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Riassunto "Fare umanità " di Francesco Remotti

Antropologia culturale (Università degli Studi di Milano)

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FRANCESCO REMOTTI, “FARE UMANITÀ: I DRAMMI


DELL‟ANTROPO-POIESI”
Roma-Bari, Laterza, 2013

Parte prima. Presupposti e Struttura Teorica


1. DALLA CULTURA ALL‟ANTROPO-POIESI

Natura, costumi e cultura


Prima di parlare di antropo-poiesi, ci si deve soffermare sul concetto di cultura e ancor prima su
quello di “costumi”: i costumi hanno un grado di incidenza minore rispetto alla cultura.
Passaggio da costumi a cultura(3 fasi):

A - Costumi (pensiero moderno)


La nozione di realtà umana era costituita da due componenti: natura umana e costumi, concezione
stratificata in cui la natura umana rappresentava lo stato sottostante, fondamentale, mentre i costumi
erano uno strato superficiale, poiché la natura umana è fatta di principi e leggi universali, mentre i
costumi sono variabili. Oltre che come elemento superficiale, la componente dei costumi era
considerata d‟intralcio e fastidiosa, qualcosa di cui liberarsi. Secondo questa prima visione, liberarsi
dai costume vuol dire dunque poter accedere a un corretto funzionamento delle facoltà umane.

B - Cultura in senso antropologico “prima maniera” (esponente più rappresentativo: Alfred L.


Kroeber).
In questa visione la cultura non è alternativa ai costumi, essa li ingloba e non sono più considerati
“scarti” o elementi superficiali, i costumi acquistano coerenza. Dal punto di vista del linguaggio
antropologico il termine costume retrocede sempre di più per lasciare spazio a quello di cultura.
Gli schemi A e B sono entrambi stratificati, ma la differenza sta nel ruolo dei costumi nello schema
A e quello della cultura nello schema B. Nel primo i costumi sono un elemento d‟intralcio, nel
secondo la cultura è un “rivestimento” che l‟uomo indossa per vivere meglio nel mondo.
La concezione B è stata formulata da Alfred L. Kroeber, secondo il quale la cultura emerge come
un fattore nuovo che si aggiunge all‟evoluzione organica. Affinché emerga la cultura, occorre che
l‟uomo disponga di una posizione eretta: l‟ homo sapiens sarebbe il vero e autentico portatore della
cultura.

C - Cultura “seconda maniera” (esponente più rappresentativo: C. Geertz)


La fase C rappresenta il ribaltamento della visione di Kroeber: gli ominidi che hanno preceduto
l‟homo sapiens già disponevano di una cultura, dunque non è vero che essa emerge dopo la
completa evoluzione organica. Rispetto al ruolo che ha nella visione B, qui la cultura ha un ruolo
più incisivo, dalla cultura come adattamento e sviluppo si passa a un‟idea di cultura come fattore
che produce umanità. La cultura si espande e comprime la natura, considerata elemento
insufficiente a sostenere l‟uomo.

Teoria dell‟incompletezza
Clifford Geertz è sostenitore della teoria dell‟incompletezza organica dell‟uomo: in base alla quale
gli umani sono esseri carenti e la cultura interviene per colmare le lacune e porre rimedio alle
carenze. Secondo Geertz l‟uomo è un animale incompleto e il più dipendente dalla cultura: la
cultura interviene per modellare non soltanto idee e emozioni dell‟uomo, ma persino il suo
organismo, esso si “rifinisce” tramite un “completamento culturale”; senza cultura, di fatto, l‟uomo
non potrebbe sopravvivere. Ma la cultura che interviene non è una cultura universale dell‟uomo,
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bensì una cultura particolare che “rifinisce” secondo forme specifiche: le culture, secondo Geertz,
forniscono sempre informazioni particolari.
Questo “riempimento culturale”, però, potrebbe portare ad “errori”, per via delle disinformazioni:
ovvero dei contenuti culturali riempitivi che offrono soluzioni illusorie.
Teoria alternativa: secondo questa teoria, la cultura non riempie, ma aumenta l‟incompletezza in
quanto l‟uomo opera una processo di selezione, alla base di ogni intervento culturale, che determina
l‟esclusione di alcune possibilità, si ha dunque un incompletezza culturale.

Plasticità
L‟uomo è plastico, in quanto la cultura modella e da forma e la plasticità è il punto di incontro tra
scienze della cultura e scienze della natura, in quanto è il luogo di interazione tra la dimensione
biologica e quella culturale. Parlare di plasticità dell‟essere umano può avere due significati diversi:
1 - Essere umano sia un essere plastico, poiché subisce l‟azione di fattori modellanti esterni, si ha
un ruolo passivo dell‟individuo e una molteplicità di elementi che costituiscono un esperienza
plastica (antropo-poiesi passiva).
2 - Il modellamento può anche essere intenzionale (antropo-poiesi attiva).
Jaeger, filologo tedesco: parla di plasticità umana in ambito umanistico: egli riconosce
nell‟educazione una “volontà di vita plastica”, la comunità fa valere la propria forza per plasmare
gli individui secondo la propria idea di umanità; tuttavia vi sono due rischi di fallimento: da un lato
le incertezze nei modelli umani e, dall‟altro, un loro eccessivo irrigidimento. L‟unica società in cui
questi rischi vennero evitata fu quella della Grecia Classica, in quanto i Greci modellarono l‟uomo
basandosi sulla sua “vera forma”, la quale corrisponde alla “vera natura dell‟uomo.

Inventare o scoprire?
In Jaeger l‟esaltazione per il mondo greco è strettamente legata alla crisi della società
contemporanea, in cui si osserva un disorientamento dei compiti antropo-poietici. Jaeger inoltre
osserva che le scoperte etnografiche hanno mostrato l‟esistenza di varie forme di umanità e di
cultura, ma questo allargamento conoscitivo ha, per Jaeger, prodotto un senso di appartenenza ad
una cerchia ristretta di popoli esclusivi, caratterizzati da varie analogie con i Greci antichi. In
particolare secondo Jaeger vi sono tre differenti livelli di umanità:
1 - Popoli primitivi che non coltivano alcuna forma di umanità e non si pongono il problema della
plasmazione dell‟essere umano.
2 - Popoli che hanno raggiunto un certo grado di sviluppo, cercano di riprodurre una forma di
umanità e si pongono il problema dell‟educazione e plasmazione dell‟essere umano.
3 - Popoli che dirigono i loro sforzi antropo-poietici nel plasmare una forma di umanità universale,
secondo Jaeger i Greci e “noi occidentali” (anche se, a volte, vi sono disorientamenti che ci fanno
precipitare in momenti bui), poiché abbiamo saputo combinare invenzione e scoperta dell‟uomo.

Come ridurre la responsabilità antropo-poietica?


La plasmazione implica la presenza di modelli che ispirino e determino la plasmazione stessa. In
Jaeger vi è un equilibrio tra la plasmazione e la natura umana con quest‟ultima che rappresenta un
limite per la prima. In altri autori, invece, vi è un rifiuto per la plasmazione, in quanto essi
sostengono che la natura umana solo così può emergere nella sua integrità e autenticità. Alcuni,
invece, possono attribuire la plasmazione dell‟uomo a una divinità. Ciò pone l‟interrogativo
riguardante chi plasma l‟uomo, in base a queste ipotesi si individuano tre “plasmatori”:
¾ Divinità;
¾ Agenti esterni all‟uomo;
¾ Umani.

Da un‟attenta analisi emerge che questi fattori non agiscono in maniera autonoma ma, in base ai
vari contesti culturali, la plasmazione dell‟uomo avviene grazie alla loro azione combinata.
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Di grande importanza è il quesito riguardante come avviene la plasmazione. Nel caso di una
plasmazione dovuta all‟azione di una divinità questo problema non si pone, infatti, come sostenne il
profeta Isaia, l‟uomo non può fare altro che accettare i modelli divini. Tuttavia se si considera la
plasmazione come un fattore esclusivamente umano allora il quesito è più che lecito: anche se
l‟autorità di colui che si prende la responsabilità di modellare può attenuare i relativi dubbi che la
domanda porta con se. Ma se l‟autorità dovesse cedere vi è un altro modo per attenuare i dubbi,
ovvero fissare dei modelli di umanità, di modellamento; in tal modo l‟attività antropo-poietica viene
concepita come una riproduzione di modelli preesistenti. Una strategia del genere può essere
individuata nel mito di Er di Platone, dove viene messa fuori causa l‟azione della divinità
sull‟uomo: in quanto la responsabilità della scelta del tipo di essere umano che si vuole essere è solo
dell‟uomo che, prima della nascita, possono scegliere il modello che saranno nella loro prossima
vita. La responsabilità coincide quindi con la scelta di modelli e non con la loro invenzione.

Le difficoltà dell‟invenzione
Accanto al mito di Er, troviamo un altro mito, in cui assistiamo all‟attribuzione agli esseri umani
della capacità e responsabilità di invenzione dei modelli di umanità. Questo mito, scritto da Pico
della Mirandola, riprende l‟episodio biblico della Genesi anche se con notevoli differenze: nella
Genesi, infatti, Dio modella direttamente l‟uomo, tant‟è che il modello di umanità coincide con la
stessa immagine di Dio; nel brano di Pico, invece, l‟uomo è una creatura, che sebbene creata
sempre da Dio, non ha un posto specifico nell‟universo e non ha nemmeno modelli. L‟uomo risulta
così un essere indefinito e informe ma Dio riesce a trovare una soluzione: parlando ad Adamo, Dio,
gli comunica che egli avrà libertà nel decidere quale natura possedere, potrà “crearsi” in modo
autonomo scegliendo, quindi, di degenerare verso gli esseri inferiori o rigenerarsi verso i superiori,
ovvero le divinità. Da questo brano emergono vari fatti:
¾ Incompletezza è una caratteristica originaria, presente fin dal momento della creazione;
¾ Incompletezza non consiste in una mancanza di qualche elemento, ma è una mancanza
strutturale;
Tutti gli esseri viventi hanno una natura definita che ne determina comportamenti e
sembianze; l‟uomo ha una natura indefinita, per questo è libero di ottenere la natura che
vuole;
¾ L‟uomo è quindi in grado di plasmare/creare sé stesso in una moltitudine di modi;
¾ L‟essere umano, però, non possiede modelli, infatti questi vengono creati dall‟uomo stesso
ma nessuno si avvicina più di altri alla “vera natura umana”;
¾ Secondo la concezione di Pico, l‟uomo non si modella verso una forma di umanità: in
quanto la trasformazione è un passaggio da una forma di umanità all‟altra;
¾ La mancanza di un modello di umanità universale elimina lo schema gerarchico degli altri
modelli, ma ciò no toglie il loro carattere deformante;
¾ Questa capacità deformante è paragonata a un‟attività artistica, nel senso che, l‟essere
umano, modellandosi, fa di sé un‟opera d‟arte.

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2. TEMI, NODI, IPOTESI: LA STRUTTURA A RETE DELL‟ANTROPO-POIESI

Terminologia
Antropo-poiesi fa parte di una famiglia di termini che ruotano attorno all‟idea di genesi dell‟essere
umano. Il termine più vicino è quello di antropo-genesi che, insieme ad antropo-poiesi, richiama a
un processo di formazione: il “cammino verso l‟umanità”. Questa evoluzione non è, però, il
risultato di un progresso culminante nella perfezione, bensì il risultato di un‟evoluzione che, come
un cespuglio, si ramifica, in diverse direzioni.

Fonti
Il concetto di antropo-poiesi è stato esposto ufficialmente per la prima volta da Remotti nel 1996,
precisamente nell‟introduzione a Le fucine rituali. Antropo-poiesi: è una parola composta dalla
combinazione di anthropos (essere umano) e poiesis (fabbricazione).
Questo concetto nasce da tre fattori: a) il paradigma “costruttivistico”, in quale utilizza idee come
costruzione, invenzione, immaginazione e finzione; b) l‟ideologia mediante la quale molte società
studiate interpretano i loro riti di iniziazione, ruotante anch‟essa attorno all‟idea di generare e
costruire essere umani; c) la teoria dell‟incompletezza originaria dell‟essere umano.

Quante nascite? / Antropo-genesi / Riti antropo-genetici


La nascita di un essere umano è, per noi occidentali, strettamente collegata al momento del parto.
Ma l‟idea di nascita può subire delle trasformazioni significative a seconda delle culture, si può
distinguere da un lato nascita biologica e dall‟altro un diverso tipo di nascita.
L‟espressione antropo-genesi si riferisce alle nascite che mettono capo a “esseri umani”, con la
possibilità che possano esserci anche nascite che generano qualcosa d‟altro.
Si distinguono quindi due tipologie di nascita:
¾ Quella che avviene tramite un processo biologico;
¾ Quella che avviene dopo dei rituali, che determinano della seconde nascite sociali, in quanto
l‟individuo abbandona una condizione per ottenerne un‟altra.

Antropo-genesi e antropo-poiesi
Possiamo distinguere due diverse prospettive:
1 - La seconda nascita è un evento che deve avvenire in un certo periodo dell‟esistenza degli
individui, questa prospettiva si limita ad affermare che uomini e donne hanno da nascere o ri-
nascere socialmente. (Antropo-genesi)
2 - Sono gli uomini stessi a “fabbricare” altri esseri umani, questa seconda prospettiva sottolinea il
tema del “fare”, “costruire” esseri umani. (Antropo-poiesi)

Finzioni
Questo “fare l‟uomo” è poi davvero nei poteri degli esseri umani o si tratta di un „auto-esaltazione?

Modernità/tradizioni / Critica di Eliade


Secondo Eliade, nell‟epoca moderna l‟uomo avrebbe operato un processo desacralizzazione che
avrebbe reso possibile la “scoperta” dell‟esistenza puramente biologica dell‟uomo. Nell‟epoca
moderna l‟uomo accetta di nascere una sola volta eliminando in questo modo i riti antropo-genetici
e antropo-poietici, che sono modelli sempre impregnati di sacro.
Nella modernità verrebbe meno, secondo Eliade, il principio del “fare l‟umanità” come opera divina,
sostituito dall‟idea di un essere umano sostanzialmente biologico. Questo pensiero risulta però
errato: innanzitutto la differenza tra società pre-moderne e moderne è ormai una componente
superata nell‟antropologia contemporanea; inoltre la visione delle società pre-moderne come società
in cui il sacro è presente in ogni contesto, di fatto, indica che la “seconda nascita” sarebbe una

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creazione di Dio e non degli uomini; per questo motivo nelle società moderne, in cui è avvenuto un
processo di desacralizzazione, i processi antropo-poietici non sarebbero presenti.

Antropo-genesi e antropo-poiesi: ideologia o necessità ineludibile?


Le tesi di Eliade dimostrano che i temi antropo-genetici e antropo-poietici sono suscettibili di una
forte ideologizzazione; ciò è anche confermato dalle ricerche in ambito etnologico, dove l‟ideologia
antropo-poietica assume l‟aspetto di un‟opposizione di genere. Il problema è dunque capire se le
idee antropo-poietiche rispondano a una necessità fondamentale o se non siano altro che finzioni
volte a sostenere un certo tipo di potere (uomini su donne per esempio) Nel primo caso la
problematica risulterebbe molto più complessa del conflitto tra sessi, nel secondo invece avrebbe
solo un significato ideologico.

Antropo-poiesi irrinunciabile
La seconda ipotesi risulta errata perché se antropo-poiesi e antropo-genesi fossero strumenti
ideologici per stabilire il dominio degli uomini sulle donne, essi potrebbero essere scartati nel
momento in cui i conflitti vengono accantonati o se si individuassero altri strumenti per supportarli.
La problematica antropo-poietica risulta quindi avere una connotazione più profonda, in quanto
richiama una prospettiva che coinvolge sia la realtà culturale, sia la realtà biologica dell‟uomo.
Questa prospettiva viene definita in termini di incompletezza.

L‟uomo come essere incompleto


Pensatori come Vico (carattere indefinito della natura umana), Montagne (uomo si realizza
attraverso usi e costumi, i quali non si depositano sopra una struttura precostituita, ma è lo stesso
essere umano che richiede l‟intervento di questi strati sociali ed esteriori), e Herder (cultura colma i
vuoti dell‟uomo) avevano supportato una teoria di questo tipo. La teoria dell‟incompletezza fu
anche riesaminata da Geertz, che vedeva nella cultura un elemento indispensabile per la stessa
sopravvivenza dell‟essere umano.

La cultura che dà forma all‟uomo


La cultura è dunque un elemento indispensabile per gli esseri umani; in quanto permette di colmare
l‟incompletezza organica.

Herder e la prospettiva antropo-poietica


Verso la fine del Settecento Herder aveva formulato gran parte dei temi di una prospettiva antropo-
poietica. La cultura è definita da Herder una seconda genesi dell‟uomo, che nasce biologicamente,
ma poi ha da generarsi e completarsi affidandosi alla cultura. Herder sottolinea quindi il carattere
continuo e incessante del compito antropo-genetico: tutti i giorni l‟uomo è impegnato in un
processo antropo-genetico, che è anche antropo-poietico. Il compito antropo-poietico è affidato
dunque alla cultura, che porta al manifestarsi della molteplicità dell‟uomo, caratterizzato dalle sue
diverse forme di vita non esiste un‟unica forma di umanità, esistono gli uomini, caratterizzati da
progetti antropo-poietici distinti.

Considerazioni biologiche
Clifford Geertz, negli anni „70 del Novecento, aveva collegato la teoria dell‟uomo come animale
incompleto alle più recenti scoperte della paleo-antropologia e della neurologia. Decisiva fu la
scoperta della preesistenza della cultura allo sviluppo del cervello.
Il cervello è ciò che ha consentito lo sviluppo della cultura, ma è a sua volta un prodotto culturale: il
cervello e l‟organismo richiedono un ambiente sociale e culturale per poter funzionare.

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Rifiuto del determinismo biologico e del determinismo culturale


Nella prospettiva dell‟uomo come animale incompleto, è evidente il rifiuto del determinismo
biologico, secondo il quale il senso della realtà umana sarebbe già dato e contenuto nella sua
organizzazione genetica; in quanto l‟uomo si completa grazie alla società e alla cultura. Di grande
importanza è anche il rifiuto del determinismo culturale , in quanto gli individui costruiscono di
volta in volta i loro ambienti sociali e culturali, continuando a riorganizzarli e ridefinirli.
La nostra biologia ci ha trasformato in creature che ricreano i propri ambienti psichici e materiali,
dunque è la nostra biologia a renderci liberi.

Capacità di auto-plasmazione (auto-poiesi) e grado di libertà


Se l‟uomo ricrea costantemente i suoi ambienti materiali e culturali, e se da questi ambienti dipende
il suo “completamento”, ne deriva che la rimodellazione dell‟ambiente è anche una plasmazione di
se stesso. Il tema della libertà è assolutamente centrale nel discorso antropo-poietico.
La libertà antropo-poietica può essere intesa come: grandezza dell‟essere umano, ma anche segno
della sua misera; libertà significa anche mancanza di modelli fissi e pone, quindi, il problema della
reperibilità dei modelli di umanità. Da ciò deriva che alla base di ogni discorso antropo-poietico vi
sia un discorso antropologico: i modelli di umanità implicano che si dica qualcosa sull‟uomo, che si
elabori una qualche antropologia. I modelli di umanità sono prodotti culturali (finti), ma ammettere
che sono frutto di finzione significa indebolirli, per questo essi sono dotati di indipendenza, che di
fatto rinnega la libertà con la quale sono stati costruiti (mascheramento della libertà), per questo
motivo si considerano questi modelli come dovuti all‟azione di altri (divinità, natura…)

Ineludibilità dell‟ideologia
Nei processi antropo-poietici si ha inevitabilmente una componente ideologica, che è presente fin da
subito nel discordo antropologico. Vi sono differenti tipologie di componenti ideologiche:
-ideologia di de-responsabilizzazione: riduce o maschera la libertà originaria e si può spingere fino
alla negazione dell‟antropo-poiesi stessa. Si ha quando si attribuisce ad “altri” fuori di “noi” la
responsabilità di quanto si sta producendo.
-ideologia opposta: la libertà originaria viene esaltata e la capacità di auto-plasmazione.

Fecondità dell‟ipotesi antropo-poietica


L‟antropo-poiesi può essere intesa in due modi:
a) antropo-poiesi come compito costruttivo a cui non ci si può sottrarre;
b) antropo-poiesi come finzione.
Entrambe sono conciliabili se si pone come presupposto l‟ipotesi a, che può rendere conto anche di
ciò che si occupa l‟ipotesi b. Riprendendo la teoria di Herder, infatti, emerge l‟uomo deve
costantemente reinventarsi, per questo, spesso, questo compito viene affidato ad altre entità (sovra-
umane, extra-umane…) in modo tale da non tenere costantemente presente l‟antropo-poiesi.
L‟insostenibilità dell‟antropo-poiesi porta a concentrare tale compito in un periodo particolare (riti
iniziazione).

Casualità, arbitrarietà, senso delle possibilità


L‟insostenibilità del compito antropo-poietico fa sì che ci si affidi ad altri: agli antenati, alla
tradizione, alla storia, agli spiriti, alle divinità, giungendo quasi alla negazione di tale compito. Un
ulteriore dato su cui occorre riflettere è l‟insistenza del tema della casualità, dell‟accidentalità e
dunque di arbitrarietà, che affiora indagando sulle origini dei rituali antropo-genetici in molte
società che Eliade avrebbe definito pre-moderne.
Una conferma di questa arbitrarietà alla base dei rituali antropo-poietci si ha, ad esempio, con i Dìì
del Camerun, i Gisu dell‟Uganda e i Kaliai della Nuova Britannia: si ricorre a agenti o entità extra-
umani a cui addebitare il carico di responsabilità antropo-poietica, ma una traccia della libertà

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originaria è difficile che non venga conservata, prendendo la forma di un riconoscimento


dell‟arbitrarietà originaria.

Umorismo
Anche in faccende così serie e importanti, vi sono società che ricorrono all‟umorismo per ricordare
come sono nati i loro costumi e le loro istituzioni antropo-poietiche. Ad esempio i Dìì del Camerun
spiegano l‟origine della circoncisione dicendo che la nascita di questa pratica è legata alle
osservazioni di una donna che vide delle scimmie circoncidersi; trovando il pene circonciso più
bello, essa riesce a convincere il marito a farsi circoncidere da lei. Gli altri uomini, trovando il pene
circonciso più “elegante”, uccidono la donna, in modo da conservare il segreto per migliorare
l‟immagine della loro mascolinità. Un altro esempio è quello dei Ndembu dello Zambia, i quali
raccontano che una donna, andando in una boscaglia con i bambini, si accorse che questi, giocando,
si erano tagliati il prepuzio con degli steli d‟erba. Dopo averli portati al villaggio, gli anziani
rifinirono questi tagli e giudicarono molto bello il risultato della loro operazione.

Riflessioni e senso critico


I rituali si configurano spesso come “spazi di riflessione” su ciò che si sta attuando: una finzione di
umanità nel duplice senso che essa riveste:
¾ Da un lato ci si accinge a costruire, a fabbricare e modellare esseri umani
¾ Dall‟altro, e nello stesso tempo, si finge l‟inevitabilità del modello antropo-logico
adottato.

La prospettiva antropo-poietica è in grado di comprendere entrambi gli aspetti. Si è tenuti,


“condannati”, all‟antropo-poiesi e quindi a fingere (costruire, modellare). Ma questa finzione
costruttiva se ne trascina dietro altre.

Altre finzioni
Ulteriori finzioni:
1 - Far credere che non siamo “noi” ma sono “altri” a provvedere al compito antropo-poietico
(antenati, divinità…);
2 - Far credere che ciò che si è finto non sia un particolare tipo di umanità, ma l‟autentico modello
di umanità;
3 - Ritenere che ciò che si finge ritualmente sia davvero una rinascita (antropo-genesi) o una
fabbricazione (antropo-poiesi);
4 - Dimenticare che costruire l‟umanità non riguarda solo i rituali ma anche gli aspetti più minuti
della vita quotidiana.

Livelli e modi diversi di fare umanità: a) Antropo-poiesi anonima, continua, inconsapevole


L‟Antropo-poiesi inconsapevole si ha quando nel flusso comportamentale si formano delle derive
antropo-poietiche, movimenti non voluti, che conducono alla formazione di tipi di umanità. Per
capire meglio si può ricorre alla metafora di una mano impersonale che modella in modo tacito
menti, corpi, comportamenti: una invisibile mano antropo-poietica.

Livelli e modi diversi di fare umanità: b) Antropo-poiesi programmata, discontinua,


consapevole
L‟Antropo-poiesi consapevole consiste nell‟assumersi direttamente il compito antropo-poietico,
tentando di realizzarlo in contesti, luoghi e tempi decisi. Si passa dunque da una modalità
inconsapevole ad una consapevole, da una modalità continua a una programmazione che interrompe
periodicamente la “vita quotidiana”.

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Eterogeneità e contrasto tra le due modalità antropo-poietiche


I due modelli sopra descritti sono radicalmente diversi: il primo può essere definito come un
continuo modellamento che i soggetti subiscono o a cui si adeguano, per il semplice fatti di essere
immersi nella vita sociale; il secondo è invece costituito da un sapere antropo-poietico a cui si
accede grazie all‟esperienza critica dei rituali di iniziazione.

Come si fa a “fare umanità”?


Ai livelli a e b se ne può aggiungere un terzo, inerente alla consapevolezza di come si possano
inventare e costruire forme di umanità nuove, aprendosi al tema della creatività antropo-poietica. Le
società hanno bisogno di sviluppare un sapere approfondito relativo al fare umanità: l‟antropo-
poiesi è un compito irrinunciabile per ogni società, ciò comporta che le società stesse investano
risorse per lo sviluppo di questo sapere. I rituali sono momenti in cui si prende coscienza critica
delle proprie forme di umanità e ci si pone la domanda relativa al come fare per fare umanità.

Irreperibilità dei modelli di umanità


Il sapere antropo-poietico è fatto di molte incertezze e di molti interrogativi, il più drammatico
è “un uomo che cos‟è?”, domanda di carattere universale.
L‟essere umano impiega la sua cultura per dare forma a se stesso, da sempre gli esseri umani si
sono posti il problema dei modelli di umanità da adottare nelle loro vite, nelle loro società.
Ma non ci sono modelli saldi e definitivi, si ha dunque una irreperibilità degli stessi e una precarietà
antropo-poietica da cui possono scaturire due reazioni:
1 - La prima consiste nell‟accettare il compito antropo-poietico nella sua precarietà di fondo
2 - La seconda consiste invece nel celare questi limiti e sostenere che la prospettiva antropo-poietica
che abbiamo fatto nostra è la vittoria sulla precarietà umana.

Accettazione della precarietà antropo-poietica (reazione 1)


Molti rituali antropo-poietici perseguono lo scopo dello svelamento delle finzioni su cui si regge la
società. Ad esempio per i giovani della regione Kaliai la maturità sta nel riconoscimento
dell‟inevitabilità sociale delle finzioni, a cui può essere accostato il riconoscimento della casualità e
dell‟arbitrarietà delle istituzioni antropo-poietiche.
Un altro esempio ci viene dagli Ndembu con il mukanda, rituale difficile e pericoloso che porta i
giovani proprio a svelare la sua caratteristica di arbitrarietà e precarietà e a prenderne
consapevolezza.

Celare la precarietà antropo-poietica (reazione 2)


Si può raggiungere lo scopo di celare la precarietà dell‟antropo-poiesi coinvolgendo le divinità,
credendo che i problemi antropo-poietici siano già stati risolti dalla nostra divinità. Questa
soluzione antropo-teologica richiede la formulazione di due articoli che richiedono un “atto di
fede”:
1 - Noi siamo stati fatti da Dio;
2 - Dio ci ha fatti simili a lui.
Ebraismo, cristianesimo e modernità hanno adottato e fatto propri questi due articoli.

Diventare più simili a Dio


Dalla Genesi emerge che l‟uomo è stato fatto simile a Dio; in seguito (cristianesimo di San Paolo)
questa somiglianza si è fatta più profonda, grazie alla venuta del Figlio di Dio tra gli uomini. Con la
modernità, poi, si propone l‟instaurazione del regno dell‟uomo sulla terra, uomo che assomiglia
ancora di più a Dio. L‟idea del progressivo “assomigliamento” a Dio si spinge oggi fino al punto di
volere conquistare con la tecnologia l‟immortalità eterna; non è più Dio che si è fatto uomo, l‟uomo
che ritiene di aver acquisito poteri antropo-poietici sempre più simili a quelli un tempo attribuiti
solo a Dio.
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Antropo-poiesi trans-umanistica
È molto diffusa, nelle diverse società, l‟idea di intervenire sul proprio corpo con l‟inserimento di
corpi estranei o con la sostituzione di organi artificiali in grado di imitare le funzioni biologiche.
Nella modernità più spinta emergono però progetti antropo-poietici da cui è esclusa l‟idea frenante
della finzione. Ad esempio molti movimenti trans-umanisti, che si rifanno al pensiero di Teilhard de
Chardin, teorizzano la possibilità dell‟uomo di trans-umanizzarsi grazie alla tecnologia e di avviare
un processo evolutivo guidato dall‟uomo stesso.

Completezza o incompletezza antropo-poietica


Eric Steinhart, riflettendo sulle convergenze tra il pensiero di Teilhard de Chardin e i trans-
umanisti,pone in luce l‟idea di completezza e incompletezza come criterio per distinguere due
concezioni diverse di antropo-poiesi:
Completezza: antropo-poiesi che trascende i limiti della condizione umana (la morte, la biologia…);
Incompletezza: i programmi antropo-poietici non travalicano quei limiti e tale consapevolezza si
manifesta attraverso l‟idea della finzione, del dubbio.
La distinzione tra i due tipi di antropo-poiesi sta proprio nella superabilità o insuperabilità
dell‟incompletezza: questo è il discrimine tra i due tipi di antropo-poiesi, tra un‟antropo-poiesi
segnata dalla propria hybris (eccesso, superbia), e un‟antropo-poiesi contraddistinta dalla
consapevolezza della propria miseria.

Deificazione o dèbrouillardise antropo-poietica?


Se la prima iporesi non è esente da ambizione di deificazione (l‟idea della “divinità dell‟uomo”);
per la seconda potrebbe essere descritta invece con un termine usato da chi per le strade di povere
città dell‟Africa francofona esercita l‟arte dell‟arrangiarsi: dèbrouillardise termine francese che
deriva da se dèbrouiller (arrangiarsi). Quella dell‟arrangiarsi è un arte costantemente accompagnata
dalla consapevolezza del rischi di fallimento. Il principio dell‟incompletezza comporta da un lato
l‟esigenza dell‟antropo-poiesi e, dall‟altro, la precarietà dei mezzi con cui tentiamo di porvi rimedio.

L‟inizio a cui aggrapparsi


Facendo riferimento alle riflessioni di Hanna Arendt, si potrebbe dire che le soluzioni totalitarie,
definitive e deificate costituiscono «un‟evasione suicida da questa realtà». Invece di pensare alla
creazione di un “uomo nuovo”, sarebbe più ragionevole aggrapparsi all‟idea di inizio di cui
ogni dèbrouillardise si avvale e che Hanna Arendt elogia alla fine del suo libro sul totalitarismo: una
possibilità che torna costantemente a ripetersi, la suprema capacità dell‟uomo che si identifica con
la libertà umana garantita ad ogni nuova nascita; l‟inizio, così si conclude il suo libro, «è in verità
ogni uomo».

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Parte seconda. Fare-Disfare Corpi

3. L‟ENIGMA DELL‟ORNAMENTO. PROLOGO DARWINIANO

Debolezza e successo biologico della specie umana


Charles Darwin non viene preso molto in considerazione dagli antropologi, soprattutto dopo che
Kroeber distinse tra scienze della natura e scienze della cultura, ma nonostante ciò ha molto da
insegnargli, se non altro a proposito del suo lungo giro attorno al mondo. Ciò di cui vogliamo
occuparci in relazione alle teorie darwiniane riguardano la domanda: cosa fanno gli esseri umani del
loro corpo in vista di fini estetici?
Se n‟è occupato Darwin, ponendo a confronto specie umana e specie animale, in The Descent of
Man and Selection in Relation to Sex, pubblicato nel 1871.
La sua riflessione antropologica verte su due approcci diversi:
1 - Essere umano collocato nel contesto generale della natura, rimarcando la somiglianza con gli
altri mammiferi;
2 - Inevitabile riconoscimento delle peculiarità della condizione umana.

In particolar modo viene messo in luce un aspetto peculiare: se si pone l‟essere umano a confronto
con gli altri primati non può non colpire la nudità della pelle. Darwin ritorna spesso su questo
carattere ponendolo in relazione a due tematiche divergenti:
A- Il carattere inerme dell‟uomo;
B- Il rilievo che assume l‟ornamento per l‟uomo.

A: come per Herder e Geertz, anche per Darwin l‟essere umano è caratterizzato da mancanze e
penurie, lo studioso britannico prende infatti in considerazione le tesi del duca di Argyll secondo cui
«l‟uomo è una delle creature più prive di aiuto e di difesa del mondo», lo stato nudo dell‟uomo va
ad aggiungersi alle altre mancanze, come l‟assenza di grandi denti e artigli per la difesa, la piccola
forza e velocità, il suo scarso potere di scoprire il cibo e di sfuggire il pericolo con il fiuto. Nella tesi
del duca di Argyll fragilità e debolezza dell‟uomo divengono sempre maggiori quanto più procede
la sua evoluzione, ma non decretano la scomparsa della specie. Questa mancanza si traduce, per
Darwin, in «un immenso vantaggio» poiché costringe l‟uomo a puntare su alcune qualità che lo
contraddistinguono.
Il nesso tra debolezza organica e forza organizzativa è data, per Darwin, da tre fattori:
1 - Sviluppo di facoltà intellettuali, che si esplicano nel linguaggio articolato e in una serie di altre
invenzioni (trappole, armi, strumenti…). Queste facoltà sono poi: capacità di osservazione,
memoria, curiosità, immaginazione, ragione.
2 - Incidenza di costumi sociali: la socialità prende forma attraverso la simpatia e l‟amore verso i
proprio compagni, sviluppando solidarietà e reciproco aiuto.
3 - Particolarità della struttura fisica: alcuni degli aspetti fisici dell‟uomo ne hanno determinato il
successo, soprattutto l‟uso di una mano perfetta e il bipedismo.

Un ponte tra animali ed esseri umani: la cultura


Un qualunque antropologo avrebbe aggiunto, ai tre fattori elencati prima, la nozione di “cultura”.
Quando Darwin parla dei fattori che portano l‟uomo al successo, descrive anche le condizioni
attraverso le quali gli antenati degli esseri umani sono diventati animali culturali.
La cultura è il nesso tra la penuria dell‟uomo e il suo successo, ma Darwin non ne parla in senso
antropologico e usa il termine solo nella sua accezione tradizionale: la cultura degli uomini colti,
che si differenziano dai barbari. Questa mancanza terminologica è dovuta al fatto che la più famosa
definizione antropologica di cultura si trova nel libro di Tylor uscito in contemporanea a quello di
Darwin: «La cultura, o civiltà, è quell‟insieme complesso che include la conoscenza, l‟arte, le

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credenze, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall‟uomo in
quanto membro di una società».
La concezione antropologica di cultura non poteva certo essere familiare a Darwin, in quanto non
poteva accettare l‟idea che la specie umana costituisse un dominio a sé poiché questo avrebbe
rappresentato la negazione di tutti quei legami e di quelle continuità con le altre specie animali.
Nelle argomentazioni di Darwin il concetto di cultura potrebbe inserirsi purché esso non sia
considerato patrimonio esclusivo dell‟umanità, bensì come risorsa già presente in natura.
Darwin potrebbe quindi condividere il concetto di cultura purché esso venga inteso come una
potenzialità zoologica, in base alla concezione che la cultura ha preceduto e poi accompagnato la
formazione dell‟umanità, anziché essere soltanto un suo prodotto. Da questa concezione potrebbe
derivare l‟idea che la cultura sia proprio quell‟elemento in grado di avvicinare gli esseri umani agli
animali, riconoscendo a quest‟ultimi la caratteristica di essere culturali. In particolare, Darwin non
abbassò le facoltà umane a quelle animali, ma innalzò quest‟ultime verso quelle umane, grazie
anche ad alcuni dati ricavati da sue osservazioni:
a. Gli animali possiedono alcune capacità razionali;
b. Gli animali sono in grado di esitare, decidere e risolvere;
c. Più le abitudini di un animale sono studiate, più appaiono dovute a una qualche forma di ragione
e non a istinti rozzi.

Il nucleo della razionalità umana e animale è, per Darwin, la scelta, qualità che permette di
innalzare gli animali verso la condizione umana.

Il senso del bello. Come spiegarlo?


La seconda tematica affrontata da Darwin riguardo alla nudità dell‟uomo è quella che prende in
considerazione l‟importanza dell‟ornamento. Per riflettere sull‟importanza estetica dell‟ornamento,
è bene partire da alcune considerazioni sul linguaggio, in particolare sul linguaggio articolato: esso,
secondo Darwin, non è un istinto ma un‟arte da apprendere; la tendenza istintiva, infatti, è una base
necessaria, ma non sufficiente. Inoltre, ciò che viene appreso nel linguaggio articolato dell‟uomo,
non è una lingua universale, ma lingue e dialetti particolari.
L‟osservazione che ci porta al tema dell‟ornamento riguarda «la costruzione perfettamente regolare
e magnificamente complessa dei linguaggi di molte nazioni barbare». Dopo aver considerato la
varietà delle lingue umane, Darwin, non può non affrontare il tema del senso del bello: suoni, forme,
colori possono produrre un piacere estetico, che ritroviamo tanto negli uomini quanto negli animali.
Tuttavia negli animali, il gusto del bello è limitato all‟attrazione del sesso opposto
Il senso della bellezza determina nell‟uomo cambiamenti di costume e, Darwin, rimane colpito dal
piacere che tutti gli esseri umani provano nel recitare, dipingere o tatuare e decorare il proprio corpo.
È l‟ornamento e il piacere dell‟uomo nell‟adornarsi ciò che inizialmente attrae l‟attenzione dello
studioso britannico, infatti per adornarsi l‟uomo è disposto ad investire gran parte dei suoi averi e
del suo lavoro. Successivamente emerge invece il tema opposto, quello del dolore. Le sofferenze
causate dalle mutilazioni corporali e dagli interventi estetici, sono notevoli; ci deve essere una
profonda convinzione della loro necessità. Piacere e dolore sono le due dimensioni soggettive
dell‟ornamento: se l‟ornamento da piacere, il dolore è il prezzo da pagare per averlo.
La ricerca della bellezza è uno dei temi fondamentali di The Descent of Man, tema articolato su due
piani: a) Universalità dell‟esigenza e b) Particolarità delle realizzazioni.
Tutti gli esseri umani ricercano la bellezza (hanno bisogno di bellezza), ma i modelli di bellezza che
inventano e realizzano sono spesso divergenti. Per Darwin i modelli di bellezza non farebbero altro
che adottare suggerimenti presenti in natura, in quanto le diverse culture selezionerebbero alcuni
aspetti del corpo umano e, ammirandone le peculiarità, esagererebbero questi caratteri. Da ciò
derivano anche quegli interventi antifunzionali dal punto di vista organico, nel senso che alterano,
ostacolano o impediscono le funzioni motorie, sessuali, respiratorie…
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4. INTERVENTI ESTETICI SUL CORPO

La dimensione estetica e i suoi confini


Facendo un parallelismo con alcuni versi di Sogno d’una Notte di Mezza Estate di Shakespeare
(Ermia, innamorata di Liasandro, rifiuta di sposare Demetrio, opponendosi in tal modo alla volontà
del padre che la minaccia di “sfigurarla”) Remotti mette in evidenza una serie di temi rilevanti dal
punto di vista antropo-poietico:
1 - Essere umano deve essere plasmato;
2 - Essendo una sostanza malleabile, esso richiede un intervento che gli dia una “forma”;
3 - L‟intervento del plasmatore è di tipo estetico: ha a che fare con la “bellezza”;
4 - L‟intervento del plasmatore è una faccenda di potere;
5 - Plasmare un essere umano è un potere enorme e terribile;
6 - Chi detiene un tale potere è assimilabile a un “dio”: potere di natura divina;
7 - Ci si può ribellare a questo potere, sfuggire alla sua presa e modellare diversamente se stessi.

Il lavoro antropo-poietico può inoltre dirigersi prevalentemente verso questo o quell‟aspetto della
realtà umana, può dare, per esempio, maggiore importanza al modellamento molare o
all‟educazione intellettuale, curare maggiormente il corpo rispetto allo spirito. Ma anche quando
l‟antropo-poiesi si concentra sulle dimensioni spirituali vi è un‟estetica dello spirito, dunque
l‟estetica non si riduce alla cura del corpo.
Ogni progetto antropo-poietico comporta necessariamente una qualche dimensione estetica, questa
passa attraverso una qualche scelta estetica relativa al corpo, che può essere conforme ai canoni di
bellezza di una determinata società, oppure contraria e alternativa ad essi.
Tale scelta può configurarsi:
a) Come una scelta di conformità ai canoni estetici comunemente accettati: gli individui si
impegnano a realizzare sul proprio corpo modelli diffusi nella loro società.
b) Come una scelta alternativa rispetto ai canoni di bellezza vigenti: gli individui ricercano modelli
di bellezza difformi rispetto a quelli vigenti.
c) Come una scelta di non-intervento: gli individui si spingono ai limiti della stessa estetica del
corpo scegliendo il non-intervento.
Gli interventi estetici sul corpo possono essere classificati secondo una tipologia più o meno estesa,
ma possiamo ipotizzare tre diversi generi di situazioni: società che tendono ad accumulare tutti i
possibili tipi di interventi estetici sul corpo; società che adottano soltanto alcuni tipi di interventi
estetici sul corpo; società che rifiutano ogni tipo di interventi estetici sul corpo. Decisamente più
probabile è la situazione intermedia.

Tipologia (categorie I-XIX)


Una tipologia, per quanto sistematica, ubbidisce a determinati criteri:
- Considerare il corpo nelle sue tre principali condizioni: corpo vivo, corpo morto e corpo distrutto;
- Sono da considerare poi gli interventi estetici sul corpo i cui effetti non sono percepibili alla vista;
- Progressivo passaggio dall‟interno all‟esterno dell‟organismo, che si collega alla
reversibilità/irreversibilità degli interventi ma anche al tema del dolore.

Oggetti esterni
Un primo tipo di interventi estetici consiste nel far indossare al corpo oggetti che possono essere sia
raccolti nell‟ambiente che appositamente costruiti. La categoria degli oggetti è molto ampia, perché
comprende tutti i generi di abbigliamento, tutti gli ornamenti che possono essere posti sul corpo,
nonché le varie specie di maschere. Si è voluto però mantenere l‟unità di questa categoria sulla base
di alcuni presupposti:
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- I diversi generi di abbigliamento, oltre che avere una funzione protettiva, hanno un valore
simbolico e comunicativo.
- Gli oggetti considerati hanno tutti una serie di caratteristiche comuni: sono visibili, vengono
selezionati o costruiti appositamente, vengono fatti indossare o togliere secondo le diverse occasioni.
Questi interventi estetici avvolgono il corpo e ne costituiscono un prolungamento. Le coordinate
della dimensione estetica di questi interventi estetici coincidono con il coprire e lo svelare: coprire e
svelare il corpo, così come scoprire e velare condizioni sociali.
È dunque importante considerare che ci sono società “nude” e società “coperte”, società per le quali
è sufficiente deporre sul corpo un ornamento e società che invece tendono a coprire il più possibile
il corpo.

Toilette
Gli interventi estetici di questa categoria si rivolgono direttamente al corpo, alla sua epidermide. Il
contatto col corpo si traduce in escreti e secreti, il corpo può essere lavato, strofinato o raschiato e
occorre ricordare anche che, oltre all‟uso di acqua e sapone, in certe zone si ricorre ad altre sostanze
detergenti, come bacche, frutti e radici di alcune piante. Ma non è soltanto questione di mezzi e di
metodi, infatti la pulizia del corpo ha un significato anche “culturale”: l‟igiene è parte integrante
della nostra educazione, è l‟espressione di una visione del mondo, della società e del corpo.

Profumazione
Questa categoria si distingue per il fatto di mettere o aggiungere al corpo sostanze “bene” odoranti,
ciò in relazione a quanto in una cultura è considerato “buono” o “cattivo” dal punto di vista
dell‟olfatto. Basti pensare che alcune popolazioni dell‟Etiopia sono divise in pescatori e pastori:
mentre i primi vengono giudicati maleodoranti i pastori, avvolgendo il loro corpo con gli odori dei
loro animali, sono considerati “profumati”.
Il modellamento estetico dell‟essere umano non è dunque soltanto di natura visiva e tattile.

Cosmesi, coloritura e pitture corporali


Anche questa categoria richiede un intervento diretto sulla pelle, su cui si spalmano sostanze di
vario genere in modo uniforme o secondo particolari disegni, inoltre, la cosmesi richiede un lavoro
di pittura accurato sul corpo e sul viso: ad esempio le donne Caduveo che dipingono dei disegni
geometrici sul volto, per conferire all‟individuo la sua dignità di essere umano. Questi sono
interventi estetici effimeri che richiedono quindi di essere ripetuti e, per questo, permettono
l‟utilizzo di una gamma variegata dei colori usati, e dunque una maggiore ricchezza di mezzi
espressivi e simbolici.
Questa categoria è da integrare con la coloritura dei capelli, la laccatura delle unghia e la coloritura
dei denti, che sono però interventi permanenti. Vediamo dunque coabitare, nella stessa categoria,
tendenze opposte: quella che produce segni effimeri e quella che produce segni indelebili.

Modellamento di annessi della pelle (peli, unghie, capelli)


Anche questi interventi operano all‟esterno del corpo, ma che consistono spesso in processo di
eliminazione che necessitano di strumenti che “tagliano”. Gli strumenti moderni ci fanno
dimenticare che altrove la depilazione è una vera e propria mutilazione: coltelli poco affilati o
frammenti di vetro sono i mezzi con cui per lo più si procede alla “tortura della depilazione”.
Non vi sono però solo interventi che eliminano, ma anche interventi che modellano o scelte di non-
intervento; alcuni esempi sono:
- I Sikh dell‟India non intervengono in alcun modo a tagliare la barba, che viene poi annodata sotto
a un turbante;
- I Mandarini cinesi facevano crescere le unghia, fino al punto di non poter utilizzare le mani;
- Gli Omaha si radevano parzialmente il capo così da rappresentare l‟animale totemico;
- I Pawnee si acconciavano in modo da avere un ciuffo eretto e appuntito.
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Modellamento di struttura muscolare


Qui si agisce ancora all‟esterno, ma gli interventi non riguardano più la pelle ma ciò che sta sotto, il
tessuto muscolare.
Si trovano molti esempi a proposito: in Amazzonia si assiste alla deformazione di braccia e polpacci
attraverso fasciature molto strette portate per anni; ma anche nella nostra società abbiamo degli
esempi, come l‟atletica o il body building con cui si modella la struttura muscolare. Queste però non
raggiungono mai uno stato di irreversibilità, per questo è necessario una certa continuità e la
ripetizione di esercizi, aventi lo scopo di mantenere le modificazioni desiderate.

Modellamento di struttura ossea


Ancora una volta ci troviamo di fronte a interventi esterni, che però prolungano i loro effetti ancora
più all‟interno, interessando la struttura ossea e provocando effetti irreversibili.
L‟azione principale è la compressione, che modifica per lo più la struttura ossea di cranio, collo,
torace e piedi.
¾ Cranio: si può avere una modellamento tabulare fronto-parietale, che appiattisce la parte
frontale, o un modellamento circolare, che produce un allungamento verticale del cranio. Per
i Mangbetu il modellamento del cranio era segno di nobiltà e tra gli Amerindiani del Nord
America una pratica vietata agli schiavi; tra gli Inca la testa arrotondata era ritenuta adeguata
ai guerrieri, mentre la testa piatta era caratteristica delle popolazioni sottomesse
¾ Collo: presso i Padaung tra Cina e Birmania troviamo gli esempi più vistosi di allungamento
del collo, ottenuto tramite progressiva aggiunto di anelli.
¾ Torace: l‟uso di corsetti rigidi per assottigliare la cassa toracica delle donne è un intervento
estetico tipico dei secoli della modernità in Europa, comparso nel XV secolo e poi vietato, è
ritornato di moda nell‟Europa della Belle Époque.
¾ Piedi: la riduzione dei piedi femminili nella Cina dell‟ultimo millennio prevede un
intervento precoce, a partire dai quattro o cinque anni di età. Si tratta di far ruotare la parte
anteriore del piede attorno al primo metatarso, così che la faccia frontale venga trasformata
in plantare. Questo costume ha una motivazione sia estetica che erotica.
In questa categoria, gli effetti invalidanti sono particolarmente evidenti e dolorosi.

Modellamento del comportamento


Questa categoria comprende un‟ampia serie di interventi volti a dare forma estetica al
comportamento, alle azioni e ai gesti. Nelle categorie precedenti vediamo gli esseri umani usare il
corpo come oggetto da abbellire, adornare, pulire; qui invece vediamo il corpo agire e gli esseri
umani ingegnarsi per imprimere una forma estetica alle loro azioni (es. le donne Maori e il loro
modo di camminare consistente in un dondolamento delle anche). L‟attività che più di altre coincide
con la massima efficacia estetica è la danza: tratto praticamente universale.

Modellamento della voce


L‟importanza del modellamento della voce appare già a livello fonetico, in quanto esso dà luogo a
una selezione di possibilità foniche. Si interviene sulla voce in modo simile all‟adozione di un
particolare stile di camminare; come il modellamento estetico del movimento si esprime attraverso
la danza, quello della voce si esprime attraverso il canto (es. i Suya del Brasile che accostano i loro
stili di canto ad altri interventi estetici a cui loro fanno ricorso, come ad esempio piattelli labiali e
dischi auricolari).

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Tatuaggi
Per quanto riguarda i tatuaggi, ci si ingegna a far penetrare, appena al di sotto dell‟epidermide,
sostanze coloranti al fine di elaborare disegni o pitture permanenti.
Questa categoria ha tre principali caratteristiche:
- Disegni vengono prodotti sul corpo;
- Disegni sono realizzati attraverso la penetrazione nel corpo di particolari strumenti e di sostanze
- Disegni prodotti sono indelebili e permanenti.

La parola inglese tatoo, riproduce i termini polinesiani tattow, tatau, tattaw, derivanti dalla
radice ta che vuol dire “battere”. Le tecniche per tatuare consistono sostanzialmente nell‟uso di
strumenti affilati tramite cui si introducono sostanze colorate sotto la pelle, come ad esempio aghi,
schegge di legno, spine vegetali, squame e lische di pesce.
Esempi di popolazioni dove i tatuaggi hanno una maggiore importanza dal punto di vista
etnografico:
- Tra i Maori, il tatuaggio (moko) era riservato agli uomini nobili e liberi, ed era collegato
all‟acquisizione di un grado più completo di umanità. Il primo tatuaggio veniva fatto in occasione
della pubertà, ma passavano anni prima che venisse completato.
- In Polinesia i capi venivano distinti dalla gente comune proprio grazie al tatuaggio iscritto sui loro
corpi, in quanto la loro carica è ereditaria; mentre in Melanesia, dove il potere dei capi è
temporaneo, i simboli della sua autorità sono, allo stesso modo, temporanei (pitture facciali).
I tatuaggi no hanno però ovunque gli stessi significati, per questo è necessario contestualizzarli
nelle società in cui sono diffusi; per esempio nella società occidentale il significato del tatuaggio è
cambiato nel corso del tempo: inizialmente esso era un simbolo di marginalità sociale (marinai,
prostitute, galeotti), ora è diventato un elemento della cultura di massa.

Scarificazioni
A differenza del tatuaggio, le scarificazioni sono prodotte da tagli profondi ottenuti con rasoi, lame,
coltelli, vetri. Non è necessariamente un incisione, infatti il risultato può essere ottenuto anche con
l‟escissione di una zona di pelle strappata, per esempio, con un amo: ci si può qui riferire agli
Americani del nord che, durante i rituali di tipo estatico, si strappano la pelle dal petto appendendosi
a dei ganci. Occorre però distinguere le scarificazioni in cui si persegue l‟obiettivo di un disegno
artistico con quelle che rappresentano qualità (fierezza, coraggio). Le prime vengono realizzate
tramite un chirurgo che inserisce nella ferita di sostanze che favoriscono l‟iperplasia di uno dei
costituenti della cicatrizzazione, così da ottenere motivi decorativi. Tra le sostanze da inserire nelle
ferite vi sono i pigmenti, tramite cui si ottiene una categoria ibrida: scarificazioni tatuate (Maori).
Tra i Tiv della Nigeria le scarificazioni sul volto e sul corpo sono analoghe a una forma di
iniziazione: il corpo diventa il canovaccio su cui imprimere la definizione culturale del genere
maschile e del genere femminile. La scarificazione totale può richiedere anche venticinque anni per
essere completata. Tra i Tiv la scarificazione femminile si configura come un “archivio vivente
della storia patrilineare e della mitologia collettiva”. In questo tipo di interventi estetici la
componente del dolore è fondamentale, per i Tiv infatti bellezza e umanità possono essere acquisite
soltanto con la sofferenza. Dolore non solo come componente inevitabile, ma anche come evento
ricercato, voluto, in quanto simboleggia l‟irreversibilità, oltre che della cicatrice anche di ciò che
rappresenta (momenti particolari della vita di un individuo: iniziazione, matrimonio, parto…).

Bruciature e marchiature della pelle


Un intervento da considerare in questa categoria è l‟abbronzatura che modifica la coloritura della
pelle e, se si supera una certa soglia di esposizione, produce una bruciatura. Le bruciature da
insolazione ci avvicinano alle marchiature fuoco, intervento che serve per segnare, distinguere e
separare certi individui (nelle isole del Pacifico e nell‟Antica Grecia servivano per identificare i
criminali). Vi sono poi le bruciature come tecnica di tatuaggio, deponendo una sostanza colorante
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nella piaga. Da ricordare è anche il branding, a cui oggi nella nostra società fanno ricorso a scopo
ornamentale, lasciando dei segni indelebili sul proprio corpo, simili a quelli delle scarificazioni.

Perforazione e inserimento di oggetti esterni


Le perforazioni sono interventi con cui si creano fori di dimensioni sufficienti per alloggiarvi
diversi tipi di oggetti ornamentali. La perforazione è un mezzo che permette al volto di divenire una
specie di portagioie. Le perforazioni da parte a parte riguardano diverse zone del corpo, anche se la
zona maggiormente interessata è il volto.
- La perforazione delle labbra ha la funzione di offrire un alloggiamento per oggetti ornamentali, o
piattelli labiali, che vi vengono deposti. Tra i Sara del Tchad le donne portavano spesso piattelli alle
labbra, l‟uso è attestato anche in Kenya, Tanzania e Niger. Questo tipo di interventi sono
disfunzionali sia sul piano masticatorio che fonatorio. Per quanto riguarda le donne Sara del Tchad,
il rituale prevede che sia il fidanzato a perforare il labbro della futura sposa, inserendovi pezzi di
legno sempre più grandi, sino a potervi collocare il piattello adatto. Mantenere i piattelli in pubblico
è una questione di pudore, una volta rimasta vedova la donna abbandona i piattelli.
- Il naso è un organo particolarmente adatto alle perforazioni e all‟inserimento di oggetti. Presso i
Muisca dell‟America meridionale soltanto la presenza di oggetti di oreficeria di ornamento nasale
consentiva agli uomini di poter parlare con i loro capi, mentre in Oceania è molto diffuso
l‟inserimento di piume, conchiglie, ossa, fiori, come segni indicanti il rango sociale dell‟individuo.
- Le società europee condividono con altre società un interesse per l‟ornamento delle orecchie, la
perforazione del lobo consente l‟inserimento di oggetti via via più grandi o più pesanti che
allungheranno progressivamente quella parte. Presso gli Inca la perforazione del lobo veniva
eseguita sui giovani delle famiglie nobili come forma di iniziazione e il disco inserito nel foro del
giovane iniziato ne faceva un uomo.
- Nelle società occidentali il body piercing è stato fatto proprio della cultura punk come un esplicito
mezzo di protesta sociale contro un uso standardizzato del corpo. Il piercing è anche manifestazione
del primitivismo moderno, simbolo di disagio nei confronti della cultura contemporanea e ricorso a
pratiche ritenute “esotiche”.

Intaglio dei denti


I denti sono oggetto di molti tipi di intervento che comportano un modellamento massiccio: non più
quello dello scultore che spalma sostanze colorate sul corpo, ma quello dello scultore che intaglia la
forma, togliendo materia. L‟intaglio assume diverse forme e comporta interventi estetici diversi:
dall‟amputazione della corona al taglio dell‟angolo distale degli incisivi, dal taglio a punta al taglio
ad ascia…ecc. Limatura, scheggiatura e abrasione sono le tecniche più ricorrenti, oltre che molto
dolorose e disfunzionali per la masticazione.
Secondo i Tiv della Nigeria, avere i denti scheggiati aiuta a imparare le lingue, altre che essere un
segno di bellezza, l‟intervento estetico può essere dunque dannoso per certi aspetti ma utile per altri.

Amputazioni
Abbiamo diversi esempi di amputazione: tra i Sioux il giovane offre un dito al sacrificatore per
essere considerato adulto, presso i Teda del Tchad si amputa l‟ugola per evitare di inghiottire la
saliva durante il ramadan, nelle isole Sandwich si amputava un orecchio in segno di lutto, a Vanuatu
insieme alla circoncisione del ragazzo si effettua l‟avulsione dei due incisivi superiori (rottura con il
mondo dell‟infanzia e entrata nella comunità degli adulti). Tra i vari interventi, l‟amputazione è
forse il più semplice ma chirurgicamente aggressivo e irreversibile. Le amputazioni non riguardano
solo dita e denti, ma pure gli organi genitali. Le amputazioni sono interventi che, di fatto,
producono un‟incompletezza volontaria sul corpo; inoltre, a differenza di altri interventi estetici,
esse sono chirurgicamente aggressive e irreversibili.

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Chirurgia genitale
Si pensa che si faccia ricorso alla chirurgia genitale dove il modellamento del corpo viene avvertito
come qualcosa da cui non cui si può sottrarre, che assume un significato decisivo. Questi tipi di
interventi sono forse i più estremi. Spesso questi interventi sono anche accompagnati da altri
interventi come tatuaggi, scarificazioni e perforaazioni.

A) Interventi femminili
Riguardo agli interventi femminili bisogna considerare prima di tutto l‟imene e le scelte opposte che
le società adottano: in alcune società è la madre che si incarica di deflorare la figlia in modo
indolore sin da piccola (Sinti e Rom); in altre la deflorazione della ragazza pubere avviene con un
allargamento energico della vagina (alcuni aborigeni in Australia) e, in alcuni casi, con uno stupro
collettivo. Anche per quanto riguarda clitoride e labbra ci sono posizioni e scelte diverse: da un lato
l‟allungamento del clitoride (Yoruba della Nigeria) e delle piccole labbra (Gisu, Luba, Venda),
dall‟altro la loro escissione. La clitoridectomia è presente in molti parti dell‟Africa, della Malesia,
in Pakistan e in alcuni gruppi aborigeni dell‟Australia.Anche in Europa si è verificato questo tipo di
intervento: il medico Ysaac Backer Brown riuscì a convincere il mondo medico anglosassone a
praticare la clitoridectomia come rimedio contro la masturbazione femminile; anche in America per
lo stesso motivo la clitoridectomia era spesso praticata. Questi intereventi, sebbene molto dolorosi,
sono praticati perché essi permettono alle donne di essere considerate come tali; sono, di fatto,
mezzi attraverso i quali si ricerca una “forza” positiva che permette di sopportare il dolore.
Un altro tipo di intervento sui genitali femminili è l‟infibulazione, che consiste nella cucitura delle
piccole labbra, a seguito di escissione, lasciando un foro per le orine e per il flusso mestruale.
Attestata sia nell‟africa orientale sia nell‟africa occidentale, rappresenta una condizione estrema di
verginità femminile, necessaria per accedere al matrimonio. Il marito provvederà poi ad allargare
con una lama l‟orifizio urinario; ma occorrerà procedere a un‟ulteriore e più adeguata apertura per
permettere il parto.

B) Interventi maschili
L‟intervento sui genitali maschili più comune è la circoncisione, effettuata mediante un taglio del
prepuzio: troviamo testimonianze che riguardano Sumeri, Fenici, Siriani, Egizi, Ebrei e Arabi. Per
gli Ebrei la circoncisione è l‟unico taglio consentito e rappresenta l‟alleanza tra l‟Israele e Dio. Il
Cristianesimo rifiuta invece la circoncisione, a partire da San Paolo, dandone un‟interpretazione
puramente spirituale. L‟Islam fa propria l‟idea di circoncisione come mezzo per ottenere la purezza
del corpo. Grazie all‟espansione dell‟Islam, il Vicino Oriente è considerato il centro diffusore di
questa pratica presso diverse parti dell‟Africa e in Madagascar. Questo costume non era conosciuto
nella zona d‟influenza indoeuropea, ma si ritrova in diverse zone del Sud-Est asiatico, dell‟Estremo
Oriente, in Oceania; era inoltre praticato presso gli Inca e gli Aztechi. Oggi è una pratica diffusa in
Nord America, a prescindere dalle appartenenze religiose.
A parte la circoncisione ebraica, quasi tutti i casi di circoncisione riguardano rituali di passaggio
dalla pubertà all‟età adulta. Si tratta in ogni caso di significati culturalmente profondi: appartenenza
religiosa o etnica, acquisizione di uno status sociale maggiore, seconda nascita, ecc…
Un altro intervento è quello della subincisione, taglio longitudinale nell‟uretra, che faceva parte di
un rituale di iniziazione, in aggiunta alla circoncisione. L‟operazione modifica l‟organo maschile
creando una sorta di vulva, in modo tale da simboleggiare l‟ambivalenza sessuale.
L‟intervento più drastico è quello della castrazione, spesso inflitta ai nemici vinti, ai criminali o agli
schiavi. In altri casi si tratta di produrre eunuchi destinati agli harem in Oriente. In Italia e in Spagna
dal XVI al XVIII era frequente il modellamento a fini estetici dei castrati utilizzati per il bel canto.
Automutilazione: nella Russia del XVIII secolo il movimento degli Skopzi (eunuchi), una setta di
flagellanti cristiani, rifacendosi ai Vangeli praticavano l‟automutilazione; questa poteva avvenire
tramite la soppressione dei testicoli o anche all‟eliminazione del pene; mentre per quanto riguarda le
donne, queste eliminavano seni, clitoride, o piccole labbra. Anche in India si trovano movimenti di
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eunuchi (hijira): si tratta di individui nati maschi che, per motivi di impotenza o sterilità, si
sottopongono all‟evirazione. Le hijira sono soliti esibirsi con danze e canti nei matrimoni e in
occasione delle nascite, benedicendo le famiglie perché abbiano maggiore fertilità e prosperità.
Anche in occidente sono praticate operazioni simili: basti pensare a coloro che cambiano il proprio
sesso, oppure ai casi di intersessualità presenti fin dalla nascita, che il chirurgo risolve asportando
uno dei due organi “in più”. Di fatto la chirurgia genitale è un modo per eliminare somiglianze tra i
sessi: basti pensare ai Dogon, per i quali la circoncisione eliminerebbe ciò che di femminile si
troverebbe nel sesso maschile, e l‟escissione del clitoride taglia via ciò che di maschile vi sarebbe
nel sesso femminile.

Chirurgia estetica moderna


La chirurgia plastica di tipo estetico è un invenzione del Novecento, fonda le sue radici nel periodo
successivo alla prima guerra mondiale, per rimediare a traumi e disabilità subite in guerra;
precedentemente questa pratica non era diffusa a causa della religione: il corpo veniva infatti
considerato come un prodotto della divinità e quindi intoccabile. Al contrario degli interventi
chirurgici esaminati finora, la chirurgia moderna cerca di attenuare il dolore con l‟anestesia e opera
in ambienti asettici. L‟obiettivo della chirurgia moderna è duplice: quello della trasformazione e
quello della naturalità, ciò che si realizza è alla fine un gioco di “finzioni”; la chirurgia opera “come
se” i suoi obiettivi rispondessero a canoni di bellezza naturali.

Alimentazione e diete
È la categoria i cui effetti sono meno immediati: una volta introdotto il cibo, si tratta di un agire
all‟interno e dall‟interno che provoca trasformazioni o effetti di tipo metabolico. L‟alimentazione è
il “fare umanità” più elementare, da ciò che si ingurgita dipende in maniera sostanziale l‟essere
umano, anche dal punto di vista estetico. C‟è a riguardo una vera e propria “moda” antropo-
poietica: sono significativi i modelli di magrezza nelle società occidentali; all‟opposto alcune
popolazioni coltivano invece il culto della grassezza (in Mauritania le ragazze vengono sottoposte a
precoce ingrassamento, segno di ricchezza e prestigio). In alcune popolazioni il tipo di
alimentazione non ha effetti solo dal punto di vista visivo, ma anche olfattivo: basti pensare ai
Tukano della foresta Amazzonica i cui membri delle varie tribù odorano in modo diverso a seconda
della loro alimentazione (carne, pesce).

Interventi chimici e ormonali


La società contemporanea dispone di diversi mezzi chimici per gli interventi estetici, come per le
iniezioni sottopelle della tossina botulinica. Tra i mezzi chimici più rilevanti troviamo
gli ormoni: usati per processi di femminilizzazione/mascolinizzazione, per la crescita o
anabolizzanti per lo sviluppo delle masse muscolari.

Intermezzo sulla moda e sulla morte


Occorre separare gli interventi sui corpi vivi da quelli sui corpi morti. Nei primi, in particolare, è
importante considerare la connessione interventi tra gli interventi estetici sul corpo con dolore e
piacere: è fondamentale, per comprendere le due connessioni, tener conto delle due fasi in cui si
articolano gli interventi estetici (esecuzione e risultato). Se si conferisce molta importanza all‟esito
estetico, allora questo è in grado di compensare il dolore della fase preparatoria e esecutiva, questo
verrebbe spiegato come passaggio obbligatorio e apprezzato dal punto di vista estetico e sociale.
Tenendo conto delle due fasi degli interventi estetici sul corpo (fase 1: esecuzione; fase 2:risultato),
possiamo sintetizzarli così:
A) Interventi estetici sul corpo che sia nella fase1 che nella fase2 lasciano il corpo indenne, essendo
interventi esterni;
B) Interventi estetici sul corpo che comportano dolore nella fase1, ma che determinano
piacevolezza nella fase2 (tatuaggi e scarificazioni);
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C) Interventi estetici sul corpo che prevedono dolore nella fase1 e modifiche di organi nella fase2,
senza che vengano però compromesse le loro funzionalità (modifica dei lobi auricolari);
D) Interventi estetici sul corpo che provocano dolore nella fase1 e modifiche strutturali e
disfunzionali nella fase2 (piattelli labiali, amputazioni, interventi sui genitali…).
Ci si chiede allora perché l‟uomo intervenga sul proprio corpo fino al punto di comprometterne la
sua funzionalità: molti antropologi pensano che per l‟uomo sia più importante il riconoscimento
sociale che la sua forma di umanità.
Nel “modellare”, gli esseri umani spesso fanno violenza e talvolta distruggono, la violenza è
connaturata nel “fare umanità”.
Modellare è al contempo fare e disfare, costruire e distruggere: attività che ha dunque molto a che
fare con la morte, oltre che con la vita.

Tipologia (categorie XX-XXIII)


Secondo la tesi di France Barel i vari tipi di interventi estetici sul corpo finora considerati possono
essere concepiti come una lotta contro il tempo e contro la morte. Il tempo però non è una
dimensione che si lascia semplicemente modellare, il tempo è inesorabile e al suo svolgersi c‟è
inevitabilmente la morte, che pone fine a tutti i progetti antropo-poietici. Secondo Jan
Assmann «ogni cultura ha il suo centro nel problema della mortalità» e sostiene che il «desiderio di
immortalità» funzioni come «generatore di cultura»; tuttavia gli interventi estetici riguardanti i copri
morti non sembrano confermare questa tesi: il desiderio di immortalità non è un bisogno universale,
in quanto vi sono società che rivendicano la fine come destino propriamente umano. Di grande
importanza è anche l‟analisi del criterio dell‟attività-passività. Gli interventi estetici sui morti sono
caratterizzati dal massimo grado di passività del soggetto: sui morti sono i sopravvissuti che
operano gli interventi estetici più appropriati. Tuttavia vi sono anche casi che il massimo grado di
passività si riscontra anche negli interventi estetici sui vivi: fasciature dei crani dei neonati,
circoncisione imposta ai ragazzi nel periodo della pubertà. In conclusione la questione dei gradi di
attività/passività dei vari interventi estetici sul corpo richiama “l‟argomento di Egeo”: ovvero coloro
(uomini, dèi…) che dispongono del potere di modellare la figura di altri, detengono un potere su di
essi.

Interventi in vista della morte


Questa categoria ha a che fare con la morte ma vede i vivi come protagonisti e soggetti attivi. Un
primo esempio è quello dei baNande del Nord Kivu: era previsto che il carattere di una persona si
addolcisca man mano che l‟età avanza e ci si avvicina alla morte, raggiungendo un senso di pace e
calma che i baNande collegano alla morte. Si procede allora a sistemare il corpo del malato in una
posizione mortuaria ancor prima del trapasso: si assiste dunque a una sorta di anticipazione della
morte. Mente l‟anziano nande si limita a vivere il senso di calma prima della morte, gli eremiti
miira del Giappone rinunciavano alla parola, alla scrittura, al cibo, fino ad arrivare al digiuno totale.
Nella stessa posizione troviamo i monaci buddisti della Cina, gli asceti rinuncianti dell‟India e i
monaci dei primi secoli del Cristianesimo.
La mortificazione del corpo si configura come una battaglia contro la morte: i monaci della Siria
non si rassegnavano a morire di morte naturale, ma cercavano di autodistruggersi. Mentre per i
monaci della Siria puntavano alla dissoluzione del corpo, i miira mortificano il loro corpo per
conservarlo il più integro e intatto possibile.

Trattamento del cadavere


Per parlare di interventi estetici post-morte è importante considerare le tre fasi “naturali” a cui il
corpo del defunto va incontro:
a) Pre-decomposizione: dal momento del trapasso alla manifestazione dei primi segni di
putrefazione;

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b) Putrefazione: segna la fine dell‟organismo individuale ma che coincide con la “vita” dei
microrganismi che lo aggrediscono;
c) Mineralizzazione: fine di ogni segno di vita.

Nella fase di pre-decomposizione le società si affrettano di solito a provvedere alla toilette del
defunto, alla sua vestizione e profumazione. Ad esempio i Bijagò della Guinea Bissau adornano il
cadavere che viene fatto sedere nella sua veranda per accogliere gli ospiti, per inscenare una
finzione, come se il defunto fosse ancora in vita. Nelle isole Marchesi, dove il tatuaggio costituiva
una seconda pelle, le donne approfittano del periodo di pre-decomposizione per detatuare il
defunto. La tatuazione in vita e la detatuazione post mortem fanno parte di un unico progetto
antropo-poietico, di costruzione prima e di distruzione poi.
Adriano Favole individua 5 modalità con cui le culture affrontano la putrefazione:
a) Evitare (cremazione)
b) Accelerare (esposizione defunto a eventi atmosferici)
c) Dissimulare (inumazione/sepoltura)
d) Rallentare (imbalsamazione parziale)
e) Bloccare (mummificazione o criogenizzazione)

La soluzione a) rappresenta l‟azzeramento dell‟antropo-poiesi perché non lascia traccia di alcuna


umanità. La soluzione e), al contrario, è quasi un tentativo di prolungare l‟antropo-poiesi al di là
della morte, un voler evitare i processi della putrefazione mantenendo intatto il corpo e le
sembianze umane: la morte ideale.
Per i miira del Giappone era importante l‟integrità del corpo dopo la morte, infatti si procedeva alla
scopertura della tomba dopo tre anni e se il corpo era integro veniva affumicato, laccato e ricoperto
di foglie d‟oro; quasi a simboleggiare una vittoria sulla morte.
Si possono inoltre evidenziare due estremi: un atteggiamento interventista e un altro che riduce a
poco o a nulla gli interventi. Tra i baNande del Nord Kivu ci si affretta a deporre il corpo del
defunto nella tomba, allo stesso modo la cremazione nelle società occidentali riduce al minimo gli
interventi. Al contrario, la sepoltura nella nostra società prolunga la finzione: il cadavere viene
vestito, sistemato, trattato come se fosse vivo.
Tutti gli interventi sono divisibili in tre dimensioni: conservazione, distruzione e trasformazione.

Produzione e trattamento dei resti umani


Un‟ultima possibilità di intervento post mortem è relativa ai “resti” del cadavere, i quali hanno un
grande valore simbolico, in quanto traccia e testimonianza del defunto. Ci si deve soffermare a
riguardo su due fasi: produzione dei resti e loro utilizzazione.
Gli Aztechi erano grandi produttori di resti: i sacrifici umani possono infatti essere interpretati come
separazione e distribuzione di entità che si trovavano in diverse arti del corpo (cuori estratti e
conservati in appositi recipienti, teschi collocati nelle rastrelliere, femori trasformati in strumenti
musicali). Nelle isole Trobriand quello che rimane del defunto viene riesumato due volte, viene
tagliato a pezzi così da ricavare reliquie, da lasciare ai familiari, che diventeranno ornamenti,
recipienti o oggetti di uso culinario. Questi usi non si riducono a un macabro utilitarismo, è da
considerare anche la sfera affettiva e simbolica di queste pratiche. Vi sono poi quelle società che
non si limitano a valorizzare i resti dei propri morti, ma anche quelli dei nemici: basti pensare alla
caccia alle teste nel Sud-Est asiatico dell‟epoca precoloniale, in seguito alla quale le teste dei nemici
diventavano veri e propri trofei. Pratiche di questi tipo erano diffuse anche presso gli europei, che
cercavano resti corporei da esporre nei musei di etnografia, storia naturale ed etnografia.

Dissoluzione
Un ultimo gesto è quello che porta alla dissoluzione: sono interventi sul corpo volti a formare
intenzionalmente il nulla, la negazione di qualsiasi forma umana.
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In Africa si è potuto assistere non solo alle uccisioni indiscriminate, ma anche all‟immondo
trattamento dei cadaveri, mutilati, spolpati, cannibalizzati, gettati nelle latrine e consegnati al nulla.
In occasione della morte le società hanno da scegliere su ciò che rimane e su ciò che scompare del
corpo del defunto: con gli ultimi interventi gli esseri umani possono trasformarsi in spiriti o in
reliquie, in antenati o in beni materiali.
I baNande un tempo pensavano che l‟anima si dissolvesse nel nulla, come il corpo: ciò accadrà
quanto non vi sarà più nessuno tra i vivi a ricordare il defunto.
I Tasmaniani distruggevano col fuoco i loro cadaveri e ne disperdevano le ceneri.
In India c‟è la convinzione che la dissoluzione debba essere l‟esito finale, coincidente con il nirvana,
l‟estinzione, e il mukti, la liberazione.
Dunque anche lo “scomparire” può essere un‟aspirazione umana, che trova soluzioni culturali.
Gli Achè del Paraguay mangiavano tutti i loro morti come gesto di onoranza nei loro confronti: il
corpo veniva interamente mangiato dal gruppo, affinché l‟anima se ne vada per sempre. Il
cannibalismo era quindi usato come difesa contro le anime dei morti, che possono essere eliminare
solo mangiandone il corpo.

Parte terza. Le Tragedie delle Certezze e il Respiro del Dubbio


5. FURORI ANTROPO-POIETICI

Sul furore
Nell‟antropologia italiana la nozione di furore rimanda a Ernesto de Martino, che descrisse i
cinquemila giovani che nel capodanno del „56 misero a soqquadro Stoccolma come «adolescenti in
furore». Gruppi di giovani si riunivano e formavano gruppi temporanei, che si scioglievano
lasciandosi dietro soltanto la traccia della loro carica distruttiva.
Questo furore distruttivo è riconducibile per de Martino alla «nostalgia del non-umano», che deve
essere fronteggiata e controllata dalle società, che hanno il compito di “fondare un umanità”. Le
società moderne si rivelano però impreparate a questo compito in quanto hanno sottovalutato
l‟impegno antropo-poietico.
La polemica della modernità ai riti antropo-poietici è dovuta fondamentalmente a tre presupposti:
a) L‟esistenza di una natura umana stabile, universale;
b) Se si deve parlare di antropo-poiesi, la “nostra religione” ci ha insegnato che è Dio che foggia
l‟uomo e ne definisce la natura;
c) Se non c‟è Dio a risolvere i nostri problemi antropo-poietici, la modernità fa intervenire la storia
del genere umano, che unifica le varie diramazioni in cui nelle varie epoche si era suddivisa.
La modernità ha dunque delle certezze antropo-poietiche in quanto non bisogna più scervellarsi su
come gli uomini debbono essere fatti: in quanto se non ce l‟ha insegnato Dio, e se non è già scritto
nella natura umana, è la storia stessa che risolve questo problema.
Il furore deriva proprio dalle certezze che la modernità ha, dalla determinazione con cui vengono
realizzati i modelli che la società persegue.
L‟impreparazione di cui parla de Martino può essere allora concepita in due modi:
a) Derivante dalla sottovalutazione del compito antropo-poietico;
b) Derivante da un programma antropo-poietico dagli obiettivi eccessivamente elevati.
Si può, quindi, fare una distinzione tra:
- Furore antropo-poietico: eccesso di determinazione nella costruzione degli esseri umani;
- Furore anti/antropo-poietico: stesso eccesso nel distruggere ciò che altri hanno cercato di
realizzare in campo antropo-poietico.

Secondo De Martino, vi è per natura un impulso distruttivo, che può assumere forme cannibalesche,
in ogni essere umano, e nei rituali tipici delle società arcaiche che avrebbero la funzione di
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controllare tale impulso. Per questo motivo il nazismo viene visto come un‟interruzione della
società moderna, in cui riemergono furori primitivi e selvaggi.
Tra Kwakiutl è presente la “sacra follia” del giovane iniziato che, dopo aver trascorso tre mesi in
foresta, viene costretto a tornare al villaggio. Nel suo comportamento si nota follia, violenza, furore;
caratteristiche che vengono acquietate attraverso un rituale. Secondo De Martino, questo
comportamento violento è tipico della natura umana e i rituali hanno lo scopo di eliminarlo; per
Comba, invece , il furore appartiene al rito: quindi non si diventa cattivi per natura, ma perché si
abbandona la socialità umana. Molti rituali antropo-poietici mettono in scena la disumanità, in
quanto per molte culture si diventa uomini capendo e rappresentando la disumanità.

Sradicare e sopprimere
Il pensiero che si è posto alle origini della modernità ha manifestato fin da subito una profonda
allergia per le finzioni in campo antropo-poietico, ovvero per forme di umanità dominate da
costumi e tradizioni. Il filosofo inglese Francis Bacon esprime la consapevolezza di appartenere a
un tempo nuovo, nella lunga storia del genere umano sono stati pochi i periodi di sviluppo del
sapere scientifico e del progresso: presso i Greci, Romani e i popoli occidentali (Novum
Organum, 1620). Delineando questi periodi il filosofo li delimita anche geograficamente,
riferendosi a “noi europei”, “noi occidentali” che viviamo in un epoca pronta a consentire
«l‟ingresso nel regno dell‟uomo», questo richiede in atto di purificazione. Occorre provvedere a una
distruzione degli idoli, per accedere al regno dell‟uomo bisogna demolire gli idoli della mente
umana. C‟è un idolatria nei costumi delle società umane di cui occorre liberarsi per accedere alla
salvezza. Per Bacon gli idoli non sono atro che convenzioni e pregiudizi, e ne individua 4 tipi:
- Idoli della tribù, quelli comuni a tutto il genere umano che derivano dalla conformazione di esso;
- Idoli della spelonca, che derivano dall‟esperienza personale e dall‟educazione;
- Idoli della piazza, quelli del linguaggio e della vita sociale;
- Idoli del teatro, quelli delle tradizioni e delle opinioni che si fanno valere nella scena pubblica.

Questi idoli si pongono tra l‟intelletto umano e la realtà, impedendo di cogliere i segni che Dio ha
impresso nelle cose.
Anche per René Descartes occorre liberarsi dai costumi per entrare in un a nuova epoca: il sapere
tradizionale, fatto di convenzioni e costumi, è paragonato alle città antiche; le nuove città
corrispondono nell‟immaginario di Descartes al pensiero che ha saputo liberarsi dei costumi, e
hanno le stesse caratteristiche del regno dell‟uomo di Bacon.
La via della salvezza proposta da Bacon non è ancora stata percorsa dagli esseri umani, ma dato che
“noi europei” abbiamo trovato il metodo tramite cui accedere al regno dell‟uomo, siamo in
una posizione di superiorità rispetto alle altre culture.
Il senso di superiorità innalza l‟uomo al punto che esso si tramuta in un “Dio”, che ha il potere di
distruggere gli idoli e le forme di umanità che gli altri si sono dati.

Nel 1620, già da più di un secolo, gli europei stavano distruggendo il Nuovo Mondo e le sue culture,
società, lingue e civiltà; questa distruzione è poi continuata anche nei secoli successivi tant‟è che è
possibile parlare di persistente furore disumano. Secondo Bacon all‟origine dell‟uomo vi è
un‟antropo-poiesi divina, in quanto è Dio che fa gli uomini; dunque per natura l‟uomo è l‟immagine
di Dio sulla terra e, per questo, ha il diritto di dominare sugli esseri del creato. La distruzione degli
idoli risulta quindi necessaria per liberare l‟umanità da quelle forme che distruggono l‟immagine
divina, in modo tale da ristabilire il diritto di governare anche a quelle nazioni che hanno portato
questa distruzione. Bacon, in particolare, sostiene l‟esistenza di una sola società degli uomini, ciò è
dovuto al fatto che tutti discendono dalla coppia originaria creata da Dio. Tuttavia noi cristiani
siamo maggiormente consapevoli di questo legame tra tutti gli uomini e, per questo, dobbiamo
intervenire contro quelle nazioni in cui l‟immagine di Dio è stata sfigurata e che quindi, distruggono
la stessa umanità.
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Il regno dell‟uomo-dio
L‟antropo-poiesi divina che troviamo nella Genesi è un importante spunto di riflessione, nella
descrizione di questa troviamo alcuni aspetti fondamentali:
a) L‟antropo-poiesi è nelle mani di Dio. È Dio che fa gli uomini, non sono gli uomini che
fabbricano se stessi o altri uomini. Ma la tesi dell‟antropo-poiesi divina non è ovvia: sono infatti
molte le società che ritengono sia, al contrario, una faccenda umana;
b) Non solo Dio fa l‟uomo, ma lo fa a sua immagine. L‟uomo è il prodotto di un‟antropo-poiesi
divina, non solo perché viene compiuta da Dio, ma anche perché consiste nella riproduzione della
natura divina. Dio fa l‟uomo ma per costruirlo non inventa un modello, ma prende sé stesso come
criterio; Dio è dunque presente sia nel fabbricare che nel fabbricato. Ovviamente c‟è uno scarto tra
produttore e prodotto, per questo tra uomo e Dio vi è solo un rapporto di somiglianza, ma ciò è
sufficiente per sollevare l‟uomo dalla ricerca di modelli di umanità appropriati.
c) Se l‟uomo è fatto simile a Dio, allora anch‟egli esercita un dominio sulla natura. Dio è padrone
dell‟universo e l‟uomo è il signore-padrone della terra. In particolare. Quanto più l‟uomo domina la
terra, tanto più egli si rende simile a Dio.

Questa idea di dominio si può identificar come una sorta di hybris (comportamento eccessivo e
violento), in quanto questo dominio non solo viene concesso da Dio, ma conferisce agli uomini un
potere simile a quello della divinità. Anche presso altre società si può riscontrare, insieme al
dominio sulla natura, un vero e proprio furore distruttivo: i baNande hanno, per esempio, disboscato
i loro territori esercitando il loro furore nella guerra contro la foresta e dichiarandosi orgogliosi di
essere abbattitori di alberi. Alla base della loro cultura non c‟è una divinità, ma tante sono state le
società che hanno posto la parola di Dio a fondamento delle loro imprese e del loro furore. Se
consideriamo la conquista europea del Nuovo Mondo notiamo che essa è avvenuta basandosi su un
principio che unisce l‟antropo-poiesi divina all‟idea secondo cui chi non coltiva e non sfrutta la
terra non ha alcun diritto su di essa, finendo per esser considerato appartenente a una categoria
inferiore di umanità. Questa è una concezione legata alla mentalità europea: sono infatti molti a
sostenere che la coltivazione non è solo un diritto ma anche un dovere imposto da Dio; per questo
motivo i non coltivatori possono essere considerati come una minaccia per l‟intera umanità: ciò
dunque rese legittimo considerare i nativi americani come nemici dell‟uomo.
Essere a conoscenza di come gli uomini vengono fatti conferisce un grande potere rispetto a chi non
ha questa conoscenza: per questo motivo il cristianesimo è ciò, secondo Jaeger, che ci mette alla
pari dei Greci, ovvero con coloro che facevano umanità seguendo i principi della natura umana.
Gli europei hanno imposto la loro fede antropo-poietica: un regno dell‟uomo fatto a somiglianza di
Dio e che l‟uomo cerca di realizzare con furore tipicamente moderno.
Nell‟antropo-poiesi cristiana c‟è molta finzione e molta fede, ma quanto più s‟inventa , quanto più
si richiede fede, tanto più si avverte un senso di instabilità; che viene coperto attraverso uno sforzo
di coesione ma anche attraverso la creazione di nemici, intesi con i “non credenti”, i quali vengono
affrontati in vari modi: assimilazione (conversione), espulsione, annientamento.

L‟idea dell‟uomo nuovo


Secondo un opinione diffusa tra cristianesimo e modernità c‟è discontinuità, ma in realtà entrambi
si fondano su una concezione universalistica, ossia dall‟idea di possedere una verità universale sulla
natura umana,inoltre in entrambi i casi c‟è una diffidenza verso i costumi, ovvero le culture locali.
Paolo Tarso, contemporaneo di Gesù e grande teorizzatore cristiano dell‟uomo nuovo, adottò un
atteggiamento di diffidenza verso le tradizioni umane, ad esempio combattendo la convinzione che
la circoncisione fosse un rito irrinunciabile in quanto è una pratica antropo-poietica legata a una
cultura particolare; per questo non può essere posta a fondamento dell‟uomo nuovo. Con
la svalutazione della cultura e dei costumi vi è anche la negazione di ciò che l‟uomo può fare di se
stesso: la salvezza viene infatti da Dio, l‟uomo nuovo è totalmente opera di Dio.
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L‟evento che segna l‟inizio della nuova umanità si compone di due momenti: la morte e la
resurrezione di Gesù. Paolo da dipendere la nascita dell‟uomo nuovo dalla resurrezione di Cristo,
perché l‟uomo nuovo a cui il cristianesimo dà avvio non è nuovo rispetto a una tradizione o cultura,
ma è nuovo rispetto alla condizione in cui fino ad allora l‟umanità intera è vissuta.
Spunti a partire dal prototipo di uomo nuovo teorizzato da San Paolo:
1) L‟idea di uomo nuovo implica una dimensione antropo-poietica: vi è una trasformazione
dell‟essere umano;
2) Occorre porsi la domanda sulle novità della trasformazione;
3) Si ipotizza dunque una gradualità della trasformazione dell‟uomo nuovo;
4) Per determinare l‟incidenza trasformativa dell‟uomo nuovo occorre individuare le condizioni
rispetto alle quali la novità viene affermata;
5) si devono inoltre prendere in considerazione i soggetti o le entità a cui si fa risalire la formazione
dell‟uomo nuovo;
6) Quando si parla di uomo nuovo, di solito si allude a una capacità trasformativa particolarmente
accentuata;
7) Non tutte le situazioni inedite dal punto di vista storico e antropologico corrispondono a modelli
di uomini nuovi;
8) L‟idea di uomo nuovo risulta essere un eccezione, piuttosto che una regola; quest‟idea manifesta
un hybris particolare, applicata alla trasformazione dell‟essere umano;
9) l‟idea di uomo nuovo richiede un‟applicazione particolarmente decisa, che comporta un taglio
violento rispetto al passato e un forte impegno costruttivo rispetto al futuro;
10) Essendo un programma antropo-poietico molto impegnativo, l‟idea di uomo nuovo suscita la
percezione di ostacoli che ne impediscono la realizzazione; per questo vi sono nemici da inglobare,
respingere o distruggere: da ciò derivano le tragedie degli uomini nuovi.

Tragedie dell‟uomo nuovo


La modernità è dunque presa dalla voglia di realizzare un uomo nuovo: con questa idea gli europei
hanno intrapreso la conquista del Nuovo Mondo. Si può fare riferimento anche alla Rivoluzione
francese per comprendere quanto questa idea abbia ispirato la “furia” distruttrice che l‟ha
caratterizzata, furia che è divenuta poi modello per altre rivoluzioni.
Un particolare periodo in cui si assiste alla diffusione dell‟idea di uomo nuovo in tutta Europa fu
quello della prima guerra mondiale, in cui questa si fonda sulla concezione della guerra come
qualcosa che fa nascere la nuova umanità.
Lo storico Jacob Burckhardt parlò addirittura di «azione benefica della guerra», poiché da essa
scaturisce la virtù eroica dell‟uomo, il vero rinnovamento della vita. Anche secondo F dor
Dostoevskij la guerra è una cosa utilissima, in quanto rinfresca gli uomini, dà sollievo all‟umanità.
Il culmine è rappresentato da Friedrich Nietzsche, il quale invoca la costruzione di un uomo nuovo,
per il quale «conquista, avventura, pericolo, dolore sono diventati bisogno», per il quale la guerra è
un atto indispensabile. Tutti sanno che le guerre portano morte e distruzione, ma permane la voglia
di guerra come mezzo per produrre un uomo nuovo, rigenerato. Rudolf Eucken parla di furia
rigeneratrice della guerra. La Grande Guerra assume dunque l‟aspetto di un rituale di iniziazione,
poiché da inizio a una nuova epoca dell‟umanità. A differenza dei rituali antropo-poietici “non-
moderni”, la Grande Guerra non è stata affatto un rituale, ma un‟enorme carneficina.
Nonostante non sia stata un rito, la Grande Guerra è stata vissuta come un esperienza di
margine (secondo lo schema dei riti di passaggio: separazione, margine, aggregazione): ha tutte le
caratteristiche del margine, è infatti un esperienza di “sospensione dell‟umanità”, con il dolore, la
violenza, la sofferenza; da ciò poi derivarono i regimi totalitari (fase di aggregazione) che fornirono
dei modelli di umanità chiari e rigorosi.

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6. MA UN UOMO CHE COS‟È?

Meditazioni da un piccolo angolo di mondo


In ogni gesto antropo-poietico c‟è sempre un po‟ di furore, una determinazione. C‟è ad esempio
furore durante il rito di iniziazione dei nande, l‟olusumba (circoncisione). Nell‟olusumba la divinità
non interviene per niente e lascia agli esseri umani il compito antropo-poietico, con i loro dubbi e le
loro incertezza. Chi interpreta la religione come dispensatrice di certezze ha sempre inferiorizzato le
religioni africane tradizionali, chi invece ritiene che il dubbio e l‟incertezza siano caratteri
apprezzabili può cogliere nell‟olusumba nande un nuovo modo di interpretare l‟antropo-poiesi.
Il dubbio è ciò che rende umana l‟antropo-poiesi: è un compito a cui gli uomini non possono
sottrarsi.
I baNande sono un etnia della parte inferiore della Repubblica Democratica del Congo, coltivatori
di lingua bantu, la cui caratteristica principale è stata quella di essere distruttori di foresta
(abakondi), vi è quindi un nesso tra il taglio del prepuzio per diventare “abbattitori di alberi” e il
tagliare la foresta, come segno di acquisizione di una più matura forma di umanità. Come in altre
società, anche tra i baNande la circoncisione è un segno distintivo, oggi si pratica però negli
ospedali mentre un tempo veniva praticata dai circoncisori in foresta, l‟ultimo olusumba risale agli
anni „40 del Novecento.
L‟olusumba può essere uno spunto di riflessione sul confronto e lo scontro tra la religione baNande
e il cristianesimo: due progetti antropo-poietici totalmente divergenti; si è trattato di uno scontro da
cui la visione nande è uscita soccombente, nessuno oggi è in grado, in una cultura capillarmente
cristianizzata, di rivendicare la dignità dell‟olusumba.
Questo capitolo è il recupero culturale di un tratto di storia ormai sepolto tra le macerie della
modernità: tra i ricordi che riguardano l‟olusumba è stato trovato un canto che i circoncisori
rivolgevano a Katonda, la loro divinità, sotto forma di preghiera. L‟analisi di questo canto fa
emergere una inaspettata visione antropologica nande.

Richieste rivolte alla divinità e agli antenati


Il nome della divinità (Katonda) significa “mettere ordine”: il Dio Katonda è dunque il garante
dell‟ordine del mondo nande. I circoncisori nella preghiera si rivolgono a Katonda chiedendo:
“L‟uomo che cos‟è?”, per sapere quale sia il tipo di umanità che si realizza nella cultura nande.
Successivamente viene formulata un‟altra domanda, questa volta rivolta agli antenati, a cui viene
chiesto il “ritmo”, ovvero una danza (munde) che viene insegnata e appresa proprio durante
l‟olusumba. Nei versi successivi della preghiera i giovani vengono presentati agli antenati; questi
giovani sono caratterizzati dal fatto che provengono da villaggi diversi e sono ancora immaturi,
ovvero incapaci di distinguere le cose più ovvie. Questi giovani vengono portati in foresta dove
dovranno affrontare dei mesi di prove e sacrifici.

L‟avventurosità del viaggio


L‟olusumba si presenta come un viaggio metaforico: è un viaggio perché dai villaggi sulle colline ci
si reca in foresta, perché per diverso tempo si lascia la propria casa, le proprie abitudini, il proprio
mondo; perché si affrontano prove, sacrifici e ostacoli di ogni tipo; perché è un passaggio da una
condizione infantile a una di maturità. Questo viaggio è però dominato da dubbio e dall‟incertezza:
non si sa dove e se si arriverà; per rendere la via più sicura, occorre quindi eliminare due ostacoli:
gli incirconcisi e gli stregoni; i primi non hanno infatti potuto apprendere i contenuti dell‟umanità
nande, i secondi, essendo portatori del male, distruggono gli esseri umani. Il compito di “farli fuori”,
scaraventarli a terra è del kapipi, uomo alto e forte che porta il nome di uno spirito, che si incarica
liberare la strada da questi ostacoli.

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Dubbi e perplessità tra ecologia e antropologia


Centrale nell‟olusumba è l‟idea che il rituale sia un generatore di uomini, ciò dà infatti senso
all‟intero rituale e al canto preghiera. Vi è, però, anche una connessione tra il costruire uomini e
l‟abitare: il canto infatti si conclude con un‟ennesima invocazione a Katonda, il quale deve
insegnare ad abitare le colline dove si trovano i villaggi nande. Rivolgendosi alla divinità vengono
messi in secondo piano gli antenati, i quali avevano costruito un certo modello di umanità ma
questo viene messo in dubbio: rivolgendosi a Katonda si ottiene una maggiore sicurezza. La cultura
nande ha dentro di sé un dubbio trasmesso dagli stessi antenati: ovvero l‟abitare le colline. Da
sempre i baNande si sono comportati in maniera aggressiva nei confronti della foresta, ciò però
costituisce il dramma della cultura nande, perché distruggere la foresta equivale ad allontanare gli
animali e a distruggere un mondo in cui vivono molte forme di vita: alberi, animali e gruppi umani.
Quest‟ultimi sono disprezzati dai baNande ma, di fatto, mostrano loro che si può convivere con la
foresta. In sintesi i baNande possono prendere in considerazione tre atteggiamenti alternativi verso
la foresta:
- Distruggerla: preferendo coltivare al di fuori di essa;
- Coesistere: coltivando in foresta;
- Convivere: vivere nella foresta.

Da ciò deriva il dubbio della cultura nande, dubbio che li spinge a chiedere consiglio a Katonda.

Rituali, sofferenza, coscienza critica


Da questo dubbio ecologico deriva il nesso tra le modalità dell‟abitare e i tipi di umanità che ne
scaturiscono: ciò spiega il motivo per cui i rituali di iniziazione non hanno la funzione di rassicurare
e trasmettere certezze ma, al contrario, spingono i giovani a riflettere sulla nuova condizione che
stanno per ottenere. Da ciò deriva l‟interpretazione discontinuista dei rituali: infatti se essi
dovessero solo garantire la continuità da una generazione all‟altra, che bisogno c‟è di ricorre al
dolore della circoncisione e della permanenza in foresta? La discontinuità dà una risposta
soddisfacente a questo quesito perché attraverso la sofferenza e il dolore prendono coscienza di ciò
che sta avvenendo. In conclusione, dai rituali di iniziazione emergono due aspetti:
- Il rituale coincide con l‟idea di costruzione dell‟essere umano;
- Si diventa uomini prendendo le distanze dalla società di cui si fa parte (baNande vanno in
foresta in quanto realtà opposta rispetto a quella in cui vivono).

La discontinuità, la morte e il senso delle possibilità


Un rituale di questo tipo permette ai baNande di acquisire una forma di umanità in senso critico,
dopo aver riflettuto sulle varie alternative. Questa coscienza critica emerge da un canto preghiera
dei baKonjo: dove il bisogno di consapevolezza emerge fin dai primi versi quando si dice che non
bisogna avere eccessiva determinazione e sicurezza di sé: colui che non si guarda attorno non
curandosi dei pericoli, rischia infatti di fallire al trasformazione in un essere umano consapevole e
attento. Anche in questo rituale vi è una sofferenza: il giovane deve infatti recarsi in montagna,
dove vi è un clima di freddo, ma il freddo di cui si parla nella preghiera non è solo fisico ma è anche
psicologico, in quanto il giovane deve vivere, per un certo periodo, in solitudine, senza la
protezione dei genitori. Nei rituali è molto presente anche il tema della morte, che oltre a essere
vista come una componente “naturale” (i rituali mettono a rischio la vita dei giovani iniziati) è
soprattutto una morte “culturale”, in quanto l‟individuo muore come bambino per rinascere uomo.

Modelli di umanità
L‟analisi di questi rituali solleva il problema riguardante la reperibilità dei modelli antropologici, o
meglio la difficoltà di reperire modelli che guidino i processi formativi o a cui ispirarsi nei
procedimenti antropo-poietici. I baNande rispondo immediatamente al quesito, ammettendo di non
possedere modelli di umanità, e richiedendoli, quindi, a Katonda. L‟olusumba è dunque un tentativo
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di risposta. Questo dubbio non è però un‟esclusiva della cultura nande ma è universale: si ha infatti
ogni volta che si tenta di costruire umanità.

Tra foresta e “modernità”: la sfida del cristianesimo


Il dubbio riguardante le forme di umanità, per i baNande si è ulteriormente complicato con l‟arrivo
degli europei: questi infatti hanno portato un modo diverso di concepire l‟umanità e il mondo. I
baNande si sono ritrovati stretti tra: le forme di umanità della foresta e le forme esibite dalla
modernità europea. Tuttavia vi è un‟importante differenza tra i due: coloro che abitano in foresta
esercitavano il loro ruolo critico standosene in foresta; gli europei, invece, proponevano un modo di
fare umanità infiltrandosi tra i baNande e sfruttandoli. Territori ed economia furono soggiogati con
potere economico e tecnologia, le menti e la cultura con la religione. In particolare gli europei
andarono a scagliarsi contro i rituali e, in particolare, contro l‟olusumba, di cui veniva rifiutato ogni
senso educativo, ma di cui veniva accentuato il carattere superstizioso. L‟evangelizzazione però non
ha solo reso inutile l‟olusumba ma ha sgretolato la stessa cultura nande: eliminando il dubbio che la
caratterizzava, l‟interesse verso gli “altri modi di abitare”. Ciò fu dovuto al fatto che i dubbi dei
baNande furono risolti dagli europei che si facevano portatori di certezze, rivelate direttamente dalla
divinità.

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IDENTITÀ DI LUOGO, PLURALITÀ DI PRATICHE


A cura di Cecilia Malatesta e Ortensia Giovannini
Milano, Mimesis, 2016

Introduzione

ASCOLTARE LA CITTÀ
Cecilia Malatesta, Ortensia Giovannini

Il volume intende indagare e analizzare i profili sonori di Milano, una città che, nel secondo
dopoguerra, ha vissuto una serie di trasformazioni fondamentali che ne hanno messo in crisi i valori
simbolici e identitari. Si intende quindi osservare diversi contesti storici, politici, culturali e sociali
al fine di isolare pratiche musicali e sonore che, nella percezione dei loro abitanti, conservano un
indubbio tratto di “milanesità”.
Il periodo esaminato va dalla ricostruzione postbellica fino a oggi. Si tratta di settant‟anni in cui
molti sono stati gli eventi fondamentali: prima il boom economico, poi la chiusura delle fabbriche e
l‟avvento del terziario; poi il „68, con le lotte operaie e studentesche, dopo il quale si è perso l‟uso
della piazza, dello spazio pubblico, inghiottito dalla globalizzazione, per cui è lecito, per Mar Augé,
parlare di «non-luoghi».
Nonostante tutti questi mutamenti, sopravvivono delle pratiche che, attraverso l‟utilizzo e la
diffusione di musica, restituiscono agli spazi la dignità di luoghi.

1. Dal soundscape al dialogico

Si è accennato al concetto di luogo. Secondo gli antropologi, si può parlare di “luogo


antropologico”, vale a dire di uno spazio connotato antropologicamente, segnato da tradizioni locali
e capace di conferire un‟identità a chi ci vive con una certa intensità e che tramite esso crea
relazioni e con il luogo stesso.
Questa definizione deve portare a ridefinire quella di “paesaggio”, di solito definito in base a una
configurazione visuale. Eppure esiste anche un “paesaggio sonoro”: infatti, anche i suoni possono
stabilire dei confini e quindi il “paesaggio sonoro” è l‟insieme di tutti i segnali acustici che ci
circondano e che sono percepiti come una totalità dotata di un‟essenza.
Per quanto riguarda il soundscape, due sono le definizioni:
1) Il soundscape è il paesaggio sonoro, equivalente acustico del paesaggio visivo, che si rifà a R.M.
Shafer ma soprattutto a Steven Feld, che si è occupato del rapporto dell‟uomo con i suoni che lo
circondano;
2) Il paesaggio sonoro, secondo K.K. Shelemay, declina al musicale la nozione di ethnoscape
(panorama etnico o etnorama) proposta da Appadurai nell‟ambito degli studi sulla globalizzazione.
Il paesaggio sonoro proposto da Shelemay comprende i fenomeni musicali in quanto tali (pratiche
vocali e strumentali formalizzate.

Queste due definizioni hanno qualcosa in comune ma anche delle differenze.


¾ Entrambe presuppongono l‟analisi della presenza umana all‟interno del paesaggio sonoro;
¾ Mentre secondo Shelemay si può costruire il pensiero musicale di una comunità attraverso
l‟analisi delle performance musicali, secondo Feld ogni suono prodotto o fruito dagli
individui è utile per ricostruirne la cultura. Dunque la differenza sta nel rapporto con il
suono.

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2. Struttura del volume

Il volume alterna, da un lato, contributi orientati verso metodologie etnografiche e antropologiche;


dall‟altro, contributi dal taglio storiografico e più strettamente musicologico.

1. Teatro alla Scala. Questo saggio analizza la più nota tradizione musicale Milanese, quella
operistica legata al Teatro alla Scala. Agugliaro adotta articoli di giornale e foto per
ricostruire una storia sociale del loggione Scaligero ed esamina sia la portata pragmatica
nelle sue rivendicazioni sulla fruizione operistica sia la questione della protezione dello
spazio teatrale.
2. Ortensia Giovannini ripercorre la storia della presenza armena a Milano. Il nucleo di
questa comunità si è sempre caratterizzato per un alto profilo economico e culturale. Tutto
questo ha portato a connotare gli Armeni come esuli e come Borghesi.
3. Valentina Beccarini studia dall‟interno la comunità milanese che balla la mazurka
clandestina. Questo gruppo danzante utilizza il corpo come oggetto e soggetto di
conoscenza.
4. Francesco Fusaro tratta il centro sociale Virus. La sua non è soltanto una relazione ma un
dialogo con uno dei maggiori protagonisti dell‟epoca, Marco Philopat, il cui contributo
ricostruisce un esperimento di socialità alternativa all‟interno dell‟esperienza del Punk
Milanese.
5. Cecilia Malatesta tratta la storia del gruppo Polifonica Ambrosiana soffermandosi
sull‟evoluzione degli spazi della performance e sull‟interazione con il tessuto istituzionale e
culturale Milanese. Il saggio di Malatesta evidenzia l‟aspetto di non professionalità
dell‟ensemble rivendicato dal gruppo stesso come identitario e inalterabile.
6. Qui si tratta della MayDay Parade. Tommaso Turolla cerca di arrivare all‟interpretazione
di questo evento analizzando le teorie ermeneutiche e acustemologiche.
7. Infine, Francesco Serratore osserva tre pratiche musicali adottate nella comunità cinese di
Milano durante il cosiddetto capodanno cinese, che si festeggia in primavera nel quartiere
milanese di Chinatown.

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“NOI SIAMO, SI SA, DELLA SCALA LA BANDA”.


APPUNTI PER UNA STORIA SOCIALE DEL LOGGIONE DELLA SCALA
DEL SECONDO NOVECENTO.
Siel Agugliaro

Nell‟immaginario culturale italiano l‟opera è spesso vista come un genere intrinsecamente popolare.
Dietro la creazione di questo mito del “popolare” ci sarebbero stati interessi politici ben precisi:
l‟obiettivo era rendere l‟opera uno strumento di unificazione nazionale, servendosi delle opere di
Verdi, Rossini e Bellini per contagiare la classe borghese con lo spirito e gli ideali del popolo, con
cui raramente c‟erano occasioni di contatto.
L‟opera, dunque, diede un contributo fondamentale alla creazione di quel canone risorgimentale su
cui si sviluppò, nel corso dell‟Ottocento, l‟idea di nazione italiana.
Anche dopo la parentesi fascista, l‟opera continuò a rappresentare un punto di riferimento per
riaffermare l‟unità culturale degli italiani di ogni classe e regione.
Quello dell‟opera come genere popolare resta però un mito nel vero senso della parola: questa
convinzione sarebbe resa evidente dal fatto che la stessa struttura dei teatri mostra che simili edifici
erano concepiti per servire una società rigidamente divisa in classi, le più basse delle quali avevano
una rappresentanza minima, se non addirittura assente al loro interno. Difficilmente, quindi, l‟opera
fu nel concreto la “musica del popolo”.
Le gallerie del teatro sono il luogo che è rimasto più legato all‟idea di una fruizione davvero
popolare, per via del costo relativamente basso del biglietto (accesso più frequente, almeno in teoria,
agli spettacoli). L‟altra faccia della medaglia è rappresentata dalla scarsa visibilità e dalla scomodità
(o addirittura assenza) di posti a sedere.
I loggionisti sono considerati gli spettatori più appassionati ed esperti, tant‟è che il loro parere nelle
recensioni e nelle interviste è tenuto in grande considerazione. Si veda l‟esempio dei loggionisti
della Scala, in grado di decidere le sorti di spettacoli, autori e interpreti anche durante il secondo
Novecento, come ultimi depositari di una lunga tradizione di fruizione appassionata e “popolare”
della musica d‟opera.
Lo scopo del saggio è capire fino a che punto il loggione della Scala abbia favorito la promozione
musicale tra il proletariato milanese e in che modo lo spazio fisico in questione abbia influenzato il
comportamento sociale dei fruitori e il loro modo di rapportarsi all‟opera.

Posti in piedi in paradiso. Il loggione della Scala tra mito e realtà

Qui si ripercorre in sintesi la storia del loggione, per comprendere meglio la sua funzione nel
secondo Novecento.
Nell‟Ottocento, al loggione della Scala, chiamato anche “piccionaia” dal suo architetto G.
Piermarini, accedeva il “popolo minuto” (artigiani, piccoli commercianti e tutti coloro che potevano
pagarsi il biglietto, da cui erano esclusi manovali, contadini e braccianti).
Dopo alcuni lavori di ristrutturazione, a fine Ottocento si arrivò all‟attuale conformazione: per
quanto riguarda i posti a sedere, a disposizione c‟erano due file di posti in prima galleria.
Nel 1920 si arrivò ad una possibile presenza totale di 1150 persone, sedute (circa 400) e in piedi.
Dopo i danneggiamenti della Seconda Guerra Mondiale, i posti a sedere furono portati a 550.
Alcune testimonianze degli anni „50 tramandano alcuni aspetti del pubblico degli spettacoli e
dell‟atmosfera del loggione della Scala: tempi per il recupero dei biglietti lunghissimi, posti
scomodi, persone in sovrannumero, difficile sorveglianza. Si tratta di aspetti che ci fanno capire che
il loggionista tipo fosse un vero appassionato di musica. Ovviamente erano favorite e maggiormente
frequentate le opere ritenute di valore culturale tale da giustificare un simile sforzo. Proprio perché
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lo sforzo era rapportato all‟alto valore culturale delle opere, gli spettatori erano guidati da una
retorica dell‟autenticità che spiega gli atteggiamenti categorici, critici e conservatori dei loggionisti.
In realtà, la ricompensa spirituale ottenuta assistendo all‟opera non si trasforma necessariamente in
un maggiore riconoscimento sociale (casi in cui si sfociava nel fanatismo, che causa in risposta
disprezzo sociale).

La passione per l‟opera è stata associata da Benzecry a una ricerca della trascendenza, ossia al
tentativo di fare della cultura un modo di definirsi, di costruirsi come persone onorevoli a livello
sociale.
Non trascuriamo però il ruolo del luogo fisico delle gallerie e della modalità di fruizione delle opere
riguardo al modo di manifestazione di questa passione. La separazione fisica dei loggionisti dal
resto del teatro sicuramente ha influito sulla loro concezione del teatro lirico e sull‟avvio di una
strategia di distinzione sociale, servendosi dell‟opera come strumento per rivendicare la propria
superiorità spirituale, per la quale si sentivano legittimati a intervenire attivamente durante lo
spettacolo, decretando il destino di opere e interpreti. A tutto questo si aggiungono vere e proprie
tattiche di appropriazione dello spazio (es. cordoni ai quali appendersi per vedere meglio e non
essere sovrastati dalla calca).
L‟ambiente del loggione favoriva la nascita di amicizie e reti di conoscenza sulla base della comune
passione per la musica, il tutto in un‟atmosfera spesso familiare.
Non stupisce, a questo punto, che alcuni loggionisti più assidui iniziarono a riunirsi in forme
associative, come la Camerata Ambrosiana (anni „50), l‟Associazione Loggionisti Scala (LoSca-
1964) o la più tarda Associazione Amici del Loggione (1973 e tuttora attiva), incoraggiata da
Grassi, al tempo sovrintendente della Scala, il quale si impegnò a trovare dei locali da mettere a
disposizione del nuovo organismo.
Tra le motivazioni che spinsero il sovrintendente ad incoraggiare questo tipo di associazione vi era
la volontà di limitarne le manifestazioni più accese e tenere sotto controllo questa parte di pubblico
„folkloristica‟. In realtà, alla Scala come altrove, i tentativi di controllo del pubblico per il
mantenimento delle barriere di classe o il controllo politico vero e proprio non erano una novità del
XX secolo: contrariamente al passato, i loggionisti non minavano più il gusto letterario dell‟élite
intellettuale, ma anzi operavano un rafforzamento dei comportamenti di ascolto dell‟intero pubblico.
È questo il sintomo della formazione di una “competenza collettiva” che guidasse i frequentatori
meno esperti: lo stesso Grassi mostrò sempre un gran rispetto per il ruolo educativo del pubblico di
questo settore e per questo si adoperò per la sua istituzionalizzazione e per la sua partecipazione
attiva alle attività del teatro (es. incontri con critici e registi).

I membri dell‟Associazione avevano dei posti riservati in galleria, ma, poiché avevano anche
l‟obbligo di acquisto di una certa quantità di biglietti, la dirigenza della Scala riuscì sempre a
garantire un flusso costante di spettatori anche negli spettacoli di minor successo.
Anche le attività divulgative e culturali promosse dall‟Associazione contribuivano positivamente
all‟immagine della Scala: in cambio, i loggionisti ottenevano prestigio e un riconoscimento della
propria identità e tradizione. Dal punto di vista dello spazio fisico, però, per lungo tempo non vi
furono miglioramenti sostanziali nella vivibilità delle gallerie: nonostante il problema del
sovraffollamento fosse noto da tempo, fu sostanzialmente per motivi economici (proventi derivanti
dalla vendita di questi biglietti) che la situazione restò pressoché la stessa anche nella seconda metà
del Novecento.
Fu a partire da un tragico incendio avvenuto nel 1983 al cinema Statuto di Torino, in cui morirono
64 persone, che avvenne una revisione delle norme di sicurezza e dei posti disponibili
(provvedimenti: aggiunta di scale antincendio, ringhiere). Un momento critico è stato rappresentato
dall‟eliminazione dei posti in piedi, essenza e tradizione del loggione, sostituiti nel 2000 da 139
posti a sedere, i cui biglietti vengono tutt‟ora venduti la sera stessa dello spettacolo nelle biglietterie
con la tradizionale coda all‟esterno del teatro.
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Conclusioni

Si è dunque visto come la parabola del loggione della Scala rifletta l‟inesorabile corso della storia.
Il loggione ha risentito dei mutamenti della politica culturale della dirigenza scaligera, ma la
resistenza scaturita dall‟ipotesi di annullamento delle code per l‟acquisto dei biglietti ha messo in
luce gli elementi di continuità rispetto al passato: i loggionisti si sono da sempre resi interpreti del
mito del popolare, rendendo le gallerie della Scala un luogo senza tempo.
Questo senso di isolamento temporale pone, a sua volta, il loggione in un rapporto ambiguo nei
confronti della società dei consumi a cui il miracolo economico italiano avrebbe dato forma: da un
lato, l‟attaccamento agli antichi rituali sociali o la preferenza per i titoli consolidati giocano un ruolo
cruciale nella trascendenza spirituale dell‟appassionato d‟opera; dall‟altro, sono però il sintomo di
un atteggiamento nostalgico di quella presunta cultura popolare, a cui il consumismo urbano di
massa sembrava aver posto fine.
La progressiva cristallizzazione del repertorio era in linea con l‟esigenza di creare prodotti artistici
facilmente riconoscibili e intaccabili sotto il profilo estetico: l‟opera divenne un midcult, un
prodotto commerciale di massa.
L‟esistenza stessa del loggione e il suo legame con il mito del popolare hanno conferito prestigio
alla Scala e dato rilevanza al ruolo economico svolto dai suoi frequentatori, che hanno fatto sì che si
creasse un canone operistico riconoscibile e pubblicizzabile.
Qualcuno sostiene da tempo che il ruolo culturale dei loggionisti sia ormai concluso (il canone è
fissato, la Scala ha prestigio culturale a livello mondiale), ma la loro storia – e le presunte radici
popolati della Scala –, la loro “leggenda” sono a oggi ancora un mito.

*****

LUOGHI ARMENI, SPAZI MILANESI


Ortensia Giovannini
In questo saggio viene analizzato uno specifico evento della comunità armena di Milano: il
Vartanants, ricorrenza annuale che celebra la difesa della religione cristiana da parte degli armeni
contro i persiani e il paganesimo.
La musica, nell‟ambito di questo evento, è in grado di superare limiti di spazio e tempo per
ricostruire e ribadire “l‟armenità”. La musica è fondamentale per creare ed esprimere la propria vita
interiore e per informare il nostro senso del luogo, ambiente fisico di un‟attività sociale situata
geograficamente. È chiaro, però, quanto nell‟epoca postmoderna ci sia una separazione dello spazio
dal luogo o dal contesto originario.
Luogo, confine e identità sono quindi concetti fluidi, la cui forma è continuamente ridefinita tramite
un processo di riimpianto in cui la musica ha un ruolo fondamentale come rievocatrice di memorie
collettive ed esperienze legate al luogo.
Gli armeni Hayner sono un popolo originario del Caucaso che per secoli ha vissuto in Anatolia e le
cui origini sono lontane e mai completamente ricostruite.
Tre sono i capisaldi nella loro identità:
1) l‟alfabeto inventato da Mesrop Mashtots;
2) la religione cristiana;
3) il genocidio del 1915 voluto dai Giovani Turchi in Anatolia.

Questi elementi legano fortemente questa popolazione. Conseguenza del genocidio fu la diaspora
verso USA e Europa che rappresenta un trauma e il sogno di una patria in cui non si può vivere.
Oggi, con il termine diaspora, si intende qualsiasi comunità lontana dal paese d‟origine che esprima
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una rivendicazione identitaria, mentre i fenomeni di diaspora che connettono comunità multiple di
una popolazione diversa vengono riconosciuti come variante della prospettiva transnazionalista.
Il transimigrante di origine armena è colui che da un lato conserva e lavora per il proprio paese
d‟origine, dall‟altro costruisce legami nel paese di destinazione.
La comunità armena milanese è molto più ridotta a quelle presenti in Francia e USA: parliamo di
circa 300/400 persone giunte in Italia dopo il genocidio del 1915 e dei figli e nipoti, che sono
armeni d‟origine ma cresciuti in Italia. Una peculiarità è il fatto che gli immigrati in Italia avevano
già dei riferimenti sul territorio e, perlopiù, per ragioni di studio o di affari.
Luoghi d‟incontro e di alloggi per questi giovani arrivati furono l‟Istituto Cardinal Ferrari e,
successivamente, la sede in Viale Umbria 62.
Nel 1946, fu istituita l‟Unione culturale armena d‟Italia, che prevedeva incontri in cui si
leggevano i grandi della letteratura armena o si faceva musica celebrando le festività armene, ma
questi momenti erano situati in luoghi sempre diversi. Fu per questo che cominciò a nascere
l‟esigenza di una casa: la sede fu piazza Velasca, con l‟idea di conservarvi storia e tradizioni, anche
per i più giovani.
Tutti contribuirono, autotassandosi, al mantenimento della casa, cui era legata l‟associazione Casa
armena, mentre la Chiesa sarà costruita nel 1958 in zona Lambrate. Con la progressiva perdita di
coloro che erano stati testimoni del genocidio, gli eventi cominciano poi a divenire commemorativi.
Questo studio si rifà all‟epoca attuale, ossia al rapporto tra comunità armena e musica nella realtà
contemporanea, legata a esigenze diverse rispetto a quelle con cui la comunità era nata e fortemente
caratterizzata dal mantenimento di una cultura che sfocia nell‟insegnamento dell‟armeno e in altre
pratiche tradizionali, perpetrate soprattutto nella sede di piazza Velasca.

La festa di Vartanans commemora la battaglia contro i persiani per la libertà di religione ed è


legata al genocidio del 1915, anche se siamo ad Avarayr nel 451 d.C.
La pratica musicale costruisce il senso identitario attraverso le esperienze dirette che offre del corpo,
del tempo e della socialità: essa parla dei luoghi dell‟essere e del divenire e collega un presente di
assenza di luogo a un passato e a un futuro in cui uno spazio può essere pensato come reale.
L‟esperienza citata, la cui commemorazione avviene annualmente nella comunità armena, permette
di sostenere e assicurare continuità a una rappresentazione condivisa del sé collettivo, quindi
dell‟identità di gruppo: la musica consente quindi agli armeni di erigere barriere tra sé e gli altri.
Questo aspetto è fondamentale per le comunità in diaspora, le quali devono coniugare la “doppia
coscienza” legata al paese di provenienza e a quello ospitante.

Vediamo ora la struttura del Vartanans: si ascolta un‟introduzione del presidente della comunità,
poi si svolge il concerto vero e proprio e, infine, si gustano cibi e specialità armene.
I musicisti che gestiscono il lato musicale della cerimonia cambiano ogni anno a seconda della
disponibilità e anche gli oratori sono vari e rileggono in modo diverso un fatto storico che è
sostanzialmente sempre lo stesso: il concetto di base è che ogni giorno è Vartanans, ogni giorno
bisogna combattere per non perdersi. La musica accompagna questa fierezza di unione e questa
volontà di rimanere uniti, della quale l‟autrice del saggio discute con alcune persone interne alla
comunità.
Ci si focalizza su un brano in particolare, ossia Lrets Amber, composto e musicato da due grandi
artisti armeni: in esso si richiamano elementi della natura e del cielo, nonché aspetti importanti della
patria, ricordata con tristezza e nostalgia nella condizione dell‟esule, che trae conforto dal ricordo
ma soffre per la lontananza. Ani è la soprano professionista che interpreta questo testo in modo
molto significativo, lasciando trapelare la solitudine e l‟eterna attesa dell‟esule in tutte le quattro
parti, delle quali la cantante propone diverse letture e modalità interpretative.
L‟ascolto del brano porta a un forte auto-riconoscimento, poiché esso è considerato un testo
tradizionale che rende possibile percorrere il mondo da un punto di vista musicale, e lo spazio
culturale da esso ricostruito risponde al sistema di metafora spaziale e temporale: la musica
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tradizionale ha infatti l‟importantissima capacità di raccontare storie. Il rapporto tra gli armeni di
Milano e la musica è soprattutto quello tra loro e l‟esecuzione di musica classica: in realtà la
comunità milanese è poco avvezza alla musica tradizionale ed è abituata ad autorappresentarsi
attraverso la cultura “classica” occidentale in una sorta di genere musicale armeno “riattualizzato”.
Lrets Amber, i brani lirici e la struttura della serata sono una conferma che dà rilassatezza al gruppo,
che ascolta gli interpreti reinterpretare qualcosa che unisce la comunità. Tutto questo rappresenta
anche un modo, per il gruppo, di lasciare un segno proprio in un contesto altro, ovvero quello
milanese, in un certo senso idealizzando la propria cultura e utilizzando la musica per sentire e
rafforzare il senso di coesione. L‟autrice riconosce, infine, che le migrazioni umane hanno
profondamente rinnovato il rapporto tra musica e spazio e che l‟evento musicale organizza con
grande forza e identità le esperienze collettive: la musica crea e rafforza l‟armenità e richiama
luoghi armeni “immaginati” in spazi milanesi.

*****

MILANO KLANDESTINA:
SENSO DEI LUOGHI E FORME DI SOCIALITÀ DI UNA CITTÀ CHE DANZA
Valentina Becarini

Milano è una città che non inventa più nulla

Perché Milano è una città che non inventa più nulla? Con questa frase gli anziani ballerini di liscio
ambrosiano sottolineavano le differenze tra la Milano di una volta e la metropoli di oggi.
Infatti, nel secondo dopoguerra, Milano era una città vivace sotto il profilo della produzione
musicale ed era affamata anche di occasioni per ballare. Oggi, invece, non è più così: Milano è una
metropoli indaffarata, vittima del consumismo e del capitalismo, una città incapace di dar vita a
fenomeni artistici originali, come per esempio il ballo liscio ambrosiano o la canzone milanese.
L‟autrice cerca, dunque, di smascherare questo luogo comune e di capire se queste credenze su
Milano siano vere.
L‟autrice approfondisce il fenomeno della mazurka clandestina, nata a Milano nel 2008. Un
fenomeno ispirato dal tango illegal e creato da un gruppo di ballerini appassionati di danze popolari
francesi. Questi ballerini si ritrovano in Piazza Affari per ballare tutta la notte e si dedicano alla
mazurka.
La mazurka ha origini incerte e ha subito delle profonde metamorfosi a livello musicale e coreutico.
Rispetto alle altre danze, la mazurka è al di fuori degli schemi, poiché permette anche di
improvvisare. La mazurka, dunque, diventa una danza che assomiglia molto al tango argentino,
eppure, rispetto a questo, è più semplice da imparare.
La comunità milanese si estende, grazie anche ai Social network, comprendendo altre città come
Bergamo, Torino, Venezia, Padova, etc.

Perché si chiama mazurka clandestina? Questo nome fa riferimento al genere di danza praticato
dalla comunità e, in secondo luogo, all‟occupazione clandestina degli spazi pubblici. Infatti, le
autorità non concedono alcuna autorizzazione per ritrovarsi in luogo pubblico.
L‟autrice è dunque entrata a far parte della mazurka clandestina come danzatrice, immergendosi in
una realtà fino a quel momento per lei sconosciuta. Il corpo è diventato quindi oggetto e soggetto di
conoscenza.
Il gruppo della mazurka clandestina si è costituito anche grazie ai social. Durante il ballo, si parla
poco, al contrario del gruppo creato su Facebook, in cui si discute molto.

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Oggi, dunque, si può parlare di mazurka klandestina 2.0, poiché se all‟inizio, dopo il primo anno,
gli iscritti si aggiravano su un centinaio, ora gli iscritti sono addirittura 8 mila. È chiaro che gli
scritti virtuali non corrispondano agli iscritti reali.
Tuttavia l‟autrice si domanda come raccogliere dati e che cosa osservare di questo fenomeno.
L‟autrice ha iniziato la propria ricerca attraverso un rito di iniziazione verso l‟habitus clandestino e
si è abbandonata alla necessità di ballare, partecipando a quasi tutti gli eventi proposti dal gruppo
sul territorio nazionale. Tutto questo ha permesso di cogliere, da un lato, la vocazione itinerante del
gruppo e, in secondo luogo, di portare alla luce i tratti comuni e le peculiarità dei vari contesti
geografici in cui il fenomeno mazurka clandestina si declina.
La seconda fase della ricerca ha portato l‟autrice alla rielaborazione teorica. In questo senso si è
concentrata su Milano, ha continuato a frequentare gli incontri danzanti e ha raccolto, infine, la
maggior parte delle interviste.
Il fenomeno della mazurka clandestina ha portato l‟autrice a fare un monitoraggio quotidiano del
gruppo Facebook nazionale e di alcuni gruppi spin-off.
Si tratta di una etnografia virtuale, molto diversa dal modo in cui l‟autrice ha affrontato il campo
classico. Infatti l‟autrice ha partecipato di persona alle performance coreutiche, mentre nei gruppi
Facebook si è dimostrata più distaccata e si è limitata a osservare le discussioni degli altri utenti
senza interagire con loro.

Tre forme diverse di riappropriazione

L‟autrice è stata colpita molto soprattutto per l‟interesse mostrato dalla mazurka clandestina A
proposito della questione della riappropriazione degli spazi pubblici, questo è un tema ricorrente nei
dibattiti degli studi urbani contemporanei. Nemmeno l‟antropologia l‟ha trascurato e anzi ha
mostrato di avere una certa voce in capitolo.
Nonostante sembrino morti, gli spazi pubblici oggi sono più vivi che mai.
Ecco qualche esempio: certi movimenti politici, le primavere arabe, il flash mob, le pratiche di riuso
degli spazi urbani che sono considerati i vuoti, ovvero i cosiddetti vuoti urbani.

La mazurka clandestina rientra quindi in questa tendenza. In sostanza, si riprende l‟idea che non
occorra spendere per stare insieme e per divertirsi, ma è sufficiente un appuntamento in piazza. E
quindi le riunioni, i raduni spontanei di colori che ballano la mazurka sono l‟espressione del
desiderio di restituire alla piazza un‟antica funzione di Agorà.
La mazurka clandestina comprende anche altre forme di riappropriazione. Per esempio il potenziale
comunicativo e conoscitivo del corpo e delle emozioni, un potenziale che permette di aprire un
nuovo orizzonte di indagine sul rapporto tra gli spazi pubblici e gli spazi privati, nonché da quelli
personali intimi. Infatti i partecipanti della mazurka clandestina non si limitavano a rivendicare il
proprio diritto di fruire degli spazi pubblici in piazza ma esprimono questo diritto anche in modo
sensuale, oltrepassando la cosiddetta distanza intima.
Nel ballo, la vicinanza è inevitabile: eppure, nel caso della mazurka clandestina, l‟intensità intima
del ballo si consuma in un luogo pubblico e si materializza attraverso ritrovi spontanei e momenti
ricreativi non formalizzati.
Questo grande bisogno di contatto fisico è un paradosso dell‟età digitale: dimostrazione sono il
grandissimo numero di centri per massaggio o discipline come l‟Acro Yoga.
Si tratta però soltanto di un paradosso apparente. Infatti, come ha sottolineato Lanier, tutto sembra a
portata di tocco, tranne proprio le persone in carne e ossa. Tant‟è che, quando vediamo sconosciuti
in metropolitana, è inevitabile provare una certa sensazione di disagio. Questo vale per tutte le
grandi città, non soltanto per Milano, che è comunque la città fredda e frenetica per antonomasia.
Ecco che, però, la mazurka clandestina, che ha nel contatto fisico una delle sue prerogative, ha
trovato, paradossalmente, i natali proprio a Milano, suo centro propulsore.
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Questa mazurka clandestina non è quella che ballavano i nostri nonni. Non è, in sostanza, una
mazurka tradizionale. C‟è da capire, però, che cosa si intenda per “tradizionale”.
Il ballo in piazza non può certo dirsi una novità, tanto diffuso com‟era nelle piazze principali del
paese, con l‟obiettivo di radunare la comunità in occasione delle feste e delle sagre.
La mazurka clandestina riporta il folk nel suo contesto più naturale di esecuzione e di fruizione,
vale a dire la strada. Portare qualcosa di popolare in città significa trasformarlo in qualcosa di
diverso. Si tratta di interpretare il repertorio musicale e coreutico popolare, per esempio attraverso
uno stile improvvisato, meno tecnico, capace però di portare entusiasmo e freschezza in un
ambiente tutto sommato elitario, e riuscendo inoltre ad avvicinare anche i giovani a questo genere di
danza.
C‟è però un altro aspetto da non trascurare, ovvero la differenza tra la mazurka clandestina e la
cultura popolare, laddove la cultura popolare è trattata proprio come un oggetto fragile che necessita
di politiche di tutela e di valorizzazione. Al contrario, la mazurka clandestina concepisce il popolare
come qualcosa di vivo e destinato a mutare nel corso del tempo.
L‟autrice raccoglie la testimonianza di un ballerino, il quale sottolinea quanto la mazurka
klandestina stia cambiando il mondo del folk. Tuttavia, il folk può essere vissuto sempre in modo
tradizionale: la mazurka clandestina però apre altre possibilità e quindi coinvolge anche altri
soggetti, anche i più scettici.

Piazze temporaneamente autonome

La mazurka clandestina si differenzia da altre forme di riappropriazione e di riuso per un elemento


fondamentale: la sua temporaneità.
Il concetto di temporaneità ha origine nel contesto della controcultura americana. In particolare, il
filosofo anarchico conosciuto come Hakim Bey ha formulato l‟idea di Zona Temporaneamente
Autonoma (TAZ). Secondo Bey, la TAZ è un‟operazione di guerriglia che si libera in aria e poi si
dissolve per riformarsi in un altro luogo. Esempi ne sono le installazioni artistiche degli Art Parking
o le performance ludiche dei Flash Mob.
La mazurka clandestina rientra in tutto ciò. In comune, queste esperienze detengono la
rivendicazione del valore positivo della temporaneità, contrapposto all‟idea di permanenza sottesa
alle grandi rivoluzioni storiche. E dunque, secondo Bey, questi momenti sono caratterizzati da
grande intensità, un‟intensità scaturibile solo da esperienze straordinarie.
In secondo luogo, questi sono accomunati anche dall‟aspirazione dei partecipanti a riappropriarsi
dal basso del proprio ruolo di soggetti attivi e di protagonisti in un contesto urbano.

Tornando al caso della mazurka clandestina, gli spazi pubblici sono stati scelti perché si vogliono
creare opportunità ricreative estive diverse da quelle organizzate dagli aspiranti manager del nostro
tempo libero. Infatti le piazze clandestine sono accessibili a chiunque e gratuitamente. Non ci sono
vertici all‟interno della comunità. Non esistono quindi gerarchie e questo, di conseguenza, permette
a tutti di prendere iniziative.
Di solito la mazurka clandestina inizia attorno alle 11 di sera e si conclude il giorno dopo, la mattina
presto. Come si è già detto, tutto ha avuto inizio a Piazza Affari. Ma la mazurka clandestina è stata
organizzata anche a Piazza Città della Regione Lombardia, a partire dal 2010, e anche nella Galleria
Vittorio Emanuele.
Anche la stampa si è dedicata a questo fenomeno. Per esempio è stato pubblicato un articolo da
Francesco Prisco sul “Sole 24 Ore”. Prisco ha definito la mazurka clandestina l‟ultima frontiera
della protesta musicale, paragonandola alla rivolta della break dance esplosa nella Harlem di inizio
anni „80. Prisco ha detto che la pratica della mazurka può essere definita come un ballare come se lo
Stato non ci fosse.
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Ecco che qui bisognerebbe riflettere sulla connotazione politica del termine “clandestino”,
comprendente una forte accezione di qualcosa che è vietato dalle autorità. Tuttavia, è vero che la
mazurka non richiede il permesso alle autorità per occupare il suolo pubblico, però non si tratta di
una posizione frontale antisistema. In sostanza non si vuole infrangere la legge.
Dal punto di vista legale, bisogna capire come definire i ritrovi clandestini di mazurka. Potrebbe
trattarsi di spettacoli di intrattenimento che prevedono attività danzanti, o semplicemente
assembramenti e manifestazioni in luogo pubblico.
Per rispettare la legge, bisognerebbe seguire i seguenti step:
1) avvertimento della Questura;
2) richiesta al Comune dell‟autorizzazione per l‟occupazione temporanea di suolo pubblico. Nel
caso di ritrovi danzanti, è necessaria anche l‟autorizzazione del Questore.

La clandestinità di questi ritrovi danzanti è quindi effettiva. Eppure, poiché non ci sono
organizzatori ufficiali e le mazurke sono estemporanee, non essendoci violazioni del Codice Penale
da parte dei singoli o della collettività (es. disturbo della quiete pubblica, schiamazzi notturni
eccetera), non si può parlare di trasgressione della legge.
Se ci fossero delle trasgressioni, sarebbero i diretti responsabili a pagarne le conseguenze. Sono
quindi gli agenti stessi a scegliere se intervenire. Per esempio, a Milano la polizia è intervenuta
perché gli abitanti della zona si sono lamentati per l‟alto volume della musica.
Tutto questo, però, ci fa capire che i ballerini non vogliono contrapporsi alle istituzioni, che non
sono quindi loro antagonisti.

Klandestini in casa propria

Secondo i clandestini, la piazza è come la loro casa. Lo è in modo temporaneo e funzionale al


desiderio di ballare.
Quali sono gli elementi che connotano la piazza come casa? Lo sono, per esempio, i tavolini per il
PC o per le vivande; lo sono anche eventuali elementi architettonici o di design presenti in loco di
cui i ballerini della mazurka clandestina si appropriano in modo del tutto creativo. Il tutto però
sempre nel rispetto dello spazio pubblico, onde evitare di infrangere la legge.

Vivere la piazza è il frutto di un lungo percorso non sempre costellato da esperienze positive.
Per esempio in Piazza Città della Regione lombardia, durante una delle prime mazurke clandestine,
i superstiti del mattino si sono ritrovati di fronte a una piazza tutta piena di bicchieri e di bottiglie
abbandonate, cartacce e mozziconi di sigarette. A quel punto, è intervenuto uno dei fondatori delle
mazurke clandestine, che ha sottolineato quanto sia importante riappropriarsi degli spazi pubblici
ma allo stesso tempo prendersene cura e quindi assicurarsi che tutto sia pulito, nel momento in cui
la mazurka è terminata.
Le mazurke clandestine sono aperte anche a chi non sa ballare. Tutti, in questo senso, possono
partecipare alle mazurke, anche un passante, messo nelle condizioni di poter varcare in qualunque
momento le soglie della pista da ballo. Ecco che, di conseguenza, potremmo dire che le mazurke
clandestine sono aperte anche alla soglia dei non-iniziati.
In conclusione, le mazurke clandestine sono un tentativo di restituire alle danze popolari quella
funzione inclusiva e aggregante che ricoprivano nei contesti tradizionali.
La mazurka clandestina porta con sé un‟etica di semplici e atavici valori, nati nelle piazze, nei
villaggi, nei prati, valori che si passano sempre nei medesimi luoghi attraverso la musica,
nell‟interpretazione di una danza, nei rapporti interpersonali.

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«MILANO DA PERE»:
L‟ESPERIENZA DEL CENTRO SOCIALE VIRUS NEGLI ANNI 80
Francesco Fusaro

Il titolo del saggio associa lo slogan “Milano da bere” con il centro sociale Virus, culla del
movimento Punk.
Alla fine degli anni di piombo, Milano si ritrova a essere il simbolo di un‟Italia in pieno delirio da
“sabato del villaggio”. Il 1980 rappresenta il suo culmine ma allo stesso tempo l‟inizio del suo
declino. Nel 1977, c‟erano state le lotte studentesche operaie che solo tre anni dopo sembrano
scomparsi dall‟orizzonte culturale del paese.
Il clima non era dei più sereni visto il disperato bisogno di fuggire da una cultura lugubre
caratterizzata anche da un alto numero di suicidi e di morti per eroina. Tutto questo coinvolge anche
Milano, città segnata dal terrorismo sia di destra sia di sinistra. Ora non ci sono più le scritte contro
le BR ma contro i terroni e intanto Milano diventa anche una città che attira l‟interesse delle
associazioni malavitose.
In questo contesto politico, sociale e culturale si creano nuove forme di aggregazione giovanile che
hanno come punto di riferimento il mondo anglosassone. Si tratta però soltanto di spunti poiché le
pratiche poi diventano autoctone.
Per comprendere tutte le esperienze sociali, culturali, musicali, estetiche e politiche, è fondamentale
guardare il volume Lumi di punk, una collezione di testimonianze raccolte da Marco Philopat,
protagonista del Punk Milanese come fondatore del centro Virus.
Philopat è una voce preziosa per comprendere il ruolo di Milano nel più ampio contesto di un paese
che andava verso un cambiamento definitivo. L‟autore del saggio ha quindi raccolto proprio la
testimonianza di Philopat durante una conversazione risalente al febbraio 2015.
Secondo Helena Velena (cantante, produttrice e scrittrice), il punk non è soltanto un genere
musicale bensì una controcultura che lavora sulla negazione, capace di negare la logica della merce
e proponendo una visione artistica, emozionale, personale e politica della vita.
Questa premessa aiuta a comprendere quelli che sono i tratti dell‟identità del punk in Italia.
Dunque, dopo una prima fase embrionale, il punk diventa collettore di istanze artistiche e politiche
precedenti ma è allo stesso tempo lanciato verso esperienze future. Il punk nasce dal fermento di
una nuova trasformazione, di un nuovo processo di opposizione all‟esistente illusorio che
sperimenta ancora la voglia di non accettare l‟omologazione dominante e il conformismo.

In Inghilterra, il punk era diventato subito una costellazione conosciuta come post-punk. L‟Italia si
avvicina a questa tendenza. Il terreno fertile viene preparato grazie all‟esperienza di una serie di
gruppi musicali, operanti soprattutto a Bologna e a Milano (es. Gaznevada e Skiantos).
Questi gruppi sono caratterizzati da uno stile già intrinsecamente punk che aveva attirato
l‟attenzione di alcuni gruppi giovanili, soprattutto delle periferie. Siamo nel biennio „77-‟78.
L‟adesione al movimento punk avviene attraverso la televisione, per esempio da un programma di
Renzo Arbore. Ci sono però anche le riviste come “Re Nudo” e “Gong”, che pubblicano interessanti
reportage. Queste riviste costituiscono un importante momento di contatto con il fenomeno punk
d‟oltremanica.
I giovani italiani cercano risposte e si ispirano all‟aria inglese. È in tal senso che riprendono il
famoso slogan dei punk “No future”, capace di rappresentare anche quello che stava accadendo nel
movimento in Italia (per esempio il caso Moro, il consumo dilagante di droghe pesanti).
Tutto faceva pensare proprio a quel “No future”. Mancano infatti gli orizzonti a cui tendere ma
mancano anche gli spazi per una nuova generazione che veniva dalle periferie e che si trovava di
fronte a uno scenario economico nuovo.

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La seconda spinta importante per la scena Punk italiana nasceva dall‟esigenza di


sprovincializzazione. All‟epoca non c‟erano progetti Erasmus e quindi si poteva andare all‟estero
soltanto se si era facoltosi, in autostop o con l‟InterRail per studenti. È in questo modo che il punk
di Bologna, di Milano e di Torino entra in contatto con l‟Europa. L‟adesione al gruppo si esprime
attraverso lo stesso modo di vestirsi ed è allo stesso tempo elemento distintivo dalla società
dominante. È il cosiddetto look “brutto, sporco e cattivo”.
Le caratteristiche del punk in senso musicale sono due:
1) la sua orizzontalità, per cui si rifiuta il ruolo di idolo da palcoscenico e si aboliscono le barriere
tra chi suona e chi ascolta;
2) la sua fisicità, poiché conta l‟energia, conta esserci con il proprio vissuto e con il proprio corpo,
per esempio sfogandosi sui tamburi.

La musica era per i punk la cosa più importante, la linfa vitale iniziale. Questo atteggiamento
permette al Punk italiano di trovare un riscontro politico nell‟area anarchica del movimento.
Il Punk italiano è attratto soprattutto dall‟aspetto improvvisato e dilettantesco della musica
anglosassone, ben lontano dal professionismo dei cantautori.
Philopat racconta che in via Torino i punk milanesi si trovavano davanti al negozio di dischi New
Kary, vicino Piazza Duomo. Questi sono i primi passi nel centro sociale Virus.
Ma i Punk sentono il bisogno di costruire una propria realtà indipendente, per questo ricercano un
luogo adatto. Il primo passo è l‟utilizzo di uno spazio in disuso per proposte artistiche
d‟avanguardia come il Vidicon, il capannone di una ex fabbrica di prodotti per neonati, la Mellin.
Nel centro sociale Virus confluivano italiani e stranieri provenienti sia dalle periferie sia dalle
province. La sede di Virus era via Correggio.
Ma c‟era anche chi non vedeva bene gli occupanti, tant‟è che, nel 1981, la proprietà vuole
riprendersi parte dell‟area retrostante, corrispondente a metà degli uffici e al capannone dove
intanto era iniziata l‟attività del Virus.

La seconda fase del centro sociale Virus si sviluppa tra il 1982 e il 1984 in una palazzina che
consisteva in una serie di uffici e in una sorta di capannone più piccolo.
Nell‟aprile dell‟82, al Virus arrivano le forze dell‟ordine, richiamate dal vicinato. Il Virus era
diventato un problema di ordine pubblico, nonostante le molte attività svolte per rispondere in
maniera concreta a quella situazione di disagio sociale che traspare nei racconti dei punk di quel
periodo.
Ecco quindi una profonda differenza tra il punk anglosassone e quello italiano. Per esempio, Sid
Vicious, il cantante dei Sex Pistols, morì di overdose nel 1979. E quindi il gruppo virus si
distingueva per uno stile di vita più attento e consapevole.
All‟interno del gruppo Punk, i più giovani consumavano alcol, colla, cannabis e anfetamine e c‟era
chi faceva attenzione al sesso consapevole e al vegetarianesimo. Per esempio, i crassiani (dal
gruppo inglese Crass) erano pacifisti, vegetariani e consumavano un poco alcol e poca cannabis.
A proposito dell‟impegno politico del gruppo Virus, Philopat racconta che i Punk erano impegnati
su tutti i fronti: dalle lotte antimilitariste al supporto dimostrato ai minatori inglesi, dalla già citata
attività contro l‟eroina a quella contro le derive fasciste e alcuni gruppi di skinhead. C‟era anche
una libreria interna, la Virus Diffusione, con materiale autoprodotto.

Nell‟aprile 1984, a Milano si tiene una conferenza intitolata “Le bande giovanili: una realtà nella
Metropoli degli anni 80”. Si trattava di uno studio da parte di un gruppo di sociologi sulle bande
giovanili milanesi. E quindi i punk di Virus si introdussero alla conferenza stampa di presentazione
della ricerca tagliandosi con delle lamette per sporcare di sangue i volantini da consegnare ai
sociologi. Su questi volantini c‟era una frase provocatoria: «Per conoscere i veri bisogni Questo è il
nostro sangue, analizzatelo».

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In seguito a questo episodio, ci fu l‟occupazione del teatro di Porta Romana, durata tre giorni, per
impedire la presentazione della ricerca. Un‟altra occupazione fu quella del teatro sfitto in zona San
Siro, il Teatro Miele. Ma in quest‟ultimo caso l‟occupazione non durò nemmeno 12 ore a causa
dello sgombro immediato.
Tutto questo aveva portato a una sorta di timore da parte del mondo politico che si potesse tornare
nel clima degli anni di piombo, tant‟è che lo sgombero definitivo avvenne il 15 maggio 1984.
Il gruppo virus si trasferì a Leonkavallo con tutto l‟impianto audio, inaugurando un legame
importante tra movimento e iniziative di carattere musicale. Per finanziare le lotte politiche dei
centri sociali si organizzavano dei live acustici. Dunque si può pensare anche che l‟esperienza breve
di Virus sia stata fondamentale per far germogliare successivamente i centri sociali in Italia.
Secondo Philopat, il centro sociale sarebbe un luogo dove creare cultura autoprodotta dal basso,
proporre stile di vita non stereotipati per ottenere il massimo impatto sulla città. Tutto questo per
creare una rivoluzione futura e per renderla quotidiana.
In conclusione, la “Milano da bere” era diventata, grazie all‟esperienza dei Punk, una “Milano da
pere”, come si legge provocatoriamente su alcuni muri di Milano negli anni „80 in uno stencil che
rappresentava la facciata del Duomo composta da siringhe di diversa misura.

*****

DAL TEATRO ALLA CHIESA.


SPAZI MILANESI NELLA PERFORMANCE DELLA POLIFONICA AMBROSIANA
Cecilia Malatesta
Il saggio affronta lo sviluppo della Polifonica Ambrosiana e cerca di comprendere in che modo le
sue peculiarità si siano adattate nel corso degli anni.
Per prima cosa si ripercorre la storia: il primo nucleo corale viene fondato nel 1929 dal sacerdote
Giuseppe Biella. Dopo gli studi di canto gregoriano e ambrosiano, nel 1947 Biella viene trasferito
presso la parrocchia di San Babila: qui fonda il Coro o orchestra del Centro Culturale, compagine
che, quattro anni dopo, diverrà la Polifonica Ambrosiana.
Dopo la morte di Biella e alcuni momenti di crisi finanziarie, la compagnia viene rifondata sotto il
nome di Nuova Polifonica Ambrosiana sotto la direzione dell‟organista Gianfranco Spinelli.
La Polifonica, nel secondo dopoguerra, permea gli spazi culturali devastati: la cultura diviene uno
dei nuclei promotori della ripresa economica.
La Polifonica partecipa agli eventi dell‟Estate Milanese, un Ente che aveva la consuetudine,
ereditata dalla Scala, di dislocare concerti e rappresentazioni teatrali negli spazi all‟aperto.
Nell‟estate del 1961, la Polifonica Ambrosiana, al fine di valorizzare le maggiori sedi storiche e
monumentali cittadini, partecipa alla rassegna con quattro appuntamenti: lo spazio è l‟atrio di
Ansperto, il quadriportico antistante l‟ingresso della basilica di Sant‟Ambrogio.
Uno dei quattro spettacoli teatrali è una composizione di laude drammatiche dal titolo Tornate a
Cristo, con paura. La sonorizzazione ricrea l‟atmosfera medievale in uno spazio democratico ed
egualitario in cui si annientano le differenze sociali, parallelamente alla lauda che viene illustrata
del Ricco e del Povero.
Biella rientrava in un ricco contesto culturale: ad esempio l‟elogio in apertura del concerto a lui
dedicato, dopo la morte, fu ad opera dello scrittore Riccardo Bacchelli, autore del monumentale
romanzo storico Il mulino del Po.
Dopo la morte di Biella, come detto, la fondazione trova la sua identità attorno alla figura di
Spinelli. Successivamente passa in mano al soprano Luciana Ticinelli Fattori. A causa
dell‟inesperienza del loro nuovo direttore creativo, la fondazione vive “di rendita” riproponendo i
programmi passati senza valorizzare gli antichi capolavori, una delle linee guida storiche della
Polifonica.
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Il profilo del gruppo è sempre stato amatoriale: questa sua natura ha sempre esercitato un
meccanismo sia identitario che di salvaguardia dell‟operato ma ha avuto anche un risvolto sul piano
musicale.
L‟amatorialità è caratteristica diffusa tra i gruppi di musica antica nei paesi dove ha avuto più
successo (ad esempio Stati Uniti ed Inghilterra); in particolar modo, nel mondo angloamericano.

*****

LA MAYDAY PARADE:
RI-PENSARE IL PAESAGGIO SONORO URBANO
ATTRAVERSO PRATICHE PERFORMATIVE E SOUND SYSTEM
Tommaso Turolla

Turolla riprende e riformula una parte di un elaborato più lungo intorno a pratiche festive
performative del contesto milanese, ad esempio la parata del MayDay.
L‟autore si è trovato durante la manifestazione del 1° maggio 2014. In azioni collettive, come la
parata del 1° Maggio, si assiste a un‟intensificazione di carattere relazionale e partecipato della
soggettività individuale. Per interpretare profondamente questo fenomeno, è necessario muovere da
posizioni epistemologiche che rompano il noto dualismo cartesiano: questo significa analizzare il
corpo non come oggetto, ma come soggetto che esperisce, non come qualcosa che “si ha” ma
piuttosto qualcosa che “si è”, un essere nel mondo. Il corpo si proietta e si frammenta tra corpi
molteplici, non solo esseri umani ma anche animali, dispositivi elettronici, social network, strumenti
musicali, o, semplicemente, oggetti del nostro mondo.
Si vuole indagare l‟analisi del concetto di paesaggio sonoro, introdotto negli anni „70 dal
compositore Raymond Muray Schafer, che valuta il paesaggio non più solo come fatto visuale, ma
anche nel suo aspetto sonoro, in controtendenza all‟oculocentrismo occidentale e quindi alla
mancata preoccupazione verso la natura sonora del mondo in cui viviamo.
L‟approccio di Schafer ha però un limite: attribuisce all‟ambiente sonoro una valenza strettamente
ecologica, escludendo macchine e tecnologie umane, viste dall‟antropologo come produttrici di
inquinamento acustico, come dei rumori.
Il contesto urbano indagato nel saggio è ritratto come un flusso sonoro incessante in cui tutti gli stili
si uniformano e in cui nessuno ascolta (una dissipazione sonora).
Il paesaggio sonoro è il paesaggio lo-fi o di bassa fedeltà per eccellenza, in cui il nostro spettro
percettivo si trova inondato da miriadi di suoni disturbati, senza gerarchia alcuna.

Murray Schafer critica le tecnologie di registrazione di riproduzione del suono, poiché lo


decontestualizzano dallo spazio e dal tempo in cui è situata la fonte originale che l‟ha originata.
Il “qui ed ora” dell‟evento sonoro si frammenta nei molteplici e alienati “qui ed ora” della società
mediatizzata: Murray parla di schizofonia.
Steven Feld ha proposto un diverso approccio epistemologico, che ha voluto chiamare
acustemologia, un approccio che intende investigare suono e ascolto come forme di conoscenza in
azione, con e attraverso l‟udibile che connette specie, umani, animali e dispositivi tecnologici.
In questo senso l‟acustamologia porta con sé l‟ambiguità dei suoni della sonorità.
Nel modello teorico di Feld, il suono è concepito come percezione attraverso cui conosciamo il
mondo e costruiamo le nostre relazioni sociali. Non è un evento fisico che sta là fuori, ma che esiste
sempre intrecciato all‟esperienza. La sonorità sottolinea la corporeità delle percezioni sensoriali (il
ritmo che ti fa ballare); da qui la necessità di implementare nuove pratiche etnografiche che tengano
conto di tecniche di registrazione al fine di restituire una più forte esperienza sensoriale al fruitore,
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avvicinandoli alla dimensione partecipativa ed emozionale dell‟evento (vedi soundscape


composition).

Come suona il Primo Maggio di Milano?

La prima edizione della MyDay Parade risale al 1° maggio 2001. Non c‟è una vera istituzione che
controlla la manifestazione e questo consente una libera creatività dell‟evento.
Questa manifestazione si è opposta alla tradizionale Festa del Lavoro organizzata dalle sigle
sindacali.
Le due manifestazioni si dividono la giornata: mattino alla seconda e pomeriggio alla MayDay
Parade. Inoltre, si dispiegano quasi specularmente sulla mappa, mantenendo Piazza del Duomo
come perno geografico e simbolico. Entrambe, infine, pongono le loro motivazioni su sentimenti di
disagio sociale, sebbene più radicali nel caso della MayDay.
La mancanza a Milano di un concerto come quello di Roma
è solo uno dei motivi che spiega la bassa adesione della città
alla Festa del Lavoro dei sindacati. Il corteo mattutino ha
un‟età media elevata, mentre nella MayDay la
partecipazione è più giovanile oltre che maggioritaria. La
musica (registrata), nella festa del lavoro, ha un ruolo
marginale: una festa che non ha tanto un carattere festoso,
quanto piuttosto quello di una cerimonia ufficiale con un
serioso comizio, eco delle lontane conquiste della lotta
sindacale.
La MayDay è festa e conflitto, è carnevalesca ma anche
processione. Nell‟opinione pubblica è vista innanzitutto
come manifestazione di protesta, altra versione più radicale
del 1° maggio.
Tuttavia, la presenza di corpi, in molti casi travestiti, che
ballano e cantano, con carri adornati e pupazzi e sculture
posticce assieme a imponenti sound system, riconduce alle
tradizionali sfilate dei carnevali urbani e alle street parade.
Questa presenza è riconducibile anche alla definizione
antropologica di “nuova festa” che non si riallaccia a una tradizione ma incarna una risposta alla
crisi del presente: la MayDay si ripete come momento di socializzazione e comunità, di rottura delle
gerarchie, una festa dal carattere eversivo.
La figura ricorrente di San Precario poi, patrono degli sfruttati, la avvicina a una sorta di
processione religiosa postmoderna.

Un episodio in particolare viene analizzato: presso gli uffici di via Melchiorre Gioia, in un vuoto
urbano, tre manifestanti, con maschere di Guy Fawkes 46 (vedi immagine), hanno acceso fumogeni e
graffitato un messaggio (OccupySfratto). La performance dei corpi è un atto di rottura della
quotidianità, è la rottura verso i propri stessi corpi (ricordiamo Victor Turner quando parla delle
performance culturali come dinamici processi di trasformazione della società; essi sono momenti in

46
Guy Fawkes: Cospiratore (York 1570 - Londra 1606). Di famiglia protestante ma poi convertitosi al cattolicesimo, fu
scelto, tra gli organizzatori della congiura delle Polveri, per accendere la miccia che egli stesso aveva sistemato sotto il
parlamento. Scoperto, arrestato e sottoposto a tortura, svelò i nomi dei complici. Fu quindi giustiziato. Gli anglicani, per
commemorare la scoperta della congiura, festeggiano il 5 novembre di ogni anno (Guy Fawkes day) con fuochi
d'artificio e bruciando un fantoccio che rappresenta il Fawkes; la festa è oggi però priva di ogni contenuto anticattolico.
Ripreso nel film V per Vendetta (McTeigue, 2005).
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cui la società stessa riflette su stessa per rispondere e superare le proprie crisi e i propri conflitti
interni).
Si apre, in quel frangente, uno spazio “altro”, vissuto nei corpi solo per quel pomeriggio, prima che
gli spazi definiti della quotidianità lo riportino alla normalità.

Festa e protesta nell‟era dell‟ubiquità ellettroacustica

La tecnologia di registrazione ha dato la possibilità di un inedito controllo sul fenomeno sonoro.


Registrare il suono permette di riascoltare, sorvegliare e censurare (è un controllo della società); la
possibilità di fissare il suono significa controllarlo e manipolarlo.
La musica, secondo Attali, si è generata come “ritualizzazione” della violenza destrutturante del
rumore. Nella società moderna, tale potere è divenuto fonte di profitto, ad esempio nella forma del
concerto o nella fruizione privata di dispositivi di riproduzione del suono.
Le performance musicali, a Milano, sono pensate per essere eseguite in ambienti chiusi, mentre rare
sono le esibizioni all‟aperto e devono essere regolate dalle istituzioni. Il limite che preoccupa il
regolamento è relativo all‟emissione acustica, per cui le attività “troppo rumorose” (è stato fissato
un limite di decibel) non possono esibirsi nello spazio pubblico.
Si è visto come la storia degli ultimi cinquant‟anni di Milano sia diventata anche la storia delle
tecnologie che la abitano. Oltre agli altoparlanti, nel contesto urbano proliferano sirene, annunci,
allarmi, sveglie; dispositivi di scansione del tempo ordinano le azioni o le interdicono.
La musica oggi, grazie alla compressione del suono in flussi dati, si è resa più controllabile, è
divenuta “liquida”. L‟amplificazione e la raggiungibilità elettrica diviene sociale.
La MayDay pare incarnare un postmoderno ritorno al sentimento eversivo che le feste come il
Carnevale ambrosiano hanno ormai perso da tempo. Per un giorno, la città viene percorsa da quella
che viene chiamata aesthetic community o sonic community, una comunione corporea di
soggettività che condivide una diversa esperienza sensoriale, espandendosi in uno spazio-tempo per
le vie di Milano.

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MUSICA E IDENTITÀ TRANSNAZIONALE:


UN VIAGGIO NELLA COMUNITÀ CINESE DI MILANO
Francesco Serratore

L‟opinione pubblica e la stampa nazionale si interessano ormai da tempo all‟immigrazione cinese in


Italia. A essi si è aggiunto l‟interesse della comunità scientifica, soprattutto dai primi anni „90,
quando la presenza cinese è divenuta visibile in tantissime nelle città italiane.
Gli studi sulla comunità cinese si sono orientati soprattutto all‟aspetto sociologico, con analisi
quantitative e statistiche. Ci sono anche le inchieste di stampo giornalistico, che hanno indagato il
fenomeno da vicino.
Alla luce di tutti questi studi, l‟autore si è però accorto che mancano scritti di carattere
etnomusicologico ed è per questo che si è orientato sulla comunità cinese di Milano.

La comunità cinese di Milano è la più antica d‟Italia. Infatti i primi immigrati cinesi sono approdati
in Italia nel 1920. Si tratta però di una comunità dinamica e in continua evoluzione.
L‟autore distingue tre gruppi di cittadini cinesi:
1. I cinesi che vivono nel quartiere Sarpi e che provengono da una regione del sud est della
Cina. Sono questi che hanno poi portato alle seconde e alle terze generazioni;
2. I cinesi provenienti dal nord e dal centro della Cina, giunti in Italia a inizio millennio;
3. Gli studenti cinesi giunti a Milano a partire dal 2005.

L‟autore si è recato nei luoghi in cui la presenza cinese era più concentrata e ha incontrato
lavoratori impiegati in attività commerciali come bar e negozi di abbigliamento, cercando di
conquistare la loro fiducia. Infatti i cinesi hanno un atteggiamento di chiusura nei confronti del resto
del mondo e c‟era il rischio che l‟autore non riuscisse a ottenere granché. Per superare questo
ostacolo è stato necessario dimostrare un serio interesse verso il loro mondo e la loro cultura.
Per questo l‟autore ha dovuto studiare la lingua cinese e presentarsi agli incontri con qualche libro
riguardante la musica tradizionale cinese, spesso illustrato. Ecco che i cinesi si sono mostrati più
aperti e gli hanno insegnato anche qualche parola nella loro lingua.

L‟autore si è domandato come intendere le pratiche musicali cinesi e in che modo, attraverso lo
studio delle musiche, fosse stato possibile contribuire a rendere espliciti anche aspetti più generali
che avessero il ruolo della comunità cinese Milano.
Per risolvere questo problema, l‟autore ha letto un libro di Bernard Lortat-Jacob, Il pianto
dell’altipiano, grazie al quale ha capito che il racconto gli avrebbe permesso di mettere in risalto sia
i risultati della ricerca sia quelli che lo studioso definisce «i retroscena della sua piccola scienza».
Durante questa ricerca, gli oggetti di studio sono diventati amici. Questo ha permesso all‟autore di
confrontarsi con loro in modo più libero, fino ad arrivare anche a essere ospitato a casa loro.

Il capodanno cinese

Uno dei momenti migliori per osservare le pratiche musicali della comunità cinese di Milano è il
cosiddetto capodanno cinese, la festa di primavera.
La festa di primavera è la festività tradizionale più sentita dal popolo cinese, che segna l‟inizio del
nuovo anno in base al calendario cinese tradizionale. Secondo il calendario gregoriano, la ricorrenza
cade tra il 21 gennaio è il 19 febbraio, vale a dire dopo il solstizio di inverno.
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L‟autore si riferisce al 2014, anno in cui il capodanno cinese cadeva il 31 gennaio. A Milano, però,
si è festeggiato il 2 febbraio poiché è stato necessario aspettare la prima domenica successiva.
I cinesi hanno festeggiato con eventi e spettacoli coordinati e organizzati dalle associazioni cinesi di
Milano. Il fulcro delle manifestazioni è stato in via Paolo Sarpi, il corso principale della Chinatown
Milanese. L‟autore ha assistito anche alle prove della danza del dragone presso La Fabbrica del
Vapore in via Procaccini.
Lo spettacolo è stato condotto sia in cinese sia in italiano. Infatti si sono esibiti anche artisti italiani.
Prima c‟è stato uno spettacolo di percussioni, poi un‟esibizione dei bambini di un asilo nido per
cinesi; infine, alcune dimostrazioni di kung fu a cura di una scuola italiana e interventi musicali con
strumenti tradizionali cinesi.
L‟autore si è poi soffermato sull‟esibizione di una suonatrice cinese di guzheng, ovvero una cetera
con 18 o 21 corde. Questa suonatrice cinese si è esibita in una composizione musicale del periodo
della dinastia Tang intitolata, tradotta in italiano, La serenata del Pescatore.
Ci sono delle differenze tra il modo antico di suonare il guzheng e quello moderno: queste
differenze sono relative al diverso ruolo della mano sinistra durante le esecuzioni e riguardano
anche il modo di utilizzo del ritmo. Infatti nei brani in stile antico la mano sinistra si occupa
perlopiù della parte sinistra delle corde, mentre nelle nuove composizioni la mano sinistra è
utilizzata per produrre suoni anche nella parte destra delle corde e partecipa a tutti gli effetti alla
realizzazione di una linea melodica.
Dopo le due esecuzioni di guzheng, è stato il turno di un anziano signore cinese che ha eseguito il
brano La luna riflessa nella seconda primavera, avvalendosi di uno strumento chiamato erhu, una
viella cinese a due corde.
Gli spettatori si sono entusiasmati per l‟esibizione canora di una ragazza che si è cimentata
nell‟esecuzione di un brano tratto dall‟opera di Pechino, ispirata alla leggenda di un‟eroina cinese
che era diventata generale dell‟esercito ed era riuscita a difendere l‟impero Song dall‟invasione
straniera.
In seguito, per concludere ci sono stati il saluto del console generale della Repubblica cinese in
Italia, l‟inno nazionale cinese e la sfilata verso via Paolo Sarpi con due dragoni. Si è trattato di una
festa molto partecipata e sentita sia dai dai cinesi di Milano sia dagli italiani.

Il KTV

Il KTV è il luogo adibito al karaoke cinese. In Cina ci sono interi grattacieli dedicati a questo tipo di
intrattenimento. Le sale sono insonorizzate e allestite all‟interno di strutture più o meno grandi e
lussuose.
Questo fenomeno si è diffuso anche in Italia e in particolare a Milano. L‟autore dice di conoscere
diversi locali, frequentati soprattutto da giovani cinesi. Il KTV è un privé in cui si esibiscono i
cinesi per il karaoke. L‟autore dice di averne trovato uno in via Paolo Sarpi.
Un altro locale si trova invece vicino alla fermata metropolitana Turro, in via Della Torre 40. Non si
tratta di un locale pubblico ma di un club alla cui entrata è necessario compilare un modulo
d‟iscrizione tramite cui si ottiene poi il rilascio di una una tessera.
L‟autore racconta nel dettaglio l‟esperienza in questo secondo locale e i cinesi che ha incontrato.
In questo locale si organizzavano spesso delle sessioni di karaoke, invitando anche i nuovi cinesi
arrivati in Italia per creare una rete di conoscenze con quelli che già vivevano a Milano. In questo
locale, stando al ragazzo cinese incontrato dall‟autore, l‟importante era divertirsi e stare insieme.
L‟autore dice di aver fatto amicizia con una serie di ragazzi cinesi. Uno di questi, Lu, gli ha perfino
inviato i titoli di tutte le canzoni eseguite nel locale.

A casa di Momo

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Momo è una ragazza cinese che l‟autore aveva conosciuto durante una ricerca sul campo in una
delle Chiese cristiane cinesi di Milano. Momo invita l‟autore a partecipare a una festa organizzata
da lei e dal suo fidanzato in occasione del capodanno cinese, previsto il 31 gennaio.
Arrivato alla festa, l‟autore dice che gli invitati erano vestiti con abiti colorati e capelli con tinte
fluorescenti. C‟era un buffet con cibi cinesi, per esempio i ravioli cinesi, ma con bevande
occidentali, per esempio Coca Cola e Fanta.
L‟autore chiacchiera con gli invitati e gli spiega perché è lì e perché gli interessa la cultura cinese.
Serena, una ragazza cinese, racconta di avere imparato l‟italiano ascoltando le canzoni di Laura
Pausini. La storia di Serena era stata pubblicata addirittura sul “Corriere della Sera”.
Nel monitor della camera di Serena c‟era un computer utilizzato come televisore e sintonizzato sulla
televisione nazionale cinese. Quando l‟autore entra nella stanza di Serena, la rete sta trasmettendo
un gran galà ricco di musiche, danze e ospiti d‟eccezione. Si tratta di uno spettacolo seguito da oltre
700 milioni di spettatori in tutto il mondo.
Quando è arrivata la mezzanotte, i cinesi si sono messi a cantare mentre Momo ha iniziato a suonare
con la sua chitarra elettrica. I cinesi si sono augurati buon anno e Momo ha iniziato a suonare alcuni
brani famosi in Occidente come Hallelujah di Jeff Buckley e Don’t cry dei Guns n‟ Roses. Tutto
questo è servito all‟autore per scambiare un po‟ di contatti.

Musica e dinamiche transnazionali

L‟autore crede che per comprendere appieno la vita comunitaria dei cinesi di Milano sia necessario
conoscere anche la struttura del luogo che ospita la cosiddetta Chinatown Milanese, il quartiere
sviluppato intorno a via Sarpi. Si tratta di una via che comprende soprattutto servizi rivolti ai cinesi,
ad esempio attività che si occupano dei matrimoni, pasticcerie, agenzie di viaggio, ristoranti etc.
A partire dal 2006 sono sorti anche i luoghi dedicati al tempo libero e al divertimento. Se oggi si
passeggia per via Paolo Sarpi si notano tante famiglie cinesi e gruppi di giovani che fanno shopping
e frequentano i ristoranti dei loro connazionali. Dal 2012 al 2014 sono stati aperti tre nuovi KTV.
Tutto questo però porta i cinesi a vivere con i propri connazionali e ad avere al contempo un
atteggiamento di chiusura nei confronti della comunità ospitante, discorso che vale anche per le
seconde e le terze generazioni.
Ci si domanda allora in che modo i cinesi interagiscano con gli italiani. Spesso i rapporti tra cinesi e
italiani sono limitati al cosiddetto mercato culturale, vale a dire acquisizione materiale, uso,
fruizione o consumo di tecniche appartenenti a culture esotiche.
C‟è poi il problema del gap linguistico e quindi gli atteggiamenti di separazione e di isolamento,
tanto che non sono mancati momenti di tensione fra gli abitanti italiani di via Paolo Sarpi e i cinesi.
L‟autore non ha riscontrato però alcuna difficoltà a inserirsi nella comunità cinese di Milano e a
partecipare a situazioni che difficilmente sono visibili ai non cinesi e che raramente sono diffuse dai
media italiani.

In conclusione, è possibile creare un identità transnazionale grazie alla tecnologia che permette in
modo sempre più veloce il flusso di persone, merci e idee in ogni parte del mondo. Questo è
possibile, come si è visto, anche ai televisivi della TV cinese, su cui sono sintonizzati molte attività
commerciali cinesi a Milano. Un ruolo non indifferente lo occupano internet e i social network,
tramite i quali la maggior parte dei cinesi a Milano si tiene in contatto con amici e parenti che
vivono in Cina, dove i cinesi immigrati ritornano almeno una volta all‟anno.
Secondo l‟autore, il rapporto tra migrante cinese e madrepatria andrebbe indagato più a fondo anche
attraverso un lavoro sul campo capace di studiare sia il contesto di Approdo sia quello di origine
non che l‟interazione fra i due luoghi.

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TABELLA RIASSUNTIVA “Identità di luogo”


1 - Dal 2008 a Milano, movimento di persone che si incontra per danzare dalle 23
fino all‟alba in spazi pubblici.
MILANO - Riappropriazione degli spazi pubblici rispettandoli. Cosa illegale ma non
KLANDESTINA, perseguibile (è assimilabile a un movimento di aggregazione spontanea).
MAZURKA - Bisogno di contatto fisico nell‟era dei social
CLANDESTINA - Facebook è un pilastro per la diffusione del movimento
- TAZ = concetto di Zona Temporaneamente Autonoma

2 - Anni 80 = momento di grande cambiamento culturale. Si passa dall‟interesse


per la cosa pubblica all‟egoismo, al consumismo e alla bassa cultura. In questo
CENTRO SOCIALE contesto si inserisce il punk, movimento non solo musicale ma una
VIRUS NEGLI controcultura. Milano è capoluogo del divertimento e del sabato sera.
ANNI 80 - il punk arriva in Italia dall‟Inghilterra grazie a Tv e riviste e da risposte ai giovani
in un momento di grande cambiamento, anche politico. I giovani punk
cominciano a viaggiare per tutta Europa (InterRail o biglietti contraffatti) e si
riconoscono tra loro dal look.
- Virus = centro sociale punto di aggregazione per i punk che arrivano a Milano da
tutta Italia. Diventa un problema di ordine pubblico (troppo rumore, droga,..).
Ambiente di socializzazione e di politica.
3 - La Polifonica è sempre stata immune da programmazioni scarne e banali. Fin
dalla sua fondazione (1947) il coro è una vera istituzione per Milano nel
DAL TEATRO recupero dell‟interesse per la musica antica. Oggi il suo ruolo è marginale.
ALLA CHIESA. - Giuseppe Biella = sacerdote fondatore. Dal 1967 Spinelli (due figure di rilievo
LA culturale). 1979 scioglimento per difficoltà finanziaria. Fondazione del coro come
POLIFONICA Associazione fino a oggi.
AMBROSIANA - Fin dalla sua fondazione, la Polifonica prende parte a eventi culturali milanesi =
inaugurazioni, messe, cerimonie importanti della città.
- Amatorialità = caratteristica basilare. Il coro è aperto a tutti.

4 LA MAY-DAY - Nasce come alternativa alla tradizionale Festa del Lavoro. Entrambe si tengono
PARADE il primo maggio, la prima la mattina, la mayday il pomeriggio. La prima è
tradizionale, con striscioni, slogan, età media alta, no musica. La mayday è
invece più frequentata, tanti giovani, street parade, musica, performance, balli,
dj.
- la manifestazione ha dei connotati di protesta contro il sistema politico che non
sostiene le classi dei lavoratori, dei senza dimora, dei poveri o delle persone in
difficoltà. È una giornata dove si è liberi, non ci sono ruoli o gerarchie.
- la mayday è un‟occasione rara di musica pura, in un‟era di tecnologie (ipod,
piccoli altoparlanti, suono del traffico e delle industrie).

5 - La comunità cinese a Milano è molto presente e si concentra nella Chinatown


milanese, attorno a via Paolo Sarpi.
LA COMUNITÀ - Tre gruppi comunitari: i primi immigrati presenti dal 1920, un secondo gruppo
CINESE di immigrati e il gruppo degli studenti cinesi che arrivano nel nostro paese per
A MILANO motivi universitari.
- Non è stato scritto nulla sui fenomeni relativi alla musica cinese: le comunità non
sono facili da studiare per via della chiusura di questo popolo.
- Eventi principali in cui è possibile osservare e studiare la comunità cinese dal
punto di vista musicale: capodanno cinese e karaoke.
- Comunità cinese = transanazionale. Molto tradizionalisti e chiusi da un lato,
molto aperti all‟occidente dall‟altro grazie alla tecnologia che unisce le persone
diverse ma mantiene anche i contatti con la madrepatria (le tradizioni non vanno
perse).

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