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Tale sostanziale differenza viene colta sia da Aristotele (il quale da due caratterizzazioni
molto distanti di essere: “L'essere si dice in molteplici significati, ma sempre in riferimento ad
un'unità e ad una realtà determinata la sostanza”; e di bene che viene caratterizzato come lo scopo
della vita dell'uomo, che coincide con la felicità εὐδαιμονία, ma tale bene non è idea trascendente,
ma ciò che mette in atto nel suo comportamento concreto; inoltre, confutando i platonici sostiene
che il bene appartenga al principio, al motore immobile, e non che sorga successivamente ad esso),
che da Tommaso d'Aquino.
Questa scepsi, questo dissidio, ha radici che affondano sin dagli albori del pensiero. Tale tematica è
presente già in Esiodo, che ne “Le Opere e i giorni” all'interno del mito di Prometeo, racconta di
come gli dei abbiano donato all'uomo la giustizia grazie alla quale “nel mondo tutti divorano tutti,
ma per voi non è così”. Questo conflitto, assente nel meccanicismo naturale, sarà allora l'elemento
costitutivo e principium individuationis dell'essere umano.
Due domande allora sorgono spontanee di fronte all'attestarsi di legge e libertà come principi
che risultano, a prima vista, opposti:
- da dove partire per il senso di legalità?
- in che senso si può parlare di educazione alla legalità?
Per tentare di risolvere il primo quesito si possono avere tre possibili repliche:
Opzione 1: Partire dalla legge
Implica: - che la libertà non abbia confronti
- che la legge venga considerata come un carceriere
→ Hobbes: è necessario ricorrere ad un patto sociale per garantire il superamento dello
stato di natura (homo homini lupus) e la sicurezza all’uomo. L’origine della società è allora
frutto di una convenzione originata da un accordo stipulato da tutti i cittadini, in cui
rinunciano ad una parte dei loro diritti naturali e delegano il loro diritto soggettivo ad un
terzo che ne garantisce allo stesso tempo il rispetto per tutti.
→ Sartre: la legge diviene emanazione dell'essere, la libertà del nulla.
La morale viene allora ad essere ostacolo per la libertà, una gabbia, un elemento castrante e
limitante, una prigione come quella in cui è segregato Socrate nell'apertura del “Fedone” di Platone
e come lo è il corpo dell'anima.
Tuttavia un elemento di rottura viene individuato da Kant: nell'apertura del III capitolo della
“Critica della Ragion Pratica” il filosofo tedesco sostiene: “L'essenziale di ogni valore morale delle
azioni dipende da questo: che la legge morale determini immediatamente la volontà. Se la
determinazione della volontà avviene bensì conformemente alla legge morale (…) ma non per la
legge, l'azione conterrà bensì la legalità ma non la moralità” : attenersi alla legge non significa
comportarsi moralmente. Seguirà poi l'esempio di un uomo che non ha ragione di trattenersi
dall'adulterio se non incombe un rischio di morte, qualora le azioni vengano compiute unicamente
seguendo la prospettiva di ciò che è formalmente ritenuto legale.
Tale legge costrittiva allora rende il comportamento libero una “libertà della libertà”, un “finché mi
va”, un luogo inesistente.
Il conflitto fra legge e libertà se non viene colto come originario e i due principi come coesistenti
portano a considerare la libertà come primigenia, antecedente e frustrata da una iniqua continenza e
la legge una conseguente limitazione: questa distorsione fa comprendere come l'obbligo di non
consumare alcolici nell'America degli anni 20 avesse portato a un incremento notevole dell'abuso
degli stessi.
In questo senso, Buber nel libro “Immagini del bene e del male” del 1954 notò come l'Io, pur
nascendo all'interno di coppie originarie (Bene-male, giusto-sbagliato...), non le avesse a sua
disposizione e ciò lo portasse a vivere in una dimensione strabica: la legge è nemica della libertà,
ma la libertà invoca le sue regole in momenti di difficoltà (pur vivendo in uno Stato in cui la
giustizia è in crisi, ci si aggrappa alle istituzioni perché si ritiene che possano portare alla salvezza).
È evidente allora che tale scontro fra legge e libertà erroneamente intese porta ab imis
l'impossibilità di una soluzione, dal momento che muove da un'errata concezione antinomica dei
due principi.
Procedendo in questo senso si giunge allora ad uno stereotipato e non risolutivo μηδὲν ἄγαν: tutto è
concesso (coltivare marjuana) purché limitato ad una medietà, che si configura come mediocrità.
Si giunge così inevitabilmente alla concezione orwelliana di libertà: crediamo che la libertà sia un
tempo definito e stabilito, in cui per altro neppure riusciamo ad esercitare tale nostra libertà dal
momento che ci atteniamo a standard di mercato e seguiamo slogan pubblicitari.
La società in questo senso diviene necessariamente repressiva, come evidenziato da Marcuse in
“Eros e civiltà”, dove la morale è la negazione della libertà e viceversa, e da Freud ne “Il disagio
della civiltà”, in cui la società viene delineata come luogo in cui l'uomo vive in una condizione di
continua repressione dei propri istinti e della libido.
Si spiega allora l'affermazione di Hobbes nel “De cive” per la quale l'uomo debba cedere tutta la
propria libertà, sia in termini politici che per quanto riguarda i singoli rapporti umani.
Ancora Platone nel “Protagora” riprendendo il mito di Prometeo degli Ἔργα καὶ Ἡμέραι di Esiodo
mostra come, per quanto il Titano avesse fornito all'uomo il fuoco e l'arte tecnica, solo l'intervento
di Giove, il quale concede a tutti gli uomini indistintamente l'arte politica intesa come giustizia e
legge, permetta all'essere umano di organizzarsi in città e di non commettere ingiustizie: la legge
allora è, nella concezione platonica, data esternamente, non originaria e, ancora una volta,
obbligatoria.
Nel caso limite del suicidio, giustificato e giustificabile a partire dallo slogan “il corpo è mio”
(certamente di ispirazione femminista, ma utilizzato anche dal cattolico Gabriel Marcel per
sostenere il principio per il quale si è liberi dal momento che si ha il corpo), esso è, secondo Hume,
legittimo (termine interessante perché si rifà alla legge proprio nel contesto in cui si ritiene risieda il
massimo apice della libertà) dal momento che non danneggia nessun altro se non se stessi.
Sullo stesso tema si esprime anche Schopenhauer il quale in “Il mondo come volontà e
rappresentazione” sostiene che, pur essendo tutto dolore, il suicidio risulta insensato perché
provoca ancora dolore, esso si attesta come una ulteriore affermazione della volontà di vita sotto
forma di una contestazione per l'insoddisfazione che essa stessa provoca.
Lo stesso Marcel, pur affermando “je suis mon corps”, pone delle limitazioni a tale identità: nelle
manifestazioni di caldo, fame, sonno si ha l'evidenza di una mancanza, di un qualcosa per cui
ancora non sono, di possibilità estrinseche che sono e non sono il mio corpo. Il suicidio allora è la
possibilità che fa terminare ogni altra possibilità.
Nel 1746 muore il padre e per mantenersi deve iniziare a fare il precettore, sviluppando i primi
embrioni del proprio pensiero.
“Storia universale della natura e del cielo” (Könisberg, 1755): in cui anticipa la teoria di Laplace
sulla formazione del sistema solare.
Inizia la carriera universitaria ottenendo il dottorato con la pubblicazione del “De Igne”.
In questo periodo Kant non aveva entrate economiche da nessuna parte e si vide costretto ad
“elemosinare” il proprio stipendio a lezione. Questo provoca un periodo iper-produttivo dato che
più produceva più studenti richiamava e più guadagnava.
“Lettere a Marcus Herz”: uno dei suoi primi studenti con cui rimane in ottimi rapporti. Il loro
scambio epistolare mostra una progressione del pensiero kantiano:
- La conoscenza sensibile è più fondata di una conoscenza intellegibile.
- Problema delle categorie -> come i dati sensibili vengono riordinati nell’intelletto. Non
servono solo a sistematizzare la conoscenza, sono le strutture della conoscenza.
- Deduzione metafisica: tavola kantiana delle dodici categorie
- Deduzione trascendentale: giustificazione del fatto che quelle categorie siano applicabili nel
processo conoscitivo.
Nel 1775 abbandona l’uso reale dell’intelletto definitivamente.
Ambiguità del nome: la critica della ragion pura non può essere legittimamente pura perché ha
sempre a che fare con la sensibilità. Solo nella dialettica si separa dalla sensibilità.
Nelle prime due parti, l’estetica e l’analitica, il titolo più adeguato dovrebbe essere “Critica della
ragione teoretica”.
Contenuto CRPU:
- Problema metafisica: condanna, desiderio implacabile.
- Giudizi analitici a priori: universali e necessari ma non aumentano la conoscenza.
- Giudizi sintetici a posteriori: utili ma non sono universali, quindi limitati.
- Giudizi sintetici a priori: le scienze che hanno questo tipo di giudizio sono la matematica e
la fisica. Kant si domanda se anche la metafisica sia una scienza che è legittimata ad usare
questo tipo di giudizi.
Metafisica dei costumi è l’etica, dunque, sta cercando il principio incondizionato della morale.
Secondo Kant c’è un errore di fondo: siamo abituati a pensare alla morale come un insieme di esperienze che
conferisce la regola per agire. Invece, per Kant, va cercato un principio razionale che non sia condizionato
dall’esperienza e che valga per tutti gli esseri razionali.
Da subito Kant afferma che l’oggetto della morale è la volontà con cui noi agiamo.
La volontà deve imporsi da sé il principio, non lo deve cogliere dall’esterno, altrimenti non sarebbe
incondizionato. Questa è la differenza tra una volontà autonoma e una eteronoma che agisce per motivi che
le vengono imposti dall’altro.
La morale eteronoma non potrà mai essere universale così come una morale che si fonda sulla religione che
impone dogmaticamente l’agire.
Prefazione: Mette a tema le filosofie antiche che dividevano la disciplina filosofica in logica (condizioni
formali della conoscenza) fisica (filosofia della natura) che riguarda la necessità; etica (filosofia del
comportamento) che riguarda la libertà.
Nel 1786 Kant scrive “Principi metafisici della scienza della natura” un’opera introduttiva che risponde ai
quesiti di scienze naturali. Sia in fisica che in etica ci sono dei dati empirici, nella prima sono le intuizioni
sensibili, nella seconda sono i moventi, determinazioni sentimentali che servono all’uomo per determinare la
sua morale. Riguardo i moventi è necessario introdurre un discorso che chiarisca la distinzione tra essere e
dovere essere ossia tra moralità e legalità. Essere legali significa eseguire i precetti di una legge senza lo
stesso spirito intimo che si ha quando siamo profondamente morali, ossia quando agiamo indipendentemente
dal fine, per la sola coerenza alla legge morale, per il rispetto di questa legge.
Il supremo principio della moralità è la legge morale che è anche una legge formale, definito da Kant come
un fatto della ragione perché è qualcosa di indubitabile, in tutti gli esseri umani, da sempre e per sempre, è
inscritta una legge morale che condiziona il nostro agire.
Etica deontologica: è un etica del dovere Il dovere si esercita nella forma dell’imperativo, la ragione ci
comanda qualcosa. Esistono imperativi ipotetici (se/allora) e categorici (tu devi!).
La legge morale si esprime e ci comanda attraverso gli imperativi categorici.
La massima è la motivazione soggettiva dell’azione che deve poter essere universalizzabile: quando io
compio un’azione devo chiedermi se l’azione che sto compiendo potrebbe valere per tutti gli esseri razionali
pensanti. Se l’azione può essere universalizzata allora corrisponde alla legge morale ed è buona, in caso
contrario, non è buona.
In questo caso Kant fa un esempio significativo: immaginiamo un uomo, che messo in una condizione
estrema, decide di fare una falsa promessa che non può mantenere. È possibile pensare che la falsa promessa
sia universalizzabile? No, perché universalizzare la falsa promessa vorrebbe dire che verrebbe meno la
possibilità di fare promesse, nessuno si fiderebbe di nessuno.
Un altro esempio che fa Kant è quello del genitore che chiede in prestito dei soldi per sfamare il proprio
figlio sapendo già che non potrà restituire i soldi. Questa azione per Kant non è morale perché non passa il
test di universalizzabilità perché nessuno potrebbe più prestare denaro. Non è una questione di contenuto ma
è il criterio di formalità della legge.
“Agisci come se la massima della tua azione dovesse diventare per mezzo della tua volontà una legge
universale della natura”
La tua massima deve valere come un principio fisico, come la forza di gravità, questa è la volontà
assolutamente buona, molto complessa da attuare.
La terza formulazione dell’imperativo categorico è questa “Agisci in modo da trattare l’umanità sempre
come fine e mai come mezzo” il che vuol dire che l’uomo non è trattabile come uno strumento per il proprio
egoismo. Non da un’indicazione di cosa bisogna fare ma ci dice che l’altro è sempre un fine e mai un mezzo.
Se l’uomo rispetta (unico sentimento ammesso) la legge morale sarà virtuoso e quindi degno della felicità
che non è detto si possa raggiungere in questa vita. Anzi, certe volte il virtuoso si trova ad essere più infelice
di altri che invece non hanno agito in modo virtuoso, conformemente alla legge morale.
Nella CRPR, Kant introduce dei postulati (qualcosa che va ammesso ma che risulta indimostrabile), uno tra
questi è quello dell’immortalità dell’anima che può essere ammessa solo a livello morale, non teoretico,
insieme ad un divino creatore che faccia corrispondere alla virtù la felicità.
Il male radicale nella natura umana, per Kant, è il fatto che l’uomo può sempre decidere di anteporre il
proprio volere egoistico, la propria massima, alla legge morale.
Il dovere kantiano consiste nel fare del bene quando possibile, nell’opprimere il desiderio di suicidarsi
quando questo sorge ed infine di esaudire la propria felicità. Il dovere è la necessità di un’azione compiuta
per rispetto della legge. Trovare qualcosa di diverso dagli oggetti.
Il Vangelo è l’espressione dell’amore per il prossimo in una prospettiva moralizzante.
Volontà tra la pura formalità della legge e la materialità del movente: per quanto dobbiamo cercare di essere
morali dobbiamo anche guardare alla motivazione materiale che influisce nel nostro agire, alla polarità tra
autonomia e inclinazione.
Il valore morale dell’azione si trova nella volontà delle cause non nell’effetto: devo guardare alla conformità
delle mie azioni alle leggi universali.
L’amor di sé è un tema molto importante nel testo: agisce sempre sulla nostra azione quella sensazione di
autocompiacimento che ricerchiamo in quanto insita nella nostra natura di esseri umani. Spesso il dovere è la
causa apparente di un’azione mentre è l’autocompiacimento ad influire veramente nelle nostre decisioni.
Non è una morale dell’intenzione: il criterio regolativo della morale kantiana non può essere l’intenzione ma
risiede nella volontà buona per se stessa. Non è nemmeno una morale dello sforzo: nel senso che non è vero
che più mi impegno nella realizzazione di un’azione più la mia morale è retta.
Il discorso morale si riferisce a tutti gli esseri razionali (uomini, angeli, Dio) ma per quanto riguarda Dio è
necessario un discorso a parte: il concetto di Dio come sommo bene ci deriva da una perfezione morale, o
meglio, da una idea di perfezione morale, dato che la conoscenza necessita le intuizioni che noi non
possiamo avere del concetto di Dio.
L’assenza di intuizione mi permette l’idea a-priori di Dio come sommo bene, che gode di una posizione
pienamente intellegibile e quindi non ho il problema di confliggere nell’amore di sé e tutti gli stimoli del
mondo sensibile.
I concetti etici (dovere, massime, leggi etc.) vanno determinati a-priori altrimenti non si può guadagnare un
punto di vista autonomo e indipendente dalla tradizione.
IMPERATIVO: maniera in cui si impone la legge. Non vale per Dio che è già adeguato massimamente alla
legge, la quale deriva da egli stesso.
- Imperativi categorici: azione oggettivamente necessaria per se stessa, indipendente da tutto ciò che
non è conformità al dovere.
Prescrizione della volontà alla legge universale: “Agisci secondo quella massima che tu puoi
trasformare in legge universale”. La sfida è rendere la massima una legge universale. Prima di fare
ogni cosa che per me vale soggettivamente devo chiedermi se la mia azione può valere come legge
universale.
- Imperativi ipotetici: inteso come mezzo per il mantenimento dello scopo.
Per esempio, lo scopo di ogni essere razionale è felicità. Ogni volta che agiamo moralmente solo al
fine di ottenere la nostra felicità agiamo secondo un imperativo ipotetico, non categorico.
L’essere felice impone sapere cosa ci rende felici, questa tale cosa si determina a posteriori quindi
non può essere criterio morale.
Siccome la nostra conoscenza è limitata, la felicità non può essere criterio morale. Bisognerebbe
essere onniscienti per poter determinare la felicità come fine ultimo della legge morale.
La felicità è un ideale dell’immaginazione, non della ragione perché parte da una determinazione
empirica e l’immaginazione kantiana è la via di mezzo tra sensibilità e intellegibilità.
L’uomo va considerato contemporaneamente fine e mezzo di un’azione: bisogna trattare se stessi e gli altri in
misura della dimensione razionale e dell’autodeterminazione della propria volontà. Questa possibilità sta in
piedi nella misura in cui tutti quanti si comportano in questa maniera ma l’esperienza ci attesta che questa
ipotetica società morale resta un’utopia. Per questo motivo, secondo Kant, è giusto interrogarsi su ciò che
dirige la nostra volontà verso o contro la legge morale, questo è il movente.
MOVENTE: ciò che dirige la volontà del singolo ad agire conformemente al dovere o meno. La morale ha
bisogno dei moventi per rendersi concreta e pratica. Il pericolo è che il movente rappresenti un eteronomia
(la condizione per cui un soggetto agisce ricevendo fuori da se stesso la norma e la ragione della propria
azione, attribuendone dunque la colpa, la responsabilità, la vergogna ecc. ad altri all'infuori di sè), quindi si
limiterebbe a definire il movente un sentimento di rispetto per la legge.
L’uomo è al contempo legislatore e suddito della sua stessa legge: l’autonomia della volontà è il principio
dell’etica kantiana.
L’eteronomia si fonda su principi empirici, come quelli della fisica, e principi razionali, come quello della
perfezione, che però non sono in grado di fondare la morale.
Sezione terza: dalla metafisica dei costumi alla critica della ragione pratica.
In quest’ultima parte della Fondazione si trovano anche temi che appartengono all’esordio della Critica della
ragion pratica.
Definizione negativa della libertà: assenza/mancanza di costrizione. Non possiamo cogliere questa idea con
evidenza, in maniera epistemologica. Non è un dovere che arriva esteriormente e non è un dovere che nega la
libertà, è una morale deontologica: agire per il dovere significa agire in libertà.
Pura idea di libertà: Anche se io mi stessi ingannando sulla mia libertà che in realtà è frutto della mia
immaginazione e non esiste, non risolverei lo stesso il problema. Anche se la libertà fosse un grande inganno
questa sarebbe comunque oltre i miei limiti conoscitivi. Dunque, mi basta l’idea di libertà per fondare la
morale: anche se non siamo veramente sicuri di essere liberi o meno, la sola convinzione di essere liber ci
permette di agire di conseguenza.
Distinzione fenomeno e noumeno: L’uomo è formato da una parte sensibile ed una intellegibile. Non
abbiamo solo il movente/sentimento del rispetto per la legge universale ma siamo continuamente bombardati
da moventi sensibili. Noi dovremmo determinare la nostra azione per motivi unicamente razionali ma
vivendo in un mondo sensibile è inevitabile che l’uomo agisca secondo moventi puramente sensibili.
Felicità diversa dall’obiettivo: anche se agire con la consapevolezza che dalla nostra azione deriverebbe la
nostra felicità, per il corretto agire morale l’uomo deve avere come obiettivo il solo rispetto della legge
morale universale.
Rischio del circolo tra libertà e legge: bisogna cercare di non assumere due punti di vista diversi rispetto a
quando ci consideriamo come cause efficienti e rispetto a quando ci consideriamo effetti. L’uomo è sia
sensibile che intellegibile e per quanto dualistico esso sia deve tendere verso il lato della libertà quando vuole
agire in maniera moralmente retta.
PRESUPPOSTI ILLUMINISMO
Scritta alla vigilia della Rivoluzione Francese (1788), la Critica della ragion pratica è strettamente
connessa alla prima critica, quella rivolta alla ragione teoretica.
Kant è il culmine dell’illuminismo, movimento di pensiero che ha glorificato la ragione, soprattutto
in Francia dove si rifiuta il passato (oscurantismo). Inizia l’età della ragione che sottopone a prova
se stessa, valuta le proprie capacità perché non riconosce alcuna autorità superiore a lei.
La grande impresa dell’illuminismo è l’Enciclopedia di Diderot e D’alambert che cercano di
riunire tutta la conoscenza in un’unica opera con l’idea che diffondendo il sapere si diffonda anche
il progresso, il problema è che questo sapere è frammentario.
L’illuminismo pensa che la ragione si debba fermare a ciò che è finito: la metafisica, che si occupa
del destino dell’uomo, dell’anima e di Dio, viene considerata una narrazione non scientifica, senza
validità. Nella Critica della ragion pura, Kant vuole dimostrare che matematica e fisica hanno un
valore scientifico mentre la metafisica no. La prima critica si conclude con le tre idee della ragione:
intuizione, intelletto e ragione in senso stretto, quest’ultima è la facoltà suprema dell’uomo che però
si illude di poter conoscere Dio, l’anima ed il mondo, anche se Kant poi smentisce questa
possibilità.
Nonostante dal punto di vista di una conoscenza scientifica, le tre idee di Dio, di anima e di mondo
non siano conoscibili dall’uomo, Kant afferma che dal punto di vista morale si può avere una strada
di accesso a questi tre oggetti della metafisica. Da una parte Kant chiude il secolo dei Lumi, il
settecento, perché conferma che per la ragione dell’uomo sono inaccessibili i concetti metafisici,
d’altra parte apre l’età romantica che è caratterizzata dal fatto di pretendere la conoscenza
dell’assoluto.
SCHEMA:
- ANALITICA:
o Principi della Ragione pura pratica: luogo in cui si dimostra che la Ragione pura, per
sé sola, è pratica. Nella Critica della Ragion Pura il principale obiettivo era
dimostrare che la ragione che ha come oggetti Dio, l’anima e il mondo, non ha alcun
uso conoscitivo. Quando parliamo di questi argomenti non parliamo di niente in
realtà.
La ragion pura serve soltanto per agire nel mondo. Ma la complessità dell’argomento sta proprio in
questo snodo: cosa significa l’uso pratico della ragione pura?
L’uso pratico della ragione pura significa che la ragione pura, come tale, può determinare la
volontà. La ragione pura è un fondamento di determinazione sufficiente della volontà.
Nella tradizione della filosofia pratica la volontà era sempre determinata da oggetti (l’oggetto era
motivo di determinazione della volontà). Kant si trova nella tradizione continentale tedesca
(Baumgarten e Wolff) secondo cui la volontà era correlata all’oggetto che determina la volontà a
volere (senza qualcosa che voglio, la volontà resta indeterminata).
Il punto di partenza della CRPR consiste nello sganciare volontà e oggetto: bisogna ipotizzare che
la volontà possa essere determinata senza correlazione con l’oggetto, il che non significa che la
volontà è determinata da altro. Questa tesi era già presente nella “Fondazione” secondo cui “nulla è
possibile pensare del mondo che possa essere ritenuto buono senza limitazioni, se non una volontà
buona” il che dice che il bene non sta negli oggetti ma sta esclusivamente nella volontà che deve
essere determinata in un modo che non dipende da oggetti. Con questa innovazione, Kant
scavalca la tradizione aristotelico-scolastica, in cui la volontà aveva un struttura finalistica e si
connette, attraverso Lutero ed il protestantesimo, alla tradizione agostiniana.
Dimostro che la legge pratica è valida per gli esseri razionali allora vale per tutti gli umani.
L’obiettivo di Kant nella prima parte della CRPR è dimostrare che ci sono leggi pratiche perché se
si da una ragione pura pratica ci devono essere leggi pratiche. Le leggi pratiche sono principi pratici
che determinano la volontà oggettivamente, ossia determinano la volontà di qualsiasi essere
razionale (esseri razionali finiti a cui sottraiamo l’elemento della sensibilità) possibile.
Se io dimostro che queste leggi pratiche sono valide per ogni essere razionale saranno valide per
ogni essere razionale finito, perché ciascuno di questi è finito a suo modo.
Il concetto di legge pratica viene posto al principio come ipotesi da cui io traggo conseguenze
necessarie con cui posso proseguire il discorso. La prima proprietà di una legge pratica è che non
contenga alcuna materia, alcun oggetto. Il secondo teorema dice che tutti i principi pratici materiali
non possono essere leggi pratiche ma stanno su una stessa scala omogenea, possono essere
comparati in base al tipo di piacere o dispiacere che producono. Il soggetto si trova a scegliere su
una stessa scala sapendo che è determinato da un maggiore o minore piacere. Quindi, se i soggetti
fossero sempre e soltanto di fronte a scelte di questo genere (cosa mi da più piacere) allora il
concetto di libertà non emergerebbe affatto. Se la scelta fosse sempre tra principi materiali diversi,
su una stessa scala, non ci sarebbe libertà.
Supponiamo che ci siano leggi pratiche e supponiamo che queste debbano essere rese effettive,
allora quali sono le condizioni restrittive per ottenere che siano attuali?
1. Devono essere assunte da un soggetto: non ci sono leggi pratiche che non vengono assunte
da un soggetto.
2. Devono avere una specifica struttura: i principi soggettivi sono le massime. La massima di
un soggetto che vuole rendere attuale la legge pratica deve avere come fondamento di
determinazione un principio non materiale, questo principio è la forma di una legge.
Il concetto di legge è legge di natura, ovvero proposizioni che determinano in modo
universale e necessario una certa relazione.
(Teorema III) Se voglio rendere attuale una legge pratica devo pensare la massima di un
soggetto come una massima il cui fondamento di determinazione sia la pura forma di una
legge (imperativo categorico).
Dopo il terzo teorema Kant enuncia una legge fondamentale della ragione pura pratica (“Opera
in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere in ogni tempo come principio di una
legislazione universale”) senza darne alcuna dimostrazione apparente.
Kant arriva a dire che la legge pratica deve essere ammessa come reale attraverso l’enunciazione di
due problemi. Nella logica di Kant i problemi sono proposizioni logico-pratiche perché un problema
impone una soluzione, allo stesso modo dei postulati, che devono essere ammessi.
- Problema 1: supponiamo che il principio pratico (secondo cui la legge pratica è la massima
il cui fondamento di determinazione è la pura legge) sia attuale, come sarebbe la volontà che
può essere determinata così. Una volontà che può essere determinata da una legge il cui
fondamento di determinazione sia la pura forma della legge è una volontà libera.
- Problema 2: Supponiamo che si dia una volontà libera, quale fondamento di determinazione
potrebbe determinarla? Solo la legge precedentemente formulata da Kant.
Kant afferma che la legge morale implica la volontà libera e la volontà libera implica la legge
morale. Ma da dove si ottiene la nozione di incondizionato pratico, di volontà libera (in senso
trascendentale, volontà in grado di iniziare una serie causale incondizionata)?
Kant da per scontato che noi disponiamo della nozione di volontà libera (Per esempio, nella
tradizione metafisica la volontà di Dio è pensata come incondizionata) ma da dove viene questa
nozione (della quale non si può dubitare che possediamo).
Secondo Kant non la possiamo trarre dall’uso teoretico della ragione, dunque, se non viene
dall’uso teoretico dovrà venire dalla legge fondamentale della ragione pura pratica, che allora viene
presentata come un postulato.
A questo punto Kant introduce l’argomento del fatto della ragione: Kant pensa la coscienza della
legge morale non come un criterio di scelta, bensì come una descrizione dello stato delle cose in cui
si trova la ragione pura pratica. Il fatto della ragione vuol dire che la ragione determina la volontà in
modo assoluto e immediato il che vuol dire che io non posso scegliere o meno se la ragione pura
determini la volontà.
INDICE
- Primo capitolo: I principi (veste formale e letture concettuali)
- Secondo capitolo: posticipazione del bene
- Terzo capitolo: descrive i motivi morali per agire (moventi). A questo punto non riesce più a
mantenere il livello di scrittura usato fino a quel momento, cambia modo di scrivere:
spariscono i teoremi, corollari, note che nei capitoli precedenti erano sovente usati. Kant, dal
terzo capitolo comincia a scrivere in una prosa apparente, con dei brani che sembrano quasi
poetici. Questa seconda scrittura, permette un’altra interpretazione, una lettura di tipo
esistenziale, tant’è che Kant non è solo filosofo analitico ma è anche filosofo umanistico.
Questa seconda tipologia di scrittura, autorizza una lettura che va oltre la rigorosità della morale
come concettualistica, ed è una lettura di tipo esistenziale di Kant. Quella di Kant è infatti anche
una filosofia che ispira i filosofia personalistici, umanisti, che apre l’era romantica.
Tra queste due lettura c’è un’anima formale e formalistica, ma anche una personalistica. Kant
quindi condiziona la morale, e non solo in negativo, dando adito a forti polemiche, ma genera anche
sostegno e ragioni.
PREFAZIONE
Un luogo in cui troviamo entrambe queste anime, quella formale e quella personale, è la
prefazione. La critica della ragion pratica si struttura come la ragion pura ma capovolta.
Nell’Introduzione dice di aver invertito i fattori, spiega la differenza di fondo tra la pura e la
pratica (molto vagamente), e la differenza più evidente è la posizione sul capitolo dedicato ai
Principi: nella ragion pura è in ultima posizione, mentre nella ragion pratica si trova al primo posto.
Questo significa che l’origine della conoscenza non equivale all’origine dell’umano:
nell’introduzione della ragion pura, il capitolo sui principi è in ultima posizione, perché la
conoscenza deriva dall’esperienza, l’uomo in quanto scienziato dipende dalle informazioni che
derivano dall’esterno e può conoscere solo riformulando dei dati che lo precedono. L’esistenza, in
quanto umana, è sottratta al dominio dalla natura, l’uomo in quanto uomo deriva da sé stesso ed in
sé stesso deve trovare il principio del proprio agire morale, la ragione.
Nell’introduzione alla ragion pura Kant dice che non troveremo risposte ad argomenti come libertà,
io, Dio, anima, perché non sono oggetti della scienza, eppure queste sono le domande più
importanti della vita. La ragion pura lascia insolute le domande più importanti della vita, che
risolverà nella ragion pratica. Questo perché la conoscenza può riguardare solo ciò che è finito,
quindi, Dio, l’anima e il mondo non possono essere oggetto di una conoscenza scientifica ma
possono essere argomenti di discussione all’interno della critica della ragion pratica in cui verranno
assunti come postulati, ovvero come verità indimostrabili ma necessarie per il discorso morale che
Kant vuole portare a termine.
Non ho bisogno di ricorrere alla natura per parlare di umano nella sua umanità, e il motivo è nella
Prefazione.
Quando si parla dell’umano, non come uomo specie, ma nella sua umanità, la scienza non è
sufficiente.
Il motivo indiscutibile di ciò è questo: Kant apre la ragion pratica dicendo che c’è un’esperienza che
ci fa “arrivare” al noumeno, benché nella pura egli dica che il noumeno è inconoscibile, questa
esperienza è la libertà.
Poi usa espressioni per parlare della libertà che sono molto indicative: la libertà è chiave di volta
(per costruire) del discorso umano, la libertà è pietra di inciampo contro l’empirismo, infatti Kant è
contro gli empirici, anche se sta scrivendo un’opera contro empirica in linguaggio matematico.
Il concetto di libertà è il centro della questione per la ragione pura pratica: i concetti di Dio e di
immortalità dell’anima verrebbero meno senza questo concetto che rende possibile l’esistenza di
queste due idee senza la presunzione di dimostrarle. La libertà è possibile a priori perché è la
condizione della legge morale che noi conosciamo.
Differenza tra libertà, ratio essendi, e legge, ratio conoscendi: libertà e legge sono in rapporto
reciproco asimmetrico, ossia, una guarda l’altra in modo ontologico e l’altra in modo
gnoseologico:
- Modo ontologico: NO LIBERTÀ = NO LEGGE -> a cosa serve una legge se tutto è
necessario.
- Modo gnoseologico: NO CONCETTO DI LEGGE = NO CONCETTO DI LIBERTÀ -> il
concetto di legge ci permette di riconoscere il fatto di essere liberi, cosa non esprimibile.
L’introduzione alla critica della ragion pratica si occupa di spiegare le ambiguità del titolo;
schematizza l’ordine di esposizione degli argomenti; e infine spiega la differenza tra critica della
ragione pura e critica della ragion pratica.
La pratica invece è pura di per se sola, non ha bisogno di critica, ha soltanto un problema:
distinguere tra ciò che viene, nella nostra condotta, dalla ragione e ciò che viene dall’impulso
sensibile, questo è il problema della ragion pratica. La ragion pura vede solo aspetti delle cose, solo
i fenomeni, mentre la libertà è un noumeno che ho a disposizione, che va oltre ciò che appare e la
libertà è trattata dalla ragion pratica.
Quando Kant parla della morale, deve distinguere ciò che viene dalla ragione e ciò che viene
dall’impulso sensibile (ciò che non ha una doverosità indiscutibile): Kant vuole fare una morale
della ragione e non dell’impulso sensibile. L’impulso sensibile non può fornire una morale
universale, sulla base di esso non si può fondare una morale (imperativi ipotetici e massime non
universalizzabili). Kant non fa differenza tra desideri inferiori e superiori (secondo teorema): sono
tutti della stessa specie. Quando Kant parla di impulso sensibile bisogna pensare a ciò che
imposterebbe una morale strumentalizzata (fai questo se vuoi questo), mentre per Kant la morale è
fatta di assoluti, di doveri imprescindibili e non condizionati (imperativo categorico). Tutto ciò che
introduce nell’etica delle condizioni non è comportamento morale, è più importante la verità di ciò
che si dice e la serietà di ciò che si fa.
La libertà è la sola idea della ragione speculativa di cui sappiamo che è possibile, è condizione
della legge morale.
Queste idee (anima, immortalità, Dio) diventano per Kant esigenza morale. Di queste tre idee non
si può dire nulla dal punto di vista speculativo (chi afferma che possa esistere Dio trova sempre chi
afferma il contrario). Sdoganando la libertà si sdogana la legge e dall’altra parte acquistano credito
anche l’idea di Dio e di Io. Tuttavia resta una differenza molto forte tra l’idea di libertà e le altre due
che vengono trascinate dietro dalla libertà come esigenze della ragione pratica.
Siccome la virtù è una faccenda seria c’è bisogno di molto tempo, più di quello che ci è concesso:
l’idea di un’immortalità dell’anima è necessaria per l’affermazione della morale umana. L’uomo
morale riscontra degli ostacoli materiali nelle sue intenzioni moralmente buone e quindi è incapace
di agire correttamente come vorrebbe. Per compiere il proprio piano si rende necessaria una vita
nella dimensione ultraterrena.
Allo stesso modo funziona l’idea di Dio, necessaria perché l’uomo possa comportarsi virtuosamente
nella vita morale, che altro non è che una lotta contro se stessi, dove Io devo decidere tra quello che
dentro di noi è “Patologico”, facile e scontato (sentimenti più immediati dove noi non siamo noi
stessi perché ci facciamo trascinare dalle pulsazioni / nessun uomo può mai sperare di raggiungere
la “santità” ovvero il momento in cui la mia intenzione e il mio dovere coincidono.)
Mentre il concetto di libertà è un dato, l’idea dell’immortalità e l’idea di Dio sono esigenze della
ragione pratica per una vita morale. In questo modo, Kant, vuole intendere la libertà come
“necessità soggettiva” mentre le altre due idee sono “esigenze”: ciò significa che queste idee non
hanno la certezza della ragion pura, però non sono neppure ipotetiche.
VI CAPOVERSO
Kant cerca di tenere il linguaggio della ragion pura ma rovesciandolo, vuole intendere la libertà
come una causalità necessaria ed inderogabile. Dentro al meccanismo del corpo c’è qualcosa che
sfugge al corpo stesso: il nostro corpo non è solo uno strumento ma è anche un corpo vissuto. Esiste
una causalità come meccanismo che è la natura ed una causalità come libertà che è l’uomo: la
morale stessa teme la libertà, non perché questa sia anarchica, ma perché è troppo facile pensare alla
libertà come un dato di fatto da cui far partire l’etica. La libertà è il varco per un altro mondo, non
quello dei defunti, ma per il mondo dei vivi, degli uomini.
L’idea della libertà si manifesta con la legge morale perché una legge ha senso solo per qualcuno
che può dire di sì o dire di no. Non ha senso comandare qualcosa a qualcuno se questo qualcuno
non è libero. Questo è il problema di tutte le morali che vogliono costringere le libertà di ognuno di
noi.
La libertà è l’unica idea della ragione speculativa che noi conosciamo a priori.
Grazie all’idea di libertà recupero le altre due idee che però non sono condizioni necessarie della
legge morale. Kant non perché non voglia parlare di religione in etica ma perché un comportamento
etico ha un valore in se stesso e vanno compiuti per se stessi, non utilitaristicamente
indipendentemente dalla propria religione.
Kant difende una fondamentalità ontologica della libertà ed una fondamentalità conoscitiva della
legge. Una legge morale ha come condizione necessaria l’esistenza della libertà, non della legge.
LIBRO I: ANALITICA
Cap. 1: INTORNO AI PRINCIPI DELLA RAGIONE PURA PRATICA
Kant, con la Critica della Ragion Pura è convinto che si diano leggi universali necessarie e
razionali, inoltre, è convinto che se la ragione teoretica ha bisogno dell’esperienza, la ragione pura
pratica parte dall’uomo stesso, va alla ricerca di una morale universale attraverso una scrittura
analitica, quasi geometrica.
Schema del primo capitolo:
Paragrafi 1-3: Confutazione della possibilità della morale universale su base empirica.
I primi tre paragrafi contengono una definizione ed una nota:
Kant inizia il primo libro con una definizione rigorosa, a sottolineare le sue intenzioni di scrivere
con un linguaggio severo, dei giudizi morali che secondo Kant devono essere dei giudizi sintetici a
priori. Sintetici perché dovrebbero portare alla determinazione dell’azione; a priori perché la
morale deve essere autonoma e libera dall’empirismo.
La morale, visto che non è data su base empirica, si da ad una sola condizione: se la ragione da a se
stessa il proprio oggetto morale, se non deve attenderlo dalla natura. Kant sente l’esigenza di
definire che cosa sono le leggi morali: “un principio morale può essere di due tipi: oggettivo e
soggettivo”
- Principi morali soggettivi -> massima: quando la condizione è valida solo per la propria
volontà.
- Principio morale oggettivo -> legge: indipendenti dal soggetto considerato. Valida per la
volontà di ogni essere razionale (Dio, angeli, uomini).
Se la ragione pura non riuscisse a fondare la ragion pratica ci sarebbero solo massime valide per i
singoli soggetti e nessuna legge potrebbe essere formulata dato che l’uomo non potrebbe venire a
conoscenza delle condizioni di universalità necessarie per trasformare la propria massima in una
legge universale. L’uomo è patologico (affettivo e passionale) ossia vive nella dimensione sensibile
e quindi è affetto da tutte quelle determinazioni proprie della dimensione materiale. Questo implica
che anche la volontà umana è patologicamente affetta, di conseguenza sorgono dei contrasti tra le
leggi e le massime. Per quanto si impegni, l’uomo non può seguire sempre le leggi, è innegabile che
ad un certo punto la sua parte patologicamente affetta prevarrà su quella intellegibile facendo cedere
l’uomo ai desideri mondani e quindi seguendo una massima. Io posso dare talmente tanta
importanza alla mia massima da renderla valida anche senza che questa abbia passato il test di
universalizzazione.
La volontà retta, universalizzabile, è da considerare come un angolo retto mentre tutte le
inclinazioni provocate delle affezioni sensibili sono da considerare come gli angoli che stanno tra 0°
e 90°.
La morale kantiana si distingue totalmente da una filosofia della natura: nel mondo fisico/naturale,
studiato dalla ragione speculativa, tutto ciò che succede è necessario e dovuto ad un meccanicismo:
una concatenazione di causa-effetto che non permette alcuno spiraglio alla libertà dato che tutto ciò
che è, è come dovrebbe essere.
Al contrario, nella sfera morale, l’uomo e la libertà giocano da protagonisti e non devono dipendere
ai rapporti di causalità propri del mondo della natura. Proprio per questo motivo (che il mondo
sensibile in cui l’uomo si comporta moralmente è sotto le leggi di causalità), perché non siamo
determinati a priori, per noi la legge suona sempre come un’imposizione (come se la
confondessimo con un meccanicismo).
Teorema I: il primo teorema, breve e intuibile, si presenta come il tentativo di distinzione tra una
morale universale e necessaria (categorica) e una morale particolare e ipotetica.
Il senso del primo teorema è al negativo: è rivolto alla negazione che sia possibile una morale che
non sia universale e necessaria. Mi accorgo di ciò quando la morale si esprime tramite imperativi
ipotetici: quando fa dipendere l’azione dallo scopo che si vuole raggiungere. Non posso fondare una
morale che mira al soddisfacimento materiale perché lo stesso conseguimento del piacere mi è
oscuro prima che io lo raggiunga. Prima di fare qualcosa non posso essere sicuro che l’esito della
mia azione mi darà piacere, posso conoscerlo solo a posteriori (una volta che ho compiuto l’azione),
quindi non ha senso fondare la morale su qualcosa di cui io non ho la certezza.
La mia azione verrebbe prima della determinazione morale (Se io vado piano in macchina per non
investire nessuno, nel senso che la determinazione di una morale giusta è il “non investire nessuno”
io anche andando molto piano non potrò mai avere la certezza di non investire nessuno. Se invece io
vado piano in macchina per rispetto della legge stradale io ho la certezza di essere nel rispetto della
legge mentre guido piano, ho la sicurezza di non trasgredire la legge quindi di essere morale),
qualsiasi azione sarebbe prima messa in atto e poi giudicata ma in questo modo sarebbe la morale a
rincorrere l’azione e non l’azione ad adeguarsi ad una legge morale.
Kant lo fa in maniera un po' dura, affermando che tutti i principi che presuppongono un oggetto
materiale come motivo determinante della tendenza del volere sono empirici. Un principio morale
desunto dalla tendenza si fonda su constatazioni empiriche -> inclinatio naturalis: a priori non
posso sapere se un oggetto può essere sentito come un bene in quanto tale.
In questa formulazione del primo teorema, Kant va per esclusione: tutti gli imperativi morali che
presuppongono un oggetto o materia (elementi empirici), da un punto di vista logico, non esce più
dai problemi se suppone il piacere, l’empirico.
Questi principi non possono fornire leggi universali pratiche per due motivi:
1. Poggiano su condizioni soggettive, su come ci troviamo in certe situazioni.
2. Tuttalpiù, se ragioni in termini empirici, può diventare una massima ma non è una necessità.
In questo modo Kant nega anche tutte le morali edonistiche formulate dai suoi predecessori dato
che il piacere ed il dispiacere più di ogni altra cosa non possono essere certi prima che l’azione sia
compiuta: non posso sapere se aiutare una persona mi provocherà una sensazione di piacere prima
che io l’abbia aiutata ma posso aiutarla sempre per il rispetto della legge morale.
Per capire il primo teorema bisogna lasciarlo temporaneamente in sospeso e leggere il teorema
secondo per trovarne la soluzione.
Teorema II: il secondo teorema ci chiarisce le idee riguardo il primo teorema in cui Kant afferma
che non posso costruire una morale necessaria se presuppongo l’oggetto, perché in tal caso si
annulla l’universalità (ad uno va bene ed all’altro no).
Se nel primo teorema Kant fa un discorso riguardo le condizioni di possibilità di un discorso
morale, nel secondo teorema Kant afferma che i principi pratici materiali sono tutti della stessa
specie. Non è distinguendo un corpo dall’anima che si fonda una morale perché anche una morale
dell’anima può essere una falsa morale.
Il termine materiale ha una valenza ambigua: viene usato come sinonimo per indicare i principi
pratici che suppongono l’oggetto (ricerca del bene, del piacere); è anche l’equivalente del corpo
così come la ragione diventa l’equivalente dello spirituale.
Affermando che i principi pratici materiali sono tutti della stessa specie Kant vuole tagliare fuori
coloro che distinguono i piaceri materiali da quelli spirituali. Secondo Kant i piaceri sono tutti
uguali perché funzionano tutti allo stesso modo: se vuoi raggiungere un fine agisci in questo modo.
I principi pratici materiali sono tutti della stessa specie perché si fondano sul soggetto passivo, cioè
una morale non può essere fondata su ciò che ricerchiamo per puro piacere
- Felicità: difficile da raggiungere e sempre sfuggente, quindi non può fondare la morale
- Amore di sé: difficile da raggiungere e anche se raggiunta rischia di sconfinare di quantità
per finire in arroganza e superbia, dannosi per gli altri.
- Piaceri: I piaceri non possono essere distinti in piaceri più o meno benefici perché nel
momento in cui noi compiamo un’azione per il piacere che ne consegue abbiamo in testa
solo l’obiettivo di massimizzare il piacere, non ci chiediamo mai se esistano piaceri più forti
perché siamo come ipnotizzati dal conseguimento di questo.
COROLLARIO: Kant distingue due tendenze, una inferiore e una superiore, una materiale (nel
secondo senso) e una razionale. Quella razionale non riguarda l’oggetto che si desidera ma riguarda
la forma. Kant distingue due tipi di desiderare, due tipi di sentimento, non esclude dunque i
sentimenti, ma egli vuole condurci a riflettere sui sentimenti e desideri autenticamente umani.
NOTA 1: la beatificazione di Epicuro: siccome non c’è differenza tra i piaceri sensibili e
intellettuali, Epicuro è molto più coerente di molti altri filosofi, come i sincretisti contemporanei
che credono nell’omogeneità dei piacere del corpo e dello spirito, perché riduce gli appetiti sensibili
ad una medesima specie. D’altra parte Kant non smentisce la facoltà di desiderare, di cui esiste una
facoltà superiore che è quella del desiderare la forma.
Kant sta cercando di dire a suo modo che per una morale ci vogliono due cose correlative tra loro:
delle persone da una parte razionali, in grado di dare e comprendere una legge, dall’altra parte ci
vogliono delle persone libere.
NOTA 2: il desiderio di felicità non fonda la legge perché radica nell’individuo, nella cultura, nella
storia. Ognuno si immagina la felicità in modi diversi: chi la immagina nell’astinenza chi nella
pratica, chi nei piaceri dello spirito chi nei piaceri carnali. Anche se tutti pensassimo alla felicità
nello stesso modo, vincere le olimpiadi per esempio, non sarebbe comunque un universale ma un
essere contingentemente d’accordo. Anche se ogni essere razionale aspirasse alla felicità, questa
dipenderebbe sempre dal piacere, quindi non sarebbe in grado di fornire una legge morale.
Kant non disconosce la nostra facoltà di essere felici ma si chiede che cosa questa felicità significhi.
La felicità è determinata a posteriori perché deriva dalle sensazioni di piacere o dispiacere che sono
variabili e dipendono dagli aspetti sensibili e patologici.
Teorema III: nel terzo teorema Kant istituisce il primato della forma sulla materia morale. Se nei
precedenti teoremi si è limitato ad escludere ciò che non può dare universalità, con il terzo teorema
afferma positivamente che il motivo universalmente valido per volere un oggetto non è determinato
dalla materia (dal contenuto), cioè dal piacere, bensì dalla forma perché la legge comanda di farlo.
Una morale non può essere basata su precetti contenutistici come “fai questo se vuoi ottenere
quello” ma deve essere un indicazione formale, deve esprimere una regola, una maniera universale
d’agire che è l’imperativo ipotetico: “agisci come se la tua azione fosse estendibile a tutti quanti gli
altri esseri umani”.
Kant utilizza un meccanismo ascetico: la morale non comanda per utilità ma comanda per il fatto di
essere morale.
Nel terzo teorema c’è una imperfetta inclusione letteraria, Kant fa due domande:
- Com’è fatta una volontà capace di obbedire ad un comando solo in forza del comando (Devi
perché devi) senza esserne schiacciata?
- Qual è l’unico fondamento possibile di una volontà libera? La legge universale ci libera da
noi stessi.
In fondo al terzo teorema troviamo un link perfetto alla nota della prefazione riguardo il circolo
libertà-legge (agisci come se la tua massima dovesse fungere da legge universale).
Se un essere razionale deve pensare la propria massima come una legge universale, deve astrarre
dalla massima tutti i contenuti che possono contenere delle affezioni materiali, in questo modo nella
massima rimane solo la forma che è quindi l’oggetto della morale.
Se io non voglio spogliare l’oggetto delle sue determinazioni per fondare una legge universale devo
ammettere che esistono solo le massime.
Il formalismo morale è un rischio ma il suo tentativo è ribaltato rispetto all’uso comune. In assenza
di contenuto, con la forma indipendente si da la questione della libertà. A differenza della
dimensione teoretica, la dimensione pratica può prescindere dal proprio contenuto materiale.
NOTA: La conoscenza della moralità parte dalla legge dato che la libertà non può essere l’origine
della morale perché è un concetto negativo (assenza di costrizione). Nessuno ha mai avuto la
temerarietà di introdurre la libertà nel mondo della scienza perché è una pretesa assurda dato che il
mondo della natura è dominato dalla necessità mentre la volontà è libera e autonoma.
Inoltre è presente il criterio fondamentale per stabilire se una massima può diventare legge morale:
tutte le mie massime devono passare il criterio di universalizzazione. La massima della volontà
deve volere sempre e al tempo stesso. Da un lato la legge deve essere applicata sempre dal
soggetto e al contempo deve avere la connotazione della legislazione universale.
COROLLARIO: la pura ragione è di per sé pratica perché quest’ultima non si occupa della
materialità ma solo della forma.
In Dio la volontà e la ragione sono una sintesi (Dio vuole ciò che è razionale) mentre per noi la
sintesi non c’è (volere ciò che è razionale implica uno sforzo per l’uomo). Dunque, Dio è diverso
da Odino, Dio è immediatamente morale, in Lui non c’è bisogno di un imperativo categorico
come per l’uomo in cui è necessario risvegliare una coscienza morale. Quando Kant ha introdotto
l’imperativo categorico si era impaludato nella legge e nel dovere, qui significa che il comando
deve essere categorico perché Io “resisto”. Secondo Kant non è vero che le inclinazioni sensibili
sono invincibili (esempio della donna e della forca: andresti con una bella donna sposata anche se la
pena fosse essere impiccato).
Non c’è vita morale senza resistenza dell’uomo, senza scontro tra la propria sensibilità e la propria
moralità.
Principio della felicità: le regole generali non valgono mai per una totalità. Anche una felicità
pensata in termini collettivi non può mai essere il principio di determinazione di una morale perché
è sempre fondata sulla mia conoscenza.
Kant fa un parallelismo con Hume secondo il quale il concetto di causa è falso e ingannevole, non
conoscibile in quanto è l’abitudine a percepire questa connessione che in realtà non c’è. Per Kant,
Hume è un riferimento importante che riprende per dire qualcosa di opposto: Hume, di per sé, ha
ragione con la sua critica della causalità ma Kant trova dell’incoerenza nella sua affermazione:
Hume avrebbe ragione ma ad una condizione: se gli oggetti dell’esperienza fossero intesi in se
stessi, a prescindere dal soggetto e dalle intenzioni su di esso. Ma Kant fa la distinzione importante
tra cosa in sé, il noumeno, e la cosa esteriormente, il fenomeno, che gli permette anche di
distinguere una filosofia della natura da una filosofia morale.
Quelli che si trovano sul lato sinistro sono tutti empirici e, palesemente, non valgono come
principio universale della moralità. Ma quelli che si trovano sul lato destro si fondano sulla
ragione. Se non che il primo concetto, la perfezione, può essere intesa in senso teoretico come
trascendentale o come cosa in genere, il che non la rende un principio morale, in senso pratico
come abilità o talento massimo, anch’esso inadatto. Anche la perfezione suprema, Dio, non può
essere intesa come fondamento di determinazione della volontà.
Ne segue dunque che tutti i principi qui elencati sono materiali; in secondo luogo, che essi
abbracciano tutti i principi materiali possibili; e infine, dato che i principi materiali sono inadatti a
costruire una legge morale, segue che il principio formale pratico della ragione pura, è l’unico
principio possibile adatto a servire da principio di moralità.
Anche se la perfezione in un primo momento mi può far credere di essere valida come principio
fondativo di una legge morale devo valutare il fatto che ci sarebbe una dimensione da raggiungere
per approdare a questa perfezione, quindi si tratterebbe di una morale eteronoma.
Anche nel caso di Dio, inteso come massima perfezione, si tratterebbe pur sempre di un grado da
raggiungere, a cui adeguarsi e che io devo conoscere. Non si tratterebbe più di un principio a priori.
Il discorso di Kant segue con la deduzione dei principi della ragione pratica che è l’unica autonoma
perché si basa sulla libertà che non è fondata sul fenomeno ma sul noumeno.
La ragione pura non è la ragione pratica e la ragion pratica è più della ragione pura perché estende il
discorso che nella pura trova dei limiti (parla di Dio, anima e uomo).
I principi, quali Dio, anima e mondo, trovano dei limiti conoscitivi nella ragione pura speculativa
poiché sono delle idee che possiedo ma non posso conoscere.
Nella ragione pura pratica, invece, è una facoltà che determina immediatamente il volere. La libertà
è una realtà che si trova negli esseri razionali che io riconosco come obbligatoria.
La mia conformità alla legge può essere legale se ho motivi diversi dal mio volere la legge. In
questo caso io sono conforme alla legge ma non sono mosso interiormente dal rispetto per la legge.
La mia conformità può essere poi spirituale quando sono mosso interiormente a realizzare l’azione
buona secondo la legge.
Bene = volontà buona -> buono o cattivo sono mediante la legge morale (conformità o rifiuto) ma
non come mera adesione formale, serve anche il movente dell’azione stessa.
Il movente ha senso solo per le realtà intellegibili e sensibili come l’uomo dato che solo questi
esseri hanno la possibilità di seguire sia la propria parte razionale sia la propria parte sensibile.
I moventi sono il motivo per cui l’uomo agisce.
Kant chiama i moventi la “determinazione della volontà”, il motivo per cui la volontà si indirizza
verso un oggetto piuttosto che un altro. A questo punto il linguaggio kantiano esplode: scompare il
trattato di geometria e compaiono cose più strane come un inno al dovere (cambio del registro
verbale).
Kant comincia a parlare della nostra condizione di uomini: esce con molta forza il rapporto tra fede
e morale. Kant parla del fanatismo religioso e del fanatismo morale.
Capoverso I: Kant fa una differenza tra moralità e legalità: la legalità è l’osservanza esteriore
della legge, mentre la moralità è l’osservanza interiore (l’uomo che evita il tradimento per paura
della pena di morte è legale ma non è morale perché agisce solo in vista di una possibile pena). La
differenza tra legalità e moralità è la stessa che c’è tra lettera e spirito (cfr. Lettera ai galati di
Paolo: testo di rottura con un interpretazione della religione in senso legalistico). Se è un esistenza
morale non può essere semplice adesione ai comportamenti ma è necessario un rapporto di intimità
con la legge.
Nel caso ci fossero moventi di carattere diverso sarebbe un problema perché io non riuscirei più ad
individuare per quale motivo è avvenuta una tale azione Il movente deve essere sempre unico.
L’unico vero movente per conformarsi spiritualmente alla legge è il rispetto: un sentimento che
nasce su un fondamento intellettuale, il solo conoscibile a-priori e necessario.
Punto debole: il motivo per cui uno agisce deve uscire dall’astrattezza senno è impossibile che si dia
un movente valido. Un sentimento intellettuale è determinabile a priori mentre ogni sentimento
sensibile è a posteriori (quindi non oggettivamente valido). Il rispetto si può imporre totalmente a
priori, serve a spronare il soggetto dell’azione.
Noi non possiamo fare a meno di questa spinta ma cosa garantisce che il rispetto sia veramente a-
priori?
Capoverso II: appare una parola in apertura “ipocrisia”: se c’è una differenza fra moralità e
legalità allora c’è anche la possibilità di fingere l’etica, di adeguarsi a norme solo per recitare un
ruolo. Dove c’è morale c’è ipocrisia: non è possibile un discorso sulla morale che non ammetta la
possibilità di un comportamento ipocrita.
Sartre: il cameriere che inscena il comportamento di cameriere -> c’è un atto di malafede, non puoi
recitare ciò che sei già solo per amplificare il tuo ruolo.
Maritain: ci sono verità che mentono e menzogne che dicono la verità. Un modo di mentire è quello
di non accorgersi della differenza tra una morale legalista e una morale in senso proprio.
Il primo effetto della legge sull’uomo è un effetto negativo (“la legge abbatte la nostra superbia”)
perché non c’è persona morale prima di un confronto con la legge, prima della legge c’è solo uno
che cerca di accaparrarsi ogni cosa, la persona nasce con la legge. L’effetto della legge sull’uomo è
quello di porre un interrogativo su se stessi che mette in crisi noi stessi nella nostra superbia.
Per Kant il lavoro di abbattimento è indispensabile per il sorgere del rispetto: nel rispetto per la
parte più nobile dell’uomo (non per la parte patologica).
Capoverso III: carattere coercitivo della legge (dovuto alla resistenza), l’abbattimento della
superbia
D’altra parte il dovere non usa minacce o spavento. Il dovere preserva dalle morali tiranniche, degli
obblighi. Il dovere è un moto autonomo, non è subordinato ai premi o castighi.
Legge:
1. Fondamento di determinazione formale dell’azione
2. Fondamento di determinazione materiale oggettivo
3. Fondamento di determinazione materiale soggettivo (movente = sentimento favorevole
all’influsso della legge sulla volontà)
Libera sottomissione della volontà alla legge: L’uomo che è formato da entrambe le parti,
intellegibile e sensibile, razionale e patologica, impulsiva e intellettiva, deve limitare i propri
desideri che provengono dalla sua parte patologica in favore della legge e di conseguenza del
rispetto di tutti gli uomini che si impegnano anch’essi nel rispetto della legge. Non si intende che
l’uomo debba spontaneamente agire in nome della legge morale ma deve farlo sforzandosi di stare
sotto un dovere.
La legge ha un duplice aspetto: una parte universale e oggettiva che consiste nel dovere che si
presenta di fronte a tutti gli uomini come una forte esortazione a seguire la legge; dall’altra parte la
legge ha anche un aspetto personale e pratico che consiste nel rispetto che ognuno di noi deve
portare proprio verso questa legge morale universale.
C’è differenza tra l’essere legali e l’essere morali: nel primo caso basta seguire la legge con
prospettive finalistiche (per esempio: non trasgredisco la legge per non subire ripercussioni dallo
stato); nel secondo caso invece bisogna entrare in un intimo rapporto con la legge universale e
seguirla a aprioristicamente, indipendentemente dalle conseguenze delle mie azioni.
- Virtù: essere virtuosi significa meritare di essere felici ma noi abitiamo nel mondo della
finitudine, pertanto aspiriamo alla felicità. Il nostro problema è che abbiamo due dimensioni:
una intellegibile che ci invita ad agire indipendentemente da ciò che ci circonda ed una
sensibile che ricerca la felicità.
Perseguire una virtù non comporta necessariamente che io diventi felice, così come il fatto
che io sia felice non significa per forza che io mi sia comportato in modo virtuoso.
- Immortalità dell’anima come postulato: Se noi fossimo in grado di adeguarci sempre alla
legge saremmo dei Santi, ma questo non è possibile per l’uomo che vive nella dimensione
sensibile. È impossibile per un essere razionale sensibile realizzare la perfetta sintonia con la
legge mortale durante la vita terrena, che è possibile solo ipotizzando un progresso infinito
verso questo ideale astratto di santità. L’azione di avvicinamento verso questo ideale si da
solo con la permanenza del soggetto, quindi, l’immortalità dell’anima è rinvenibile solo
come condizione di possibilità della ragione pura pratica.
- Esistenza di Dio come postulato della ragione pura pratica: Kant effettua una
argomentazione causa-effetto in cui il Sommo bene, l’effetto, necessita di una causa che sia
in grado di produrlo, Dio.
CONCLUSIONE
Due opere con cui ha a che fare: il cielo stellato sopra di me (Ragion pura: cosmologia,
epistemologia) e la legge morale che è in me.
Kant stabilisce un gioco di rapporti, tra il cielo stellato e la legge:
- Rapporto di fronte: Io sono di fronte sia al cielo stellato che alla legge ma in due modi
diversi: il cielo stellato lo vedo fuori di me ed Io di rimbalzo mi sento una piccola cosa
(sembra che Kant dica: tutta la vostra metafisica provoca in me il senso di essere uno tra i
tanti); La legge morale devo guardarla dentro di me: è ciò che mi innalza dall’interno e
diventa più importante dello stesso cielo stellato.
Il cielo stellato mi mette di fronte ad un senso infinito ma la legge morale mi mette in contatto con il
vero infinito, quello della persona. Il vero infinito è solo quello che può essere penetrato
dall’intelletto (smonta tutte le interpretazioni che affidavano il vero infinito solo all’epistemologia).
Noi siamo al di là di ciò che è finito, la nostra finitezza ha un altro significato.
La legge morale si impone come una limitazione della facoltà di desiderare e quindi dell’amore di
sé: la legge è una umiliazione del desiderio ma dal punto di vista della legge questa umiliazione
prende il nome di rispetto. Questo rispetto si può avere solo per l’uomo, non per gli animali per i
quali si può avere al massimo ammirazione. Non è importante la determinazione socio-economica
ma la loro inclinazione rispetto alla legge.
Tendenzialmente cerchiamo di esaltare il nostro amore di sé a discapito altrui, per questo ci viene
difficile portare rispetto per gli altri.
Più riflette e più si stupisce del cielo stellato: visione non solo cosmologica/scientista ma è ciò che
gli fa percepite la sua piccolezza, la sua sensibilità di animale, il suo essere uno fra i molti. Gli
ricorda il suo destino di essere mortale quale è, che dovrà restituire la materia al mondo.
Nel quinto capitolo il tema kantiano dell’universalità della massima rimanda ad un problema
logico più che ad un problema morale. Il rimando al futuro implica che l’azione non venga letta
nella sua immediatezza. L’imperativo di Jonas è ricalcolato nella dimensione co-attiva
dell’imperativo kantiano: “agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili
con gli abitanti del futuro”. Sottintende una responsabilità per l’altro che sarà nel futuro, senza
imporre limitazioni temporali e geografiche. Non basta stare entro l’orizzonte kantiano ma bisogna
proiettarsi verso un’universalità concreta nell’azione. È un imperativo, quello di Jonas, che si
preoccupa del futuro e del pubblico, della comunità, a differenza di quello kantiano che è
focalizzato sul presente ed interessato al comportamento del singolo: esorta ognuno di noi come se
fosse una scelta privata. L’universalità è nell’ipotesi che tutti facciano così: “agisci come se valesse
per tutti” l’ipotetico non va bene perché è come se non venisse davvero applicata in universale.
Nel sesto capitolo Jonas difende Kant spiegando che egli non è l’esempio più eclatante di una
filosofia che fa l’errore di fermarsi ad una prospettiva solo sul presente. Inoltre, Kant può vantare il
fatto di aver introdotto la differenza tra imperativo categorico ed imperativo ipotetico: bisogna agire
in maniera che sia dato per certo un futuro, quindi non in maniera ipotetica ma in maniera
categorica.
Ancora, Kant è l’unico che si è sforzato di fare una concessione alla componente sensibile, con i
moventi, necessaria per determinare il nostro agire.
Søren Kierkegaard (1813-1855)
La malattia mortale (per la morte)
SOMMARIO:
Premessa:
Esordio:
1) Parte prima: Che la malattia mortale è la disperazione
a. Che la disperazione sia la malattia mortale: la disperazione è una malattia dello spirito,
non di parti del corpo, e può avere tre forme: sunto di tutto lo sviluppo successivo.
1. Disperatamente non essere cosciente di avere un Io (coloro che non sono
consapevoli di avere un sé) che è la forma impropria; più si è coscienti di
avere un sé più c’è disperazione, quindi i livelli di disperazione sono
classificati.
2. Disperatamente non volere essere se stesso: maggiore consapevolezza
maggiore disperazione.
3. Disperatamente voler essere se stesso.
ii. Da dove viene la disperazione: Da un rapporto squilibrato di un rapporto di sintesi
che si rapporta a se stesso. È un rapporto che non sa da che parte andare, o
predomina l’infinito o il finito. È come una pesa che continua a sbilanciarsi perché
l’uomo è una sintesi difficilmente sintetizzabile.
iii. Definizione di disperazione = malattia mortale. Il non poter morire è la beffa della
malattia dalla quale non si guarirà mai a meno che non si arrivi a riconoscere se
stessi e questo Uno, Dio, che è origine. Anche di fronte ad un pericolo mortale c’è la
speranza: la speranza di morire per scappare al pericolo o la speranza di
sopravvivere. Nel primo caso la morte sarebbe la via di uscita da questo mondo in
cui sono in pericolo. La malattia mortale, la disperazione invece è simile ad un
perenne fastidio, questo è vivere la morte, provare l’esperienza dell’annullamento
senza morire definitivamente, la situazione del moribondo al suo capezzale.
iv. Smonta Epicuro che afferma (Se c’è la morte non ci sono io e viceversa):
Kierkegaard pensa invece che l’esperienza della morte non sia veramente
percepibile dall’uomo. La disperazione invece è una morte eterna che avviene in
vita. Il problema è sempre l’Io che è eterno e non può consumarsi, quindi vive
questa morte senza soddisfarsi ed annullarsi completamente: avere sempre
l’ingombro di se stesso e contemporaneamente il vuoto di sé.
v. Non potersi disfare di sé: “O Cesare o niente” o sono Io o voglio annullarmi. Il
disperato che si abbatte perché non può essere una tale persona diversa da lui soffre
perché non può sbarazzarsi di se stesso e diventare il modello che ha in mente. Il
problema quindi non è tanto il non essere diventato Cesare ma il non potersi
sbarazzare di sé. Dunque, siamo costretti ad essere un sé che non si vuole: io voglio
essere qualcosa che so già non essere. È anche un avversione contro il principio che
ha posto il nostro rapporto in quanto questo non corrisponde con il desiderio del
singolo che allora desidera potersi decidere da sé la propria persona.
vi. La forma più alta di disperazione è il volere essere se stesso così ostinatamente che
si rifiuta l’altro come umanità. Io rifiuto che l’altro mi possa far essere diverso da
come sono tanto da essere demoniaco).
.
b. L’universalità di questa malattia:
c. Le figure di questa malattia: inizia dando una breve premessa: Kierkegaard parte dalla
sintesi, che l’uomo è, tra il rapporto finito/infinito. L’uomo è rapporto di rapporto che si
rapporta a se stesso in maniera libera. La libertà è l’elemento dialettico tra la necessità e la
possibilità. Il rapporto dell’uomo, poiché deve rapportarsi a se stesso è libero e la libertà a
sua volta è la mediazione tra necessità e possibilità.
i. Rapporto finito-infinito:
1. Diventare se stesso è diventare concreto: l’equilibrio dei movimenti di
finito/infinito sta nella sintesi in movimento. Questo duplice movimento
dell’allontanarsi e ritornare a se stesso fino a quando è equilibrato non reca
problemi. Quando questo rapporto si rompe ne scaturisce la disperazione
2. L’uomo è fatto da un parte finita che lo limita ed una infinita che lo espande.
Quando prevale la seconda parte l’uomo si ritrova nel fantastico che
impedisce all’uomo di vivere concretamente e quindi causa la disperazione.
Il fantastico, in un certo senso (non può mai perderlo), perde il proprio sé
che cade nel fantastico. Il fantastico è ciò che conduce e trattiene l’uomo
lontano da sé.
Questo aspetto interessa sia il religioso: il rapporto con Dio è un rapporto
con l’infinito, con l’altro che pone se stesso. Il rapporto con Dio consente di
evadere la nostra condizione terrena attraverso un processo di
infinitizzazione che però si rivela essere solo un’ebbrezza.
Questo aspetto interessa anche l’uomo comune: Questa forma di
disperazione appartiene ancora alla fase più inconsapevole dell’uomo.
Siamo ancora nel momento in cui l’uomo non nota neanche che nella
profondità gli manca un sé. Il più grande pericolo, quello di perdere se
stesso, può passare inosservato.
3. Diventare un numero: l’uomo del finito è una cifra, una ripetizione del
perpetuo identico. L’uomo del gregge che non riesce a distinguere, è l’uomo
che si dimentica il proprio nome: “uomini esperti di come va il mondo ma
che dimenticano se stessi” che però non sono esperti di quello che per
Kierkegaard è veramente importante.
Diventare una moneta: essere “correnti” come una moneta in corso:
commercializzazione dell’uomo. Uomini come si deve che svolgono una
vita comoda: sono esperti del mondo che amano la vita piacevole ma che si
dimenticano il proprio essere.
Mondanità: per l’uomo è pericoloso osare perché potrebbe perdere. Anche
se nella propria vita professionale è realizzato egli non osa mai dal punto di
vista del sé per timore di perdere. Se perdesse potrebbe diventare
consapevole dei propri errori.
Uomini egoisti: hanno realizzato il proprio ego nel mondo ma che non
hanno alcun sé.
ii. Rapporto possibilità/necessità:
o Kierkegaard parte dall’equilibrio già citato: se la sintesi riesce a mantenere le due parti
bilanciate non ci sono problemi. Ma se la disperazione c’è vuol dire che questo equilibrio si
rompe. Vivere troppo nel possibile mi immobilizza, ci vuole anche un po' di necessità. Però
solo necessità diventa una gabbia, diventa un obbligo, quindi non si è più liberi e
responsabili.
Troppa possibilità rende impossibile il possibile: la possibilità cade nel suo opposto,
mi incastra e rende impossibile il possibile. (M. Heidegger: la morte rende possibile
l’impossibile). Troppo movimento mi inchioda nell’impossibilità della scelta di
fronte a troppe possibilità.
Nella possibilità si rischia di non riconoscere più il proprio limite. Immagine del
cavaliere che insegue un uccello senza mai prenderlo: un viaggio di sola andata
verso l’infinito. L’uomo però deve anche ritornare a casa, nel finito, nella necessità,
in cui può realizzare se stesso.
Quando la necessità invece diventa gabbia e nega la possibilità: il regno della
necessità è come una persona che parla solo per consonanti, senza le vocali. Sono
l’inquadratura dell’esistenza in cui serve qualcosa che dia un senso, che è la
possibilità, senza le quali si resterebbe “muti”.
La possibilità è aria: ciò che rende possibile la vita, l’esistenza dell’uomo. Io potrei
vivere in un mondo necessitato ma vivrei come soffocato dalle decisioni prese da
altri.
Due figure di coloro che non hanno possibilità: il fatalista ed il conformista. Il
determinista/fatalista è colui che non può respirare perché crede che tutto è
necessità, anche Dio. La seconda figura, quella del conformista/filisteo, è un uomo
compensato triviale in cui emerge l’immagine di una gabbia della necessità che
impedisce all’uomo di essere se stesso.
d. La fase cosciente e consapevole: più aumenta la coscienza più aumenta la disperazione.
L’uomo del sottosuolo: è l’esempio più caratteristico utilizzato da Kierkegaard. La non
consapevolezza di avere un sé di uomini che decidono di non vivere, vivere in cantina,
perché tutto quello che è superiore non lo conoscono. Questi preferiscono l’oscurità del
sottosuolo, che amano l’ombra tanto da arrabbiarsi contro coloro che provano a spiegargli
che esiste anche altro. Questa è la disperazione che deve prendere maggiore consapevolezza
di sé per diventare la disperazione di voler essere se stesso e quella di non voler essere se
stesso.
2) Parte seconda: la disperazione è il peccato.
Fino a quando non si prendono in considerazione i propri rapporti costitutivi e fino a quando non ci
si mette in rapporto con colui che ha posto il rapporto, Dio, c’è solo disperazione, come malattia
della morte, diversa dalla malattia fisica che ci conduce ad una morte. La malattia dello spirito ci
conduce ad uno stato di perenne disperazione, simile al moribondo.
A) CHE LA DISPERAZIONE SIA LA MALATTIA MORTALE
La disperazione è una malattia nello spirito, nell’io, e così
può essere triplice: disperatamente non essere consapevole
di avere un io (disperazione in senso improprio);
disperatamente non voler essere se stesso; disperatamente
voler essere se stesso.
- Non essere consapevoli di avere un Io: La folla/ il gregge di coloro che si lasciano far vivere
da altri senza porsi il problema della propria esistenza.
- Non voler essere se stesso: il problema è che noi siamo già fatti, non posiamo scegliere di
cambiare noi stessi (nei limiti della scienza) per questo ci disperiamo. Noi siamo creati, non
ci siamo fatti da soli.
- Voler essere se stesso: noi siamo la contraddizione e il paradosso. Noi siamo disperatamente
volere essere se stessi perché se io non voglio essere me stesso riconosco in qualche modo
che ci sono. Se io voglio solo me stesso perdo la scena del di fronte. L’ultima figura è il
demoniaco: negare i rapporti con gli altri e con Dio che ci costituiscono.
Definizione dell’Io: (è ironico sull’utilizzo della parola definizione) l’uomo è spirito (mente
e anima) e lo spirito è l’Io. A sua volta l’Io è un rapporto in rapporto con se stesso. L’Io non
è una sostanza, non è qualcosa. L’Io è rapporto, il fatto che il rapporto si metta in rapporto
con se stesso. Noi nasciamo da questo “rapporto”. Si prendono le distanze da un
atteggiamento attivistico ed idealistico.
Uomo = sintesi.
L’uomo è sintesi di finito ed infinito; temporalità ed eternità; possibilità e necessità.
L’uomo è un rapporto che si mette in rapporto. Ma visto in questa maniera l’uomo non è ancora un
Io: l’uomo diventa un Io quando prende sul serio il rapporto di cui si è auto-costituito.
Kierkegaard fa fuori l’equivoco hegeliano di sintesi che non vuol dire “fare sintesi” ma significa il
“rapporto tra due elementi” per cui l’uomo non è ancora un Io e viceversa.
La quiete richiede il rapporto, non solo con se stessi, ma anche con colui che ha posto il rapporto
stesso. Il linguaggio di Kierkegaard attinge all’esistenza perché non ha la preoccupazione di Kant di
concettualizzare l’empirico ed il non empirico, il razionale ed il patologico, si affonda ed emerge
subito la tematica delle vertigini: la disperazione è come una vertigine in cui si sprofonda sempre di
più. Sono vertigini interiori che si spiegano perché tutto nel rapporto si squalifica, tutti gli elementi
del rapporto ed il rapporto stesso impazzisce.
Kierkegaard sta anticipando la formula della salvezza in cui non ci sarà più disperazione:
“mettendosi in rapporto con se stesso, volendo essere se stesso, l’Io si fonda trasparente nel
rapporto che l’ha posto”.
B) L’UNIVERSALITÀ DI QUESTA MALATTIA
In questo passaggio Kierkegaard adotta lo schema medico-paziente e con una tecnica pre-
fenomenologica smonta le pretese di dire che non si è disperati. Anche attraverso un piccolo segno
di maschilismo come l’esempio della giovinezza femminile.
L’argomento di Kierkegaard è che il fatto di negare di essere disperati è il principale segno di
disperazione: come quando il medico vuole riscontrare una malattia ma secondo te non hai nulla.
C’è una considerazione volgare della disperazione che la riduce ad una semplice malattia che
passerà, che si risolverà facilmente come uno stato doloroso passeggero.
Alla volgarità della disperazione sfugge il fatto che questa è dialettica: per cui io non capisco la
disperazione se non guardo anche il lato contrario.
Kierkegaard vuole convincere che ciò di cui si tratta è una malattia dello spirito, una malattia per la
morte, e una malattia universale: non c’è niente o nessuno nel mondo umano che può sfuggire a
questa malattia.
Termini che compaiono in questa parte:
- Kierkegaard si vuole comportare come un medico, il che ha una chiara provenienza
socratica.
- Questa malattia è angosciosa, disperante ma diversa dalla paura che è sempre rivolta a
qualcosa o a qualcuno, non ha un oggetto determinato e specifico. L’angoscia è sfumata,
non si rivolge ad un determinato punto per il fatto che il motivo dell’angoscia coincide con
lo stesso angosciarsi. Non è un pericolo che arriva all’Io ma è l’Io stesso ad essere il
pericolo di se stesso, il modo con cui vive il suo rapporto di fronte all’Io.
- Il tema della dialettica: una dialettica della contrapposizione che si rovescia continuamente
su se stessa. Niente è dato, niente è fermo, nulla è dato e non c’è nessuna sintesi fra i
termini. Quando Kierkegaard utilizza la parola dialettica intende una dialettica vorticosa.
- Il termine volgare indica la possibilità con cui può essere letta la malattia della morte: c’è
un’interpretazione volgare della disperazione che la riduce a qualcosa di risolvibile, di
tecnico medico ma per cui non funziona il farmaco.
- Il termine finzione: nella malattia mortale tutto può essere nascosto. La malattia non si
palesa, anzi, questa mente su se stessa. Questo non apparire della malattia è uno dei segnali
della sua universalità.
Come il medico può dire che nessun uomo è sano completamente, allo stesso modo, lo psicanalista
parla di una malattia dello spirito “che cova nel corpo così come nello spirito”; “Né fuori dal
mondo cristiano né dentro non vive nessun uomo che non sia disperato”.
Anche il mondo cristiano è disperato in qualche modo.
Essere fuori o dentro non da automaticamente garanzia di non essere disperati come tutto ciò che è
esistenziale va continuamente ripreso e recuperato.
La differenza tra la malattia di Lazzaro, narrata nell’esordio dell’opera, e la disperazione è che nella
prima si spera possa essere isolata mentre la disperazione non può essere mai del tutto visibile e
quindi rimovibile perché si trova radicata nel profondo dello spirito
La soluzione è quella dello psicologo che di fronte alla disperazione si accontenta delle
affermazioni di un uomo, quelle di una persona che non dice di essere disperato e quando dice di
essere disperato. La disperazione si può mentire, fingere, o negare ma in ogni caso l’uomo resta
sempre e comunque nella disperazione.
La disperazione si può addirittura scambiare per altri sentimenti come depressione o laceramento.
Ma lo psicologo riconosce in tutto questo, nelle sue finzioni, che è in atto la disperazione.
La disperazione se non c’è è mentita o negata, ma il suo problema è che quando è riconosciuta
rischia di essere equivocata nella forma esplicita. Tutte le caratteristiche della disperazione sono
dialettiche.
“Se tutto nella disperazione è dialettico significa che tutto l’uomo è considerato come spirito,
allora il suo stato è sempre critico”. La quiete si raggiunge, non è data una volta per tutte, per
questo la considerazione volgare si inganna facilmente sia sull’essere che sul non essere disperato.
La peggior disgrazia
Nessun’altra malattia è così universale come la disperazione, che è l’unica malattia universale. La
conseguenza è che la disperazione è anche l’unica malattia dove la peggior disgrazia della malattia
è non averla mai avuta perché se non si prova l’angoscia significa che non si è neppure all’inizio di
un’esistenza umana, per la quale è necessario sentire il conflitto interno.
A differenza di ogni altra malattia che è meglio non averla che averla, se non ci si confronta con la
disperazione significa che non ci si è confrontati con se stessi di fronte all’alternativa fondamentale
dell’esistenza.
C) LE FORME DI QUESTA MALATTIA
Kierkegaard torna all’inizio, mostra la disperazione come squilibrio tra due dimensioni: libertà e
necessità/ tra finito e infinito/ tra tempo ed eternità. Tutte le forme della disperazione si riconducono
ad un rapporto incapace di mantenersi come rapporto. Per esempio: un uomo che vuole essere libero
senza necessità è squilibrato, vive fantasticando, non ha i piedi per terra necessari per vivere fuori
dalla disperazione. Oppure, un uomo può dimenticarsi di essere libero, entro cui si trova la maggior
parte delle persone, tutte disperate.
Kierkegaard riprende, come se il punto B fosse stato una sorta di parentesi, da dove era arrivato al
punto A (l’Io è sintesi tra finito/infinito; legge/libertà).
Temi e Termini:
- Sintesi: si va subito ad impattare le tensioni che costituiscono l’Io.
- Libertà: meno disperazione si prova meno si è liberi. Criterio della volontà.
- Coscienza Sviluppo.
- Dinamica.
“Le forme della disperazione devono potersi determinare astrattamente mediante una riflessione
sui momenti di cui consiste l’Io come sintesi”
1. Tensione finito-infinito
2. Tensione possibilità-necessità
La consapevolezza e la non consapevolezza della disperazione, da parte dell’Io, sono due fattori
discriminanti (rimando all’intellettualismo socratico: etica che dipende dalla ragione).
Noi abbiamo contemporaneamente una libertà senza necessità, senza legge, mentre dopo abbiamo
una legge che uccide la libertà. Kierkegaard dice che è possibile avere un quadro a partire dai
momenti della sintesi.
La disperazione consapevole si consuma su due livelli: quello del non voler essere se stesso e
dall’altra parte il voler essere se stesso.
La disperazione del finito come mancanza dell’infinito con una libertà che non sa quasi niente di
essa. L’esistenza di persone che non sanno allontanarsi di un centimetro più in là di se stessi: sono le
persone che si nascondono (numero, folla, paura). A Kierkegaard interessa questo genere di
disperazione perché è la più comune (Nietzsche: la morale del gregge) definita da Kierkegaard
come una “incapacità che sta tra la consapevolezza e l’inconsapevolezza di una rinuncia ad essere
l’Io”. Questo è il problema della folla: persone che conducono onestamente la propria vita ma
nessuno sceglie veramente, si accodano e ripetono.
Le caratteristiche di questa disperazione del finito come mancanza dell’infinito sono:
- la ristrettezza: Tutti agiamo allo stesso modo. Siamo tutti bravi e di buona famiglia,
consumiamo la nostra vita senza una consapevolezza di noi stessi ma adagiandoci sui trend
dominanti. Da questo punto di vista Kierkegaard si scatena contro la considerazione
mondana che si acquieta sulle cose, “la dimensione dove invece che un Io si è diventati un
numero, un uomo di più, una ripetizione di più in quella monotonia eterna”. Questa
monotonia eterna è quella che sostituisce il numero all’identità, una ripetizione eterna che da
senso di nausea.
- Mancanza di originalità di un Io che si accontenta di essere un numero, il che equivale
all’essere evirato rispetto allo spirito.
- La paura degli uomini che ti porta ad essere in gruppo perché la folla ti può proteggere
dagli uomini. È la paura di essere se stesso che implica la rinuncia ad essere se stessi che
significa lasciarsi rubare il proprio Io dagli altri. L’Io dimentica la sua esistenza in senso
divino, dimentica il rapporto di rapporto che lo mette di fronte anche a Dio, colui che ha
costituito il rapporto.
- Inconsapevolezza di questa disperazione nel mondo: “Il mondo non sa cosa sia il terribile,
la banalità, la scontentezza”. Per dimostrare questa inconsapevolezza della disperazione nel
mondo tenta di mostrarlo concretamente: la si vede nei comportamenti standardizzati nel
dire le stesse cose, nel sentire gente che usa lo stesso identico linguaggio. Kierkegaard se la
prende con i luoghi comuni del suo tempo: i proverbi non sono un deposito di sapienza ma
i depositi di tutta la banalità del mondo.
- Gli uomini, così prudenti che seguono le norme comuni, vendono la loro anima al
mondo: Kierkegaard elenca i modi in cui gli uomini vendono la propria anima la mondo: se
la vendono per ricchezza, potere, per egoismo ma non sono mai un Io, sono solo
disperazione.
Cita gli stoici per l’ideale dell’autarchia: L’io che ha due forme: una attiva, che coincide con la
volontà di essere un Io ipotetico, e una passiva, si avvicina alla figura del taciturno.
Kierkegaard chiama l’ostinazione “l’odio per l’esistenza”: una vita che ostinatamente non riconosce
la sua fortuna di essere viva, una figura che crede di avere una prova che l’esistenza sia male. Una
disperazione che non si tratta più del taciturno o del chiacchierone che parla inconsapevolmente ma
una forma di disperazione vorticosa che crede che tutto sia male. Il disperato di voler essere se
stesso fa del suo tormento, di non riuscire ad accattarsi, la sua forza.
La seconda forma di disperazione: della possibilità come mancanza di necessità e di una necessità
come mancanza di possibilità. Questo itinerario spirituale entra in forme di consapevolezza in cui si
lotta con se stessi, è il regno dove sembra non esserci alcuna possibilità o libertà.