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IL SETTORE DISCIPLINARE
Oggi noi parliamo di psicologia dello sviluppo, perché il settore disciplinare è
cambiato, quando parlo di “settore disciplinare”, sarebbe proprio di: “psicologia
dello sviluppo e dell’educazione”.
All’interno di un settore disciplinare, gravitano tantissime materie: psicologia della
disabilità, psicologia dello sviluppo del linguaggio, psicopedagogia delle differenze
individuali, dell’affettività, dello sviluppo cognitivo, tantissimi insegnamenti e noi
ogni anno decidiamo quali insegnamenti ricoprire, ma il settore è: “sviluppo ed
educazione”.
Età evolutiva: gli autori, che facevano parte della psicologia dell’età evolutiva, sono
stati Freud, Piaget, cioè coloro che per primi hanno spostato il focus attentivo sul
bambino e si sono occupati dello sviluppo cognitivo, linguistico, mnestico, motorio e
percettivo, nelle primissime fasi dello sviluppo.
Psicologia evolutiva: Oggi noi, invece, non parliamo più di psicologia dell’età
evolutiva, ma di psicologia evolutiva, perché per noi psicologi c’è sviluppo ogni qual
volta ci sono cambiamenti significativi, durevoli, che non riguardano solo la prima
infanzia, ma investono l’intero arco di vita.
PERCIO’: Noi non parliamo più della prospettiva dell’età evolutiva, ma adottiamo
quella dello sviluppo, in
teso come life span, che riguarda l’intero arco della vita, perché ogni fase della nostra
vita è caratterizzata da cambiamenti.
IL BAMBINO:
Il bambino oggi non viene più considerato come nel passato, come tabula rasa, un
recipiente da riempire per effetto dello stimolo ambientale e dell’esperienza, ma il
bambino, noi vedremo, che nasce già dotato di grandi capacità.
Va potenziato, per effetto della stimolazione ambientali, ma non finisce mai di
evolversi, di svilupparsi, dall’inizio alla fine, poiché ogni fase è caratterizzata da
cambiamenti significativi.
Metaforicamente, la psicologia dell’età evolutiva potrebbe essere raffigurata come
una curva Gaussiana.
Noi abbiamo un bambino tabula rasa che a poco a poco, per
effetto della stimolazione acquisisce saperi, competenze,
conoscenze, arriva all’apice della curva (vedremo in Piaget, che
questo apice corrisponde all’adolescente, al giovane adulto),
piano piano nei modelli del passato, si assisteva, andando avanti
con gli anni ad un graduale declino, ad una perdita di capacità, di
conoscenze, fino all’età senile.
o Noi oggi possiamo permetterci di considerare l’anziano come una tabula rasa,
come colui che ha perso tutte le capacità, tutte le competenze?
Gli psicologi dello sviluppo invece considerano tutte le altre fasi, perché dense di
sviluppi, di cambiamenti significativi, quindi, mentre gli autori dell’età evolutiva
parlavano di fasi e stadi, noi parliamo di PERCORSI EVOLUTIVI, cioè che possiamo
tutti partire da uno stesso punto, lo start è uguale per tutti, ma ciascuno di noi, nel corso
del proprio sviluppo va incontro a cambiamenti, per cui il nostro iter evolutivo è
diverso da quello dell’altro, ciascuno di noi si sviluppa con una modalità e con una
tempistica diversa da quella degli altri.
Piaget, invece pensava che tutti si sviluppassero alla stessa maniera, allo stesso
momento e indipendentemente dal contesto;
noi oggi non possiamo accettare in maniera rigida questo modello, ma dobbiamo
necessariamente riprendere alcuni concetti, perché non mettiamo completamente in
soffitta i modelli del passato, ma li rivediamo, li aggiorniamo in maniera sofisticata.
-Al nostro insegnamento, che è psicologia dello sviluppo e dell’educazione, noi daremo
un sottotitolo:
VARIABILITA’ INTRA ED INTER INDIVIDUALE e approfondiremo moltissime
dimensioni dello sviluppo: affettivo, cognitivo, linguistico, mnestico, motorio,
percettivo e vedremo come ciascuno di noi si sviluppa in modi e tempi diversi
rispetto a quello degli altri.
Quindi c’è un enorme variabilità l’uno dall’altro, ma anche da noi stessi nei
diversi momenti del nostro ciclo di vita, anche quando ci sembra di non cambiare!
Non è così, cambiamo sempre!
Il filo conduttore di tutto il corso sarà la variabilità intra ed inter individuale, quindi
dobbiamo sempre tenere in considerazione la variabilità; non tutti i bambini si
sviluppano nella stessa maniera e negli stessi tempi, quindi dobbiamo tenere in
considerazione dei range temporali estremamente ampi, elastici, flessibili, perché ci
sono dei bambini che saltano delle fasi (ex: non gattonano, ma poi camminano e sono
più veloci degli altri) e non per questo sono rallentati.
o Cosa ha comportato nel campo degli studi psicologici, questa rivoluzione
paradigmatica avvenuta negli ultimi 20 anni?
Ha comportato un modo diverso di vedere lo sviluppo, in termini di: variabilità inter
ed intra individuale, ma ha comportato anche un cambiamento nella visione delle
diverse dimensioni temporali (passato, presente e futuro), non come tre segmenti
temporali distinti e disgiunti, ma oggi parliamo di ‘Continum evolutivo’.
Il mio presente, il mio modo di interpretare la realtà è influenzato dal mio passato
dalle mie radici, dalle mie rappresentazioni mentali, anche se penso di non essere
influenzato dal mio passato, che invece influenza il nostro modo di vivere il presente,
ci rappresentiamo le situazioni presenti e ci proiettiamo nella dimensione futura.
✓ Il passato non è mai annullato, il passato deve essere immaginato come uno
zaino pesante, ma trasparente, pieno di strumenti cognitivi derivanti dalle
esperienze passate.
Quando noi dobbiamo affrontare una situazione presente, un problem solving
immediato, facciamo ricorso a questo zaino e andiamo a recuperare quegli
strumenti che ci consentono di interpretare il presente e proiettarci nella
dimensione futura.
Gli autori del passato, quelli propri dell’età evolutiva, parlavano di stadi, cioè un
intervallo temporale cronologicamente determinato (es da 6 mesi a 8 mesi);
Agli psicologi dello sviluppo questi range temporali così rigidi vengono piuttosto
stretti, una prospettiva così universalistica la viviamo come una ingessatura, un po'
pesante, perchè adottiamo una prospettiva più flessibile, guardando al soggetto che si
sviluppa all’insegna della variabilità inter ed intra individuale.
Freud, invece, parlava di fasi, non faceva un riferimento così rigido ai range
temporali come faceva Piaget.
Entrambi si fermavano a quello che per uno, era la fase adolescenziale periodo
operatorio formale e per l’altro la fase puberale, quella genitale, che corrispondono
allo stesso momento, all’esordio dell’adolescenza, come se dopo non ci fosse più
nulla.
Noi, invece come psicologi dello sviluppo, che adottiamo la teoria del life span, del
ciclo di vita come un continuo cambiamento, è chiaro che per noi tutto è
cambiamento, tutto è sviluppo.
Quando diciamo che adottiamo una prospettiva diversa, a seguito di questa
rivoluzione paradigmatica, non vogliamo mettere in discussione quelle che erano le
idee di Piaget e Freud, perché comunque sono stati i padri della psicologia dell’età
evolutiva, pietre miliari, fondamentali.
Non possiamo negare il loro contributo, ma dobbiamo contestualizzarli in quel
preciso periodo storico, sociale e culturale.
Sia a Freud che a Piaget, riconosciamo il merito di aver parlato per primi del
bambino, nessuno prima di loro lo aveva fatto, essi invece parlano del bambino e
dell’importanza delle esperienze precoci vissute durante la primissima infanzia.
E’ vero che la sequenza rigida, con questi range temporali così ossessivi, rigidi, non
vanno bene, è vero che tante cose dette da Freud per noi sono storia della psicologia,
ma sicuramente il loro è stato un pensiero rivoluzionario e per primi hanno messo al
centro dell’attenzione il bambino e l’importanza delle esperienza precoci vissute nella
prima infanzia, per quello che per uno è l’io, il sé, l’identità, noi oggi parliamo
proprio di identità.
Quello che noi oggi diciamo è una rivisitazione di questo pensiero, freudiano e
piagetiano, che nel corso dei decenni si è arricchito del contributo di tantissimi altri
autori, ma il pensiero degli autori deve essere assolutamente contestualizzato:
Freud per affinare il suo pensiero, se ne va in un contesto diverso, a Parigi, più aperta
al dibattito, affina il suo pensiero, qui trova Charcot, nonostante Parigi e Vienna
fossero così vicine, ciò che cambiava era il contesto culturale.
Freud è assolutamente rivoluzionario, parlare del bambino, dell’importanza della
pulsione sessuale a partire dalla suzione, perché ricordiamo che la prima zona
erogena ad essere stimolata è la bocca, attraverso la suzione che consente secondo il
modello etologico, l’assolvimento di un bisogno primario, di essere allattato, un
bisogno primario legato alla sopravvivenza.
Freud, però fa un lavoro paragonato da alcuni a quello dell’archeologo, perché Freud
non parte dal bambino, parte dall’adulto, da Anna O., usando la metafora
dell’archeologo, Freud scava e studia le esperienze precoci del bambino.
Piaget, vedremo, che non sviluppa il suo pensiero a Parigi, ma a Ginevra, in un altro
contesto rigoroso.
Freud era un medico molto vicino alla psichiatria e quindi la sfera della psiche umana
era oggetto della sua indagine.
Piaget era , un ricercatore da laboratorio che studiava le lumache.
E’ partito da uno studio prettamente rigoroso, scientifico da laboratorio, ha elaborato
la più bella teoria sullo sviluppo cognitivo, a partire dal bambino, attraverso
l’osservazione diretta dei suoi figli, Piaget, rispetto a Freud parte dal bambino.
Parleremo di stadi piagetiani, da considerare non solo come storia, poiché molte cose
sono valide, ma andremo oltre, dallo stadio al percorso (significa che soggetti diversi
elaborano le informazioni in maniera diversa).
✓ Ex. Ciascuno di noi si sviluppa in maniera diversa dall’altro. Io sto facendo
lezione, ognuno di voi elabora i contenuti in maniera diversa e alla fine avrà
delle rappresentazioni diverse.
Noi da psicologi dello sviluppo che adottiamo una prospettiva più ampia, più flessibile
all’insegna della variabilità, non possiamo accettare una prospettiva rigida, ma siamo
per una prospettiva probabilista (es. è probabile che, data questa determinata situazione
di partenza, l’esito comportamentale vada in una determinata direzione, ma non è
sicuro!), nel percorso di sviluppo dell’individuo intervengono molteplici variabili che
possono dare una direzione diversa.
Per noi non esiste una prospettiva determinista, rigida, ma quella probabilista, noi
psicologi non cerchiamo la causa del comportamento, ma il processo, cioè quella
catena di fattori, di variabili che in un determinato momento hanno fatto sì che il
comportamento dell’individuo andasse in una determinata direzione, rispetto ad altre.
✓ Ex. figli che hanno lo stesso fattore genetico, ma che sono diversi tra loro, pur
avendo le stesse possibilità, non è detto che vadano nella stessa direzione, sono
molteplici le variabili che possono farli andare in una diversa direzione.
Non posso identificare il bambino con la sindrome; della sindrome possiamo sapere
che ci sono delle caratteristiche cognitive, linguistiche, cardiache ecc, ma sono solo
caratteri.
✓ Avere una visione olistica, vuol dire che *Giorgio*, si trova in una situazione di
disabilità, che nel caso specifico è la sindrome Down, ma io guardo la persona,
che è invece dimensione cognitiva, affettiva, motoria, sociale, relazionale.
E’ la persona nella sua totalità e nella sua unicità, non devo correre il rischio di
identificarlo con la sindrome.
Il contesto. La psicologia dell’età evolutiva si caratterizzava per una scarsa attenzione al CONTESTO, oggi
invece, gli psicologi dell’età evolutiva attribuiscono enorme importanza a questo fattore.
Il primo che ne ha parlato è stato VYGOTSKIJ, rappresentante della psicologia sovietica, marxista. Da una
parte vi è Piaget che incarna un determinato modello sociale, culturale, politico e dall’altro vi è Vygotkij.
Uno dei principali dibattiti che hanno animato il panorama della psicologia dagli anni 50 in poi è stato tra
Vygotkij e Piaget sulla natura tra il rapporto tra pensiero e linguaggio posizionandosi su due teorie opposte:
▪ Piaget cognitivista, dava priorità al pensiero
▪ Vygotkij marxista, contestualista, considerava il linguaggio uno strumento di natura sociale e lo
posizionava prima del pensiero. Vygotkij è stato il primo tra gli autori ad attribuire una marcata
importanza al contesto.
Il contesto viene definito come una matrice di significati, è il contesto che da significato al comportamento.
Si tratta di un insieme di regolarità relazionali strettamente connessi agli ambiti in cui si realizza lo
sviluppo individuale.
Ex. Facciamo finta che una psicologia dello sviluppo venga chiamata in una scuola di frontiera per valutare un
bambino che ha disturbi comportamentali. Ovviamente, la psicologa deve partire dal contesto in cui il bambino
vive, dalla situazione familiare, da una serie variabili che rendono il caso unico perché è quello che da
significato e spiegazione al comportamento del bambino. Il contesto non può essere considerato un elemento
cumulativo, sommativo.
Ex. Una psicologa dello sviluppo viene chiamata a valutare un bambino con disturbi comportamentali in cui
la famiglia è presente, ha un alto livello socio-culturale, con alto grado di aspettativa familiare, buon
funzionamento cognitivo. I sintomi comportamentali, però, sono uguali a quelli adottati dal bambino
dell’esempio precedente ma ha diverso significato in quanto a cambiare è il contesto.
Modello bioecologico. Il modello a cui facciamo riferimento e che riprende pienamente la visione del contesto
come matrice di significati in cui il comportamento è intessuto e non può essere disgiunto dal suo contesto è il
MODELLO BIOECOLOGICO. Il modello ecologico dello sviluppo è il punto di convergenza tra discipline
diverse, quali le scienze sociali, psicologiche e biologiche, perché se per comprendere il comportamento
individuale dobbiamo considerare le tre dimensioni sopra citate, allora il modello ecologico le include tutte. Il
contesto in cui si colloca l’evento, il comportamento non è una semplice aggiunta ma è un suo elemento
costituente perché uno stesso comportamento assume significati diversi in base al contesto in cui si sviluppa.
Il comportamento individuale, allora, è una “funzione” del processo interattivo tra dimensione biologica,
organismo socio-culturale e funzionamento psichico.
Metafora dell’arcobaleno e della ragnatela. Super per descrivere la psicologia dello sviluppo ha utilizzato
la metafora dell’arcobaleno. L’arcobaleno è una serie di semicerchi di colori diversi e ogni secondo cambia
tonalità e ogni colore rappresenta una diversa dimensione dello sviluppo che si sviluppa in modo diverso.
Un’altra immagine è quella della ragnatela; la ragnatela è data da tanti filamenti sottili e ogni filamento
rappresenta una dimensione dello sviluppo. Queste sono tutte fondamentali e sono tenute insieme dai compiti
evolutivi. Il superamento di quest’ultimi ci consente di procedere nello sviluppo.
Percorsi evolutivi probabilistici. Passare dalla linearità alla complessità significa assumere un CONTINUO
EVOLUTIVO. Il sistema evolutivo si modifica lungo un continuo di passato, presente e futuro che si integrano
reciprocamente.
Dal concetto di stadio che corrisponde ad un range temporale limitato si passa a quello di percorso evolutivo;
la sequenza rigida consentiva di incasellare gli individui indipendentemente dal contesto, di contro se si hanno
determinate competenze in una fascia d’età si può ricondurre all’età dell’individuo senza che questo la esplichi.
Adottando una prospettiva sistemica, complessa, non è più possibile incasellare i comportamenti ma parliamo
di percorsi differenziati in termini intra e inter individuali.
Modello di Ford e Lerner. Ford e Lerner hanno scritto un manuale dal titolo “Sistemi evolutivi” in cui
ritroviamo il loro pensiero: poniamo al centro un individuo in cui il suo comportamento è determinato dalla
relazione tra FATTORI DI RISCHIO e FATTORI DI PROTEZIONE. Questi interagiscono tra loro nel
determinare il comportamento dell’individuo e come risultato di questa relazione bidirezionale si può andare
in una direzione:
▪ positiva, adattiva-funzionale
▪ disfunzionale, disadattiva.
Questa prospettiva sposa il modello probabilistico e non deterministico.
I fattori di rischio possono essere di tipo biologico o di tipo ambientale, per esempio, il bambino con un grave
disagio culturale, di carenza affettiva e di marginalità sociale. Tutto fa pensare ad un percorso di sviluppo di
tipo disadattivo ma gli psicologi dello sviluppo probabilistici, pensano che quei fattori di rischio interagiscono
con i fattori di protezione e può accadere che quel bambino ha delle buone capacità e può uscire dal contesto
degradato.
Durante il percorso dello sviluppo di ciascuno di noi intervengono così tanti variabili che il nostro
comportamento può oscillare, improvvisamente va in una direzione disadattiva quando tutto sembrava fosse
diretto per quello ottimale.
Ford e Lerner insegnano anche che questa relazione che influenza l’esito comportamentale in una direzione
adattiva, funzionale o disadattiva va inquadrata in una macro cornice delimitata da due descrittori
fondamentali: contesto e tempo.
Gli psicologi non cercano la causa del comportamento ma indagano sul processo che sta alla base del
comportamento. Non esiste una causa, ma l’insieme di fattori che in un determinato momento e in un
determinato contesto fanno si che il comportamento vada verso una direzione rispetto ad un’altra.
Ex. I figli, educati dagli stessi genitori, hanno la stessa educazione e le stesse opportunità ma intervengono
variabili che fanno si che il percorso di vita cambi.
Si potrebbe verificare anche il contrario, ci potrebbe essere un bambino con tanti fattori di protezione però, ad
un certo punto, succede qualcosa che fa deviare il suo comportamento verso un’altra direzione, quindi il
percorso evolutivo è probabile, mai deterministico.
Ex. Un bambino che tende a rivaleggiare o primeggiare sempre in un contesto a rischio è un bambino che deve
affermare il proprio essere utilizzando determinate modalità comportamentali. Uno stesso comportamento poi
assume significati diversi.
Modelli deterministici. La prospettiva classica, quella della psicologia dell’età evolutiva andava alla ricerca
dalla causa, la psicologia dello sviluppo, invece, non ricerca la causa-effetto perché adotta una prospettiva più
processuale. I modelli deterministici classici erano quelli del comportamentismo e quello psicoanalitico.
LO SVILUPPO SOCIALE
Una delle dimensioni fondamentali dello sviluppo è lo sviluppo sociale, sempre in un’ottica complessiva.
Sander. Sander ha dato una definizione del “sé” definendolo il polo di un continuum di cui l'altro polo è
costituito dall’ altro.
Sander sostiene che nel momento in cui ci descriviamo, descriviamo un’immagine riflessa cioè un'immagine
del sé che noi ci costruiamo dalla prima infanzia per effetto di un feedback e di una proiezione speculare
continua che riceviamo dagli altri; questo ci fa capire che il sé si sviluppa tramite le interazioni continue del
soggetto con gli altri.
Dopo aver preso consapevolezza che gli altri ci vedono in un certo modo è come se ciascuno di noi si creasse
una sorta di maschera, in cui ci identifichiamo, che è perfettamente aderente al nostro sé.
Il sé è molteplice e molteplici sono i feedback che riceviamo dagli altri e si concretizzassero in quello che tu
riconosci come il tuo sé.
Se, in età adulta, abbiamo un feedback differente da quello che ci è sempre arrivato e il nostro è ben strutturato
non ci facciamo scardinare, sviluppando la rappresentazione che non tutti possono avere un’immagine di me
uguale.
Ex: se un bambino ha un feedback negativo dei genitori perché sono una famiglia disfunzionale, e non ha una
grande interazione con gli altri, penserà solo cose negative di sé? In questo caso intervengono i fattori di
protezione, in risposta ai fattori di rischio, come l’alto funzionamento cognitivo, l’incontro con compagni o
con altri adulti significativi che dirottano il suo sé in altre direzioni sviluppando un’immagine che è positiva.
Lo sviluppo sociale non è solamente sviluppo relazionale, relazioni tra pari, relazioni con gli adulti
significativi, ma è sviluppo emotivo, sviluppo cognitivo, sviluppo linguistico, sviluppo morale e sviluppo del
senso dell’identità.
Fasce d’età. Un modo utile per descrivere lo sviluppo sociale è quello di considerare diverse fasce d'età che
non sono fisse. Oggi classifichiamo:
• Prima infanzia (0-2/3aani)
• Età prescolare o prima fanciullezza (4-6 anni)
• Età scolare o fanciullezza (6-10 anni)
• Preadolescenza e adolescenza (10-11 fino all’età adulta).
Questa suddivisione è soggetta a continue modifiche proprio per effetto delle pressioni sociali.
Lo sviluppo delle relazioni. L'influenza nel microcosmo si elimina completamente o comunque continua a
farsi sentire anche negli altri contesti interazionistici nei quali il soggetto entra come parte attiva?
L’influenza della famiglia continua ad esercitarsi in quanto anche la scuola viene scelta dai genitori, di
conseguenza anche le maestre e i compagni con i quali il bambino entrerà in relazione. Man mano che cresce
il bambino potrà scegliere con chi istaurare delle relazioni in quanto all'interno di uno stesso sistema relazionale
abbiamo dei sottosistemi.
Il modello di Brofendrenner è definito un modello a cerchi concentrici: parte da quello più piccolo e man mano
che cresce il bambino entra a far parte di cerchi più ampi, cioè di contesti relazionali più ampi; tutti i cerchi
sono in interazione tra loro, quindi non si annullano.
Dei microsistemi fanno parte: la famiglia, la scuola, i coetanei. Quest’ultimi sono racchiusi nel
MESOSISTEMA, cioè il sistema che mette in relazione i microsistemi. Infine vi è l’ESOSISTEMA, il più
ampio che include le condizioni di vita, lavoro, occupazionali ma anche tutto il sistema ideologico politico
sociale culturale che influenza il nostro comportamento.
➢ PRIMA INFANZIA
Interazione madre-bambino. In questa fascia d’età si realizza il dialogo interattivo, una comunicazione
reciproca tra il bambino e il caregiver, l’erogatore di cure che nella maggior parte dei casi è rappresentato
dalla mamma. Questo rapporto, questo dialogo è fondamentale per lo sviluppo del sé.
È una comunicazione reciproca perché il bambino invia i propri segnali al caregiver ed è quest’ultimo che li
decodifica, assecondando i bisogni del bambino, che inizialmente sono dei bisogni finalizzati alla
sopravvivenza e poi diventeranno sempre più dei bisogni sociali, di interazioni sociali.
Il bambino, quando nasce, non è una tabula rasa, al contrario è dotato di capacità percettive e di preferenze
selettive, quindi preferisce determinati stimoli rispetto ad altri.
Esperimento di Fantz. Fantz fa un proprio esperimento sullo sviluppo precettivo del bambino. Nelle culle
trasparenti dove vengono messi i neonati vengono poste due finestrelle da cui vengono fatti passare degli
stimoli. Fantz fece passare degli stimoli diversi nelle due finestre e si è reso conto del fatto che il bambino
manifesta una preferenza selettiva, preferisce determinati stimoli rispetto ad altri.
Come valutiamo la preferenza selettiva? Misurando i tempi di fissazione. Se il bambino fissa per un tempo
più prolungato determinati stimoli rispetto ad altri vuol dire che preferisce quegli stimoli rispetto agli altri.
Quindi questo bambino é dotato di enormi capacità percettive e preferenza selettiva.
Lo sviluppo del sé. Lo sviluppo del sé è strettamente legato allo sviluppo della relazione.
E’ un sé relazione, perché noi guardiamo al bambino che viene immediatamente inserito in un microsistema,
che è un contesto relazionale.
• 3 mesi: ci sono i primi segni di consapevolezza sociale;
• 6 mesi: sorridono, toccano e propendono verso altri bambini;
• Bambini più grandi: vanno a carponi verso altri bambini;
• 2 anni: iniziano delle vere e proprie interazioni.
Da subito, il bambino entra in interazione con il caregiver e a poco a poco sperimenta anche relazioni con gli
altri. Man mano che si sviluppano le capacità percettive e motorie del bambino, questo entra in rapporto con
gli altri dando segni di consapevolezza sociale.
Già a 6 mesi è in grado di sorridere: c’è un sorriso endogeno che è un sorriso interno, rivolto a se stesso, ed un
sorriso sociale. I primi sorrisi dei bambini sono sorrisi endogeni, rivolti a se stessi e che esprimono uno stato
di benessere, ad esempio quando il bambino piange tantissimo e ad un certo punto viene preso in braccio
sorride perché ha ottenuto l’obiettivo. O ancora, quando il bambino viene allattato, spesso sorride, come
espressione di uno stato di benessere.
A partire dai 6 mesi, si sviluppa pienamente la visione; inizia a riconosce le figure familiari che lo circondano,
che si prendono cura di lui, infatti, a 8 mesi subentra la paura e l’angoscia per l’estraneo.
In questa fascia d’età, il bambino incomincia a toccare, ad avvicinarsi agli altri, man mano che procede anche
lo sviluppo motorio.
➢ ETA’ PRESCOLARE
Il bambino crescendo sperimenta delle relazioni diverse, delle relazioni orizzontali tra pari.
Il gruppo di pari è una risorsa fondamentale per lo sviluppo del bambino perché mentre gli adulti, quali i
genitori, sono sempre pronti a decodificare i messaggi dei figli non facendoli sforzare più di tanto, i coetanei
non si impegnano a capire ciò che intende dire il bambino. In questo caso quest’ultimo deve fare uno sforzo
maggiore per farsi comprendere e contemporaneamente inizia a parlare.
Ex: se un ragazzino a 4-5 anni manifesta, dei problemi del linguaggio questo potrebbe far scattare un
campanello di allarme e fare una valutazione cognitiva.
Il linguaggio è una dimensione strettamente correlata a quella cognitiva, quindi non ci sono risposte ma devono
analizzarsi molteplici aspetti.
Due nuovi microsistemi. Nel passaggio dal nido alla scuola dell’infanzia, il bambino entra a far parte di
contesti più numerosi: passa da 6/7 educatori a 24/25 educatori nella scuola dell’infanzia.
Il soggetto si confronta, si rapporta con sistemi evolutivi più ampi e complessi e da questo confronto continuo
sviluppa e struttura il suo sé, che è un sé sociale.
Aumentano le figure di riferimento, sviluppa anche nuove dinamiche di gruppo, nuove relazioni e fa anche
esperienze di gerarchie diverse, quindi rapporti verticali e rapporti orizzontali. All’interno di questa
dimensione verticale o orizzontale attiva anche dei microsistemi relazionali, dei microgruppi.
I bambini, infatti, a partire dal passaggio dal nido alla scuola dell’infanzia incominciano a sviluppare le
relazioni amicali che poi l’accompagneranno in tutto il corso del loro sviluppo.
Sviluppo dell’identità di genere. In questa primissima fase è molto importante lo sviluppo dell’identità di
genere, perché il bambino interiorizza dei modelli, pattern comportamentali, quello che fa la mamma, il papà
e poi a scuola giochi da maschi e giochi da femmine. Queste esperienze contribuiscono a definire un’identità
di genere.
Relazioni con i coetanei. Con il crescere dell’età le relazioni con i coetanei diventano sempre più frequenti,
complesse e ricche:
• Prima infanzia: i bambini tendono ad imitare i compagni e l’interazione non è ancora coordinata;
• Età prescolare: le interazioni sono coordinate e vi è la comparsa del gioco di finzione;
• Fanciullezza: le interazioni diventano sempre più complesse e caratterizzate dalla segregazione di genere;
• Adolescenza: i pari assumono un ruolo critico, soprattutto rispetto allo sviluppo dell’identità di genere.
Nella fanciullezza le interazioni diventano molto più complesse e cominciano, in questa fase, durante la scuola
primaria, a strutturarsi delle segregazioni di genere che, invece, tenderanno ad affievolirsi durante
l’adolescenza. Da subito, il bambino in quanto sistema evolutivo tende ad instaurare relazione con gli altri e
queste si trasformeranno in relazioni amicali.
Inizialmente gli amici sono i compagni di banco, successivamente si verifica una selezione delle persone sulle
base di alcuni criteri che possono essere:
• la lealtà;
• intimità;
• mutuo affetto.
Alcune amicizie che si strutturano dopo, nel corso del tempo, sono più profonde rispetto a quelle della prima
infanzia, c’è una condivisione di modelli, vi è una maggiore condivisione sul presente in quanto sono amicizie
selezionate, scelte.
L’amicizia e le sue associazioni con altri aspetti dello sviluppo. Perché le relazioni sono importanti sin
dalle primissime fasi dello sviluppo? Perché rappresentano un motore di sviluppo:
• Cognitivo e del linguaggio;
• Motorio;
• Sociale;
• Promuovono uno stato di benessere fondamentali per innescare lo sviluppo comunicativo e linguistico
stando in interazione con gli altri. Questo determina:
- “l’esplosione del vocabolario”, amplio il mio vocabolario;
- costruisco periodi morfosintatticamente sempre più complessi,
- divento capace di decontestualizzare;
- sviluppo un pensiero rappresentativo.
Stando con gli altri il bambino abbandona gradualmente la prospettiva egocentrica, autoreferenziale e sviluppa
un comportamento pro-sociale, empatico, di apertura all’altro, l’assunzione dell’altrui punto di vista.
Es. Pensiamo ad un bambino isolato che sta solamente con se stesso, con adulti significativi che gravitano
intorno a lui, è un bambino autoreferenziale, che non si confronta con gli altri, non può assumere il punto di
vista dell’altro (non prendo il tuo giocattolo perché potresti rimanerci male).
Attraverso gli altri, apprendo le mie emozioni (regolazione delle emozioni).
➢ ETA’ SCOLARE
Nell’età scolare vi è il passaggio alla scolarità, l’impatto con l’istruzione formalizzata.
Le relazioni che sperimenta con gli adulti diventano ancora più verticistiche, aumenta il repertorio orizzontali
e a poco a poco qui il bambino inizia a selezionare ancora di più i pari o per complementarietà o per affinità.
In questa fase:
• Le relazioni amicali diventano più strutturate;
• lo sviluppo morale si sviluppa in forma embrionale a partire dall’ingresso della scuola primaria perché
sviluppo morale significa sviluppare la percezione di ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, ciò che ci
può recare male o ciò che ci può portare del bene.
Per sviluppare la moralità, l’empatia, devo aver già sviluppato la regolazione delle emozioni e
assunzione dell’altro punto di vista.
• Autostima: è in questa fase che il bambino inizia a sviluppare l’autostima, l’autoefficacia, la
percezione positiva della propria capacità di riuscita.
L’amicizia in età scolare. L’amicizia in età scolare, diventa ancora più strutturata e le relazioni diventano più
intense, durevoli e frequenti perché nel passaggio da scuola dell’infanzia a scuola primaria il bambino chiede
di stare con determinati compagni anche nell’extra scuola.
È in questo periodo della vita che il bambino inizia ad entrare in microcosmi quale il dopo-scuola, l’attività
sportiva, il catechismo; incomincia ad uscire dal microcosmo ovattato, dalla comfort zone, per approdare in
contesti diversi composti da altri contesti evolutivi con il quale entrerà in contatto.
Aumentano sempre più le relazioni che il bambino sperimenta e queste sono fondamentali per la strutturazione
del sé; il bambino in queste fasi inizia a ricevere in maniera massiccia i riflessi, le immagini speculari che
vengono dagli altri e sfruttano il sé.
➢ PREADOLESCENZA E ADOLESCENZA
Quando si parla di pre-adolescenza e adolescenza si fa ancor più complesso il problema delle fasce di età,
perché, come aveva detto Erikson, sono le fasce ancora più soggette a cambiamenti e mutazioni sociale.
Prima si parlava di adolescenza a partire dai 15-16 anni poi 14, 12, ora la preadolescenza è a partire dai 10
anni e adolescenza piena dai 12 anni, proprio per effetto dei mutamenti sociali.
Non è semplicemente una dimensione relazionale ma è una dimensione affettiva, cognitiva, linguistica e fisica,
più che fisica è puberale perché la pre adolescenza si colloca a partire dai 10 anni soprattutto nelle ragazzine
perché a quest’età hanno il menarca, sviluppo puberale; mentre lo scatto di crescita i maschi l’hanno a partire
dai 16 anni fino ad oggi.
Cosa significa sviluppo puberale? Che una bambina improvvisamente diventa ragazza con un’immagine
corporea diversa; tutto ciò si riflette sull’immagine del sé anche sullo sviluppo cognitivo perché si percepisce
e si vede in maniera diversa. In questa fase si assiste:
• Ad un periodo di transizione;
• Allo sviluppo puberale connesso alla percezione corporea;
• Sviluppo stadiale dell’identità personale secondo Erikson
Es.Un compito evolutivo può essere lo “svincolo”; a 18-20 anni molti si trasferiscono Palermo per studiare
psicologia, quindi il ciclo di vita individuale si intreccia con un ciclo di vita familiare perché lo svincolo deve
essere elaborato dal sistema familiare; la famiglia si trova ad affrontare un nuovo compito evolutivo che è la
fuoriuscita del figlio.
La scelta individuale ha delle ripercussioni sul ciclo familiare che deve riadattarsi ad una nuova dinamica
familiare, elaborare questo svincolo.
IL LINGUAGGIO
Una delle dimensioni più affascinanti dello sviluppo è il linguaggio.
Specie umana VS specie animale. Il linguaggio è una delle dimensioni che più ci caratterizza in quanto solo
la specie umana è in grado di parlare mentre le altre specie sono in grado di comunicare, ma non di parlare
dato che non sono capaci di utilizzare un codice verbale. Il linguaggio è strettamente correlato a tutte le
dimensioni dello sviluppo, come è stato detto in precedenza; tutte le dimensioni sono intersecate
sinergicamente ma, in particolare, il linguaggio si correla fortemente al pensiero.
La comunicazione è fondamentale tanto che vi è un settore della psicologia dello sviluppo chiamato
“psicologia della comunicazione”, comunicazione prettamente non verbale, che riguarda gli aspetti
pragmatici.
Watzlawick. Watzlawick è il capostipite di questo filone di studi e, con la scuola di Capo Alto, ha riassunto
tutto il suo modello sulla comunicazione non verbale in un testo, ormai datato, ma sempre attuale, che si
intitola proprio “La pragmatica della comunicazione”, ponendo l’attenzione su tutti gli aspetti pragmatici
non verbali, che sono di fondamentale importanza nella comunicazione.
1°assioma: il primo assioma di cui ha parlato Watzlawick è “non si può non comunicare’”: noi possiamo
non parlare ma non possiamo non comunicare; anche il nostro silenzio spesso è più eloquente di tantissime
parole. Tutto è comunicazione: il nostro modo di porci, il nostro modo di gesticolare. I gesti per i bambini
sono di estrema importanza; vi sono gesti deittici, gesti indicativi, gesti referenziali, gesti che
accompagnano e rinforzano il nostro eloquio verbale. Basti pensare a quando parliamo di “ciclo di vita”:
accompagno il mio verbale con un gesto che raffigura il ciclo di vita (gesto che indica un ciclo). Insomma,
i gesti sono come se fossero la ‘’punteggiatura’’ del verbale.
Altri segnali sono la prossemica, la vicinanza. Basti pensare ad un colloquio dove noi eliminiamo il verbale,
basta osservare la prossemica, la vicinanza tra i diversi membri di un sistema familiare. L’apertura, la chiusura
sono date anche dal nostro modo di porci, dal nostro comportamento, dall’equilibrio.
Un’altra parentesi va riservata alla mimica facciale. Quali segnali, quali espressioni del volto caratterizzano
la mimica facciale? Il sorriso, lo sguardo, gli occhi, il modo in cui muoviamo le sopracciglia. Tutto il corpo
comunica. Basti pensare all’irrigidimento posturale o ai tratti del volto che si irrigidiscono ed esprimono uno
stato di tensione, oppure il movimento del naso. Anche i tic involontari indicano uno stato di tensione.
Esprimono una comunicazione anche le gambe che si accavallano, toccare i propri capelli, la respirazione. Si
tratta di elementi fortemente correlati fra loro.
Tutto ciò è fondamentale, bisogna prendere in considerazione tutto.
Va ricordato che la psicologia è la scienza del comportamento, anche il modo in cui ci presentiamo è
comportamento, perché esprime un significato.
Es. Durante un contesto in cui era presente una commissione di esami, era un periodo estivo, ad un certo punto
si presenta una ragazza che doveva sostenere un esame. Quest’ultima si presenta all’esame con una canottiera
a fascia larga ed era ben chiaro ed evidente il laccio del bikini colorato sotto la canottiera. La presidente di
commissione, anziana, appena arrivato il turno della ragazza, le ha detto chiaramente che la Psicologia
Generale insegna il comportamento e che il ‘’significato’’ trasmesso da lei era quello di voler sbrigarsi per
andare al mare il prima possibile. Inoltre, ha detto alla ragazza che il suo compito, da docente, è quello di
formare tante ragazze/i come lei a diventare bravi psicologi. L’ha esortata a tornare a casa e di ripresentarsi
davanti la Commissione in maniera consona. È stata eccessiva o aveva ragione la professoressa? Di fatto, oggi
una docente non può più dire delle cose di questo tipo, ma fondamentalmente il discorso fatto dalla
professoressa segue un filo logico. Il fatto che oggi una professoressa non può permettersi di comportarsi così
di fatto è stato un passo indietro non in avanti.
Tutto esprime un significato. Tutto è comunicazione.
Sicuramente la prima cosa da fare quando si osserva un bambino piccolo, quando ancora non parla, è il suo
comportamento non verbale.
Quindi, il linguaggio è:
▪ la caratteristica che più è propria della specie umana
▪ è una caratteristica correlata alla dimensione cognitiva, pensiero e linguaggio sono correlati. Diciamo ciò
che pensiamo, c’è una pianificazione. Il linguaggio, infatti è un indicatore cognitivo come ci insegnerà
Piaget.
Disabilità intellettiva. Il linguaggio, nella disabilità intellettiva, si presenta secondo un determinato pattern,
modello; si sviluppa in una maniera atipica. Possiamo avere il sospetto di una disabilità intellettiva, senza aver
fatto alcuna valutazione, test, prove, senza aver fatto prove genetiche (ci sono disabilità che hanno una base
genetica), ma già il linguaggio mi dirà molto, è il campanello d’allarme.
Possiamo dedurre, quindi, che il linguaggio è:
▪ un indicatore cognitivo
▪ strettamente correlato alla dimensione sociale. Noi siamo sistemi evolutivi; il sistema evolutivo è per
definizione sociale, proprio perché abbiamo adottato una visione interazionistica. Noi sviluppiamo il
nostro Se’, la nostra identità, nell’interazione con gli altri. Questa interazione è sia verbale che non
verbale.
Cosa significa comunicare? Da una parte c’è un trasmettitore, dall’altra un ricevente (l’interlocutore). In
mezzo c’è un messaggio che viene trasmesso, veicolato, attraverso diversi canali che possono essere verbali e
non verbali.
Tra trasmettitore e interlocutore passa un messaggio, attraverso diversi canali (grafico, verbale, non verbale,
sensoriale). L’interlocutore non è un recettore passivo ma attivo, opera in maniera finalizzata, invia un
feedback (che può essere verbale o non verbale) che chiaramente attiva la circolarità della comunicazione. In
funzione di questa risposta è normale che il feedback cambierà.
La comunicazione è un processo circolare e ha una forte dimensione sociale.
Linguaggio e creatività. La caratteristica per eccellenza del linguaggio è la creatività, ovvero la capacità
generativa. Se il linguaggio è così strettamente correlato alla dimensione sociale, è la dimensione che più di
altre risente delle pressioni, modifiche sociali, contestuali.
Un bambino che 10 anni fa aveva 5 anni non conosceva termini come “chattare”, “messaggiare”, “zoommare”
oggi si, e questo è dovuto ai mutamenti sociali.
Se pensiamo allo sviluppo percettivo o motorio, sicuramente sono dimensioni strettamente correlate tra loro
che si evolvono nel tempo ma, mentre un bambino di 3 anni 10 anni fa camminava nella stessa maniera del
bambino di 3 anni di oggi non può dirsi lo stesso della dimensione linguistica.
Percezione, memoria, motricità, tutto ciò che attiene allo sviluppo posturale, motorio non risente così tanto
delle modifiche sociali come il linguaggio.
Il linguaggio è “carta assorbente” di tutte le pressioni e modifiche sociali, più di tutte le altre dimensioni.
Il linguaggio, quindi è caratterizzato da creatività per questa capacità generativa (continue espressioni
linguistiche). Ciò significa che dato un numero potenzialmente finito di vocaboli, noi siamo in grado di
produrre un numero potenzialmente infinito di espressioni linguistiche. Questa è creatività.
Es. Il bambino non dirà mai a 10 mesi frasi del tipo “mamma per piacere mi sbucci la mela per merenda?”. Il
bambino dirà sicuramente “mamma mela” oppure “mamma pappa”. Eppure, tutti i bambini producono anche
delle espressioni olofrastiche proprie. Ad esempio, un bambino in uno stato di benessere può dire “MAPA”
come fusione fra le parole “mamma” e “papà.”).
Una parola olofrastica innovativa (neologismo) non ha significato per tutti, ma in questo caso ha un significato
per il bambino che l’ha prodotta. C’è una stretta relazione fra pensiero e linguaggio perché noi diciamo le cose
che pensiamo, c’è un processo di pianificazione mentale.
Vygotskij VS Piaget. La diatriba fra Vygotskij, psicologo contestualista, sovietico, marxista, populista, e
Piaget, cognitivista, costruttivista, psicologia Europea, ha animato un dibattito vivace ed interessante.
Cosa si è sviluppato prima, pensiero o linguaggio? Si è trovata una soluzione che fa confluire entrambe le
prospettive ma sicuramente si mantiene una stretta relazione fra queste. Aveva ragione Piaget nel dire che il
linguaggio sia fortemente dipendente dal pensiero, ma pecca quando non considera l’importanza del contesto
tendendo ad avere una prospettiva universale, sequenziale.
Produzione e comprensione. Una distinzione critica, fondamentale che bisogna operare per addentrarci
nell’ambito della psicolinguistica è quella tra produzione e comprensione. Quando parliamo di linguaggio non
dobbiamo esclusivamente pensare all’atto articolatorio del parlare ma anche alla comprensione. Ricordiamo
che essendoci un trasmettitore, un messaggio e un interlocutore, c’è inevitabilmente chi parla e chi comprende.
Il feedback viene rinviato all’interlocutore e quindi si crea una circolarità di messaggi. Non è solamente il
parlare ma è il comprendere.
Gli psicologi dello sviluppo intendono questi termini come:
→vocabolario attivo, tutto ciò che il bambino è in grado di produrre
→vocabolario passivo, tutto ciò che il bambino è in grado di comprendere.
Il vocabolario passivo si sviluppa molto prima ed è molto più precoce, è più ampio del vocabolario attivo (ciò
che è in grado di dire).
Il bambino è dotato di capacità comprensive enormi. Basti pensare che un bambino di 4 anni con uno sviluppo
tipico, senza disabilità, adeguatamente stimolato, scolarizzato, è padrone di un vocabolario di circa 5000
vocaboli. Si tratta però di un vocabolario passivo; il potenziale passivo linguistico del bambino è enorme,
estremamente dilatato. Essendo un potenziale però, dipende da quanto viene stimolato. È per questo motivo
che i professionisti devono ricordare agli insegnanti, ai genitori dei bambini di rivolgersi in maniera adeguata.
Come ci hanno insegnato i comportamenti, il linguaggio si apprende per imitazione. Il bambino deve essere
bombardato di suoni diversificati e di espressioni linguistiche elaborate, non devo pretendere che le sappia
riprodurre, ma il bambino le comprenderà. Il bambino arriva ai “5000” vocaboli se adeguatamente stimolato.
La maggior parte dei bambini per prima producono la parola “mamma” perché vengono bombardati da questo
suono e ad un certo punto, per imitazione, lo riproducono.
Variabilità del linguaggio. Il linguaggio oltre alla creatività e all’essere specie specifico ha un’altra grande
caratteristica che lo contraddistingue dalle altre dimensioni dello sviluppo: la variabilità. Nello sviluppo del
linguaggio noi indagheremo alcune fasi tipiche dell’acquisizione linguistica: babying ,culking, balbettio, olo-
frase, esplosione del vocabolario, tenendo conto di alcuni range temporali che sono ampi da 3 a 9 mesi, da 9 a
18 mesi. Nella pratica ancor più che per tutte le altre dimensioni dello sviluppo questi range risulteranno elastici
perché i profili linguistici sono fortemente individualizzati.
Chomsky e il LAD. Il bambino apprende a parlare per imitazione ma come ci hanno insegnato innatisti come
Chomsky con la linguistica generativa, c’è anche un dispositivo innato, una predisposizione geneticamente
determinata ad apprendere il linguaggio. Chomsky parlava di una grammatica generativa e ha introdotto un
costrutto fondamentale che è il LAD (language acquisition device), un dispositivo innato per l’acquisizione
del linguaggio, quindi una posizione innatista.
Dall’altra parte vi erano i comportamentisti, i quali sostenevano che il linguaggio veniva appreso, così come
tutti gli altri comportamenti, attraverso l’imitazione.
Bruner e il LAS. Un punto di confluenza lo troviamo in Bruner che parla di un LAS, un dispositivo che ci
predispone all’acquisizione del linguaggio che è condizionato dal contesto, dal grado di stimolazione ambien-
tale. È una posizione che tende a coniugare, a mediare lo stretto innatismo con il comportamentismo puro; c’è
una predisposizione ma è mediata, influenzata dal grado di stimolazione che mi proviene dall’ambiente circo-
stante.
Fasi del linguaggio. Un interessante modo di parlare del linguaggio è quello di suddividerlo in diverse fasi:
1. Preverbale che non è linguistica ma è comunque comunicativa perché anche il neonato comunica; è
una fase importantissima per lo sviluppo del linguaggio ma non è verbale, è di tipo comunicativo.
Il bambino comunica attraverso dei segnali, i quali svolgono una funzione adattiva e finalizzata: quella adat-
tiva gli consente di adattarsi all’ambiente esterno, quella finalizzata gli consente di sopravvivere perché il
bambino piange per essere allattato, piange se sta male.
Quali segnali utilizza il bambino per comunicare i propri bisogni primari?
• Il pianto e Renèe Spitz ha indentificato diversi tipi di pianto: pianto di stizza, pianto di fame, pianto di
dolore;
• il sorriso: sorriso endogeno che esprime uno stato di piacere, di benessere interiore e sorriso esogeno che
è un sorriso sociale;
• lo sguardo: Fanz ha dimostrato che il bambino, il neonato già possiede una preferenza selettiva per deter-
minati stimoli rispetto ad altri, infatti fissava per tempi più lunghi una figura tonda, rossa e in movimento
rispetto ad una figura statica.
Questi segnali sono fondamentali perché trasmettono un messaggio non verbale che attiva una circolarità di
messaggi, di informazioni continue che a loro volta attivano feedback.
Questa primissima fase dello sviluppo è una fase comunicativa ma non verbale.
Nonostante la prospettiva di Piaget avesse il limite dell’universalismo, in fondo, un po' di verità c’è: il bambino
in questa fase comunica attraverso segnali che sono universali (il pianto del bambino inglese è uguale al
pianto del bambino italiano). Si tratta di segnali vegetativi che esprimono comunicazione.
Universale è anche il riconoscimento di questi segnali: il caregiver attribuisce lo stesso significato indipen-
dentemente dal contesto.
Es. prendiamo in esempio due bambini che vivono in due contesti completamente diversi: Mowgli vive nella
giungla e Ingrid vive a Stoccolma. Loro hanno la stessa età cronologica, stessa età mentale, ma due contesti
totalmente diversi. In una prima fase lo sviluppo procederà in maniera uguale, universale, però a poco a poco
incominciano a riconoscere i suoni che fanno parte del contesto linguistico in cui sono immersi, quindi Mowgli
incomincerà a riconoscere i suoni, quali il rumore delle mandrie che si avvicinano, il rumore delle foglie, il
rumore di qualche belva feroce che si sta avvicinando o il ruggito di un leone; Ingrid selezionerà suoni diversi,
verrà sommersa da flussi di suoni diversi.
Le tappe di acquisizione sono le stesse indipendentemente dal contesto; ciò che differenzia sviluppo tipico e
atipico è un rallentamento, in altri termini, il bambino con una disabilità intellettiva segue le stesse tappe
nell’acquisizione del linguaggio ma è più lento.
Dunque, il bambino riconosce questi suoni e si perfeziona nella loro produzione; a poco a poco la correttezza
grammaticale, la lunghezza della frase, l’ampiezza del vocabolario, la costruzione morfosintattica della frase,
si svilupperanno sempre più sino a quando il bambino diventerà padrone di un vocabolario passivo di cerca
5000 vocaboli.
Parlare e comprendere. Sia il parlare che il comprendere sono dei processi estremamente complessi; la pro-
duzione è correlata alla cognizione, ma prima si sviluppa la comprensione.
Comprensione: quando si ascolta, il nostro sistema uditivo viene bombardato da una serie di suoni a cui dob-
biamo dare significato. Mentre segmentiamo e riconosciamo parole attribuiamo una semantica, un significato,
costruendo una morfosintassi e tenendo sempre in considerazione la pragmatica, cioè il contesto. Compren-
dere significa riconoscere i significati, assembrarli e riconoscerne uno univoco.
Parlare: quando parliamo pianifichiamo il messaggio che vogliamo trasmettere e contemporaneamente pre-
pariamo l’apparato respiratorio, in maniera funzionale a quello che abbiamo pianificato.
Quinta lezione
23/03/2021
Il linguaggio non è solo semplicemente l’atto del parlare, è anche comprensione, in quanto
avviene tra un mittente e un interlocutore che devono comprendersi reciprocamente per
comunicare: l’emittente invia un messaggio attraverso uno specifico canale di trasmissione,
non obbligatoriamente verbale, ma anche fonologico o visivo.
Il messaggio del mittente arriva all’interlocutore, il quale, a sua volta, lo deve decodificare e
comprendere; fatto ciò invia, sulla base di questa operazione di decodifica, quindi di
costruzione di significato, un messaggio al mittente.
Quindi tra il mittente e il ricevente si viene a creare uno scambio circolare, un flusso
continuo di messaggi.
Di conseguenza, oltre al parlare, bisogna considerare la comprensione, la codifica,
l’attribuzione di un significato a quel messaggio.
ESEMPIO: il bambino sente la parola “treno’’, che è un suono più complesso a livello
articolatorio perché presuppone determinati movimenti della lingua, infatti inizialmente avrà
delle difficoltà nella pronuncia; dunque comincerà a ripetere la parola fino a perfezionarsi
nella produzione di quel suono, finché non lo riprodurrà perfettamente.
Quindi la ripetizione non è un balbettio, ma un meccanismo di auto-rinforzo che consente la
produzione corretta del suono, può essere sia sonoro che silente.
per quanto riguarda il registro passivo, questo ha un potenziale enorme, già a cinque anni il
bambino è padrone (bambino con sviluppo tipico e adeguatamente stimolato) di un
vocabolario immenso, costituito da circa cinquemila vocaboli. Con registro passivo si intende
ciò che il bambino è in grado di decontestualizzare, quindi riconosce comunque il significato
di una parola decontestualizzandola da quella stringa di parole, da quella frase.
ESEMPIO: se si chiede al bambino cosa sia il gladiolo dopo avere nominato margherite,
rose, tulipani, egli risponderà che si tratta di un fiore; il che vuol dire che ne ha riconosciuto
il significato perché lo ha inserito in un insieme semantico.
I bambini piccoli, in particolare i neonati, non riconoscono il significato delle parole, tuttavia
sono particolarmente sensibili e attenti ai toni: i bambini riconoscono gli aspetti prosodici, i
toni della voce.
Una serie di ricerche ha dimostrato che se si utilizzano toni più duri e severi, toni alti e acuti,
il bambino si irrigidisce a livello posturale. Il riconoscimento dei toni è universale.
Vocabolario attivo e passivo, pur seguendo dei tempi diversi, sottendono delle sotto-abilità
complesse. Non ci si limita a comprendere, non si tratta di un atto semplice e unitario, ma
di una serie di sotto-abilità.
Ancor più complesso è l’atto del parlare, cioè il vocabolario attivo. Questo sottende una
serie di sotto-abilità e di sotto-processi di tipo cognitivo, mentale, in quanto riguardano
la pianificazione.
L’atto del parlare, infatti, è solamente l’atto finale e articolatorio.
In virtù dello strettissimo legame già stato sostenuto da Piaget, tra cognizione e
linguaggio, prima si deve pensare, pianificare tutto quello che si vuole dire in intervalli
temporali brevissimi, e inoltre preparare l’apparato oro-bucco-respiratorio.
NB: ci sono bambini che saltano tutte le fasi, poi hanno l’esplosione del vocabolario, altri
che invece seguono in maniera precisa, quasi ossessiva, i vari step e poi, invece, si
bloccano, e risultano essere bambini con un disturbo specifico del linguaggio.
COS’E’ IL LINGUAGGIO?
Il linguaggio è una forma di comunicazione (trasmissione di messaggi), la cui acquisizione
è legata all’emergere del desiderio di interagire, in presenza di un apparato neurologico
e bucco-fonatorio-respiratorio anatomicamente e funzionalmente abile, e di
uno sviluppo emotivo e cognitivo adeguato.
Per comunicare è vitale utilizzare uno stesso codice, ovvero la grammatica, che serve per
rappresentare (sviluppo cognitivo/affettivo) e comunicare le idee (sviluppo razionale)
attraverso un sistema arbitrario di simboli e regole utilizzato per trasmettere un significato.
Sviluppo del linguaggio tipico, quindi, vuol dire sviluppo del linguaggio in un bambino che
non presenta danni neurologici, che non ha disabilità intellettiva, che non ha turbe emotive
(ad esempio la balbuzie o il mutismo selettivo che può avere origine da un trauma), e che non
ha difficoltà a livello respiratorio e che presenta un apparato bucco-fonatorio perfettamente
integro, perché un disturbo del linguaggio potrebbe essere imputato ad una compromissione
a ciascuna di queste dimensioni.
Non ci deve essere nemmeno un danneggiamento/compromissione sensoriale, che riguardi
soprattutto l’apparato uditivo, perché se il linguaggio, come hanno insegnato i
comportamentisti, si apprende per imitazione, se si ha una sordità o un’ipoacusia o un
residuo acustico, non si può sentire correttamente, di conseguenza non è possibile sentire i
suoni e riprodurli.
Infatti, si dice che (dipende dal grado di compromissione) il soggetto con una disabilità
uditiva, paradossalmente, sia più compromesso rispetto ai soggetti con una disabilità di tipo
visivo. Questo perché una disabilità uditiva va ad intaccare anche il linguaggio, infatti spesso
si parla di sordo mutismo.
A partire dai tre mesi in poi è chiaro che il bambino riconosca sempre più questi flussi di
suoni da cui viene bombardato, e riconosca in particolare i suoni che fanno parte del
proprio sistema-lingua e li riproduca.
A partire dai nove mesi il bambino incomincia a manifestare linguaggio olofrastico, cioè
la creazione di parole nuove, di espressioni linguistiche nuove che non fanno parte del
sistema-lingua ma che esprimono comunque un significato.
Intorno ai trenta mesi, quindi prima dei tre anni, il bambino dall’olofrase passa alla
produzione di espressioni linguistiche più complesse, da “mamma mela” a “mamma
voglio mela’’ a ‘’mamma prepara mela’’ e poi, a poco a poco, l’espressione linguistica
si fa sempre più complessa dal punto di vista sintattico, grammaticale, semantico, quindi
la morfosintassi e la ricchezza del lessico diventano sempre più ampie, ovviamente solo
se ben stimolate.
Solitamente gli studiosi suddividono le diverse tappe dello sviluppo linguistico, sebbene
queste non vadano intese come stadi, rigidi e universali, uguali per tutti. Si tratta, piuttosto,
di periodi, intervalli temporali estremamente ampi e flessibili.
Il periodo preverbale consiste con il periodo del baby talking, tra 0 e 12 mesi; il periodo
olofrastico, tra 13-20 mesi (anche se il bambino in questa fase non pronuncia bene le
parole è importante perché fa capire all’adulto che segnali che comprende, quindi che
sente correttamente, ad esempio, che c’è un buon vocabolario passivo, che c’è
un’intenzione comunicativa ecc.
Il periodo della frase inizia intorno ai 24-30 mesi (costruzione della frase, correttezza,
lunghezza, morfosintassi, lessico si ampliano sempre di più proprio a partire dai due anni).
ERRORI TIPICI DEL BAMBINO NELLE PRIME FASI DELLO SVILUPPO LESSICALE
Gli errori che vengono commessi frequentemente dal bambino sono errori funzionali, cioè
errori che fanno parte di uno sviluppo linguistico funzionale.
- Negli errori di sovraestensione il bambino tende ad inserire all’interno di una stessa
categoria tutti gli elementi che presentano una caratteristica in comune.
- Negli errori di sottoestensione il bambino chiama ‘’bambola’’ esclusivamente la sua
bambola preferita, non inserisce ancora quegli attributi in grado di distinguere quella
bambola dalle altre.
- Negli errori di sovrapposizione: il bambino usa ‘’aprire’’ per riferirsi non soltanto
all’azione di aprire una porta, ma anche all’azione di accendere la luce.
Esistono altri tipi di errori i cosiddetti ipercorrettismi, ovvero l’applicazione della regola a
tutte le eccezioni.
❖ PERIODO TELEGRAFICO
Categorie comuni di significato (relazioni semantiche) espresse nelle prime frasi infantili.
Non tutte le altre lingue sono trasparenti, ad esempio il greco non si pronuncia per come viene
scritto, così come l’inglese.
Tra 28 e 38 mesi ci sono solo 10 mesi di differenza, eppure, dal punto di vista linguistico, vi
è una grande variabilità.
La differenza tra ritardo o difficoltà linguistica e disturbo risiede nel grado di reversibilità:
il ritardo, il rallentamento, la difficoltà nel linguaggio è transitoria e reversibile, può essere
tranquillamente recuperata; il disturbo, invece, presenta un profilo ben diverso.
Guardando le differenze che ci sono fra 28 mesi, 35 mesi e 38 mesi: a 28 mesi già c’è un
linguaggio telegrafico, non è più la singola parola, l’olofrase.
COME AIUTARE IL BAMBINO A PARLARE?
Il potenziale del bambino, che sia passivo o attivo, è già di per sé notevole, dunque deve essere
potenziato. Si potenzia attraverso il ‘’madernese’’, il linguaggio tipico dell’adulto.
Oltre al baby talk o il madernese, è possibile adottare due altre due strategie per potenziare il
linguaggio del bambino: espansione e correzione.
ESEMPIO: bambini secondo-terzo geniti sono molto più stimolati nella produzione
linguistica.
Esempio: per avere informazioni sul grado di stimolazione che il bambino riceve e sul grado
di scolarità dei genitori, si potrebbe chiedere se si hanno tanti libri a casa o se al bambino
piaccia leggere; la risposta potrebbe essere utilizzata come indicatore di livello culturale.
Tutti gli indicatori, i predittori di rischio delle difficoltà dell'apprendimento scolastico sono
di tipo linguistico.
A partire dai due anni, invece, esistono una serie di strumenti che possono essere rivolti
direttamente al bambino e che sono di fondamentale importanza, perché danno un'idea del
profilo linguistico e di quello che sarà l'impatto del bambino come l'abilità scolastica; infatti,
se un bambino ha grandi difficoltà e compromissioni linguistiche, con un'alta probabilità
andrà in contro a difficoltà scolastiche (non è certo ma è probabile).
Piaget aveva parlato dello stretto rapporto tra pensiero e linguaggio, considerandolo un
indicatore cognitivo.
LA COMUNICAZIONE REFERENZIALE
Si tratta di un test fatto da Camaioni, Ercolani e Lloyd.
Esso non riguarda solo la comunicazione, quindi la trasmissione di un linguaggio, ma mostra
come nella comunicazione intervengano tutte le altre dimensioni, in particolare attenzione,
memoria e concentrazione (tutte abilità sottese all'apprendimento).
I bambini prima dei 4 anni non sono così abili nel produrre dei messaggi informativi, essendo
in una fase di egocentrismo cognitivo che si riflette sul linguaggio.
All'inizio il bambino è più autocentrato, quindi produce un messaggio più rivolto a se stesso.
Se può essere somministrato con lo sviluppo tipico al di sopra dei 5 anni, può essere
somministrato anche con lo sviluppo atipico, e questo tipo di prove risulta interessante per
lo sviluppo atipico stesso per la sua semplicità: in esso, infatti, bisogna solo osservare, essendo
composto da immagini; riesce facilmente, dunque, a catturare l’attenzione di un bambino con
disabilità intellettiva.
La prova valuta sia la capacità di produzione del bambino (produrre messaggi informativi,
ovvero messaggi contrastivi) sia la comprensione.
Quindi valuta sia il registro attivo che quello passivo, ovvero la capacità del bambino di
produrre un'espressione referenzialmente orientata ma anche la sua capacità di comprensione,
sia di messaggi adeguati che messaggi ambigui (valutati dalle domande che vengono poste
dal bambino). Bisogna considerare il bambino sia nella funzione parlante che in quella di
ascoltatore.
Questo test può essere utilizzato solo dagli psicologi, non dagli insegnanti, in quanto è un
indicatore cognitivo.
ESEMPIO: viene chiesto al bambino cosa significhi darsi delle arie. Il bambino con sviluppo
atipico sceglieva l’immagine di una donna con il ventaglio, che si sventolava per avere più
aria, il bambino con sviluppo, tipico, invece, si avvicinava maggiormente alla definizione
corretta.
Queste prove vengono utilizzate anche ai bambini con sviluppo atipico, quindi con disabilità
intellettiva, come gruppo di controllo, invece, vi sono soggetti con sviluppo tipico.
LA VARIABILITÀ
La prova di comprensione viene utilizzata proprio perché rilassa il bambino, tende ad alleviare
la pressione valutativa, ma vive la prova con un gioco.
Nella variabilità vi è un minimo e un massimo e la media.
I bambini ad oggi, secondo alcuni, sono meno stimolati, questo soprattutto per l’avvento del
telefono e di altri apparecchi elettronici, che non sviluppano la dimensione linguistica.
Quindi i gesti indicativi, preformativi, deittici sono fondamentali nello sviluppo linguistico.
La differenza è notevole, in ascissa vengono riportati i tempi, i mesi. Nello sviluppo tipico vi
è un’enorme differenza.
Questa forbice, però, si differenzia tra sviluppo tipico e atipico.
LEZIONE 26-03-2021.
La balbuzie. Oltre alla componente articolatoria o organica, vi è anche una componente di natura psicogena, ad
esempio nelle balbuzie. Ricordiamo a tal proposito, che nelle primissime fasi di acquisizione del linguaggio, il
bambino piccolo balbetta, ma ciò è assolutamente fisiologico, perchè ripete i suoni, e deve perfezionare la loro
produzione in quanto li riconosce come facenti parte il proprio sistema lingua. Si tratta di una reiterazione, una
ripetizione a se stesso, una sorta di auto-rinforzo di natura subvocalica. Vi sono due tipi di balbuzie che
presuppongono degli interventi diversi:
Le sindromi genetiche. Un ambito particolarmente affascinante è quello del linguaggio nella disabilità
intellettiva, che si concentra sulle sindromi genetiche. L'ambito delle malattie genetiche è una sorta di vaso di
pandora in continua ebollizione, perchè è sufficiente una minima delezione di una gambetta, di una X, di una Y,
di una specifica coppia di cromosomi per alterare completamente il patter cognitivo-comportamentale di un
soggetto. Tra le sindromi genetiche, troviamo quelle rare e quelle non altrimenti specificate. La ricerca è
semplicemente all'inizio, non ci sono sufficienti casi da poter fare una buona sperimentazione, quindi si parla di
disturbi, ma non sono altrimenti specificati. Vi è una casistica talmente esigua e minima di casi, che è difficile
capire quando si presenta un determinato profilo cognitivo e comportamentale.
Ricorda…La famosa forbice, comprensione e produzione→ Teniamo a mente il classico diagramma, ordinata
e ascissa:
Lo sviluppo tipico procede in questa maniera, tenendo conto di intervalli temporali molto flessibili ed elastici.
Questa forbice invece si differenzia in diverse disabilità intellettive.
LA SINDROME DI DOWN. Oggi quando si parla di disabilità intellettiva o ritardo mentale con base genetica
si fa subito riferimento alla sindrome di Down, in quanto tra le disabilità intellettive con base genetica è quella
più nota. Oggi peraltro può essere diagnosticata molto precocemente prima della nascita; mentre altre disabilità
possono essere diagnosticate solo dopo, attraverso degli screening specifici genetici. Il soggetto con sindrome
Down presenta svariate caratteristiche.
➢ Da un punto di vista neurofisiologico presenta una densità di spine dendritiche minori rispetto ad una
persona che non presenta la sindrome di Down.
➢ Ha un cromosoma in più
➢ Tratti somatici particolari, tra questi:
o L’epicanto, volgarmente detto “occhio a mandorla”, ma in realtà è un ripiegamento della
palpebra superiore.
o Brachicefalo;
o Mani tozze e piccole, falangi corte;
o Palmo diverso, per cui il bambino con sindrome Down non afferra la palla, ma la trattiene poiché
è differente la prensione;
o Statura piccola;
➢ Tendenza al diabete (è molto goloso);
➢ Disabilità cognitiva con ritardo nel linguaggio;
➢ Ha capacità viso spaziale inalterate, tuttavia possiede un pensiero propriocettivo, quindi prevalentemente
visivo. Questo significa che ha bisogno di un oggetto concreto, in quanto viene meno il pensiero
rappresentativo, simbolico.
➢ Difetto cardiaco. Prima era difficile individuare dei soggetti con sindrome Down adulti grandi, perché
morivano precocemente, in quanto nella maggior parte dei casi nascono con un difetto cardiaco. Oggi
invece questi soggetti vengono operati piccolissimi, quasi appena nati, quindi è aumentata l’età media.
➢ Il pensiero è di un certo tipo, in quanto la disabilità c’è, ma per effetto della stimolazione può essere
veramente molto potenziato (vi sono ragazzi con sindrome down anche laureati).
➢ Lingua grossa
➢ Denti piccoli
➢ Affettuosità. Questi soggetti sono estremamente socievoli e affettuosi, quindi lavorare con loro è
veramente un privilegio, ma i problemi poi subentrano nel corso dello sviluppo. Durante l’adolescenza il
ragazzo con sindrome nota la differenza tra sè e i soggetti con sviluppo tipico, in particolare in ambito
sessuale. La pulsione sessuale è la stesso dello sviluppo tipico ma è chiaro che mentre il bambino con
sindrome all’inizio vuole fare tutte le cose che fanno gli altri, nell’adolescenza percepisce di non poter
farle esattamente tutte, in quanto per lui non è così facile e va in tilt. Spesso hanno delle crisi in
adolescenza, e possono presentare un declino intellettivo, una demenza precoce.
➢ A volte ha problemi uditivi.
➢ Il colore della pelle molto chiaro, capelli radi e sottili.
Curiosità→I bambini italiani con sindrome Down a parità di età mentale e di età cronologica hanno un migliore
funzionamento adattivo rispetto a quelli di altri paesi di Europa. Questo perché vi è un’assistenza maggiore fin
dalla precoce età, in quanto in Italia, a partire già dagli anni 70, non vi sono più classi speciali e differenziali che
invece ci sono ancora oggi in altri paesi di Europa. Questo significa che a parità di ritardo, quindi di QI , di età
cronologica, i nostri bambini con sindrome hanno un maggiore comportamento adattivo per effetto della classe
inclusiva, del gruppo di pari che agisce da motore di sviluppo.
La tipizzazione fisica. I bambini con sindrome Down (a parere della prof) hanno una sorta di vantaggio che li
può ulteriormente aiutare a livello di stimolazione, di compensazione rispetto ad altre sindromi, cioè una
tipizzazione fisica; hanno dei tratti somatici talmente evidenti che non si può negare la disabilità. In altri casi
invece la tipizzazione fisica non è così evidente, per cui può anche essere negata. Al contrario nei soggetti con
sindrome down questa tipizzazione somatica presuppone una diagnosi e un intervento immediato immediati, in
quanto si comincia a lavorare con loro fin da bambini in modo tale da potenziare tutte le loro capacità fin da subito
senza perdere tempo.
In tutte le sindromi sono presenti delle variabilità, che dipendono dalla natura stessa della sindrome, dal grado di
stimolazione a cui il bambino è sottoposto, dalla tempestività dell’intervento perché la tempestività si traduce in
immediata attivazione di tutte le strutture di supporto e di una serie di operatori che possono potenziare al massimo
le capacità del bambino.
Le cause della sindrome Down. La causa principale di questa sindrome è di base genetica, in quanto si parla
di trisomia del cromosoma 21 (piena, forma a mosaico, forma a traslocazione non bilanciata).
La produzione. Il bambino con sindrome Down ha la caratteristica fondamentale della lingua grossa e tonda,
inoltre ha una tendenza a mettere la lingua verso l’esterno. Questa lingua grossa rende più difficile l’articolazione
e l’emissione corretta di fonemi, perché la produzione corretta dei fonemi è determinata da particolari movimenti
della lingua (la punta della lingua verso il palato e la coordinazione articolatoria di tutti muscoli e dell’apparato
oro bucale). Le dimensioni atipiche della lingua creano ipersalivazione quindi nel bambino c’è l’intenzione di
comunicare, ma non tutti i suoni possono essere emessi correttamente. Bisogna tener conto però che vi sono
bambini con sindrome che hanno enorme difficoltà nella produzione di suoni, altri bambini invece pur avendo in
ogni caso la lingua grossa e tonda, tramite esercizio logopedico massiccio sono riusciti bene a compensare questa
problematica.
I denti piccoli→ I soggetti Down hanno un’altra caratteristica importante che gioca un ruolo nella produzione,
cioè i denti piccoli, un po’ come i classici dentini da latte, con intervalli e spazi. I denti, soprattutto gli incisivi,
fungono da barriera nell’uscita dei suoni, ma i bambini down li hanno corti e molto distanziati, per cui il suono
esce come un fischio. Questo suono di “fischio” è presente anche nei bambini a 4-5 anni con sviluppo tipico, per
cui nel bambino down che ha anche un ipersalivazione è normale che sia molto più evidente.
Il tratto autistico→Tutto questo rende tutto un po’ più complessa la produzione, però nel bambino Down c’è
l’intenzione comunicativa, infatti è un bambino iper socievole, a meno che non ci sia il tratto autistico. Il quadro
più grave è quando la sindrome Down si associa al tratto autistico. Quest’ultimo non fa altro che aggravare e
compromettere quello che di più positivo c’è nella sindrome Down, cioè la socievolezza e la voglia di comunicare.
La produzione quindi è carente ed resa difficile, da tutti questi fattori: lingua grossa, iper salivazione e
dentizione.
La comprensione. Le tappe dello sviluppo del bambino con sindrome Down sono le stesse del bambino con
sviluppo tipico, quindi entrambi affrontano lallazione, babbling (balbuzie), olofrase, linguaggio telegrafico, ma il
primo le affronta in modo molto rallentato con una notevole sfasatura temporale. La comprensione nello sviluppo
tipico è migliore rispetto alla produzione quindi il bambino Down va stimolato il più possibile, perché il suo
passivo è migliore rispetto all’attivo. In adolescenza il vocabolario attivo è paragonabile a quello di un bambino
in età compresa tra i 3 e i 5 anni se adeguatamente stimolato. Il bambino di cinque anni con sviluppo tipico è in
grado perfettamente di verbalizzare i propri pensieri, ma in maniera elementare, senza una costruzione ampissima,
infatti ha un vocabolario piuttosto limitato, tuttavia a prescindere da ciò, è in grado di farsi capire. La comprensione
si sviluppa di pari passo con lo sviluppo cognitivo e con lo sviluppo sociale.
La comunicazione non verbale. La comunicazione non verbale è presente, in quanto la socievolezza nei
bambini con sindrome è un grande punto di forza, tuttavia è un pochino rallentata, ostacolata da una naturale
mollezza del tessuto connettivo; i gesti non sono perfettamente coordinati, ad esempio se si osserva correre il
bambino con sindrome Down è facile accorgersi di una difficoltà nella coordinazione motoria, per cui sirulta
piuttosto impacciato.
LA SINDROME DI PRADER-WILL. Questa sindrome prima era rara, oggi invece è diffusissima in quanto
sono aumentati i numeri di diagnosi, dunque ormai si riconosce con più facilità che un soggetto presenta questa
sindrome.
La Causa. La causa è la delezione del tratto prossimale del braccio lungo del cromosoma 1,5 derivata da mutazione
recente della gametogenesi paterna.
La Comprensione. La produzione in questo caso risulta molto di compromessa più rispetto al soggetto con la
sindrome Down perché mentre quest’ultimo più o meno riesce a farsi capire, il bambino con sindrome Prader-Will
no, quindi anche in questo caso la comprensione è migliore rispetto alla produzione.
La Comunicazione Non Verbale (CNV). La comunicazione non verbale, è ridotta e compromessa dalla
ipotonia.
SINDROME DI ANGELMAN. In questa sindrome I tratti fisici per l’occhio esperto sono molto evidenti, ma
per il profano no.
→ Causa. La causa è la delezione del tratto prossimale del braccio lungo del cromosoma 1,5 di origine
materna o disosmia uniparentale paterna.
→ Produzione. Il linguaggio è praticamente assente, nella maggior parte dei casi il bambino non pronuncia
nessuna parola. Quindi la produzione è praticamente assente
→ Comprensione. La comprensione è compromessa, quindi il vocabolario attivo è inesistente, ma quello
passivo è poco migliore. La comprensione quindi è migliore rispetto alla produzione, ma sempre
danneggiata si presenta.
→ Comunicazione non verbale. L’atassia e i disturbi dell’equilibrio rendono praticamente impossibile
l’attivazione di gesti performativi, deittici, dichiarativi, quindi di tutto ciò che può compensare l’assenza
del verbale.
Il ruolo della famiglia. La famiglia ha un ruolo fondamentale nei bambini con sindrome. Il momento della
comunicazione della diagnosi è importante, perché per i genitori l’accettazione non è facile e si ci arriva dopo vari
step. Nell’immaginario del genitore c'è sempre il bambino perfetto, tuttavia nei casi di bambini con sindrome, la
famiglia vive un processo di elaborazione, per cui alla fine i genitori si innamorano del proprio figlio, e comunque
esso sia, diventa il dono maggiore.
“La cicogna nera”. Luigia Camaioni (romana) è stata una fra gli psicologi principali della psicologia della
disabilità in Italia insieme a Vianello (padovano). Luigia ha coniato un’espressione particolarmente forte ma molto
vera, che in genere non piace, ma che fa riflettere da psicologi. E ci si rende conto di quanto vera sia. La Camaioni
ha definito l'arrivo di un bambino in una situazione di disabilità (qualsiasi essa sia, perché la disabilità non è
necessariamente solo di tipo intellettivo, poiché la disabilità motoria, cioè la disabilità sensoriale), con
l’espressione “Cicogna nera”. Questa denominazione è molto forte, sembra quasi un ossimoro. All’inizio, per un
genitore, scoprire che il proprio figlio è affetto da disabilità è come una doccia fredda, vi è la totale disconferma
delle proprie aspettative. Tuttavia l’espressione cicogna nera cerca di trasmettere l’idea di un arrivo non
favorevole, ma sempre di un arrivo, per cui il genitore va aiutato a scoprire quanto meravigliosa sia quella diversità,
tanto da non vederla più come tale.
Il genitore vive una dunque una sorte di ferita narcisistica, perchè a livello ancestrale “buona madre è la madre
che crea il figlio sano e bello”, perché esso è la propria immagine riflessa. Quindi è una ferita narcisistica che
riguarda non solamente il ciclo di vita individuale, ma un ciclo di vita familiare, di coppia genitoriale. Nell’attesa
di un arrivo diverso, madre e padre, secondo la Camaioni, hanno tempi e modalità diversi.
Esempio→
1. Il bambino nasce con una disabilità di tipo motorio, perché gli manca un braccio, non è né handicap, né
disabile. La disabilità è dovuta alla menomazione di tipo fisico.
2. Gli effetti della menomazione creano le disabilità perché per effetto di quella menomazione non può
giocare a ping pong come vorrebbe, non può giocare a basket, ecc. Quindi sono gli effetti della
menomazione che si trasformano in disabilità, la quale è il non poter fare tutte le cose che fanno gli altri
che non hanno quella menomazione.
3. Gli effetti della disabilità si trasformano in una situazione di handicap e quindi il bambino deve stare
in panchina a guardare i suoi compagni e a fare il tifo per loro che giocano. La situazione iniziale di
disabilità dovuta a una menomazione, è ulteriormente aggravata nella nostra società, dalle cosiddette
situazioni handicappanti: se il bambino è in sedia a rotelle, ma non può andare sull'autobus perché non
c'è lo scivolo, ha difficoltà a camminare perché in città non c'è nessuno che rispetta uno scivolo nei
marciapiedi, non può andare nei negozi o al cinema perché non c'è l'ascensore o la scala mobile, è normale
che la sua vita si complica. Queste sono situazioni handicappanti prettamente architettonico-ambientali,
poi ci sono anche quelle sociali, ma entrambe sono quelle che trasformano una menomazione in un
handicap.
Accenno storico. La disabilità nasce con l'uomo, ma nel corso del tempo è stata vista in maniera diversa.
❖ Nell'antica Grecia, i soggetti “strani”, cioè quelli con disabilità, venivano idolatrati perché si riteneva che
avessero la possibilità di entrare in contatto con le divinità, in quanto durante la crisi epilettiche gli dei
comunicavano loro delle profezie, per cui erano temuti e idolatrati.
❖ A Roma i soggetti con handicap invece venivano uccisi;
❖ Nella Bastiglia, prima della rivoluzione francese, sono stati rinchiusi numerosi soggetti.
❖ Il nostro paese nel rapporto con la disabilità è stato all’avanguardia, infatti grazie alle leggi si sono aboliti
i manicomi, e si è proceduto con l'apertura di strutture educative o altro, poiché abbiamo in Italia la
caratteristica dell'inserimento e dell'inclusione anche della disabilità intellettiva.
❖ Causa. Monosomia 5P, delezione parziale del braccio corto del cromosa 5, dovuta a mutazioni recenti. Il
fenotipo si modifica in base alle dimensioni del frammento.
❖ Produzione. Cri du chat vuol dire miagolio, il pianto del gatto. I soggetti con questa sindrome emettono
dei suoni, circa una cinquantina di parole con una sorta di miagolio. Questa sindrome non presenta tratti
somatici particolarmente evidenti, tuttavia le capacità linguistiche, nel migliore dei casi, non vanno oltre
quelle del bambino di due anni, quindi notevolmente sotto rispetto a quelle del bambino con sindrome
down. In casi più rari, i soggetti hanno la capacità di produrre frasi con quattro o più parole.
❖ Comprensione. È presente una dissociazione tra comprensione preservata e produzione deficitaria, di
conseguenza la comprensione è danneggiata, ma si presenta migliore rispetto alla produzione.
❖ CNV. La comunicazione non verbale è media, ostacolata da ipo o iper tonia.
Quindi sia la produzione che la comprensione sono direttamente proporzionali al grado di compromissione
uditiva.
❖ Causa. Duplicazione eccessiva della sequenza della tripletta CGG, che viene silenziato.
❖ Produzione. E' presente un ritardo nello sviluppo del linguaggio che si mantiene anche in età adulta, anche
se col trascorrere del tempo si ha un notevole rallentamento nella progressione dell'acquisizione delle
abilità. E' possibile riscontrare eloquio disorganizzato, decontestualizzato, inintelligibile, incomprensibile,
ritmo veloce, frequenti fluttuazioni, difficoltà nel mantenere l'attenzione su un argomento, che fa supporre
un problema nel verbalizzare i propri pensieri. Sono anche presenti perseverazioni verbali, ecolalia
(immediata o ritardata), che hanno lo scopo di mantenere un'interazione sociale. Un ostacolo è la difficoltà
nella coordinazione dei muscoli oro-buco-faringei, per cui vi è una vera e propria difficoltà articolatoria,
in quanto l'ovale è molto stretto. Il soggetto ha difficoltà nel sollevare la lingua e nel coordinare tutti i
muscoli che sono coinvolti nell’articolazione, difficoltà acuita dal fatto che il palato è particolarmente
ogivale.
❖ Comprensione. La comprensione è adeguata per le singole parole, ma globalmente risulta deficitaria.
Quindi rispetto alle sindromi Prader Willi e Cri du chat, che preservavano un minimo di comprensione,
qui è fortemente limitata.
❖ CNV. La comunicazione non verbale è ostacolata perché il livello di motricità è fortemente compromesso.
Difficoltà legate alla scarsa motricità soprattutto per i movimenti fini e complessi: è presente tra l'altro
l'incapacità a stabilire un contatto visivo , che non aiuta ad entrare in relazione con gli altri.
SINDROME DI WILLIAMS. Il bambino affetto da questa sindrome non ha dei tratti così evidenti, ma è proprio
il linguaggio che è indicatore cognitivo.
SINDROME DI CORNELIA DE LANGE. Non ci sono in questa sindrome tratti somatici particolari, infatti
non fa immediatamente pensare ad una disabilità intellettiva.
❖ Causa. Trasmissione autosomica recessiva (non è ancora stato localizzato il gene responsabile della
sindrome).
❖ Produzione. È scarsissima; la produzione delle prime parole si presenta con un ritardo di 6-12 mesi, una
grossa percentuale presenta assenza completa del linguaggio o un numero limitato di vocaboli bisillabici.
In soggetti che riescono a sviluppare un certo numero di vocaboli, la produzione è scarsa e poco strutturata.
Sono frequenti sostituzioni, omissioni di suoni, fluttuazioni, per cui è difficile da comprendere.
❖ Comprensione. È scarsa anche se leggermente migliore rispetto alla produzione.
❖ CNV. È buona, per cui sono ottime le capacità compensatorie mimiche gestuali, finalizzate e adeguate al
contesto.
Le due lame della forbice in questa sindrome sono quasi appiattite, in quanto fortemente compromesse entrambe.
L'unica che funziona è la CNV, ch si presenta addirittura contestualizzata.
❖ Causa. Trasmissione autosomica dominante, anomala ripetizione della tripletta CTG nel braccio lungo il
cromosoma 19.
❖ Produzione. Il Linguaggio è mal articolato a causa della distrofia dei muscoli facciali, della lingua e della
faringe. Il vocabolario si presenta poco nutrito, ma vi è l'acquisizione di una basilare autonomia
comunicativa. La produzione quindi è difficile, l'articolazione è poverissima e anche qui vi è una difficoltà
uditiva che provoca una riproduzione per imitazione imperfetta dei suoni. Ostacolo all'apprendimento del
linguaggio possono essere le frequenti otiti e/o sordità, la tracheotomizzazione per contrastare le crisi
respiratorie.
❖ Comprensione. Di presenta a un livello medio- basso, quindi molto poca.
❖ CNV. La Comunicazione non verbale è scarsa, se non praticamente assente a causa della miotonia
muscolare.
SINDROME DI NOONAN. Questa sindrome prima era molto rara, ma oggi non lo è più. In questa sindrome
sono evidenti due aspetti, cioè il collo incassato e il padiglione auricolare anomalo, a causa del quale la
produzione è inevitabilmente danneggiata.
❖ Causa. Variabili, nel 50% dei casi deriva da una mutazione del gene PTPN11.
❖ Produzione. A causa della sordità neurosensoriale frequente è molto deficitaria, correlata a deficit
percettivi, sensitivi e motori.
❖ Comprensione. Anche la comprensione è compromessa come la produzione.
❖ CNV. Si presenta sufficientemente buona.
❖ Causa. Mutazione del gene MECP2 nel braccio lungo del cromosoma X, di conseguenza è esclusivamente
femminile.
❖ Produzione. La produzione è compromessa e scarsa. Alcune bambine emettono dei suoni o fonemi, altre
riescono ad articolare brevi parole. In alcune di esse è possibile rintracciare intenzionalità comunicativa
nonostante gli scarsi risultati effettivi.
❖ Comprensione. È prevalentemente contestuale e globale. Ciò che è assolutamente unico di questa
sindrome è che le bambine affette, sono molto attente agli aspetti prosodici, quindi riconoscono le
intonazioni della voce e rispondono di conseguenza, infatti si ci rende conto di ciò dalla mimica. Esse
riescono codificare il messaggio in base al tono della voce, l'espressione emotiva e i gesti.
❖ CNV. La comunicazione non verbale è buona, vi sono molti intenti comunicativi e ricerca di espressione,
tuttavia sono ostacolati dall'aprassia. Le bambine con questa sindrome mancano completamente di
coordinazione; vorrebbero comunicare attraverso i gesti, ma sono fortemente ostacolate.
P.S. la prof non ha prestato alcune attenzione alle cause delle varie sindromi, dato che le studieremo in altre
materie, ma le ho inserite lo stesso.
LO SVILUPPO AFFETTIVO
LA TEORIA DELL’ATTACCAMENTO.
Iniziamo uno tra gli argomenti in assoluto più affascinanti della psicologia dello sviluppo: LO SVILUPPO
AFFETTIVO. Parlare di sviluppo affettivo significa fare riferimento alla teoria dell’attaccamento. Questa
teoria fu formulata nel decennio 1970/1980 con la trilogia di John Bowlby intitolata Attaccamento e perdita
e i lavori osservativi di Mary Ainsworth sulle prime relazioni madre/bambino. Questa teoria può essere
considerata una teoria dello sviluppo della personalità basata sull’analisi dei percorsi evolutivi e delle
differenze individuali.
Nella teoria dell’attaccamento possiamo cogliere alcune caratteristiche fondamentali, tra queste vi è la
trasversalità, per cui nel modello di attaccamento possiamo rintracciare gli apporti di diverse discipline:
❖ Biologia (teoria evoluzionistica);
❖ Psicologia;
❖ Genetica;
❖ Etologia (il metodo dell’osservazione diretta-gli studi di Lorenz e Harlow);
❖ Psicanalisi.
La ripresa di Freud. Quindi il modello di John Bowlby fu elaborato dopo al modello psicanalitico ma riprende
alcuni costrutti di base sofisticandoli. Freud parlava della sequenza di basi dello sviluppo psicosessuale nella
quale, la pulsione sessuale veniva considerata come una forza motrice che consentiva il passaggio da una
fase all’altra. Rispetto al modello di Piaget (così rigido, sequenziale e universale), in Freud erano presenti
anche i meccanismi di difesa (regressione, fissazione, sublimazione). Il merito fondamentale di Freud fu
quello di aver posto per la prima volta l’attenzione sul bambino, in particolare aver enfatizzato l’importanza
delle esperienze precoci vissute nella primissima fase dello sviluppo per la definizione del sé, della
personalità.
Bowlby riprende proprio l’importanza dell’esperienze precoci e si riferisce in particolare a quella che per
Freud corrisponde fase orale, momento in cui per la prima volta si parla di zona erogena che attraverso alla
bocca, induce al piacere che corrisponde al bisogno di nutrirsi che è un bisogno primario e quindi funzionale
alla sopravvivenza.
Legame di attaccamento. Bowlby fu il primo a parlare di legame dell’attaccamento riferendosi proprio a
quel legame forte, unico, privilegiato che si viene a costituire tra il bambino in un periodo critico, sensibile e
l’adulto significativo. Dobbiamo sottolineare “periodo critico, sensibile” perché sensibile e critico sono
termini che Bowlby mutua dal modello etologico, riprendendo il concetto di imprinting.
Il modo in cui il bambino struttura il legame di attaccamento è fondamentali per lo sviluppo del se affettivo
e sociale.
Il carattere della teoria di Bowbly. Bowlby viene ad essere identificato come il padre della teoria classica
dell’attaccamento. La sua teoria ha un carattere:
❖ Trasversale in quanto si avvale dei contributi di diverse discipline
❖ Evoluzionistico in quanto la predisposizione all’attaccamento è parte integrante del patrimonio
genetico della specie umana anche se l’uomo ha caratteristiche specie-specifiche
Perché è importante lo sviluppo affettivo e in particolare il legame di attaccamento? Perché non solo è il
calco del futuro sviluppo sociale, affettivo ma richiama inoltre in modo massiccio tutte le altre dimensioni
dello sviluppo:
→ cognitivo perché riconosce la figura che si prende cura di lui;
→ linguistico come la fase pre-verbale;
→ percettivo;
→ sociale.
Gli studi di Harlow. Contemporaneamente agli studi di Lorenz (antecedenti a Bowlby), un altro studio di
matrice etologica particolarmente interessante, fu quello di Harlow. Quest’ultimo condusse uno studio sui
surrogati materni, per vedere quali sono i bisogni fondamentali che il bambino richiede che siano appagati;
non è solamente questione di un contatto fisico ma anche di un contatto emotivo, molto affettivo.
Esperimento: Harlow mise vicini una scimmietta e due fantocci:
uno viene rivestito di peluria per assomigliare ad una scimmia;
un altro fantoccio è metallico.
Entrambi sono erogatori di cibo come se fossero due biberon. Al cospetto di questi 2 fantocci è stata messa
una scimmietta che era stata separata alla nascita dalla madre. L’obiettivo dell’esperimento era capire verso
quale fantoccio si sarebbe avvicinata la scimmietta. La scimmietta si aggrappa al surrogato materno
ricoperto di pelliccia e non a quello freddo. Questo accade perché il bisogno fondamentale per la scimmietta
non è solamente il contatto fisico e poi funzionale alla sopravvivenza ma, è un bisogno di natura affettiva che
le viene dato dal calore della pelliccia.
Partendo proprio da questa scimmietta con il surrogato materno, Bowlby sottolinea come l’attaccamento
del bambino, questo legame unico e forte che il bambino sviluppa nei confronti del caregiver* ha funzione
fondamentale in termini di protezione: favorisce la sopravvivenza del cucciolo ma al tempo testo lo protegge
dagli ostacoli. Per questo motivo alla nascita il bambino ha una predisposizione biologica a tenersi vicini gli
adulti della specie.
*Prima il caregiver veniva identificato prevalentemente con la figura materna, invece oggi gli studi lo
identificano anche con la figura paterna, per cui si parla di caregivers multipli (attaccamento multiplo)
Si struttura un sistema di attaccamento che, grazie ai processi di elaborazione delle informazioni provenienti
dall’esterno, ha lo scopo di mantenere un equilibrio omeostatico tra prossimità al caregiver in condizioni
percepite di pericolo o di stress e distanziamento dal caregiver ed esplorazione dell’ambiente in condizioni
di assenza di stress. Cruciale è il ruolo del caregiver che deve essere in grado di rispondere alle richieste di
vicinanza e protezione del bambino in modo sensibile, aiutandolo nella regolazione delle emozioni di paura
e di stress, assecondando ne allo stesso tempo il distacco da lui e la conseguente dell'ambiente in condizione
di tranquillità.
L’attaccamento è una motivazione intrinseca, primaria. Il legame di attaccamento è il calco dello sviluppo
relazionale, affettivo e sociale. Quindi il modo in cui il bambino struttura il legame di attaccamento, ovvero
le esperienze precoci vissute in quel determinato periodo critico sono fondamentali per lo sviluppo del suo
SE’ che, è un sé affettivo; un sé sociale.
Es. Per fare un esempio di legame di attaccamento, possiamo fare riferimento al film “Babies”, in cui a una
madre africana, che era una madre bravissima, nessuno aveva spiegato come comportarsi; a quei bambini
nessuno ha insegnato come attaccarsi al seno materno per ottenere nutrimento ma, è un comportamento
geneticamente determinato.
I comportamenti di segnalazione. Per Bowlby il bambino nasce già provvisto di una serie di comportamenti
attraverso i quali comunica i suoi bisogni a chi si prende cura di lui. Bowlby parla di caregiver ovvero
“erogatore di cure”: il bambino comunica i propri bisogni al caregiver ottenendo così l’effetto desiderato,
cioè che il caregiver si avvicini a lui per assecondare i suoi bisogni. I comportamenti tramite cui ricerca
attaccamento, contatto (fisico ed emotivo) e prossimità sono:
La suzione;
Il seguire (following);
L’aggrapparsi;
Altresì, il bambino mette in atto altri comportamenti di segnalazione, tramite cui richiama su di sé
l’attenzione del caregiver, stabilendo così un contatto e una prossimità. Questi sono:
Il pianto;
I vocalizzi;
Il sorriso.
Il bambino piange, sorride, emette dei vocalizzi e chi gravita attorno a lui, si avvicina e si prende cura di lui.
Ex. Se il bambino piange, la mamma è pronta a confortarlo o allattarlo se dovesse riconoscere che si tratti di
un pianto da fame.
L’imprinting. Lorenz fu il primo a parlare di questa predisposizione, da lui definita Imprinting, periodo critico,
sensibile a partire dal 6° mese. Quindi il legame di attaccamento non si sviluppa, non si struttura in qualsiasi
momento nel corso dei primi due anni di vita ma, ma in un determinato momento che viene (utilizzando il
linguaggio etologico) definito sensibile o critico e riprende proprio il concetto di imprinting dell’etologia.
Esperimento. Il termine imprinting in italiano potrebbe essere tradotto con “dare un’impronta”, e fu adottato
da Konrad Lorenz nelle sue celebri ricerche sulle anatre (1935). Si occupò dell’esperimento della paperella:
nessuno spiega alla paperella appena nata cosa deve fare per sopravvivere, ma c’è una predisposizione
geneticamente determinata a seguire le altre papere più grandi (following) perché in caso contrario la
paperella verrebbe immediatamente presa come pasto dai rapaci. In tal modo, seguendo le papere più
grandi, ottiene conforto, protezione ed impara a muoversi da sola per poi man mano allontanarsi dal gruppo,
questo nessuno glielo ha insegnato ma vi è una predisposizione geneticamente determinata.
Questi modelli comportamentali inoltre contribuiscono a stabilire e mantenere la vicinanza con la madre e
favoriscono la sopravvivenza dei piccoli stessi, che hanno bisogno del contatto fisico ed emotivo/affettivo.
L’imprinting:
aiuta alla sopravvivenza;
è attivo alla nascita indipendentemente dai rinforzi;
è funzionale allo sviluppo psico-motorio;
si attenuta con la crescita.
La citazione di Bowlby (1956). “Meravigliarsi perché un bambino non gradisce di essere confortato da una
donna gentile ma sconosciuta è come essere uno sciocco che si meraviglia che un giovane uomo molto
innamorato non sia entusiasta di qualche altra ragazza di bell’aspetto”.
Quando il bambino di 6 mesi piange, trae conforto, protezione, consolazione solamente se viene accudito
dal caregiver. Quindi non ci possiamo meravigliare se non si sente confortato da una donna gentile perché
per lei non è la fonte di protezione, non è riconosciuta come caregiver. Meravigliarsi di ciò è la stessa cosa
del meravigliarsi che un uomo, pur essendo molto innamorato della propria fidanzata, non sia contento di
vedere un’altra ragazza che passa e che è molto gradevole alla sua vista.
Il bambino, superando il periodo critico e sensibile, non viene confortato da chiunque, ma soltanto da chi
viene conosciuto come caregiver. Questo riconoscimento subentra soltanto in una fase successiva, quando
in seguito allo sviluppo affettivo, linguistico, cognitivo e percettivo impara a discriminare/ riconoscere il volto
del proprio caregiver rispetto a quello degli altri. Per questi motivi, il bambino nei primissimi mesi di vita
(circa 1 mese), non riconosce il caregiver, ma semplicemente la sua fonte di cura: piange poiché ha fame o
vuole essere preso in braccio e poco gli importa di chi sia soddisfare i suoi bisogni.
Riferimento all’etologia. la considerazione di
Bowlby per gli studi relativi alla relazione
madre/bambino lo portano a rimanere colpito
dalle ricerche che in quegli anni venivano condotte
da Lorenz, Hinde e Harlow nell’ambito della
psicologia comparata e dell’etologia. quest’ultima
è una disciplina volta a studiare il comportamento
degli animali nel loro ambiente naturale. L’etologia
è caratterizzata da 4 concetti di base che vengono
ripresi da Bowlby:
▪ Comportamenti innati specie-specifici
▪ Prospettiva evoluzionistica perché
funzionale alla sopravvivenza. Se il bambino
non richiamasse il caregiver per ottenere
vicinanza o protezione e conforto,
ovviamente non potrebbe assolvere i suoi bisogni primari che sono appunto funzionali alla
sopravvivenza.
▪ Predisposizione ad apprendere
▪ Metodologia
Inoltre, sempre dall’etologia lo studioso riprende il metodo dell’osservazione diretta e infine considera
anche le basi biologiche dello sviluppo e del comportamento.
LE FASI DI ATTACCAMENTO
Bowbly individua 4 fasi di attaccamento.
→ Fase 1: preattaccamento (0-2 mesi). Questa fase si sviluppa nei primi due mesi di vita del bambino e
corrisponde al periodo senso motorio di Piaget. In questo periodo il comportamento del bambino è
caratterizzato dai riflessi presenti alla nascita quali afferrare, sorridere, piangere, seguire con gli occhi,
girare la testa, ecc. Inoltre il bambino in questa fase è in grado di esprimere i suoi bisogni di attaccamento
al caregiver grazie al pianto, alle vocalizzazioni e al sorriso. Il bambino non discrimina una persona
dall’altra, ma riconosce la voce materna.
→ Fase 2: la formazione del legame d’attaccamento (2-6/8 mesi). È in questo lungo periodo che si forma
il legame privilegiato tra il bambino e il caregiver, descritto dagli psicologi come una “bolla diadica”. Si
tratta di un legame non unidirezionale bensì bidirezionale, ovvero è un legame che va dal bambino alla
madre e viceversa. Il bambino ha sviluppato acuità visiva, per cui è in grado di riconoscere la madre
rispetto alle altre figure, di conseguenza emerge una preferenza selettiva nei suoi confronti. Inizia ad
utilizzare il caregiver come target e bersaglio dei propri segnali: quando vede che la madre si avvicina, il
bambino immediatamente solleva le braccia, sorride, emette vocalizzazioni, volge il capo verso di lei e
mantiene fisso il contatto oculare.
Essendo ancora nelle prime fasi di strutturazione del legame di attaccamento, il bambino non avverte ancora
angoscia da separazione quando la madre si allontana, né si dispera se viene lasciato in presenza di altre
persone. Tuttavia si verificano proteste e pianti quando il piccolo viene lasciato in una stanza senza la
presenza di altre persone.
Affinchè si strutturi questo legame forte, significativo, è importante che la madre costituisca una base sicura,
cioè la madre deve essere percepita dal bambino come fonte fondamentale, risorsa affettiva, emotiva e non
solo fisica. È importante che la madre sia responsiva, ovvero in grado di decodificare in maniera puntuale e
precisa il significato dei segnali emessi dal bambino, in modo da rispondere ai suoi bisogni.Tanto più forte,
adattivo e sicuro è questo legame, tanto più il bambino sarà sicuro nell’esplorazione del mondo esterno e
nell’istaurare rapporti con gli altri.
N.B. Bowbly condusse degli studi a livello clinico e mise in evidenza come la carenza di cure materne o la
separazione precoce dalla madre possano avere delle conseguenze rilevanti sullo sviluppo della personalità
e sull’insorgenza di gravi disturbi. Egli ipotizzò che alla base dei comportamenti delinquenziali degli
adolescenti ci fossero delle prolungate esperienze di deprivazione affettiva nell’infanzia.
→ Fase 3: l’angoscia da separazione (6-18 mesi). Il bambino ormai è in grado di discriminare perfettamente
il caregiver dalle altre figure estranee, anche grazie all’acquisizione di capacità locomotorie (gattonare e
camminare). Questo è il motivo per cui subentra l’angoscia da separazione quando dovendosi separare
dalla madre, piange e protesta. In questo periodo inizia secondo Piaget la permanenza dell’oggetto, per
cui il bambino diviene consapevole dell’assenza e della presenza della madre ed inizia la sua ricerca; i
vocalizzi diventano canonici, non è più un’esercitazione, ma è un richiamo selettivo della madre. In
questo periodo il bambino inizia a muoversi autonomamente, comincia a strisciare, andare carponi, a
camminare, per cui avvia la sua esplorazione nel mondo esterno. Inoltre il bambino inizia a sperimentare
la paura dell’estraneo, nei confronti delle altre figure che gravitano attorno a lui.
→ Fase 4: la formazione del legame reciproco (18 mesi-2 anni). In questo periodo il legame assume sempre
più carattere di reciprocità. A partire dai 2 anni vi è un’acquisizione graduale del linguaggio che aiuta a
superare l’angoscia da separazione. Il bambino acquista la capacità di comprendere ed accettare la
separazione dalla madre: dal momento in cui l’attaccamento è solido e sicuro il bambino è sicuro che la
madre tornerà, pertanto non si sente abbandonato e supera l’angoscia da separazione.
Il significato dell’attaccamento. Bowlby sottolinea che per comprendere a pieno la natura di questo legame
di attaccamento è importante non solo vedere come il bambino si comporta in presenza e assenza della
madre, ma anche come il bambino si comporta quando la madre torna, quindi nel momento di
ricongiungimento madre-bambino. Il bambino con un forte e solido legale di attaccamento non si sente
abbandonato, in quanto ha superato la fase di angoscia da separazione, infatti quando rivede la madre è
contento, l’abbraccia, le fa notare tutto ciò che ha fatto in una assenza. Attraverso l’attaccamento, il bambino
assume un ruolo attivo, infatti non è mai un semplice ricettore, ma invia dei segnali che consentono all’adulto
significativo, quindi all’erogatore di cure di avvicinarsi e prendersi cura di lui.
I comportamenti che mette in atto, attraverso l'apparato locomotorio, percettivo e di segnalazione, hanno
uno scopo preciso e funzionale alla sopravvivenza (prospettiva filogenetica), cioè mantenere il contatto fisico,
emotivo, affettivo con la madre attivando di conseguenza dei comportamenti di risposta a quelli della madre.
Quindi la relazione si instaura reciprocamente con il contributo di uno e dell'altro membro della diade.
Strange situation. La Strange Situation è uno strumento sperimentale, una sorta di setting confortevole che
serve a misurare la tipologia dell’attaccamento e il comportamento del bambino. Questa procedura ha una
durata di circa 20 minuti suddivisi in 8 sequenze (step) interattive di azioni caratterizzate dall’alternanza di
separazione e ricongiungimento con la figura materna. Queste sequenze di eventi sono finalizzate a stimolare
inizialmente un comportamento di tipo esplorativo.
Il bambino e il caregiver sono inseriti in un ambiente confortevole nel quale vi sono diversi giochi;
successivamente, attraverso l’introduzione di eventi moderatamente stressanti e fonti ansiogene (ingresso
nella stanza di una figura estranea e allontanamento della madre) si cerca di attivare il sistema
comportamentale d’attaccamento del bambino, così da valutare la qualità del legame, ovvero la capacità del
bambino di utilizzare la madre come “base sicura”, come rifornimento affettivo ed emotivo.
Il caregiver rappresenta una sorta di porto sicuro, di rifornimento affettivo ed emotivo a cui il bambino
torna sempre: il bambino esplora il mondo esterno, scopre qualcosa di nuovo, ma se avverte una
presenza estranea, immediatamente si rifugia dalla madre che rappresenta la risorsa affettiva dalla
quale trae conforto. E’ la madre che tende ad alleviare la sua angoscia e le sue paure, pertanto il
bambino si fornisce di risorse affettive ed emotive e torna più sicuro ad esplorare il mondo esterno.
Quindi la Strange Situation osserva le risposte di un bambino di un anno posto in una stanza non familiare
con la madre e con un estraneo.
Come funziona la strange situation? La procedura consiste in 8 episodi di tre minuti ciascuno per un totale
temporale di 20/22 minuti:
6 3 min o meno Bambino Seconda separazione. Il genitore si allontana di nuovo, per cui
il bambino è solo.
La classificazione del legame di attaccamento. L’attaccamento dei bambini valutato con la procedura
osservativa standard di Mary A. si divide in:
• Attaccamento sicuro: Il bambino sicuro utilizza la madre come base per esplorare l’ambiente quando è
presente, manifesta disagio e può piangere dopo la separazione dal caregiver, ma al suo ritorno cerca il
contatto con lui, quindi riprende tranquillamente l’attività che stava svolgendo coinvolgendo il genitore.
Questo perché riconosce nella madre quel caregiver che è in grado di confortarlo, infatti la madre
rappresenta la sua risorsa affettiva/emotiva. La relazione è percepita in modo moderatamente
stressante. Nell’attaccamento sicuro si ha un bambino che sarà abile, più sicuro di sé nell’affrontare le
insidie del mondo esterno, nell’instaurare rapporti in un contesto relazionale e sociale, mentre quello
disorganizzato è un comportamento disfunzionale, disadattivo.
• Attaccamento ansioso-evitante: il bambino non condivide la propria attività di gioco o esplorazione con
il genitore quando presente, né mostra particolare disagio alla separazione. Al ritorno della madre, il
bambino evita il contatto con lei o la saluta in ritardo, voltandosi o continuando a giocare, quindi non è
un bambino che si rifugia subito dalla madre per essere confortato. Inoltre non appare turbato quando
viene lasciato solo con l’estraneo.
Alla base di questo tipo di attaccamento vi è un conflitto irrisolvibile: quando è a disagio si rivolge al genitore
come fonte di consolazione, ma il genitore è allo stesso tempo fonte di paura. Il bambino non ha una base
sicura, avverte ancora l’angoscia da separazione. Un attaccamento disorganizzato costituisce per il
comportamento del soggetto chiaramente un fattore di rischio, però possono anche incidere dei fattori di
protezione tali da arginare questo fattore di rischio e fare sì che l’esito evolutivo vada in una direzione
adattiva e funzionale.
Metafora: Pensiamo al bambino che sta imparando a camminare. Man mano acquisisce una maggiore
coordinazione motoria, per cui dal gattonare comincia ad alzarsi e tenendosi ai vari supporti che trova
disponibili, inizia a muoversi. Il bambino ovviamente non cammina fin da subito benissimo, ma la madre che
è base sicura, lo sostiene da sotto le ascelle, e avverte quando il figlio è più sicuro di sé e in un percorso
rettilineo senza ostacoli a poco a poco lo lascia perché gli deve consentire di camminare da solo. Non tutti i
bambini si lasciano andare, ma soltanto quello con un attaccamento sicuro, perché sa e percepisce che se
per caso perde l’equilibrio e sta per cadere, c’è la madre, la base sicura, pronta ad afferrarlo, a sostenerlo, a
dargli conforto e protezione. Se la madre fosse troppo ansiosa e lo tenesse troppo stretto a sé,
trasmettendogli le sue angosce e le sue paure, il bambino non comincerebbe a camminare.
I limiti della strange situation. Tale metodo presenta tuttavia alcuni limiti:
• Può essere usato solo per i bambini al compimento del primo anno di età, quindi dai 12 ai 24 mesi,
che hanno superato il momento critico, sensibile, quindi sanno riconoscere il caregiver da tutti gli
altri adulti significativi, e soprattutto dall’estraneo. Si tratta quindi di bambini che hanno superato
la fase dell’angoscia da separazione e della paura dell’estraneo;
• È una procedura standardizzata, per cui se da un lato conferisce rigore metodologico, dall’altro non
consente di essere adattata al di fuori del laboratorio di osservazione.
La sensibilità materna. Diversi studi hanno dimostrato che i diversi pattern di comportamento sviluppati dal
bambino sono correlati con la sensibilità materna. Quest’ultima è la capacità di rispondere in modo pronto
e adeguato ai bisogni del bambino, quella di consolarlo rispetto al pianto e di stabilire un buon contatto
fisico, ma anche componenti relative alla comunicazione affettiva, come la disponibilità emotiva dimostrata
nel gioco faccia-a-faccia, l’accessibilità emotiva rispetto al bambino e alle sue richieste, infine la cooperazione
nei confronti della sua attività. La ricerca longitudinale di Ainsworth ha messo in evidenza che:
➢ I bambini sicuri alla Strange Situation a 12 mesi hanno madri sensibili nei loro confronti nel corso del
loro primo anno di vita
➢ I bambini evitanti avevano una storia di interazioni con una madre insensibile e rifiutante verso i loro
segnali di attaccamento;
➢ I bambini ambivalenti avevano madri sensibili nei confronti dei loro bambini in modo intermittente
e imprevedibile;
➢ I bambini disorganizzati avevano una storia di interazione con una madre terrorizzata/terrorizzante.
Gli stili comunicativi. All’interno di questa bolla diadica madre-bambino si viene a creare una sequenza
interattiva, basata su sguardi, pianto, sorriso, vicinanza, prossimità fisica tra il proprio corpo e quello della
madre. Si parla di stili comunicativi diadici, per cui c’è uno specifico stile di comunicazione e interazione che
contraddistingue ciascuna diade. Già a 4 mesi di vita, le interazioni tra le madri e i futuri bambini sicuri a 12
mesi si differenzino rispetto a quelle delle diadi con futuri bambini insicuri o disorganizzati:
→ Futuri bambini sicuri già a 4 mesi godono di una più adeguata contingenza interattiva con la loro
madre sia a livello di attenzione visiva e tattile che di rispecchiamento emotivo.
→ Futuri bambini insicuri: minore stabilità della risposta delle madri, che si dimostrano inoltre intrusive
rispetto ai bambini, determinandone comportamenti di ritiro;
→ Futuri bambini disorganizzati: mancata coordinazione affettiva.
Il compito del caregiver. Il compito fondamentale del caregiver è quello di fungere da guida nel regolare le
emozioni del bambino, trasmettendo a quest’ultimo la capacità di inibire, ridurre le emozioni negative e di
rinforzare le emozioni positive, inducendo in lui un sentimento di sicurezza, di protezione fisica ed emotiva,
quindi gli insegna a fronteggiare le fonti di stress.
Ecco di seguito i diversi modelli di attaccamento correlati con l’importanza della regolazione emotiva.
→ Attaccamento sicuro. Nell’attaccamento sicuro, il bambino ha la capacità di comunicare emozioni
positive e negative al caregiver, come percepito base sicura, come una fonte di risorsa, di energia
emotiva ed affettiva efficace nella regolazione emotiva. Il caregiver aiuta il bambino che aiuta ad inibire
quelle negative e a potenziare la gestione delle emozioni positive.
→ Attacamento insicuro. Nell’attaccamento insicuro, il bambino ha un atteggiamento più evitante,
quindi, tende a non comunicare le proprie emozioni, soprattutto quelle negative, di conseguenza non
percepisce il caregiver come fonte emotivamente disponibile per la regolazione emotiva, quindi
preferisce ridurre la comunicazione delle emozioni. Contemporaneamente si ha un maggiore
investimento nell’attività di esplorazione e di gioco con gli oggetti utilizzata anche in funzione della
regolazione dello stress.
→ Attaccamento insicuro ambivalente. Si basa sulla massimizzazione del sistema di attaccamento
espressa attraverso le intense richieste di eteroregolazione emotiva rivolte al genitore, percepito come
non responsivo in modo imprevedibile, con la finalità di catturarne l’attenzione, a cui si correla il
disinvestimento del gioco e dell’esplorazione degli oggetti.
→ Attaccamento insicuro-disorganizzato. L’attaccamento insicuro disorganizzato è quello più
disfunzionale, dove abbiamo una totale rottura delle strategie di regolazione emotiva, perché il
bambino percepisce il caregiver, che ha un atteggiamento assolutamente ambivalente e
contraddittorio, come incapace di regolare le proprie emozioni e quelle del bambino. E’ un caregiver
non empatico, che non ha una buona teoria della mente, ovvero la capacità di attribuire uno stato
emotivo a sé e all’altro. Ad un caregiver disorganizzato corrisponde un bambino con attaccamento
disorganizzato, che avrà difficoltà nel regolare le proprie emozioni.
I modelli operativi interni (MOI). Gli autori parlano di MOI (Modelli Operativi Interni), cioè il legame di
attaccamento si diventa una sorta di rappresentazione interna che influenza il nostro comportamento. I
modelli operativi interni sono pattern di comportamento che vengono interiorizzati e generalizzati; sono
strutture affettive, emotive e cognitive. Sono importanti per le emozioni, perché esiste questa strettissima
relazione tra sviluppo affettivo ed emotivo, quindi i modelli interni tendono ad organizzare e gestire le
emozioni riguardo le diverse esperienze di attaccamento vissute nel bambino. Questi MOI svolgono una
funzione motivazionale, fungendo da guida rispetto al comportamento relazionale del soggetto nelle
esperienze interpersonali. I MOI tendono a mantenersi stabili funzionando in modo inconsapevole, come una
sorta di «filtro» rispetto alle successive esperienze di attaccamento sperimentate dal soggetto nel corso della
sua vita infantile e adulta, infatti sembra che essi influenzino anche la scelta del partner. In caso di
attaccamenti non adattivi, quali quelli insicuri, la funzione di filtro descritta si trasformi in una funzione di
tipo difensivo.
La madre frigorifero. A partire dagli anni 70 Kahlner, quando si iniziò a parlare di disturbi pervasivi dello
sviluppo, fu il primo a parlare di autismo e a fare riferimento alla cosiddetta una madre frigorifero, cioè una
madre fredda, incapace di costituire una base affettiva ed emotiva solida. Per lungo tempo si è parlato di
disturbi dell’alimentazione attribuendo un ruolo determinante ad un legame di attaccamento disorganizzato
nei confronti del caregiver, come se la ragazza sviluppasse un disturbo dell’alimentazione in risposta a un
legame di attaccamento disfunzionale. Oggi questa prospettiva viene totalmente abbandonata, perché gli
psicologi dello sviluppo parlano di basi neurobiologiche, di ipotesi epigenetiche.
Attaccamenti multipli. Prima si parlava esclusivamente di figura materna, ma oggi parliamo anche di
attaccamenti multipli verso le altre figure di riferimento.
→ Attaccamento alla figura paterna. La psicologia è strettamente correlata agli studi di stampo sociologico
e antropologico, quindi i modelli psicologici sono fortemente permeati dai modelli sociali: la figura
paterna ha assunto un ruolo diverso nel sistema familiare degli ultimi decenni, il padre viene molto più
coinvolto nell’accudimento del figlio e tutti i progetti di parenting non sono rivolti solo alla madre, ma
alla coppia genitoriale. Particolare attenzione dunque è stata rivolta verso la figura paterna, quindi è
stato riconosciuto il ruolo del padre come caregiver: sembra che la strutturazione di un attaccamento
sicuro o insicuro nei confronti della figura paterna segua le stesse modalità di quella materna.
Il ruolo paterno viene considerato prioritario soprattutto per quanto riguarda, ma proprio la manipolazione
e l’esplorazione del mondo esterno: il padre sembra rappresentare maggiormente una base sicura. I
comportamenti paterni sono maggiormente in grado di predire la qualità dell’attaccamento dei loro figli,
hanno maggiore capacità di sostenere il gioco del bambino e la sua attività esplorativa fornendogli sicurezza
nell’esplorazione.
➢ Un bambino istituzionalizzato senza genitori naturali sviluppa ugualmente i legami di attaccamento
perché è geneticamente predisposto, non solo nei confronti di chi condivide lo stesso corredo genetico,
tanto che la paperella di Lorenz seguiva anche altre paperelle e non esclusivamente la propria madre.
Anche i bambini allontanati dalla famiglia di origine o, addirittura che non hanno mai conosciuti i propri
genitori sviluppano un legame di attaccamento che segue dei percorsi diversi. Nel caso di genitori
omosessuali o figli aventi solo un’unica figura genitoriale il modello di attaccamento si viene a costituire
in forma diversa.
→ Attaccamento alle figure non familiari. Vi sono studi sul legame di attaccamento anche con caregiver
non familiari, ad esempio le educatrici della scuola per l’infanzia possono essere utilizzate al pari delle
figure dei genitori come base sicura e come fonte di consolazione e sicurezza fisica ed emotiva. La qualità
dell’attaccamento può essere discordante da quello che il bambino ha costruito con i genitori, a
dimostrazione che tale qualità dipende oltre che dalle caratteristiche del bambino dalla disponibilità
emotiva dimostrata dalla specifica figura di attaccamento.
L’adult attachment interview (AAI). Nel corso del tempo si è registrato lo spostamento dallo studio dei
comportamenti di attaccamento messi in atto nella relazione genitore-bambino, all’analisi delle
rappresentazioni generalizzate relative alle esperienze di attaccamento del soggetto considerato in diverse
età (dal bambino in età scolare, all’adolescente e all’adulto). L’AAI serve per valutare i MOI; è ’ un’intervista
che, attraverso uno specifico protocollo e un correlato sistema di codifica, permette di indagare lo stato
mentale del soggetto in età adolescenziale e adulta riguardo le proprie esperienze di attaccamento
I fattori esplicativi della trasmissione intergenerazionale che sono più frequenti nei genitori sicuri sono:
→ Qualità della responsività del genitore rispetto ai bisogni fisici del bambino
→ Capacità del genitore di sintonizzarsi e rispecchiare le emozioni espresse dal bambino
→ Capacità del genitore di considerare il bambino come «un soggetto di stati mentali»
Se un genitore è insicuro, il bambino al 100% sarà insicuro? No, dipende tutto dai fattori di protezione.
Sicuramente vi è questa probabilità che influenza la traiettoria evolutiva, ma quest’ultima dipende
dall’interazione tra fattori di rischio e protezione: il fatto che sia un genitore insicuro, disorganizzato
rappresenta un fattore di rischio ma possono subentrare i fattori di protezione.
Nuovi legami di attaccamento nell’adolescente e nel giovane adulto. Il legame di attaccamento si struttura
a partire da quel momento critico e sensibile, ma non si ferma lì, infatti continua ad essere presente e ad
esercitare una sua influenza nel corso dello sviluppo, in tutto il ciclo di vita. Crescendo, il bambino entra a far
parte di contesti relazionali sempre più complessi, e il modo in cui il bambino ha strutturato quel legame
influenzerà l’instaurazione delle relazioni con i compagni nell’extra scuola, nel contesto lavorativo, nelle
relazioni sentimentali, proprio perché costituisce la base per l’esplorazione del mondo esterno che è un
ambiente fisico, strutturale e contestuale.
Adolescenti e giovani adulti si rappresentano gli amici e i partner sentimentali anche come figure di
attaccamento, rivolgendosi a loro con l’obiettivo di:
→ Ricercarne il contatto fisico per mantenere il senso di sicurezza
→ Utilizzarli come base sicura (per l’esplorazione)
→ Fruirli come porto sicuro per ottenere conforto e regolazione emotiva in caso di eventi stressanti.
Accanto a un modello operativo interno generale riguardante le esperienze di attaccamento infantili e
preadolescenziali, nei soggetti adolescenti e adulti è possibile studiare le specifiche rappresentazioni che
riguardando le relazioni di attaccamento considerate, tra le quali spiccano quelle sentimentali,
rappresentazioni che appaiono più instabili e dipendenti dal contesto rispetto alle rappresentazioni
generalizzate.
Attaccamento e sviluppo socioemotivo. Vi sono degli studi studi longitudinali, che hanno preso in
considerazione un campione di bambini dalla primissima infanzia fino all’età adulta per valutare la stabilità
nel tempo dei modelli di attaccamento, per capire quanto questi ultimi siano stabili e quanto influenzino lo
sviluppo socio-emotivo.
L’attaccamento sicuro tra madre e bambino valutato a 12 mesi alla strange situation:
La tendenza alla stabilità dei modelli di attaccamento: predice un attaccamento sicuro rispetto alle
figure di attaccamento nella giovane età adulta valutato con l’AAI, salvo che non subentrino eventi
di vita particolarmente stressanti o traumatici.
La relazione tra qualità di attaccamento e sviluppo socioemotivo: predice nell’età prescolare e
scolare l’adeguatezza di funzioni psicologiche significative. Ciò significa che il bambino manifesta una
buona fiducia in sé stesso, una capacità di regolazione delle emozioni, un buon livello motivazionale,
senso di autostima, fiducia nelle proprie capacità di riuscita, la capacità di relazioni sociali con adulti
e pari.
Il fattore di protezione: permette dopo i 5 anni di età di far fronte a eventi stressanti intervenienti,
senza sviluppare disturbi di tipo esternalizzante o internalizzante, come invece è accaduto più
frequentemente ai bambini valutati insicuri.
LE EMOZIONI
Plutchik. Una definizione interessante di “emozione” è stata proposta da negli anni 60 da Plutchik
Le emozioni sono una catena/una sequenza di azioni; una sequenza di eventi che ha inizio con le interazioni
tra l’organismo (il soggetto) e lo stimolo, che finisce con l’interazione.
L’emozione si differenzia dal sentimento in quanto il primo è temporaneo
Es. Alessandro vede Azzurra, percepisce uno stimolo e c’è una valutazione cognitiva dello stimolo. A questa
valutazione si assomma un’eccitazione fisiologica per cui ogni volta che Alessandro vedrà Azzurra avrà una
palpitazione. Dopo aver percepito lo stimolo, averlo valutato, avere provato uno stato affettivo, c’è anche
l’impulso all’azione.
Es. Io cammino in viale delle scienze, ad un certo punto vedo un leone. Prima percepisco uno stimolo, poi c’è
una valutazione cognitiva dello stimolo (ma quello è un leone?), poi c’è una reazione (paura); quindi valuto
quella che deve essere la risposta adatta mentre sto avendo una risposta fisiologica (palpitazione,
sudorazione).
L’emozione ha anche una funzione adattiva, per esempio se io continuassi a camminare avendo visto il leone
non ne uscirei viva.
La catena di azioni prevede:
1. Percezione dello stimolo;
2. Valutazione cognitiva dello stimolo;
3. Stato di eccitazione;
4. Impulso all’azione.
Caratteristiche e componenti delle emozioni. Vengono distinte emozioni primarie ed emozioni secondarie.
Le emozioni primarie sono insite al patrimonio del bambino (gioia, paura, disgusto, rabbia, tristezza,
interesse)
Le emozioni prevedono alcune caratteristiche; hanno:
▪ una funzione adattiva, perché ci permettono di adattarci alla sopravvivenza;
▪ una base innata;
▪ un carattere universale.
Distinguiamo diverse componenti:
▪ La presenza di uno stimolo: lo stimolo scatenante che può essere interno o esterno, che provoca un
determinato stato emotivo;
▪ La valutazione della situazione che dà il nome all’emozione, perché ad esempio valutando il leone
come un animale pericoloso, il soggetto capisce e prova paura;
▪ Vengono messe in atto delle risposte fisiologiche che accompagnano le emozioni; tanto intense
quanto è intensa la tonalità emotiva (sudorazione, tachicardia);
▪ La reazione tonico-posturale: blocco;
▪ Un’espressione del volto (accompagna e dà connotazione allo stato emotivo);
▪ Impulso all’azione, per cui ad esempio, il soggetto scappa dal leone.
➢ La teoria della differenziazione. La teoria della differenziazione delle emozioni è rappresentata da Sroufe
e quest’ultimo ritiene che possiamo distinguere un’eccitazione maggiore o minore. Inizialmente c’è una
fase di indifferenziazione, per cui non si possono distinguere le emozioni in maniera chiara. A poi a poco
a poco questi stati di eccitazione vengono differenziati in stati emotivi di sconforto o di piacere. A partire
dai 3 mesi, lo sconforto si differenzia in: collera, paura e disgusto; il piacere in affetto. È per questa
ragione che dai 3 mesi il bambino inizi ad istaurare un rapporto affettivo più forte con le persone che si
prendono cura di lui.
Nel processo di differenziazione che porta alle emozioni vere e proprie sarebbero coinvolti i sistemi:
Del piacere/gioia. Nei primi due mesi di vita il piccolo produce un sorriso endogeno che funziona
essenzialmente di eventi interni e indica una condizione di benessere. Solo a partire dai 3 mesi si può
parlare di piacere in relazione alla comparsa del sorriso sociale, mentre la vera e propria emozione
differenziata di gioia emerge dal quarto mese. A partire gli 8 mesi, il sorriso, il riso e la gioia sono
sempre più determinati dal significato che l’evento assume per il bambino.
Della circospezione/paura. Nel periodo neonatale si osserva in alcune circostanze un incremento
dello stato di attivazione fisiologica o reazioni di disagio che è il precursore e il prototipo della paura
vera e propria, destinata a comparire intorno ai 7 mesi.
Della frustrazione/rabbia. In epoca neonatale il piccolo vive situazioni di impedimento della
motricità e di costruzione fisica. La reazione evolve in un prototipo definito frustrazione, visibile nella
prima parte del primo anno di vita. Dopo i sei mesi compare la rabbia vera e propria.
Nella prospettiva di Sroufe le emozioni fondamentali di gioia paura e rabbia emergono attraverso
passaggi precisi:
▪ Le reazioni del piccolo a stati di attivazione (arousal) più o meno prolungata;
▪ I precursori che compaiono precocemente;
▪ La successiva emozione vera e propria.
➢ La teoria differenziale. Questa teoria viene elaborata a partire dagli anni 80 da Izard. Egli afferma
l’esistenza di un certo numero di emozioni innate e universali, un set di emozioni primarie o di base che
si presentano già differenziate in età neonatale e svolgono una funzione adattiva. Questo set di base
comprende la paura, la collera, la gioia, la tristezza e il disgusto.
▪ Esse sono multi-componenziali, per cui hanno una componente neurale, una espressiva non
verbale, una esperienziale soggettiva, una motivazionale;
▪ Si manifestano rapidamente, automaticamente e inconsapevolmente in seguito alla percezione di
stimoli significativi;
▪ Tutte possono avere effetti negativi e positivi.
Le emozioni non di base, dette complesse o secondarie, inducono un elevato numero di stati emotivi come
la vergogna, la colpa, l’imbarazzo, l’orgoglio, l’odio e così via, e si presentano quando nel bambino emerge la
consapevolezza di Sé, quindi solo a partire dalla fine del primo anno di vita.
La teoria di Izard si caratterizza per l’importanza che viene attribuita alle componenti innate. Secondo Izard,
ogni emozione è universalmente predeterminata e a poco a poco, su base maturazionale, si manifesta per
svolgere una funzione adattiva. Quindi le prime emozioni hanno un carattere innato, a poco a poco, per
effetto dalla maturazione e per effetto dello stimolo ambientale, si differenziano.
Livelli di sviluppo emotivo. Izard individua tre diversi livelli dello sviluppo emotivo:
~ I Livello: Esperienza sensorio-affettiva. Nel corso del primo anno di vita, Izard individua un primo livello
di sviluppo emotivo (circa 0-2 mesi) detto dell'esperienza sensorio-affettiva, dotato dalla presenza di
emozioni come il disgusto, lo sconforto e l'interesse, con cui il bambino comunica i propri bisogni
manifestate con il sorriso endogeno.
~ II Livello: Esperienza percettivo-affettiva (emozioni primarie). Il secondo livello (circa 3-9 mesi), detto
dell'esperienza percettivo-affettiva, copre un periodo durante il quale il bambino è maggiormente in
grado di esplorare l'ambiente e in cui compaiono la collera, la tristezza e la paura. In questa fase il sorriso
da endogeno diventa esogeno, sociale e quindi il bambino sarà in grado di manifestare più attenzione al
mondo esterno.
~ III Livello: Esperienza cognitivo-affettiva (emozioni secondarie). Il terzo livella (circa 9-24 mesi), quello
dell'esperienza cognitivo-affettiva, si sviluppa dal nono mese. Nel corso del secondo anno di vita
compaiono emozioni come la colpa, la vergogna, la timidezza, che attestano il consolidamento del
processo di differenziazione Sé-altro e la crescita della consapevolezza di Sé. Il bambino sarà più
consapevole delle proprie emozioni e saprà come manifestarle, sarà in grado di capire quali segnali
attivare per esprimerle. Si passa da uno stato di indifferenziazione a emozioni più complesse.
L’emozione di tristezza. Comporta un rallentamento del pensiero e delle azioni, la sensazione di essere senza
forze, con poca energia, e un vissuto di solitudine che permane anche se si è in compagnia di altri. Questa,
come tutte le emozioni, presenta degli aspetti positivi e negativi:
~ Effetti positivi: il rallentamento del pensiero consente di impegnarsi in attività autoriflessive,
offrendo la possibilità di autoanalisi.
~ Effetti negativi: se persistente può comportare una perdita di interesse e un’indifferenza
generalizzata verso tutto e tutti, che può sfociare in ritiro sociale, isolamento, depressione.
L’emozione di rabbia. Prepara l’individuo ad agire o reagire per fronteggiare situazioni considerate ingiuste
o frustranti; implica una generale mobilitazione fisica (i muscoli sono in tensione):
~ Effetto positivi: può motivare e stimolare la ricerca di soluzioni alternative, di strategie più efficaci e
di successo.
~ Effetti negativi: può spingere a mettere in atto comportamenti aggressivi, violenti e distruttivi.
L’emozione di paura. Comporta un rallentamento dell’azione, una diffidenza e una cautela nei confronti di
situazioni nuove.
~ Effetti positivi: svolge una funzione adattiva, perché consente al bambino di allontanarsi dai pericoli,
di evitare effetti dannosi e dolorosi, e di mettersi al sicuro.
~ Effetti negativi: se troppo intensa, può far fare errori di valutazione e considerare pericolose anche
situazioni innocue o può inibire le capacità di pensiero e di azione, interferendo negativamente con
la possibilità di trovare soluzioni adeguate a fronteggiare le situazioni.
L’emozione di disgusto. ci porta ad allontanare qualcosa o qualcuno che non ci piace.
~ Effetti positivi: svolge una funzione adattiva perché ci tiene lontani da situazioni o sostanze
pericolose.
~ Effetti negativi: se esagerata può portare ad evitare tutto ciò che non si conosce, temendo
contaminazioni o malattie.
Approccio funzionalista. Un interessante approccio allo studio dello sviluppo emotivo è quello funzionalista,
rappresentato d Barrett e Campos, i quali sottolineano la natura funzionale delle emozioni nella regolazione
delle interazioni individuo-ambiente. In particolare:
• La funzione biologica ha a che fare con la sopravvivenza degli individui (es. il disagio psicologico si
accompagna al pianto che produce le attenzioni del caregiver;
• La funzione comunicativa è evidente negli scambi interpersonali e interpersonali (es. il bambino in
situazioni di pericolo utilizza delle espressioni che possano comunicare qualcosa alla madre);
• Le emozioni hanno la funzione di informare circa il raggiungimento di desideri e scopi.
La prospettiva funzionalista sottolinea che con lo sviluppo cognitivo e con l’esperienza sociale compaiono
nuove emozioni che attestano il maturare della valutazione degli eventi in relazione agli obiettivi.
Sviluppo della competenza socioemotiva. L’attenzione degli studiosi si è spostata dall’origine delle emozioni
al loro ruolo nella vita quotidiana. Le macroaree tenute in considerazione sono 3:
~ Lo sviluppo dell’espressione delle emozioni;
~ Lo sviluppo della regolazione delle emozioni;
~ Lo sviluppo della comprensione delle emozioni.
1. Sviluppo dell’espressione delle emozioni. L’espressione delle emozioni avviene attraverso diversi canali
comunicativi e segnali, prima non verbali, poi anche verbali. Le fasi sono:
1. I fase: risposte di tipo riflesso e regolate da processi biologici; caratteristiche di questa fase sono: la
comparsa del sorriso endogeno, dell’interesse, di sconforto e, per Izard, di disgusto.
2. II fase: (2 mesi-1 anni), compaiono comportamenti espressivi non intenzionali che, durante la crescita
diventano intenzionali. In questo periodo compaiono: sorriso sociale, la sorpresa, la rabbia, la
tristezza (3 mese), la gioia (4 mese), paura (5 mese), vergogna (tra 4 e 9 mese);
3. III fase: (2-3 anni), compaiono le espressioni complesse come la vergogna, l’imbarazzo e la colpa. Dal
15 mesi anche il disprezzo e successivamente le emozioni miste.
2. Sviluppo della regolazione delle emozioni. Per Thompson la regolazione delle emozioni è l’insieme di
processi coinvolti nel monitoraggio, valutazione e modifica delle risposte emotive, soprattutto rispetto
alla loro intensità e durata. Le fasi sono:
1. I fase: (0-1 anno), si osservano azioni autoregolatorie come la suzione del pollice per calmarsi o
distogliere lo sguardo da uno stimolo eccitante;
2. II fase: (1-3 anni), il bambino esplora l’ambiente e consolida le relazioni di attaccamento intra ed
extrafamiliari; iniziano ad usare il gioco simbolico e di finzione per dare un senso alle esperienze
intense;
3. III fase: (3-5 anni), sviluppo della teoria della mente ovvero l’abilità di assumere la prospettiva
dell’altro; il bambino è in grado di gestire le proprie emozioni durante il gioco e riesce ad alleviare la
tristezza dei compagni.
4. IV fase: (dopo i 5/6 anni), si accrescono le abilità di autoregolazione e vengono utilizzare varie
strategie di regolazione emotiva, ad esempio, non pensando alle forti di sofferenza o mentalizzando
le esperienze emotive in corso.
5. V fase: dall’adolescenza, durante la quale le esperienze emotive sono più intense. Le strategie
riguardano funzioni interne (ripensare agli obiettivi), interne disfunzionali (autopunirsi), esterne
funzionali (parlare con qualcuno dei propri stati d’animo), esterne disfunzionali (cercare di fare male
agli altri). Il compito in questa fase è appropriarsi di modalità regolatorie flessibili e congruenti con
l’ambiente.
3. Sviluppo della comprensione delle emozioni. La teoria di Izard è particolarmente interessante perché
riconosce le componenti innate e introduce al concetto del riconoscimento delle emozioni. Parlare di
sviluppo emotivo, infatti, non significa solo individuare come si sviluppano le emozioni o come si
esprimono ma come si riconoscono; il riconoscimento delle espressioni facciali è universale, è innato:
tutti soggetti, indipendentemente dal contesto, attribuiscono le stesse emozioni alle stesse espressioni
facciali.
→ La comprensione delle emozioni altrui è molto precoce per quanto riguarda la tristezza, la gioia e la
rabbia, infatti già nei primi mesi di vita il bambino è particolarmente attento all’espressione del volto,
agli aspetti prosodici (intonazione della voce), ai gesti, ed è caratterizzato dal sorriso endogeno. Ad
esempio, i bambini all’inizio sono contenti, rilassati se percepiscono una rilassatezza da parte dell’adulto;
se quest’ultimo si mostra arrabbiato, il bambino si immobilizza, perché riconosce il suo stato emotivo.
→ A partire dai 2 mesi i comportamenti espressivi non intenzionali diventano via via sempre più intenzionali,
infatti si inizia a instaurare un vero e proprio dialogo emotivo tra bambino e caregivers. Il piccolo in
questo periodo comincia a manifestare il sorriso sociale;
→ A partire dagli 8 mesi sarà in grado di interpretare le emozioni di incoraggiamento o di ansia delle madri;
→ A 12 mesi sarà in grado di interpretare correttamente le espressioni emotive ma anche quelle che la
madre volge ad oggetti terzi;
→ Dai 12 mesi, il bambino sviluppa la competenza emotiva, quindi la capacità di comprendere le proprie e
altrui emozioni, di regolarle e di utilizzarle in modo adeguato nei processi cognitivi e negli scambi sociali;
per esempio il bambino interviene per confortare la madre se la vede triste, quindi non solo riconosce lo
stato emotivo, ma subentra anche l’impulso all’azione (si pensa che in questo processo abbiano un
importante ruolo i neuroni specchio).
N.B. Se nei primi due anni non si vengono a creare sintonia tra il caregivers e il bambino, comprensione
reciproca dello stato emotivo, capacità di inviare i propri bisogni e dall'altro lato capacità della madre di
decodificarli, riconoscimento dello stato emotivo, teoria della mente, reciprocità, ecc. è chiaro che vi possano
essere delle problematiche.
→ Dai 3 ai 6 anni il bambino è in grado di produrre delle proprie emozioni soggettive agli stimoli; una stessa
situazione può risultare piacevole per un bambino e spiacevole per un altro. I bambini passo dopo passo
capiscono che uno stesso stimolo può provocare reazioni differenti, per cui magari prima provano paura
di fronte a un peluche, e poi ci giocano. Nel corso dello sviluppo il bambino capisce inoltre che possono
coesistere più emozioni contemporaneamente, quindi il repertorio emotivo diventa sempre più ampio.
→ Subentra dunque la conoscenza o comprensione delle emozioni, un costrutto multi-componenziale
che si riferisce sia alla conoscenza da parte dei bambini della natura e delle cause delle emozioni sia
alla consapevolezza di potere esercitare un controllo sull’espressione delle emozioni e sui vissuti
emotivi. Questo controllo permette di modificare volontariamente l'espressione delle emozioni.
Questemodificazioni, generate dalle convenzioni sociali, sono chiamate regole di esibizione e
consentono al soggetto di apparire adeguato al contesto, sotto il profilo emotivo. La capacità di
mascherare i pattern espressivi facciali comincia a due anni e con più sicurezza a 3 e 4 anni.
Emotions course. L'Emotions Course si compone di venti unità didattiche che includono una breve
descrizione dello sfondo teorico e degli obiettivi formativi e sono suddivise in 2-5 sezioni, ciascuna delle quali
illustra alcune proposte di gioco e di lavoro da realizzare insieme ai bambini. La proposta formativa focalizza
l'attenzione sulle emozioni di gioia, tristezza, rabbia e paura. Favorisce una maggiore consapevolezza anche
in relazione ad altre emozioni, quali l'interesse, il disprezzo e la vergogna. Questi tipi di lavori vengono fatti
per capire se il bambino è in grado di attuare il riconoscimento delle emozioni e si possono fare a partire dai
4-5 anni quando il bambino è in grado di riconoscere l'altrui punto di vista.
Ex. I bambini con disturbi hanno bisogno di punti di riferimento, come ad esempio cartelloni con elenchi delle
attività affiancati da immagini che descrivono l'attività stessa. Il bambino con BES non dirà in maniera diretta
cosa pensa o cosa prova, ma gli vengono poste delle domande e a poco a poco comincerà a discernere il
proprio stato emotivo, ad esempio gli verranno presentate una serie di smiles attraverso cui possa indicare
il modo in cui si sente.
METACOGNIZIONE p.188ps. dell'edu
ZIMMERMAN
Zimmerman parte dal lavoro fatto da Bandura, il quale ha incorporato l’autoregolazione nella sua teoria
cognitiva sociale del comportamento umano. Egli considera l’autoregolazione come il processo che consente
di dirigere e di motivare se stessi mediante obiettivi e incentivi interni, restando autonomi rispetto a ogni
fattore esterno. Quando gli scopi includono l’apprendimento si parla di “apprendimento autoregolato”.
Oltre Ausubel (“apprendimento significativo”), un autore ancora più attuale che ha aperto una voragine
particolarmente significativa nell'ambito della psicologia dell'educazione è Zimmerman, il quale, per primo,
ha parlato di apprendimento autoregolato, il precesso per cui gli studenti attivano e sostengono cognizioni
e comportamenti sistematicamente orientati al raggiungimento dei loro obiettivi di apprendimento.
Questo può essere considerato in duplice modo:
1. In modo cognitivo rappresenta le funzioni esecutive superiori.
2. In modo prettamente motivazionale.
Metacognizione. Prima degli anni ‘80 non si parlava molto di motivazione, è a partire dall'avvento della meta-
cognition (la conoscenza dei propri processi di pensiero), alla fine degli anni ‘70 e inizio ‘80 che si comincia
a parlare di apprendimento strategico, cioè tutti quei processi strategici che connotano il percorso di
apprendimento, quali il planning, la pianificazione, il monitoraggio, l'autovalutazione, quindi tutte quelle
strategie cognitive che il soggetto attiva per ottimizzare il proprio percorso apprenditivo.
Stile cognitivo. Con la meta-cognition, in particolare, viene introdotto un concetto chiave, lo ''stile cognitivo''.
Lo stile cognitivo è la specifica modalità di elaborazione delle informazioni, quello stile che tendenzialmente
caratterizza ogni individuo quando deve risolvere una situazione problematica.
Es: un bambino si trova ad affrontare per la prima volta una situazione di problem-solving nuova, quale la
ricostruzione di un puzzle. Al bambino vengono dati dei pezzi con uno spessore adeguato alla sua età.
Ogni bambino, tendenzialmente, adotterà uno stile cognitivo diverso.
Quale strategia adotteranno? Si può partire dalla cornice e procedere con il riempimento di questa; oppure
potrebbe, viceversa, partire dal centro che a poco a poco si espande a macchia d'olio. Alcuni bambini
potrebbero utilizzare un altro tipo di strategia, cioè mettere insieme i pezzetti dello stesso colore,
assemblandoli e poi cercando di formattare il tutto.
Quindi, ognuno avrà uno stile diverso nell’approcciarsi ad una situazione nuova che lo caratterizza.
FLAVELL
Flavell, sulla scia di questi studi della meta-cognition, ha distinto diversi tipi di deficit in un soggetto con
difficoltà:
- deficit di mediazione: il bambino padroneggia un ampio ventaglio di strategie e di stili cognitivi, ma non
riconosce la situazione di applicabilità di una specifica strategia. Quindi, deve essere aiutato a sviluppare
sensibilità verso le caratteristiche della situazione problema, in modo da trovare la giusta e appropriata
strategia.
- deficit di produzione: il soggetto non riesce ad attivare delle strategie, non padroneggia bene un
proprio stile strategico. Il compito degli psicologi, nei training e nei progetti di potenziamento è quello
di aiutare il bambino a scoprire il proprio stile, quello che tendenzialmente lo caratterizza.
Tutti questi studi che rientrano nella cornice della meta-cognition rappresentano la premessa concettuale per
parlare di profilo motivazionale.
WEINER
Definizione di stile attributivo. Weiner afferma che: “la motivazione al successo sarebbe una disposizione
cognitiva motivazione al successo sarebbe una disposizione cognitiva più che affettiva; la tendenza ad
impegnarsi o meno dipenderebbe dalle convinzioni del soggetto circa le possibili cause del successo del
fallimento; ciò produrrebbe conseguenza sulla sfera cognitiva e su quella emotiva, che a loro volta,
orienterebbero la risposta ed il comportamento. La motivazione, dunque, dipenderebbe dalle spiegazioni
formulate in precedenti esperienze di successo o di insuccesso: la spinta motivazionale alla riuscita sarebbe
collegata ad un maggior riconoscimento di cause interne, in particolare l’impegno, e all’interpretazione dei
fallimenti come indicatori delle necessità di impegnarsi di più e in maniera più efficace; la motivazione ad
evitare il fallimento, di converso, sarebbe caratterizzata dalla presenza ad attribuire a fattori esterni e non
controllabili, come la fortuna o l’aiuto, e l’insuccesso alla mancanza di abilità”.
Lo stile attributivo. Dallo stile cognitivo, Weiner cominciò a parlare di locus of control e, in particolare, di stile
attributivo. Lo stile attributivo è la tendenza del soggetto ad attribuire la propria prestazione a differenti tipi
di causa.
Es: nello svolgere la costruzione di un lego, un soggetto riesce bene in questo compito. La prestazione che
attribuisce il soggetto può essere coronata o dal successo o dal fallimento.
Weiner, infatti, parla di locus of control, cioè il controllo che il soggetto ha nel gestire, nel monitorare e nel
controllare le proprie risorse cognitive. Alcune di queste cause dipendono dal soggetto, possono essere
controllate dal soggetto.
Modello di intelligenze multiple. Elabora il modello di intelligenze multiple. Non dà alcuna quantificazione o
misurazione, piuttosto spiega che ognuno elabora gli input in maniera diversa e distingue un costrutto di
intelligenze multiple; quindi non c'è un’unica intelligenza, ma ce ne sono diverse.
Inizialmente, il modello originario parla di ben 7 intelligenze:
- intelligenza matematica,
- musicale,
- linguistica,
- spaziale,
- interpersonale,
- intrapersonale,
- cinestetico (movimento)
Da 7 ne descrive, poi, altre tre:
- l'intelligenza naturalistica, cioè la capacità di individuare le caratteristiche di ogni specie e di mappare
relazioni tra le diverse specie;
- l'intelligenza spirituale, un'intelligenza di meditazione, autoriflessiva;
- l'intelligenza esistenziale, di ascesi, estremamente intimistica, è la capacità di interrogarsi sul fine ultimo
dell'esistenza umana.
L'elemento innovativo di Gardner è il fatto di considerare che ogni individuo può possedere una forma di
intelligenza diversa che non rientri in nessuna delle 10, ad esempio, qualcuno potrebbe presentare una
miscela, una forma di intelligenza diversa.
Quindi, una forma di intelligenza che non risulta in maniera specifica in nessuna delle 10 intelligenze che
Gardner ha descritto, ma che è data da una miscela di alcune in funzione del tipo specifico di compito.
Inoltre, Gardner, descrive otto criteri piuttosto rigidi: se anche una sola forma di intelligenza altra, innovativa,
risponda ad almeno tre di questi otto criteri, si può parlare di una nuova forma di intelligenza.
Il modello di Gardner non si chiama modello delle 10 intelligenze, ma modello dell'intelligenza multipla,
proprio perché non si tratta di un numero finito di intelligenze, ma di un numero potenzialmente infinito.
Infatti, ogni individuo, potrebbe presentare delle forme di intelligenza che non corrispondono alle dieci del
modello originale, tuttavia può comunque essere considerata una forma di intelligenza, a condizione che
sappia rispondere ad almeno tre criteri da lui descritti.
Innanzitutto, la nuova forma di intelligenza dev'essere tendenzialmente adottata, cioè che non deve essere
utilizzata in maniera temporanea, in maniera episodica, ma deve manifestarsi sempre; quindi, non deve avere
un carattere transitorio, ma durevole.
Es: se per la risoluzione di un compito si usa una particolare forma di intelligenza, ma non la si riutilizza mai
più, quella non sarà una forma di intelligenza propria del soggetto, ma un evento casuale.
Il modello di Gardner non dice cos’è l’intelligenza, ne spiega il funzionamento ma è importante in ambito
educativo, perché a partire da questo sono stati elaborati tantissimi programmi di potenziamento che
focalizzano l'attenzione sulle strategie di soluzione del compito, sulle diverse modalità di elaborazione delle
informazioni, ma non tesi alla quantificazione.
STENDBERG
Intelligenza triarchica. Il modello di Stendberg, seguente a quello di Gardner, è apparentemente ancora più
semplice, perché propone un’intelligenza triarchica. È un modello anch'esso descrittivo dell'intelligenza, ne
descrive il funzionamento cognitivo, non la quantificazione.
Nel modello di Stendberg l'intelligenza è composta da tre diverse dimensioni come se fosse un triangolo con
tre diversi angoli:
- uno analitico;
- uno creativo;
- uno pratico.
I diversi compiti possono essere risolti utilizzando solamente l'intelligenza di forma pratica o l'intelligenza di
forma analitica, o attraverso una compresenza di tutte e tre, le quali possono però essere diversamente
compresenti in tutti i soggetti.
Un bravo educatore potenzia tutte e tre le forme di intelligenza: pratica, creativa ed analitica.
Nel corso di un secolo si è passati dalla quantificazione, dalla misurazione, dall'approccio psicometrico e
quindi da un modello che dice ''quant'è'' a due modelli che descrivono, invece, l'intelligenza nell'ambito di
una cornice concettuale che è quella della metacognizione, sino ad arrivare ad un metodo rappresentativo
(Dweck).
CAROL DWECK
Carol Dweck (fine anni 90, 2000), che riprende il modello di Weiner, riesce ad associare e assemblare lo stile
attributivo e un modello d'intelligenza.
L'intelligenza è uno degli argomenti capisaldi della psicologia generale e della psicologia dello sviluppo.
Le prime scale d'intelligenza risalgono alla fine dell'800, quando nasce la psicologia come disciplina scientifica
a Lipsia, e venivano costruite per scopi bellici: per selezionare dei soggetti particolarmente validi, abili nello
svolgimento di specifiche missioni. Esistono diversi tipi di scale, ad esempio il fattore G, la scala di Binet-Simon
(quoziente intellettivo=età mentale/età anagrafica*100) , la Standford, la Wechler, la Wisc per i bambini;
queste, che possono essere ancora utilizzate, sono scale di livello, quindi danno una misurazione, una
quantificazione.
Alcune di queste scale risentivano enormemente dell'influenza della variabile socio-culturale: il QI correva il
rischio di corrispondere troppo al livello di cultura del soggetto.
Vianello, ad esempio, ha elaborato una scala culture free basandosi su prove piagetiane per i bambini.
→ Con l'avvento del Cognitivismo, Human information processing, si cominciò a considerare la mente
umana in termini computeristici, come se il funzionamento di questa potesse essere semplicemente
ridotto in termini meccanicistici a quello di una macchina di un computer. Tra i maggiori rappresentanti
troviamo Bruner che ad un certo punto, però, prende le distanze dal freddo oggettivismo della macchina,
proprio perché spiega come la metafora computeristica non possa appieno rendere conto
dell'elaborazione dell'informazione da parte del soggetto, il quale elabora le informazioni mettendo in
gioco altre dimensioni, quelle che riguardano la motivazione, l'interesse, l'attenzione, la concentrazione;
tutte dimensioni di cui il computer, che è una semplice elaborazione di input sotto forma di output uguali
per tutti gli individui, non può rendere conto.
Modello di rappresentazione dell’intelligenza. Carol Dweck riprende questi modelli innovativi di intelligenza
descrittivi, riprende lo stile attributivo, infatti negli anni in cui lei elabora il suo modello si comincia a parlare
in ambito psicoeducativo di stile attributivo, di locus of control; lei propone un modello di rappresentazione
d'intelligenza nuovo, il modello bipolare, dicotomico di rappresentazione dell'intelligenza: propone due
forme, una speculare all’altra.
ENTITA’ INCREMENTALE
L’intelligenza è rappresentata come un fluido,
L’intelligenza è rappresentata come un tratto fisso, una un’argilla sulla quale si può lavorare per ottimizzarla,
dote geneticamente determinata. quindi come un qualcosa di incrementabile e
potenzialmente aumentabile.
È immutabile Può assumere qualsiasi forma.
Il fallimento è percepito come mancanza di abilità. Il fallimento viene percepito come richiesta per
aumentare lo sforzo, dunque bisogna mettere più
impegno.
Il fallimento è predittore di tutti gli altri insuccessi. Se il fallimento è inteso come una sfida, se aumenta
non si è riusciti una volta, non si riuscirà mai. l’impegno si può raggiungere lo scopo.
Abilità e impegno non sono correlati, all’aumentare di Abilità e impegno sono correlati, se aumenta
uno non aumenta l’altro. l’impegno aumenta anche l’abilità.
Quindi sono inversamente proporzionali. Quindi sono direttamente proporzionali.
Il soggetto avrà aspettative basse e scarsa autostima. Il soggetto avrà una percezione positiva delle proprie
capacità.
Attribuisce il successo a fattori esterni e l’insuccesso a Attribuisce il successo a fattori interni e l’insuccesso a
fattori esterni. fattori esterni.
Orienta a proseguire obbiettivi di prestazione, quindi orienta a seguire obbiettivi di padronanza, volti al
al minimo indispensabile delle proprie capacità. sapere di più e all’imparare.
Un soggetto con una rappresentazione di forma prevalentemente entitaria, che stile attributivo avrà?
Un soggetto entitario attribuirà il proprio successo alla fortuna e gli insuccessi all’incapacità di saperlo fare,
ha un profilo motivazionale talmente debole che, per spiegare il successo, farà riferimento a fattori esterni
che non può controllare o gestire; il fallimento lo spiegherà in termini di mancanza di abilità.
Con il modello bipolare si descrivono i poli estremi, ma è difficile trovare un soggetto che corrisponda
pienamente a tutti questi criteri; tra l’atro, si potrebbe avere una rappresentazione di tipo incrementale in
particolare ambito, e adottarne una di tipo entitario nell’altro.
Se si ha un’immagine di sé altamente positiva, con un solido profilo motivazionale, il fatto di non riuscire in
un particolare campo non pregiudica l’immagine positiva che si ha nelle capacità di riuscita.
Helpless e mastery-oriented. Il modello di Carol Dweck è particolarmente interessante perché descrive dei
pattern comportamentali che si associano alle due forme di rappresentazione dell’intelligenza. Questi pattern
sono:
- il pattern comportamentale della rappresentazione entitaria è quello definito helpless; un soggetto che
ha un pattern comportamentale di tipo helpless crede che la propria intelligenza sia geneticamente
determinata, non può fare nulla per aumentarla, è inutile impegnarsi o sforzarsi perché non crede di
poter dare di più. Tali soggetti non credono nelle loro capacità.
- il pattern comportamentale della rappresentazione incrementale è mastery-oriented, orientato alla
prestazione. Si tratta di soggetti che credono nelle proprie capacità di riuscita, nell’impegno come chiave
per aumentare l’abilità.
I soggetti puri possono essere identificati dalla rigidità, che si esplicita nel modo in cui si affrontano le sfide.
L’helpless, abituato a fallire, si è abituato alla sua condizione di insuccesso.
Dunque, per individuare l’helpless, bisogna metterlo davanti a compiti diversi, che riesce a risolvere, e
vedere come reagisce al successo, registrandone le reazioni.
→ Self-handicapping. Un soggetto che incontra enormi difficoltà nel gestire le inevitabili frustrazioni a cui la
vita lo sottopone, con l’esordio dell’adolescenza -periodo particolarmente complesso dello sviluppo-,
quando incontrerà delle situazioni che mettono a rischio la sua autostima, non riuscirà a gestire la
frustrazione.
Il soggetto helpless puro, che apparentemente sembra essere quello più a rischio, in realtà è talmente
abituato a fallire che si è adattato a quest’immagine si sé da perdente, tanto da mettere in atto le
cosiddette strategie “self-handicapping”, di auto-sabotaggio. Agisce quasi come se non volesse illudersi
e non volesse illudere gli altri, non vuole avere delle aspettative su di sé, il successo lo toglierebbe dalla
sua zona comfort, infatti sarebbe ancora più pesante tornare a fallire dopo aver sperimentato il successo.
Con l’helpless lo psicologo deve destrutturare un’immagine da perdente, gli deve fare credere nell’impegno,
la chiave per alterare questo circolo vizioso e trasformarlo in un circolo virtuoso. Dunque, non bisogna parlare
in termini di abilità ma di impegno.
Individuare un mastery puro è ancora più complesso, bisogna far sì che il soggetto sperimenti il fallimento
e vedere come reagisce.
Come si fa fallire un mastery? Bisogna proporre compiti irrisolvibili.
Il mastery puro come risponde dinnanzi all’insuccesso? Non mette in discussione la propria capacità e
attribuisce l’insuccesso a fattori esterni.
Es: un bambino mastery puro che non tollera la frustrazione, quando non riesce a risolvere il compito,
strappa il foglio o dà la colpa alla maestra.
→ Mastery-attenueted. In realtà la maggior parte dei soggetti, per fortuna, oscilla in questo continum
temporale, tanto che si parla di “mastery-attenueted” cioè delle forme sfumate, più sfocate.
Tuttavia, esistono anche i così detti “casi puri”, casi puri di helpless e mastery-oriented, sebbene siano
più difficili da individuare.
Il Mastery, non tollerando la frustrazione da fallimento, è probabilmente è quello più a rischio: è troppo
abituato al successo, quindi a poco a poco bisogna fargli sperimentare situazioni di insuccessi e fargli acquisire
familiarità con uno stile attributivo esterno; infatti, non sempre l’insuccesso dipende dall’ impegno, spesso
intervengono anche fattori esterni, come la fortuna. Il mastery ha un atteggiamento di autodifesa.
Il modello della Dweck è un modello che spiega come ci si rappresenta l’intelligenza, non solo la propria ma
anche quella degli altri. In particolare, è molto importante per i bambini avere un feedback dai genitori, i quali
li devono aiutare nella costruzione di un sé motivazionale corretto.
Es: se a fallire è un adulto, questo non si reputerà un fallito, come invece farebbe un bambino, ma dimostrerà
di essere preparata e motivata per fare meglio.
Per il bambino, l’avvertire che l’altro ha una rappresentazione del suo potenziale cognitivo come entitario è
molto più dannoso per la strutturazione di un suo sé personale, perché è un sé che si sta ancora costruendo,
quindi è fondamentale il feedback positivo che riceve dagli altri.
Lo stile attributivo è la cornice che la Dweck riprende, prima infatti lavorava esclusivamente sullo stile
attributivo, grazie al quale riuscì ad elaborare il modello di rappresentazione dell’intelligenza.
IL PROFILO MOTIVAZIONALE
Dalle lezioni precedenti…
Il rischio delle scale di intelligenza era quello di far coincidere il quoziente intellettivo con il livello culturale,
dunque, il livello di prestazione basato sulla comprensione verbale era quello di essere troppo inquinato dalla
variabile socio-culturale. Con il cognitivismo i ricercatori si sono discostati dall’approccio quantitativo volto
alla misurazione e hanno preso in considerazioni altre variabili, tanto da parlare di elaborazione,
processazione dell’informazione. Negli anni 80, con la metacognizione, sono stati sono stati presi in causa gli
stili cognitivi, cioè la specifica modalità di elaborazione dell’informazione.
Questi modelli hanno rappresentato la cornice per introdurre i due modelli descrittivi di intelligenza che non
ci dicono quant’è l’intelligenza ma come funziona:
→ Il modello di Gardner:
→ Il modello di Stenberg
Il modello di Carol Dweck va ancora oltre perché dal come funziona, ci dice come ce la rappresentiamo,
riprendendo in maniera più sofisticata: il costrutto di apprendimento autoregolato, lo stile attributivo di
Weiner, gli stili cognitivi e, soprattutto, propone stili comportamentali (pattern comportamentali).
La motivazione scolastica. La motivazione è uno stato interiore che attiva, dirige e mantiene il
comportamento. Per comprendere la motivazione bisogna pensare ad una sorta di onda, che spinge la barca
a vela definendone l’intensità; dunque, la motivazione non è un’entità statica ma è un processo che ci spinge
verso il raggiungimento di un obiettivo o meta. Il termine “processo” indica movimento, dinamismo, fluidità;
si tratta di un costrutto multidimensionale, multilivello in quanto c’è un flusso direzionale tra gli aspetti:
▪ Relazionali;
▪ Didattici;
▪ Psicologici;
▪ Metacognitivi (strategie messe in atto per ottimizzare il percorso apprenditivo);
▪ Cognitivi (l’attenzione, la memoria, la concentrazione);
▪ Emotivi.
Le professoresse De Beni e Moè hanno scritto due manuali, in collaborazione con Carol Dweck, che seguono
strumenti di valutazione attributivo introducendo, al modello di Weiner, una quinta causa:
• Mobilità;
• Impegno;
• Grado di difficoltà del compito;
• Fortuna;
• Aiuto esterno.
Le autrici definiscono la motivazione come un insieme organizzato di esperienze soggettive che consentono
di spiegare l’inizio, la direzione, l’intensità e la persistenza di un determinato comportamento finalizzato ad
un obiettivo.
Motivazione estrinseca e intrinseca. Una delle distinzioni classiche riportate in letteratura è quella riportata
tra: motivazione estrinseca e motivazione intrinseca.
→ Motivazione estrinseca: fa riferimento alle lodi, all’apprezzamento, alla ricerca di un’approvazione
sociale; si associa ad emozioni negative, scarsi risultati e strategie di adattamento non adattive.
→ Motivazione intrinseca: è la motivazione che il soggetto prende da sé, la soddisfazione, il piacere di
sentirsi abile; la tendenza umana a cercare, trovare e superare le sfide.
Questi due concetti si oppongono a quella che è la demotivazione, la mancanza di una qualunque intenzione
di agire.
→ Obiettivo orientato alla prestazione: Il soggetto con una rappresentazione dell’intelligenza di tipo
prevalentemente identitario, tende a seguire un obiettivo orientato alla prestazione, cioè lo scopo è
quello di ottenere giudizi favorevoli o evitare giudizi negativi sulle proprie competenze;
→ Obiettivo orientato alla padronanza: Il soggetto che ha una rappresentazione di sé di tipo incrementale
e rappresenta la sua intelligenza come un qualcosa di dinamico e potenziabile tende ad orientarsi verso
obiettivi di padronanza, imparare per sé, per ampliare le sue conoscenze che diventeranno competenze;
si tratta dell’intenzione personale a migliorare abilità e apprendimento, indipendentemente da quando
ne risenta la prestazione.
→ Obiettivo sociale: consiste nell’ottenere un riconoscimento per poter essere membro attivo di un gruppo
(audience sociale).
→ Teoria del rinforzo. Si colloca nel periodo del neo-comportamentismo di cui uno dei maggiori esponenti
è stato Skinner e si basa sull’idea del condizionamento operante e sugli aspetti estrinseci della
motivazione: un soggetto è portato ad impegnarsi in un compito o in un’attività se tale comportamento
è stato premiato con un rinforzo positivo (con lodi, buoni voti, approvazione sociale) o al contrario se un
comportamento alternativo è stato punito con rinforzo negativo (con un rimprovero o disapprovazione).
Questa teoria, però, convertita nel contesto della psicologia dell’educazione, corre il rischio di
minimizzare la componente intrinseca perché troppo focalizzata sullo stimolo esterno.
Un rinforzo può essere demotivante se: non pone al centro l’impegno dell’alunno, non viene dato a tutti
indistintamente, vengono fatti paragoni con i compagni più bravi. La teoria del rinforzo è stata oggetto
di critiche poiché i rinforzi possono attivare un effetto boomerang, abbassando ulteriormente la volontà
di impegnarsi. Dunque, la teoria del rinforzo, correva il rischio di essere demotivante.
→ Teoria della motivazione intrinseca. Si colloca sullo sfondo del cognitivismo e gli studiosi affermano che
l’individuo è naturalmente disposto ad impegnarsi nell’apprendimento. La motivazione ntrinseca
nascerebbe da due bisogni primari:
▪ Il bisogno di conoscenza inteso come curiosità epistemica (come dice Berlyne), cioè il desiderio
di sapere. Questo bisogno spingerebbe già il bambino a voler conoscere il mondo intorno a lui.
▪ Il bisogno di successo inteso come capacità di padroneggiare e controllare l’ambiente, sentirsi
competenti ed efficaci.
La correlazione tra curiosità epistemica e il bisogno di conoscere per padroneggiare l’ambiente chiama in
causa Piaget, che aveva definito l’intelligenza come la forma superiore di adattamento all’ambiente; dunque,
sapere è fondamentale per padroneggiare l’ambiente.
I due bisogni danno origine all’effectance, cioè il bisogno di sentirsi competenti ed efficaci e il bisogno di
acquisire controllo sugli eventi. Un bisogno presente fin dalla nascita.
→ Teoria degli obiettivi di riuscita. Le prime due teorie con il tempo si coniugano: se i primi
comportamentisti basavano i loro studi sul comportamento osservabile, empatizzando il ruolo della
motivazione estrinseca, con i cognitivisti l’attenzione si sposta sempre di più sulla motivazione intrinseca,
parlando di una curiosità epistemica insita nell’uomo, a poco a poco si parla di motivazione al successo.
I teorici della motivazione alla riuscita sostengono che la spinta ad apprendere sia originata non tanto
dalla curiosità o dall’interesse per un determinato argomento o attività ma piuttosto dal desiderio di
ottenere un successo personale, inteso non come prestigio sociale o successo economico, ma come
realizzazione di standard personali di alto livello.
Di motivazione alla riuscita ne parla Atkinson negli anni 80, il quale la descrive come la risultante di due
tendenze opposte, entrambe presenti in un soggetto che si trova ad affrontare un’attività:
▪ Tendenza al successo o speranza di riuscita: tendenza a confrontarsi con compiti sempre più difficili,
accompagnati da emozioni positive, e viverli come compiti sfidanti, in quanto mobilitano energie
cognitive e spingono il soggetto ad impegnarsi, a concentrarsi;
▪ Tendenza ad evitare il fallimento o paura dell’insuccesso: tendenza a scegliere compiti facili,
accompagnata da emozioni negative, spinge il soggetto a percepirsi come inadeguato.
Es. vi sono due bambini: uno prende 6 nel compito ed è molto contento, l’altro prende 6 ed è sconfortato;
uno stesso voto può innescare delle risposte diverse in soggetti diversi in funzione di un profilo motivazionale
diverso. Possiamo dedurre che nella motivazione giocano un ruolo importante sia le aspettative del singolo,
sia le esperienze personali di successo e insuccesso. Il giudizio per cui una prestazione è ritenuta un successo
è soggettivo. Questo esempio dei due bambini che prendono lo stesso voto può costituire un successo per
uno studente che ha basse aspettative o un fallimento per chi è abituato ad avere successo.
Vi è un vero e proprio filone di studi, tra la relazione tra l’apprendimento scolastico e l’attività motoria; perché
le abilità sottese, una buona prestazione nell’uno e nell’altro campo, sono proprio le stesse: memoria,
attenzione, concentrazione, dosaggio delle proprie energie, tutto indirizzato nei confronti di un obiettivo.
→ Teoria degli obiettivi come apprendimento. La psicologa Carol Dweck ripropone, partendo dalla teoria
di Skinner che parlava di motivazione estrinseca, distingue le due forme di rappresentazione
dell’intelligenza:
OBIETTIVI PRESENTATI ALLA PRESTAZIONE OBIETTIVI ORIENTATI ALL’APPRENDIMENTO O ALLA
O ORIENTATI AL SE’ PADRONANZA O AL COMPITO
▪ Studia per ottenere giudizi ▪ Studia per apprendere
▪ Vede gli insegnati come valutatori ▪ Vede gli insegnanti come guida
Qui possiamo vedere come i due profili sono bipolari e dicotomici. Quindi vi è una diversa predisposizione
nei confronti del compito; uno ha un approccio emotivo più positivo, di entusiasmo, l’altro invece è
fortemente demotivato, con un approccio emotivo più negativo.
Chiaramente, si viene a creare una sorta di circolo vizioso e noi dobbiamo, come psicologi, intervenire per
convertirlo in circolo virtuoso.
Ecco rappresentate in questo schema le due rappresentazioni dell’intelligenza:
Entità (HELPLESS) Incrementale (MASTERY)
▪ L’intelligenza è una dote, tratto fisso ▪ L’intelligenza è un processo fluido e dinamico,
geneticamente determinato potenziale e incrementale
▪ Il fallimento è conferma della mancanza di ▪ Il fallimento è una richiesta per aumentare lo
abilità sforzo
▪ Stile attribuito esterno ▪ Stile attributivo interno
STILI MOTIVAZIONALI
Stili motivazionali. Il modello di Carol Dweck:
ripropone gli stili attributivi di Weiner;
riprende quindi tutti i costrutti motivazionali in forma ancora più aggiornata;
riprende gli stili cognitivi, cioè la specifica modalità di elaborazione delle informazioni;
distingue diversi stili motivazionali in relazione ai due pattern comportamentali.
Questo modello è stato descritto in forma bipolare, il soggetto abile e con una buona autostima è quello che
padroneggia tutto che ha un profilo di stili motivazionali poiché un individuo non ha sempre uno stile
ottimistico o sempre pessimistico, ma varia il suo stile in funzione de tipo di compito.
Se è tanto più abile, ha un profilo motivazionale tanto più forte, tanto più strutturato, tanto più riesce ad
equilibrare e bilanciare l'adozione di diversi stili. Ma lo stile è quello che tendenzialmente ci caratterizza.
I due profili comportamentali hanno delle diverse reazioni davanti al fallimento:
→ Da una parte c’è chi si demotiva perché non crede di avere le capacità per farcela, pensa che non le avrà
mai. Sentono che la propria intelligenza è commisurata al voto ottenuto e non sviluppano mai un senso
di autoefficacia. Quindi non si impegna, perché pensa che sarebbe inutile (concezione innatista).
→ Dall’altra c’è il soggetto che prende consapevolezza del fallimento e rivede le strategie utilizzate che non
hanno funzionato in quanto ritiene di potercela fare e, quindi, aumenta la spinta motivazionale
(concezione costruttivista)
Rapporto circolare tra le dimensioni.
Più volte si è parlato di circolo vizioso e questo vuol
dire: insuccesso, senso di autoefficacia basso,
motivazione
scarsamente motivato, non si impegna (perché
crede di non farcela e che non ce la farà mai) quindi
mina ulteriormente le probabilità di ottenere un
successo.
Abilità Stili
Stili di apprendimento. I diversi stili possono essere descritti proprio in forma dicotomica, come se l’uno
corrispondesse esattamente all’opposto. Ma va sempre ricordato che: tanto più un soggetto è abile, tanto
più ne padroneggia, è versatile, ampio e flessibile.
→ Indipendente dal campo/dipendente;
→ Globale/analitico;
→ Verbale/visuale;
→ Convergente/divergente;
→ Sistematico/intuitivo;
→ Impulsivo/riflessivo;
→ Risolutore/assimilatore
GLOBALE ANALITICO
Chi adotta questo stile parte dall’insieme generale Chi adotta questo stile preferisce partire dai dettagli
per poi ricercare e rintracciare i singoli dettagli. per poi ricostruire man mano il quadro generale.
Es: prima di iniziare a studiare cerco di costruire un (dal dettaglio per poi mettere insieme tutti i dettagli
quadro d’insieme degli argomenti in un tutt’uno organico e coerente).
Es: quando studio prima imparo i concetti singoli e
solo dopo li collego in un quadro generale
VERBALE VISUALE
Che adotta questo stile verbale predilige l'uso del Chi adotta questo stile predilige l'uso del codice
codice linguistico, ossia testi, mappe, diagrammi, visuospaziale, ossia immagini, statiche e in
riassunti, registrazioni sonore ed impara per lettura movimento, schemi riassuntivi, diagrammi e
e ripetizione. tabelle.
Es: studio ripetendo ad alta voce il testo Es: gli schemi, i grafici o le tabelle riassuntive mi
aiutano a capire meglio quanto spiegato nel testo
CONVERGENTE DIVERGENTE
Chi adotta questo stile parte dalle informazioni Chi adotta questo stile parte dall’informazione a
disponibili per convergere verso una soluzione disposizione per procedere in modo creativo
unica al problema. generando una varietà di risposte o soluzioni
Es: quando studio cerco di imparare solo ciò che è originali e flessibili.
indispensabile ad ottenere un buon voto all'esame Es: quando studio cerco di approfondire gli
argomenti per arricchire la mia cultura personale
SISTEMATICO INTUITIVO
Chi adotta questo stile cerca soluzioni prendendo in Chi adotta questo stile procede per singole ipotesi
considerazione una variabile per volta e cercandone che cerca di confermare o confutare.
tutte le possibili connessioni col sistema di Es: quando studio mi piace fare ipotesi personali,
conoscenze già in proprio possesso. cercando di intuire il seguito del brano e vedere se
Es: quando studio vorrei avere sempre a va proprio a finire così
disposizione dei testi che mi spiegano per filo e per
segno tutto ciò che è necessario sapere nelle varie
situazioni
IMPULSIVO RIFLESSIVO
Chi adotta questo stile abbassa i tempi decisionali e Chi adotta questo stile risponde in modo lento, ma
generalmente maggiore tendenza a soluzioni accurato.
precipitose e non ottimali. Es: prima di iniziare a studiare pianifico
Es: studio quando capita, nei ritagli di tempo o accuratamente tutte le fasi
quando so che c'è un esame
RISOLUTORE ASSIMILATORE
Chi adotta questo stile tende a privilegiare l'azione Chi adotta questo stile privilegia la ricerca di
e la concretezza nell’affrontare un problema soluzioni esaustive e articolate, non
cercando di ottenere soluzioni soddisfacenti con il necessariamente di utilità pratica e non limitate alla
minimo dispendio di tempo e risorse. necessità contingente.
Es: quando studio cerco di trovare un testo il più Es: quando studio cerco sempre di confrontare le
possibile chiaro e sintetico per imparare i concetti posizioni di più autore rispetto ad un determinato
necessari problema
Ha l’obiettivo di prestazione Ha obiettivo di padronanza
Tra i due stili opposti esiste un continuum in cui la modalità di elaborazione di ciascuno può collocarsi in base
al diverso compito. Non esiste uno stile migliore o più funzionale rispetto all’altro, ognuno ne adotta uno
tendenzialmente, ma è chiaro che più strategico sei, tanto più riesci ad adottare lo stile più consono a quello
specifico tipo di compito.
Variabili che influiscono sull’uso degli stili di apprendimento.
Sesso;
Età;
Personalità;
Cultura di appartenenza;
Stili educativi dei genitori;
scuola
SVILUPPO PSICOLOGICO E “NUOVE” p.269 psi
DIPENDENZE SENZA SOSTANZE .svilup e
educaz.
New addiction. Con “new addiction” intendiamo le “nuove dipendenze”. Quando prima si parlava di
dipendenza, non si parlava di età evolutiva ma prevalentemente di adulti, di adolescenza, in quanto fase
critica ai compiti evolutivi e si parlava di sostanze; oggi invece parliamo di new addiction, cioè le nuove forme
di dipendenza.
Qual è la differenza fondamentale tra queste nuove forme di dipendenza e quelle del passato, cioè le
dipendenze da sostanza?
Queste nuove dipendenze in che cosa si caratterizzano?
Qual è la caratteristica fondamentale per cui si possa parlare di new addiction6?
Non è una dipendenza da sostanza come alcol-dipendenza o tossicodipendenza, ma è una dipendenza da
comportamenti; e queste dipendenze apparentemente meno pericolose, in realtà sono ancora più subdole
perché sono sempre più precoci (quindi a noi interessano molto perché vanno ad interessare già l’età
evolutiva) e viene meno quella parvenza di pericolosità che caratterizzava le vecchie dipendenze.
Possiamo distinguere:
dipendenza da sostanza (alcol, droga) apparentemente più pericolosa;
dipendenza da comportamento (internet, gioco d’azzardo, vigoressia).
La dipendenza da internet parte dalla rivoluzione tecnologica che vede la società pervasa dalle nuove
possibilità di comunicazione digitale, che possono condurre l’individuo alla ricerca continua del bisogno di
connettersi per non perdersi. Anche la vigoressia è connesso a questo in quanto la continua ricerca di un fisico
perfetto può nascere dalle influenze mediatiche e socioculturali che propinano attraverso i media.
Dipendenza: si può instaurare non soltanto verso una sostanza (dipendenza da alcool o droghe) ma anche
verso un comportamento (ovvero la dipendenza da Internet o Internet addiction, gioco d’azzardo, vigoressia
ed ossessione per il fisico perfetto), che a lungo andare può invalidare le normali attività dell’individuo.
Addiction comportamentali – “nuove dipendenze”: agevolate dallo sviluppo della società che, se da un lato
conduce al progresso, dall’altro può generare sentimenti di vuoto e noia e, di conseguenza, stimolare la
propensione alla gratificazione istantanea, mediante appunto la creazione di “nuovi bisogni” e di “nuovi mezzi”
adatti per soddisfarli.
La dipendenza (addiction) non è solamente nei confronti di alcune sostanze, ad esempio la dipendenza
dall’alcol, che negli ultimi decenni era diventata quella più diffusa tra i giovani. Adesso parliamo invece di
dipendenze da comportamenti, come la dipendenza da Internet, gioco d’azzardo, vigorossia (dipendenza da
una certa immagine di sé riflessa, caratterizzata quindi dal bisogno di guardarsi costantemente allo specchio).
Quando un comportamento diventa disfunzionale? Quando ci si rifiuta di svolgere la propria vita relazionale
pur di stare ad allenarsi per poi guardarsi allo specchio e trarre da questa immagine riflessa la fonte di
gratificazione; non è, invece, disfunzionale ad esempio il fatto che i primi di maggio guardandosi allo specchio
si pensi di perdere qualche chilo in previsione dell’estate. Un comportamento si definisce disfunzionale
quando diventa un pensiero ossessivo tale da limitare tutta la sfera degli interessi, tutta la sfera relazionale.
Le nuove forme di dipendenza vengono, in qualche modo, più socialmente accettate e legittimate, in quanto
viene meno quella parvenza di pericolosità che accompagna le dipendenze da sostanza, ma sono egualmente
dannose ed invasive.
→ Differenze: le nuove dipendenze hanno come oggetto attività quotidiane spesso socialmente incoraggiate
come:
- capacità di saper usare la rete (Internet addiction);
- la pratica di uno sport (vigoressia);
- l’acquisto di beni di consumo (shopping compulsivo);
- la pratica di una professione (workaholism).
Fasi della dipendenza da Internet. Affinché si venga a creare una dipendenza, Young individua tre fasi:
1. Coinvolgimento, cioè l curiosità verso il virtuale;
2. Sostituzione, l’immersione nella rete e ricerca di ciò che nella vita reale non si riesce a trovare;
3. Fuga dal mondo reale, rivolgersi alla rete per periodi sempre più lunghi.
La letteratura sottolinea come chi fa un uso incontrollato di Internet sia spesso caratterizzato da una perdita
di controllo (problem gaming) e da un deficit del controllo degli impulsi. Queste caratteristiche spesso le
ritroviamo nelle dipendenze dei giochi online (problem gaming).
L’importanza delle relazioni nella dipendenza da Internet. Altre caratteristiche dell’Internet addiction sono
il ritiro sociale, la vergogna e l’inibizione:
- La rete offre la possibilità di esporsi senza conseguenze reali, evitando così l’incontro diretto con
l’altro
- Sostituzione della realtà con una realtà mediatica
- Saturazione dei bisogni emotivi attraverso esperienze virtuali.
Conseguenze:
la rete non crea integrazione dell’identità ma diffusione e confusione del sé (Erikson);
l’adolescente non distinguere più la differenza tra la realtà virtuale e quella reale, fra ciò che
andrebbe sperimentato prima di tutto nella realtà e poi in maniera virtuale;
calo del rendimento scolastico;
calo interesse sociale (avere pochi amici o nessuno) e familiare.
→ Prevalenza del disturbo: più alta tra gli adolescenti maschi e nei paesi asiatici
Fattori di rischio. Perché divenga una questa forma disfunzionale di comportamento tale da connotarsi come
disturbo è chiaro che ci sia una interazione tra fattori di rischio e fattori di protezione che vada a vantaggio
dai fattori di rischio che non riescono ad arginare i fattori di protezione.
Tra i fattori di rischio vi sono:
• Fattori individuali:
- Genere maschile;
- Tratti di personalità come nevroticismo;
- Aggressività e accettazione della violenza;
- Sensation seeking;
- Impulsività e ridotto autocontrollo;
- Bassa autostima: trova una forma di gratificazione enorme nel gioco, nel vincere, dove non riesce
nella vita reale, riesce nella realtà virtuale;
- Scarsa competenza sociale;
- Bassa autoefficacia nella vita reale VS alta autoefficacia nel mondo virtuale.
• Fattori familiari:
- Scarso supporto parentale;
- Frequente uso di videogame da parte dei genitori;
- Separazione/divorzio dei genitori.
• Motivazione al gioco. Uso del gioco come:
- Strategia di coping;
- Fuga degli stressors quotidiani e delle emozioni negative;
- Ricerca di relazioni e amicizie online;
- Ricerca di compensazione per la mancanza di successo nella vita reale;
- Ricerca dell’immersione e dissociazione.
Dove non riesco nella vita reale, compenso attraverso il ricorso alla vita virtuale.
È chiaro che questi fattori siano tra loro correlati, perchè tra i fattori individuali c’è bassa autostima che cor-
rela l’incapacità di gestire le fonti di stress esterne e alla difficoltà relazionale.
Il rischio quando è? Quando la realtà virtuale diventa totalizzante tale da sostituire la realtà esterna, quindi
il sé si identifica con un sé virtuale.
Vigorossia.
Tutte queste forme di dipendenza sono comunque strettamente correlate perché se voi siete dipendenti da
internet, dai social siete anche fortemente dipendenti da un’immagine sociale che volete proiettare.
La vigorossia è fortemente mediata dall’input sociale e culturale come forme di dipendenza che è una sorta
di culto per il proprio aspetto fisico e quindi per la dipendenza dall’ immagine che io proietto; infatti, se per
l’internet addiction, il game disorder, lo strumento era quello informatico, perché una vigorossia sta svilup-
pando una vigorossia lo strumento è lo specchio, l’immagine che tende a riflettere verso l’esterno.
L’impatto con i nuovi media hanno sulla vita di adolescenti e ha permesso la propagazione di paradigmi cul-
turali e sociali talvolta stereotipati (canoni maggiormente condivisi dalla società, portando la persona a tro-
vare una fonte di soddisfazione nella sua stessa immagine).
La maggior parte delle volte questo succede durante il periodo adolescenziale che è il momento critico per
eccellenza in cui vi è la costituzione dell’identità che è anche un’identità fisica. Durante la fase dello sviluppo
dell’identità, quando il sé si struttura e si verificano le prime modificazioni corporee, l’indiviudo può sentire
la necessità di raggiungere dei livelli di soddisfazione corporea volti a migliorare la propria autostima e il
proprio senso di autoefficacia.
Il sé in adolescenza si struttura anche nelle relazioni sociali e negli scambi coi pari: se l’adolescente riceverà
feedback positivi dal gruppo circa il proprio sé (fisico/corporeo), se cioè si sentirà confermato dal proprio
gruppo, aumenterà il senso di autostima e di autoefficacia percepita.
La soddisfazione corporea è un fattore cruciale in adolescenza, strettamente connesso allo sviluppo del sé e
a eventuali condotte atipiche messe in atto per ottenere un corpo utopisticamente perfetto.
La vigorossia si associa a condotte alimentari distorte che possono causare gravi disfunzioni alimentari:
dall’ortorossia questo cercare solamente il cibo sano salutare a gravi forme psicopatologiche quali anoressia,
bulimina, quando si perde il controllo, quando lo strumento non ha più lo specchio, ma l’ago della bilancia.
▪ Condotte alimentari distorte: causa di psicopatologie quali anoressia e bulimia;
▪ Ricerca estrema, quasi compulsiva, di perfezione fisica e muscolare: vigoressia.
Conseguenze:
✓ Impatto notevole sulla riduzione delle attività sociali e degli scambi interpersonali;
✓ Perenni stati di angoscia, frustrazione e rabbia;
✓ Problemi di salute legati all’uso incessante di steroidi anabolizzanti.
Oggi il ruolo dello specchio viene preso dalle foto che si postano sui social: mentre lo specchio è una fonte di
gratificazione verso se stessi, nella foto la gratificazione passa attraverso i like degli altri; ci si sente più grati-
ficato e, di conseguenza, rinforzato.
Siti Pro-ana. Si tratta di gruppi in cui il giovane viene incentivato, viene rinforzato in quel comportamento,
non sono dei gruppi di aiuto ma di auto-rinforzo del comportamento disfunzionale che vanno ulteriormente
ad aggravare la dipendenza.
Eating selective disorder (sed). Si tratta di bambini, e adulti, che mangiano alimenti solamente di una deter-
minata consistenza, o solamente di un determinato colore. Tutto ciò che è verde, tutto ciò che è rosso, tutto
ciò che è solido, tutto ciò che è gelatinoso, ognuno forme diverse.
PSICOLOGIA DELL’ALIMENTAZIONE.
Il cibo è l’elemento che ci accompagna da sempre, infatti esso è trattato in maniera molto trasversale in molti
modelli teorici, motivo per cui lo ritroviamo facendo riferimento allo sviluppo affettivo, lo sviluppo psicoses-
suale, ecc. Il cibo oltre ad essere un bisogno innato, è un bisogno universale e non specie-specifico: tutte le
specie hanno bisogno di nutrirsi, di mangiare. Di conseguenza il cibo non è un bisogno influenzato dal con-
testo, ma il comportamento alimentare invece dipende da quest’ultimo. Parlare di cibo significa parlare di
nutrizione ed di alimentazione; nel manuale di disturbi mentali oggi si parla di disturbi dell’alimentazione e
disturbi della nutrizione, prima invece non c’era questa duplice connotazione.
Il cibo come…Fra tutti gli elementi che costituiscono l'esperienza quotidiana il cibo è l'unico effettivamente
ineliminabile. Per questo motivo esso assume un valore centrale in tutte le società umane, non solo come
garanzia di sopravvivenza biologica, ma anche come:
▪ Determinante cure parentali e la neotenia. La “buona madre” era quella madre in grado di soddi-
sfare il bisogno primario del figlio.
▪ Organizzatore mentale
▪ Organizzatore sociale
▪ Sorgente di energia
▪ Fattore di identità culturale, perché se pensiamo a un cibo quale la pasta, immediatamente ci ricon-
duciamo all’Italia.
▪ Comunicazione
Nel corso del tempo, a poco a poco, il cibo è stato svuotato della sua principale funzione nutritiva, ed è stato
riempito di altri significati di tipo sociale, è diventato oggetto e pretesto di rifiuto ostinato o espressione di
conflitti e tensioni familiari.
Artemisia gentileschi. Artemisia Gentileschi dipinse questo quadro nello stesso anno in cui vinse con l’aiuto
del padre il processo per stupro che la vide coinvolta da parte di un pittore amico del padre che la voleva a
tutti i costi.
La madre offre il seno al figlio, quindi assolve un suo bisogno primario che è quello nutritivo, ma non è in
grado di offrirgli il suo sguardo. Il corpo della madonna è piegato, (sembra appunto dal dolore) anche se
sembra volere offrire almeno il suo seno al figlio, il quale porge la sua mano sul collo della madre per aiutarla
nell’azione «interpersonale», come se avesse una comprensione empatica del dolore della madre. Il bambino
tende ad avvicinare la madre, che in realtà oppone una certa resistenza, infatti tra madre e figlio vi è una
vicinanza puramente fisica, non emotiva e non affettiva.
La scienza dimostra che una neomamma soffrente o depressa o traumatizzata, è in grado di offrire il suo seno
ma non di riconoscere il figlio come persona. Il bambino fa di tutto per prendersi quello sguardo molto più
utile per la sua sopravvivenza del seno. Un bambino si stacca dal seno se non ha bisogno, ma continua a
cercare la madre.
La sintonizzazione affettiva. Le Sequenze di allattamento sono la prima forma di “dialogo” tra adulto e bam-
bino. La capacità di sintonizzazione affettiva, all’interno di una relazione diadica “sufficientemente buona”,
permette al bambino di organizzare le esperienze corporee integrandole con quelle affettive, fino all’acqui-
sizione di un adeguato equilibrio psicosomatico.
La regolazione emotiva. L’osservazione del bambino nel primo anno di vita ha d’altra parte evidenziato come
la comunicazione affettiva che egli adotta nei confronti dei suoi partner fin dai primi mesi di vita attraverso
configurazioni affettive specifiche, centrate sull’espressione di emozioni positive e negative, non sia finaliz-
zata solo all’attivazione di legami di attaccamento, ma alla regolazione emotiva.
Winnicott. Winnicott è uno degli autori che ha parlato secondo un approccio prettamente clinico di bambino,
di gioco e di alimentazione. Il bambino che è accudito dal punto di vista fisico, allattato, tenuto in braccio,
che riesce ad instaurare una buona sintonizzazione affettiva ed emotiva con la madre svilupperà un Sé allo
stesso tempo psichico e somatico, cioè un “senso di esistenza nel proprio corpo”, che diviene la base per
processi psicologici quali il pensiero, i sogni, i simboli. Winnicott parla proprio di integrazione psicosomatica,
facendo riferimento a un se perfettamente integro, che ha una componente sia fisica, che affettiva, quindi è
un se mentale, psicologico, fisico, caratterizzato da una buona regolazione emotiva e sintonizzazione affet-
tiva.
La nascita del DCA. DCA, sta per Disturbo del Comportamento Alimentare, che può avere un eziopatogenesi
piuttosto complessa, in cui possiamo individuare fattori sociali, fattori predisponenti, fattori iatrogeni, fattori
scatenanti ecc. Principalmente il DCA è caratterizzato dalla mancanza di sintonizzazione affettiva, quindi i
segnali possono essere già individuati molto precocemente, proprio perché viene meno l’interazione psico-
somatica di cui parlava Winnicott.
La mancanza di risposte congrue, da parte dell’adulto, alle necessità del bambino, privi quest’ultimo, proprio
nelle fasi di sviluppo, delle basi essenziali su cui edificare la propria identità. Insicurezza, incapacità a distin-
guere fame da altri stati di disagio, passività e tendenza all’inattività possono diventare i fattori che condu-
cono all’iperalimentazione e all’obesità. Il DCA subentra se l’esperienza corporea non risulterà sufficiente-
mente integrata nel Sé, per cui l’individuo diventerà incapace di autentiche esperienze emotive. Ciò potrà
favorire l’instaurarsi di disturbi psicosomatici in cui la sofferenza è l’espressione di una particolare “scissione
mente-corpo”. La mancanza di una buona integrazione psicosomatica e quindi la costituzione di un se forte,
strutturato, di un se che non sia fragile e che deve essere sia fisico, corporeo, somatico e psicologico, è infatti
un elemento che accomuna diversi disturbi del comportamento alimentare, in età evolutiva, quindi già da
piccoli.
Letteratura scientifica e Attaccamento nei DCA. Rispetto ai controlli, le donne con disturbi alimentari hanno
avuto più gravi sintomi di l'ansia di separazione durante l'infanzia e stili di attaccamento insicuri. Le donne
con anoressia e bulimia erano più ansiosi e evitanti rispetto ai gruppi di controllo.
Nella letteratura fino agli anni 90’, uno degli elementi frequenti che veniva riconosciuto come causa tra i
fattori scatenanti, era proprio la difficoltà nelle prime interazioni madre-figlia e il fallimento a sviluppare
l'autonomia da figure genitoriali, come se il disturbo alimentare potesse riguardare solamente il genere fem-
minile. In realtà, questo tipo di impostazione è in parte stata superata dalla letteratura, che è andata in
tutt’altra direzione: oggi ormai la comparsa di DCA sembra più precoce e sembra interessare maggiormente
anche il genere maschile (la vigorossia che si associa e si equivale ad ortorossia è un disturbo del comporta-
mento alimentare che va ad interessare prevalentemente i maschi).
Le disfunzioni familiari. Oggi si parla infatti di disfunzioni familiari, tra queste:
→ Atteggiamenti iperprotettivi e basso calore, quindi un parenting affettivamente non elevato. L’iper-
protezione è l’atteggiamento proprio di chi non favorisce lo svincolo, e quindi l'esplorazione del
mondo esterno sociale e relazionale. Gli atteggiamenti ipeprotettivi non permettono il passaggio, fra
quelli che Bronfenbrenner, aveva riconosciuto come Microsistemi. Le agenzie primaria di socializza-
zione, tra cui in primis famiglia e scuola, a poco a poco si allargano, perché il soggetto gradualmente
entra a far parte di contesti relazionali sempre più complessi. L'importanza e l'influenza esercitata
dal microcosmo familiare tuttavia non si annulla, ma continua comunque in differita ad esercitare
una notevole influenza, sino a che il soggetto arriva al mesosistema.
→ Mancanza di gerarchia familiare;
→ Difficoltà nella comunicazione;
→ Problemi di confini.
Famiglia centripeta e centrifuga. Una primissima distinzione tra sistemi familiari, è quella tra famiglia cen-
tripeta e famiglia centrifuga.
→ La famiglia centipreta, è la famiglia che assume se stessa come punto di riferimento e come fonte di
gratificazione. È iperprotettiva perchè ritiene che il figlio non abbia bisogno di andare fuori dal ciclo
familiare, di frequentare altri, perché tutto il mondo esterno viene visto come potenzialmente peri-
coloso, troppo attrattivo per cui potrebbe deviare il soggetto. E’ chiaro che ad un contesto familiare
di questo tipo, corrisponde un bambino con un atteggiamento ansioso, che ha paura di un confronto
con gli altri, particolarmente difficile nelle relazioni, è piuttosto guardingo, in quanto ritiene che tutti
gli altri siano potenzialmente pericolosi.
→ La famiglia centrifuga invece è una famiglia che favorisce lo svincolo, il confronto con il mondo
esterno (altre famiglie, altre realtà), per cui la differenza viene considerata una risorsa, un fattore di
formazione e crescita.
- I confini in una famiglia centripeta, sono confini rigidi e chiusi, perché è una famiglia chiusa come
se fosse un’isola in mezzo ad un arcipelago.
- La famiglia centrifuga, che invece trae dall'esterno un elemento di crescita e formazione, in
quanto il soggetto si confronta per capire come può migliorare, è una famiglia con confini più
fluidi. Nella famiglia centrifuga vi è un’osmosi continua di processi di innovazione, quindi c'è un’
osmosi tra ciò che entra e ciò che esce. I confini definiscono l'apertura verso l'esterno.
Di confini si parla anche all'interno di sistema familiare. Ogni sistema è fatto da un intreccio di relazionali
complesse, tuttavia ciò che definisce le relazionali è il contesto. Nel sistema familiare ci diversi sotto sistemi:
un sottosistema genitoriale (relazione tra i genitori) ed un sottosistema filiale (relazione tra figli, e tra cia-
scun genitore e ciascun figlio). Tra questi due sottosistemi i confini non devono essere né troppo rigidi (stile
genitoriale definito, autoritario di tipo posizionale) né troppo flessibili, né tantomeno circolari, perché altri-
menti si sfocia in situazioni disfunzionali. È importante mantenere dei confini intervallati, perché ci sono
momenti in cui il genitore scende al piano dei figli e viceversa e i ruoli nel ciclo di vita familiare cambiano. Es.
Nel caso di genitori anziani, il ruolo di cura viene assunto dal figlio.
Il modello di Durkeim. Un'interessante modello è stato proposto dal sociologo francese Durkheim alla fine
degli anni 70. In questo periodo, nel pieno delle rivoluzioni studentesche e di battaglie sociali, distingue due
diversi gruppi socio culturali:
✓ La classe operaia, working class. Essa era caratterizzata dalla prevalenza di una determinata tipologia
familiare, cioè da una famiglia posizionale, patriarcale, connotata da posizioni rigide, statiche e
ferme, ruoli ben definiti, confini molto rigidi.
✓ La classe borghese, middle class. Essa era caratterizzata da una famiglia orientata verso l'altro, più
aperta, più rispondente ai bisogni di tutti i membri della famiglia, nella quale si dà spazio e voce a
tutti.
Durkheim sottolinea come ogni tipologia culturale si associa a una tipologia familiare, alla quale corrisponde
un tipo di linguaggio:
→ Alla classe borghese, in cui si dà spazio alla voce di ciascuno che è chiamato a manifestare il proprio
punto di vista, si adotta un linguaggio più elaborato.
→ Nella classe operaia invece si usa un codice più ristretto perché breve, lapidario, pieno di imperativi,
in cui poco spazio viene dato alla voce dell’altro.
Es. Il genitore della working class dice “spegni la tv perché lo dico io”, quindi assume una posizione autoritaria
che non permette all’altro di esprimersi, ma solo di obbedire.
Il genitore della middle class dice “questo rumore mi fa venire il mal di testa”, per cui si pone in una posizione
“down”, assumendosi la responsabilità e comunicando all’altro il suo malessere in modo tale da essere ascol-
tato, per cui non impone direttamente.
Oggi queste due definizioni risultano arcaiche, tuttavia tale modello è una chiave per capire i disturbi alimen-
tari, proprio perché il cibo riveste tante funzioni diverse oltre che quella nutritiva.
Il cibo assume così tante connotazioni che vanno ben oltre quelle prettamente nutritive, ovvero:
➢ ha funzione di identità culturale;
➢ è un fattore di comunicazione;
➢ è un organizzatore psichico mentale e sociale
Dunque, i disturbi del comportamento alimentare, di conseguenza, possono assumere diversi significati; un
disturbo che riguarda l'alimentazione può essere:
un disturbo psichico perché il cibo è organizzatore psichico;
è correlato ad un elevato tasso di mortalità; quindi, rientra tra i comportamenti delle addiction in
quanto richiama il concetto di immagine corporea, che è totalmente distorta;
E’caratterizzato da comorbidità, la compresenza di diversi disturbi, riuscendo ad individuare il di-
sturbo primario e quello secondario.
Es. se io ho un ragazzino che presenta discalculia e una difficoltà di comprensione, è chiaro che da
psicologo oriento tutto il mio intervento ai fini di una corretta valutazione di DSA, quindi penso a
tutti gli strumenti che posso somministrare per evidenziare la natura specifica di quel DSA, su come
affrontare un potenziamento etc.. ma se poi scopro che ha anche una disabilità intellettiva allora la
difficoltà di comprensione e la discalculia dipendono dalla disabilità, non sono un disturbo primario,
ma secondario.
Può arrivare a patogenesi multifattoriale perché ci sono diversi fattori scatenanti, si correla ad altre
patologie, ad altri disturbi;
Tende a cronicizzare, ovvero il disturbo in una fase acuta, se non ben contenuto poi diventa cronico,
pervasivo e presenta delle recidive perché c'è un tratto temperamentale particolarmente fragile; è
soggetto a recidive, rimangono fragili, vulnerabili.
➢ Fattori predisponenti:
→ Fattori individuali. Predispongono il soggetto a sviluppare questa forma di comportamento disfunzionale
vi sono:
- bisogno di dipendenza, ovvero fortemente dipendenti, tendenti alla omologazione, dipendenti
dall'approvazione sociale;
- conformismo;
- pensiero rigido ossessivo;
- scarso controllo degli impulsi;
- difficoltà nella regolazione delle emozioni, perché manca la buona sintonizzazione affettiva;
- eccessiva precisione e rigidità.
→ Fattori socioculturali. Fa riferimento al pressing che viene esercitato dal contesto sociale e culturale e
quindi una certa forma fisica viene considerata quale veicolo per l'accettazione sociale o audience.
→ Fattori familiari. Nel contesto familiare sono presenti altri soggetti che presentano disturbi del compor-
tamento alimentare; inoltre viene riproposta la modalità di relazione tra sottosistema filiale e sottosi-
stema genitoriale, quando viene ostacolata la separazione, quindi lo svincolo, e l'acquisizione di autono-
mia da parte del ragazzo. Famiglie che noi potremmo definire eccessivamente invischianti, quando non
si consente l'autonoma esplorazione del mondo esterno, quindi lo sviluppo di un sé sia fisico che psichico
che è altro dal mio se.
FATTORI SPECIFICI
- Esperienze dolorose di derisione legate ol peso o all’aspetto fisico;
- Esperienza educativa di una situazione iperprotettiva, caotica, disimpegnata o controllata;
- Preoccupazioni eccessive per il peso e le forme corporee;
- Comportamenti alimentari caotici;
- Spinta mediatica alla magrezza e al fisico scolpito;
- Esperienze di abuso fisico
→ Fattori di mantenimento. Poi altri fattori che possiamo considerare sono i vantaggi secondari, cioè
tutti quei fattori di mantenimento, il vantaggio che io posso trarre da una determinata da immagine
corporea.
Es. il ragazzino adolescente viene accettato in un determinato gruppo sportivo, o alla ragazzina in
una determinata cerchia amicale.
→ Fattori protettivi. Interagiscono coi fattori di protezione e dipende da questa interazione tra rischio
e protezione se il comportamento andrà in una direzione funzionale o disfunzionale. Quindi il sog-
getto è tanto più forte, più resiliente, capace di fronteggiare i fattori di rischio che abbiamo visto
prima, quanto più riuscirà ad attivare i fattori di protezione. Quest’ultimi possono essere classificati:
- Stile di vita sano;
- Buona autostima;
- Buon rapporto con l’immagine corporea;
- Buone capacità di gestire le proprie emozioni e di coping;
- Buone capacità relazionali;
- Pensiero critico e capacità di analisi delle pressioni culturali.
Oggi viene tutto anticipato, viene a strutturarsi un DCA in età evolutiva già a partire dai 6 anni.
Famiglia e DCA. Dato che un DCA di solito si sviluppa durante la pre-adolescenza e l’adolescenza, ma ormai
anche in fasi più precoci, diversi dati sottolineano l’importanza di comprendere il contributo relativo a quelle
dinamiche familiari disfunzionali che giocano un ruolo nella patogenesi della malattia. Si parla di una famiglia
anoressica, di una famiglia bulimica; non viene visto solo il soggetto ma è l’intero sistema.
L'immagine corporea. Tra i fattori di protezione una buona immagine corporea è uno dei fattori che può
arginare il fattore di rischio specifico o aspecifico e quindi rendere il soggetto più resiliente, e cioè il modo in
cui il nostro corpo appare a noi stessi.
È un concetto plastico, duttile, che è fatto di esperienze sensoriali, di esperienze psichiche. Non si tratta solo
di un sé integrato che è sia cognitivo, mentale, psicologico che fisico perché c'è un'immagine corporea che è
totalmente distorta, è come se fossero due, non è integrata quella cognitiva con quella corporea, sono due
distinte.
L’immagine corporea è un modello di tipo cognitivo-emozionale, oltre che fisico: lo specchio diventa lo stru-
mento fondamentale, è come ci si vede; il fattore di protezione è quando coincidono quando sè somatico
e fisico corrisponde al sè cognitivo.
APA e il DSM-5. Nel 2013 la nuova edizione del manuale di disturbi mentali parla di disturbi della nutrizione
e dell'alimentazione, e per la prima volta viene dedicata un'ampia sezione ai disturbi dell'età evolutiva.
Categorie diagnostiche DSM-5:
Infanzia:
- Pica;
- Disturbo di ruminazione;
- Disturbo da evitamento/restrizione dell’assunzione del cibo
Adolescenza e adulti:
- Anoressia nervosa;
- Bulimia nervosa;
- Disturbo da alimentazione incotrollata o Binge eating disorder;
- Disturbo della nutrizione o dell’alimentazione con specificazione;
- Disturbo della nutrizione o dell’alimentazione senza specificazione.
Pica: mettere in bocca qualsiasi cosa non commestibile: capelli, carta, gomma, terra, ed è espressione di
un grave disagio emotivo ma è uno dei comportamenti che può essere anche associato ad una grave
disabilità intellettiva; è chiaro che se c'è una grave disabilità intellettiva, comorbidità, non è un disturbo
dell'alimentazione, è conseguente a quel funzionamento cognitivo. Ingerire uno più sostanze non nutri-
tive per un periodo di almeno un mese.
Disturbo della ruminazione: è rigurgito di cibo, il rigettare il cibo che poi addirittura può essere masti-
cato, sputato, e rimesso in bocca; chiaramente non ci deve essere un problema di reflusso gastrointesti-
nale, cioè devo fare una buona valutazione, devo essere certa che il problema sia altamente specifico,
che riguardi esclusivamente la sfera dell'alimentazione e sia conseguente ad una difficoltà gastrointesti-
nale
Anche questo disturbo è precoce, entro i 10 anni, può persistere, quindi cronicizzarsi in età adulta; la cosa
interessante è che può essere l’espressione di altri disturbi che riguardano prevalentemente la sfera affettiva,
emotiva, quali: disturbo d'ansia, disturbo depressivo, o disturbo bipolare nelle forme più gravi ma qui, nel
bipolare, siamo già con una diagnosi psichiatrica.
➢ Ortoressia.
Nel DSM-V:
- Ossessione per il cibo “sano”.
- Focalizzazione non sulla quantità ma sulla “qualità”.
- Evitamento ossessivo di cibi non controllati.
- Evitamento delle situazioni sociali che espongono al non controllo del cibo.
- Convinzione fideistica delle proprie scelte.
LO SVILUPPO MORALE
All’interno della psicologia dello sviluppo assume molta importanza l’architettura del funzionamento morale.
Il termine “architettura” indica una struttura non statica, ma multi-componenziale, multilivello. Infatti, il
funzionamento morale può essere concettualizzato con architettura complessa, multilivello,
multidimensionale perché comporta la compartecipazione di 3 diverse componenti:
1. Azione morale
2. Componente emotiva
3. Componente cognitiva: processi di decisione morale in merito a ciò che sia giusto o sbagliato.
Azione morale
L’azione morale non è semplicemente il risultato di processi psicologici, quindi intra-individuali, ma risente
anche dell’influenza della matrice culturale, sociale e contestuale (apporto Vygoskijano), quindi può condurre
anche ad una valutazione diversa rispetto a ciò che sia giusto e corretto.
Questa diversa influenza può comportare una diversa valutazione di ciò che è giusto, corretto.
La parola “moralità” fa riferimento al dovere, al sistema di criteri “giusti”, ad un codice normativo.
Per comprendere appieno le origini della moralità, che non è un concetto assolutamente nuovo nella
psicologia, è necessario citare:
- Hobbes: sosteneva che la convivenza civile fosse possibile solamente attraverso l’istituzione di un codice
normativo e quindi l’istituzione di norme sociali e morali: vivere insieme è possibile solamente attraverso
l’instaurarsi di un sistema di norme civili e morali perché gli uomini sono spinti dalla rivalità e dalla
competizione per il soddisfacimento dei propri bisogni.
- Freud, con le tre diverse istanze psichiche (l’Es, la sede pulsionale, il Super io, che richiama la parola
morale, e l’Io, che funge da filtro tra la pulsione e il censore), aveva parlato di un principio di piacere e
un principio di realtà, nel corso del quale un bambino rinuncerà al soddisfacimento delle proprie pulsioni
“naturali” a beneficio delle istituzioni sociali.
- Alcuni autori, come Rosseau, si sono discostati da questo modello di sviluppo in quanto ipotizzò che
l’essere umano nasce buono ma con la crescita, i valori sociali corrompono la sua vera natura.
Componente emotiva
La componente emotiva fondamentale è l’empatia, ovvero l’emozione morale per eccellenza, che si
compone di almeno 3 componenti:
- Affettiva: riguarda la condivisione e il riconoscimento del vissuto emozionale dell’altro. È una
risposta emotiva affettiva molto simile a quella che prova l’altro.
- Cognitiva: comprensione del vissuto emotivo dell’altro, consapevolezza cognitiva di ciò che prova
l’altra persona.
- Fisiologica: si riferisce al coinvolgimento di funzioni legate al sistema nervoso autonomo e, in
particolare, all’attivazione dei neuroni specchio. I neuroni specchio si attivano nel cervello di chi
osserva e sono del tutto speculari a quelli di chi sta compiendo quella specifica azione.
Uno degli elementi che viene maggiormente riportato dalle famiglie di bambini affetti da un disturbo di tipo
autistico è proprio la mancanza di empatia, come se il sistema mirror non venisse attivato, non vi è il
riconoscimento delle emozioni dell’altro.
I comportamenti altruistici potrebbero apparire in contrasto con i principi della teoria evoluzionistica, infatti,
alcuni evoluzionisti hanno parlato di “kin selection”, ovvero riservare aiuto solo ai propri parenti ma, lo
scienziato cognitivo Tomasello ha definito la “morale nel modo della seconda persona” un innato modulo
morale basato sull’aiuto verso il prossimo.
NB: la condivisione delle emozioni, che siano negative o positive, porta allo sviluppo del comportamento pro-
sociale.
LA COGNIZIONE MORALE
I modelli stadiali:
→ Piaget. Tra gli autori che si sono dedicati allo sviluppo e al ragionamento morale ricordiamo in particolare
Piaget, perché egli è stato il primo a parlare di egocentrismo. Per comprendere il modo in cui Piaget
considera lo sviluppo del ragionamento morale, bisogna fare riferimento al metodo da lui utilizzato.
Il suo era un metodo di tipo:
- osservativo, in quanto si basava sull’osservazione diretta dei propri figli riguardo il gioco;
- clinico, utilizzo di interviste semi-strutturate mirate a studiare il pensiero dei bambini su questioni
morali, come le bugie.
- critico.
Stadi di ragionamento morale. Parlare di Piaget significa sempre parlare di un modello stadiale, quindi,
secondo l’autore, anche il ragionamento morale può essere suddiviso in tre stadi che dipendono dall’età e
dagli stadi dello sviluppo cognitivo. Egli descrive 3 stadi del ragionamento morale:
- Stadio dell’anomia morale: fino ai 4 anni. Non c’è interesse per le regole, si estende per tutta la fase
prescolare. In questa fase il pensiero del bambino è ancora un pensiero egocentrico, quindi il bambino
è così centrato su sè stesso che non manifesta interesse per le norme e per le regole. Questo interesse
si sviluppa in parallelo al decentramento intellettuale (secondo Piaget).
- Stadio di Realismo morale: dai 5 anni ai 7-8 anni. La morale è prevalentemente eteronoma, quindi
deriva e dipende dall’altro.
- Stadio di Relativismo morale o soggettivismo: dai 10 anni (periodo preoperatorio). Il bambino inizia a
sviluppare una morale autonoma, quindi un codice valoriale, etico e normativo che è autonomo.
→ Kohlberg. Sulla scia di Piaget, un autore che ha dedicato ampie ricerche allo sviluppo morale è Kohlberg,
che è stato il primo a parlare, rifacendosi al metodo clinico, di dilemmi morali, ovvero delle situazioni
ipotetici di problem-solving che richiedono al soggetto di scegliere tra due principi morali.
Esempio di dilemma morale: il bambino ha rubato una mela al supermercato. Il giudizio morale comune è
che è sbagliato.
Se si dicesse anche che il bambino l’ha rubata per sfamare il fratellino più piccolo, in quel caso si avrebbe di
fronte un dilemma morale perché ci si mette davanti a due principi morali.
Kohlberg, a sua volta, distingue diversi livelli per spiegare il ragionamento morale, proprio a partire
dall'esame di situazioni dilemmatiche. Egli ha proposto un modello stadiale fondato sull’acquisizione del
concetto di “convenzionalità”, secondo il quale lo sviluppo morale prevede un progressivo adeguamento
delle norme morali dei gruppi sociali a cui si appartiene con una sequenza evolutiva di 3 livelli di
ragionamento morale:
1. livello pre-convenzionale, caratterizzato, come diceva Piaget, da un pensiero molto egocentrico;
questo stadio prevale fino ai 9-10 anni di età e il bambino ubbidisce alla norme per evitare la
punizione;
2. livello convenzionale, l’individuo si conforma alle aspettative del proprio gruppo sociale e assimila
le norme (dai 13 anni ai 20);
3. livello post convenzionale, nasce l’idea di morale e di giustizia e che ci siano dei principi universali a
cui si può aderire per scelta. Si fa avanti l’idea che ci siano dei principi universali che possiamo far
propri anche se vanno in contrasto con una regola morale in un determinato contesto.
Tipologie di regole. Gli studiosi fanno riferimento alla teoria dei domini, che pone alla base l’ipotesi che lo
sviluppo morale proceda secondo una sequenza di stadi di ragionamento e che la cognizione morale sia
articolata in domini cognitivi separati. Nello specifico è possibile distinguere:
- Le regole morali sono indipendenti dal contesto in quanto sono un valore universale, si basano
sull'assunto per cui bisogna prendersi cura dell'altro e salvaguardare il benessere dell'altro, non
arrecare sofferenza ecc.
- Le regole socio-convenzionali non sono universali ma risentono dell'influenza esercitata dal contesto
in cui vengono formulate; tendono a preservare l'ordine ma sottendono l'idea di un potere, di
un'autorità che mira al mantenimento di quest’ordine espandendo il concetto di giusto e sbagliato.
- I principi di scelte personali sono quelli a cui, in maniera individualistica, si decide di aderire e non sono
soggetti ai dettami delle autorità.
Queste regole riflettono la distinzione tra:
Moralità eteronoma: la norma vale per l’autorità che l’istituisce;
Moralità autonoma: la norma ha valore in se stessa.
Neuroni specchio nell’apprendimento per imitazione. I neuroni specchio hanno un ruolo fondamentale
strumento importante per quanto riguarda lo sviluppo morale e lo sviluppo di un comportamento pro-
sociale, proprio perché entrano in gioco anche nell'apprendimento per imitazione.
→ Bandura. Il primo a parlare di apprendimento per imitazione è stato proprio Albert Bandura, uno dei
principali esponenti della psicologia dell'educazione, oltre che promotore della teoria socio-cognitiva, la
quale fa riferimento proprio al modello di Bandura, il quale sottolinea come lo sviluppo cognitivo avvenga
attraverso l’interazione con gli altri perché nelle interazioni, in particolare con il gruppo di pari, nasce il
confronto.
- Modellamento. Il bambino apprende ed interiorizza le norme morali e quindi fa propri i criteri che
possono essere utilizzati per compiere delle valutazioni morali attraverso l’apprendimento per
modellamento (per giudicare che una cosa sia giusta o sbagliata deve fare una valutazione morale sulla
base dei criteri che ha interiorizzato); un ruolo fondamentale è giocato dall’adulto che agisce attivando
tutto un sistema di punizioni, di premi, di lodi che guidano la condotta del bambino e facilitano la
comprensione di ciò che sia socialmente accettabile o, al contrario, che sia socialmente disapprovato.
- Auto-monitoraggio. Il bambino sviluppa anche dei processi di auto-monitoraggio: se si rende conto,
dopo l’interiorizzazione dei criteri, che il suo comportamento va in conflitto con gli standard morali che
ha interiorizzato, avverte un senso di colpa e vergogna.
- Disimpegno morale. Un altro concetto chiave proposto proprio da Bandura è quello del disimpegno
morale: meccanismi che consentono di evitare una reazione affettiva interna spiacevole che deriva
dall'aver trasgredito il proprio standard di criteri morali interiorizzati; è una sorta di meccanismo di
difesa che consente di evitare lo stato emotivo di vergogna che nasce quando ci si rende conto che il
proprio comportamento va in conflitto con gli standard interiorizzati.
Alcuni esempi di disimpegno morale:
Giustificazione morale: “è stata lei a provocarmi”
Etichettamento eufemistico:” non l’ho picchiato, gli ho dato uno spintone”
Confronto vantaggioso:” potevo picchiarlo, l’ho solo preso in giro”
Diffusione di responsabilità:” non sono stato solo io, hanno partecipato anche altri”
Dislocamento di responsabilità:” è stato lui a dirmi di farlo”
Distorsione delle conseguenze:” non si è fatto niente”
Disumanizzazione della vittima:” è una bestia, potevo farlo”
Attribuzione della colpa:” è stato Luigi a iniziare offendendomi”.
Il comportamento aggressivo come azione immorale. Bandura fu uno dei primi a dedicare parecchia
importanza all’aggressività in età evolutiva, ovvero il bullismo. Il bullismo è la negazione del comportamento
prosociale. Mentre l’empatia è l’azione morale per eccellenza, il bullismo, e il comportamento aggressivo in
generale, è la negazione dell’empatia, quindi un’azione immorale. Il comportamento aggressivo, quindi, può
essere letto proprio come disimpegno morale, in quanto mancanza di una buona regolazione emotiva.
Quest’ultima e quindi lo sviluppo di un funzionamento morale durante l’età evolutiva si correlano in
adolescenza e nel giovane adulto nell’aumento del rischio di comportamenti aggressivi.
Dunque: comportamento pro sociale, sviluppo empatico e sviluppo morale si correlano per formare un buon
funzionamento sociale, tanto più bambino viene, attraverso il ruolo dell’adulto significativo e delle agenzie
di socializzazione, aiutato ad interiorizzare il codice normativo valoriale e ad auto regolare le proprie
emozioni, tanto più sarà in grado di sviluppare comportamento pro sociale in adolescenza; invece, un
bambino che non ha interiorizzato un codice normativo e valoriale avrà una maggiore probabilità di
sviluppare una condotta deviante e aggressività.
Mentre l’aggressione è l’atto che procura danno agli altri, l’aggressività fa riferimento alla tendenza come
stile di condotta ad essere aggressivi. Bisogna distinguere tra due tipi di aggressività:
1. Reattiva: tendenza ad agire in maniera violenta e distruttiva, avviene a causa dell’attivazione di
emozioni calde, quali rabbia o la paura, a seguito di una situazione pericolosa o frustrante.
2. Proattiva: condotta distruttiva che viene messa in atto non come risposta ad un qualcosa che viene
percepito come pericoloso, ma piuttosto per ottenere un beneficio materiale, sociale o emotivo. E’
tipica del bullo, il quale trae gratificazione dal sentimento di potenza che nasce nella dominanza dei
più deboli.
Comportamento aggressivo = azione immorale
Modello di elaborazione dell’informazione sociale. All’interno della psicologia dello sviluppo esistono diversi
modelli riferiti all’intelligenza, tra questi il HIP (human information processing); accanto a questo, molta
importanza assume il modello di elaborazione dell'informazione sociale (SIP), il quale viene utilizzato per
spiegare la condotta aggressiva.
Attraverso la relazione con gli altri, il bambino comprende le intenzioni che sono alla base delle azioni
dell'altro e capisce che tipo di azione attivare in risposta.
Questo elabora le informazioni di tipo sociale, processandole il soggetto capisce che tipo di intenzione ha un
comportamento nei propri confronti, di conseguenza può scegliere che tipo di risposta comportamentale
attivare.
1. Codifica dello stimolo sociale perché deriva dall' interazione con gli altri;
2. Interpretazione dello stimolo per capire quale sia l'intenzione dell'altro;
3. Definizione degli obiettivi in cui si sceglie l’azione da mettere in atto in base agli obiettivi:
mantenimento della relazione o raggiungimento di un vantaggio personale;
4. Ricerca e scelta di una risposta;
5. Messa in atto della risposta che riceverà dei feedback.
Crick e Dodge sostengono che alla base del comportamento aggressivo vi sono distorsioni cognitive (bias),
infatti:
- Bambini e adolescenti reattivi hanno la tendenza a percepire le azioni degli altri come minacce e, di
contro, diventano aggressivi;
- Bambini e adolescenti proattivi privilegiano il raggiungimento degli obiettivi personali e pensano che
l’aggressività sia la modalità più efficiente per raggiungerli.
Il ruolo della famiglia. Anche in questo caso, fondamentale è il ruolo della famiglia, la quale può agire in modi
diversi per favorire l’internalizzazione, il fare propri i valori morali.
Ecco alcune strategie che il contesto familiare può attivare per favorire questa internalizzazione dei valori
morali:
- avere un buon dialogo;
- coerenza;
- accuratezza della percezione ossia la chiarezza con cui il bambino percepisce i valori dei genitori, senza
disaccordo valoriale nella coppia.
- metodo induttivo, far sì che il bambino si metta nei panni dell’altro;
- ridondanza, cioè la tendenza dei genitori a ribadire il proprio punto di vista ai figli;
- congruità all'interno della coppia genitoriale, dunque, ci deve essere una stessa la condivisione di uno
stesso sistema valoriale normativo per evitare un tipico meccanismo perverso disfunzionale, quello
della triangolazione quando uno dei genitori tende a catturare il figlio facendogli condividere il proprio
sistema valoriale contro quello dell'altro coniuge;
- flessibilità educativa associata a un clima relazionale positivo.
Sarebbe riduttivo ritenere che i bambini tendono a riprodurre passivamente i principi morali dei genitori, in
quanto, il processo di socializzazione non è solo la ripetizione dei modelli a cui si è esposti ma si verifica una
“riproduzione interpretativa” in cui il bambino seleziona ed elabora i contenuti tramandatigli.
Incontri disciplinari. Hoffman parla di “incontro disciplinare”, la situazione in cui il bambino mette in atto un
comportamento indesiderabile per il genitore, il quale interviene allo scopo di prevenirlo, reprimerlo o
modificarlo. L’autore ritiene che le modalità educative che i genitori adottano durante questi incontri siano
influenti sul processo di internalizzazione dei principi morali. Egli distingue 3 modalità:
• disciplina basata sul potere: il genitore non spiega la norma da osservare al figlio, il quale la metterà
in atto solo per paura della punizione ma senza capirne il significato→ famiglia centripeta, considera
se stessa come fonte di gratificazione e l’esterno come fonte di pericolo;
• disciplina basata sull’amore: fa leva sul rapporto affettivo genitore-figlio e il bambino tenderà ad
osservare la norma per paura di perdere l’affetto del genitore;
• disciplina induttiva: le tecniche induttive sono basate sul role-taking, nel fare in modo che il bambino
si metta nei panni della vittima e giunga autonomamente alla conclusione che il comportamento
messo in atto non è auspicabile.
Il ruolo dei coetanei. Già Piaget aveva evidenziato come l’interazione con i coetanei potesse essere d’aiuto
ai bambini per capire la natura della norma ma è Bandura a sottolineare il ruolo svolto dai coetanei nel fornire
modelli per l’elaborazione degli standard morali.
SVILUPPO 12-05-2021
Premarck. in realtà è un costrutto abbastanza innovativo nell'ambito della psicologia dello sviluppo,
ma già a partire dagli anni Settanta, di teoria della mente, come capacità di cogliere di prevedere il
comportamento dell'altro, avevano parlato alcuni ricercatori come Premarck i quali avevano volto il
proprio interesse di indagine allo studio del comportamento intenzionale degli scimpanzè dalla fine
degli anni settanta ad oggi.
Di teoria della mente poi si parla molto anche nell'ambito della psicologia delle disabilità, soprattutto
per quanto riguarda i disturbi del neurosviluppo.
Dannet e l’intentional state. Il pensiero è però un costrutto che è stato oggetto di indagine soprattutto
da parte di filosofi, antropologi e sociologi; una definizione particolarmente interessante è stata
proposta da Dennet che parla di intentional states, cioè la comprensione, la consapevolezza che i
pensieri non siano assolutamente casuali, ma siano diretti in maniera intenzionale, verso qualcuno o
qualcosa, quindi il nostro agire non è mai casuale, aleatorio o fortuito ma è intenzionale, diretto verso
un qualcosa, quindi il nostro agire può essere spiegato in base alle credenze e alle intenzioni .
È da questo momento che si studia questo tipo di abilità, abilità rappresentativa, perché io mi
rappresento lo Stato cognitivo e mentale dell'altro, ed è da questo momento che questa abilità
rappresentativa diviene oggetto di indagine della psicologia dello sviluppo, influenzata da tutti gli
studi di matrice piagetiana.
Dunque: mente, pensiero, capacità di interpretare, di prevedere il comportamento sulla base degli stati
mentali propri e altrui, in realtà era stato oggetto di indagine di altri ambiti disciplinari oltre la
psicologia, in particolare la filosofia l'antropologia e la sociologia.
Compito di falsa credenza. Con Dennet incominciamo ad introdurre un altro concetto che è quello
di "compito di falsa credenza", di cui aveva parlato in maniera più sperimentale e meno filosofica
anche Piaget; si tratta della capacità di prevedere come il soggetto possa comportarsi, in altre parole,
la capacità di prevedere il comportamento tenendo conto della falsa credenza di questo.
Meta-rappresentazione. Dennet risente fortemente degli studi di matrice piagetiana, e questo
significa richiamare il concetto di “meta-rappresentazione”, ‘meta’ è un andare oltre gli stati mentali.
Teoria della mente: tu pensi, tu provi, tu senti (mi consente di prevedere il tuo comportamento);
Meta-rappresentazione: pensiero ricorsivo, rappresentazione di una rappresentazione mentale: io
penso che tu pensi, io sento che tu senti. È una sorta di monitoraggio meta-cognitivo, un
monitoraggio continuo sul proprio flusso cognitivo .
Wellman. Un'altra interessante proposta è stata poi avanzata sempre tra gli anni 80 e gli anni 90 da
Wellman con un approccio nuovo theory-theory, che invece propone una sorta di analogia tra lo
scienziato che cerca di elaborare un apparato, un sistema teorico, e procede per ipotesi formulando
delle ipotesi che vengono via via annullate o validate, ed il lavoro del bambino che cerca di spiegare,
di interpretare il comportamento dell'altro.
Influenza vigotskiana. Dagli anni 90 invece si fa strada con forza nell'ambito degli studi sulla teoria
della mente, un filone di ricerca che sottolinea maggiormente l'approccio vygotskiano, che spiega
l'importanza del contesto, della matrice concettuale per spiegare il comportamento.
Quindi si assiste nell'ambito degli studi sulla Tom, sulla teoria della mente, ad una cosiddetta svolta
vygotskiana, quella che utilizzando la terminologia proposta da Kuhn potremmo definire una
rivoluzione paradigmatica.
→ Bruner. Un diverso modo di approcciare il costrutto Tom, in particolare tra i vygotskiani
viene riconosciuto in particolare a Bruner il suo "pensiero narrativo", un pensiero di natura
sociale fortemente mediato dall'esperienza con gli altri, è da questa esperienza che il bambino
trae gli strumenti che gli permettono di interpretare la realtà esterna.
Bruner era stato considerato per lungo tempo il figlio eletto del cognitivismo, ma è stato anche
quello che ad un certo punto coglie le smagliature, le frane nel modello cognitivista puro perché
la mente umana non poteva essere semplicemente ricondotta la fredda macchina, alla fredda
elaborazione di input. Tanto che Bruner scrive un manuale dove spiega che la mente umana in
altri termini partecipa alla costruzione del significato, che non è una costruzione prettamente
cognitiva, ma è affettiva emotiva e motivazionale. Quindi l'approccio narrativo di Bruner
sottolinea il ruolo rivestito dall'esperienza quotidiana, le esperienze sociali dalla componente
calda.
Orson. In particolare, di componente calda ne parlerà Orson, che attribuirà un peso determinante ai
contesti caldi, a contesti connotati in termini affettivi, emotivi, capaci di guidare il bambino
nell'attività di mentalizzazione. Orson rimarca ulteriormente questo tratto relazionale-contestuale, di
cui aveva già parlato Bruner, attribuendo peso a contesti affettivamente connotati significa cioè
rilevanti e significativi dal punto di vista affettivo nel guidare il bambino nel processo di
mentalizzazione.
In realtà noi avevamo già discusso la componente affettiva- relazionale insita, implicata nel processo
di mentalizzazione quando abbiamo parlato di attaccamento. Riprendendo quanto detto a proposito
di attaccamento e sviluppo affettivo, è chiaro che la tendenza della madre a considerare il figlio come
un soggetto attivo dotato di mente, e non semplicemente come una tabula rasa, consente di
promuovere un processo di mentalizzazione. Il genitore, infatti, svolge un ruolo fondamentale nella
costruzione della intersoggettività. Lo scaffolding è questa sorta di impalcatura che aiuta il processo
di mentalizzazione del bambino, che non deve essere né troppo stringente né troppo fluido.
Componente cognitiva ed emotivo-affettiva. La teoria della mente non viene semplicemente
descritta in termini mentalistici, in termini cognitivi ma tiene conto della valenza affettiva ed emotiva,
quindi nel processo di mentalizzazione noi possiamo distinguere una componente cognitiva e una
componente emotivo-affettiva.
In altri termini è come se potessimo distinguere tra.
una tom fredda che riguarda la capacità di riflettere e ragionare su pensieri epistemici;
una tom calda cioè la capacità di mentalizzare su stati/pensieri non epistemici, come ad
esempio le emozioni e le aspettative.
Dunque: con Piaget la mentalizzazione veniva vista in una prospettiva più cognitiva e fredda, quando
invece negli studi sulla Tom ha preso forza la matrice vygotskiana, che attribuisce importanza al
contesto, si è cominciato a parlare di mentalizzazione sia come componente cognitiva che come
componente emotiva (tom fredda e tom calda).
È importante considerare la componente affettiva ed emotiva perché anche i desideri e le emozioni
sono degli stati mentali fondamentali che influenzano il nostro agire, e perché il modo in cui noi
rappresentiamo la realtà determina le nostre scelte e di conseguenza il nostro comportamento. Queste
componenti consentono di spiegare e di prevedere il comportamento (se pensiamo ciò che tu pensi).
Precursori della tom. I precursori della Tom sono:
l'attenzione condivisa;
la comprensione della percezione,
la capacità di riconoscimento sociale quando il bambino manifesta gioia perché riconosce lo
stimolo familiare;
capacità di utilizzare i gesti dichiarativi indicando un terzo elemento su cui focalizzare
l'attenzione (quindi la comunicazione da diatica viene spostata sul terzo elemento).
Sono tutti segnali che nei primi anni di vita sono fondamentali come precursori della Tom.
Quando il caregiver coglie mancanza di responsività, cioè che il bambino che non risponde agli
stimoli, non manifesta segnali di riconoscimento, non manifesta segnali di attenzione condivisa, e
scattano dei campanelli d'allarme. Dunque, una corretta valutazione di un di un disturbo pervasivo
dello sviluppo può essere fatta molto precocemente.
Neuroscienze. Riguardo gli studi sulla TOM , significativa è la neuroscienze, in riferimento alla
memoria episodica, quando cioè la capacità mentalistica entra in gioco nelle occasioni di depistaggio;
la mancata attivazione di mirror neurons non contente di cogliere lo stato dell'altro, di sentire come
l'alto, di prevedere il comportamento.
Sordità. Riguardo il linguaggio, una condizione considerata a rischio nella teoria della mente,
possiamo coglierla nel disturbo della sordità, perché il processo di mentalizzazione viene fortemente
influenzato dalla partecipazione alle conversazioni della vita quotidiana, improntate al lessico
mentale, che fa riferimento al vocabolario fatto di stati epistemici; di conseguenza un soggetto con
questo tipo di disabilità viene fortemente ostacolato proprio perché non ha la possibilità di partecipare
a conversazioni improntate su un lessico psicologico.
Le famiglie di fronte alla sfida educativa. La famiglia, quindi, nel corso del tempo cambia, tanto
da parlare di ciclo di vita familiare, dove abbiamo il cambio dei ruoli, cambiano le posizioni,
cambiano anche i confini. La famiglia, come già aveva suggerito Erikson, si trova ad affrontare
diverse crisi. La crisi di per sé non ha una connotazione negativa, ma al contrario, una connotazione
positiva perché è il superamento della crisi che attiva la resilienza, cioè la capacità di attivare le
proprie risorse.
Nel corso del proprio ciclo di vita ci si trova ad affrontare diversi compiti evolutivi, che
contraddistinguono ciascuna fase del ciclo di vita individuale e familiare. Il superamento di un
compito evolutivo da parte di ciascun sistema ha un effetto a catena; poichè sono strettamente
correlati, significa che modificarsi per effetto del superamento di quel compito evolutivo, non è
solamente sistema evolutivo, ma è un sistema familiare, quindi il cambiamento dell'uno corrisponde
poi ad un cambiamento dell’altro.
Sfide educative. E’ interessante per noi psicologi parlare di sfide educative. La sfida (che richiama
proprio quello di crisi) non va intesa come un compito insormontabile, ma è un compito che il sistema
famiglia può affrontare attivando la propria risorsa, che consente di attivare tutte le proprie risorse in
funzione del superamento di un obiettivo, che è un obiettivo comune. In particolare, parliamo di sfida
educativa; e parlando di famiglia e sfide educative, inevitabilmente si fa riferimento ai due
sottosistemi familiari che contraddistinguono il sistema familiare. Quindi, all'interno di un unico
grande insieme (famiglia) composta da diversi sistemi evolutivi soggetti ad un continuo cambiamento,
possiamo distinguere diversi sottosistemi:
• Un sottosistema genitoriale;
• Un sottosistema filiale.
Sottosistema genitoriale
La sfida si ha perché la relazione tra i due sottosistemi è soggetta alla continua influenza, un continuo
mutamento, una continua pressione sociale.
→ Da una parte, con il sottosistema genitoriale, ci riferiamo sia alla cosiddetta norma-famiglia
che alle nuove forme di famiglia, che può essere anche una famiglia monogenitoriale che
presuppone enormi cambiamenti a livello sociale, culturale ed economico; culturale, soprattutto,
per quanto riguarda i ruoli parentali.
Nel passato la crescita dei figli era un compito esclusivo della donna. L’uomo era più centrifugo,
più teso all'esterno a ricercare tutto ciò che era necessario per il mantenimento della famiglia.
Alla donna, invece, veniva riconosciuto il compito di crescita, ma anche la donna è stata
investita da mutamenti sociali e culturali; ad esempio, viene sempre più rinforzato l'importanza
del ruolo femminile nel mondo del lavoro. Tutto ciò ha comportato tra le sfide educative, un
ulteriore suddivisione tra un tempo dedito alla professione e un tempo dedito alla cura di figli.
→ Un'altra delle sfide all'interno del sottosistema genitoriale, oltre quindi alla distinzione e
divisione del tempo, è la divisione dei compiti all’interno del sistema familiare.
Prima l’uomo procurava il cibo, pellicce e altri strumenti funzionali per la famiglia. La donna si
occupava delle faccende domestiche, dei bambini faceva tante cose in contemporanea. Questa
distinzione, di generi e di ruoli, arcaica è stata tramandata nel tempo, in quanto ancora oggi le
donne devono occuparsi di più compiti, riuscendo a coniugare quello il tempo debito alla
professione e il tempo debito alla famiglia.
Sottosistema filiale
E’ modificata, nel corso del tempo, l’identità della coppia genitoriale, ma tutto ciò ha portato anche
ad una nuova relazione con il sottosistema filiale, una relazione diversa, che può essere improntata:
alla iper-protezione, con genitori eccessivamente apprensivi tali da inibire quello che è il
fisiologico naturale svincolo, la crescita a partire dalla tipologia del legame di attaccamento e
l’esplorazione del mondo esterno, che è un mondo prettamente sociale, relazionale; tanto più il
bambino si sente sicuro, tanto più autonomo sarà nell'esplorazione del mondo e nell'instaurare
relazioni con gli altri. L’iperprotezione limita lo svincolo e mira all’abolizione del desiderio del
bambino.
L’atteggiamento iperprotettivo può portare anche a un’anticipazione del desiderio del figlio,
all’abolizione quindi dell'attesa; ogni bisogno, richiesta e aspettativa del bambino viene
anticipata.
Oggi è cambiata la divisione dei tempi e la divisione dei compiti; oggi il padre si può occupare della
cura dei figli e dell’abitazione; ma è cambiata anche la relazione tra un sistema genitoriale soggetto
ad un continuo pressing ed un sistema filiale. Sono due poli opposti.
Una famiglia iperprottetiva è centripeta, considera l'esterno come potenzialmente minaccioso; viene
soddisfatta ogni richiesta nell’ambiente interno per far trovare gratificazione al bambino. Questa
tipologia di relazione ben è particolarmente disfunzionale perché corre il rischio di annullare una
componente fondamentale per la crescita armonica dell'uomo: il desiderio.
Anticipando le aspettative, annullo il desiderio di un qualcosa. I bambini desiderano sempre meno
perché il genitore è iperprotettivo.
Una nuova identità: dalla coppia coniugale alla coppia genitoriale. Tra le diverse sfide che la
famiglia si trova ad affrontare, la prima sfida è il passaggio alla genitorialità; il sottosistema
genitoriale è prima un sottosistema coniugale. Il passaggio al sottosistema genitoriale comporta una
nuova connotazione dell'identità da coppia coniugale a coppia genitoriale, il che comporta anche
un confronto continuo con le proprie aspettative nei riguardi di un nuovo ruolo genitoriale e un
richiamo del legame con i propri genitori, rappresentazioni interne di memoria che ciascuno di noi ha
sul rapporto genitore-figlio.
Il passaggio da coppia coniugale a coppia genitoriale comporta una nuova ridefinizione di quei due
sistemi evolutivi all’interno di una diade; questa nuova identità è fortemente influenzata:
dall’aspettativa, dal richiamo, dall'immagine, dal pressing sociale;
dalla nostra memoria, dai MOI, dalle rappresentazioni interne del rapporto genitore-figlio.
Oggi si corre il rischio di far perdere ai figli due opportunità di crescita fondamentali, di provare:
• Desiderio verso qualcosa, inteso come senso di piacere (Freud);
• Noia.
Ogni genitore cerca di non far annoiare il figlio, ma in realtà la noia ha un'enorme valenza positiva,
in quanto stimola strategie di problem solving, la creatività, la riflessione. Le tecnologie tendono a
dare una connotazione negativa alla noia (cellulare).
E’ chiaro che questa transizione alla genitorialità contribuisce ad una nuova identità di quella
coppia, che non è più solo coppia coniugale, ma è una coppia genitoriale.
Oggi, l’identità genitoriale ha subito delle modifiche; oggi si diventa genitori molto più tardi.
Nel mondo occidentale si diventa genitori in “ritardo” rispetto ad altri paesi, perché prima viene
dedicato più spazio alla realizzazione personale e alla realizzazione professionale. L'età media delle
madri è dai 30 ai 32; questo dato viene spiegato dalla futura iperprotezione. Il genitore per soddisfare
qualsiasi richiesta futura del bambino, dedica più tempo alla sua realizzazione per poi essere un buon
genitore. I figli vengono considerati come dei costi aggiuntivi, quindi la coppia stessa non viene più
considerata come una coppia destinata alla procreazione, ma viene valutata rispetto alle richieste del
partner.
Un altro fattore è una maggiore scelta personale, che contribuisce all’identità genitoriale.
Altri fattori che incidono diversamente sull’identità genitoriale sono fattori sociali, culturali,
economici.
Inoltre, c’è un maggiore progresso nell’ambito del controllo delle nascite, per cui viene ritardato il
concepimento e viene consentito di diventare genitori anche con un’età più avanzata.
Probabilmente tra 5 anni, gli asili avranno meno bambini, poiché saranno pochissime le giovani
coppie che porteranno avanti una gravidanza, per vari motivi:
• Variazione della rappresentazione della famiglia;
• Incertezza economica;
• Problematiche legate al contesto storico che si sta vivendo;
• Mancanza di certezza riguardante il lavoro, la salute.
Parental child. La transizione alla genitorialità comporta una nuova identità. Per quanto riguarda la
parental child, un altro dei casi particolarmente significativi in cui è possibile che il bambino venga
eccessivamente caricato di responsabilità si ha nel caso della presenza di una disabilità.
Es: quando il bambino con sviluppo tipico deve occuparsi del fratello con disabilità.
Il bambino con un determinato tratto temperamentale può essere più maturo, ma il suo profilo non
corrisponde con quello adultizzato, che riceve incarichi da altri.
Es: i bambini della tribù africana venivano adultizzati, però la differenza è il bambino africano aveva
un attaccamento fortemente sicuro; quella madre era realmente una base sicura e responsiva, capace
di attivare una sintonizzazione affettiva, cognitiva, rappresentativa. Il bambino si muoveva in maniera
autonoma, esplorando il mondo esterno, instaurando una relazione con tutti gli altri.
Diversa rappresentazione dei ruoli. In passato, la gravidanza veniva portata avanti solamente dalla
donna; oggi l’uomo è molto più coinvolto nella gravidanza.
LO SVILUPPO MOTORIO
Lo sviluppo motorio nell’ambito della psicologia dello sviluppo non ha avuto molta attenzione da parte dei
ricercatori, ciò è evidenziato anche dal numero di ricerche indirizzate all’area delle competenze motorie;
solo di recente c’è una sorta di rinascita di interesse (numero maggiore di ricerche e produzioni
scientifiche). Piaget, ad esempio, inserisce come primo stadio quello senso-motorio, soffermandosi
sull’importanza dell’esperienza motoria per un bambino.
Sviluppo motorio.Lo sviluppo motorio può essere definito come l’insieme dei cambiamenti nei
comportamenti motori e nei sottostanti processi che si realizzano dalla nascita, ancor prima dalla vita
intrauterina, fino alla senescenza.
→ Lo sviluppo motorio ci consente di applicare il concetto di studio in un’ottica di life span (i cambiamenti
si verificano durante tutto l’arco di vita);
→ Un’altra considerazione di base da fare è quella dell’approccio olistico: lo sviluppo motorio non fa
esclusivamente riferimento alle componenti motorie ma anche ad altri processi (cognitivi, percettivi,
comunicativi, motivazionali ecc.).
Ad esempio, in media un bambino inizia a deambulare verso i 12 mesi, e per iniziare a farlo deve avere
delle strutture, che non sono solo di tipo fisico (forza muscolare) ma anche neuroanatomiche, che
consentono lo sviluppo di quelle aree deputate al movimento.
Ci sono poi tutta una serie di altri elementi, ad esempio il bambino può iniziare a camminare perché
vuole andare a prendere un giocattolo che gli piace che si trova lontano da lui; in questo caso c’è una
forte motivazione e il suo comportamento è fortemente stimolato dalla voglia di raggiungere
quell’oggetto, oppure vuole camminare per raggiungere la mamma che gli tende le braccia (fattori di
natura socio relazionale).
Questo esempio fa riflettere sul fatto che per quanto riguarda lo sviluppo motorio, quando lo studiamo,
facciamo riferimento alle teorie, alle tappe dello sviluppo, ma in realtà non possiamo scindere i diversi
processi l’uno dall’altro.
Sviluppo motorio e cognitivo. Negli ultimi tempi, per esempio, si è diffuso un interesse per la relazione tra
lo sviluppo motorio e componenti specifiche dello sviluppo cognitivo, quali le funzioni esecutive. Le
funzioni esecutive sono tutti quei processi di tipo superiore che regolano tutti quei comportamenti non
automatici, ma goal-directed, quindi intenzionali, che consentono di raggiungere un determinato obiettivo.
I processi a cui ci riferiamo sono: la working memory, la pianificazione, il controllo inibitorio, lo shifting
attentivo ecc.
Negli ultimi anni c’è stato questo interesse per la relazione tra lo sviluppo motorio e le funzioni esecutive,
per andare a vedere se e quanto, lo sviluppo motorio - e all'interno di questo lo svolgimento di attività
motorie strutturate regolari – influenza, in termini positivi, lo sviluppo delle funzioni esecutive.
Approccio e metodologia. Lo sviluppo motorio:
→ Approccio multidisciplinare. Proprio perché lo sviluppo motorio ci fa comprendere bene quella che
è la globalità dello sviluppo, esso richiede uno studio multidisciplinare. Lo sviluppo motorio non è
oggetto di studio esclusivo degli psicologi dello sviluppo, ma si presta proprio allo studio di diverse
discipline (la psicologia e le neuroscienze, le scienze dell'educazione, le scienze sociali, la
kinesiologia - che è proprio lo studio del movimento -). Lo studio dello sviluppo motorio è una
finestra privilegiata che ci consente di studiare “una cascata” di processi generali di sviluppo, infatti
il movimento è causa ed effetto di cambiamenti cognitivi, percettivi e sociali.
→ Osservazione diretta. Lo studio dello sviluppo motorio ha il vantaggio metodologico di avere un
oggetto di studio direttamente osservabile e misurabile, perché il movimento è direttamente
osservabile.
Teorie dello sviluppo motorio. Le teorie che riguardano lo studio dello sviluppo motorio possono essere
raggruppate in tre macro-approcci che definiamo:
1. Maturativo;
2. Cognitivo;
3. Ecologico.
1. Approccio maturativo. Secondo l'approccio maturativo, lo sviluppo motorio è un processo innato
e articolato in stadi biologicamente determinati che possono essere accelerati o ritardati dalle
caratteristiche dell'ambiente di vita del bambino.
Per esempio: Piaget, parla di stadio senso-motorio come fase in cui il bambino costruisce la conoscenza
del mondo a partire da azioni su base percettiva e motoria. Quindi lo sviluppo motorio, secondo
l’approccio maturativo, di cui uno degli esponenti è Piaget, interpreta lo sviluppo motorio come un
processo che ha una base biologica, che si articola in stadi determinati in modo biologico, ma il
raggiungimento delle tappe evolutive caratteristiche di questi stadi subisce l'influenza dell'ambiente,
quindi può essere accelerato o ritardato dalle caratteristiche dell'ambiente di vita del bambino. Non a
caso Piaget parla di adattamento.
3. Approccio ecologico. Tra le teorie che fanno parte del sistema ecologico troviamo quella dei
sistemi dinamici lineari. Questa teoria dice che lo sviluppo delle abilità motorie si svolge all’interno
di un processo complesso che coinvolge fattori neurali, fisici e biomeccanici e condizioni ambientali
relative anche al sostegno degli adulti. Lo sviluppo delle abilità motorie quindi comprende:
1. fattori neurali per il controllo dei muscoli (maturazione neuroanatomica):
2. fattori fisici e biomeccanici (cambiamenti nelle proporzioni delle diverse parti del corpo e nel
rapporto tra massa muscolare e massa grassa);
3. condizioni ambientali non riferite stavolta alle condizioni fisiche dell’ambiente ma che riguardano le
relazioni, in particolare il sostegno degli adulti.
Adolph (autrice che si occupa molto di studiare la relazione tra movimento e stimolazione sociale) dice che
la relazione tra movimento e stimolazione sociale si caratterizza in senso bidirezionale, nella misura in cui,
da una parte la stimolazione sociale (mamma che chiama a sé il bambino) stimola in movimento, dall’altra il
comportamento motorio messo in atto dal bambino stesso elicita comportamenti sociali da parte degli altri
(se il bambino non mettesse in atto questi comportamenti sociali gradualmente, a poco a poco anche la
stimolazione sociale tenderebbe a ridursi fino all’estinzione). Quindi si tratta di un processo bidirezionale.
La stimolazione sociale attira e stimola il movimento, il movimento dall’altro lato attira e stimola la
stimolazione sociale.
Riflesso di marcia. Un altro esempio di approccio ecologico è il riflesso di marcia, già presente alla nascita. È
quel movimento involontario che viene messo in atto dal neonato quando, sorretto dal tronco, dalle
braccia o da sotto le ascelle, e facendo posare la pianta del piede su una superficie rigida, egli comincia a
mettere in atto movimenti motori simili a quelli della marcia. Le gambe si alzano alternativamente,
ovviamente per pochi passi, come se stesse marciando. Questo riflesso, già presente alla nascita, scompare
quando la forza delle gambe non è in grado di sostenere il peso del corpo per il progressivo accumulo di
grasso sottocutaneo. Questo riflesso però permane in acqua, e quindi ci fa capire come al di là di quelli che
sono i fattori fisici e biomeccanici, i fattori ambientali (terreno e acquatico) vanno a determinare diverse
capacità motorie.
Componenti fisiologiche e psicologiche. Lo studio dello sviluppo motorio è multidisciplinare e c’è molto
interesse sulla relazione tra dominio motorio e dominio delle funzioni esecutive e quanto le capacità
motorie influenzano lo sviluppo delle funzioni esecutive.
Questa relazione recentemente è stata misurata andando ad analizzare i benefici dello svolgimento
regolare di attività motorio-sportive sulle prestazioni in compiti di memoria di lavoro, controllo inibitorio,
pianificazione, shifting dell’attenzione ecc. Questa relazione esiste sia in virtù di componenti fisiologiche
che in virtù di componenti psicologiche.
→ Componenti fisiologiche: perché le attività motorie devono rispondere a requisiti di regolarità e
strutturazione (attività motorie precise che vanno a stimolare le funzioni esecutive). La componente
fisiologica consiste nel fatto che le attività motorie favoriscono l’aumento del volume e della velocità
del flusso sanguigno cerebrale con relativa ossigenazione delle aree cerebrali prefrontali (deputate
alle funzioni esecutive). Dopo aver svolto attività motorie c’è anche un aumento di norepinefrina e
noradrenalina, quei neurotrasmettitori cerebrali che agiscono sempre nelle funzioni esecutive.
→ Componenti psicologiche:
- le attività motorie esercitano un’azione positiva sulla dimensione emotivo-motivazionale;
- consentono di confrontarsi con i coetanei;
- di incrementare la percezione della propria componente fisica e corporea (costruzione del valore
del sé e autostima e efficacia personali);
- sono funzionali a scambi sociali e cooperazione con altri.
Tutto questo ha benefici a livello motivazionale (il fatto che il bambino si confronti con dei compiti che
hanno una caratteristica sfidante, ovvero che prima non era in grado di fare, ma adesso si con l’impegno
adeguato). I compiti motori sono delle prestazioni che hanno una componente fortemente sociale,
vengono sviluppati secondo una dimensione sociale, davanti ad altri (incremento di fiducia in sé, sviluppo
delle competenze, riconoscimento da parte degli altri). Tutto ciò contribuisce alla creazione di una
immagine di sé personale, ma se guardiamo alla componente meno armoniosa dello sviluppo, laddove ci
sono delle difficoltà motorie, troviamo la componente opposta, ovvero i bambini con disturbo di
coordinazione motoria possono presentare anche delle disarmonie a livello di percezione di sé.
Le componenti del movimento. Le componenti del movimento si articolano in:
▪ Schemi motori: sono caratterizzati da dinamicità e si sviluppano nelle tre dimensioni dello spazio
lunghezza, larghezza, altezza, e nella dimensione del tempo. Essi sono: camminare, correre, strisciare,
rotolare, dondolare, saltare e arrampicarsi, lanciare e afferrare.
▪ Schemi posturali: sono caratterizzati da staticità o dinamicità, quindi possono essere sia statici che
dinamici, ma a differenza degli schemi motori si sviluppano nelle tre dimensioni dello spazio
lunghezza, larghezza altezza, ma non nella dimensione del tempo. Essi sono: flettere, circondurre,
estendere, spingere, piegare su, lanciare, inclinare e ruotare;
I riflessi neonatali, cioè le risposte involontarie agli stimoli esterni, in questa prima fase sono:
Il riflesso di Moro: è quello per cui al manifestarsi di un rumore improvviso o appoggiando in modo
brusco o rapido il neonato su una superficie in posizione supina o abbassando la mano che gli
sostiene il capo, il neonato fa un sobbalzo con abduzione delle braccia e apertura delle mani e
riavvicinamento delle braccia, come se stesse facendo un abbraccio. Infatti, filogeneticamente si
dice che questo riflesso si sia evoluto da alcuni animali che scavano di piccola taglia, che stavano sui
rami degli alberi e che quindi si aggrappavano proprio al ramo quando sentivano un rumore molto
forte.
Il riflesso di rooting o riflesso dei punti cardinali si ha quando sfiorando la guancia del neonato, il
neonato ruota la testa prima verso il lato stimolato e poi verso l'altro.
Il riflesso di suzione quando al contatto della bocca con qualcosa, per esempio il ciuccio o il dito, il
neonato avviare pattern di suzione non finalizzate alla nutrizione.
Il riflesso di grasping o di presa (che quello che ci piace tanto ci gratifica) è quello per cui se
tocchiamo il palmo della mano con il nostro dito indice, il neonato stringe il nostro dito; non è il
neonato che ci trattiene, che non vuole che ci allontaniamo da lui, perché è un riflesso quindi il
neonato appunto reagisce allo stimolo del nostro dito con questo riflesso.
Il riflesso di marcia o walking: se tenuto in posizione eretta con i piedi su una superficie rigida, il
neonato compie movimenti simili alla deambulazione
Il riflesso di Babinsky: se si accarezza la pianta del piede, il neonato stende e poi ritira le dita.
3 MESI
• in posizione prona è in grado di sollevare la testa il torace e cominciare a reggersi sugli avambracci
• in posizione ventrale di tenere la testa sollevata rispetto al corpo
• quando il bambino è in posizione seduta è in grado di inarcare la schiena e la testa rimane dritta
per qualche secondo (quindi a 3 mesi comincia a tenere, anche se per poco, la testa dritta)
• in posizione supina, il bambino osserva il movimento delle sue mani;
• comincia ad allungare le braccia per afferrare gli oggetti.
6 MESI
• in posizione supina, solleva la testa e stende le braccia per essere sollevato e mettersi in posizione
seduta
• si gira della posizione prona a quella supina e poi dalla posizione supina a quella prona
• sostiene il peso delle gambe e saltellare se sostenuto in posizione eretta (quindi deve essere
sostenuto)
• è in grado di allungare le braccia per afferrare un oggetto, anche se piccolo; dapprima afferra gli
oggetti con tutte e due le mani, poi soltanto con una mano
• afferra gli oggetti con presa a palmare, quindi non ha la presa più raffinata indice-pollice, ma è una
presa con il palmo della mano, e poi trasferisce gli oggetti da una mano all’altra
9 MESI
• è in grado di stare seduto senza sostegno ed è in grado di sedersi da solo
• rotolare strisciare muovere carponi su una superficie piana, anche se il muoversi carponi in realtà
non è una fase obbligatoria, ci sono bambini che non vanno carponi o che si muovono in altro
modo
• spostarsi dalla posizione seduta a quella eretta, rimanere in posizione eretta o fare piccoli passi con
un sostegno
• afferrare oggetti sia fissi che in movimento, manipolare ed esplorare gli oggetti, usare il dito indice
per indicare
• comincia usare la presa indice pollice prima nella parte prossimale e poi in quella distale
12 MESI
• è capace di spostarsi movendosi carponi o strisciando da seduto (shuffing): ci sono dei bambini che
hanno questa modalità particolare stanno seduti e si muovono facendo forza sulle gambe e
muovendosi con il sedere, arretrano in questo modo o avanzano
• sono in grado di stare in piedi e da soli per qualche minuto
• di muoversi lateralmente camminare avanti se sorretto da una o entrambe le mani
• incomincia a camminare da solo
• è in grado di coordinare braccia e mano per afferrare oggetti con una presa a pinza
• indicare con l'indice gli oggetti
• tenere due oggetti contemporaneamente nelle due mani con prensione tripodica, quindi pollice
indice e medio
15 MESI
• deambulare a gambe larghe con le braccia aperte per mantenersi in equilibrio
• salire qualche gradino inginocchiarsi
• manipolare due cubi e metterli l'uno sull'altro
• afferrare una matita con presa palmare a fare scarabocchi muovendo il braccio lungo direzioni
dritto avanti/indietro (il repertorio di movimenti via via si va diversificando e per esempio rispetto
alla motricità fine cominciano a comparire anche le abilità grafo motorie)
18 MESI
• camminare senza aiuto e senza difficoltà con gambe leggermente larghe e senza tenere le braccia
aperte
• correre su una traiettoria dritta
• trasportare oggetti quando cammina
• salire e scendere le scale con aiuto
• arrampicarsi su una sedia o su una superficie e inginocchiarsi per raccogliere qualcosa da terra
• costruire torri con 3 cubi
• impugnare la matita nella parte centrale con prensione palmare o prensione tripodica
• fare scarabocchi lungo linee anche curve
24 MESI
• salire e scendere le scale
• correre evitando ostacoli
• lanciare una palla e spingere/ tirare oggetti sul pavimento
• stare seduto sul triciclo e spostarsi con la spinta dei piedi sul pavimento
• manipolare oggetti anche di piccole dimensioni
• realizzare puzzle semplici, quindi con pochi pezzi impugnare la matita con due dita
• costruire torri con 6 cubi e sfogliare le pagine di un libro con il dito indice
A 2 anni è un’età fatidica perché il bambino ha già un repertorio di movimenti che rappresentano un po' la
base di quella che è la sua autonomia; dopo le capacità motorie si vanno affinando ma già entro il secondo
anno di vita in larga parte sono state sono state acquisite.
Cosa significa differenze ambientali culturali e anche familiari? Si può fare un esempio tra lo stile di vita
attivo e quello sedentario: la ricerca concorda sul fatto che ci siano delle differenze di tipo culturale negli
stili di vita, cioè stili di vita più attivi sono maggiormente rintracciabili in alcune fasce sociali piuttosto che in
altre; ma ci sono anche delle differenze culturali se per esempio andiamo a confrontare gli stili di vita paesi
dell'Europa settentrionale e paesi dell'Europa meridionale troviamo delle differenze, cioè troviamo
maggiori livelli di inattività per esempio nei paesi meridionali.
Differenze individuali. A proposito di differenze individuali aumenta anche il confronto con i compagni
Questo è il periodo in cui c'è la maggiore frequenza di richieste di valutazione per sospetto DCD
(Developmental Coordination Disorder) ovvero il disturbo di coordinazione motoria che è un disturbo del
neurosviluppo caratterizzato da goffaggine, lentezza, imprecisione nello svolgimento delle attività motorie,
che interferiscono significativamente e persistentemente con la vita quotidiana e le attività scolastiche. Si
tratta di un vero e proprio disturbo, diagnosticato del dsm-5. C'è una maggiore frequenza di richiesta di
valutazione in età scolare perché questa è l'età in cui si evidenziano maggiormente le differenze individuali
e in cui emergono questi disturbi; non perché prima non ci fossero ma adesso è più evidente perché è
maggiore il confronto con gli altri, quindi emergono più delineato quelle che possono essere difficoltà dal
punto di vista motorio.
L'immagine corporea, che non è la conoscenza dello schema corporeo, ovvero la conoscenza dal punto di
vista anche cognitivo delle diverse parti del corpo, ma è l'insieme di percezioni, affetti convinzioni che
ruotano attorno al proprio corpo, quindi “come mi vedo, come mi percepisco”
A questo proposito in età adolescenziale il corpo spesso è fonte di preoccupazione che genera vissuti di
inadeguatezza e di inferiorità.
Infatti ci possono essere forme di disturbi di distorsione dell'immagine e anomalo rapporto con il cibo che
possono portare a disturbi del comportamento alimentare o vigoressia che è un po' per certi versi
l'opposto dell'anoressia, infatti inizialmente era chiamata “anoressia reverse”, perché ci si guarda allo
specchio e ci si vede fragilini, ci si vede più magri di come si è realmente, e caratterizza anche quelle
persone che hanno una sorta di dipendenza dall'esercizio fisico, quindi la frequenza elevata di palestre, fare
esercizio fisico non con regolarità ma a ritmi molto sostenuti, e nonostante si mette massa muscolare però
allo specchio ci si vede sempre con un tono muscolare molto ridotto.
Ci possono essere problemi di coordinazione dati dalla goffaggine causate da un'improvvisa e/o accelerata
crescita fisica e quindi disagio nelle relazioni interpersonali, forme di isolamento sociale, bullismo o e
dropout sportivo.
L'età adolescenziale è fortemente caratterizzata dall'abbandono sportivo per varie ragioni anche di natura
sociale, cioè relazionale.
APA. Questo presuppone delle strategie di compensazione e motoria e cognitiva per ridurre le differenze
con le prestazioni dei giovani: sono sempre più diffusi i programmi di attività motoria adattata (APA,
Adapted Physical Activity), ovvero corsi di attività motoria per anziani. Sono adattate perché tengono conto
di quelle che sono le differenze fisiche e motorie dell'anziano e sono finalizzate alla prevenzione:
- del rischio di cadute e l'incremento della forza muscolare:
- al miglioramento dell'equilibrio;
- al controllo posturale:
- alla flessibilità articolare.
Sono delle attività che attraverso la motricità sono finalizzate al miglioramento della qualità di vita
dell'anziano.
Psicologia dello sviluppo e dell’educazione
18-05
ESEMPIO: ipotizziamo che si presenti una coppia di genitori per risolvere il problema del figlio con
difficoltà scolastica, enuresi notturna ecc.
Il colloquio si svolge con una prima fase di presentazione, il joining, una sorta di riscaldamento prima
di passare a parlare del problema del perché i genitori abbiano cercato una consulenza psicologica,
e si crea un’atmosfera calda con lo scopo di far rilassare a livello emotivo.
Entrambi i genitori si presentano, includendo nome, cognome, impiego e numero di figli.
Qual è la differenza fondamentale? l’uomo si presenterà direttamente, parlerà di sé stesso e poi del
suo sistema familiare, mentre la moglie dirà il suo nome, parlerà della sua famiglia. Questo non
significa che il padre tenga meno alla famiglia ma, in termini ancestrali, è proiettato verso l’esterno,
è più centrifugo, il suo ruolo è quello di pensare al sostentamento e mantenimento della famiglia,
mentre la donna si è immediatamente qualificata come madre, pur svolgendo anche lei una
professione: a livello ancestrale, la donna è più centripeta.
Nel nostro archetipo mentale il padre è quello che provvede al mantenimento e si identifica nella
professione, al contrario della figura femminile che trae al proprio interno, perché più centripeta, la
forma di soddisfacimento emotivo, è quella che si prende cura dei figli.
È chiaro che questa ripartizione di ruoli all’interno del sistema familiare si sia altamente modificata
nel corso del tempo per fattori socio-economici, il controllo delle nascite; si assiste ad una
ridefinizione di ruoli, tanto che un altro passaggio epistemologico fondamentale nell’ambito della
psicologia dello sviluppo è quello dalla genitorialità alla co-genitorialità.
Con il termine “co-genitorialità” si fa riferimento ad un modello innovativo di educazione dove i
genitori si relazionano tra loro, un’alleanza che consente a ciascuno dei due partner di comunicare
sui temi, scelte, progettualità futura, tutto ciò che riguarda i propri figli.
La co-genitorialità, non riguarda solo normo famiglie ma anche famiglia separate, ciò non significa
che non ci sia la condivisione di progetti e di sistemi valoriali ed etici su ciò che è corretto per i propri
figli. Quindi, con co-genitorialità ci si riferisce al modo in cui i genitori si relazionano l’uno l’altro
rispetto ai modelli educativi necessari per la crescita armonica dei propri figli.
L’alleanza educativa definisce la co-genitorialità.
L’antagonismo corrisponde alla triangolazione? È un meccanismo un po’ perverso, quando uno dei
genitori in questa lotta caratterizzata da conflittualità, da antagonismo, da svalutazione nei
confronti del coniuge rende complice il figlio, diventano due contro uno.
Questi sono meccanismi che si instaurano frequentemente nelle separazioni cruente, oggi infatti si
fa moltissima prevenzione proprio per evitare che possano innescarsi questi meccanismi
disfunzionali.
Sembra che i due sottosistemi, filiare e sistema parentale, siano soggetti ad una continua pressione
che va in due diverse direzioni: da una parte si ha un’iper-protezione che può comportare una
riduzione nella cura, nella responsabilità da parte dei genitori ma anche nella crescita autonoma,
nella manipolazione del mondo esterno; dall’altra parte una iper-responsabilizzazione che, invece,
determina una eccessiva precocità nella crescita del figlio.
Si tratta, quindi, di due poli opposti: con l’iper-responsabilizzazione, il parental-child, il bambino
viene adultizzato e iper-responsabilizzato, dall’altra parte, invece, una iper-protezione che
determina de-responsabilizzazione e mina la capacità del soggetto di manipolazione ed esplorazione
del mondo esterno, una limitazione nella sfera relazionale-sociale.
L’iper-protezione è fortemente influenzata dalla incidenza dei media più che mai, questi possono
creare addiction, dipendenze; la nuova generazione sembra non conoscere la noia, è come se buon
genitore fosse solamente il genitore che riesce a riempire qualsiasi spazio vuoto della quotidianità
dei figli.
L’iper-protezione
Caratterizza le famiglie prevalentemente centripete, un sistema cerca al proprio interno la fonte di
soddisfacimento primaria. Quindi, tende a guardare tutto ciò che è all’esterno come potenzialmente
pericoloso e minaccioso nei confronti della propria armonia, che è un’armonia fittizia poiché
determinata esclusivamente da quelle relazioni in cui viene evitato il confronto con tutto ciò che è
fuori.
Perché si parla di delegittimizzazione?
Ad esempio, ci sono i genitori che tendono a delegittimare sempre l’insegnante, a svalutare
l’autorità anche in contesti normativi. Come se i propri figli avessero sempre ragione e gli altri
sempre torto.
È un sistema familiare che tende anche a soddisfare immediatamente il bisogno del figlio,
incentivando così quello che è un altro meccanismo disfunzionale di “tutto e subito”.
Si tratta di una famiglia che non fa sviluppare il desiderio di un qualcosa, l’attesa e l’aspettativa di
qualcosa, piuttosto tende a soddisfare tutto e subito proprio perché il bambino deve trovare
all’interno del sistema familiare la fonte del suo soddisfacimento emotivo, non avendo così
necessità di rivolgersi fuori e quindi in questo modo abolisce l’attesa e il desiderio che nasce proprio
dal confronto del mondo esterno; ma così facendo, il bambino viene reso sempre più inadeguato e
fragile in quanto incapace di tollerare la frustrazione, essendo abituato ad avere tutto subito.
Il messaggio che veicola questo sistema è: non hai bisogno di ricercare fuori. Tutto ciò che è fuori,
altro, è potenzialmente pericoloso; quindi, io soddisfo il tuo bisogno prima ancora che tu possa
avvertire il desiderio, ma così facendo ti rendo ancora più fragile”.
L’iper-responsabilizzazione
Di contro, l’iper-responsabilizzazione spinge il bambino a crescere più in fretta e a essere più
responsabile e autonomo. Ciò comporta un’eccessiva anticipazione dell’età adolescenziale e dell’età
adulta.
Gli studi di Grolnick risalgono agli anni 2000, proprio quando parla di stili genitoriali e di dimensioni
degli stili familiari, ma in realtà non sono altro che una rivisitazione aggiornata degli stessi modelli
proposti da Durkheimer, il cui discorso, però, è troppo contestualizzato in quel preciso contesto
sociale.
▪ Controllo comportamentale → continua supervisione che viene messa in atto dai genitori
per controllare il comportamento e la condotta dei figli.
Tipico dei genitori che chiedono “come si è comportato?”, invece di “come si è sentito?”.
Quindi è uno stile centrato di più al controllo comportamentale piuttosto che al calore, dove
si dà più spazio alla sfera emotiva ed affettiva.
Controllo = monitoraggio.
Questi stili riguardano studi che si sono sviluppati nell’ultimo ventennio perché si è visto come lo
studio dello stile genitoriale, caratterizzato dalla responsività, dal mettere al centro la discussione,
le emozioni e dal dare spazio alla voce emotivo dell’altro, riprenda tutti gli studi sull’attaccamento
ma in maniera molto più sofisticata ed aggiornata.
Di monitoraggio se ne era parlato negli anni ‘70 a proposito della metacognizione, cioè questa sorta
di controllo, di monitoraggio continuo.
Il monitoraggio genitoriale consiste proprio nella conoscenza che i genitori hanno delle attività
svolte dai propri figli, in particolare delle attività extra cioè, fuori dallo stretto setting familiare. Il
controllo non è solamente una sorta di spionaggio su ciò che il figlio fa quando varca la soglia di
casa, ma può nascere anche da una discussione, da una semplice conversazione su ciò che fa quando
esce da casa; è molto importante che a parlare di ciò che succede fuori non siano solamente i figli
ma anche i genitori.
EDUCAZIONE AFFETTIVA
Con educazione affettiva si intende un atteggiamento di attenzione, di cura nei confronti di tutto ciò
che è la sfera emotiva. Educazione affettiva è promuovere un’abilità di ascolto attivo e non passivo.
L’ascolto è anche l’ascolto del silenzio che spesso è molto più eloquente di tante, tante parole.
L’educazione affettiva è anche insegnare ai genitori che le cose importanti non sono le cose dette
ma le cose fatte insieme.
L’importante non è semplicemente parlare con i propri figli ma fare insieme attività discutendo su
come ci si sente.
Uno strumento importante, in tal senso, è la narrazione di cui ha parlato Bruner.
A proposito di genitorialità fragile ricordiamo che non esistono famiglie perfette, ma famiglie
funzionali, il cui funzionamento è costante e in continuo equilibrio. Equilibrio che essendo fragile e
facilmente modificabile, deve essere costruito gradualmente e giornalmente. Quindi si può parlare
di funzionamento familiare più o meno adattivo. Non useremo mai termini come “famiglia
eccellente o pessima” ma parleremo di famiglia con un funzionamento adattivo o disadattivo. Il
funzionamento adattivo è dato proprio dalla capacità di attivare di narrazione emotiva e dato
dall’equilibrio tra iper-protezione e iper-responsabilizzazione.
Un soggetto, per avere un DSA, deve avere un buon o altissimo funzionamento cognitivo, quindi un
quoziente intellettivo nella norma se non addirittura superiore; si tratta di ragazzi molto intelligenti
ma che hanno un disturbo specifico che riguarda la capacità di lettura, scrittura, calcolo. Perché in
caso contrario il disturbo non sarebbe specifico e primario ma associato e secondario.
In altri termini, se si ha una disabilità intellettiva, quindi un quoziente intellettivo inferiore a 70,
allora è chiaro che si abbiano difficoltà di comprensione e di calcolo ma, in tal caso, il disturbo è
associato e secondario; al contrario il DSA è presente esclusivamente in ragazzi con un
funzionamento cognitivo buono se non superiore agli altri.
Al centro della situazione c’è il bambino con buone capacità relazionali e cognitive, il quale, però, si
sente ripetere tutto il tempo di non avere certe capacità. Da qui nasce un atteggiamento di rifiuto
che se non seguito arriverebbe all’idea di essere un fallito ed incapace (rappresentazione di
intelligenza di tipo entitario).
Quando abbiamo parlato di registro attivo e registro passivo, abbiamo detto che quest’ultimo è
molto più precoce e ampio del registro attivo.
Quando si ascolta qualcuno parlare, un flusso di suoni arrivano all’apparato uditivo e questi si
trasformano in parole con l’elaborazione. Nel caso di un DSA, il bambino non riesce a staccare
correttamente le parole e le scrive tutte unite
La valutazione completa può essere fatta solamente alla fine della seconda elementare. Questo
perché, per quanto gli indicatori possano essere significativi non si può fare una valutazione DSA in
prima elementare, bisogna aspettare la maturazione del bambino, il quale, magari, all’improvviso,
potrebbe sbloccarsi.
Lezione sviluppo 19.05
Per parlare di un dsa dobbiamo tenere conto di alcuni criteri di esclusione, il primo da ricordare sempre è
che il funzionamento cognitivo sia nella media o superiore alla media. Tanto più precoce è l’intervento tanto
più possiamo ottimizzare il percorso apprenditivo. Un intervento va modulato per ogni soggetto proprio per-
chè i profili sono fortemente differenziati e frequentemente caratterizzati da comorbidita, non c’è uno uguale
all’altro.
Definizioni di DSA. Negli Stati Uniti si parla di learining disability già a partire negli anni 70, poi nell’ambito
europeo nell’ 88 e si parla di bisogni educativi e in particolar si definiscono criteri per poter distinguere diffi-
colta da disturbo specifici. La ricerca vera e propria nell’ambito della psicopatologia nell’ambito scolastico ha
inizio negli anni 90 per arrivare alla difficoltà nella comprensione del testo nel 2010. I DSA:
- hanno un carattere evolutivo, cambiano nel tempo infatti se facciamo una valutazione precoce e il
soggetto viene supportato da strategie compensative, l’espressione del dsa cambierà nel corso del
tempo, il soggetto sarà sempre più compensato;
- possono essere in compresenza con il disturbo dell’attenzione/iperattività e disturbo specifico del
linguaggio;
- quelli relativi alla lettura e alla scrittura sono diagnosticati in seconda elementare;
- quelli relativi al calcolo sono diagnosticati in terza elementare.
Disposizioni di legge in materia di DSA. La prima consensus conference è del 2007 ed è un momento fonda-
mentale in quanto sono state identificate le prime linee guida: la legge dell’8 ottobre 2010, n°170 riguarda:
- riconoscimento di dislessia, disgrafia, disortografia e discalculia;
- le misure familiare, educative, di supporto;
- formazione nella scuola;
- disposizioni di attuazione;
- diagnosi.
Cause dei DSA. Riguardo le cause del DSA ci sono diversi filoni interpretativi:
▪ chi attribuisce maggior rilievo alla genetica;
▪ chi alla causa ambientale;
▪ chi alla causa neurobiologica
DISLESSIA
Quando si parla di psicopatologia dell’apprendimento l’attenzione viene focalizzata sulla dislessia infatti è il
disturbo di cui più si sa ma oggi l’interesse si va sempre più focalizzando su altri ambiti.
La dislessia è una disfunzione innata che comporta lievi o gravi incompetenze nei processi di codifica o di
decodifica del testo scritto, spesso associati a disturbi nell’area matematica.
→ Dislessia acquisita ed evolutiva. La dislessia viene distinta in acquisita ed evolutiva:
- Acquisita: deriva da un insulto cerebrale che danneggia i meccanismi percettivo linguistici;
- Evolutiva: riguarda l’acquisizione del codice scritto e i criteri che riguardano la rapidità della lettura
senza commettere errori.
Il disturbo si modifica nel tempo. Questo disturbo come gli altri presenta un carattere evolutivo:
→ nella scuola primaria presenta:
- una graduale acquisizione del codice alfabetico;
- graduale acquisizione delle corrispondenti grafema-fonema che sono fragili e instabili.
→ Termine della scuola primaria:
- difficoltà nell’ associare grafema-fonema e viceversa infatti ci sono difficoltà nella dettatura;
- difficoltà nell’utilizzare determinati caratteri quali lo stampato maiuscolo;
- mancato raggiungimento del controllo sillabico in lettura e scrittura;
- eccessiva lentezza nella lettura e scrittura, può essere anche veloce (iperlessici) ma non comprende
ciò che legge;
- legge male ad alta voce, nella lettura e scrittura mostra ripetizioni, trasposizioni, aggiunte, omissioni,
sostituzioni o inversioni di lettere, parole e numeri.
→ Nella scuola secondaria di primo grado:
- Raggiungimento di una padronanza quasi completa del codice alfabetico;
- Stabilizzazione delle corrispondenze grafema-fonema.
Abilità nella letto/scrittura. Lettura e scrittura sono gli ambiti apprenditivi attenzionati nel primo ciclo della
scuola primaria. In questi anni il bambino è:
- Lento nella lettura,
- Può avere una ragionevole rapidità di lettura ma non comprende ciò che ha letto (iperlessia);
- Non legge mai per il gusto di farlo;
- Può essere distratto dal riconoscere “disegni” nel testo scritto e si lamenta che le parole saltano fuori
dalla pagina;
- Legge male ad alta voce;
- Nella lettura e nella scrittura mostra ripetizioni, trasposizioni, aggiunte, omissioni, sostituzione o in-
versioni di lettere, parole e numeri.
DISCALCULIA
La discalculia riguarda la difficoltà specifica nell’aria numerica e aritmetica, in soggetti con un adeguato fun-
zionamento cognitivo. Si manifesta in bambini di intelligenza normale che non hanno subito danni neurologici
e può presentarsi associata alla dislessia ma è possibile che ne sia dissociata. La difficoltà in matematica o
primaria o secondaria se associata ad altri disturbi di apprendimento (più comune dislessia) può essere dia-
gnosticata già alla fine della seconda classe della scuola primaria.
DISGRAFIA E DISORTOGRAFIA
La disgrafia e disortografia sono due disturbi di scrittura. Le caratteristiche di un bambino disgrafico sono:
- Ha una mano pesante che scorre con fatica sul piano di scrittura e l’impugnatura della penna è spesso
scorretta;
- La capacità di utilizzare lo spazio a disposizione per scrivere è, solitamente, molto ridotta: il bambino
non rispetta i margini del foglio, lascia spazi irregolari tra i grafemi e tra le parole, non segue la linea
di scrittura, procede in “salta” o in “discesa” rispetto al rigo;
- La pressione della mano sul foglio non è adeguatamente regolata; talvolta è eccessivamente forte
(per eccesso di tensione) e il segno lascia un’impronta marcata anche nelle pagine seguenti del qua-
derno, talvolta è debole e la grafia è svolazzante (scarsa tenuta psicofisica);
- Sono frequenti le inversioni nella direzione del gesto, che si evidenziano sia nell’esecuzione dei singoli
grafemi che nella scrittura autonoma, che a volte procede da destra verso sinistra;
- La copia della lavagna è ancora più difficile, in quanto il bambino deve portare avanti più compiti
contemporaneamente: distinzione della parola dallo sfondo, spostamento dello sguardo dalla lava-
gna al foglio, riproduzione dei grafemi;
- Le dimensioni delle lettere non sono rispettate, la forma è irregolare, l’impostazione invertita, il gesto
è scarsamente fluido, i legami tra le lettere risultano scorretti. Tutto ciò rende la scrittura incompren-
sibile al bambino stesso, il quale non può neanche individuare e correggere eventuali errori ortogra-
fici.
Difficoltà emotivo-affettivo. L’apprendimento autoregolato enfatizza questo duplice binario tra cognitivo ed
emotivo motivazionale, questo è un bambino con difficoltà non solo di tipo cognitivo ma soprattutto emo-
tivo-affettivo-motivazionale che va ripreso a livello motivazionale, e si deve intraprendere un potenziamento
cognitivo perché si va ad innescare un circolo vizioso fortemente demotivato. Mostra infatti scarso interesse,
non si impegna in quanto è convinto che più di questo non riesce a fare.
Demotivazione/disinteresse. Perché il soggetto presenta questo profilo motivazionale così fragile? Perché le
sue difficoltà non sono state riconosciute, ma vengono semplicemente stigmatizzate come mancanza di
impegno, mancanza di volontà. È un bambino, quindi, che non si sente accettato, non si sente accolto nel suo
malessere, non si sente compreso, ma si protegge da eventuali frustrazioni che derivano dall’incapacità di
risolvere una situazione o un problema evitando direttamente il compito. Tutto ciò non fa altro che andare a
strutturare quest’immagine di sé prevalentemente negativa. “Learn del cleanness”: l’impotenza appresa, il
soggetto che alla fine si comporta come un perdente, che attiva quelle strategie che non sono più
compensative, dispensative, ma strategie di autosabotaggio che tendono proprio a destinarlo al fallimento.
Dunque:
- Le difficoltà non vengono riconosciute, il bambino si protegge dalle frustrazioni evitando il compito;
- Ciò causa: basso senso di autoefficacia e di autostima e concetto di sé negativo;
- Successi dati da cause esterne, gli insuccessi da cause interne.
Disagio psicologico
E’ una situazione di grave malessere psicologico che non
riguarda solamente il bambino, ma anche il sistema
familiare; ad esempio da una parte vi è il padre stressato,
dall’altra la madre che non avverte particolari problemi
ma pensa che le difficoltà dipendano da un’incompetenza
altrui, in quanto non sono in grado di valorizzare il
bambino.
Espressioni di disagio emotivo. Le espressioni di disagio emotivo sono:
→ Comportamenti di ritiro:
- Non fa confusione, è silenzioso, non litiga;
- Non discute, non chiede aiuto, accetta le decisioni prese dagli altri.
→ Vivacità, bisogno di movimento e protagonismo:
- Entrambe le espressioni causano insicurezza e la paura di essere inadeguato.
Disturbi emotivi associati. Frequenti sono anche i disturbi emotivi, quindi il profilo di questo soggetto è molto
complesso dal punto di vista cognitivo; cognitivo inteso come l’ambito specifico dell’apprendimento che viene
interessato, intaccato, non come funzionamento cognitivo perché quello è perfetto. Si tratta invece di un
profilo compromesso sul piano dell’apprendimento, comportamentale, emotivo, motivazionale… Sono
soggetti che, ad esempio, talvolta possono presentare anche gravi disturbi emotivi associati che possono
concretizzarsi ulteriormente nell’età adulta, ed incidere quindi su quello che è lo sviluppo armonico della
personalità, ma anche ai bambini che presentano una serie di sintomi quali cefalee frequenti, mal di testa,
reflusso…
Reazioni psicologiche. L’area fisica, comportamentale e psichica sono strettamente connesse. Il bambino che
evita il compito presenta diverse tipologie di amlessere:
→ Area fisica:
- nausea;
- cefalea.
→ Area comportamentale:
- Instabilità attentiva e motoria;
- Aggressività;
- Scarso interesse.
→ Area psichica:
- Atteggiamento rinunciatario
Il compito dell’insegnante. Il compito dell’insegnante è quello di individuare tutti gli indicatori di rischio e poi
inviare ad un approfondimento valutativo-diagnostico; gli obiettivi sono:
- Svolgere una didattica individualizzata: modula i tempi, gli strumenti per il raggiungimento delle
competenze. Si tratta di un metodo che tiene conto del profilo tipo di quello specifico bambino, quindi
dei suoi punti di forza e dei suoi punti di debolezza. L’obiettivo è sempre quello di lavorare per
l’autonomia di quel bambino, non di renderlo iperprotetto; gli psicologi individuano quelle strategie,
quei metodi che renderanno quel bambino sempre più autonomo nel proprio percorso apprenditivo;
- Svolgere una didattica personalizzata: mira a sviluppare le potenzialità, programmare gli obiettivi,
adottare strategie comprensive e dispensative, vi è la compartecipazione di specialisti, scuola e
famiglia.
Tra questi strumenti vi sono:
→ Strumenti compensativi: utilizzati per compensare la mancanza di qualcosa:
- Registratore;
- Videoscrittura con correttore ortografico;
- Tabelle, formulari;
- Mappe;
- Interrogazioni programmate e maggio tempo per le prove.
→ Misure dispensative: ciò da cui il soggetto può essere dispensato, quindi ciò che può evitare di fare o
utilizzare:
- la sintesi vocale;
- l’uso della calcolatrice;
- l’utilizzo della lettura ad alta voce;
- l’utilizzo del vocabolario, l’apprendimento di formule mnemoniche;
- dispensare dallo studio della lingua straniera in forma scritta.
→ Valutazione: il profilo influenza anche la modalità di valutazione:
- prove informatizzate molto frequenti;
- tempi aggiuntivi;
- verifiche programmate;
- verifiche orali e non scritte;
- valutare le conoscenze, le competenze di analisi, sintesi e collegamento, invece che la correttezza
formale.
Le strategie.
Cos’è lo SPAN di memoria? E’ la capacità della memoria a breve termine, intesa come capienza. Miller ha
quantificato la capacità della memoria a breve termine nel numero 7 (più o meno 2, pertanto con una
possibile oscillazione da 5 a 9).
Come viene valutata la memoria? Attraverso diverse prove, facenti parte di un test intellettivo come il
“Listening SPAN test”, elaborato da Daneman e Carpenter, di cui vi è pure la forma scritta, il “Reading SPAN
test” o il Digit SPAN test, con le cifre; questo è il modello classico (elaborato da Daneman e Carpenter) come
SPAN test e sottolinea la duplice funzione della working memory, quindi contemporanea elaborazione e
immagazzinamento dell’informazione.
→ Modello di Cowan. Un altro modello di memoria particolarmente interessante per comprendere come
il bambino si comporta dinanzi un compito di problem solving è il modello di Cowan.
Cowan descrive una metafora particolarmente interessante per spiegare il funzionamento della memoria di
lavoro, sottesa ai compiti di apprendimento scolastico cioè la metafora della biblioteca. Lui sostiene che la
nostra mente funzioni come una sorta di biblioteca, dove sono catalogate tutte le nostre informazioni e
recuperiamo le informazioni che ci servono nella soluzione ad un determinato problema in funzione del
compito che dobbiamo risolvere. Le informazioni che noi acquisiamo nel corso del tempo vengono tanto più
profondamente immagazzinate tanto più sono elaborate, processate; e quanto più si elaborano le
informazioni tanto più facilmente si possono recuperare, quando il compito lo reputa necessario.
Nella nostra memoria a breve termine quindi le informazioni vengono catalogate e io vado a recuperarle
quando il compito lo reputa necessari. Come si recuperano?
Devo avere delle etichette, dei segnali distintivi che mi consentono immediatamente di recuperare quella
data informazione. Tali etichette o indizi fungono da lampadine lampeggianti che immediatamente ci
consentono di recuperare quell’informazione per risolvere una determinata situazione o problema.
Es. un bambino ha davanti la torre Eiffel, quindi è chiaro che debba affrontare un compito di geografia che ha
a che fare con la Francia e va a recuperare dalla sua memoria, dove tante informazioni sono state catalogate
con degli indizi, tutte quelle attinenti alla Francia. Gli indizi possono essere di tipo fonologico ma possono
essere anche di tipo visivo, quindi ci può essere la torre Eiffel disegnata, ci può essere il Moulin Rouge o il
suono “baguette” e così per tutte le altre informazioni che possiede. Ma la nostra è una mente fluida, flessibile,
è una mente modulare come la definiva Karmiloff-Smith, pertanto queste stesse informazioni che abbiamo
catalogato in memoria vengono riorganizzate in continuazione in funzione del compito che si deve affrontare.
Ecco la modularietà della mente del bambino con un ottimo funzionamento cognitivo, che porta ad
immagazzinare bene le informazioni per poi poterle recuperare.
Difficoltà di memoria. In un compito di lettura non basta saper leggere bene o velocemente ma è
fondamentale comprendere ciò che si sta leggendo, crearsi una rappresentazione mentale; la
rappresentazione non è una semplice registrazione, una fotocopia di ciò che si è letto ma attiva le conoscenze
che fanno parte del repertorio conoscitivo del soggetto, quelle conoscenze che riesce a recuperare, a
ripristinare perché ha molto ben elaborato, al fine di giungere ad una corretta rappresentazione del significato.
Parlare di apprendimento significa inevitabilmente parlare di memoria perché molto spesso non è detto che
il soggetto abbia una discalculia o una dislessia ma una difficoltà di memoria, nell’immagazzinare le
informazioni.
Il training, il potenziamento, oltre ad essere tempestivo, deve essere anche molto concentrato, non troppo
fluido nel tempo. L’ideale sarebbe, con un bambino, malgrado tutte le difficoltà anche organizzative, fare dei
training concentrati nel tempo, due o tre volte a settimana, perché ogni incontro prevede una fase di
consolidamento delle abilità apprese durante la seduta precedente ma al tempo stesso ti prepara a quella
seguente. Non possono essere eccessivamente prolungati come una giornata intera o un pomeriggio intero
perché risulta eccessivo per il bambino come carico cognitivo ma neppure troppo fluidi, troppo distanziati
perché altrimenti perde, l’effetto mantenimento si sbiadisce nel corso del tempo.
Infine, si fanno dei follow up a distanza di tre/sei/nove mesi per vedere l’effetto mantenimento; è chiaro che
il mantenimento a poco a poco tende a sbiadirsi, ma se il training ha funzionato sbiadisce di poco, non si
perde mai tutto. I libri, i manuali per bambini oggi sono costruiti proprio secondo un’ottica metacognitiva,
quindi corredati da immagini perché sono degli indizi che confluiscono nel taccuino viso-spaziale, domande
frequenti nel corso del testo, relative a chi (protagonista), al perché (la ricerca della causa) o al setting di
svolgimento dell’azione: il bambino è come se venisse guidato, monitorato nel compito di lettura e di
comprensione e poi ci sono una serie di espedienti che servono proprio a facilitare il compito da svolgere.
LEZIONE 21/05/2021.
Per tutti gli psicologi che si occupano di psicopatologia dell’apprendimento un momento cruciale è stato ca-
ratterizzato, prima nel 2007 e poi nel 2010 (anno della revisione), dalla Consensus Conference. Si inizia a
parlare di learning disability prima negli Stati Uniti negli anni 70’, successivamente, negli anni 80’, in Europa,
e vengono definiti i primi criteri diagnostici. Nell’ultimo Ventennio un ampio filone di Letteratura, così come
dimostrato da articoli scientifici, da manuali, è rivolto esclusivamente alla disamina dei DSA (Difficoltà e/o
Disturbi Specifici dell’Apprendimento scolastico.
→ Mentre il disturbo è specifico. L’attributo specifico’ è di estrema importanza, in quanto vuol dire che
riguarda un dominio circoscritto (dominio della lettura, del calcolo, della scrittura e oggi possiamo
dire anche della comprensione del testo).
I criteri di esclusione. Per poter dire che si tratta di un disturbo specifico e non di una difficoltà transitoria e
reversibile bisogna essere certi che non sia imputabile a fattori di esclusione. Bisogna quindi verificare che
non si tratti di disabilità intellettiva, disabilità sensoriale grave o un disturbo attinente alla sfera affettiva/emo-
tiva e bisogna inoltre verificare che quella difficoltà non possa essere imputata ad una situazione di degrado
socioculturale/ambientale.
Il profilo “sporco”. Prima della Consensus Conference si parlava esclusivamente di abilità che riguarda-
vano un dominio specifico, quali lettura, scrittura e calcolo. Tuttavia il profilo ‘’tipo’’ di un soggetto con
DSA è il cosiddetto profilo sporco (non è necessariamente così ma avviene molto spesso). Sporco significa
che è più difficile, ma non impossibile, individuare dei profili puri caratterizzati da mera discalculia o mera
dislessia, ma è facile invece trovare la compresenza di diversi disturbi. Ad esempio, dislessia con tratto
discalculico: va ricordato l’esempio della parola “APE” letta al contrario; nel bambino disgrafico o discalculico
vengono lette in maniera invertita anche alcune cifre.
Quindi, va specificato che i profili sono caratterizzati da comorbidità, ovvero compresenza di disturbi speci-
fici. In questo caso, gli psicologi andranno a distinguere un disturbo primario e un disturbo secondario. È
possibile comunque andare ad individuare dei profili ‘’tipo’’.
Il riconoscimento del DCT. La Consensus Conference, è un momento di incontro e di dibattito tra i diversi
ricercatori esperti nell’ambito della psicopatologia, che apre uno spartiacque. Essa definisce le linee guida dei
DSA (vi è una sezione dedicata nel DSM (Manuale dei Disturbi Mentali) con dei criteri nosografici molto
chiari (descrizione chiara della malattia), e nello specifico fa riferimento ai disturbi di lettura, scrittura e
calcolo e poi riconosce anche l’esistenza di una difficoltà specifica che riguarda l’area della comprensione
del testo scritto.
La C.C. riconosce quindi l’esistenza di una difficoltà altra ma rivolge un invito ai ricercatori ad approfondire
quella tematica, esorta quindi a fare ricerca, raccogliere dati sperimentali, lavorare su grossi campioni, al fine
di garantire rigore, dignità scientifica a questa forma di disturbo. Nell’arco degli ultimi 10-12 anni molti
ricercatori hanno infatti dedicato le proprie energie allo studio della comprensione del testo. Oggi, oltre a
dislessia, discalculia, disgrafia, dunque vi è la presenza dei DCT (Disturbo specifico della Comprensione del
Testo).
Comprensione del testo e lettura. Comprensione del testo e lettura vanno pensate come due facce della
stessa medaglia:
• Esse sono distinte, quindi per uno psicologo che deve effettuare una valutazione significa sia porre
una valutazione differente sia intervenire in maniera differente; è diverso potenziare un soggetto
con dislessia e lavorare invece con un soggetto con difficoltà nella comprensione del testo. La distin-
zione dà quindi dei suggerimenti, delle implicazioni psico-educative diverse ai fini del recupero, del
potenziamento.
• Esse sono anche correlate fra loro, infatti sono la faccia della stessa medaglia. Tra le due vi è una
differenza sottile, ma tagliente. Gli psicologi devono sempre tenere conto di questa distinzione, perché
bisogna fare una corretta valutazione.
Gli screening sui predittori di rischio hanno lo scopo di evidenziare l’eventuale presenza di difficoltà nei
bambini e capire se queste difficoltà nel corso del tempo avrebbero potuto trasformarsi in disturbi specifici
(fare quindi ricerche longitudinali) dalla scuola materna alla primaria. Circa 10-20 anni le maestre pensavano
che non fosse necessario valutare un determinato bambino, se questo leggeva bene. Leggere bene vuol dire:
Cosa significa leggere? Leggere si configura come attività molto complessa che sottende diverse sottoabi-
lità, il perfetto funzionamento delle quali permette il raggiungimento del prodotto finale: capire quanto si è
letto. Leggere significa andare oltre il semplice atto di lettura, codifica, associazione grafema-fonema,
infatti significa giungere ad una rappresentazione del significato, ad una rappresentazione semantica, rappre-
sentazione di ciò che si sta leggendo.
L’atto di comprensione è solo lo step finale di un lungo processo estremamente complesso che presuppone
diverse sottoabilità; è il perfetto sincrono, sinergico funzionamento di queste sottoabilità che consente di giun-
gere ad una rappresentazione semantica. Saper leggere non significa aver compreso, infatti si tratta di due
componenti distinte.
La rappresentazione semantica. La nostra mente non funziona come una fotocopiatrice; quando leggiamo
un brano noi estrapoliamo, filtriamo quelle informazioni che ci consentono di costruire una rappresentazione.
Chiara Levorato, psicologa padovana che ha lavorato sulla comprensione, dice che la rappresentazione seman-
tica ricostruisce nella mente del lettore il mondo della narrazione, cioè:
o Trama
o Personaggi
o Azioni
o Ambiente
o Le osservazioni che l’autore porta.
La rappresentazione non è una semplice registrazione ma va oltre, poiché comporta il ricorso ad un proprio
repertorio conoscitivo. La rappresentazione semantica si configura come una struttura organizzata di conte-
nuti semantici tra loro collegati per mezzo di relazioni temporali e causali.
Infatti, quando si parla di comprensione si tratta di un processo mentale. Inoltre, il modo in cui noi costruiamo
la nostra rappresentazione mentale (comprendiamo un testo) è influenzato dalla dimensione calda dell’appren-
dimento, quindi da interessi, attenzione, affettività. Per questi motivi non si tratta del semplice atto di lettura:
se io so leggere, leggerò senza dubbio bene come tanti altri individui, ma la comprensione del brano potrebbe
essere diversa perché ciascuno ha degli interessi, sfera affettiva, concentrazione, attenzione diversi. Ognuno
di noi nella comprensione mette in gioco un bagaglio di conoscenze che ci contraddistingue, quindi alla fine
la rappresentazione semantica sarà diversa.
Differenza tra testo e sequenza di fasi. Non va confusa la comprensione del testo scritto con la com-
prensione del messaggio orale, in relazione a cui va tenuto conto del registro passivo. Quando parliamo di
comprensione di un testo si fa riferimento alla totalità, non alla comprensione della singola parola o della frase.
Un testo è più della somma delle singole frasi che lo compongono perché è una struttura coerente di
significato. Il testo è quindi una struttura coerente, un insieme di proposizioni correlate da nessi
logici. I nessi logici danno coesione e coerenza.
Quando si tratta di una semplice sequenza di frasi entra in gioco la memoria (ricorda lo span test).
Es.
SEQUENZA DI FRASI:
TESTO:
Modelli teorici sulla comprensione del testo. La comprensione è la fase finale di un lungo processo al
termine del quale il contenuto del testo si integra con le conoscenze possedute dal lettore. Il processo di lettura
indica:
▪ Elaborazione informazione visiva a livello percettivo, grammaticale, sintattico e semantico (indizi del
testo + conoscenze del lettore)
▪ Processi automatizzati (inconsapevoli) e loro svolgimento in parallelo: le informazioni provenienti dai
singoli livelli collaborano contemporaneamente alla costruzione del significato (modello interattivo di
lettura di Rumelhart, 1977)
▪ Distinzione fra processi percettivi e processi di comprensione. Decodifica e comprensione sono abilità
correlate e cooperanti ma possono essere selettivamente compromesse quindi indipendenti.
Ci sono diversi modelli teorici sulla comprensione. Il primo, risalente agli anni 80’ circa, è quello di Zwaan,
ma l’elemento comune dei diversi modelli è quello di descrivere la comprensione come un processo com-
plesso: non si tratta di una mera registrazione meccanica, si tratta di un’elaborazione, un processo che com-
prende diverse sottoabilità.
In questo schema i due autori considerano la presenza di un testo, di un registro sensoriale, poiché si tratta di
un testo scritto e non orale, l’informazione viene elaborata dal sistema sensoriale (di tipo visivo).
Le informazioni vanno a finire nella memoria di lavoro (ricorda il loop fonologico, l’elaborazione dell’infor-
mazione a livello fonologico, verbale e taccuino visuo-spaziale). Le informazioni vengono elaborate, proces-
sate (qui entrano in gioco le inferenze). Alcune informazioni finiscono nella memoria a lungo termine: tanto
più le informazioni vengono elaborate, processate, tanto più facilmente poi vanno a finire nella memoria a
lungo termine, dove potrò recuperarle. La memoria a breve termine ha limitate capacità (ricorda il ‘’magico
umero 7’’), infatti in essa le informazioni possono stare per un determinato intervallo temporale, ma poi, una
volta ben elaborate, passano nel magazzino a lungo termine.
L’obiettivo è giungere a questa rappresentazione globale, ricostruire nella nostra mente il mondo della narra-
zione.
La comprensione: processo multi-compenzionale. Per arrivare allo step finale (rappresentazione se-
mantica) bisogna mettere in atto diversi processi che implicano il ricorso ad un bagaglio conoscitivo esperien-
ziale che fa sì che ciascuno elabori la propria rappresentazione semantica, di significato. La comprensione è
un processo multi-componenziale. Un’attività solo apparentemente unitaria, che comprende diversi sottopro-
cessi:
Percezione
Decodifica
Elaborazione lessicale
Elaborazione sintattica
Elaborazione semantica
Inferenza
L’elaborazione percettiva dell’input visivo implica che quest’ultimo venga elaborato a livello grammaticale,
sintattico, semantico. Vi sono poi dei processi automatizzati che operano in parallelo. Inoltre viene distinto
il processo di decodifica dal processo di comprensione: si tratta di abilità correlate che si influenzano reci-
procamente ma sono al contempo distinte.
Il perfetto funzionamento di questi e la perfetta sincronia e coordinamento fra di essi, permette di cogliere un
significato unitario in ciò che si è letto. Per prima cosa devo vedere, devo percepire, poi devo decodificare
l’atto di lettura, successivamente compio l’elaborazione di tipo lessicale, sintattico, semantico e poi attivo le
inferenze. Le inferenze ci consentono di andare oltre l’esplicito, rendono esplicito ciò che nel testo è reso solo
in forma implicita.
Es. Il cane corre dalla casa all’albero. Se chiediamo al bambino di individuare fra quattro immagini quella
corrispondente alla frase che ha letto: ‘’il cane corre dalla casa all’albero’’, per prima cosa il bambino deve;
saper leggere (codifica), ma deve saper elaborare a livello sintattico, semantico. Quindi il bambino deve essere
capace di mettere insieme tutte le informazioni a livello morfo-sintattico, grammaticale, semantico. Deve
comprendere la sequenza e poi riconoscere l’immagine relativa alla frase. Sta compiendo tante azioni in si-
multanea, sottoabilità che agiscono in maniera sinergica; è solamente il perfetto, sincrono, sinergico funziona-
mento di tutte queste sottoabilità che consente al bambino di riconoscere la vignetta corrispondente.
La comprensione è un processo linguistico, cognitivo e pragmatico che conduce a una costruzione di signifi-
cato. Questa nuova accezione del termine è assai rilevante sul piano educativo, sia in riferimento alla valuta-
zione che in riferimento all’intervento. L’atto di lettura non è l’abilità più complessa, perché la comprensione
la supera. Man mano che si legge un brano vengono formulate delle ipotesi interpretative, ipotesi di signifi-
cato; andando sempre in avanti nella lettura il soggetto assume nuove informazioni, che possono comportare
ad una svolta, mettendo in discussione in crisi ciò che fino al momento aveva compreso. Le nuove informa-
zioni possono attribuire una connotazione semantica nuova alle precedenti ipotesi interpretative dell’in-
dividuo.
o Es. Se ad un bambino di 8/9 anni si fa leggere la frase “era una bellissima giornata, il sole splendeva,
non c’erano nubi, Sandra era molto contenta. Sandra si sveglia, fa colazione, indossa i jeans, mette i
quaderni e i libri nello zaino’’ e se, successivamente, gli si chiede se ha compreso bene quello che ha
letto e chi è la protagonista, lui sicuramente dirà che è Sandra.
Se poi si chiede chi è Sandra, il bambino dirà che è una bambina che va a scuola, ma se si aggiunge
‘’Sandra sperava che quel giorno i bambini fossero ben preparati’’ chiaramente si comprende che
Sandra non è una bambina ma un’insegnante.
Quindi il bambino ha letto un qualcosa che mette in discussione la precedente ipotesi interpretativa.
Quando leggiamo un testo, inevitabilmente formuliamo ipotesi di significato ma la comprensione è un pro-
cesso circolare, quindi man mano il soggetto può scoprire qualcosa che invalida quello che inizialmente aveva
formulato come ipotesi interpretativa. La comprensione non agisce in maniera cumulativa, sommativa, quindi
man mano che si va avanti queste ipotesi possono essere convalidate o computate.
❖ Quando si dice che la comprensione è un processo non si intende che il suo svolgimento è ordinato
temporalmente e spazialmente in modo lineare, così come procede la lettura (da sinistra a destra,
dall’inizio alla fine del testo).
❖ La comprensione agisce in parallelo (diverse abilità simultanee) ma anche a ritroso, perché al signi-
ficato di una frase non si aggiunge, o viene semplicemente collegato, il significato della frase succes-
siva, ma la prima viene rielaborata in funzione della seconda (“a ritroso”), né ogni parte o componente
del processo di comprensione viene analizzata in ordine sequenziale rispetto ad altre (man mano che
si va avanti si danno nuove rappresentazioni di significato).
❖ Essa non è semplicemente sequenziale ma è processuale. Implica un continuo controllo, monitorag-
gio (comprendere significa che le informazioni tendono a confermare le mie ipotesi interpretative;
comprendo quando le informazioni mi mandano di nuovo indietro a formulare nuove ipotesi e poi,
mettendo insieme le informazioni, giungo ad una nuova rappresentazione di significato). Il momento
della circolarità implica di ritornare sulle proprie decisioni, implica cioè un controllo del processo
cognitivo ed il monitoraggio del processo di comprensione. Quando il controllo è consapevole si parla
di strategie metacognitive.
Coesione VS Coerenza. Per coesione si intende l’uso di legami linguistici che segnalano la continuità/di-
scontinuità di senso tra le diverse frasi del testo (anafore, congiunzioni ecc.). Per coerenza si intende l’esi-
stenza di legami semantici e concettuali tra le parti del testo.
Il coordinamento delle componenti. Chi è quindi un good reader? È un lettore abile, esperto, che ha una
buona codifica, lettura e comprensione. Il lettore esperto è in grado di operare simultaneamente un’analisi del
testo a più livelli (ortografica, lessicale, sintattica, semantica e pragmatica) e di elaborare in parallelo molte di
queste informazioni per arrivare alla ipotesi più probabile di significato. Ciò richiede:
Una buona memoria di lavoro, perché la comprensione viene valutata facendo domande di memoria a
breve termine.
L’automatizzazione di alcuni processi.
La comprensione “è un complesso processo di rappresentazioni coerenti e di Iiferenze appropriate, nell’am-
bito di una memoria di lavoro che si qualifica come un magazzino di limitata capacità”. Questa è la classica
definizione di Graesser, Millis e Zwaan, che in realtà dice tutto sul processo di comprensione. Questa defini-
zione comprende due parole chiave:
o Inferenze che sono dei processi logici che consentono di andare oltre l’esplicito, oltre ciò che è scritto;
o Memoria di lavoro, che è di limitata capacità. Non può mantenere e registrare tutto ma filtra quelle
informazioni (gli inglesi utilizzano un termine particolarmente semplificativo: clue, indizio lampeg-
giante) che consentono di ricostruire la propria rappresentazione mentale.
Le Inferenze. Fare inferenze significa comprendere cose non presenti esplicitamente nel testo, fare i colle-
gamenti, comprendere il significato della parola in base al contesto e comprendere le ambiguità di significato
di alcune parole polisemiche. Senza queste operazioni non è possibile crearsi una rappresentazione mentale
coerente del testo. Le inferenze sono processi cognitivi che ci consentono di andare oltre l’economia del testo,
di rendere esplicito ciò che nel testo è implicito.
Per comprendere un testo occorre «andare oltre» ciò che è esplicitamente espresso. Le inferenze svolgono un
ruolo critico nel processo di costruzione del significato; esse costituiscono un prerequisito essenziale ai fini
della costruzione di un coerente modello mentale. La loro funzione è creare connessioni logiche tra le infor-
mazioni: «rendere esplicito ciò che nel testo è solo implicito». Le inferenze (andare oltre ciò che è scritto),
comportano il ricorso ad un proprio repertorio conoscitivo, ad un bagaglio di saperi e conoscenze che contrad-
distingue ciascuno di noi. Possiamo distinguere diversi tipi di inferenze:
o Inferenze lessicali, le quali riguardano il significato di una parola sconosciuta che viene inferita dal
contesto linguistico in cui è inserita.
o Inferenze semantiche, le quali riguardano il significato di informazioni non scritte, ma deducibili
attraverso il recupero di informazioni correlate all’argomento in oggetto.
Es. Faccio leggere al bambino la storia di Cappuccetto Rossa con la stessa sequenza e gli stessi contenuti ma
espressa attraverso dei termini nuovi che non fanno parte del vocabolario consueto e familiare del bambino.
Ad esempio “Cappuccetto rosso era una bella bambina così chiamata perché indossava un bel drappo rosso...la
nonna aveva la febbre e stava male, la mamma allora prepara un panierino, pieno di leccornie, le ciambelle, la
torta di mele... Cappuccetto rosso va verso il bosco e vede tanti fiori colorati: rose margherite e gladioli...
arriva nel tugurio dove viveva la nonna.”
In questo brano ci sono tante parole che non fanno parte del vocabolario familiare per un bambino, però se
chiedo al bambino se ha compreso bene il racconto, lui se possiede un buon funzionamento cognitivo dirà che
“Cappuccetto rosso era una bella bambina così chiamata perché indossava un drappo/mantello
rosso...la mamma prepara tante leccornie, le ciambelle o la torta di mele...
La bambina va nel bosco e raccoglie tanti fiori colorati come rose e margherite. Inoltre se chiedo al
bambino cosa sono i gladioli, lui probabilmente non ricorda, perché non fa parte del suo lessico, ma
riuscirà a capirà che si tratta di fiori. Quindi è riuscito ad estrapolare, a fare delle inferenze lessicali
dal contesto linguistico, in cui la parola è inserita.
Se chiedo “com’è la casa della nonna? È una bella casa?” Lui dirà di no, che è brutta, nonostante il
fatto che non conosca la parola tugurio, in quanto ha fatto un’inferenza.
Altri tipi di inferenze. Ci sono poi altri tipi di inferenze. In base alla coerenza locale o globale di una storia si
distinguono:
• Inferenze di connessione, cioè quelle necessarie per connettere due parti del testo separate da una o
più frasi, per cui servono a correlare in un brano lungo informazioni dislocate, ma che per il bambino
sono importanti.
o Es. Enrico va a trovare Luigi; suona il campanello ma lui non apre la porta.
• Inferenze di integrazione, cioè quelle necessarie nei casi in cui le informazioni lacunose devono
essere compensate dal proprio repertorio conoscitivo ampio ed esperienzale.
o Es. Non appena si alzò, Antonio andò a controllare se la calza era piena di carbone o caramelle.
Il bambino dirà “è il giorno della befana” nonostante nella frase non fosse nominato il 6 gen-
naio. Quindi è una conoscenza più ampia, basta qualche indizio per creare una rappresenta-
zione di significato.
o Es: Se la prof chiedesse “cos’è intelligenza secondo Piaget?”, noi andremmo a recuperare
nella nostra memoria il file corrispondente a “sviluppo cognitivo Piaget”. Questa è una cono-
scenza più specifica.
• Inferenze ponte, che creano delle connessioni tra parti molto lontane e distanziate tra loro nella stesura
del testo.
o Per esempio in un brano lungo le inferenze ponte aiutano a correlare le prime frasi in cui viene
presentato protagonista, con il setting di svolgimento, e con la conclusione.
Decodifica e comprensione. La relazione tra decodifica e comprensione è molto complessa.
Alcuni autori enfatizzano la correlazione esistente tra tali abilità sottolineando che già nelle fasi pre-
coci di apprendimento di letto-scrittura i soggetti che leggono più velocemente sono quelli che meglio
comprendono il testo.
Altri autori, di contro, sostengono l’indipendenza di tali abilità.
Questi due aspetti della lettura sono correlati soltanto in parte:
❖ Una lettura lenta e scorretta a livello decifrativo può portare a qualche fraintendimento nel signi-
ficato.
Es. Supponiamo che io legga male, lentamente, faccia errori, non segua la punteggiatura, abbia tono piatto,
quindi non ho neppure una corretta prosodia, ma so comprendere. È probabile che leggere male delle parole
crei anche qualche fraintendimento, qualche ambiguità di significato. Quindi non ho una difficoltà in com-
prensione ma solo in lettura, tuttavia probabilmente il leggere male va ad influenzare negativamente la mia
comprensione. In ogni caso, io che sono intelligente, che non ho una difficoltà di comprensione ma solo di
decodifica, mi posso anche interrompere e auto-stopparmi chiedendomi “io non sto comprendendo, cosa vuole
dire?”.
Di contro, supponiamo che io legga benissimo in maniera fluente e rapida, ma non comprendo. A questo punto
il leggere benissimo, senza corretta e adeguata comprensione può andare ad influire negativamente sulla mia
decodifica.
❖ Il dedicare troppe risorse cognitive alla decodifica (a leggere bene) fa sì che meno risorse cognitive
siano disponibili per la comprensione.
In altri termini il bambino, all’inizio, nell’approccio con la letto-scrittura ad alta voce è tutto volto a leggere
bene, non gli interessa far capire che sta comprendendo, ma che sa leggere bene. L’atto di lettura si completa
entro la fine della seconda classe della primaria, facendo sì che il bambino inizialmente dedichi minor atten-
zione alla comprensione e si concentri unicamente nella lettura.
Per questo motivo la dislessia può essere valutata entro la fine della seconda della primaria, mentre per fare
una corretta valutazione di comprensione bisogna aspettare per forza la terza elementare, bisogna aspettare
cioè che venga automatizzato l’atto di lettura in modo tale che la difficoltà presentata dal bambino sia imputa-
bile solo alla comprensione e non alla decodifica. È solo con il tempo che il bambino riuscirà a bilanciare le
risorse cognitive da destinare alla decodifica e alla comprensione.
❖ Inoltre, la mancata comprensione può rallentare il ritmo di lettura o condurre a degli errori nella
intonazione o nella lettura ad alta voce.
Il modello Simple View Of Reading. Il modello SIMPLE VIEW of READING suggerisce che la compren-
sione del testo scritto sia determinata dal prodotto delle abilità di decodifica e della comprensione del testo
orale. La forza della correlazione tra le due abilità è più debole all’inizio del processo di alfabetizzazione e
aumenta man mano che la decodifica acquista carattere di automaticità.
In altre parole, questo modello considera la comprensione del testo come il risultato di un prodotto, di un “per”:
Tutti i predittori del DSA sono di tipo linguistico. Infatti, mentre per dislessia è la consapevolezza fonologia,
per il disturbo di comprensione del testo scritto l’indicatore è la comprensione del testo orale. Sulla com-
prensione del testo orale si può lavorare già in tempi molto precoci, infatti primi test sono a partire dai 2 anni
e mezzo. La narrazione condivisa viene molto utilizzata con i bambini, in quanto permette di comprendere se
ci sono difficoltà nei bambini: si valuta come vanno in lettura per capire se quello è un indicatore della com-
prensione del testo deficitaria.
La Decodifica nel Poor Comprehender. L’elemento discriminante è proprio la comprensione del testo orale.
La decodifica è necessaria per una buona comprensione, quindi tanto più il bambino è abile e automatizzato in
decodifica, tante più risorse cognitive avrà a disposizione per la comprensione.
→ Da una parte l’iperlessico che legge benissimo, ma può essere anche un poor comprehenders, che
comprende poco.
→ Dall’altra parte il dislessico che ha difficoltà nella lettura, ma è un good comprehnders, quindi ha
ottime capacità di comprensione.
Se si ha un sospetto di disturbo o compromissione che riguarda la comprensione del testo, per avere una
valutazione corretta è necessario fare leggere il soggetto in maniera silente; la lettura a voce alta infatti va bene
per valutare rapidità e correttezza, ma quando non per la comprensione: se si è certi che il soggetto legga
bene e non ha problemi in decodifica, non lo si fa sforare nel leggere ad alta voce, perché impiegherebbe tutte
le sue risorse focalizzandole esclusivamente sulla decodifica.
Prima tutti i soggetti venivano valutati come dislessici, in quanto a tutti veniva chiesto di leggere ad alta voce,
sebbene avessero delle difficoltà. Questi soggetti vivono un forte disagio psicologico perché si rendono conto
di non comprendere, motivo per cui è necessario trovare delle tecniche adattate per facilitare il loro apprendi-
mento.
Può capitare che il soggetto abbia delle ottime qualità compensative, nel senso che sia in grado di riconoscere
le parole che pronuncia pur commettendo degli errori. Es. Il soggetto potrebbe dire gilaffa anziché giraffa,
tuttavia sa che la parola corretta è la seconda, per cui possibilmente durante un'interrogazione userà la parola
corretta, poiché è autocompensato.
La relazione tra comprensione e memoria. La W.M (working memory o MBT) si articola in due fun-
zioni:
Task Appropriate. Queste informazioni possono essere catalogate in maniera diversa a seconda del tipo di
compito. Se il bambino dovesse eseguire un compito culinario, riformula le informazioni in modo diverso, per
cui anziché i monumenti andrà ad individuare i cibi tipici. In questo caso si dice che le informazioni saranno
formulate in maniera task appropriate, cioè adeguate al tipo specifico di compito.
Il bello di questa metafora è anche il carattere di flessibilità: le informazioni non rimangono le stesse, ma
cambiano. Questa biblioteca corrisponde alla memoria a breve termine di limitata capienza e che funziona
per intervalli temporali brevi. A poco a poco, il bambino deve lasciare spazio per le nuove informazioni, man
mano che legge, che svolge nuovi compiti, acquisisce nuovi saperi, nuovi file, per cui deve fare spazio. Se le
informazioni sono state ben elaborate tanto da avere l'immagine, cioè l'inizio visivo, più facilmente le andrà a
recuperare.
Esempio per capire. Facciamo finta che un docente di provincia (non di Palermo dove frequentiamo) debba
svolgere un ciclo di lezioni agli studenti di psicologia.
→ Il docente ritiene di muoversi male in città per il troppo traffico, così decide di prendere il treno. Il
primo giorno il docente partirà presto, prenderà il primo treno, perché deve capire dove andare. Una
volta arrivato, cercherà un bar dove gustare un caffè, cercherà dunque un indizio visivo. Dopo di che
inizia a camminare per andare verso l'università, e in mezzo la strada vede tante attività, come una
banca (penserà qui posso prelevare!) l'ingresso di un mercato (qui posso fare la spesa!) un negozio
per bambini (posso comprare qui!). È come se il docente stesse selezionando degli indizi. Durante la
sua camminata, inizia a intravedere la cittadella universitaria, quindi si appresta ad attraversare e arriva
un'ora prima dell'inizio della lezione.
→ Il docente farà il percorso più volte, per cui di volta in volta si rifarà ai propri punti di riferimento, fino
a quando non avrà più bisogno di partire prima.
→ Il docente dopo un po' scoprirà che non c'è bisogno di fare tutta la strada a piedi dalla stazione all'uni-
versità, perché può prendere l'autobus, quindi trova una strategia più economica che gli consente di
raggiungere l'obiettivo in modo più veloce.
→ Tuttavia gli indizi presi inizialmente non vengono persi, ma se ne vanno aggiungendo di nuovi. Se un
giorno avrà bisogno di un caffè, penserà subito al bar dov'era stato: gli indizi non sono più nella MBT,
ma sono stati elaborati talmente bene che immediatamente li recupera.
Lo stesso fa il bambino alle prese con un compito di lettura e comprensione: si crea i propri indizi. Questi
ultimi vengono elaborati, processati per poi passare nella memoria a lungo termine ed essere recuperati facil-
mente. Il bambino ovviamente potrà cambiare di volta in volta strategie, tuttavia gli indizi acquisiti inizial-
mente non verranno persi. Le informazioni vecchie devono fare spazio a quelle nuove, ma nessuna di queste
verrà dimenticata.
Per questo motivo il bambino con difficoltà/disturbo di apprendimento necessita di un training sulle strategie
di memoria; è un bambino che ha delle difficoltà nell'individuare quegli indizi importanti che gli consentono
di ricostruire il suo percorso apprenditivo.
È chiaro che gli indizi di ciascun individuo saranno diversi in base agli interessi e alle motivazioni di ognuno.
Processi sottostanti alla comprensione. La comprensione del testo può essere facilitata da diversi fattori
come le caratteristiche del lettore:
➢ Conoscenze preesistenti sia lessicali che inerenti all’argomento e relative alla conoscenza del mondo;
➢ Atteggiamento più o meno passivo;
➢ Corretto funzionamento del sistema di elaborazione (acuità visiva, mbt e mlt, processi top-down);
➢ Consapevolezza del soggetto sulle proprie conoscenze e di come opera su di esse con opportune stra-
tegie (metacognizione).
Anche le caratteristiche proprie del testo possono influenzarne la comprensione. Un testo può guidare o faci-
litare la comprensione attraverso vari mezzi:
L’anticipazione dei contenuti (organizzatori anticipati): la loro funzione è fornire al lettore una breve
sintesi del contenuto di un brano, per attivare le strutture cognitive adeguate;
La segnalazione dell’informazione rilevante (sintesi finali, mettere in evidenza il punto di vista
dell’autore, la anticipazione delle informazioni più rilevanti, etc.)
Le domande (inserite nel testo), stimolano il lettore ad attivare conoscenze, stabilire connessioni, or-
ganizzare ciò che sa).
Gli advanced organizers. Il concetto di organizzatore anticipato è stato introdotto da Ausubel all’inizio degli
anni ‘60. Il principio è il seguente: poiché la comprensione di un brano ha luogo mediante l’attivazione di
strutture di conoscenza adeguate e l’integrazione della nuova informazione con la vecchia, allora la funzione
degli organizzatori anticipati è quella di attivare queste strutture, che forniscono una impalcatura a cui si an-
corano le idee espresse successivamente nel brano. Gli organizzatori anticipati dovrebbero fornire al lettore
una sintesi del materiale, ma soprattutto delle idee più generali utili ad inquadrare il materiale stesso.
Il titolo di un testo è un esempio di ciò advanced organizers, in quanto crea aspettativa nel lettore. Es. Quando
vogliamo regalare un libro a qualcuno, andiamo alla Mondadori e siamo circondati da libri, ma alla fine sce-
gliamo un solo libro il cui titolo ci attrae e che corrisponde al nostro interesse e che stimola la curiosità.
Studi sulle favole. La maggior parte delle favole dei bambini ha come titolo il nome del protagonista della
storia, quindi in realtà non crea aspettative particolari.
Sono stati fatti degli studi per valutare la comprensione del testo orale, narrando alcune favole senza titolo a
bambini che ancora non sapevano leggere. I bambini filtrano informazioni diverse a seconda del titolo perché,
se al posto di usare il titolo "Cenerentola", si usa il titolo "la scarpetta di cristallo" si crea una maggiore aspet-
tativa; il bambino cercherà la scarpetta durante tutta la storia, eliminerà le informazioni non rilevanti. Per
questo motivo i bambini, non appena veniva chiesto loro il nome delle sorelle di Cenerentola o altre informa-
zioni, non sapevano rispondere perché le loro risorse cognitive erano tutte disponibili per cogliere le informa-
zioni correlate alla scarpetta di cristallo, mentre tutte le informazioni precedenti presente nella MBT invece
venivano elaborate poco profondamente.
Il titolo quindi anticipa, crea un'aspettativa fondamentale per lo svolgimento della storia, per questo motivo
durante gli screening sui bambini si raccontano le storie togliendo i titoli o facendoli inventare a loro.
Lezione sviluppo 25.05
Ricapitolando… Vi è una differenza tra il concetto di “difficoltà” e quello di “disturbo”:
• La difficoltà ha un carattere transitorio e reversibile e può essere attribuito a fattori altri;
• Il disturbo non ha un carattere transitorio, ma ha un carattere evolutivo; non si annulla, ma si modifica,
cambia la sua modalità di espressione nel corso del tempo a seguito di un intervento tempestivo,
precoce e contenitivo. In questo modo il soggetto struttura e attiva le proprie strategie di
compensazione, che gli consentono di trovare la modalità più funzionale al proprio profilo cognitivo.
E’ un disturbo specifico; abbiamo parlato di discalculia, disortografia, disgrafia e dislessia, sotto
cui venivano racchiusi diversi disturbi nei decenni passati di lettura e comprensione. Dal 2010 si
possono distinguere:
- Un disturbo specifico di decodifica;
- Un disturbo specifico di comprensione.
L’aggettivo “specifico” riguarda in maniera circoscritta un determinato dominio cognitivo. Caratteristiche del
bambino con DSA sono:
• Buon funzionamento cognitivo, con una difficoltà specifica che riguarda un determinato dominio,
che non può essere imputata a qualcosa, considera solo il fattore di esclusione; p.e. devo escludere
che possa essere attribuito a grave svantaggio socio-culturale, quindi una inadeguatezza dello stimolo
ambientale;
• Disabilità intellettiva, la prima cosa che escludiamo;
• Disabilità sensoriale;
• Danno neurologico;
• Gravi turbe di tipo emotivo.
Letttura. Abbiamo concettualizzato una sorta di continuum, da una parte abbiamo immaginato un iper-
lessico, il good reader, il bambino che non ha alcuna difficoltà di lettura in termini di velocità e di correttezza.
Il Good reader è il bambino iper-lessico che legge benissimo, velocemente, tenendo conto della
corretta punteggiatura, con attenzione gli aspetti prosodici, senza commettere gravissimi errori che,
però, non può comprendere.
Il Good comprender ha invece un’ottima abilità di comprensione, costruzione, di
rappresentazioni semantiche; la rappresentazione semantica costruisce nella mente del lettore il
mondo della narrazione (il protagonista, il setting di svolgimento delle azioni, le sequenze).
Secondo la definizione classica di Zuan la comprensione è un processo di costruzione, di rappresentazioni
semantiche nell'ambito di una memoria di lavoro, che è una memoria di limitata capacità e ha una capienza
limitata; la mente del bambino non funziona come una fotocopiatrice, non memorizza tutto, ma quelle
informazioni che gli forniscono quegli indizi che gli consentono di ricostruire il proprio percorso mentale.
Molto spesso, un buon intervento su un bambino con difficoltà di comprensione necessità di un lavoro sulle
strategie di memoria, è un bambino che ha bisogno di essere supportato ad individuare correttamente delle
strategie di memoria;
Un soggetto con dislessia ha una difficoltà in decodifica, ma è un Good comprender. E’ un continuum costituito
da due poli opposti; in realtà poi ci sono i profili che oscillano, che nell'ambito delle learning disabilities sono
caratterizzati frequentemente da comorbidità, ovvero dalla compresenza di disturbi diversi. Frequentemente,
la dislessia si associa ad una disgrafia, alla discalculia, non necessariamente ma frequentemente.
Difficoltà in memoria. Un altro dei profili propri tipici del DSA è una difficoltà in memoria, attenzione e
concentrazione.
Lettura, decodifica e comprensione sono compresenti, non può esistere l'una senza l'altra, ma sono distinte;
questa distinzione per noi è fondamentale perché significa articolare, strutturare un intervento diverso, perché
gravida di implicazioni sul piano educativo. Però è chiaro che le due abilità siano tra loro strettamente correlate.
Es. perché se io leggo più lentamente e commettendo numerosi errori è chiaro che incontro a dei
fraintendimenti di significato pur non avendo una difficoltà di comprensione.
Possiamo definire la comprensione come un processo di costruzione di ipotesi interpretative; man mano
che leggiamo, formuliamo delle ipotesi; invece, in questi casi, queste ipotesi risultano essere non valide, perché
leggiamo una parola anziché un'altra, che altera completamente il significato.
Di contro, pur non avendo difficolta in lettura, la difficoltà nel comprendere rallenta l'affluenza.
Letto-scrittura. Nelle prime fasi di approccio, come la letto-scrittura, tutto il carico cognitivo del bambino
e le sue risorse cognitive sono centrate su leggere bene ad alta voce; quindi, il bambino è talmente focalizzato
sulla decodifica che meno risorse cognitive rimangono a disposizione per la comprensione. È solo
gradualmente che il bambino incomincia a bilanciare le risorse cognitive, quelle deputate alla decodifica e
quelle deputate alla comprensione.
Lo psicologo può effettuare una buona valutazione di dislessia alla fine della seconda elementare, quando
dovrebbe essersi automatizzato l'atto di lettura; la comprensione invece, può essere valutata solamente in
terza elementare, per avere la certezza che quelle difficoltà esibite dal bambino, possano essere imputate
esclusivamente alla comprensione e non alla decodifica.
Modello esplicativo della comprensione del testo. Il modello esplicativo della comprensione del testo di
Tunmer, denominato Simple view of reading, in cui la comprensione è il risultato di un prodotto (capacità di
lettura x comprensione del testo orale).
La comprensione del testo orale può essere valutata molto precocemente, già a partire dalla scuola dell'infanzia.
Comprensione del testo. La comprensione è un processo complesso, la fase finale di un lungo processo al
termine del quale il contenuto del testo si integra con le conoscenze possedute dal lettore. Non è statico ma di
continua elaborazione, un processo in cui le informazioni espresse esplicitate nel testo scritto, si correlano ad
un nostro dominio conoscitivo per giungere alla rappresentazione di significato.
E’ un processo che comporta diverse operazioni in diverse sotto-abilità che devono lavorare in maniera
sincrona. Il processo di lettura implica:
- Elaborazione delle informazioni visive a livello percettivo, grammaticale, sintattico e semantico
(indizi del testo + conoscenze del lettore): bisogna riconoscere le stringhe di lettere che costituiscono
le parole;
- bisogna decodificare;
- eseguire una elaborazione di tipo lessicale, semantico, morfosintattico;
- fare attenzione agli aspetti pragmatici, cioè del messaggio che chi scrive vuole comunicare;
- si deve riuscire a mettere in atto queste strategie cognitive per dare coesione e coerenza al testo che
leggiamo. Queste strategie permettono di accedere al proprio repertorio di conoscenze, che possono
essere specifiche su un dato argomento oppure più ampie.
Decodifica e comprensione sono dunque correlate, pur essendo selettivamente compromesse. Si può avere
una compromissione specifica in lettura o in comprensione, e questa distinzione è estremamente importante ai
fini del potenziamento del trattamento.
Sotto-stadi della comprensione. La comprensione è un processo multi-componenziale, un’attività solo
apparentemente unitaria che comprende diversi sotto-processi:
- percezione;
- decodifica;
- elaborazione lessicale;
- elaborazione sintattica;
- elaborazione semantica;
- inferenza.
Il perfetto funzionamento di questi e la perfetta sincronia e coordinamento tra di essi, permette di cogliere un
significato unitario in ciò che si è letto.
Cosa si intende per comprensione del testo? La ricostruzione mentale del suo significato. Per significato si
intende una rappresentazione mentale che deriva dall’integrazione dell’informazione (linguistica e
concettuale) data dal testo con le conoscenze e/o strutture di conoscenza pre-esistenti dal letto. I differenti
sotto-processi e le sotto-abilità devono operare in maniera sinergica.
• Inferenza di integrazione: cioè quelle necessarie nei casi in cui le informazioni lacunose devono
essere compensate dal proprio repertorio di conoscenza.
Es. Non appena si alzò, Antonio andò a controllare se la calza era piena di carbone o caramelle.
Il bambino risponderà affermando che è il giorno dell’Epifania, anche se ciò non è stato
precedentemente detto. Ciò accade perché il bambino possiede un registro passivo ampio, e gli
consente una maggiore facilità nell’attivazione delle operazioni inferenziali.
Oggi sono inferenze semantiche, che riguardano il significato, o anche inferenze lessicali: quando il bambino
legge non riconosce il significato di tutte le parole, ma può comunque giungere ad una rappresentazione
semantica.
Es. Il bambino non sa cos’è il gladiolo, ma dal contesto riesce ad attribuire una corretta rappresentazione
semantica; riesce a capire che è un fiore.
Inferenze e tipi di testi. Lavorare sulle inferenze è fondamentale, ed è possibile farlo sia attraverso testi che
attraverso sequenze di immagini: viene chiesto al bambino di ricostruire la sequenza logico-temporale.
Associare le sequenze è fondamentale nei DSA; selezionare la corretta sequenza tra le tavole ma attivando
inferenze. La sequenza non è estremamente lineare, il bambino deve valutarle attentamente tutti i dettagli per
ricostruire correttamente la sequenza, successivamente deve spiegare il perché di quella ricostruzione.
I criteri che definiscono bene la decodifica e che sono fondamentali, ma non sufficienti, per spiegare l’abilità
di comprensione del testo sono:
• Velocità;
• Accuratezza;
• Correttezza.
Come intervenire? Numerose ricerche sono sorte con l’intento di delineare il profilo tipico del “poor
comprehender” e comprendere come tale problema possa essere fronteggiata.
Aspettative e dimensione di controllo (metacognitiva o di metacomprensione). Il processo di
comprensione implica anche la circolarità dell'interazione tra testo (lettura del) e attivazione delle conoscenze
personali, ovvero eliminazione (scarto) delle ipotesi improprie al contesto.
Es. Lucia vuole preparare la pizza per cena; spera di avere tutti gli ingredienti necessari
Il momento della circolarità implica di ritornare sulle proprie decisioni, presuppone cioè un controllo del
processo cognitivo ed il monitoraggio del processo di comprensione. Quando il controllo è consapevole si
parla di strategie metacognitive.
Prospettive di intervento. Gli interventi si articolano su due diversi fronti:
→ Interventi mirati alla comprensione, soprattutto attraverso delle schede criteriali (MT di Cornoldi)
→ Interventi mirati agli aspetti metacognitivi.
Elementi facilitanti la comprensione e il ricordo. Gli elementi che possono facilitare la comprensione di un
testo sono:
Esempi esemplificativi;
Titolo
Figure/immagini: oggi estremamente rivalutate, perché si parla di taccuino visivo-spaziale;
Domande aggiunte: i testi che vengono suddivisi nei cosiddetti “blocchi concettuali” che servono al
soggetto a ricostruire il percorso;
Organizzatori anticipati.
Abilità fondamentali per il potenziamento delle inferenze. Le abilità considerate sono:
Memoria: parlare di comprensione significa parlare di memoria, per valutare la comprensione si fanno
domande di memoria;
Detenzione: andare ad indagare sulle aspettative del soggetto (Es. ti aspettavi che x facesse questo
piuttosto che questo?)
Inferenza sull’oggetto: attivare operazioni inferenziali, ovvero cercare di disabituare qualcosa che
riguarda l’oggetto menzionato nel titolo;
Flessibilità cognitiva: trovare una soluzione alternativa per spiegare l’ambiguità. Io comprendo
quando trovo la spiegazione, una soluzione alternativa.
Auto-valutazione: ma tu hai compreso il racconto? Si o no? È un’abilità meta-cognitiva.
Le risposte, che seguono una modalità dicotomica, corrispondono a un punteggio (1 o 0), per un totale di 6
punti. Se un bambino non ha raggiunto il punteggio minimo di 4 che è il criterio da raggiungere per passare
alla storia seguente, l’esaminatore dovrà durante la sessione successiva riprendere il potenziamento della storia
in cui non è stato raggiunto il criterio minimo.
Alcuni esempi:
Fascia prima, storia I: Titolo: la lavatrice.
I condizione:
Nella prima frase, io presento il protagonista: Maria sta facendo i lavori di casa, ha spazzato le camere, ha
lavato i pavimenti, ha lavato le camicie a mano, ha completato le pulizie, si è seduta e si è riposata.
C’è una dissonanza in quanto la lavatrice non viene menzionata nel racconto ma è presente nel titolo.
II condizione:
Maria stava facendo i lavori di casa, doveva lavare cinque camicie e pensava di metterle nella lavatrice; ha
messo le camicie nella lavatrice, ha avviato la lavatrice e poi le lava a mano, quindi una conclusione inattesa
rispetto alle vostre aspettative. Infine, completa le pulizie, si siede e si riposa.
III condizione:
Maria stava facendo lavori di casa, doveva lavare cinque camicie e pensava di metterle nella lavatrice; ha
messo le camicie dalla lavatrice, ha avviato la lavatrice, ma poi le lava a mano. Questa è una forma ambigua
perché c'è una conclusione totalmente inattesa, preceduta da una serie di azioni correlate all’oggetto; inoltre,
manca il titolo.
Gli psicologi hanno focalizzato l’attenzione sui processi cognitivi affettivi, motori che contraddistinguono il
bambino, che non è un recettore passivo ma un elaboratore attivo, è un costruttore di significati.
Efficacia del programma di potenziamento. È stato condotto uno studio pilota per la valutazione
dell’efficacia del programma di potenziamento che ha coinvolto 169 bambini suddivisi in tre gruppi per fasce
di scolarità (terza, quarta e quinta scuola primaria) con difficoltà di comprensione. Ogni gruppo è stato
confrontato con un gruppo di controllo di bambini poor comprenders non sottoposti a trattamento. È stata
riscontrata una differenza significativa tra i bambini che hanno ricevuto il trattamento rispetto al gruppo di
controllo, partendo però da uno stesso livello:
→ gruppo di controllo: non somministrano nulla e se si verificano miglioramenti significa che non
dipende dallo strumento;
→ gruppo sperimentale: somministrano le prove per vedere se migliora.
Di fatto i bambini sottoposti al potenziamento sono andati molto meglio dei bambini che sono rimasti a
guardare al gruppo di controllo; se il programma di potenziamento è valido si verifica solo nel corso del tempo.
TOR. Il TOR è un test di comprensione del testo orale che valuta la capacità di comprendere testi narrativi nei
bambini da 3 a 8 anni. A differenza del MT in cui al bambino viene letta tutta la storia, nel TOR la storia viene
suddivisa in blocchi concettuali proprio perché un bambino di tre anni ha ridotte capacità di memoria.