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L' Islam, una religione, un etica, una prassi politica

Storia dei paesi islamici (Università degli Studi di Palermo)

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INTRODUZIONE
In un’era come la presente, nella quale il sentimento religioso sembra in molte parti del mondo
affievolirsi notevolmente, l’Islam è fra le religioni una delle più attive e vitali.
Quando diciamo religione, nel caso dell’Islam, dobbiamo abbandonare il concetto di religione a cui
siamo abituati nel nostro mondo tradizionalmente <<cristiano>>.
Per l’Islam la religione (din) è qualcosa che abbraccia sia la nostra religione sia la nostra politica, è
regola di vita, legge, mentre mancano le connotazioni sacerdotali-ritualistiche essenziali nella
nostra nozione di <<religione>>. Si spiegano così alcuni casi apparentemente paradossali come
quello di coloro che quando l’India nel 1947 fu divisa nei due stati di Unione Indiana a
maggioranza indù e Pakistan musulmano, hanno scelto il secondo: l’Islam era per loro un modo di
vivere, un insieme di comportamenti, un ideale politico, o meglio una miscela di tutto questo.
L’Islam non ha sacerdoti né riti e lo <<stato islamico>>, se proprio si vuole paragonare a qualcosa,
si potrebbe semmai avvicinare al <<popolo di Dio>> del periodo aureo del profetismo ebraico.
L’Islam che prenderemo a modello sarà quello <<sunnita>>, cui aderiscono la stragrande
maggioranza dei musulmani attuali (circa il 90%).

CAPITOLO 1: LA TEOLOGIA
È stata spesso notata come caratteristica dell’Islam quella di un <<assorbimento della teologia nella
legge>>. Infatti chiamare la legge religiosa dell’Islam, la sharīʿah, <<diritto musulmano>> o
<<diritto canonico>>, è piuttosto equivoco. La legge religiosa islamica si interessa, per esempio
della preghiera e dell’elemosina religiosa, del culto ecc. mentre i trattatisti di teologia dogmatica
sono ridotti a trattare una materia piuttosto scarna e generalmente sconsigliano il lettore normale
dall’interessarsi di teologia. La ragione di ciò sta nell’impossibilità di ragionare su un Dio come
quello islamico, per la sua estrema <<personalità>> arbitraria, per la sua estrema mobilità. Le fonti
della teologia islamica sono soprattutto tre:
➢ Il Corano, libro dettato dall’arcangelo Gabriele al profeta Muhammad (570-632), in un periodo
che va dal 609-610 al 632, a brani, ma rispettante un archetipo celeste. L’aspirazione del Corano,
secondo la teologia islamica è nettamente <<letterale>>, è una vera e propria dettatura dell’angelo.
Muhammad è un uomo come gli altri (Cor. x, 2) e non ha altra particolare qualità intrinseca che
non sia la sua elezione da parte di Dio ad essere <<messaggero>> della sua volontà per la
<<organizzazione>> degli uomini;
➢ <<Imitatio Muhammadis>>, l’importanza di Muhammad è soprattutto giuridica, ma fra i
numerosi ḥadīth (tradizioni), raccolti in numerose ampie collezioni, ve ne sono alcuni in cui, il
Profeta è Dio che parla in prima persona: si tratta di rivelazioni divine non tramandate nel Corano
perché non aventi valore normativo per tutta la comunità, bensì mistiche rivelazioni personali di
Dio al suo Profeta in momenti di grazia;
➢ Il <<consenso>> dei teologi o, per la legge, dei giurisperiti, intesi come rappresentati della
comunità musulmana. Secondo un ḥadīth infatti Muhammad avrebbe detto <<la mia comunità
non si accorderà mai su un errore>>;
➢ Il ragionamento sui dati tradizionali. Nel caso della teologica il ragionare, il discutere o conversare
dà il nome alla scienza stessa, che si chiama per l’appunto Kalām (discorso) e Mutakallimūn (coloro
che la professano). La teologia come scienza nacque in Islam soprattutto a scopi apologetici1. Il
grande storico musulmano Ibn Haldūn definisce la teologia come <<la scienza che fornisce i mezzi
di provare i dogmi della fede con argomenti razionali e di refutare gli innovatori che s’allontanano
dalla dottrina seguita dagli antichi e dai tradizionalisti. L’essenza stessa di questi dogmi è la

1 Ossia al fine di difendere con armi <<razionali>> la rivelazione

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professione dell’unità di Dio>>. Vi sono anche espliciti testi coranici che invitano a riflettere sui
segni di Dio e a dedurne quindi l’esistenza. Per i teologi ortodossi l’obbligo di ragionare in tal senso
è alla pari di obblighi legali imposti per rivelazione e se la Legge (Legge sulla Teologia) non gliene
avesse prescritto l’obbligo, la ragione non avrebbe potuto elevarsi alla conoscenza di Dio.
1.2. I principi fondamentali dell'ortodossia islamica, gli attributi e le operazioni di
Dio
Esaminiamo ora quello che il musulmano ortodosso del XII secolo era tenuto a credere secondo il
principe dei teologi, Al-Gazzali e che praticamente forma il credo del musulmano ortodosso anche
attuale:
➢ Dio esiste: la prova dell'esistenza di Dio è la causalità efficiente a partire dal mondo contingente;
Dio è la causa del mondo, una causa che è eterna a parte ante e permanente in aeternum;
➢ Dio è insostanziale, non è una semplice sostanza che occupa un luogo, ed è incorporeo, il che è
affermato contro coloro che prendendo alla lettera alcuni passi coranici sostenevano la
corporeità di Dio. Molti sostengono che Dio stia in cielo <<assiso sul Trono>> proprio per
questo Gazzali afferma che molti passi vanno letti in senso metaforico ma nel contempo
profondamente realistico, ponendosi a metà fra il generale allegorismo di certi teologi
tendenzialmente razionalisti, e il crasso antropomorfismo dei letteralisti. Nella fattispecie il
trono è il simbolo della Potenza di Dio e quando si dice che "Dio discende nella notte" significa
che la solitudine notturna è la condizione più propizia per la preghiera; oppure, quando si dice
che "Dio è visibile" non è perché Dio è da qualche parte fisicamente, ma perché con il termine
"visione" si intende una specie di percezione più perfetta e più chiara di quella immaginativa;
➢ Dio è uno e unico, cioè né divisibile in parti, né compagno di altri dèi. L’argomento portato a
prova dell’unicità di Dio è quello classico della teologia musulmana e già accennato nel Corano
secondo il quale, se esistessero più dèi, vi sarebbe inimicizia tra loro e ne seguirebbe gran
confusione nella creazione, cosa che di fatto non avviene.
Le qualità fin qui considerate sono qualità dell’essenza divina. Seguono i veri e propri attributi di
Dio che Gazzali, riduce a sette:
➢ POTENZA: l'Onnipotenza divina è intesa nell'Islam in senso ancor più totalitario ed ampio che
nelle altre religioni monoteistiche. L'oggetto della potenza divina sono tutti gli esseri possibili e
per Dio è anche possibile fare il contrario di quello che la sua prescienza conosce: la sua è
un'infinita potenza e tutto dipende ed è deciso da lui (es. quando un uomo muove una mano,
Dio, oltre ad aver creato l'uomo e la sua mano, crea anche il movimento nella mano e crea il
potere dell'uomo sul suo stesso movimento: dunque l'uomo è "potente" solo in un senso riflesso
e mai "creatore" dei propri atti, ma è piuttosto proprietario di essi. Dio crea volta per volta i
singoli fenomeni, la cui connessione causale non è affatto necessaria. Il mondo è quindi creato,
annientato e ricreato attimo dopo attimo da Dio.
➢ SCIENZA: Quanto alla scienza divina essa è tale che Dio conosce tutti gli esseri conoscibili, sia
gli esistenti che i non esistenti.
➢ VITA: una volta che "vivente" viene definito "essere che ha coscienza di sé stesso e conosce il
proprio essere e gli altri da sé distinti", è ovvio attributo divino. La teologia ortodossa non usa
l’espressione “persona” e “personale” a proposito di Dio, anche perché, negando l’Islam la
Trinità e l’Incarnazione, vi mancarono le sottilissime dispute sul concetto di “persona” tipiche
del Cristianesimo.
➢ VOLONTÀ: Quanto alla volontà divina è necessario pensarla come attributo autonomo di Dio.
L'ortodossia dichiara che il mondo cominciò a esistere nel momento deciso dalla volontà eterna
di Dio, ma senza che il suo atto volitivo cominciasse ad esistere nel tempo e senza che in nulla
si alterasse l'eternità dell'attributo divino. Come la potenza, anche la volontà divina si estende a
tutto: male, empietà e peccato sono anch'essi voluti da Dio perché ciò che Dio vuole, esiste,

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mentre ciò che Dio non vuole, non esiste (per l'Islam ortodosso dire che i peccati e i mali non
siano voluti da Dio è una bestemmia, perché ciò implicherebbe l'esistenza di un qualcosa che
Dio non può controllare).
➢ UDITO & VISTA: Espliciti passi coranici costringono l’ortodossia ad ammettere anche fra gli
attributi divini, quelli dell’udito e della vista. Le parole della Scrittura debbono essere
interpretate in un senso che si allontani da quello letterale. Il che non avviene per l'udito e la
vista di Dio, che sono da considerare come una perfezione della "percezione" in generale e non
come caratteristiche fisiche in senso antropomorfico.
➢ PAROLA: importantissimo fra gli attributi divini è proprio quello della parola. Il Corano stesso
è la parola di Dio. Negare questo attributo significherebbe negare il concetto di Profeta, uno dei
cardini dell’Islam, in quanto trasmettitore della parola divina. Ovviamente, non si tratta di suoni
sussistenti nell'essenza di Dio, ma di un verbum mentis che non consiste in suoni e lettere:
Gazzali ammette che le lettere sono temporali, ma sono i segni del linguaggio eterno di Dio.
Proprietà comuni a tutti gli attributi sopracitati sono che essi non si identificano con l’essenza di
Dio. In altre parole non basta dire che Dio è savio, vivo, potente ecc., ma si deve accettare che esista
una vita, una scienza ecc. di Dio. Comunque col termine <<Dio>> si intende non la sola essenza
bensì l’essenza di più attributi. In secondo luogo, gli attributi di Dio sussistono nella sua essenza,
così come in una persona qualsiasi. In terzo luogo, tutti gli attributi sono eterni. In quarto luogo i
numerosi nomi o aggettivi che nel testo sacro e nella tradizione si attribuiscono a Dio sono
predicabili di Dio ab aeterno e in aeternum (sui 99 nomi di Dio è basato il tasbih, una sorta di
rosario musulmano dal quale deriva quello cristiano, importato durante le Crociate).
Oltre agli attributi di Dio, Gazzali analizza anche le sue operazioni. A differenza di quanto avviene
nel Cristianesimo, dove operazione centrale e principale di Dio è quella di redenzione, nell'Islam la
caratteristica principale delle operazioni di Dio è che esse gli sono contingenti, e di nessuna di esse
si può dire che è necessaria. L'Islam riterrebbe bestemmia qualsiasi espressione che equivalesse a
un "Dio deve fare questo" o "è obbligato a fare questo". In quanto Dio decide tutto e non è obbligato
a fare niente (del resto, Islam = sottomissione e muslim = sottomesso): il Dio islamico ha un
carattere personalistico (persegue i suoi fini personali), onnipotente e onnipresente. Fondamentale
è capire che nell'Islam il concetto di "bene" e "male" è diverso da quello cristiano ed è più freddo e
pragmatico: "buono" è l'atto che conviene all'agente (Dio) e la bontà dell'atto non significa altra cosa
che la sua convenienza col fine dell'agente. Dunque, i concetti di "bene" e "male" sono relativi, ed
ogni autonomia dell'atto morale è abolita. Pertanto, non è necessario né obbligatorio a Dio creare
le creature. Egli ha il diritto a non imporre loro nessun obbligo, e, se lo impone, non è perché gli
sia necessario farlo. Dio ha diritto a imporre agli uomini obblighi a loro possibili o impossibili ed è
inoltre libero di far soffrire le creature esenti da colpa e non è obbligato a ricompensarli per buone
azioni. Egli inoltre non è obbligato a fare ciò che è più conveniente ai suoi servi. A questo punto
sorgerebbe spontaneo domandarsi se Dio è ingiusto, ma Gazzali risponde di no, in quanto secondo
lui: l'ingiustizia si concepisce solo di chi compie atti che possono portare pregiudizio alla proprietà
altrui, ma siccome è tutto proprietà di Dio e Dio non è sottoposto ad alcuna legge superiore, il
problema non si pone nemmeno.
Dio non è in alcun modo obbligato a premiare per le buone azioni e a castigare per le colpe. Il
premio è atto puramente gratuito di Dio, cui l'uomo non ha alcun essenziale diritto. Nettamente
contrario all'ortodossia è il concetto mu'tazilita che Dio deve castigare al fuoco eterno il peccatore
e, a differenza di quella cattolica, la teologia islamica nega l'eternità delle pene infernali (non
avrebbe senso punire in eterno anche per un piccolo peccato). L'uomo, se ciò non constasse per
rivelazione, non sarebbe obbligato a conoscere Dio né ad essergli grato per i suoi benefici;
contrariamente alla tradizione cattolica, la ragione naturale non esige, da sé, la conoscenza di Dio:
la ragione è sì importante, ma solo come strumento di comprensione del senso della parola del
Profeta. Infine, l'invio dei Profeti da parte di Dio non è né necessario né impossibile.

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1.3. La profetologia dell'Islam


Dio manifesta la sua volontà all'uomo attraverso una serie di "inviati", "apostoli". Il loro grado è
quello di puri uomini, ma particolarmente prescelti da Dio e che, per mezzo di Dio, operano talvolta
dei miracoli. Il concetto di "profeta" è strettamente legato a quello di "legislatore": il Profeta non è
tanto chi fa conoscere dei misteri divini o istituisce sacramenti redentivi, quanto piuttosto colui che
promulga le leggi che Dio ritiene adatte per l'umanità in un determinato periodo. I profeti ammessi
dall'Islam sono praticamente tutti quelli della tradizione biblico-cristiana: Adamo, Noè, Abramo,
Mosè, Gesù, David e alcuni arabi come Hud e Salih. Di Gesù che gode di particolare considerazione
nel Corano si ammettono la nascita verginale e l'ascensione al cielo, ma non la morte (sulla croce
sarebbe stato ucciso un sosia di Gesù, il quale invece sarebbe tuttora vivo nei cieli). Maometto è
invece il "sigillo dei Profeti": la legge di Maometto è quella definitiva e valida per tutta l'umanità. La
prova essenziale della sua missione profetica è un miracolo, quello dell’”inimitabilità del Corano",
secondo cui gli Arabi non riuscirono a imitare le leggi del Profeta; per il resto, il Corano sembra
chiaramente indicare la non necessità dei miracoli per dimostrare la veridicità della legge. Il
messaggio del Profeta, oltre alle leggi, contiene anche verità accettabili solo per fede su questioni
escatologiche (sul destino dell'uomo), che l'uomo non avrebbe potuto conoscere senza la sua
rivelazione. Le più importanti, che il musulmano ortodosso è tenuto ad ammettere sono:
a) La resurrezione della carne: Garanzia della resurrezione è la creazione, non essendo
resurrezione che una seconda creazione. La dottrina ortodossa, a differenza di quella
peripatetica musulmana, non ammette l'immortalità dell'anima astratta, staccata dal corpo.
b) Il tormento della tomba: è dottrina di fede che i corpi morti, nella tomba, subiranno una specie
di interrogatorio religioso da parte di due angeli, Munkar e Nakir. Gli uomini che non avranno
saputo rispondere giustamente saranno tormentati nelle loro tombe da quei due angeli. Alla
obiezione che non sembra affatto che i morti nelle tombe soffrano, Gazzali risponde dicendo
che la parte che soffre il tormento non deve essere necessariamente tutto il corpo, ma solo una
particella del cuore del defunto resa sensibile da Dio appositamente a tale scopo.
c) Interrogatorio degli angeli Munkan e Nakir: il cadavere è reso a tale scopo parzialmente vivo in
qualche particella sensibile da Dio.
d) La Bilancia: si tratta della bilancia escatologica dove saranno pesate le azioni degli uomini al dì
del giudizio, di cui si parla nel Corano. All’obiezione su come una bilancia può pesare cose
incorporee come gli atti umani, il profeta stesso avrebbe risposto secondo un hadīt in cui si
afferma che saranno pesati i fogli scritti dagli angeli riguardo le azioni umane.
e) Il ponte: Si tratta di un’altra concezione escatologica di chiare origini iraniche, quella cioè del
ponte teso sopra l’inferno, più sottile di n un capello e di un filo di spada, che dovrà essere
attraversato dai risuscitati, fra i quali i malvagi cadranno giù nella gehenna.
Poiché l’ortodossia sunnita si distingue dallo sciismo, almeno agli inizi, per questioni di successione
politica del Profeta, i trattati di teologia ortodossa spesso contengono una trattazione del problema
dell’imāmato. L’Imām è il capo della comunità musulmana, più usualmente chiamato dai sunniti
<<califfo>>. Dato che il Profeta è anche legislatore e che la legge religiosa investe tutti i campi
della vita individuale, sociale e politica del credente, l’imam o califfo sarà il successore della sua
legge, già data, quindi in nessun modo suo successore nella qualità di profeta.
L'Imām non è nemmeno dotato, a differenza del pontefice cattolico, di autorità docente o legislativa
(per gli sciiti invece lo è). Qual è dunque il suo scopo? Uno dei fini del Profeta è la buona
organizzazione della vita sociale e religiosa della comunità-stato, cosa che, per essere attuata,
necessita della presenza di un capo supremo obbedito da tutti, che è appunto l'Imām. Egli deve
avere le seguenti qualità:
✓ essere della tribù dei Quraiš (quella di Maometto);
✓ possedere competenza e capacità;

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✓ possedere scienza e virtù;


✓ essere degno di governare gli uomini e condurli verso il retto sentiero;
✓ essere privo di difetti fisici (ecco perché alcuni principi facevano accecare fratelli e cugini).
La sua nomina può avvenire o per diretta designazione del Profeta o per <<elezione>> o meglio,
designazione da parte dei maggiorenni della comunità. Nel caso di sospetto di illegittimità, è meglio
un Imām illegittimo ma autorevole e abile governante, che l'anarchia: magari nel privato il soggetto
che viene nominato va a donne e uccide, ma l'importante è che sia formalmente credente e
rispettoso almeno di facciata delle regole di Dio (v. Mubarak e Ben Ali, dittatori ma accettati perché
andavano in moschea). Le idee sciite sull’imāmato sono confutate, secondo al-Gazzali, dal fatto
storico che Maometto non designò alcuno con chiarezza a succedergli. In merito alla dignità dei
primi quattro califfi, l'ortodossia sunnita afferma che essa sia quella indicata anche dall'ordine
storico in cui si sono susseguiti, ovvero: Abū Bakr, 'Omar, 'Utmān e 'Alī, chiamati "i califfi ben
diretti" (632-661 d.C.).
1.4. La scomunica dell'eretico nell'ortodossia musulmana
Il concetto di ortodossia in Islam è piuttosto confuso, soprattutto per quanto riguarda il concetto di
"infedele" e "miscredente" (kāfir). Solitamente, kāfir è colui che smentisce, dichiara mentitore, il
profeta Maometto, ma in questo smentire vi sono varie gradazioni di gravità: la più grave è essere
fedele di un'altra religione, mentre la meno grave è affermare che Dio, dopo Maometto, possa
inviare altri profeti (interpretazione metaforica del Corano). In definitiva, la questione della
scomunica dell'eretico rimane nell'Islam non chiaramente definita e, almeno in teoria, la teologia
musulmana è in certo senso più larga di quella cattolica. La dottrina teologica qui descritta secondo
il catechismo di al-Gazzali è quella detta aš'arita, da alAš'arī di Basra, fondatore della scuola nel X
secolo d.C. Questa scuola teologica è quella che attualmente seguono tutti i musulmani di Siria,
Egitto, Iraq e Maghrib, mentre molti sunniti di Turchia, India e Asia centrale seguono invece l'altra
grande scuola teologica, quella detta māturīdita da al-Māturīdī di Samarcanda (X secolo d.C.). La
differenza principale è che nella seconda esistono sfumature accentuanti un po' più l'ambito
dell'autonomia dell'uomo e delle cose di fronte alla onnipresente volontà personale e arbitraria di
Dio.

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CAPITOLO 2: LA LEGGE
2.1. La Sharia
La legge positiva (šarī'a, "la via diritta", "battuta"), disciplina l'attività umana in quanto esplicata nel
mondo esterno, prescindendo da quella fede e da quelle credenze di cui è giudice solo Dio: essa
disciplina tutta l'attività umana.
I trattati di diritto musulmano si aprono con una prima parte detta ibādāt (atti del culto) includente
cioè gli atti fisici che mettono l'uomo in rapporto con Dio, per poi continuare con le mu'āmalāt,
ovvero i rapporti dell'uomo con gli altri uomini. Parallelamente alla teologia, dove l'Islam
appiattisce sullo stesso piano il soprarazionale e il razionale, così la legge islamica considera solo
capitoli differenti, ma non situati su piani differenti, il come bisogna pregare e quanto bisogna
lasciare in eredità ai figli. A diversità dei cristiani e degli antichi, per i quali la legge è la norma di
diritto sancita dal popolo direttamente o mediante i suoi organi, per l'Islam la legge non è altro che
la diretta e personale volontà di Dio, espressa in chiare lettere dal Profeta. Nel concetto musulmano
si chiama "diritto di Dio" tutto quanto trascende il privato interesse. Le fonti della legge sono
praticamente le stesse della teologia:
1) Il Corano, che contiene istruzioni sui cibi, sul matrimonio, sull'eredità e sulle buone maniere;
2) la sunna, i cui hadīt sono composti da due parti: il testo della tradizione e la serie di testimoni
mediante i quali si è trasmesso il racconto (esistono varie raccolte, tutte scritte fra l' VIII e il X
secolo d.C.: al-Muwatta' di Malik, i due Sahīh di Buhari e di Muslim, le raccolte di Ibn Maga,
di Abu Da'ud, at-Tirmidi e di an-Nasa'i);
3) il "consenso" (igmā') dei dotti e dei giurisperiti: quello che ha maggior valore come fonte di
legge è quello dei compagni del Profeta, quelli che convissero con lui e lo videro; estinta questa
generazione, il consenso valido è quello dei mugtahid, ovvero dei giurisperiti più autorevoli;
4) il ragionamento analogico (qiyās) è infine una vera e propria analogia, basata sui casi, risolvibili
con l'aiuto delle tre fonti precedenti: si tratta in pratica di giudicare tramite un'analogia
razionale più elastica a seconda dei casi.
2.2. Le scuole giuridiche
Nell'ambito dell'ortodossia esistono quattro scuole giuridiche ufficialmente riconosciute come
ortodosse:
1. Hanafita: fondata dall'oriundo persiano Abu Hanifa nell' VIII secolo; è la scuola
relativamente più liberale delle altre e più disposta all'uso del ragionamento analogico; è
diffusa soprattutto nei territori dell'ex Impero ottomano, nell'Asia centrale, nell'Afghanistan,
in India e nel Pakistan;
2. Mālikita: fondata da Malik ben Amas nell' VIII secolo; i suoi seguaci sono attualmente
nell'Africa settentrionale (tranne l'Egitto), e in parte dell'Africa orientale;
3. Šāfi'ita: fondata da as-Safi'i nel IX secolo; i seguaci sono soprattutto in Bahrein, nell'Arabia
meridionale, in Indonesia, in Egitto e nell'Africa orientale;
4. Hanbalita: fondata dall'ultra-tradizionalista Ahmad Ibn Hanbal nel IX secolo, che restringe
notevolmente l'uso dell'analogia razionale; i suoi seguaci sono in Arabia Saudita, nell'Oman
e nel Golfo Persico.
L'ortodossia ammette il passaggio di un musulmano da una scuola giuridica all'altra. I principi di
queste scuole sono fondamentalmente gli stessi e le divergenze si manifestano soprattutto
nell'applicazione di regole a casi particolari. Con la crisi del califfato Abbaside nei secoli X e XI, il
sunnismo imporrà il divieto di rinnovare il diritto (infatti tutte le scuole nascono prima di quel
periodo): il momento passa alla storia come la chiusura della porta della iǧtihād, cioè

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dell’interpretazione del diritto, sulla quale s’impone invece il concetto del taqlid, cioè
dell’imitazione acritica delle interpretazioni del passato. Attualmente dunque, il diritto islamico è
codificato nei trattati di fiqh (giurisprudenza coranica), pedissequamente seguiti. Alcuni studiosi
comunque credono sia possibile ancora un po’ di flessibilità attraverso le opinioni giurisprudenziali,
dette fatwà (come quella di Khomeini con la quale condannava come satanico un libro e il suo
autore): si tratta di un’opinione emessa da un’autorità qualificata come un giureconsulto (faqīh),
che abbia studiato in una scuola e abbia un diploma di scienze giuridiche musulmane,
generalmente conosciuto come "muftī". Le fatwà vengono emesse nel caso in cui non si riesce a
risalire ad una soluzione per casi moderni e nuovi, anche su richiesta di un credente e per un caso
specifico. Nell'Islam, così come il sacramento è sostituito dal precetto di legge (non esistono
sacramenti come nel cristianesimo), così il prete è il dottore della legge, sempre secondo il principio
di compenetrazione fra giurisprudenza e religione.
2.3. I precetti di legge e i cinque fondamentali
Vediamo ora quali sono i precetti di legge, analizzando solamente gli ibādāt, ovvero gli atti di culto
prima citati. Va evidenziato che, come nella teologia mancano veri e propri dogmi, così nella legge
mancano atti sacramentali: per i musulmani, il dogma sarebbe un peccato di blasfema presunzione,
in quanto definizione e ragionamento umano su Dio, mentre blasfema magia è il sacramento, in
quanto atto che costringe Dio a determinate operazioni. Dogma e sacramento come elementi
umanistico-magici, esplicazioni o addirittura produzioni di leggi necessarie nel campo del Divino
sono impensabili per l'arbitrario Dio islamico.
Per il fiqh esistono cinque categorie legali, ovvero ogni atto è:
1. Doveroso: la cui omissione è punita; fra questi atti si distinguono quelli doverosi personalmente
(come la preghiera) e quelli che possono essere eseguiti solamente da una parte della comunità
(come la guerra santa);
2. Raccomandabile: la cui omissione non è punita ma la cui esecuzione è premiata;
3. Permesso: Per la cui omissione o esecuzione non è prevista né pena né premio;
4. Riprovevole: non punibile ma religiosamente riprovevole;
5. Proibito: atto proibito e punibile per legge.
Ad ogni livello corrisponde una reazione diversa da parte della comunità e gli atti punibili sono
solamente quelli proibiti e doverosi. Molte delle differenze fra le scuole giuridiche stanno proprio
nel fatto di considerare certi atti come raccomandabili oppure permessi e così via. Un atto legale
può essere inoltre valido o nullo, prescindendo dal suo grado di liceità: così, per esempio, se uno
compie la preghiera dopo l’abluzione con acqua rubata, l’atto è valido, benché proibito e punibile.
Si dice che Maometto avrebbe detto: "L'Islam è basato su cinque fondamentali: la professione di fede,
la preghiera, l'elemosina rituale, il pellegrinaggio alla Mecca e il digiuno". Questi cinque atti
cultuali sono chiamati i cinque pilastri dell'Islam (arkān al-islām), ai quali i manuali di diritto
islamico aggiungono un elemento canonico importantissimo, la purificazione (tahāra), che deve
precedere tutti gli atti del culto:
1) PROFESSIONE DI FEDE (šahāda): non va confusa con la semplice adesione del cuore, si tratta
qui dell’atto legale di pronunciare la seguente formula: <<Professo che non v’è altro Dio (Allah)
e che Muhammad è l’inviato di Dio>> di fronte a testimoni. Basta questa semplice dichiarazione
per far entrare chi la pronuncia a tutti gli effetti, nella comunità musulmana, non possedendo
l’Islam riti di iniziazione (es. battesimo cristiano).
2) PREGHIERA (salāt): si intende non la preghiera intima e libera del cuore da farsi quando si vuole,
ma la preghiera rituale, canonica: si tratta di un "operare sacralmente". Nel Corano
risulterebbero quattro preghiere canoniche giornaliere e una preghiera notturna (in totale 5) e
attualmente i tempi stabiliti sono: l'alba, il mezzogiorno, il pomeriggio, il tramonto e la sera

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(N.B.: il giorno musulmano, di 24 ore, viene calcolato da un tramonto all'altro). l'obbligo di


eseguire le cinque preghiere giornaliere incombe a ogni musulmano in pieno possesso delle sue
facoltà mentali e pubere (mukallaf), che quindi è in grado di obbedire a tutti i precetti religiosi.
Condizione preliminare per la preghiera rituale è la purificazione (tahāra): non solo la persona
del credente ma anche i suoi abiti e il suolo su cui si trova devono essere ritualmente puri
(impuri sono considerati: porci, cani, bevande inebrianti, sangue e animali morti non macellati
ritualmente; un contatto con questi rende un musulmano contaminato). Diversamente dal
diritto sciita, per i sunniti le persone dei non musulmani sono pure: solo che è interdetto loro di
entrare nel territorio sacro della Mecca (possono visitare le moschee al di fuori dell'orario di
preghiera). Esistono vari livelli di impurità oltre al contatto con questi oggetti e animali,
abbiamo lo stato di impurità minore in cui l'uomo può ritrovarsi (es. toccare pelle di donna
estranea, dopo aver fatto i propri bisogni, dopo uno svenimento e così via) oppure di impurità
maggiore (es. dopo contatti sessuali e per la donna, nel periodo mestruale e per quaranta giorni
dopo il parto): la prima interdice la preghiera, la circumambulazione intorno alla Ka'ba e il
toccare il Corano, mentre il secondo interdice anche l'entrata in moschea e l'abluzione. Abolisce
lo stato di impurità minore l’abluzione e quello di impurità maggiore l’abluzione completa. La
prima consiste nel fare i seguenti gesti: lavarsi il viso, le mani e gli avambracci fino al gomito,
stropicciarsi il capo con la mano bagnata, lavarsi i piedi. La seconda consiste in un bagno
completo. Ordinariamente nelle moschee si trova tutto l’occorrente per una pratica esecuzione
delle abluzioni.
Per eseguire la preghiera il fedele deve:
a) rivolgersi in direzione della Mecca;
b) pronunciare in piedi la formula di intenzione (niyya);
c) pronunciare, con mani fino alle spalle e palme in avanti, la frase "Allāhu akbar" (Dio è
Massimo);
d) recitare il primo capitolo (sūra) del Corano (Fātiha);
e) inchino;
f) in piedi;
g) prosternazione;
h) posizione seduta;
i) prosternazione;
l) professione di fede ed eulogia sul Profeta;
m) formula di saluto "la pace sia su di voi" (taslima).
L'insieme di questi movimenti forma una rak'a (inchino), ogni preghiera conta un certo numero
di rak’a: almeno 2 all'alba, almeno 3 al tramonto e almeno 4 nelle altre. La preghiera può
compiersi, al momento stabilito, dovunque, anche se è desiderabile che si compia insieme ad
altri fedeli in una moschea (mašgid), nelle quali la partecipazione delle donne è raccomandata
dalla legge (l'antifemminismo di alcuni paesi non ha nulla a che fare con l'Islam); nelle moschee,
la preghiera è sempre guidata da un direttore (sempre chiamato imām), mentre la direzione
della Mecca viene indicato dal mihrāb (nicchia nella parete). Il tempo della preghiera viene
annunciato dal mu'addin (muezzin), che dall'alto dei minareti grida l'invito alla preghiera
(adān). La preghiera di mezzogiorno del venerdì deve essere fatta in una moschea apposita più
ampia ed essa include anche una predica (hutba) fatta dal predicatore (hatīb), che di solito
consiste in lodi a Dio. Esistono poi altre preghiere raccomandate: quella a metà della notte,
quella per la festa dei sacrifici, quella alla fine del Ramadān, quella per i periodi di siccità, per
le eclissi etc.
3) ELEMOSINA RITUALE (zakāt): nel Corano l'elemosina è uno fra i più raccomandabili doveri
religiosi: si tratta di una "purificazione" della propria ricchezza dandone una parte ai bisognosi
o per cause buone. L'uso giuridico distingue fra sadaqa, che è la donazione volontaria, e zakāt,
che è invece una vera e propria tassa regolata dalla legge. Man mano la zakāt divenne infatti
una vera e propria decima regolata dalla legge con formule precise: bisogna dare (ai poveri, ai

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bisognosi, agli esattori, alla guerra santa etc.) una parte dei propri beni, ma solo se di queste
sostanze (es. prodotti dei campi, oro, argento, bestiame etc.) si possiede un minimo fissato dalla
legge. Oggi, la zakāt è praticamente caduta in disuso, salvo dove la legge islamica è seguita
esattamente (Pakistan, Afghanistan, Arabia Saudita, Iran). È prevista inoltre un'elemosina
speciale da fare alla fine del digiuno e le libere donazioni per scopi caritatevoli.
4) IL DIGIUNO DEL MESE DEL RAMADĀN (saum): con Maometto e l'Islam si ritornò al calendario
lunare puro, quindi i mesi musulmani sono alternativamente di 29 e 30 giorni cosicché l'anno
è composto da 354 giorni. Ogni mese comincia e finisce, come il giorno, con il tramonto del
sole e, secondo la legge, per dichiarare iniziato il mese non basta il calcolo, ma ci vogliono dei
testimoni oculari che vedano il primo spicchio di luna del nuovo mese (se è nuvoloso l'inizio
slitta di un giorno). Il digiuno viene effettuato nel mese di Ramadān e implica non solo l'astenersi
da ogni cibo e bevanda, ma anche da qualsiasi contatto sessuale, dall'alba al tramonto di ciascun
giorno. È raccomandato, durante il periodo del digiuno, di non litigare, di non concepire cattivi
desideri, di non calunniare, di non mentire. Il digiuno è valido solamente se preceduto dalla
niyya (formulazione dell’intenzione). Tale digiuno è durissimo, specialmente quando cade nei
mesi estivi dal giorno molto lungo. In generale, si compie un pasto poco prima dell'alba (sāhūr)
per rinforzarsi per la giornata di digiuno. Il pasto di rottura del digiuno, dopo il tramonto, è
chiamato fatūr. Sono esclusi dal digiuno i minorenni, i malati di mente, le donne durante la
mestruazione, i malati, i viaggiatori, i malati cronici, le donne gravide o che allattano e i vecchi:
questi, tranne i vecchi, i malati cronici, i pazzi e i minorenni (che devono fare donazioni),
devono recuperare poi il digiuno. Alla fine del mese di digiuno viene celebrata la "piccola festa"
che, insieme alla "grande festa" che si ha in concomitanza con i sacrifici fatti in occasione del
pellegrinaggio alla Mecca, costituisce una delle due feste riconosciute ufficialmente dalla legge.
Ce ne sono altre non ufficiali ma praticate: primo dell'anno (muharram), nascita del Profeta,
ascensione al cielo di Maometto, notte in cui Dio determina il destino degli uomini e notte di
rivelazione del Corano (qadar).
5) PELLEGRINAGGIO (haǧǧ): i riti del pellegrinaggio, di derivazione chiaramente pagana e
preislamica, sono la parte meno pura dell'Islam (che ripudia i sacramenti). Luoghi di
pellegrinaggio sono innanzitutto la moschea della Mecca con dentro la Ka'ba (con murata la
Pietra Nera, detta la "mano di Dio"; l'interno è vuoto mentre l'esterno è rivestito da un velario
nero con scritte sacre cambiato ogni anno), la fonte di Zamzam (miracolose virtù terapeutiche)
e il maqām Ibrāhim (impronte dei piedi di Abramo). Il pellegrinaggio è obbligatorio almeno
una volta nella vita per chi abbia i mezzi di farlo e per compierlo è necessaria la niyya. Non
appena giunto nel territorio sacro della Mecca (haram), interdetto ai non musulmani e nel quale
è vietato uccidere animali e abbattere piante, il pellegrino deve porsi in stato di sacralizzazione
(ihrām), durante il quale è proibito avere rapporti sessuali, radersi, tagliarsi i capelli e le unghie
e bisogna vestire due panni puliti non cuciti. Per accorciare questo processo, la legge concede
ai pellegrini di compiere una "visita minore" ('umra) prima del vero pellegrinaggio: si fa il tawāf,
ovvero la circumambulazione della Ka'ba per 7 volte in senso antiorario, e poi la corsa fra Safā
e Marwa per 7 volte. Il pellegrinaggio completo consiste invece nel seguente programma:
partenza dalla Mecca (il 7 del mese), sosta a Minà, arrivo nella pianura di 'Arafa (l'8) e sosta
davanti al "Monte della Misericordia" (8-9), sosta a Muzdàlifa (il 9) e indietro fino a Minà (il
10); qui il pellegrinaggio finisce, ma chi non ha fatto il giro della Ka'ba deve farlo dopo il
pellegrinaggio. L'11 il 12 e il 13 del mese sono giorni di festa, durante i quali è addirittura
vietato il digiuno considerato sempre meritorio.

2.4. Il ǧihād
Nel caso della legge sciita, esiste anche un sesto pilastro, quello della guerra santa (ǧihād), che dai
sunniti non è considerato un pilastro ma è comunque obbligatoria collettivamente. Con ǧihād, che
significa letteralmente "sforzarsi", il Corano identifica prescrizioni molto generali, da un'ampia

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tolleranza non-violenta a una guerra puramente difensiva. Fu in effetti il Corano a fondare la


dottrina del ǧihād, incitando soprattutto al combattimento violento (v. sura 9, "Versetto della
Spada"), ma fu la letteratura della tradizione degli hadīt a descrivere nel dettaglio come i musulmani
dovessero combattere e per cosa (tra i secoli VIII e IX, quindi diversi decenni dopo la morte del
Profeta: tra i principali, il Kitab al-jihad di al-Mubarak e le sei raccolte canoniche dell'Islam
sunnita). Oltre agli aspetti pratici della guerra (peccati, proibizioni durante il combattimento,
spartizione del bottino, trattamento dei prigionieri, strategie militari, possibile partecipazione delle
donne, gestione dei cavalli, preparazione psicologica dei combattenti alla vittoria), emerge
chiaramente l'aspetto redentore del ǧihād, in maniera analoga a quanto avviene nella tradizione
cristiana: secondo la tradizione, la spada, insieme alla sincera intenzione del combattente, spazza
via i peccati del credente e permette di accedere al Paradiso; inoltre, il continuo combattimento
allontana il musulmano da questo mondo e alimenta il suo desiderio di abitare nell'aldilà.
Un'ulteriore precisazione sulla qualità della guerra la fornì poi il diritto islamico, codificatosi a
partire dal IX secolo e basato su Corano e hadīt. Secondo il diritto islamico, il ǧihād diventa obbligo
personale di tutti i credenti capaci di portare armi solo in caso di aggressione; in teoria, sarebbe
raccomandabile almeno una campagna l'anno contro gli infedeli, contro cioè quel Dār alHarb (casa
della guerra ossia territori non islamici) che i giuristi contrappongono al Dār al-Islām (casa
dell'Islam: territori islamici); a queste due si aggiunge il Dār al-Sulh, ovvero i territori in cui i
musulmani stipulano trattati o tregue. Questa tripartizione elaborata dal diritto presuppone quindi
che i musulmani non siano in stato permanente di guerra universale, ma che vi siano tappe sulla
via dell'inevitabile e finale vittoria dell'Islam: ci possono quindi essere anche momenti di pace con
le popolazioni non musulmane, perché la guerra è possibile, ma non necessaria. L'attacco agli
infedeli deve comunque essere preceduto da un chiaro invito a convertirsi e solo dopo un esplicito
rifiuto si deve procedere alla guerra: se questa viene dichiarata senza pretesto, allora è considerata
un vero e proprio omicidio. La legge proibisce l'uccisione di donne, bambini, vecchi, monaci e in
genere inermi, oltre di distruggere i possessi del nemico e di rovinarne le case. Il Corano fa inoltre
una distinzione fra veri e propri infedeli (kāfir) e persone appartenenti a religioni riconosciute
dall'Islam come rivelate, ma abrogate da esso (Cristianesimo, Ebraismo, Sabeismo): questi vanno
combattuti non fino a che si convertano, ma fino a che si sottomettano all'Islam, mantenendo
liberamente la propria religione in cambio del pagamento di un tributo, la jizya, il cui scopo
primario era, dal punto di vista religioso, l'umiliazione (con statuto personale proprio, libertà di
culto e segni di riconoscimento; vengono definiti "protetti" o "gente del Libro).
2.5. Costumi privati e proibizioni
Vediamo ora alcune prescrizioni della legge dedicate a momenti cruciali della vita dell'uomo:
a) NASCITA: è raccomandabile sacrificare due capi di bestiame per la nascita di un maschio e uno
solo per la nascita di una femmina e distribuire elemosine ai poveri. L'imposizione del nome
avviene al settimo giorno mentre la circoncisione, non menzionata nel Corano, è un uso
antichissimo degli Arabi preislamici ripreso dai musulmani. Comunque, tutti i musulmani vi si
sottopongono e considerano tale pratica un segno distintivo dell’Islam.
b) MATRIMONIO, DONNE E SCHIAVITU': il Corano ammette la poligamia, fissando a 4 il numero
massimo di mogli, mentre è illimitato il numero di schiave concubine. Il matrimonio, non
considerato sacramento dall'Islam, è semplicissimo e di solito viene celebrato davanti a un
giudice. Con il contratto, lo sposo si impegna a versare alla sposa una dote. La legge ammette il
matrimonio di un musulmano con donne della "gente del Libro", ma non viceversa e il divorzio
è molto facile. La donna è considerata inferiore all'uomo dal Corano, tuttavia la situazione reale
della donna nei paesi islamici, a causa di tradizioni e pregiudizi estranei alla legge religiosa, è
molto peggiore di quanto il Corano e la Legge prescrivono: l'antifemminismo era troppo forte
per essere superato, da qui per esempio l’uso del velo (non presente nel Corano). Quanto alla
schiavitù, così come nel Cristianesimo, questa è riconosciuta dal Corano come un dato di fatto

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sociale: nel Corano è però più mitigata e lo schiavo ha sempre goduto di una buona condizione
nei paesi islamici (infatti, secondo la Legge il riscattar schiavi è considerata opera fra le più
meritorie possibili e lo schiavo gode di parziali diritti). È vietato dalla legge rendere schiavo un
musulmano.
c) MORTE: in caso di morte ci sono quattro operazioni da fare: abluzione completa del cadavere,
avvolgimento del cadavere in sudarii, preghiera dei morti e seppellimento (sul lato destro con
viso verso la Mecca). Prima del definitivo seppellimento, dopo che il cadavere è stato deposto
nella fossa si usa <<seggerire>> al morto la professione di fede perché esso risponda bene alle
domande degli angeli Munkar e Nakir. È usanza fare un banchetto funebre il settimo e il
quarantesimo giorno dopo la morte, ma non nel giorno del seppellimento.
Esistono poi altre prescrizioni o proibizioni secondo la legge coranica:
• è proibito l'uso di vasi d'oro e d'argento per i banchetti, così come l'uso di monili d'oro e d'argento
per gli uomini (divieto rimasto sempre teorico); anche la seta è proibita;
• è proibito riprodurre immagini di esseri viventi e anche il possesso di esse;
• è proibito il gioco d'azzardo e il prestito a interesse;
• esistono limitazioni per la musica e il canto;
• è proibito mangiare carne di maiale, sangue e animali non macellati ritualmente;
• è proibito l'uso di bevande alcoliche (anche se la scuola hanafita proibisce solo il vino). Il Corano
proibì il vino solo gradualmente, mentre prima lo indicava come "buon alimento".

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CAPITOLO 3: LA MISTICA
Inizialmente guardata con un certo sospetto dagli ambienti tradizionali, col passare del tempo e con
il contributo di autori come al-Qusayri e Gazzali la mistica, chiamata più precisamente sufismo,
divenne parte integrante della spiritualità musulmana. La mistica non solo allignò vigorosamente
nell’ortodossia sunnita, ma anzi e soprattutto nel sunnismo che essa trovò i più alti, i più profondi
e talvolta i più estremi rappresentanti, mentre lo sciismo lo considerò e la considera con molto
maggior sospetto.
Bisogna, anzitutto, tenere presente che misticismo è un contatto personale e diretto fra uomo e Dio:
l’Islam sunnita, lascia la massima libertà e dogmatica e sperimentale, al suo foro interno, o meglio,
non se ne interessa. Non esistendo, inoltre, né sacerdoti né sacramenti2, una volta che il musulmano
pio ha eseguito regolarmente i suoi obblighi legali è perfettamente a posto con la legge e può anche
parlare direttamente con Dio come vuole. Il misticismo ortodosso è quindi nell'Islam l'assoluta
personalità di Dio che è spinta a un punto tale che non c'è più posto per altre persone reali che non
siano la Sua persona; è una voluttà estrema di autonegazione e di affermazione di Dio; è
l'accentuazione dell'unicità di Dio che porta il mistico ad affermare addirittura politeismo la sua
stessa esistenza autonoma.
3.2. Le tendenze eterodosse del sufismo
Quella che abbiamo appena visto è la tendenza più ortodossa del sufismo, accettata dall'ortodossia.
Vi sono anche delle tendenze mistiche eterodosse:
a) Dio solo è degno di essere e di esistere: affermare l'esistenza sia pur minimamente autonoma di
altri essere è bestemmia. Tale via emozionale verso il panteismo converge con quella di tipo più
pericoloso e metafisico, che proviene dall'attribuzione a Dio del termine al-Haqq, "la Realtà". La
prima via emozionale resta puramente islamica ed è tollerata dall'ortodossia, che scusa gli
eccessi verbali ("stare insieme con Dio" = blasfemia) tramite l'espressione "annientarsi in Dio".
b) Accentuando la trascendenza di Dio si giunge anche a una sua trascendenza morale: Dio, cioè,
è al di là del bene e del male. I pericoli di eterodossia arrivano quando alcuni mistici cominciano
a immergersi troppo nell'atto destinante divino, a mettersi troppo nella parte di Dio, sentirsi essi
stessi al di là del bene e del male.
c) Un grave pericolo per l'ortodossia è la diminuzione dell'importanza metafisica della persona del
Profeta in certe forme di misticismo. Il mistico sostiene di avere rivelazioni da Dio, tanto da
dichiararsi superiori addirittura al Profeta: per l'ortodossia invece le rivelazioni, come sappiamo,
sono limitate ai soli Profeti. In questo caso tutto si può risolvere mediante sottili sfumature di
termini tecnici. Già il Corano in un passo molto interessante sembra limitare a tre forme di
<<rivelazione>> di Dio alle creature, ciò può avvenire:
• attraverso un’ispirazione (intimo suggerimento) senza parole come può avvenire per esempio
per gli animali;
• Nei sogni o in visioni allusive
• Rivelazione recitata e formulata a parole mediante un angelo che rivela concreti dettami di
legge a un Profeta. Solo quest’ultima forma di rivelazione è riservata al messaggero di Dio.
d) Altro pericolo è l'idea di "Santo" (awliyā', "amico" di Dio), che, specialmente nel misticismo
popolare, è degenerata in venerazione per l'uomo portata a limiti estremi, il colmo della
blasfemia per il così estremamente accentuato teocentrismo islamico;
e) Per poter rendere accettabili all'ortodossia le loro teorie, i mistici usano spesso l'interpretazione
allegorica (ta'wīl) dei termini più antropomorfistici della teologia: si corre qui il pericolo di una

2 N.B.: notiamo che quindi nel mondo cristiano occidentale esiste la separazione fra Chiesa e Stato, con la Chiesa che
ha dei propri funzionari; nel mondo islamico questa separazione non esiste e legge e religione vanno a coincidere: lo
scopo dell'Islam è trasmettere un ordine del mondo e affermarlo, infatti esso detta le regole del vivere umano.

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vera e propria vanificazione dei dati più concreti della rivelazione. I mistici tolgono ogni realtà
corporea, che la tradizione ortodossa invece chiede abbiano, al mondo dei <<novissimi>>, al
paradiso e all'inferno, facendone stadi di esperienza interiore nel contatto o nell’allontanamento
dalla Realtà Suprema.
Per evitare queste tendenze eterodosse, il sufismo ortodosso si configura come un approfondimento
emozionale e personale delle verità religiose dell'Islam, principalmente in tre direzioni:
1. Teologico-dogmatica: il sufismo opera un approfondimento dell'Islam, soprattutto nel senso di
una interpretazione interiore, più spiritualizzata, dei dati della rivelazione. Gli ortodossi
generalmente evitano di prendere posizioni in questioni teologiche e il loro sufismo è soprattutto
emozionale. Per questo approfondimento essi si avvalgono dei dati coranici:
• concetti di Dio-Luce e Dio-Realtà;
• aspetti antropomorfistici del paradiso coranico visti come stati spirituali altissimi nella
letteratura mistica (frutti, Giardini, delizie etc.);
• senso vivo della "leggenda": il Corano abbonda di elementi suggestivi (viaggio di Mosé, viaggio
di "Quello delle Due Corna"), tanto che in alcuni passi lo stesso Maometto parla di esperienze
personali mistiche, ed esiste un gusto per l'approfondimento leggendario molto vivo (soprattutto
in autori come al-Israq), con i mistici che sostituiscono alla semplice e rozza psicologia
ortodossa una più sfumata (v. tripartizione dell'anima: cuore, spirito e cuore dei cuori). La storia
dell'anima umana è insomma vista come una lunga evoluzione ed affinamento dal bruto
all'angelo. Mentre i mistici ortodossi restano attaccati al concetto di creazione, gli eterodossi
sono spesso scivolati da quello di creazione al concetto di emanazione; in Rumi, per esempio,
colui che ama il fare di Dio è glorioso, colui che ama ciò che Dio ha fatto è un miscredente:
bisogna mettersi dal punto di vista di Dio, amare il suo liberissimo agire puntuale, non il dato
di fatto ormai superato e concretizzato (concetto di Dio-Artista).
2. Morale: L'etica è forse la zona spirituale in cui il sufismo è particolarmente benemerito per un
raffinamento dei costumi e un ingentilimento della vita individuale e sociale degli ambienti
islamici. Il punto di partenza è sempre il senso di totale schiavitù e sudditanza dell'uomo verso
Dio ('ubūdīya), dal quale, paradossalmente, se realizzata con profondità, nasce la rivelazione di
una suprema libertà del mistico. Non a caso, il sufismo mostra una spiccata tendenza a un
pessimismo nel giudicare il mondo e la carne e in alcuni passi gli stessi monaci cristiani e la
loro castità assoluta, vista dall'ortodossia islamica come cosa proibita, sono lodati. Il zuhud
(ascetismo) può essere visto da tre punti di vista: a) rinuncia a ciò che è proibito (ascetismo di
massa), b) rinuncia al permesso superfluo (ascetismo degli eletti) e c) rinuncia a tutto ciò che
può allontanare l'uomo da Dio (ascetismo degli gnostici). In tutti questi livelli si nota il concetto
prediletto dell'Islam: l'abissale distanza fra il Signore e il Servo. Tipico dell'etica sufista è anche
l'approfondimento in senso etico dei precetti di legge.
3. Liturgico-pratica: la liturgia mistica mira sostanzialmente a produrre lo stadio supremo della
via mistica, l'estasi cioè l'annientamento in Dio (fanā'), l'unione. Gli stadi vari della via mistica
sono distinti in "stazioni" di cui l'uomo si appropria e di "stadi" che, senza concorso dell'uomo,
calano nel suo cuore dall'alto. Dopo il fanā' c'è, per il mistico musulmano, il baqā' bi'llāh, ovvero
il permanere eternamente in e con Dio. Un atto liturgico fra i più importanti per produrre questi
stati (o meglio, in concomitanza col quale Dio crea nel mistico degli stati, perché è sempre Dio
che crea) è il cosiddetto dikr, cioè la menzione del nome di Dio o di qualche suo attributo. Il
dikr si distingue sia dalla preghiera personale che dalla preghiera canonica perché esso deve
restare nei cuori degli uomini in ogni momento e non solo in certi momenti adatti. Le varie
scuole mistiche hanno i loro speciali tipi di dikr. La scuola (tarīqa, "via mistica") col relativo
maestro è il pratico mezzo indispensabile per il mistico che voglia raggiungere lo scopo del suo
vagare verso Dio. Solo dopo averla percorsa appieno e sotto la guida di un maestro (muršid,
"guida", o šaih, "vecchio") il discepolo (murīd) giunge allo stadio della realtà o realizzazione o
gnosi (haqīqa).

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È usuale nei trattati di sufismo veder distinti appunti i tre stadi:


1. šarī'a (legge canonica: è, di fatto, la teologia islamica ortodossa);
2. tarīqa (rito e regola di confraternita);
3. haqīqa (realizzazione dell'assoluto).
La necessità del Maestro è dunque fondamentale: nessuno può raggiungere il terzo stadio senza
questo intermediario. Dall'idea di Maestro deriva una gerarchia di santi che i sufisti sono andati
costruendo e al cui vertice sta il polo (qutb), santi che in modo misterioso governano il mondo e le
cui tombe sono ora venerate. La totalitaria e monolitica concentrazione del divino nell'unica
persona di Allāh (gli angeli, nell'Islam, sono i suoi servi) si viene presso i mistici un po' diluendo.
Fondamentale è poi, anche se di fatto non tutte le scuole la esigano in pratica, è la povertà (faqr)
che anzi ha dato il nome, in certe contrade, ai mistici praticanti, ovvero i faqīr, i "poveri". La povertà
è concetto già molto antico nell'Islam e risale alle usanze estremamente parsimoniose e parche di
Maometto e degli stessi Arabi del deserto. A livello pratico, compiuto il giuramento e il patto di
iniziazione, il Maestro comincia a rivelare al novizio il dikr, che di solito è uno speciale nome di
Dio (la tradizione vuole che siano 99, mentre il centesimo sarebbe ignoto e avrebbe proprietà
miracolose). Il documento fondamentale di una scuola mistica è la wasīya, "legato testamentario"
del fondatore, contenente esortazioni mistiche e morali. Oltre ai dikr, ogni scuola possiede speciali
preghiere supererogatorie e varie pratiche come digiuni extra, clausura, silenzio e vagabondare. Il
mistico membro di una confraternita di solito è vestito di un saio di rozza lana ed esistono
testimonianze di primi monasteri nel IX secolo d.C. Musica e canto, mal visti dall'ortodossia, sono
spesso promossi dalle scuole mistiche, insieme e pratiche estreme come autolesionismo, ingoiare
serpi e spade etc. Queste pratiche spesso portano ad un fanatismo esagerato che scoppia in episodi
di incontrollata xenofobia e violenza.

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CAPITOLO IV: LA ŠĪ'A E LE COMUNITA' NON SUNNITE


4.1. Origini storiche dello sciismo
L'Islam fin qui descritto è l'Islam sunnita, ovvero l'Islam di coloro che chiamano se stessi "la gente
della tradizione e della comunità (ǧamā'a)": il loro atteggiamento presuppone un'autorità religiosa
non concentrata in persone (ad esclusione del Profeta), ma in un libro, il Corano, e nella
interpretazione comunitaria del medesimo attraverso tutto un lavorio di generazioni di dotti e
giuristi. Anche gli sciiti potrebbero chiamarsi "gente della tradizione", in quanto hanno la loro
venerazione per le tradizioni del Profeta, mentre non potrebbero dirsi fautori della interpretazione
comunitaria proprio in quanto è punto centrale della loro dottrina la concentrazione della autorità
religiosa in centri-persone. Secondo gli sciiti, Maometto avrebbe infatti nominato un successore
(imām), autorevole interprete anche dottrinario (non solo difensore della legge e capo della
comunità come il Califfo sunnita) della sua parola, e questi un altro. Il punto singolare è che la
maggior parte degli sciiti fa cessare questa successione in un momento preciso del tempo, perciò la
"zona storica sacra" autorevole, docente, è per essi più lunga di quella sunnita, che si ferma alla
morte di Maometto. La parola šī'a significa letteralmente "fazione", "partito". Fin dalla morte del
Profeta ci furono persone nella comunità musulmana che sostennero essere 'Alī, come il più vicino
parente maschio del Profeta (suo genero) e uno dei più pii e antichi credenti, il legittimo suo
successore: fu quindi dall'inizio una questione puramente politica. Studi recenti hanno fatto una
distinzione fra una fazione politica, di partigiani puramente politici di 'Alī e degli alidi i quali
potevano avere anche teorie strettamente sunnite, e una fazione religiosa, di entusiasti, dalle idee
fortemente colorate di elementi gnostici, il cui centro fu soprattutto Kufa in Mesopotamia e il cui
primo rappresentante fu al-Muhtar. È da quest'ultima che derivano tendenze estreme come
l'ismailismo ed è anche la più antica: essa poi non sempre è connessa a personaggi della famiglia
alide e non sempre a discendenti del ramo husainita della medesima (da Husain, figlio di 'Alī, morto
in combattimento nel 680 d.C.).
Qual è, in Islam, il metro per identificare come <<eretica>> una dottrina? Un metro preciso per
definire "eretica" una dottrina non esiste nell'Islam. Comunque, gli sciiti non negano la profezia di
Maometto, né la sua definitività nel tempo: sono quindi, secondo il metro di al-Gazzali,
sostanzialmente degli ortodossi. Ma la loro eterodossia principale sta nel non adattarsi all'iǧmā'
(consenso della comunità, dei teologi), preferendogli l'autorità personale di un imām docente.
L'eterodossia delle varie comunità sciite è misurabile secondo il grado di "divinità" che essi
attribuiscono alla persona dell'imām e seguendo questo criterio si possono distinguere tre categorie
di fazione:
• estrema (ismailita e altre comunità): sono qualche centinaio di migliaia diffusi un po' ovunque;
• media (duodecimana): è la più importante con 50 milioni di fedeli ed è diffusa in Pakistan, India,
Iraq, Asia sovietica e Persia;
• moderata (zaidita): sono circa 5-6 milioni concentrati soprattutto nello Yemen.
Una grande difficoltà per una trattazione sommaria delle dottrine sciite sta nella loro grande varietà
e nell’intricatezza dai rapporti storico-religiosi fra le varie sette.

4.2. La šī'a duodecimana: l'imamismo


La šī'a fu imposta ai Persiani nel XVI secolo dalla dinastia turca dei Safavidi, i quali, in origine
sunniti, riesumarono antichi trattati di teologia sciita e fecero venire predicatori e propagandisti
dalla Siria meridionale e dall'Arabia per la sciitizzazione del paese. È un cambiamento
importantissimo, ma sono necessarie alcune premesse: la šī'a, nasce come un fenomeno religioso
arabo e già col tempo aveva trovato nella Persia un terreno particolarmente fertile. Inoltre,

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nell’evoluzione delle proprie dottrine, nell’epoca abbaside si era già mescolata a credenze gnostiche
o legate al mondo religioso persiano, che avevano contribuito a dare un carattere distintivo a quella
che poi sarà la šī'a persiana. Inizialmente introdotta in Persia in una forma entusiastica ed estremista
da Sah Isma'il, il conquistatore della Persia (che negli scritti si definiva "Dio") che, così facendo,
voleva staccarsi dal sunnismo per essere identificato come fondatore di una nuova religione (da qui
la perenne rivalità con l'Impero ottomano sunnita). La teologia sciita attuale si differenzia da quella
ortodossa sunnita da tre punti di vista:
a) l'impostazione del concetto di imām;
b) un valore peculiare dato alla sofferenza, al martirio, che vi assumono un carattere quasi
redentivo;
c) l'adozione della teologia mu'tazilita e, quindi, l'ampio uso del ta'wīl nell'interpretazione del
Corano da parte dello sciismo (interpretazione allegorica del Corano).

4.3. L' imām


Ai requisiti che l'ortodossia sunnita ritiene necessari per l'elezione a imām o a Califfo gli sciiti
aggiungono la discendenza da 'Alī e negano del tutto il principio di elezione. Storicamente, per gli
sciiti Maometto avrebbe annunciato al genero la successione nel 632 d.C.: 'Alī è chiamato walī
(amico speciale di Dio) e wasī (esecutore testamentario, erede del Profeta), ma soprattutto "principe
dei credenti". La dignità dell'imām si trasmette per nass, atto col quale il padre designa il figlio che
deve succedergli all'imamato. L'imām è il solo conoscitore del senso intimo dell'Islam comunicato
direttamente ad 'Alī e da questi ai suoi discendenti, ed ha l'autorità docente obbligatoria e definitiva
nella interpretazione del Corano e della sunna. Mentre nel califfo sunnita l’aspetto umano, terreno
e politico è preponderante e non è presente nessuna qualità di carattere divinatorio, carismatico o
sacrale, l’imām è ritenuto portatore di qualità sovraumane carismatiche. Ad esso spetta anche la
'isma, infallibilità e impeccabilità. Il Profeta viene identificato come <<Intelletto Universale>>
mentre l’imām è l’<<Anima universale>>. Nell’imām si incarna una particella della "Luce
muhammadica" mediante la quale Dio creò il mondo, discesa attraverso i lombi di Adamo
successivamente in tutti i profeti. Insieme ad 'Alī carattere particolarmente sacro assumono i
"cinque Puri", cioè la Sacra Famiglia: Maometto, sua figlia Fatima, suo cugino e genero 'Alī e i suoi
due figli, Hasan e Husain. È interessante vedere che esiste nello sciismo un particolare culto di
Fatima, che ingentilisce il maschilismo dell'Islam. Sia l'imām e in generale i "cinque Puri" hanno
nella fede sciita anche un'importante funzione: la "mediazione" presso Dio. Quello che nella
religiosità sunnita è l'intercessione attribuita solo al Profeta, nello sciismo è una vera e propria
mediazione che confina quasi col concetto di redenzione. Particolarmente carico di questa missione
è considerato Husain, figlio di Fatima e 'Alī ucciso nella battaglia di Kerbela contro gli Omayyadi
nel 680 d.C., episodio considerato come libero sacrificio per la salvezza dei musulmani. In questo
caso si vede una rivalutazione del dolore e della sofferenza, della sconfitta come fatto religiosamente
positivo di cui il sunnismo è privo: del resto, lo sciismo è una religione di sconfitti che sognano la
rivincita. In pratica, coloro che non riuscirono sulla terra a realizzare la loro missione divina sono
semi-divinizzati e dovranno tornare alla fine per far trionfare la giustizia: è il concetto di Imām
nascosto, presente fisicamente sulla terra ma momentaneamente occultato. I vari rami dello sciismo
si distinsero storicamente per questioni di successione legittima degli imām: chi negava l'imamato
di un successore sospetto fermava la linea degli imām al precedente, la cui morte era allora una
gaiba (scomparsa, occultamento); gli altri continuavano la linea di successione visibile fino ad una
fine. La fazione fin qui analizzata, ovvero quella media, è chiamata "duodecimana" proprio perché
ferma la linea di successione al dodicesimo imām Muhammad al-Mahdi (scomparso nell'874 d.C.),
che è quindi quello "nascosto". L'imām nascosto, come detto, è presente sulla terra ma è appunto
occultato e tornerà alla fine dei tempi apparendo di nuovo: egli è chiamato l'"Imām del Tempo",

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senza il quale la comunità musulmana, secondo gli sciiti, non potrebbe esistere, dunque egli deve
essere per forza vivo da qualche parte; intanto, egli fa conoscere la sua volontà e la direzione
spirituale tramite le autorità politiche e spirituali. Data l'occultazione dell'imām, lo sciismo ha
spostato alla fine del tempo l'idea religiosa della teocrazia pratica, che invece l'Islam sunnita sogna
come realizzabile col Califfo a qualsiasi epoca: nello sciismo si è quindi venuta a creare una
separazione più netta fra chiesta e stato. Più precisamente, per lo sciismo duodecimano, dopo la
gaiba dell'874, il capo della comunità è il wakīl (luogotenente) dell'imām, che si crede in continua
comunicazione con l'imām occulto: questo era il periodo della gaiba minore, finito nel 940 d.C. e
sostituito da quello della gaiba maggiore. Una conseguenza singolare è che, siccome spetta solo
all'imām dichiarare la guerra santa, lo sciismo ritiene impossibile farla ora, in attesa del suo ritorno,
e la guerra santa è ammessa solo in caso di estrema difesa.
4.4. La teologia mu’tazilita
Il mu’tazilismo, è una scuola di pensiero teologico islamico comparsa nel IX secolo in Iraq. I suoi
seguaci furono chiamati <<i liberi pensatori dell’Islam>> ed erano noti per negare la non-
creazione del Corano e la sua co-eternità con Dio. Da questa premessa, la dottrina deduceva che i
precetti di Dio fossero accessibili al pensiero umano e suscettibili di indagine razionale: quindi, la
conoscenza derivava dalla ragione, e quindi la ragione era arbitro finale nella decisione su cosa è
bene e cosa è male. La dottrina mu’tazilita classica riassume le sue dottrine in cinque dogmi (usūl):
• Unità di Dio: gli attributi di Dio sono identici con la sua essenza; l’onnipotenza di Dio non si
estende agli accidenti né ai fenomeni liberi (ci sono delle altre cause). Il Corano è creato,
altrimenti ci sarebbero due dei;
• Giustizia divina: Dio è giusto e non può volere il male né comandarlo (= bestemmia per
l’ortodossia) e dunque non ha a che fare con le cattive azioni degli uomini, che sono liberi;
• La promessa e la minaccia: connessione della fede con le buone opere e distinzione fra peccati
mortali e peccati veniali. Il musulmano che muore in peccato mortale sarà punito eternamente
nell’inferno;
• Stadio intermedio: si tratta dello stadio del peccatore che non può a rigore identificarsi, né del
resto si poteva chiamare pienamente credente, i mu’taziliti lo chiamano fasiq, empio.
• Ordinare il bene e vietare il male: la fede deve essere difesa e ogni azione cattiva deve essere
rimproverata e punita violentemente se necessario.
• Il mutazilismo professa quindi la natura creata del Corano e pertanto postula l’evoluzione nella
creazione. Questa assumeva che non si poteva negare la possibilità da parte di Dio di modificare
il suo dettato, e quindi la necessità di una guida terrena, un imām, in grado di percepirne i sensi.
Nel mutazilismo è vivissima la tendenza a interpretare allegoricamente il Corano, tendenza
ancora aumentata nello sciismo, che ha accettato come propria dottrina teologica il mutazilismo.
Perché? Il sunnismo, con la sua totale negazione di ogni sacralità alla persona umana, di ogni
forma di incarnazione e di contatto uomo-Dio, è costretto a una accentuazione della personalità
e corposità trascendente di Dio: il Corano sostituisce nell’Islam il Cristo del Cristianesimo,
quindi è il Corano l’essere in cui Dio si incarna come verbo. Nello sciismo, che tendenzialmente
è più <<incarnazionista>> e da valori di particolare sacralità a certe persone, e per il quale la
parola di Dio si manifesta in Maometto, ‘Alī e negli imām, mantenere contemporaneamente
anche persone trascendenti antropomorfizzate sarebbe stato una sorta di doppione: di qui la
necessità per lo sciismo, antropomorfista in terra, di non esserlo troppo nel cielo.

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4.5. La legge religiosa


Se si toglie il capitolo riguardante l’imamato, la šarī’a sciita duodecimana è praticamente simile a
quella sunnita. Ci sono però alcune divergenze:
• esistono certe preghiere speciali (per Fatima, ‘Alī, per l’imām, per la festa dello Stagno);
• esiste, fra le ‘ibādāt, il “quinto” (hums), da prelevare sul bottino, le miniere e i tesori nascosti,
oltre che un capitolo apposito sul “ritiro spirituale” di almeno tre giorni e tre notti (durante il
quale bisogna astenersi da pratiche sessuali e profumi);
• riservati agli imām, come lo erano al Profeta, sono gli anfāl, cioè speciali terreni ottenuti con
operazioni belliche;
• riguardo la guerra santa, viene anche considerata quella contro i musulmani restii a
sottomettersi al legittimo imām;
• nel contratto matrimoniale, esiste anche un matrimonio temporaneo (= prostituzione
legalizzata. Il periodo può essere persino di qualche ora. In caso di nascita di figli essi restano
al padre. Tale tipo di matrimonio è aborrito come illegale dai sunniti ed era soprattutto usato da
chi viaggia e non piò fare a meno di contatti sessuali nell’assenza delle proprie mogli;
• esiste la taqiyya come prescrizione, secondo cui lo sciita è obbligato a nascondere le proprie
credenze in caso di pericolo o di danno per la comunità o per se stesso;
• esistono particolari feste sciite (la più importante è quella dei dieci giorni del mese di muharram,
destinati a celebrare il martirio di Husain a Kerbela);
• lo sciismo è madre di sette scuole teologiche diverse: le più famose sono gli usūlī, gli ahbārī e i
šaihī. I primi propugnano una certa ampiezza nell’uso di metodi razionali applicati
all’investigazione delle fonti, mentre i secondi tendono a restringere il più possibile tutto quanto
non sia pura tradizione e aderiscono alla cosidetta <<imitazione dei morti>>, sottomissione
cieca, cioè, ai precetti stabiliti in tempi precedenti dai successivi imām.
4.5 Ismailismo e sette estreme
L'imamismo più estremo si presenta come una più consequenziaria deduzione dei principi imamiti
generali: la presenza sacra di una Persona, simbolo sulla terra e vicario del Profeta e di Dio, che
spieghi autorevolmente la Verità, non può mai mancare. La maggior parte delle sette sciite estreme
continuano infatti l'imamato e la più importante di queste comunità è nota come "Ismailiti", la cui
storia religiosa può essere suddivisa in quattro periodi:
1) formazione pre-fatimida (VIII-X sec.),
2) sviluppo e affermazione fatimida (X-XII sec.),
3) nuova propaganda nizari (XII-XIII sec.)
4) decadenza e riassestamento con influssi indù.
Il loro nome si riferisce al pretesto storico del distacco di tale comunità da altre sciite, pretesto
dovuto a questioni di discendenza: il sesto imām dei duodecimani, Ga'far as-Sadiq, avrebbe
designato suo figlio primogenito Isma'il come suo successore, ma poi avrebbe cambiato idea a causa
della cattiva condotta del figlio, sostituito con il secondogenito Musà al-Kazim: mentre i
duodecimani continuano la successione con quest'ultimo, gli ismailiti la fanno continuare con
Isma'il e con suo figlio Muhammad che è, per alcuni, l'ultimo e settimo imām (questi sono definiti
"settimani"); gli ismailiti non sono tutti settimani perché non chiudono la serie dell'imamato, che
permane fino ai giorni nostri, in una continua vivente presenza del simbolo e vicario di Dio sulla
Terra, chiamato Āġā Hān. Gli ismailiti, fin dal principio perseguitati come un pericolo pubblico, si
dispersero nelle varie regioni dell'impero califfale e guadagnarono sostenitori anche nelle regioni
più lontane per mezzo dei loro dā'ī (propagandisti). Si vennero a creare così diverse correnti
dell'ismailismo:

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• Càrmati: gruppo fondato dal Hamdan Qarmat nel IX secolo, diffuso in Arabia orientale e
Bahrain e basato su idee comuniste; era l'ala estrema dell'ismailismo, che coinvolgeva
principalmente mercanti e artigiani;
• Fatimidi: dinastia ismailita installatasi in Egitto nel X secolo (il nome deriva dal fatto che gli
imām fatimidi erano discendenti di 'Alī e Fatima). A sua volta, la dinastia fatimide si divise in
due correnti diverse in seguito alla morte del Califfo al-Mustansir nel 1094 d.C.:
a) Nizari: seguaci di Nizar, figlio maggiore ed erede di al-Mustansir ucciso dal fratello minore
Musta'li; localizzati fuori dall'Egitto;
b) Musta'li: seguaci di Musta'li, successore di al-Mustansir e mandante dell'omicidio del fratello
Nizar; principalmente residenti in Egitto.
Con la caduta dei Fatimidi come dinastia nel XII secolo, i musta'li si spostarono nello Yemen, mentre
il nizarismo prosperò al di fuori dell'Egitto approfondendo i suoi lati esoterici di ordine sacro.
Particolarmente importante fu l'opera di Hasan ben Sabbah, propagandista fatimida che si dichiarò
per Nizar e organizzò una fiorente propaganda nelle regioni orientali dell'impero islamico abbaside:
nel 1090 d.C. conquistò la fortezza di Alamut (oggi in Iran), che divenne il suo quartier generale,
e riorganizzò tutto il movimento ismailita su basi nuove; i suoi seguaci erano conosciuti con il
termine di "assassini" (che deriva da hašīšī, che usa l'hashish); egli proclamò di essere il
"resurrector" atteso, un vero e proprio nuovo Profeta. La conquista della Persia da parte dei Mongoli
nel XIII secolo spinsero gli ismailiti ad un'attività ancor più segreta e intanto il loro credo si era
diffuso ampiamente in India, dove vennero fondate numerose sette con notevoli apporti indù e
confluirono anche, dallo Yemen, elementi musta'li. Gli imām nizari continuarono a vivere in Persia
ed ebbero nel 1834 dallo scià di allora il titolo onorifico di Āġā Hān. Attualmente gli ismailiti
persiani non superano in tutto il mondo il numero di qualche centinaio di migliaia e i nizari sono
sparsi soprattutto in Iran, India, Pakistan, Siria, Afghanistan, Asia centrale e Arabia. In India
esistono anche alcuni ismailiti musta'li, noti come bohoras (a loro volta divisi in dawudi e
suleimani).
Quali sono in realtà le origini dell'ismailismo? Come già accennato in precedenza, le origini prime
derivano probabilmente dai movimenti entusiastici del primo sciismo religioso mesopotamico,
come dimostra del resto l'Ummu' l-Kitab ("Il Libro Primogenito"), prezioso manuale in cui si sostiene
che Dio, oltre a essere nel cielo, è anche una persona che vive normalmente sulla terra, teoria che
va contro la credenza ismailita dell'inconoscibilità e trascendenza di Dio; nel libro domina poi il
concetto tipicamente manicheo dell'evocazione ed esistono altri elementi manichei e gnostici.
Questo nucleo di dottrine fu poi solo in parte accettato dall'ismailismo posteriore che con la
diffusione dei concetti neoplatonico-ellenistici si forgiò una metafisica più ordinata. Punto
fondamentale è la distinzione fra zāhir e bātin, due piani interpretativi del Corano: il primo è tutto
ciò che è esteriore, mentre il secondo è l'interiore, l'esoterico. Si riduce il primo al secondo mediante
un'operazione che si chiama ta'wīl, ovvero "interpretazione allegorica", che si oppone a tanzīl
(religione esoterica rivelata) e implica un ricondurre in alto allo Spirito ogni punto della religione
esteriore. Instaurare il zāhir è la missione del profeta, detto dagli ismailiti Nātiq ("Parlante"), mentre
ricondurlo al bātin è la missione dell'imām o del sāmit ("tacito") che affianca il parlante: è solo
attraverso di lui che il credente può realmente giungere alla conoscenza della luce di Allah che è
l'unico vero desiderio dell'uomo. Il risultato è una specie di fermentazione del Dio unico
semplicistico dell'Islam ortodosso in una quantità di ipostasi discendenti, in un arricchimento del
mondo trascendente di entità che si diversificano dalle idee platoniche soprattutto perché sono
entità angeliche, personali (chiari influssi iranici). Importante è anche l'interpretazione ciclica del
Tempo: la storia del mondo è divisa in sette grandi cicli iniziati ciascuno da uno dei grandi profeti
(Adamo, Noè, Abramo, Mosé, Gesù, Maometto); il settimo, il Qā'im, verrà alla fine del mondo.
Ciascuno di essi ha un wasī cui seguono una serie interrotta di imām.

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Ai margini del grande filone filosofico-religioso ismailita spuntarono anche delle sette secondarie,
delle quali restano tuttora piccoli nuclei. Ecco le principali:
• Drusi: il sesto Califfo fatimida, al-Hakim, giunse ad un certo punto a proclamarsi egli stesso Dio,
creando gruppi di adepti non arabi detti "drusi". Secondo questi, il Califfo scomparve
misteriosamente e tornerà alla fine dei tempi. Credono alla trasmigrazione delle anime e hanno
un sistema simile a quello ismailita. Oggi sono circa 200.000 in Siria del sud, Libano e Israele e
si dividono in "sapienti" e "ignoranti": solo i primi conoscono le dottrine della setta.
• Nusairī: localizzati principalmente in Siria, furono fondati da Ibn Nusair nel IX secolo, quando
questi si dichiarò "porta" del decimo imām duodecimano Ali an-Naqi. Sono meglio conosciuti
come 'alawiti, infatti 'Alī è per essi una manifestazione della divinità o forse addirittura una sua
incarnazione. Esiste per loro una trinità formata dall'essenza divina, che è appunto: 'Alī,
Maometto e la "porta", che è invece Salman (liberto persiano del Profeta). Il nome 'AMS viene
rivelato solo agli iniziati. Essi ammettono la metempsicosi, negano l'anima delle donne: Fatima,
da loro pur veneratissima è chiamata con un nome maschile (Fatir) che significa <<Creatore>>.
Hanno tre gradi di iniziazione, un proprio libro sacro liturgico e feste musulmane, cristiane ed
ebraiche (Natale, Pasqua, Pentecoste etc.). Le loro liturgie sono celebrate in case private ma
usano incenso, candele e consacrazione del vino. Attualmente sono poco più di 300.000.
• Ahl-i haqq: considerano un Sultan Suhaq come fondatore della loro comunità nel XV secolo e
sono sparsi in Persia, Anatolia, Siria del nord, Russia meridionale, Turkestan e India. Il loro
nome significa "gente della Verità" e in essi confluirono senza dubbio i residui dei primi estatici
entusiasti safavidi. Hanno sette successive manifestazioni della divinità (tra cui il re safavide
Sah Isma'il), singolari miti di creazione, credono nella metempsicosi, hanno riti originali,
riunioni mistiche con produzione di estasi, cerimonie di iniziazione speciali e unioni caste
speciali.
• Ahmadīya: setta fondata da Mirza Gulam Ahmad di Qadyan (India) nel XIX secolo. Egli prima
disse di avere visioni e rivelazioni da Dio per combattere la propaganda dei missionari cristiani,
poi si presentò come "rinnovatore" del secolo XIV dell'Islam nel 1882 (idea non eterodossa,
perché l'Islam sunnita sostituisce i vari santi ed imām ciclici con l'idea che ogni secolo dell'Islam
abbia un rinnovatore che corregge i costumi e migliora il decadente Islam), si proclamò profeta
nel 1890 e nel 1904 addirittura Messia degli ebrei e Cristo risorto dei cristiani. Sebbene questa
comunità sia totalmente distinta, pochissime sono le divergenze dal sunnismo ortodosso: la
guerra santa è abolita, Gesù muore veramente (ma non sulla croce, bensì nel Kashmir a 120
anni) e il concetto di rivelazione non è ristretto al solo Profeta. Il figlio del successore di Mirza,
Mirza Basir ad-Din, provocò uno scisma nella setta: i suoi seguaci sono noti come qādyānī (da
Qadyan), mentre i dissidenti come lāhōrī (da Lahore, dove si stanziarono). E' merito di Mirza
la creazione di un'abile apologetica dell'Islam e di un missionarismo islamico attivo in Africa,
Asia ed Europa. I fedeli sono qualche centinaio di migliaia.
• Yazīdī: chiamati a torto "adoratori del Diavolo", la loro setta non ha praticamente nulla di
islamico e l'origine del nome ha due possibilità: o dal persiano izad ("venerabile") o dal residuo
di una setta estremista omayyade di Yazid, colui che uccise Husain nel 680 d.C e secondo Califfo
omayyade. Tipici di questa setta sono entusiasmi religiosi di tipo tendenzialmente
incarnazionistico e gnostico applicati a dei non-'alidi. Sono circa 100.000 oggi e diffusi in
Kurdistan, alta Mesopotamia, Siria, Persia e Caucaso. Secondo loro, Dio è il creatore del mondo,
ma non il suo conservatore, ruolo che spetta a sette angeli divini, principale dei quali è Malak
Ta'us (egli cadde dal cielo e pianse, le sue lacrime spensero le fiamme dell'inferno). Ammettono
la metempsicosi, affermano l'esistenza di sette esseri divini chiamati sanǧaq, sono monogami e
il loro culto è sincretistico (mix di diverse religioni). Capi della comunità sono un šaih supremo
che si interessa di materie religiose e giuridiche, e un amīr "principe" (discendente di Yazid),
che si interessa di questioni civili e politiche.

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CAPITOLO V: L'ISLAM NEL SUO SVILUPPO STORICO


5.1. L'Arabia pre-islamica
L'ambiente geografico nel quale nacque l'Islam è la regione dell'Hegiaz (il cui nome significa
<<barriera>>), altopiano desertico lungo la costa occidentale d'Arabia prospiciente il Mar Rosso.
Nel VII secolo d.C., epoca in cui nacque l'Islam, in questa regione accanto ad oasi fiorenti, situate
nella <<valle dei villaggi>> si trovavano già due centri abitati da popolazione sedentaria, Mecca e
Yatrib, entrambe formate per lo più da mercanti; popolazione sedentaria esisteva anche nello
Yemen (Arabia felix). Influssi cristiani giungevano a quell'epoca in Arabia da due parti: da sud
tramite l'Etiopia cristiana e da nord tramite i regni cristiani arabi presso il confine bizantino e
persiano, quello nestoriano di Hira e quello monofisita di Gassan, vassallo di Bisanzio. C'erano
anche degli influssi ebraici, portati in Arabia da colonie ebraiche esistenti nello Yemen e nelle città
dell'Arabia occidentale. Quanto al politeismo arabo, esso non differiva gran che dal comune
politeismo semitico. Ecco gli elementi principali: tra gli oggetti che si ritenevano abitati da potenze
divine c'erano le pietre, delle quali la più importante era la "Pietra Nera" della Mecca; tra gli dei, il
dio Hubal era talmente importante da essere chiamato "il dio" (Allāh); gli Arabi pagani avevano
anche un vago concetto di Essere Supremo, al quale attribuivano gli dei e le dee del loro pantheon
come figli e figlie; la situazione commerciale privilegiata della Mecca, le grandi fiere annuali che lì
si svolgevano e il culto della Pietra Nera contribuirono a dare alla città una grande importanza
religiosa, che culminava nella cerimonia del pellegrinaggio al santuario del dio Hubal, con relative
cerimonie (circumambulazione, corsa, elemosine); normali erano i sacrifici. Frequenti erano le
pratiche magiche, condannate dall’Islam, e la credenza, accolta invece nel Corano e ancor oggi
vivissima tra i volghi musulmani, in folletti buoni e cattivi di ambo i sessi che abitavano la terra e
potevano avere rapporti col genere umano. L'importanza maggiore del paganesimo preislamico
non sta tanto nella sua religiosità, semplice e scarsamente significativa, quanto nel maturarsi di una
coscienza nazionale e razziale panaraba che si veniva formando in taluni centri religiosi: il
paganesimo fu presto insufficiente a soddisfare i nuovi bisogni della popolazione e riti rozzi del
politeismo dovevano essere sostituiti in qualcosa di più organizzato e sofisticato (già prima di
Maometto, certi "hanīf " erano diventati monoteisti).
5.2. La vita di Maometto
Nell'ambiente sopra descritto nacque, tra il 567 e il 572 d.C., Muhammad, il profeta dell'Islam, la
cui vita può essere conosciuta grazie a due fonti, il Corano e la raccolta di tradizioni (hadīt)
sviluppatesi dopo la sua morte (la più antica è quella di Ibn Ishaq, composta tra il VII e l'VIII secolo).
Oltre alla nascita, le altre date importanti della vita di Maometto sono:
• il 612-613 d.C., data della rivelazione del Corano;
• il 622 d.C., anno dell'emigrazione a Medina (Egira);
• il 632 d.C., anno della sua morte.
Maometto sarebbe appartenuto alla grande tribù dei Qurais, i signori della Mecca, figlio di
'Abdullāh, morto prima della sua nascita, e di Āmina, morta quando era bambino: fu affidato prima
al nonno e poi allo zio Abū Tālib, padre di 'Alī. Date le difficili condizioni, egli dovette lavorare
come pastore per guadagnarsi da vivere, fino a quando non sposò la ricca vedova Hadīǧa, più
vecchia di 15 anni. È probabile che Maometto, prima della rivelazione, fosse stato pagano come il
resto degli Arabi, e che sia giunto, grazie ai suoi viaggi, ad una grande conoscenza del mondo
religioso ebraico e cristiano. Prima delle rivelazioni del 612-13, pare che Maometto abbia trascorso
lunghi e periodici ritiri spirituali, noti anche al paganesimo preislamico come tahannut: si trattava
di pratiche espiatorie compiute in luoghi solitari e caverne. Il Corano parla esplicitamente di due
visioni, visioni di un angelo, Gabriele, messaggero di Dio. Queste visioni anticiparono forse le
manifestazioni auditive, che videro sempre protagonista Gabriele e nelle quali Maometto non era

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che l'umile ricettacolo fisico di Dio, il suo microfono: Maometto sentiva una vera e propria dettatura
di Dio tramite Gabriele. Si narra che quando Maometto veniva investito dalla rivelazione divina
cadeva febbricitante a terra e gridava <<avvolgetemi in un manto>>. Pare anche che queste
rivelazioni si fossero ad un certo punto interrotte, per poi riprendere dopo un periodo di
disperazione del Profeta. Il Corano fu quindi ripreso due volte e rivelato a brani al Profeta, non in
un giorno solo: per circa tre anni le rivelazioni dell'angelo furono comunicate da Maometto solo a
pochi intimi, i primi convertiti, ovvero Hadīǧa, 'Alī, suo figlio adottivo Zaid e i due futuri califfi
"ben diretti" 'Utmān e Abū Bakr. Fu alla fine del 612 che Maometto ricevette, in una rivelazione,
l'ordine di iniziare il suo apostolato pubblico. In queste prime rivelazioni esiste un elemento costante:
l'annuncio del giorno del giudizio ("ora che sopravviene") e della resurrezione dei corpi e della
conseguente necessità di una purificazione; si accentuarono anche sempre più le critiche al
politeismo e per questo motivo Maometto, accusato di essere un mago e un poeta, fu perseguitato
insieme ai suoi seguaci dai clan pagani della Mecca (l’esclusione dei musulmani dai diritti tribali
significava in quella società morte civile). La persecuzione portò Maometto e i suoi seguaci a
emigrare nel 615. Nel 619 il Profeta perde la moglie Hadīǧa e lo zio Abū Tālib, si andrà avviando
per lui un periodo difficile: sposerà più tardi la giovane 'Ā'iša, che fu anche sospettata di adulterio,
ma Maometto non l'avrebbe rinnegata (in quanto ebbe una rivelazione divina in cui venivano
smentite tali sospetti). Nel 620 alcuni abitanti di Yatrib si convertirono e Maometto pensò di
trasferirsi in quella città, cosa che fece nel 622 dopo il "patto di Aqaba", grazie al quale egli è
riconosciuto capo di Yatrib: è l’ègira (hiǧra) a Medina (nuovo nome di Yatrib; Al Madinā, "città del
Profeta"). In questo periodo si nota come l'Islam fosse una religione prettamente cittadina,
contrapposta a una religione pagana delle campagne: solo più tardi l'Islam si espanderà anche nei
dintorni di Medina e poi in tutta Arabia. Nel meccanismo delle rivelazioni medinesi si può scorgere
un certo cambiamento: Dio spesso interviene, per bocca del Profeta, per risolvere questioni pratiche
e rispondere alle domande dei credenti. Ovviamente, una volta capo di Medina Maometto doveva
utilizzare tutti i mezzi possibili per difendere, consolidare e organizzare la comunità, tra cui la
guerra e la razzia. Iniziò così un periodo di spedizioni militari: razzia di Badr contro i Quarais
(624), confisca dei beni degli ebrei Qainuqa di Medina (624), rivincita dei Quarais a Badra Uhud
(625), espulsione degli ebrei Nadir da Medina (625), varie razzie punitive contro le tribù beduine,
assedio di Medina da parte dei Quarais (627), massacro degli ebrei Quaraiza di Medina come
ritorsione (627), tregua con i Quarais (vittoria diplomatica perché permetteva ai musulmani di fare
il pellegrinaggio alla Mecca), conquista della Mecca pacificamente (630), ritorno a Medina e altre
campagne contro i beduini. Nel 632, Maometto era padrone di tutta l'Arabia. L'Islam intanto si va
perfezionando e Maometto, rinunciando a convincere gli ebrei, cambia la direzione della preghiera
da Gerusalemme verso la Ka'ba, che dichiara essere stato il primo tempio monoteista: non è che
rinascita e riproposizione, per mezzo di un profeta questa volta arabo, di quel primitivo culto
monoteistico i cui dettami erano stati man mano corrotti da ebrei e da cristiani; così come il
Cristianesimo aveva sostituito l'Ebraismo in passato, ora l'Islam doveva sostituire il Cristianesimo.
Nel 632, poco prima della sua morte, avvenuta l'8 giugno, Maometto si recò alla Mecca insieme ai
fedeli: è il "pellegrinaggio d'addio", durante il quale il Profeta lasciò il suo ultimo messaggio d'eredità,
incitando i fedeli a seguire il Corano e il suo esempio.
5.3. Le fonti del Corano
Il Corano fu scritto a pezzi secondo le esigenze del momento e riassestato al tempo del califfato di
'Utmān (644-656). Esso è, di fatto, frutto di influenze di diverso tipo:
• Paganesimo pre-islamico: da esso il Corano ha ereditato gesti rituali (es. pellegrinaggio), leggi
(es. il taglione), parte della teologia (es. i folletti, gli spiriti) e soprattutto della sua morale;
• Gnosticismo cristiano ed ebraico: il Corano è frutto di un'iniezione di materiale gnostico in un
ambiente socialmente primitivo, rielaborato dalla mente di un monoteista assoluto come
Maometto; ne nascono curiose miscele, come la giustapposizione di racconti allusivi e

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simbolistici accanto a riti pagani e brani del puro biblicismo monoteistico. La


degnosticizzazione avviene soprattutto in due direzioni: quella escatologica (che la gnosi tratta
scarsamente) e quella monoteistica. Misteriose restano ancora le vie di passaggio di questi
influssi: probabilmente si tratta delle comunità cristiane ed ebraiche d'Arabia con patrimonio
dogmatico non troppo ortodosso e di qualche comunità manichea.
• Religiosità iranica: per esempio, la scelta iniziale, prima del Tempo, delle anime umane.
È certo che i viaggi di Maometto in Siria e Palestina con la prima moglie favorirono il suo contatto
con questo tipo di fonti, che poi egli stesso rielaborò. Certo è anche che il Corano è il libro più
monoteista che esista e, mentre il monoteismo di Abramo si prefiggeva di sconfiggere gli dei pagani,
il monoteismo di Maometto è di per se stesso il monoteismo in assoluto perché non si prefigge
alcuna sconfitta di precedenti dèi: Dio è uno e assoluto.
5.4. L'organizzazione giuridica, liturgica e teologica
I primi problemi che sorsero nella comunità musulmana al suo espandersi dopo la morte del Profeta,
un espandersi che in pochi anni (632-650) causò il crollo dell'Impero Sasanide in Persia e la perdita
di molti territori all'Impero Bizantino, furono soprattutto di organizzazione giuridica. Il Corano,
pur infatti contenendo in nuce le cose fondamentali del fiqh (giurisprudenza islamica), era lungi
dal precisarle organicamente e non ne dava più che un abbozzo. Le autorità musulmane, di fronte
alla scarsità del materiale giuridico coranico e alla scarsità di dimostrabili precedenti più antichi e
all'assenza del non ancora codificato hadīt, che si sarebbe formato più tardi, facevano ampio uso
del ra'y, ovvero dell'opinione personale dei giudici. Il periodo piuttosto lungo in cui questo fu l'uso
(tutto il periodo omayyade, 661-750 d.C.) e i contatti che in quel periodo esistettero con la
legislazione dei paesi conquistati fanno pensare alla possibilità di influssi del diritto romano o del
diritto persiano, che comunque furono scarsi (l'esempio più lampante è l'introduzione dei contratti
enfiteutici). Per esempio, tutta la teoria della proprietà fondiaria dei paesi conquistati venne
costruita basandosi esclusivamente su atti occasionali di Maometto in Arabia verso gruppi ebraici,
e lo stesso fu fatto per determinare la posizione giuridica dei sudditi non musulmani dello stato
islamico. Il fiqh comunque finì per sistemarsi molto presto e prestissimo debbono poi essere state
introdotte quelle aggiunte e variazioni probabili riguardo materie di culto e liturgia (es. numero
delle preghiere). Su questa parte più propriamente ritualistica devono aver influito soprattutto
pratiche giudaico-cristiane, mentre l'elemento persiano è molto probabilmente mediato. Lo Schacht
ha dimostrato l'inesistenza di hadīt riguardanti questioni dogmatico-teologiche per il periodo
antecedente l'anno 720 d.C. Le prime discussioni implicanti un elemento teologico nascono in Islam
con il grande scisma, originato dalle guerre fra 'Alī e Mu'āwiya, governatore della Siria e parente
del defunto Califfo 'Utmān (assassinato nel 656 da una congiura probabilmente guidata da 'Alī) e
poi in seguito fra i pretendenti alidi e Omayyadi, i quali erano gli immediati discendenti dei
convertiti dell'ultima ora ex nemici del Profeta (chiamati ansar, "ausiliari") ed erano sempre stati
visti con diffidenza dai musulmani di allora, che li ritenevano opportunisti e mondani. La battaglia
di Siffin del 657 d.C. sancì la sconfitta diplomatica di 'Alī, il quale, pur vincendo la battaglia, fu
costretto a firmare una tregua su richiesta dell'avversario, che si appellò al Corano: un gruppo di
seguaci estremisti di 'Alī si ribellò a questo gesto benevolo e si staccò, formando gli hāriǧiti (o
kharigiti) autori nel 661 dell'assassinio dello stesso 'Alī. Dopo la sua morte Mu'āwiya si proclamò
Califfo fondando la dinastia omayyade, un califfato monarchico fortemente accentratore. Nacque
un forte dibattito teologico fra le tre fazioni: gli 'alidi restarono fortemente gnosticheggianti (per la
salvezza, oltre alla fede, era necessaria la "conoscenza" superiore e illuminata), gli hāriǧiti
sostennero il principio secondo il quale chi opera contro la legge di Dio in qualsiasi senso è da
considerare miscredente, mentre i filo-Omayyadi, chiamatisi murǧi'iti, sostennero che quello che
praticamente bastava per essere considerato musulmano era la professione di fede e l'adesione alle
fondamentali pratiche rituali. Vinsero i filo-Omayyadi, e l'ortodossia restò fondamentalmente
murgi'ita. Gli hāriǧiti, dopo essere stati una minaccia, si ritirarono in luoghi remoti del mondo e ne

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esistono ancora in Tripolitania, Algeria, Oman e Zanzibar (oggi sono chiamati Ibaditi). Risultato e
frutto di queste polemiche fu la posizione ortodossa, che cioè la fede è sufficiente per la salvezza,
che però deve essere accompagnata dalle buone opere, che ci sono peccati gravi e leggeri, ma che
anche i gravi non escludono per sempre dal paradiso. Il secondo grande dibattito fu quello fra i
sostenitori del libero arbitrio, detti qadariti, e i sostenitori della predestinazione, detti ǧabariti,
dibattito sorto soprattutto in città come Medina, Damasco, Kufa e Bassora (sede della scuola
dell'eminente Hasan al-Basri, gabarita). Benché nel Corano si trovino passi che favorirebbero la
dottrina del libero arbitrio, sono forse ancor più numerosi quelli in cui Dio è concepito come
Signore assoluto che "perde chi vuole e salva chi vuole": a tale idea autocratica di Dio si ribellarono
i qadariti, che cercarono di rivalutare la libertà dell'uomo. Tuttavia, visto anche il concetto islamico
di appiattimento sullo stesso piano di sostanza e accidente, secondo il quale Dio tutto crea e tutto
distrugge senza motivo, la battaglia era persa in partenza e i qadariti persero. Il loro sviluppo più
ampio fu poi il mu'tazilismo, teologia dello sciismo, che ebbe infatti origine negli ambienti di
Bassora e nacque da una controversia fra al-Basri e il suo discepolo Wasil ibn 'Ata', il quale
sosteneva che il musulmano reo di peccati capitali fosse un "empio" (fāsiq), partecipe sia della fede
che dell'incredulità. Morto Wasil, i mu'taziliti conservarono la teoria con altre che man mano si
erano aggiunte, prima fra le quali una maggiore larghezza verso il libero arbitrio.
5.5. L'influenza ellenistica sulla filosofia-teologia dell'Islam e il suo sviluppo
Gli oppositori della mu'tazilia, manichei, letteralisti, antropomorfisti, predestinazionisti e
materialisti, e gli stessi mu'taziliti, poterono sostenere le loro posizioni grazie all'introduzione nel
mondo islamico della filosofia e della terminologia greche, attraverso il grande flusso di traduzioni
che va dall'VIII al X secolo: questo aristotelismo, insieme alle più antiche metafisiche sincretistiche,
emanazioniste e redentrici (Platone, Pitagora), influenzò molto l'Islam e facilitò i dibattiti. Città
centrale di questo flusso di traduzioni fu Harran, sede dei Sabei, una comunità ellenistica
combinante elementi dell'antica religione astrale babilonese con la gnosi. Da loro Dio è concepito
come luce e la sua azione sull'inferiore come mediata dalla Luce: questa metafisica della luce ebbe
un'enorme influenza sulla filosofia-teologia successiva dell'Islam e idea direttrice del loro pensiero
è la salvezza dell'anima, raggiungibile tramite l'ascetismo e la meditazione. I principali concetti
aristotelici (accidente, forma, sostanza, materia ecc..) e i sistemi dialettici del pensiero greco dettero
una notevole arma ai polemisti religiosi e le discussioni ebbero forte impulso nei primi periodi del
califfato abbaside (750-1258 d.C.): famosa per queste discussioni fu la corte del Califfo al-Ma'mun,
grande protettore dei mu'taziliti, fra cui i più illustri rappresentanti furono Abu Hudail, Nazam e
al-Gubba'i, impadronitisi della dialettica greca (il metodo dialettico mu'tazilita di origine ellenistica
si chiamò kalām, "discorso"). I mu'taziliti furono poi perseguitati dal suo successore, al-Mutawakkil,
ma la scuola sarebbe sopravvissuta e si sarebbe espansa a oriente, fino a diventare la teologia dello
sciismo. La reazione contro la mu'tazilia e la nascita di un kalām ortodosso si ebbero soltanto nel X
secolo, soprattutto in Mesopotamia, Estremo Oriente ed Egitto. Tra gli oppositori, uno dei più
importanti fu l'ex-mu'tazilita Al-As'ari, fondatore dell'aš'arismo già visto: di veramente mu'tazilita
nell'aš'arismo non v'è che il metodo ed al-As'ari assume posizioni molto tradizionaliste nel suo
pensiero. As'arita fu anche al-Gazzali, la cui personalità fonde nella sua ampia opera non solo la
dialettica greca, ma anche la mistica, intesa come sufismo etico, derivato dalle scuole di Bassora di
Hasan al-Basri. La mistica si sarebbe poi sviluppata nel IX secolo con personalità relativamente
moderate teoricamente come al-Muhasibi, al-Gunnaid e al-Hallag: quest'ultimo è uno dei pochi
mistici che parla chiaramente di una vera e propria "discesa" della divinità nell'uomo designato.
Dopo di lui la mistica di divise in tre rami: uno moderato, uno gnostico e uno teopanistico. Da
ricordare sono: Ibn Arabi, la cui mistica è orientata verso l' "unità dell'essere" e l'unità mistica di
tutte le religioni: secondo lui solo Dio merita l'appellativo di "reale", mentre il reale che non è Dio
è solo un insieme di apparenze di sogno; Sihabu 'd-Din Suhrawardi, massimo rappresentante del
sufismo "illuminativo", pieno di influssi ismailiti, persiani e gnostici: la scuola illuminativa si
continua in Persia ancora oggi ed egli fu uno dei pochi pensatori a rifarsi esplicitamente al pensiero

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persiano pre-islamico e ai maestri del sabeismo. La storia del pensiero islamico dopo al-Gazzali (m.
1111 d.C.) non vede alcuno speciale progresso nel primo campo di interesse dei musulmani, ovvero
la Sharia, ormai definitivamente codificata e senza speranza di grandi evoluzioni: dopo il periodo
di decadenza del califfato abbaside, le novità teologiche sono sempre all'insegna del tradizionalismo.
Rappresentanti di questo tradizionalismo furono principalmente: Ibn Tumart, teologo-militare che
ebbe gran seguito nell'Africa settentrionale islamica e in Spagna e che creò il fondamento religioso
radicale per la dinastia degli Almohadi (1147-1269 d.C.), che governò appunto in quelle zone; Ibn
Taimiya, i cui sforzi contro il sufismo contribuirono a fare nascere nel XVIII secolo il movimento
sunnita degli wahhābiti (dal fondatore Muḥammad ibn ʿAbd al-Wahhāb; molto simile al salafismo,
fondato dall'egiziano Rashid Rida, discepolo di Abduh) diffuso inizialmente solo in Arabia e poi
espansosi nell'India musulmana: questo si macchia di evidenti eterodossie, come la netta proibizione
di caffè e tabacco (che l'Islam permette), la violenza contro tutti coloro che non la pensano come
loro, il dispregio per le immagini, il lusso e l'odio per gli sciiti e i mistici. Purtroppo, la mistica e le
tendenze estremistiche del tradizionalismo hanno contribuito ad addormentare le masse
musulmane in un sonno dogmatico, giuridico - legalista e mistico.

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CAPITOLO VI: L'ISLAM MODERNO: SVILUPPI E POSSIBILITA'


Riguardo lo sviluppo dell'Islam che abbiamo visto, c'è da fare un'importante osservazione: a
differenza dell'Europa cristiana, l'Islam non ha mai avuto né una Riforma, né un Rinascimento né
un Romanticismo. Di riforme, in campo dogmatico, ce ne furono molte, ma sono tutte riforme che
si limitano appunto al campo della teoria e del dogma, non avendo quell'importanza radicale che
possono aver avuto nel mondo europeo: in sostanza, anche le più estreme delle sette eretiche,
restarono sempre fedeli a quel modo di ragionare giuridico che ha le sue più lontane origini in
costumanze tribali di una primitiva comunità araba. Nell’unità sostanziale della Sharia sta proprio
il segreto dell'"uniformità musulmana" che vediamo oggi e che ci sembra impossibile dato che
manca nell'Islam un'autorità centrale del tipo del papato cattolico. La Sharia si stabilizzò già in
epoca troppo antica e troppo sacra per poter essere toccata. Di qui nasce anche l'apparente grande
tolleranza dell'Islam: è vero che magari il Cristianesimo non avrebbe mai accettato con così tanta
indifferenza una setta estrema come quella dei Bektāšī, ma è pur vero che questa setta, pur avendo
riti aberranti ed eretici, confessa sempre la validità della Legge del Profeta.
6.1. Il modernismo musulmano
Dopo la lenta decadenza seguita alla conquista mongola delle regioni orientali del califfato nel XIII
secolo, l'Islam si trovava nel XIX nella situazione di avere la maggior parte di quella che era stata la
"casa dell'Islam" (dāru 'l-islām) sotto possesso coloniale di potenze non musulmane e cristiane.
Paradossalmente quindi, il modernismo musulmano nasce essenzialmente da una polemica con la
civiltà cristiana occidentale; di qui due suoi caratteri tipici:
a) un certo complesso di inferiorità verso l'Occidente;
b) la tendenza ad idoleggiare il passato, l'epoca di Maometto e dei primi califfi, contrapponendola
al corrotto presente.
In generale si può dire che la lotta dei modernisti contro la pedissequa imitazione dei manualisti
assuma queste forme, in ordine di radicalità:
• liberare le antiche tradizioni e il consensus delle prime generazioni da tutte le addizioni
successive per ritornare all'Islam puro;
• cercare una riforma dell'Islam, saltando anche le tradizioni;
• distinguere perfino nel Corano ciò che Dio ha rivelato per guidare il suo popolo da ciò che è
inteso come legge eterna;
• ammettere addirittura che Dio stesso può distinguere ciò che è vivo e ciò che è morto del Libro
Sacro.
Di conseguenza, possiamo individuare altri due punti comuni in generale al modernismo
musulmano. In primo luogo, anche i più radicali dei modernisti sono rimasti attaccati all'idea
dell'ispirazione letterale del Corano da parte di Dio: nell'Islam non si è mai sviluppato un
liberalismo teologico di esegesi del testo sacro quale si è sviluppato nel mondo cristiano che ammette
ciò una certa libertà personale dell'autore delle sacre linee, che è ispirato da Dio ma non è
direttamente Dio (i tentativi del modernismo si configurano così come tentativi di dare significati
moderni a parole dette direttamente da Dio per risolvere problemi di una società di tredici secoli
fa). Il secondo punto è il sistema razionalistico che regna in tutto il modernismo musulmano e che
ricorda più il nostro XVIII secolo: la concezione islamica, appiattendo sullo stesso piano natura e
sopra-natura come tutto frutto diretto di Dio, annienta sia il razionale che il soprarazionale. Ciò
detto, esistono due scuole moderniste principali, più una terza Scuola turca che è però estranea
all'Islam. Si tratta dei paesi più influenzati dagli ideali europei per motivi coloniali:
• Scuola egiziana: Il modernismo egiziano nasce con la predicazione dell'afghano Sayyid Gamal
ad-Din al-Afgani, persiano stanziatosi prima a Istanbul e poi in Egitto, dove ebbe come discepolo

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Muhammad Abduh: entrambi fondarono una rivista modernista a Parigi nel 1882, ispirando le
generazioni anti-colonialiste e neo-musulmane dell'epoca. Dal punto di vista strettamente
religioso, sono poche le innovazioni portate da loro nelle credenze dell'Islam tradizionale:
quanto al fatalismo musulmano, Abduh difende la posizione ortodossa dell'impossibilità di
raggiungere la verità con la ragione, mentre nella controversia sui santi e sulla mistica egli
ammette l'esistenza di personaggi vicini ai profeti e capaci di compiere miracoli, ma nessun
musulmano è obbligato a considerarli come "santi". Anche lui dichiara che non c'è contrasto fra
scienza, filosofia e religione, ma le prime due non devono invadere il campo della religione.
Interessante è la posizione sulla Sharia: Abduh afferma che le varie scuole giuridiche sono inutili
e inutilizzabili, che bisogna riaprire le porte dell'iǧtihād, libero studio giuridico delle fonti
(soprattutto laddove le fonti erano poco chiare o mute allora il giudizio individuale diveniva
fondamentale), e che alcune disposizioni del Corano e dei hadīt sono antiquate (es. poligamia,
divorzio, schiavitù). Secondo lui, il segreto per progredire è utilizzare la scienza moderna, come
ha fatto l'Europa (lo studio è l'unica buona qualità degli europei). Le affermazioni rivoluzionarie
di Abduh ebbero un valore basso dal punto di vista teologico, ma altissimo da quello sociale e
pratico-legale, soprattutto nella lotta all'emancipazione della donna. Egli, pur essendo
riformatore, apparve come conservatore alle nuove generazioni di Ali Abd ar-Raziq e Taha
Husain, così modernisti da apparire blasfemi: secondo il primo, il Corano è solo un codice
morale e religioso e pertanto non ha nulla a che fare con l'amministrazione della vita pubblica
(perciò il califfato va rifiutato: concezione laica dello stato), mentre il secondo cercava di
instaurare una critica coranica liberale e osava affermare che dalla mera presenza di nomi di
personaggi come Abramo etc. nel Corano non si può dedurre che essi siano esistiti veramente,
ritenendo apocrife tutte le leggende sulla fondazione della Ka'ba etc.
• Scuola indiana: Deve la sua origine a Sir Sayyid Ahmad Han di Delhi, che nel XIX secolo tentò
di diffondere con i suoi scritti un Islam modernizzato e contribuì notevolmente anche in politica
al rialzamento delle sorti dei musulmani indiani. Contro le correnti rigoristico-puritane indiane
dell'epoca che attribuivano la decadenza dell'Islam all'abbandono delle tradizioni antiche, egli
sosteneva che l'Islam non era in opposizione all'Occidente, si oppose al costume della reclusione
e del velo delle donne, dichiarò che la guerra santa era nata per difesa e tale doveva restare e
infine tentò di colmare l'abisso di incomprensione e odio fra Cristianesimo e Islam; uno dei
principi del Sayyid era che l'Islam non ammette divergenze fra religione e scienza. La sua opera
fu portata avanti da personalità come il poeta Altaf Husain Hali, il critico e storico Sibli Nu'mani
e soprattutto Muhammad Iqbal, grande conoscitore dell'Occidente: egli riconobbe che non
bastava criticare astrattamente le condizioni dell'Islam attuale ma che bisognava anche cercarne
le radici storico-metafisiche, individuate nella penetrazione profonda del pensiero greco
nell'Islam, il pensiero sincretistico neoplatonico-illuministico di origini pagane ed extra-
monoteistiche. Insomma, secondo lui, per ritornare alla purezza delle origini attivistiche
dell'Islam bisognava eliminare Platone e Aristotele: la filosofia mistico-neoplatonico che l'Islam
assorbì ne causarono anche il fatalismo, la pigrizia e l'atteggiamento antiscientifico. Iqbal
sostiene che bisogna ricostruire il pensiero religioso dell'Islam, tenendo presente il pensiero
moderno d'Europa, secondo varie linee direttrici:
a) il Corano è un libro di azione non di dogmi: rivalutazione della legge sulla dogmatica e sulla
mistica;
b) Dio-Persona, creatore attivo, è contrapposto al dio-tutto, il "Divino" impersonale dei
paganesimi;
c) rivalutazione dell'Uomo, anch'egli persona, ma collaboratore di Dio: Dio è il "migliore dei
creatori", ma anche gli uomini sono creatori, seppur inferiori;
d) l'uomo, una volta sottomessosi a Dio, assume infinita potenza ed è artefice del suo destino,
la cui sorte gli viene data da Dio secondo la sua volontà.
Iqbal inoltre riteneva la Sharia islamica adatta a un grande stato teocratico-democratico di tutti
i paesi musulmani, una comunità religiosa universale, e riconosce all'Europa grandi progressi

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nel campo esteriore, pur negandoglieli invece nel campo morale (essa ha fatto quello che
avrebbe dovuto fare l'Islam, ma perdendone la spiritualità). Si può dire che il moderno Pakistan
sia il banco di prova per una modernizzazione della Sharia.
Concludiamo dicendo che, se nel campo pratico l'Islam moderno vuole scegliere la via del laicismo,
deve orami guardare soprattutto all'esperimento turco di Mustafa Kemal, che pur negli ultimi
decenni si è notevolmente attenuato. Attualmente, un forte processo di "antimodernismo" è in atto
in Libia, Iran, Pakistan e molti altri paesi islamici.
All'Islam moderno, di fronte alla sfida spirituale dell'Europa, rimangono aperte tre vie:
1. l'inserzione di un Islam sopranazionale, con robuste istituzioni teocratico-democratiche
riformate;
2. un laicismo completo, del tipo turco, e l'approfondimento di un Islam come pura religione;
3. una vera e propria riforma religiosa, tramite la nascita di una nuova fede sorta in seno all'Islam:
una nuova religione come la Bābī-Bhā'ī.
4.
BREVE CRONOLOGIA DEL CALIFFATO ISLAMICO
• 630 d.C.  conquista della Mecca da parte di Maometto.
• 632  morte di Maometto e inizio dell'era dei "califfi ben diretti".
• 632-661  era dei "califfi ben diretti": Abū Bakr, 'Omar, 'Utmān e 'Alī.
• 661-750  califfato Omayyade (primo Califfo: Mu'awiya ibn Abi Sufyan, colui che, insieme al
padre, si era convertito prima della conquista della Mecca nel 630 d.C.).
• 750-1258  califfato Abbaside (inizialmente supportati dagli Alidi sciiti, ruppero presto con
loro e si posero alla guida dell'ortodossia)

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