’insight abbiamo
una comprensione che è una ristrutturazione generale di tutti quelli che sono gli elementi che costituiscono il
problema e quindi, l’insight è l’espressione di quello che viene chiamato ‘’pensiero produttivo’’, una forma
di pensiero diversa da quella che è la forma del ‘’pensiero riproduttivo’’. Mentre il pensiero riproduttivo
tende a mettere in atto soluzioni già accreditate, il pensiero produttivo invece produce una soluzione differente.
Al concetto di pensiero riproduttivo si associa la “fissità funzionale”, l’elemento di disturbo che va a limitare
la creazione di un pensiero produttivo perché si tendono a replicare le soluzioni precedenti, si rimane ancorati
e quindi si mettono in atto soluzioni disfunzionali/funzionali/inadeguate.

Esempio. In un problema di un paziente che ha un tumore che può essere curato solo con la radioterapia ma i
raggi x creano un disturbo al tessuto circostante e se vengono utilizzati ad una potenza più bassa sono meno
efficaci, i medici si chiedono: come possono essere utilizzati i raggi x per distruggere completamente il tumore
senza intralciare i tessuti sani che lo circondano? In questo caso si trovano delle soluzioni
disfunzionali/funzionali/ inadeguate (Duncker).

Capacità dell’insight. L'insight implica la messa in atto tre distinte capacità:


1. Codifica selettiva: ovvero capacità di selezionare le informazioni rilevanti, tralasciando quelle
irrilevanti;
2. Combinazione selettiva: capacità di riunire informazioni apparentemente scollegate su dati utili;
3. Confronto selettivo: capacità di mettere a confronto problemi nuovi con informazioni preesistenti o
con problemi già risolti.
In questo caso, nel confronto selettivo, quando ci facciamo aiutare dall' esperienza passata, operiamo
per ragionamento analogico.
Per esempio, in un esperimento, ai soggetti venivano mostrati i problemi dell’irradiazione, ma i
soggetti non riuscivano a trovare una soluzione. Poi gli viene fornito un piccolo testo da leggere nel
quale veniva trattato il caso di un generale che doveva sconfiggere un castello. Se attaccava con tutte
le truppe, veniva attaccato. Invece se divideva le truppe, si indeboliva ma poteva attaccare il castello
da più lati. Dopo aver letto questa storia, i soggetti trovarono la soluzione al problema
dell’irradiazione: per sconfiggere il tumore bastava colpire il tumore in maniera obliqua, con raggi
meno potenti ma più frequenti.
Ciò significa che problemi già risolti ci fanno trovare la soluzione a problemi da risolvere.

Gli ostacoli all’insight. Il problema principale è la fissità funzionale, la capacità di attribuire una nuova
funzione agli oggetti, che è ascrivibile secondo Duncker a tre fattori:
1. Fattori funzionali, incapacità di attribuire nuove funzioni agli oggetti familiari usati sempre nello
stesso modo;
2. Fattori percettivi, incapacità di cambiare la percezione dell'oggetto critico;
3. Effetto del set dell'abitudine;
4. Ostacoli emotivi, inibizione, ansia, paura di sbagliare, eccessivo senso critico;
5. Ostacoli culturali, convinzione per cui la fantasia è una perdita di tempo e serve solo la razionalità.
Quindi l’esperienza passata ci aiuta, ma troppa esperienza ci può limitare, perché ci porta ad utilizzare gli
oggetti allo stesso modo, secondo la fissità funzionale.

Ragionamento deduttivo
Mettiamo in atto un ragionamento deduttivo quando traiamo le conclusioni specifiche a partire da alcune
premesse generali, basandoci sull’applicazione delle regole logiche.
Ad esempio, andiamo in un negozio e chiediamo se si può pagare con carta di credito, il commesso risponde
di sì, a quel punto deduciamo una conclusione specifica. La conclusione è già contenuta nelle premesse stesse
ma viene estratta.
Noi possiamo trarre delle deduzioni logiche corrette anche su premesse che non hanno alcuna aderenza con la
realtà.

Sillogismo. La forma base del ragionamento deduttivo è il “sillogismo”, inventato da Aristotele, termine con
il quale si intende quella forma di ragionamento deduttivo composto da due premesse (maggiore e minore) e
da una conclusione logica che discende dalle premesse stesse.
Esempio: Aristotele donna.
La conclusione si basa su regole fisse, non crea nuove informazioni, ma le estrae dalle premesse. La
conclusione è sempre vera, se le premesse sono vere.

La logica. La teoria normativa che sta alla base del ragionamento deduttivo è la logica, che ci consente di
dedurre se il ragionamento è valido o non valido, in quanto i criteri della verità possono non esser aderenti,
nella logica, alla realtà.

Tipi di sillogismi. Vi sono diversi tipi di sillogismi:


 Sillogismo categorico o aristotelico, composto da:
- Premessa maggiore, mette in relazione il predicato con il termine medio (Es. “tutti gli uomini sono
mortali”. Il predicato, “mortale”, è messo in relazione con il termine “uomo”).
- Premessa minore, mette in relazione il soggetto con il termine medio (Es. “Socrate è uomo”).
- Conclusione, stabilisce la relazione tra il soggetto e il predicato, eliminando il termine medio: “Socrate
è mortale”.
Nel sillogismo categorico le premesse esprimono l'appartenenza dei termini (persone o oggetti) a categorie e
la conclusione esplicita la relazione tra essi (mortalità).

Modo e figura sillogismo categorico. Il sillogismo categorico è possibile distinguerlo sulla base del modo e
sulla base della figura.
Sulla base del modo possiamo avere delle premesse che possono essere:
 Universali affermative o negative, cioè considerare che tutti i soggetti o nessun soggetto può avere
una determinata qualità (tutti “A” sono “B”/nessun “A” è “B”).
 Particolari affermative o negative, alcuni elementi hanno una determinata qualità o alcuni elementi
non hanno quella determinata qualità (alcuni “A” sono “B”/alcuni “A” non sono “B”).

Possiamo distinguere sillogismi categorici sulla base della figura, ovvero sulla posizione che nella frase è
occupata dal termine medio (soggetto nella premessa maggiore e predicato in quella minore o viceversa, e il
predicato in quella minore o viceversa; il termine medio è soggetto e predicato in entrambe le premesse).

Una particolare forma del sillogismo categorico è il:


 Sillogismo condizionale, ragionamenti nei quali una delle due premesse, detta “ipotetica”, ha la forma di
un enunciato condizionale <<se p allora q>>, mentre l’altra premessa è una categoria che <<afferma o
nega la proposizione p o q>>. Nel ragionamento deduttivo di tipo condizionale si vengono a creare quattro
situazioni (regola: “Se p allora q”):
 Modus pones: dato p, ...allora? q. Affermo “P”, allora ne discende “Q”.
 Modus tollens: Dato non q, ...allora? Non p. Postulo “non-q”, allora “non-p”.
 Negazione antecedente: Dato non p, ...allora? Non q. Affermo “non-p”, ne discende “non-q”.
 Affermazione del conseguente: Dato q, ...allora? p. Postulo “Q”, affermo “P”.

Ragionamento condizionale valido. Le uniche deduzioni logiche valide solo quelle legate al modul
ponens e moduns tollens. La negazione dell’antecedente e l’affermazione del conseguente, sono delle “fallacie
del ragionamento”, sono degli errori.
Supponiamo che il mio ragionamento condizionale “se p allora q” sia “se fa freddo allora Aristotele era una
donna”. Io affermo che fa freddo, quindi sto affermando p, a quel punto posso dedurre che Aristotele è una
donna (e questo è il modus ponens: se p allora q; dato p è logico inferire q. “se fa freddo, allora Aristotele è
una donna; fa freddo, Aristotele è una donna).

Al contrario “se è mercoledì è una giornata soleggiata”, quindi partendo sempre dal ragionamento
condizionale “se p allora q”, a quel punto se non è una giornata soleggiata, quindi non è q, allora non è
mercoledì (pertanto nel modus tollens io nego il conseguente, negando perciò anche l’antecedente: se p, allora
q; non q, allora non p è falsa).
Fallacie del ragionamento. Le due fallacie del ragionamento invece sono: l’affermazione del conseguente
e la negazione dell’antecedente.
Partendo sempre dalla stessa frase “se è mercoledì è una giornata soleggiata”, se dico che è una giornata
soleggiata, posso logicamente dedurre che sia mercoledì? No, perché naturalmente non si può escludere che
sia soleggiato anche giovedì, venerdì, sabato e domenica, quindi questo è un errore. Se affermo il conseguente,
non posso dedurre l’antecedente (se p allora q; dato q è logico inferire p? Questo è un errore perché appunto
non si può escludere che tutti gli altri giorni siano soleggiati).

Allo stesso modo se io nego l’antecedente, quindi partendo sempre dalla frase “se è mercoledì è una giornata
soleggiata”, e dico “non è mercoledì”, posso logicamente dedurre che non sia una giornata soleggiata? No,
perchè potrebbe essere mercoledì e piove e quindi la regola non è confermata ( se p, allora q; non p, allora non
q è falsa).

Pertanto le uniche due forme valide nel ragionamento condizionale sono il modus ponens e il modus tollens,
quindi io affermo l’antecedente e di conseguenza inferisco il conseguente oppure nego il conseguente e a
quel punto posso negare l’antecedente.
Negli altri due casi io non posso dedurre dei ragionamenti logici e validi, in quanto farei degli errori di
ragionamento.

Wason. La combinazione del modus ponens, del modus tollens, della


fallacia dell’affermazione del conseguente e della negazione
dell’antecedente è stata studiata da Wason nel famoso “compito delle
cosiddette 4 carte”.
Wason ha dimostrato che noi applichiamo spontaneamente il modus
ponens ma abbiamo più difficoltà ad applicare e considerare valido il
modus tollens. Inoltre, cadiamo spesso nella fallacia dell’affermazione del conseguente. “Se piove allora la
strada è bagnata”; “la strada è bagnata, allora piove!” ERRORE!

Compito delle 4 carte di Wason. Cosa dimostra?


Se una carta ha una vocale da un lato, allora ha un numero pari dall’altro (Se p ...allora q)
Quindi si presenta la condizione della carta in cui c’è la “A”, la vocale (condizione p) oppure la carta in cui
c’è la consonante “D “(condizione non-p); la carta in cui è presente un numero pari 4 (condizione q) oppure la
carta con il numero dispari 7 (condizione non-q).
A quel punto chiede ai soggetti: quale carta/quali carte giriamo?
Tendenzialmente quello che Wason osserva è che la maggior parte dei soggetti (quasi un 90%) tende a girare
la carta con il 4 perché tende a confermare, cioè a verificare che dietro il 4 ci sia la vocale perché se giro questa
carta e dietro trovo la vocale, a quel punto ho confermato la regola. Quindi la maggior parte dei soggetti gira
immediatamente la carta con il numero 4 ma si tratta di un “bias della conferma.
Pochi soggetti invece (il 7%) vanno a girare la carta con il numero 7, cioè la carta che al contrario falsifica la
regola perché se dietro questo 7 trovo una vocale allora a quel punto la regola è falsificata, non è più valida;
perciò per avere effettivamente una conferma che la regola sia giusta ho la necessità di girare in realtà due
carte: il A (p) perché dietro devo trovare il numero pari e il 7 (non-q) perché dietro devo trovare la consonante.
Questo compito per i soggetti risulta particolarmente difficile da risolvere perché si tratta di una regola astratta;
in realtà studiosi successivi hanno evidenziato che se noi cambiamo le regole e utilizziamo quelle che
generalmente usiamo nella vita quotidiana, che si chiamano “regole deontiche” o “regole di permesso”,
siamo più bravi a risolvere il compito di Wason.

Ragionamento condizionale -regole deontiche


Studi condotti con regole deontiche che esprimono gli schemi di ragionamento che applichiamo nella vita
quotidiana
Sono regole di permesso: se l’azione deve essere intrapresa è necessario soddisfare la precondizione.
• Se vuoi avere quel lavoro, prima devi fare il colloquio
• Se vuoi uscire, prima devi sistemare la stanza
4 possibilità:
1) Se Azione intrapresa/precondizione soddisfatta
2) Se azione NON intrapresa/precondizione NON soddisfatta
3) Se precondizione soddisfatta/azione intrapresa
4) Se precondizione NON soddisfatta/azione non intrapresa
Molto spesso infatti nella nostra vita quotidiana tendiamo sempre a giudicare i nostri ragionamenti sulla base
della possibilità che se un’azione viene intrapresa, è necessario che soddisfi una determinata precondizione;
quindi allo stesso modo noi possiamo avere quattro diverse alternative:
- faccio l’azione, soddisfo la precondizione;
- non faccio l’azione, non soddisfo la precondizione;
- soddisfo la precondizione e intraprendo l’azione;
- non soddisfo la precondizione, non intraprendo l’azione
Abbiamo esattamente le stesse quattro opzioni p, q, non-p e non-q; in questo caso l’esperimento venne fatto
utilizzando come regola di permesso la seguente:
Se un cliente vuole bere un drink alcolico, allora deve avere almeno 16 anni
(Se p…allora q). Si verificò che andavano a girare tutti la carta “p” perché dovevano verificare che dietro
“beve birra” ci fosse scritto “23” e “non-q”, cioè 15 anni per verificare che dietro ci fosse scritto che stava
bevendo una cosa non alcolica. Questo caso venne risolto con più facilità perché le regole deontiche sono alla
base dei nostri scambi sociali acquisiti durante lo sviluppo ontogenetico e filogenetico.
Noi, da sempre, tendiamo ad attuare un processo di ragionamento chiamato “meccanismo cerca truffatore”,
cioè controllare chi ci prende in giro per essere più adattivi nel nostro ragionamento.

 Sillogismo lineare, ovvero forme di ragionamento deduttivo nei quali l’inferenza è un’inferenza in
cui vengono messi a confronto tre termini e le relazioni fanno riferimento alle relazioni spaziali quindi
legate ad alcuni ordini di qualità (ad esempio: Anna è più alta di Maria/ Claudia è più bassa di Maria,
quindi si deduce che Anna è più alta di Claudia). Anche in questo caso l’esplicitazione delle relazioni
tra gli elementi, che si evidenzia dalla conclusione, è già contenuta in maniera implicita nelle premesse.

Fasi di ragionamento. Nella riflessione sulla modalità con la quale noi utilizziamo il ragionamento
deduttivo, la ricerca sul pensiero ha evidenziato che noi in qualche modo mettiamo in atto per risolvere i
sillogismi delle “fasi di ragionamento”:
1. Comprendere le premesse rappresentandoci anche nella mente quelli che sono i contenuti presenti
nelle premesse;
2. Integrazione delle premesse
3. Estrazione della conclusione;
4. Valutare che la conclusione tratta sia corretta elaborando esempi o modelli alternativi
rappresentativi della realtà.

Teoria dei modelli mentali. Johnson-Laird ci presenterà la “teoria dei modelli mentali” ossia
rappresentazioni analogiche di un possibile stato di cose compatibile con una premessa (“che significa che tutti
gli uomini sono immortali? C’è una rappresentazione nella nostra mente, in termini di modello mentale, che
ci farà associare agli uomini conosciuti, quella caratteristica. Socrate appartiene alla categoria degli esseri,
quindi è mortale).

Particolari affermative. In alcuni casi, alcune forme di ragionamento ci consentono di elaborare un singolo
modello mentale mentre in altre situazioni noi possiamo avere più modelli mentali ad esempio è il caso delle
particolari affermative (“alcuni uomini sono mortali”).
La difficoltà della soluzione dei sillogismi risiede nel numero dei modelli mentali che richiedono al soggetto
di elaborare.

Ragionamento induttivo
Accanto al ragionamento deduttivo un’altra forma di ragionamento è quello induttivo che procede esattamente
al contrario.
Esempio: siamo al ristorante, ci accorgiamo di non avere contanti e non vi è alcuna indicazione circa il fatto
che il ristorante accetti la carta di credito; guardiamo dentro e vediamo una clientela elegante; il ristorante è in
un quartiere in della città e allora concludiamo che con grande probabilità il ristorante accetta le carte di credito.
A differenza del ragionamento deduttivo, la cui conclusione è sempre validamente logica e, in qualche modo,
certa, nel ragionamento induttivo la conclusione che possiamo tranne ha una natura probabilistica.
Abbiamo effettuato un ragionamento induttivo nel quale inferiamo una conclusione a partire da indizi
probabilistici. Usiamo una strategia ‘’per analogia’’: applichiamo soluzioni già utilizzate in passato se il
problema ha caratteristiche simili a quello che abbiamo già risolto con quella soluzione. In altre parole noi
individuiamo delle regolarità negli eventi che ci capitano e generalizziamo le conclusioni, ma possiamo cadere
in conclusioni errate perché appunto utilizziamo indizi probabilistici. Nel ragionamento induttivo è più
probabile che noi incorriamo nell’utilizzo di “scorciatoie di pensiero” o “euristiche.

Tipi di euristiche. Nel ragionamento induttivo possiamo distinguere diversi tipi di euristiche:
1. L’euristica della rappresentatività, è un errore di ragionamento induttivo, che usa la somiglianza tra
oggetti o eventi per effettuare una stima della probabilità.
Generalmente partiamo dalla rappresentazione della realtà di tipo stereotipica e assegniamo ad un
particolare oggetto o a un individuo quella caratteristica perché, sulla base di pochi elementi, la
riteniamo rappresentativa di quella categoria.
Ad esempio, ai soggetti è stato dato un compito in cui venivano fornire le descrizioni delle persone, sulla base
di hobby o caratteristiche, e su questa base veniva chiesto di stimare se era più probabile che una persona
svolgesse un lavoro piuttosto che un altro (“Carla è una donna di 50 anni a cui piace cucinare e che si alza
presto al mattino per svolgere il proprio lavoro, svolge un compito impegnativo per tutto il giorno”. Da ciò si
deduce, per inferenza rappresentativa, che Carla sia una panettiera piuttosto che una bibliotecaria).

Fallacia del giocatore d’azzardo. Quando giudichiamo la probabilità di accadimento di un evento, non ci
facciamo il calcolo matematico della probabilità ma incorriamo nella “fallacia del giocatore d’azzardo”. Il
giocatore d’azzardo che punta alla roulette dopo una serie causale, tende a stimare come più probabile gli
eventi accaduti meno recentemente.
Esempio: Dopo 5 numeri rossi, mi aspetto numero nero alla roulette, ma la probabilità è la stessa.

2. L’euristica della disponibilità, che si appoggia alla facilità di recupero delle informazioni nella nostra
memoria, perchè noi prevediamo che un evento accada sulla base della facilità con cui riusciamo a
ricordare quell’evento.
Ad esempio, gli incidenti aerei sono ritenuti più probabili ad accadere rispetto a incidenti stradali (questo
perché nella nostra memoria vengono ricordati di più gli incidenti aerei rispetto a quelli automobilistici).
Quindi, l’euristica della disponibilità è un giudizio basato sull’informazione disponibile prontamente in
memoria.

3. L’euristica dell’ancoraggio, nella quale ci creiamo un punto di riferimento per giudicare che
quell’evento sia più o meno probabile. Caratterizza i nostri scambi relazionali e la “prima
impressione” (la prima impressione che fa uno studente al professore, in modo da condizionare tutte
le successive relazioni). Tendiamo a giudicare come veritiere quelle informazioni che ci provengono
da una fonte attendibile. Se la notizia proviene da un giornale accreditato, ancorerò tutte le successive
informazioni relative a quell’evento alla notizia letta sul quotidiano.

4. L’euristica dell’accomodamento, è un meccanismo in cui il nostro ragionamento è accomodato sulla


base di tutte le informazioni disponibili. Dunque se si deve verificare la probabilità che accada un
determinato evento si tenderà ad “aggiustare” il nostro ragionamento sulla base di una stima iniziale.
Esempio: la stima iniziale di un professore, il quale, una volta stimato il valore di un alunno, tenderà ad
aggiustare le stime successive sulla base di quella stima iniziale.
Anche questa, così come l’euristica dell’ancoraggio è un errore di giudizio, ricordiamo infatti che l’euristica
rappresenta una scorciatoia.

Decision-making
Un’altra forma di ragionamento è il decision-making o presa di decisione, una forma molto complessa di
pensiero che include tutte le forme precedenti, dunque il ragionamento deduttivo e induttivo, il problem solving
e i meccanismi attentivi (focalizzare l’attenzione sulle opzioni e sulle scelte disponibili). È quel processo che
porta il soggetto ad interpretare quegli eventi della realtà al fine di operare una scelta tra due o più
opzioni disponibili; bisogna quindi creare un’inferenza, stimare dal particolare al generale tramite il
ragionamento deduttivo e il problem solving per arrivare ad un giudizio definitivo legato alle opzioni
disponibili.
Da notare che nel confronto delle opzioni alcune possono essere in comune e altre posso differire le una dalle
altre, per questo dobbiamo arrivare ad un giudizio finale (es. acquisto di un oggetto)

Modelli interpretativi. Nell’ambito della psicologia del decision-making si distinguono 3 modelli


interpretativi:
 Modelli normativi
 Modelli descrittivi
 Modelli naturalistici

Modelli normativi (1). Si basano sulla “teoria dell’utilità attesa”. Questi modelli derivano dalla <<teoria dei
giochi>>: nelle strategie di gioco la finalità è quella di vincere la partita, per ottenere ciò il giocatore è
assimilato ad un essere razionale che compie tutte le scelte adeguate per raggiungere il suo scopo quindi
finalizzate all’utilità dell’esito della scelta. Si tende dunque a massimizzare l’utilità della scelta (es. le scelte
economiche dell’azienda devono mirare al profitto massimo).
L’opzione che il soggetto sceglie alla fine è quella che offre maggiore vantaggio al minore costo possibile.
Dato questo principio ne derivano tutta una serie di assiomi:
- Assioma della transitività delle preferenze, se devi massimizzare la scelta, nella valutazione di
preferenza tra un’opzione e l’altra, se preferisco A a B e allo stesso tempo preferisco B a C, allora per
transitività preferisco A a C;
- Assioma della dominanza, nel momento in cui vado a valutare le diverse opzioni, se A ha una qualità
migliore rispetto a B in una determinata caratteristica, allora questa caratteristica di A è preferita a B;
- Assioma dell’indipendenza o cosa certa, secondo cui la scelta è effettuata indipendentemente da ciò
che ne consegue;
- Assioma dell’invarianza, se un esito è preferito ad un altro, l’ordine di preferenza non può essere
invertito, ma è stata fatta la “scelta ottimale”.

Modelli descrittivi (2). Accanto al modello normativo, troviamo il modello descrittivo. La ricerca sul
decision making ha messo in evidenza che noi quasi mai utilizziamo un modello normativo nella nostra vita
quotidiana per la dispersione di energia cognitiva.
I modelli descrittivi si basano sul principio della razionalità limitata, ovvero l’uomo ha una razionalità
limitata e tendiamo a fare delle scelte che ci soddisfano e non delle scelte ottimali. Per valutare la scelta
soddisfacente si utilizza la “teoria del prospetto”.

Teoria del prospetto. Secondo cui gli individui valutano le prospettive e le opzioni proposte sulla base dello
scarto da un certo punto di riferimento, quindi ognuno di noi si stabilisce un criterio sulla quale poi va ad
analizzare le opzioni. Più è grande lo scarto tra quel criterio e l’opzione che sto valutando, meno la terrò in
considerazione e viceversa.
Mentre nella teoria dell’utilità attesa, tendiamo a massimizzare i guadagni e minimizzare i costi, nella teoria
del prospetto, tendiamo ad evitare la perdita piuttosto che acquisire un nuovo guadagno, evito di perderci
troppo piuttosto che guadagnare tanto.
La presa di decisione si articola in due fasi:
1. Analizziamo l’opzione scomponendola in 6 sotto-fasi che possono anche non essere autoescludenti, si
possono sovrapporre.
 Stabilire cosa sia il guadagno e la perdita sulla base del nostro criterio;
 Isolare le componenti non rischiose (segregazione);
 Cancellare gli elementi comuni alle diverse alternative;
 Combinare esiti analoghi;
 Semplificare in termini di probabilità (arrotondando);
 Accettare le opzioni dominanti che prevalgono sulle altre.
Esempio: se io decido che il mio criterio per acquistare la maglietta è il prezzo, e stabilisco che la maglietta
non deve costare più di 20 euro, per me è guadagno se costa meno di 20 euro e costo (perdita) se costa più di
20 euro, quindi se spendo un costo maggiore, perché sto rinunciando a quello che era il mio limite).
Dopo di che, vado a considerare le varie opzioni sulla base di ciò che non devo perdere, quindi comincio ad
escludere tutte le magliette che costano più di 20 euro; tra le magliette che costano meno di 20 euro comincio
ad eliminare quelle che sono le diverse alternative sulla base dei criteri che di volta in volta evidenzio e poi,
alla fine, effettuo una stima di probabilità considerando che probabilmente una maglietta mi sta meglio
rispetto alle altre e accerto l’opzione predominante, considerando che ho speso poco, ovvero ciò che mi ero
prefissata, quindi non sono andata oltre il criterio dominante e tutto sommato la maglietta mi sta bene, il colore
mi piace, il modello mi garba e allora l’acquisto.

2. Confronta le diverse prospettive per stimare quella con il valore più alto che poi sceglie.
Quindi ogni singola preferenza viene valutata sulla base di un peso decisionale, ogni caratteristica, ogni
opzione può avere un determinato peso. Queste preferenze si sganciano dalla valutazione di probabilità, a
questo unto non mi interessa più stimare la probabilità che io abbia fatto la scelta migliore perché, assegnando
un piccolo peso ad ogni caratteristica, è chiaro che vado a fare una stima orientativa. In tale stima orientativa
la ricerca evidenzia che noi tendiamo a sovrastimare ciò che è meno probabile e a sottostimare quelle che sono
le probabilità elevate o medie di accadimento di un determinato evento.

Effetto framing. Nella teoria del prospetto si viene a determinare quello che si chiama “effetto framing”,
cioè il fatto che noi stabiliamo un contesto all’interno del quale noi operiamo la nostra decisione, quindi si
mettono in relazione le perdite con i guadagni e si viene a creare una funzione tale per cui:
- in un contesto di perdita il decisore sarà maggiormente propenso al rischio;
- mentre in un contesto di guadagno il decisore sarà avverso al rischio.
Esempio. Quindi se io evito di perdere, perdo poco ad esempio se mi sono posta 20 euro e la maglietta costa
21 euro, sarò più propenso ad acquistare perché perdo poco, soltanto 1 euro; se io tendo a guadagnare, voglio
ottenere di più, è chiaro che tenderò ad evitare il rischio.

Sempre nell’effetto framing diventa importante il contesto nel quale operiamo la nostra scelta, perché nel
momento in cui definiamo un problema in termini di termina o guadagno cambia completamente la nostra
decisione.
Problema della malattia asiatica: Per dimostrarlo gli autori hanno proposto ai soggetti il così detto “problema
della malattia asiatica” in cui facevano leggere due problemi:
problema 1: c’era un’epidemia: 600 persone sono in pericolo di vita; i medici hanno 2 possibilità:
- somministrare il farmaco A e salvare 200 vite;
- somministrare il farmaco B che ha 1 possibilità su 3 di salvare tutte le vite e 2 possibilità su 3 di non
salvarne nessuna.
Quale opzione dovrebbe scegliere il medico?
problema 2 in cui c’era scritto che, ancora una volta, 600 persone sono in pericolo di vita e i medici devono
operare una scelta:
- se somministrano il farmaco A 400 persone moriranno;
- se somministrano il farmaco B, c’è 1 possibilità su 3 ch non muoia nessuno e 2 possibilità su 3 che
muoiano tutti.
Quale opzione dovrebbero scegliere?
Si vide che nel caso del problema 1, la maggior parte dei soggetti sceglieva il farmaco A, nel caso del problema
2, la maggior parte dei soggetti sceglieva il farmaco B. In realtà, se esaminiamo questi due problemi, vediamo
che sono esattamente identici, la probabilità di successo del farmaco A o del farmaco B non cambia fra il
problema 1 e il problema 2, cambia solo la presentazione del problema stesso. Infatti questo primo problema
rappresenta il “frame salvezza” e quindi giustamente i soggetti tendono a scegliere quello che ne salva di più;
mentre nel secondo problema il “frame è quello di morte” e allora in questo caso, visto che nel farmaco A ne
muoiono di più, è chiaro che tutti si spostano sul farmaco B, che comunque ha la possibilità che non muoia
nessuno. Ma in effetti il farmaco A che salva 200 vite e il farmaco B che, somministrato, fa morire 400 persone
ha la stessa probabilità, in quanto su 600, se io ne salvo 200 ne faccio morire chiaramente 400, quindi è
esattamente lo stesso. Pertanto i soggetti che avevano scelto il farmaco A, avrebbero dovuto riscegliere
nuovamente il farmaco A anche nel problema 2, se si facevano guidare da un calcolo normativo matematico
nella presa di decisione; ma invece, siccome noi ci facciamo appunto influenzare dal frame, quindi dal contesto
nel quale il problema viene sottoposto, è chiaro che la nostra decisione cambia.

Modelli naturalistici (3). Quindi se si viene a creare questo effetto del contesto, allora forse, dicono gli autori,
non ha molto senso parlare di modelli normativi o di modelli descrittivi, i quali descrivono appunto come i
soggetti prendono una decisione; ma bisogna parlare di modelli naturalistici, cioè decisioni fortemente legate
al contesto e quindi, a seconda del contesto nel quale vengono operate, queste decisioni cambiano
completamente.
I modelli naturalistici descrivono la presa di decisione nelle diverse circostanze senza ricorrere a teoria
normativa o descrittiva. Si verifica:
 Riconoscimento sollecitato dal contesto: tipico di situazioni in cui occorre prendere decisioni veloci
e immediate per cui si fa riferimento all'esperienza passata.
 Teoria dell’immagine: decisore sceglie sulla base di propri specifici criteri (valori, motivazioni, ecc.)

Esempio: un conto è che una persona prenda una decisione in una situazione di pericolo, in cui deve prendere
immediatamente una scelta veloce e allora, per esempio, il vigile del fuoco fa riferimento a tutta quella che è
l’esperienza passata nel salvare il maggior numero possibile di vite, prendendo delle decisioni legate a ciò che
è meglio fare in quel momento per esperienza pregressa; un conto è invece naturalmente andare a scegliere di
volta in volta, sulla base appunto dei propri criteri, dei propri valori, delle proprie emozioni o motivazioni.
Molto spesso infatti le nostre scelte sono guidate dagli aspetti motivazionali, cioè dagli obiettivi che noi
vogliamo raggiungere; e allora se il mio obiettivo è ad esempio farmi bella per conquistare un ragazzo, è chiaro
che non considererò il prezzo della maglietta e cercherò di prenderla perché penso che mi renda bella e
desiderabile. Intervengono perciò dei fattori motivazionali ed emozionali che sono molto importanti nel
determinare la scelta dell’individuo.

Decisione ed emozione. Nella presa di decisione, una linea di ricerca più attuale è quella che tende a
considerare positivamente il peso delle emozioni; nella letteratura sulla presa di decisione, le emozioni erano
sempre viste come qualcosa di negativo, che portava il soggetto a non fare la scelta giusta perché umore ed
emozioni influenzavano la decisione. A volte noi non scegliamo per paura o per repulsione o per ansia o al
contrario se siamo contenti potremmo fare delle scelte impulsive, che in realtà poi si possono tradurre in dei
disastri e così via. Proprio per questo, le emozioni erano state viste come un elemento di ostacolo nella presa
di decisione; mentre invece ultimamente si è visto che le emozioni hanno un peso importantissimo e che molto
spesso sono proprio la base che noi utilizziamo per operare le nostre scelte, avendo una base primordiale,
istintiva, per cui sono un'esperienza quasi automatica che in realtà ci guida immediatamente per prendere
poi le decisioni adeguate.
Esempio: attualmente ci sono alcune tecniche di marketing, dette di “neuromarketing”, che vanno ad influire
sulle scelte d’acquisto; ci sono una serie di studi nei quali si è visto come se nei negozi di scarpe si mettono
determinati profumi, il soggetto sarà più propenso a scegliere determinate scarpe piuttosto che altre, quindi il
fatto di utilizzare gli odori, i colori o la musica all’interno dei negozi in realtà serve un po’ a questo, a modulare
l’umore, in quanto se ascolto una canzone piacevole, sono facilitato nel compiere la scelta d’acquisto.

Dilemmi morali. Chiaramente il problema delle emozioni apre anche un’importantissima parte che è quella
dei dilemmi morali. In molte circostanze, la nostra decisione può avere una forma di dilemma per cui per
esempio noi non sappiamo moralmente qual è la scelta più corretta e più adeguata da effettuare e questo apre
tutta una serie di riflessioni sulle caratteristiche di personalità del soggetto, sui suoi valori, sull’appartenenza
culturali, elementi che vanno più a riferirsi agli aspetti appunto del funzionamento sociale o socio-cognitivo
della persona.

Pensiero creativo. E’ una forma di pensiero divergente che mostra flessibilità, originalità e fluidità.
Noi utilizziamo il pensiero creativo tutte quelle volte che troviamo soluzioni nuove, originali, che esplorano
più punti di vista, più aspetti; e anche in questo caso si è visto che il rapporto non è tanto con il quoziente
intellettivo, quindi con l’intelligenza (prima si pensava che i soggetti più intelligenti fossero più creativi, ma
non è sempre così perché l’intelligenza può invece essere un’intelligenza che utilizza il pensiero convergente
e a volte il pensiero divergente dipende da tutta una serie di caratteristiche, anche di tratti della personalità
come la cosiddetta apertura mentale all’esperienza), ma ci sono tutta diverse dimensioni che concorrono al
pensiero creativo sia da un punto di vista quasi genetico, come caratteristiche temperamentali del soggetto, sia
come possibilità di acquisire, cioè il pensiero creativo, secondo alcuni autori, si può anche apprendere,
stimolare.
Si possono educare i soggetti ad essere creativi, spingendoli di volta in volta a provare, a sperimentare, ad
aprirsi agli altri, a mettere in atto sempre delle azioni nuove che vanno fuori dai loro canoni tradizionali. E poi
ci sono tutta una serie di test che consentono anche di valutare e misurare il pensiero creativo.

LEZIONE 28/12/2020.

LA MOTIVAZIONE
Definizione. Possiamo affermare che tra i vari costrutti psicologici che abbiamo studiato, quello della
motivazione è quello che più si presta ad una definizione di costrutto ipotetico della psicologia perché non
abbiamo la possibilità di andare a misurare, vedere, oggettivare in qualunque modo la motivazione se non
attraverso le spiegazioni che i soggetti ci forniscono a specifici questionari che vanno ad indagare diversi
aspetti motivazionali.
Dunque, la possiamo definire come un costrutto ipotetico che si riferisce a una serie di processi casuali ed
interni, non direttamente osservabili che però producono dei comportamenti.
Noi possiamo valutare gli effetti legati alla motivazione, e infatti quando parliamo di motivazione, ci dobbiamo
riferire ad una spinta, in latino “motivus”, significa proprio causa movente, quindi qualcosa che internamente
o esternamente spinge il soggetto a compiere una determinata attività.

Bisogno e pulsione. Una prima definizione di motivazione la possiamo rintracciare a partire dall’analisi dei
concetti che abbiamo anticipato parlando di Freud. Si tratta del concetto di bisogno e di pulsione. Noi sappiamo
che quando l’organismo si trova in uno stato di qualunque carenza, quindi se avvertiamo una carenza legata
alla fame, alla sete, sorge nell’individuo un bisogno, questo bisogno, che ha un’origine biologica, fisiologica
all’interno dell’organismo determina uno stato motivazionale carico di energia (pulsione) che porta l’individuo
ad agire e a mettere in atto determinati comportamenti che sono finalizzati a ridurre questo stato di carenza o
tensione interna.
Esempio: quando noi abbiamo il bisogno di mangiare ci fa avvertire una spinta motivazionale, pulsionale che
noi possiamo definire come ‘’appetito’’ che ci porta ad andare a cercare del cibo.

Omeostasi. Nella definizione di motivazione in termini di bisogno o pulsione si fa riferimento ad un concetto


importante di tipo biologico, ovvero il concetto di omeostasi. L’organismo si trova in uno stato omeostatico
nel momento in cui sperimenta un equilibrio interno dato dalla giusta armonia tra tutte le varie componenti
dell’organismo stesso. Quando questo equilibrio interno viene ad essere interrotto si genera la pulsione che
porta l’individuo ad agire al fine di ripristinare lo stato omeostatico precedente. Quindi il concetto di
omeostasi può essere paragonato ad una sorta di termostato interno (il termostato è uno strumento che regola
la temperatura, è una sorta di regolatore interno.
Dunque:
 abbiamo dei bisogni fisiologici (la fame e la sete, il riposo, il bisogno sessuale come diceva Freud),
che naturalmente devono essere soddisfatti;
 l'avvertimento di un bisogno fisiologico determina una pulsione che crea un disequilibrio interno nel
momento in cui questo bisogno non può essere soddisfatto, rompendo l’omeostasi;
 di conseguenza la pulsione si deve tradurre in azione quindi, la pulsione spinge l'individuo ad agire
per ripristinare l'equilibrio originario.
Bisogno ≠ pulsione. I due concetti non sono sinonimi.
Esempio: se io digiuno e si innesca un bisogno fisiologico di fame, la spinta a mangiare, quindi la pulsione e
la sensazione di sentirsi affamati, potrebbe diminuire anche con il passare del tempo, quindi è vero che c’è il
bisogno di mangiare (causato dal digiuno e la carenza di cibo mi spinge a mangiare), ma poi con il passare del
tempo si avverte sempre meno la necessità di dover mangiare.
Il bisogno indica una condizione fisiologica interna di carenza o di necessità;
la pulsione è quello stato di tensione interna che l'individuo vuole eliminare, quindi il concetto di
pulsione è un concetto più psicologico e non fisiologico.
Certe volte noi, pur essendo completamente non più affamati, perché non abbiamo per esempio, alcun bisogno
interno di mangiare, in realtà vedremo che siamo spinti dal continuare a ingurgitare cibo.
Potremmo essere spinti anzi da stimoli esterni quindi in realtà, anche questo concetto di bisogno poi lo
dobbiamo integrare con una visione più ambientalista della motivazione, che invece guarda la spinta all'agire
come determinata da stimoli esterni piuttosto che interni.
Esempio: nonostante Letizia sia sazia, in realtà vede una crostata e giusto per soddisfare la spinta causata dalla
visione di questa crostata che fa da stimolo esterno, comunque mangia tre fette di crostata per soddisfare questo
desiderio, spinta da questo incentivo esterno.

Incentivi. Pertanto, nel momento in cui guardiamo alla motivazione, non ci possiamo limitare soltanto a
guardare e a studiare quelle che sono le spinte motivazionali interne all'organismo, ma dobbiamo anche
considerare gli elementi ambientali che ci spingono ad agire. Quando guardiamo e definiamo la motivazione
in termini di elementi ambientali, che ci spingono ad agire, utilizziamo il termine “incentivo”.
Gli incentivi sono tutti quegli oggetti o quegli eventi che possono in qualche modo soddisfare quelli che
sono i bisogni dell'individuo, quindi in questo caso il valore motivazionale dell’incentivo e, quindi la forza
che ci spinge ad agire, è legato al valore di ricompensa che ha quell’oggetto.
In questo caso quando parliamo di incentivi, possiamo sicuramente richiamare quello che è il concetto
rinforzo, che i comportamentisti, soprattutto Skinner ci ha insegnato.
Esempio: nella nostra cultura ad esempio, nonostante alla fine di un pranzo si è sazi, non si rifiuta il dolce,
anche se non c’è un bisogno fisiologico.

Le nostre azioni sono determinate dall’unione sia da bisogni interni, che ci spingono ad agire, sia da
incentivi ambientali esterni; a volte un forte bisogno può anche cambiare il valore di incentivo dell’obbiettivo
che noi vogliamo raggiungere.
Esempio: se ci troviamo in condizioni di sopravvivenza, sicuramente mangeremo la larva assegnandogli un
alto valore di incentivo, poiché mi consente di soddisfare il bisogno di sopravvivenza.
Mentre i bisogni spiegano quali sono le nostre motivazioni intrinseche, di natura fisiologica, gli incentivi ci
spiegano invece le nostre motivazioni estrinseche, gli obbiettivi che vogliamo raggiungere.
Il valore di incentivo è legato ad altri concetti motivazionali, che sono:
- La motivazione al successo;
- Le motivazioni sociali;
- La motivazione di stima;

Tipi di motivazioni. Possiamo distinguere diversi tipi di motivazioni:


 Motivazioni biologiche (o psicofisiologiche), che sono legate al soddisfacimento dei nostri bisogni
biologici: la fame, la sete, il sonno, la riproduzione ecc. Sono delle motivazioni innate.
 Motivazioni sociali, che derivano dall’esperienza, legate al valore di incentivo degli oggetti e degli
eventi ambientali che ci circondano (motivazione al successo). Sono apprese.
 Motivazioni che si riferiscono ai nostri bisogni cognitivi (necessità di esplorare); sono le motivazioni
che ci permettono di relazionarci con gli altri.

Motivazioni biologiche (1). Le motivazioni biologiche si basano sul concetto di omeostasi e sulla metafora
del termostato. Quando si verifica uno squilibro interno, si crea un cambiamento automatico interno legato
al ripristino dell’equilibrio. Sono motivazioni innate e risentono delle nostre differenze individuali in termini
di ritmi circadiani (ne abbiamo parlato dei cicli del sonno). Il bisogno fisiologico di sopravvivenza nasce con
l’uomo preistorico, che distingueva i cibi con il gusto.
Come faceva? Partiva dal gusto, sulla base del sapore generalmente si distingueva il dolce dall’amaro. Quindi
nella spinta di soddisfacimento del bisogno di cibo, si innescavano sia delle motivazioni interne di base legate
alle nostre preferenze, sia dei meccanismi di apprendimento sociale (la scelta di alcuni cibi piuttosto che altri
è legata alle nostre abitudini culturali).

La fame. Una domanda fondamentale è “Dove avvertiamo di fatto il bisogno della fame?”
Quando siamo affamati possiamo sentire rumori provenienti dallo stomaco, che pensiamo ci possa spingere ad
assumere cibo. In realtà alcuni studi hanno osservato che alcuni movimenti peristaltici dello stomaco ci fanno
effettivamente sentire la sensazione della fame(è vero che i soggetti associano alla contrazione dello stomaco
la sensazione di fame) però è pur vero che gli individui senza stomaco continuano ad avvertire questo bisogno
e allora forse non è lo stomaco la sede da cui parte il segnale della fame. I ricercatori hanno evidenziato che è
il fegato che ci fa avvertire l’appetito perchè è proprio a livello del fegato che viene scisso il glucosio e questa
rottura dell’omeostasi determina la scarsità di glucosio nel sangue che ci scatena il bisogno di cibo (al
contrario, quando abbiamo un eccesso di glucosio nel sangue dovremmo essere in grado di fermarci).
In questo meccanismo non c’è solo l’attivazione degli organi periferici ma c’è anche l’attivazione dei sistemi
corticali, in particolare l’ipotalamo che elabora i segnali provenienti dal fegato e dallo stomaco; in particolare,
il centro della fame è l’ipotalamo laterale che ci dà la spinta a mangiare (infatti se l’ipotalamo laterale viene
distrutto l’animale continua a mangiare senza mai sentirsi sazio). Accanto l’ipotalamo laterale, abbiamo
l’intervento dell’ipotalamo ventro-mediale che è il centro della sazietà (se viene distrutto si ha l’iperfagia
quindi il soggetto continua a mangiare).

Fattori esterni ed obesità. L’obesità è una patologia moderna legata a delle alterazioni di natura metabolica.
Non sempre l’obesità dipende dall’eccessiva alimentazione ma da altri segnali anche di natura ambientale che
possono configurare l’obesità o il disturbo del comportamento alimentare, incentivando comportamenti
alimentari non salutari:
 Disponibilità del cibo;
 Gusto personale;
 Fame emotiva;
 Fattori culturali.

Disturbi alimentari. Tra i disturbi alimentari vi sono:


 L’anoressia nervosa;
 Bulimia nervosa.
Anoressia nervosa (1). Fa riferimento alla perdita di circa l’85% del peso rispetto a quanto previsto per statura
ed età. È caratterizzata dalla paura di aumentare il proprio peso ricorrendo ah un comportamento di
eliminazione (vomito e abuso di diuretici e lassativi).
Bulimia nervosa (2). Il peso dei soggetti che soffrono di questo disturbo è superiore ai parametri; si ha la
sensazione di perdere il controllo sull’alimentazione e per questo si ricorre al digiuno per evitare l’aumento
del peso.
Entrambe le categorie di soggetti che ne soffrono hanno in comune l’insoddisfazione del proprio corpo.

Sete. Per la regolazione della sete ci sono due meccanismi: intracellulare ed extracellulare.
Sete intracellulare. La sete intracellulare è dovuta all’ osmosi, fenomeno per cui si assiste al movimento di
acqua da una soluzione meno concentrata ad una soluzione più concentrata ad una meno concentrata attraverso
una membrana semipermeabile. Ciò significa che quando il nostro corpo comincia a perdere acqua, la
concentrazione ematica dei sali (sodio, cloro e potassio), aumenta, di conseguenza il nostro sangue diventa più
“salato” e le elevate concentrazioni ematiche di questi sali induce l’acqua intracellulare a fuoriuscire dal
sangue.
La disidratazione, soprattutto a livello dei neuroni ipotalamici produce la “sete osmotica” e ci induce il
desiderio di bere. Questo spiega il motivo per il quale quando mangiamo cibi salati, ci viene sete, perché
aumentiamo la concentrazione di sodio nel sangue.
Sete extracellulare. La sete extracellulare, invece, è legata alla perdita di liquidi nel nostro corpo (es. per la
sudorazione, per la respirazione, ecc.). Anche in questo caso quando noi perdiamo liquidi si riduce il volume
ematico, si abbassa la pressione sanguigna, questo abbassamento invia un segnale all’ipotalamo che poi
manda un segnale all’ormone antidiuretico (ADH) che va a stimolare i nostri reni e quindi a trattenere l’acqua
contenuta nel sangue trasformandola in urina, ma a reimmetterla nel flusso sanguigno.
I reni, a loro volta, rilasciano la renina che porta alla produzione dell’angiotensina, che produce la sensazione
di sete.

Arousal o attivazione psicofisica. Accanto ai modelli motivazionali che hanno guardato alle motivazioni
fisiologiche, quindi come uno stato di carenza (agiamo per ripristinare la carenza), esistono altri modelli
motivazionali che si riferiscono ai modelli basati sull’arousal o all’attivazione psicofisica, nel senso che non
sempre la nostra motivazione dipende dalla rottura dell’omeostasi interno ma dipende dal nostro livello di
attivazione. E’ chiaro che il nostro livello di motivazione può essere:
 Nullo, con la morte;
 Basso, durante il sonno;
 Alto, quando siamo emozionati.
Teoria dell’arousal. Anche nella motivazione in termini di arousal, in cui la motivazione all’agire è
determinata dall’attivazione interna, è chiaro che noi ci troviamo in delle situazioni per cui se siamo poco
motivati ci troviamo in uno stato di bassa spinta ad agire.
• Se siamo poco attivati: noia (curva ad “u” revesciata)
• Se siamo troppo attivati: panico, paura (blocco attivo)
È necessario un livello intermedio. Nei modelli dell’arousal la motivazione è ottimale per livelli di attivazione
intermedia. A volte alcuni comportamenti umani non sono ‘’mossi’’ dal soddisfacimento di un bisogno, ma
anzi sono spesso volti a incrementare un livello interno di attivazione o ‘’arousal’’ (es. sport estremi).
Quindi noi in genere tendiamo a mantenere un livello ottimale di stimolazione e arousal ma quando l’equilibrio
si rompe:
 Se il livello è alto, l’organismo si protegge e riporta l’equilibrio;
 Se il livello è basso, l’organismo ‘’cerca’’ nuovi stimoli.
Questo definisce un quadro di personalità basato sui cosiddetti ‘’sensation seeking’’ o ricerca di sensazioni,
individui che vanno alla ricerca di brividi, avventura, nuove esperienze, presentano dei comportamenti di
disinibizione e sono molto suscettibili alla noia.
Gli sportivi sanno bene che un eccessivo livello di attivazione, quindi anche un’eccessiva emozione, andrebbe
compromettere la prestazione fisica a causa della sopraffazione da parte degli istinti e degli stati d’animo
eccitati.

Legge di Yarkes- Dodson. La curva ad “u” che si viene a creare


quando siamo poco attivi dipende dalla complessità del compito:
- Per compiti semplici l’attivazione deve essere molto più alta
perché richiede una maggiore attenzione focalizza;
- Per compiti difficili l’attivazione deve essere più bassa perché
altrimenti andiamo incontro ad una scarsa performance.

Motivazioni apprese: la teoria dei processi opposti. Lo psicologo Solomon ha creato una teoria per spiegare
la dipendenza dagli stupefacenti e di altre motivazioni apprese. In base alla “teoria dei processi opposti” se
uno stimolo provoca una forte emozione, quando lo stimolo finisce tende a presentarsi un’emozione opposta.
Se lo stimolo viene ripetuto, la risposta nei confronti di questo diviene abitudinaria (es9. lanciarsi dal
paracadute).

Motivazioni sociali (2). Si tratta di motivazioni apprese in base all’esperienza, esito dei condizionamenti
ambientali e dei rinforzi.
Esistono tre tipi di motivazioni sociali, attenzionate dallo studioso Clelland:
 Motivazione al successo, una caratteristica appresa e stabile della nostra personalità per cui cerchiamo di
raggiungere delle posizioni di eccellenza. Questa dipende:
a) dall’autovalutazione delle nostre capacità;
b) dalla voglia e dalla necessità di mettersi alla prova;
c) dal confronto con degli standard di riferimento, fattore necessario per il raggiungimento del successo.
È un tipo di motivazione tipica delle culture occidentali, dove spesso è associata al cosiddetto “bisogno di
successo professionale”.
 Motivazione di affiliazione, necessità di affiliarsi, quindi di avere un contatto sociale con gli altri; viene
considerata una sorta di pulsione sociale, per alcuni è innata, per altri, tra cui Clelland, è la necessità di
avere relazioni interpersonali con gli altri al fine di sentirsi parte di una comunità, dunque, hanno un ruolo
fondamentale gli incentivi.
 Motivazione al potere necessità dell’individuo di esercitare il proprio potere sugli altri, quindi di
controllare l’ambiente sociale circostante, eventualmente anche con azioni di aggressione e di difesa.
Questa motivazione ha una sorta di valore adattivo legato alla nostra componente istintiva tipica del mondo
animale.
È stato di mostrato che la mancanza di potere o la sottomissione prolungata in alcune specie animali determina
un’atrofia della memoria ippocamapale.
Mc Clelland, inoltre fa una distinzione tra bisogno del potere personalizzato e socializzato.

Maslow. Un modello che mette insieme tutte queste motivazioni è il modello di Maslow, il quale propone la
“piramide dei bisogni” in cui crea una piramide basata su una scala gerarchica dei bisogni:
 alla base pone i bisogni fisiologici;
 i bisogni di sicurezza;
 i bisogni di appartenenza;
 i bisogni di stima;
 realizzazione personale.

La scala di Maslow è una scala gerarchica, per cui secondo Maslow è necessario soddisfare i bisogni del
gradino precedente prima che si manifestino i bisogni del gradino successivo; pertanto è necessario che il
soggetto soddisfi i bisogni fisiologici prima che si possano presentare i bisogni di sicurezza e così via. Al
contrario però possiamo immaginarci la piramide rovesciata nel momento in cui il soggetto, che ha già
raggiunto l’apice della piramide, si sente autorealizzato, trovandosi in uno stato di saggezza, alleviando tutte
le sue tensioni, può naturalmente ripresentare tutti i bisogni precedenti.

Bisogni fisiologici (fame, sete)


- L’organismo tenderebbe a mantenere costanti certi parametri fisiologici quali il tasso di glucosio, le
proteine e il sale nel sangue;
- Quando la carenza di qualche sostanza mina l’equilibrio del corpo, l’individuo prova una sensazione
di “appetito” che lo spinge a cercare di ripristinarlo.
Quindi i bisogni fisiologici sono i bisogni di fame, di sete che hanno una definizione omeostatica e che
generano tensione.

Bisogni di sicurezza e protezione


- Necessità dell’organismo di sentirsi protetto da pericoli che possono minacciare la sua integrità
fisica.
- Necessità dell’organismo di sentirsi libero dalla paura di non poter soddisfare i bisogni fisiologici.
Il bisogno di sicurezza e protezione legato alla necessità dell’individuo di sentirsi protetto dai pericoli; noi
siamo l’unica specie vivente che continua ad accudire i suoi cuccioli dopo la nascita (a volte fino all’età adulta
se ad esempio pensiamo alle nostre mamme o alle nostre nonne), mentre altre specie animali, come gli orsi,
mettono al mondo i propri cuccioli e poi li lasciano vivere appunto da soli. Noi invece ci prendiamo cura,
siamo una specie animale caratterizzata da un istinto di protezione e quindi il bisogno di protezione è un
bisogno innato; ci dev’essere qualcuno che ci deve nutrire, non siamo in grado di procacciarci, appena nati, il
cibo da soli così come fanno i piccoli orsi. Il cucciolo d’uomo deve essere nutrito appunto dalla mamma e
quindi chiaramente l’organismo si deve sentire libero dalla paura di non potere soddisfare questi bisogni di
tipo fisiologico.
Bisogno di appartenenza e di amore
- Si riferisce al bisogno di costruire delle relazioni affettive stabili: bisogno di avere amici, un partner,
figli e di far parte di una famiglia o di un gruppo;
- i bisogni di appartenenza di riferiscono anche alla necessità di sentirsi parte di una comunità che
condivide gli stessi valori e la stessa cultura, e di possedere delle radici in un luogo particolare.
Accanto al bisogno di sicurezza, c’è poi il bisogno di appartenenza e di unione che appunto lo possiamo
paragonare al bisogno di affiliazione di cui ci parla Mckellen, quindi la necessità di appartenere ad una
comunità, avere delle relazioni affettive stabili, che vanno dalle relazioni di coppia sino poi alle relazioni
all’interno della famiglia, agli amici o alle comunità naturalmente di appartenenza, appartenere anche ad una
stessa realtà culturale.
Bisogni di stima
Maslow distingue tra i bisogni di stima da parte degli altri e autostima.
- I primi riguardano il desiderio di essere apprezzati, ben valutati e rispettati dagli altri e di ricevere
attenzione e riconoscimento per quello che si fa.
- I secondi fanno riferimento al bisogno di sentirsi competenti, capaci di affrontare il mondo,
indipendenti e liberi.
Andando avanti invece, nei gradini superiori, abbiamo quei bisogni che aumentano la tensione interna che
sono appunto il bisogno di stima, quindi stima verso se stessi, sentirsi competenti, capaci di affrontare il mondo,
in grado di padroneggiare tutte quelle che sono le difficoltà che il mondo ha o di fronte alle quali ci mette, e
anche di sentirsi apprezzati e stimati dagli altri, ricevendo attenzione e riconoscimento per quello che si fa.
Bisogni di autorealizzazione
Si tratta dell’esigenza prettamente umana di fare ciò per cui ci si sente predisposti, di sviluppare il più possibile
i propri talenti, le proprie capacità e potenzialità.
Sino ad arrivare al bisogno di autorealizzazione, che è questa esperienza finale appagante dell'essere umano
che è completamente soddisfatto della propria vita, della propria esistenza; ritiene di avere soddisfatto quelli
che sono tutti i propri appunto talenti, si sente autorealizzato perché ha raggiunto il proprio successo personale,
professionale, stimato ecc. Nella visione umanistica l’autorealizzazione è una visione, questo bisogno di
autorealizzazione si raggiunge al culmine della propria esistenza, quindi quando poi l’individuo è anziano, ha
modo di guardare indietro e osservare tutta la propria vita e sentirsi appunto appagato rispetto a quello che ha
vissuto sino a quel momento.
La piramide si può rovesciare, nel senso che il soggetto autorealizzato può ripresentare i bisogni di ordine
inferiore.

Motivazione intrinseca vs. estrinseca All’interno dei vari modelli possiamo distinguere le categorie di
motivazioni:
 Motivazione intrinseca
 Motivazione estrinseca

Motivazione intrinseca. E’ il desiderio di agire in una certa maniera per se stessi e per essere efficaci ed
efficienti.
Si agisce per:
- divertimento
- interesse
- curiosità
- auto-espressione
- sfida con sè stessi
La motivazione intrinseca stimola il desiderio di successo.

Motivazione estrinseca. E’ guidata dalla presenza di premi e riconoscimenti dall’esterno o dall’evitamento


della punizione.
- La motivazione estrinseca porta alla riduzione del piacere nello svolgimento dell’attività e, quindi,
a prestazioni peggiori, se non all’abbandono dell’attività stessa.
LEZIONE 4/01/2021.

LE EMOZIONI
Nella storia della psicologia, lo studio delle emozioni è stato sempre trascurato da un punto di vista scientifico
perché si partiva dall’opinione diffusa che le emozioni fossero un aspetto secondario e meno nobile del
comportamento dell’individuo e che occorreva soprattutto studiare maggiormente la sua componente
razionale.
Questa idea nasce anche dalla vecchia concezione filosofica che risale a Platone, il quale nel De Anima, fa
riferimento al cosiddetto mito dell’auriga, dove racconta dell’animo umano, come governato da due cavalli:

 Uno bianco, che rappresenta la razionalità, il logos;


 Uno nero, che invece fa riferimento alle passioni, alle emozioni del soggetto.
L’auriga può lasciare la briglia del cavallo bianco o del cavallo nero a suo piacimento, e in questo modo
privilegiare la parte razionale o la parte irrazionale dell’individuo. Basandosi su questa tradizione, le emozioni
non sono state mai prese molto in considerazione.
Tuttavia negli ultimi anni c’è stata una grandissima ripresa dello studio di questa componente, del
funzionamento cognitivo e mentale degli esseri umani e le emozioni sono state studiate con un approccio più
basato sull’utilizzo del metodo sperimentale e anche da un punto di vista neurobiologico.

La definizione di emozione. Naturalmente bisogna partire dalla, anche se è difficile riuscire a trovare una
definizione di emozione univoca, ma quello che sicuramente si può dire è che il concetto di emozione si
riferisce ad uno stato affettivo intenso e di breve durata che si manifesta su tre livelli del funzionamento
cognitivo del soggetto. Si manifesta:
1. A livello fisiologico, quindi nel momento in cui noi avvertiamo questo stato affettivo intenso e di breve
durata si hanno una serie di modificazioni da un punto di vista neurofisiologico con l’attivazione
soprattutto del sistema simpatico e parasimpatico;
2. A livello fenomenologico esperienziale, cioè il fatto che l’individuo da un punto di vista psicologico
sperimenta un proprio vissuto mentale di questo stato affettivo e nel momento in cui ciò avviene, assegna
anche un'etichetta verbale allo stato che sta sperimentando.
3. A livello espressivo-comportamentale delle emozioni, che si riferiscono al fatto che è difficile riuscire a
mascherare le nostre emozioni, perché noi le comunichiamo agli altri: nel momento in cui sperimentiamo
un vissuto di paura, di gioia, di collera il nostro volto, il nostro corpo e i nostri gesti accompagnano ed
evidenziano il vissuto stesso che stiamo provando.

La differenza tra umore ed emozione. Dobbiamo distinguere il concetto di emozione dal concetto di
umore, in quanto quest’ultimo è l’insieme di tutte le disposizioni affettive e istintive che influenzano l’attività
psichica di un individuo. L'umore è un vissuto prolungato nel tempo e quindi influenza il nostro
comportamento portandoci ad agire in un determinato modo, per cui
 Se l'individuo ha un umore irritabile, sarà più propenso a sperimentare emozioni quali la collera,
rabbia, fastidio irascibilità, nervosismo;
 Se invece l'individuo ha un umore positivo, sarà più propenso a vivere emozioni quali serenità, calma,
gioia.
Le emozioni primarie. Quando parliamo di emozioni, utilizziamo diverse etichette come gioia, rabbia,
tristezza, ma in realtà c’è un dibattito nella definizione di quelle che sono le cosiddette emozioni primarie,
cioè quelle che accomunano universalmente tutti gli individui. Oggi si fa soprattutto riferimento alla
classificazione Plutchik, che distingue 8 emozioni primarie differenti tra di loro:
Paura
Sorpresa
Tristezza
Disgusto
Rabbia
Aspettativa
Gioia
Accettazione
Queste emozioni chiaramente differiscono per il vissuto fenomenologico e per l’espressione comportamentale
perché in realtà l’attivazione fisiologica è tendenzialmente identica in ognuna delle emozioni primarie che
sperimentiamo.
 In realtà mentre la paura, la tristezza, il disgusto, la rabbia, la gioia sono più facilmente e
universalmente riconosciute ed etichettate in maniera univoca dai soggetti (non a caso queste 5 emozioni
confluiscono nel famoso film di animazione della Pixar) ;
 Le altre come la sorpresa o l’aspettativa o l’accettazione sono un po’ più controverse nella loro
definizione perché non si connotano in una direzione più positiva o negativa dell’emozione stessa, in
quanto il soggetto ad esempio si può sorprendere sia di un evento positivo sia di uno negativo.
Quindi la paura, la tristezza, la rabbia sono connotate negativamente, la gioia è più invece legata ad una
connotazione positiva.
Nella classificazione di Plutchik la differenza fra le varie emozioni è legata ad una sorta di polarità non tanto
connessa alla positività o alla negatività che scatena l’emozione o il vissuto che il soggetto sperimenta, ma
rispetto all’intensità con cui si presenta quel particolare stato affettivo, quindi ad esempio:

 La gioia si trova nel mezzo fra uno stato di basso sentimento di gioia (serenità) e alti livelli di gioia
che fanno riferimento all’estasi.
 La paura può andare da un polo di apprensione, preoccupazione, fino ad un polo maggiormente intenso
legato al terrore.
Inoltre nella classificazione di questo modello le emozioni
primarie si combinano fra di loro dando origine a delle
nuove emozioni. Questo modello a fiore ci permette di
vedere come le emozioni si combinano fra di loro:
 La gioia unita all’aspettativa determina il cosìddetto
ottimismo;
 La tristezza unita alla sorpresa determina la
delusione;
 La rabbia più il disgusto fa sperimentare al soggetto
un vissuto di rimorso, ovvero l’essere arrabbiati rispetto ad
un evento che in qualche modo ha creato una situazione di
pentimento, di imbarazzo e quindi in generale si prova
disgusto o nei confronti di me stesso o della situazione che
si è venuta a creare ecc.
Le emozioni composte In questo modello, quando cerchiamo di definire le emozioni, dobbiamo considerare
che da un punto di vista di funzionamento generale lo stesso stato affettivo può essere determinato o connotato
sia positivamente che negativamente. Ad esempio il bambino che ruba la marmellata e si sente in colpa, da
una parte prova la gioia per l’ottenimento della marmellata (oggetto desiderato) e dall’altro la paura che la
mamma lo passa punire.

Nel modello di Plutchik vi è l’idea secondo cui le emozioni si possano combinare rispetto al polo positivo o
polo negativo. Di norma si potrebbe fare l’errore di pensare che le emozioni si debbano escludere a vicenda
(non è che se io provo gioia, non posso provare paura e viceversa), ma in realtà le emozioni si combinano, per
cui vengono fuori delle emozioni composte.

Il ruolo dell’amigdala. Il fatto che esse si possano combinare fra loro rispetto alla polarità positiva o
negativa, ha una ragione fisiologica perché la centralina che controlla, da un punto di vista psicofisiologico, il
vissuto esperienziale delle emozioni, è l’amigdala che riceve le informazioni sensoriali legate allo stimolo
emotigeno presente nell’ambiente, senza che esse raggiungano mai la corteccia cerebrale. Significa dunque
che l’etichetta verbale, cioè il nome che diamo al vissuto che stiamo provando avviene in un secondo
momento, in quanto l’amigdala da un punto di vista fisiologico è una struttura sottocorticale che riceve i dati
sensoriali e manda ai muscoli (attiva il sistema simpatico e parasimpatico, vedi dopo) in maniera diretta senza
che le informazioni raggiungano prima la corteccia. Vi è quindi questa risposta primaria, istintiva, primitiva,
che ci fa reagire prima ancora di sapere ciò che sta accadendo: l’amigdala ci fa rispondere prima ancora di
avere etichettato il nostro stato emotivo. Quando si hanno dei danni all’amigdala si inibisce la risposta emotiva:
i soggetti non riescono a provare alcuna emozione, non reagiscono.

La psicofisiologia delle emozioni. Vi è una componente fisiologica delle emozioni innata, non influenzata
da fattori culturali o ambientali. Di fronte allo stimolo emotigeno si attiva il sistema nervoso
simpatico/parasimpatico che è responsabile della risposta fight of flight, ovvero attacco/fuga. Questa risposta
è legata alla sopravvivenza, per cui le emozioni salvaguardano la nostra specie, perché nel momento in cui
interagiamo con l'ambiente dobbiamo essere pronti o ad attaccare laddove ci troviamo di fronte a un predatore
o a fuggire a seconda di ciò che ci troviamo davanti. Questa risposta attaco/fuga è legata:
 Al sistema simpatico che attiva gli apparati per favorire la sopravvivenza, per cui rilascia gli zuccheri
per un'energia rapidamente disponibile, il cuore batte più rapidamente per fornire sangue ai muscoli,
la digestione viene rallentata, si riduce il flusso sanguigno a livello cutaneo, etc. Il simpatico quindi
attiva;
 Al sistema parasimpatico che al contrario inibisce generando una sensazione di relax e distensione,
per cui i muscoli si rilassano, le pupille tornano alle dimensioni normali, il battito cardiaco rallenta. Il
sistema parasimpatico ripristina l'equilibrio precedentemente rotto dallo stimolo emotigeno, e
contribuisce inoltre all'accumilo e alla conservazione dell'energia per l'organismo. Il sistema
parasimpatico ha tempi di risposta più lenti rispetto al simpatico, il quale invece si attiva subito; la
reazione emotiva impiega infatti 20-30 minuti per ritornare allo stato di equilibrio precedente. Questo
è il motivo per cui di fronte a delle emozioni troppo forti, il soggetto può perdere conoscenza, dato che
il sistema parasimpatico ha rallentato tutto, e per riprendersi ha chiaramente bisogno di tempo.

La morte improvvisaLa reazione eccessiva a un'emozione intensa è detta rebound parasimpatico, il quale
se è grave può condurre alla morte improvvisa legata al ritardo della riattivazione. Molte morti durante le
catastrofi come i terremoti avvengono per questo motivo, così come gli anziani o le persone con problemi di
cuore a causa degli effetti sul sistema simpatico collegati allo stress possono essere sufficienti a provocare un
attacco di cuore o un collasso.

Le espressioni facciali. Accanto alla componente fisiologica delle emozioni, dobbiamo concentrarci
sulle espressioni facciali delle emozioni. Le emozioni hanno una dimensione espressivo-comportamentale,
legata al fatto che molto spesso il nostro volto parla ed esprime da solo. Anche in questo caso l’espressione
facciale delle emozioni è una componente connessa alla comunicazione non verbale che si manifesta durante
una particolare reazione emotiva.
 Le espressioni mimico-facciali, i gesti e la nostra postura danno agli altri delle informazioni rispetto
l’intensità dell’emozione stessa; se io urlo, scappo, allargo le pupille, do delle informazioni rispetto
all’intensità.
 Gli aspetti legati al volto e alla voce ci fanno comprendere il tipo di reazione emotiva che si sta
provando: gli elementi del volto che danno maggiori informazioni e consentono di comprendere il tipo
di emozioni che stiamo vivendo in quel momento e che di conseguenza comunichiamo agli altri sono
le sopracciglia e gli angoli della bocca.

Darwin. Gli studi sulle espressioni facciali delle emozioni risalgono a Darwin, che fu il primo a sostenere
che questa componente espressivo-comportamentae dell’emozione avesse una matrice innata che
accomunasse tutti gli individui, e che addirittura noi condividessimo con i primati (le scimmie quando, oppure
quando hanno paura hanno espressioni simili alle nostre), per cui egli riteneva che queste espressioni sono
universalmente condivise.
 Sono stati fatti diversi studi sui bambini ciechi alla nascita, i quali presentano delle espressioni facciali
emotive quali il riso, la rabbia, che non hanno mai visto da nessuno, per cui non si può pensare che le
espressioni facciali abbiano una matrice culturale.
 Tuttavia ci sono però alcuni studiosi che contestano questa prospettiva, sostenendo che tutto il
comportamento, compreso quello espressivo legato alle emozioni, sarebbe appreso.
Vi è una discussione tra la componente innata e la componente culturale che fa riferimento ad aspetti più
specifici.

La funzione delle espressioni facciali delle emozioni. Esse ci servono:


 Ad esprimere agli altri ciò che stiamo vivendo e allo stesso tempo a riconoscere negli altri
l'emozione che stanno vivendo. Ciò è utile per la sopravvivenza, perché guardando il volto altrui si
può comprendere l'azione che l'altro si appresta a compiere. È soprattutto attraverso la componente
non verbale del linguaggio che veicola questa componente emozionale, infatti se percepiamo rabbia
dal volto del soggetto, scappiamo.
 A regolare le nostre interazioni sociali, trasmettendo informazioni rispetto
 Alla nostra personalità (dalla mimica si capisce molto se una persona è timida,
estroversa, etc. Ad esempio chi presenta una personalità stabile sarà un soggetto calmo,
che difficilmente manifesta espressioni di rabbia attraverso il volto);
 Ai nostri processi mentali, per cui consentono di comprendere gli stati affettivi che
stiamo vivendo (se siano preoccupati, in ansia...).
Le espressioni veicolano quindi una serie di informazioni non verbali associate ai nostri vissuti emotivi.

Gli studi di Ekman e Friesen. Ci sono stati degli studiosi che hanno cercato di comprendere se la posizione
darwiniana legata all’universalità delle emozioni fosse effettivamente vera. In particolare, Ekman e Frisen
hanno condotto una serie di esperimenti con varie popolazione degli USA, del Brasile, del Cile, del Giappone
e anche del Borneo, facendo vedere ai soggetti una serie di fotografie che rappresentavano delle espressioni
facciali, chiedendo loro di etichettarle. Si è visto che nell’etichettamento, nel decidere per esempio se
un'espressione indicava paura o sorpresa, tutti riconoscevano le stesse facce con le stesse emozioni.
Vi è quindi una componente universale nell'espressione facciale delle emozioni: Ekman e Frieser replicarono
l’esperimento con la popolazione della nuova Guinea, che non aveva avuto nessun contatto o poco con la
popolazione occidentale: il risultato fu lo stesso, per cui era in grado di riconoscere ed esprimere in maniera
simili a tutti gli esseri umani nel mondo le emozioni.

Prospettiva innatista. Questi risultati propendono per una visione innatista dell’espressione facciale delle
emozioni, soprattutto per quelle di base, come la paura, la rabbia, la felicità, che sono associate universalmente
a determinate emozioni e che vengono espresse e riconosciute da tutti a prescindere dalla cultura di
appartenenza. Le configurazioni facciali sono “universali”, mentre ciò che fa la differenza tra le culture sono
gli stimoli ambientali che suscitano negli individui particolari emozioni piuttosto che altre, quindi ciò che fa
la differenza è la regolazione culturale dell’espressione delle emozioni in relazione agli eventi sociali.
Ad esempio:
 Noi (cultura mediterranea) ci portiamo dietro la tradizione di piangere disperatamente durante i
funerali, che risale ad origini greche (addirittura nel periodo greco vi erano delle donne che avevano
proprio il compito di piangere e disperarsi).
 Mentre in inghilterra durante i funerali c’è più compostezza, silenzio, non ci sono pianti.
Non cambia il dolore che si prova, ma lo stimolo ambientale che suscita una particolare reazione e le
convinzioni sociali.

Le emozioni miste. L'arcata sopraccigliare e la bocca sono particolarmente interessate per esprimere le
nostre emozioni, ma in realtà il volto umano è in grado di produrre 20.000 espressioni facciali diverse per
rappresentare le “mescolanze di emozioni”. Dunque per riconoscere l'emozione che il soggetto prova, le
espressioni del volto possono essere suddivise secondo le dimensioni di:
Piacevolezza/ spiacevolezza dell’evento;
Attenzione / rifiuto;
Attivazione.
Ad esempio se sorrido mentre critico un amico, di fatto sto accettando il suo punto di vista.
Questa capacità umana è associata alla cosiddetta “teoria della mente” che si sviluppa dopo i 3-4 anni negli
individui, che sono in grado di riconoscere le intenzioni, le emozioni, gli stati mentali altrui. E’ una componente
cognitiva che in alcune patologie dello sviluppo, come l’autismo, è particolarmente compromessa: i bambini
autistici hanno un decifit sociale e interazionale e non sono in grado di riconoscere le emozioni altrui (come il
sarcasmo, o l'ironia, per cui tutte quelle componenti ed emozioni miste che non hanno una specifica
connotazione in termini di emozioni primarie).
Prospettiva culturalista. La possibilità di esprimere una mescolanza di emozioni si interseca con le variazioni
culturali, per cui diventa il modo in cui gli individui manifestano le loro emozioni è in relazione alla cultura
di appartenenza:

 La rabbia viene manifestata in modo esplicito in occidente, in quanto si ha una prospettiva più
individualista e liberale;
 La rabbia viene espressa in modo implicito in oriente, in quanto si ha una cultura più collettivista.
Per capire meglio: il cow-boy del Far West se si arrabbia esce fuori la pistola, invece i ninja covano la rabbia
in silenzio senza farlo capire al nemico, ma comunque agiscono.
Da questo punto di vista le emozioni sono strettamente associate al sistema culturale delle credenze della
cultura di appartenenza che fornisce parametri cognitivi e modelli mentali per interpretare la realtà e per reagire
a essa, in relazione così agli indizi contestuali.
Quindi vi è un prospettiva culturalista: la teoria neuro-culturale pone l'attenzione sulle “display rules” o
regole di esibizione per controllare e governare l’espressione facciale delle emozioni in relazione al contesto
culturale di appartenenza.

L’espressione vocale delle emozioni. Anche la voce è una forma di comunicazione non verbale utile a
individuare ed esprimere quello che stiamo sperimentando, vivendo, sentendo. Gli studi compiuti sulla voce
attraverso le analisi spettrografiche hanno rilevato che le diverse produzioni vocali dipendono dall'attivazione
di determinati muscoli facciali, della laringe, della glottide, così come sono influenzate dal rapporto tra
stimolazione muscolare afferente al sistema nervoso centrale e risposte provenienti dal sistema nervoso
autonomo. In generale:
 Le emozioni positive come la gioia determinano uno stiramento dei muscoli facciali, quindi la
dilatazione della faringe/laringe e un'estensione del tono vocale con voce rilassata
 Le emozioni negative determinano la produzione di voce tesa e acuta.
Vi è quindi una differenza sia in termini di modulazione della voce, ma anche differenza rispetto al tono. Gli
elementi paralinguistici che sembrano essere collegati al riconoscimento di specifiche emozioni sono:

 Il tono vocale;
 Il ritmo di articolazione;
 L’intensità
Inoltre alcuni esperimenti dimostrano che la rabbia è l’emozione più facilmente riconoscibile, infatti siamo in
grado, ascoltando dei dialoghi, di capire facilmente se i due protagonisti stanno litigando, sperimentando un
vissuto di rabbia.

L’espressione corporea delle emozioni. Insieme alla voce noi esprimiamo anche attraverso il corpo, per
cui indici espressivi di volto e corpo determinano un vero e proprio linguaggio delle emozioni. La cinesica è
lo studio della comunicazione attraverso la postura, i gesti e le espressioni facciali. Per quanto riguarda i gesti
si distinguono.
 Gesti di adattamento segnalano il grado di attivazione emozionale e hanno la funzione di regolare le
emozioni (toccarsi i capelli per stress, mangiarsi le unghie). Essi sono gesti non intenzionali che gli
individui utilizzano sistematicamente avendo in precedenza imparato a riconoscerne l’utilità. Si
distinguono in:
o autoadattivi;
o gesti di adattamenti concentrati sull’altro;
o gesti di adattamento diretti sugli oggetti.
 Gesti illustratori hanno funzione comunicativa, per cui illustrano ciò che l’individuo dice durante la
comunicazione verbale.
 Gesti regolatori regolano lo scambio comunicativo, per cui a sincronizzazione degli interventi;
 Gesti simbolici sono intenzionali e hanno una valenza e significato culturale (come i cuori fatti con le
mani).
Oltre i gesti anche la postura connessa al modo in cui il corpo si atteggia nello spazio rispetto ai suoi assi
principali, fornisce informazioni sull’intensità della reazione emotiva e sulla dimensione della tensione o del
rilassamento che stiamo vivendo.
Gesti e postura sono segnali utili per evidenziare i comportamenti legati alla menzogna: si è visto che in realtà
noi possiamo mentire a voce, ma è difficile mentire con il corpo. Ci sono degli studi scientifici legati alla
cinematografia dello smascheramento del bugiardo attraverso per esempio l’inarcamento del sopracciglio o la
voce tremolante, o il distogliere lo sguardo mentre si parla. Noi manifestiamo inconsciamente attraverso il
nostro corpo ciò che stiamo sperimentando; naturalmente l’occhio clinico può anche cogliere questi piccoli
segnali e può di conseguenza riuscire ad avere ulteriori indicazioni e capire cosa il soggetto sta comunicando
in relazione al vissuto emotivo che sta sperimentando.
P.S. A tal proposito possiamo fare riferimento alla cosiddetta “macchina della verità”, più specificatamente
poligrafo, che di per sé non è un rilevatore di bugie, ma uno strumento che registra i cambiamenti nel battito
cardiaco, nella frequenza respiratoria e nella risposta galvanica cutanea. Il poligrafo dunque si concentra su
cosa succede dal punto di vista fisiologico e corporeo nel soggetto, per questo motivo non è completamente
affidabile tanto da ammettere che un individuo stia dicendo la verità o meno.
Esistono anche delle differenze di genere tra uomini e donne, che naturalmente si poggiano su una valenza
culturale, per cui
 Le donne esprimono più facilmente le loro emozioni in pubblico, piangono o si disperano;
 Gli uomini invece che tendono a mantenere molto le loro emozioni ad eccezione della rabbia,
emozione maggiormente manifestata dal sesso maschile che da quello femminile.

Le teorie delle emozioni. In questo schema sono sintetizzate le principali teorie che sono:
La teoria periferica di
James-Lange (1);
La teoria centrale di
Cannon-Bard (2);
Le teorie cognitive (3).

La teoria periferica di James-Lange (1). Come possiamo vedere, abbiamo uno stimolo emotigeno e siamo
convinti, rispetto al senso comune, che se vediamo la tigre automaticamente abbiamo paura e a quel punto
si attiva l'attività fisiologica, quindi cominciano a sudare le mani, aumenta il battito cardiaco, ecc.
La teoria periferica di James-Lange prende questo nome non perché i due studiosi lavoravano insieme, ma
perché hanno ottenuto gli stessi risultati. La teoria periferica di James-Lange dimostrò che l’emozione
coincide con il sentire i cambiamenti psicofisiologici che hanno luogo a livello viscerale, per cui di fronte ad
uno stimolo emotigeno prima si ha un’attivazione periferica, quindi lo stimolo arriva all’amigdala che
immediatamente attiva il sistema simpatico e parasimpatico determinando l’attivazione dell’ “arousal’’ ovvero
una situazione periferica di attivazione, a cui viene successivamente collegato il vissuto esperienziale,
soggettivo della paura.
Ciò significa che “non tremiamo perché abbiamo paura, ma abbiamo paura perché tremiamo”: lo stimolo
emotigeno determina la nostra reazione psicofisiologica (sudorazione, aumento battito cardiaco) che poi a sua
volta fa sperimentare al soggetto il vissuto soggettivo dell’emozione. Si rovescia il concetto rispetto alla teoria
neuro-centrale, secondo cui l’attivazione fisiologica e il vissuto sono paralleli perché c’è un’attivazione in
termini del sistema nervoso centrale che si accompagna al vissuto emotigeno.
La teoria centrale di Cannon-Bard (2). La teoria di James-Lange venne successivamente confutata da
Sherrington e da Cannon con la formulazione dalla teoria centrale di Cannon-Bard.
Cannon e Bard evidenziarono alcuni limiti della teoria di James-Lange mettendo dunque in discussione diversi
aspetti legati alla fisiologia dei muscoli viscerali. Essi si concentrano piuttosto sull’intervento centrale di alcune
strutture situate nella regione talamica, tra cui l’amigdala: quando lo stimolo emotigeno raggiunge la corteccia,
i centri corticali inviano il segnale al talamo, il quale li decodifica e determina la risposta viscerale, vi
attribuisce la consapevolezza del loro significato e infine attiva i centri periferici.
Dunque la teoria centrale ritiene che l’attivazione fisiologica sia responsabile dell’attribuzione di significato,
infatti che la corteccia è il centro della nostra consapevolezza, per cui nel momento in cui il segnale raggiunge
le zone corticali, è lì che acquisisce un significato.
Esempio
1. Vediamo una tigre, che rappresenta lo stimolo emotigeno;
2. Si attivano tutti gli organi periferici che captano i segnali e li mandano all’amigdala, che attua una
prima risposta;
3. I segnali raggiungono attraverso la corteccia anche il talamo, dove si assume consapevolezza del
vissuto, e quindi i segnali acquisiscono un significato, per cui capiamo che c'è la tigre e che dobbiamo
scappare.
4. Il talamo rimanda il segnale agli organi periferici attivando il sistema simpatico in modo che il corpo
sia inallerta e pronto per una reazione (sistema attacco- fuga).
Le teorie cognitive (3). Accanto alla teoria di centrale di Cannon si pone quella di Schachter, uno psicologo
cognitivista, il quale evidenzia che sia la teoria periferica di James-Lange sia la teoria centrale di Cannon-Bard
sono corrette in quanto spiegano la componente psicofisiologica dell’emozione. Tuttavia, ciò che per gli
studiosi di psicologia ha più valore è la componente cognitiva: posto che ci sia una componente periferica per
cui il soggetto comincia a sudare, a impallidire, è importante considerare che a 4rflivello fisiologico le reazioni
emotive sono caratterizzate dalle stesse reazioni; ad esempio a livello fisiologico proviamo la stessa cosa di
fronte alla tigre o di fronte alla persona di cui si siamo innamorati, tuttavia per la prima proviamo paura e per
la seconda gioia. È a livello cognitivo che avviene la discriminazione tra i vissuti fisiologici, per cui è grazie
alla capacità cognitiva e psicologica di etichettare il vissuto fisiologico, che si comprende se quest'ultimo
rappresenta paura, rabbia, gioia ecc.
Schachter chiama questa componente cognitiva, cosi come poi faranno i cognitivisti, appraisal. Dunque
l’emozione deve essere considerata come la risultante di due componenti distinte:
 La componente di attivazione biologica di periferica, diffusa e aspecifica, dunque l’arousal;
 La componente cognitiva ovvero l’appraisal che ci permette di riconoscere ed etichettare
verbalmente l’esperienza emotiva che stiamo vivendo sulla base degli indizi ambientali.
Grazie all’appraisal riusciamo ad interpretare l’arousal: affinchè si generi un’emozione, non basta solo
l’attivazione periferica, ma occorre un’attribuzione causale che spieghi quello stato. In base alle informazioni
provenienti dal contesto in cui ci troviamo e in base alle conoscenze di quali contesti provochino le emozioni,
gli individui danno una valutazione cognitiva, cioè etichettano lo stato affettivo nel quale si trovano.
Questa conclusione è stata ottenuta dallo studioso facendo un esperimento in cui ad alcuni soggetti che
guardavano un film comico vennero iniettate tre diverse sostanze:

 Gruppo 1Adrenalina
 Gruppo 2Tranquillante
 Gruppo 3placebo
1. Il primo gruppo valutò il film come maggiormente è divertente rise molto durante la proiezione. I
soggetti trattati con adrenalina erano stimolati dal punto di vista fisiologico, ma non sapevano spiegare
le proprie sensazioni. Attribuendo l'attivazione al film, si sentirono felici e allegri;
2. Il secondo gruppo valutò il film con i punteggi più bassi e tendeva ad essere più calmo;
3. Il terzo gruppo valuto il film con punteggi intermedi rispetto gli altri due gruppi.
Questo esperimento spiega che l'emozione è un processo non riducibile alla sola risposta relativa alla
componente di attivazione fisiologica. Le nostre emozioni sono influenzate da appercezione, esperienza,
atteggiamenti, giudizi e molti altri fattori cognitivi.

Le teorie dell’appraisal. Dalla teoria cognitivo-attivazionale si sono sviluppate le teorie cognitive


dell’appraisal che stabiliscono che le emozioni dipendono dal modo in cui individui interpretano e valutano
eventi e stimoli provenienti dall’ambiente fisico e sociale. L’appraisal è dunque la valutazione immediata e
diretta dello stato emotivo di cui poi l’individuo diventa consapevole a processo concluso; non implica una
vera e propria riflessione o autoconsapevolezza.
Da questo punto di vista si ha una rivalutazione delle differenze individuali, infatti l’emozione varia da
individuo a individuo in funzione della stessa situazione. Il soggetto può considerare una situazione come
piacevole o eccitante a seconda del valore, e di come la interpreta rispetto al proprio vissuto personale. Per cui
ad esempio se guardassi una video-operazione chirurgica allora sperimenterò disgusto, mentre un medico che
sceglie consapevolmente di svolgere quella professione non proverà situazione di disgusto. Quindi ciò è legato
all'interpretazione soggettiva della stessa situazione che determina nei soggetti emozioni differenti.
Non è l’evento emotigeno che crea l’emozione, ma la valutazione cognitiva (che è immediata, in quanto
immediatamente il soggetto deve avere un'idea di ciò che sta succedendo) e l’attribuzione di significato
dell’evento sono responsabili della qualità e dell’intensità della risposta emotiva. Dunque considerando
l’esempio, non è il fatto di guardare l'operazione chirurgica che causa disgusto, ma il fatto che sto guardando
l'operazione e associo ad essa un altro significato.
La struttura di significato ci fa variare ed etichettare la piacevolezza o spiacevolezza dello stimolo emotigeno,
per cui l'emozione NON è innescata da un evento ambientale(come dicevano le teorie psicologia fisiologiche),
ma da un antecedente emozionale che ha un valore diverso per ciascuno e che può essere o interno o esterno
(si ci può emozionare per un ricordo o un pensiero di un particolare evento o situazione). Questo antecedente
emozionale anche se specifico per ciascuno, a volte è culturalmente condiviso, quindi per convenzioni sociali
sappiamo che ci sono degli eventi in cui si sperimentano determinate emozioni, per esempio ai funerali si
piange ma non si ride. Ci sono anche delle situazioni che possono far variare le nostre emozioni rispetto agli
antecedenti sociali.

La teoria del feedback facciale. Al pari della valutazione cognitiva delle emozioni anche l’espressione
facciale delle emozioni le influenza a sua volta. Oggi con Izard si sta rivalutando l’approccio psicofisiologico
dell’emozioni sulla base della teoria del feedback facciale. Secondo Izard le emozioni attivano programmi
innati, legati ai pattern dei muscoli facciali che utilizziamo per esprimere gioia piuttosto che paura, inviano
dei segnali al nostro cervello, quindi al sistema cognitivo, che ci consentono di etichettare l’emozione che
stiamo vivendo. Quindi si ritorna all’attivazione periferica concentrandosi sui feedbak facciali, cioè sui
muscoli della faccia, per cui grazie grazie ai segnali che arrivano al cervello noi diamo un’etichetta a un
emozione.
Eckman dice che produrre spontaneamente l’espressione delle emozioni consente di provare l’emozione stessa:
sulla base di questa concezione vale anche il principio secondo cui se noi siamo contenti, proprio perché i
nostri muscoli facciali iniziano a inviare questi segnali di contentezza al cervello, noi sperimentiamo
maggiormente quell’emozione, quindi il feedbak facciale ci serve a sperimentare quell'emozione,
sperimentando un umore sereno.
Questo è alla base della teorie positive (positive psicology), che è una branca attuale che spinge sulla
possibilità di sperimentare ottimismo, gratitudine, felicità e in qualche modo produce una sensazione di
benessere psicologico nei soggetti.

L’approccio multi-compenzionale.Come dice Mastrandea l’approccio allo studio delle emozioni è


multicomponenziale: l’emozione è descritta oggi come l’organizzazione momentanea di tutti i maggiori
sistemi di funzionamento dell’organismo in risposta alla valutazione di uno stimolo interno o esterno rilevante
per l’organismo. Essa si compone di 5 componenti:
1. La componete cognitiva dell’appraisal;
2. La componente fisiologica dell’arousal;
3. La componente espressiva legata all’espressione delle emozioni;
4. La componente motivazionale che ci prepara all’azione;
5. La Componente del vissuto soggettivo (5).
La componete cognitiva dell’appraisal (1). L’appraisal è la valutaizone cognitiva dello stimolo emotigeno e
della situazione. Si distingue in due forme:
 Appraisal primario è rapido e automatico, ci consente di avere una prima valutazione delle
caratteristiche salienti dello stimolo, per cui si basa sulla piacevolezza e spiacevolezza dello stimolo;
 Appraisal secondario è una valutazione più consapevole e approfondita degli stimoli emotigeni
rispetto al proprio vissuto, che si attiva dopo una prima risposta istintiva ed emotiva che è stata messa
in atto.
La componente fisiologica dell’arousal (2). L'arousal è la dimensione fisiologica lungo cui varia il livello di
attivazione dell’organismo che va dal sonno fino all’eccitazione. Dopo la valutazione cognitiva si innesca
un’attivazione in tutto il nostro corpo, per cui si ha una risposta indifferenziata che attiva il nostro organismo
sia di fronte a un emozione positiva che negativa.
La componente espressiva legata all’espressione delle emozioni (3). Il soggetto esprime con gesti, postura,
voce la propria risposta emotiva comunicandola agli altri e ci/li preparano all’azione.
La componente motivazionale che ci prepara all’azione (4). L’emozione ci permette di attuare una serie di
comportamenti di attacco/fuga utili perla nostra sopravvivenza. Per esempio vedo la persona che mi piace
posso conquistarla o nascondermi, perchè vivo un'emozione talmente intensa che non riesco neanche a parlare.
La Componente del vissuto soggettivo (5). La componente espressiva e motivazione finiscono per innescare
un vissuto soggettivo che è legato alla specifica emozione e a quello che noi chiamiamo sentimento o feeling.
Il sentimento infatti è legato a questa ultima componente, all’ultima fase dell’intero processo emotivo.

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