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FACOLTÀ DI TEOLOGIA
INTRODUZIONE
Se le parole profetiche rileggono la storia alla luce della Torah,
i libri sapienziali riflettono sull’uomo in quanto tale, con un
messaggio che si fa quindi più ampio ed universale; al tempo stesso
però si restringe sul quotidiano, perché la loro riflessione è
sull’uomo che vive la realtà di ogni giorno.
E’ una letteratura che travalica i confini di Israele, il cui
discorso diventa quindi esplicitamente universale e quotidiano al
tempo stesso, concernendo i piccoli e grandi problemi della vita e
della morte. Oltre alla dimensione teologica nei libri sapienziali se
ne trova una fortemente antropologica. E’ una letteratura “per
adulti”, per gente disposta a porsi i problemi della vita e ad
accettare un cammino difficoltoso. Il sapiente è non solo chi ha
attraversato la vita, ma anche chi si è lasciato attraversare dai
solchi della vita. I sapienti riflettono sui dati della realtà alla luce
della Torah, dei profeti e della tradizione di Israele. Questa
riflessione li può condurre anche a mettere in crisi questi dati.
Accanto a libri di sintesi del dato tradizionale (es .Proverbi,
Siracide) ce ne sono altri che mettono in crisi il dato della tradizione,
dove la tradizione è vagliata e la fede che ne risulta è messa in
discussione; questo però al fine di uscirne con una fede purificata,
illuminata da una nuova esperienza di Dio: è la fede adulta, che
pensa e che non ha paura di lasciarsi interrogare dalla realtà, fino
all’ultimo interrogativo della morte. E’ la storia del libro di Giobbe.
Il Pentateuco sapienziale è composto dai seguenti libri: Qoelet,
Sapienza, Giobbe, Siracide e Proverbi. Più degli altri è il libro di
Giobbe che ci fa capire cos’è la Sapienza.
Indicazioni bibliografiche:
- come introduzione alla letteratura sapienzale: Morla Asensio;
oppure Murphy o Gilbert (Maurice); un classico valido è von Rad,
La sapienza in Israele;
- per i Salmi: Beauchamp, Salmi notte e giorno; oppure Wenin,
Entrare nei salmi; Ravasi, commentario in tre volumi del 1985;
Alonso Schokel – Carniti, non è tra le opere migliori di Alonso, ma
come bibllista aveva delle intuizioni geniali che qua e là si
ritrovano anche in questo commento; più valido ancora è il suo
commento al libro di Giobbe)
LA SAPIENZA, IL SAPIENTE
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INTRODUZIONE AL SALTERIO
DIVISIONE E TITOLO
Tuttavia nel salterio non c’è solo il genere della lode, ma anche
rendimento di grazie, lamenti, suppliche, liturgie penitenziali,
Prof.ssa Bruna Costacurta - Pag. 8
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ANALISI DEL SALMO 3
1
Salmo di Davide, composto quand'egli fuggiva davanti ad Absalom, suo figlio.
2
O Signore, quanto sono numerosi i miei nemici! Molti son quelli che insorgono
contro di me,
3
molti quelli che dicono di me: «Non c'è più salvezza per lui presso Dio!»
4
Ma tu, o Signore, sei uno scudo attorno a me, sei la mia gloria, colui che mi
rialza il capo.
5
Con la mia voce io grido al Signore, ed egli mi risponde dal suo monte santo.
6
Io mi son coricato e ho dormito, poi mi sono risvegliato, perché il Signore mi
sostiene.
7
Io non temo le miriadi di genti che si sono accampate contro di me d'ogni
intorno.
8
Ergiti, o Signore, salvami, Dio mio; poiché tu hai percosso tutti i miei nemici
sulla guancia, hai rotto i denti agli empi.
9
Al Signore appartiene la salvezza; la tua benedizione sia sul tuo popolo!
QUALIFICAZIONE
appunto.
Mentre si dice che i nemici sono molti e insorgono per fare del
male, contemporaneamente si dice che Colui che interviene,
insorge e si alza è Dio e non i nemici. Ci si rivolge a Dio chiedendo
aiuto e insieme si dice che il Signore lo sta aiutando.
AMBIENTAZIONE
RIPETIZIONI
IL DOSSIER
ANALISI TESTUALE
L’invocazione iniziale
È molto significativo che il salmo cominci con l’invocazione
“Signore”. Avrebbe potuto mettere come prima cosa “sono tanti”:
ed invece comincia con “Signore”, poi segue il lamento del salmista,
poi dice sono tanti, ma prima di tutto mette il Signore. Vuol dire che
nonostante tutto egli sta riuscendo a non lasciarsi sopraffare da
tutto; sta evitando di farsi ipnotizzare, che è proprio di chi vede solo
i molti. Questo giro terribile è spezzato sin dall’inizio da
“Signore”. I molti sono secondari. Prima di tutto invoca Dio, si
rivolge a Lui. Il nome di Dio in un qualche modo spezza l’incanto,
esorcizza il terrore. Non è solo la paura che grida a vuoto, non è il
grido di angoscia, ma è il grido della preghiera. Non è solo dire
“sono tanti” ma “Signore, sono tanti”. Anche questi tanti dovranno
fare i conti con l’intervento di Dio.
v. 3: problema sintattico
Il v. 3 è molto strano perché l’affermazione “non c’è salvezza
per lui” viene fatta da questi molti che, dice il salmista, “dicono a
me”. Sembra esserci discontinuità sintattica tra le due proposizioni:
i nemici dovrebbero dire non c’è salvezza “per te” e non “per lui”.
Se dicono non c’è salvezza “per lui”, vuol dire che stanno parlando
“di lui”, ma non “a lui”. Le traduzioni traducono infatti a volte come
dicono di lui, ma l’originale è dicono a me. Quello che il salmista
percepisce è che ormai i nemici lo danno per morto, per i nemici lui
non c’è più: parlano a lui, ma come se lui non potesse nemmeno
ascoltare, come se non ci fosse più. Lo dicono a me ma dicono “lui”:
è un’ipotesi, ma può essere un modo per il salmista per dire che lui
per i nemici nemmeno esiste più.
83).
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IL LIBRO DEI PROVERBI
DIVISIONE DEL LIBRO E SUA COMPOSIZIONE
IL PROVERBIO
ANALISI DI PR 21,3
3
praticare la giustizia e l’equità per il Signore vale più di un
sacrificio
ANALISI DI PR 26,4-5
4
non rispondere allo stolto secondo la sua stoltezza per non
divenire anche tu simile a lui
5
rispondi allo stolto secondo la sua stoltezza perché egli non
si creda saggio
L’apparente contraddizione
Sembrano già ad una prima lettura evidenti, ma tra loro
appaiono anche contraddittori. A quale dei due dare retta ? L’atto di
intelligenza è quello di capire che la contraddizione è solo
Prof.ssa Bruna Costacurta - Pag. 20
TECNICHE DI COMPOSIZIONE
Parallelismo
Una caratteristica dei proverbi biblici è di usare il parallelismo:
dire la stessa cosa in un modo diverso, o ripetendo lo stesso
concetto o attraverso il suo contrario.
Non c’è rapporto e non ha nessun senso che venga dato onore
allo stolto, così come non ha nessun senso pensare che possa
nevicare d’estate o che possa piovere al momento della mietitura.
Neve d’estate e pioggia durante la mietitura sono fenomeni
assolutamente impossibili per la Palestina.
In 1 Sam 12, 16-17, Samuele dice: 16 Ora, state attenti e
osservate questa grande cosa che il Signore vuole operare sotto i
vostri occhi. 17 Non è forse questo il tempo della mietitura del grano?
Ma io griderò al Signore ed Egli manderà tuoni e pioggia. Così vi
persuaderete e constaterete che grande è il peccato che avete fatto
davanti al Signore chiedendo un re per voi. Per fare capire al popolo
che ha sbagliato, Samuele chiede un segno inequivocabile, proprio
perché non è possibile la pioggia durante la mietitura.
Il nostro proverbio mette in gioco due cose impensabili per dire
che queste cose assurde e senza senso è come dare onore allo
stolto: stessa assurdità, stesso non senso.
Altri esempi:
All’interno del libro ci sono anche proverbi più lunghi, che sono
come dei ritratti di caratteri particolari, come piccole scenette.
Nelle tematiche dei proverbi ricorrono personaggi tipici: il
pigro, l'adultera, l'ubriaco, etc.
Il prologo (capp. 1 – 9)
vv. 1-5
vv. 6-9
vv. 10-11
vv. 22-29
Per Gilbert questa parte, per il rilievo attribuito alla regalità, è un testo
pre-esilico, più antico del resto del libro. Non si spiegherebbe infatti se fosse
successivo alla caduta del regno anche in Giuda.
alla vita. Benché ferita, la vita resta feconda. Il figlio si chiama qayin
(Caino) ed Eva dice «ho acquistato, generato un uomo dal Signore».
Nel dire che la Sapienza è stata «costituita» si usa il verbo
nsk (nasak), che vuol dire fondere dei metalli, versare dei liquidi,
ma anche intessere. In questo contesto ha fatto pensare di poter
fare riferimento all'unzione regale. E' però una possibilità remota.
Un verbo affine che fa parte della stessa famiglia, utilizzato insieme
al verbo qnh, si ritrova nel Sal 139,16 e sta a descrivere l'azione di
Dio che intesse il bambino nel seno materno. Nsk vorrebbe dire
essere formato nel grembo.
Quando infine si dice che la sapienza è stata «generata», si
usa il verbo hwl/hyl, che vuol dire contorcersi per il dolore, avere le
doglie del parto: vuol dire partorire, dare alla luce, fare nascere.
vv. 30-31
[30]allora io ero con lui come architetto
ed ero la sua delizia ogni giorno,
dilettandomi davanti a lui in ogni istante;
[31]dilettandomi sul globo terrestre,
ponendo le mie delizie tra i figli dell'uomo.
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IL LIBRO DI GIOBBE
Il sapiente sa che la sapienza dà la vita e la felicità, però sa che
la pienezza di vita non è sempre sperimentabile e che, anzi, ciò che
si sperimenta è normalmente il contrario: è questa la realtà che
almeno apparentemente mette in crisi la sapienza stessa. Nel libro
di Giobbe la sapienza accetta la crisi e ne esce rafforzata.
Indicazioni bibliografiche: Weiser del 1974; Ravasi, il commento
è divulgativo, ma l'introduzione è molto ben fatta; Alonso Schokel -
Sicre Diaz; Habel; Clines.
Cenni generali
E' un libro molto complesso dal punto di vista testuale,
come costruzione (ha cose diverse che si intrecciano), nonche' dal
punto di vista tematico e linguistico (a volte l'ebraico che usa è
quasi intraducibile). Il suo tema ruota intorno all'eterna domanda
che l'uomo si pone davanti alla sofferenza dell'innocente: è la
perenne continua dolorosissima domanda che l'uomo si pone
davanti al dolore ed all'ultima apparente vittoria del dolore che è la
morte. Dolore e morte che appaiono non solo inspiegabili ma
anche, in quanto inspiegabili, inaccettabili. Pertanto chiedono
all'uomo o di essere accettati supinamente, oppure di spiegare una
lotta senza quartiere per cercare risposte, ammesso che ci siano:
Giobbe sceglie la linea della lotta.
Ambientazione
Composizione
Struttura
parte dell'assoluta coerenza del dolore. Egli quindi dice che Dio è
giusto, però aggiunge che questa giustizia non la vede; si proclama
innocente e poi prega che non venga guardato il suo peccato; etc.
Nel cap. 27 quindi Giobbe afferma la giustizia di Dio, solo che lo
rovescia sugli amici, utilizzando l'arma che loro stessi usano contro
di lui. Dio è giusto e l'empio viene condannato, solo che l'empio non
sono io, ma siete voi ! Questo dice Giobbe agli amici. Si tratta di un
artificio fortemente ironico.
Resta però la domanda: se il cap. 27 è tutto di Giobbe, perché
il narratore comunque ha omesso Zofar dal terzo ciclo di
discorsi ? Una risposta sicura non c'è. Forse con questo artificio
letterario di un terzo ciclo monco si voglia dare un'indicazione sul
tipo di dialoghi che stanno avvenendo. Se uno va a vedere bene,
non sono dei veri dialoghi: ognuno fa il suo discorso portando
avanti le sue idee e colui che risponde lo fa solo in apparenza, ma in
realtà riprende il proprio punto di vista. In realtà non c'è una vera
progressione, una crescita, che è essenziale al dialogo stesso: una
serie di aggiunte reciproche, con cui si va avan ti nella
comprensione della realtà. Giobbe e gli amici sono tutti fermi:
ognuno ha la sua idea e da lì non ci si muove. Gli amici continuano a
dire che Dio è giusto e l'uomo è peccatore. Giobbe continua a
protestare la sua innocenza: lotta con gli amici, ma in realtà lotta
con Dio.
Perché dunque alla fine il narratore non fa parlare più Zofar ?
Forse perché in questo modo vuole dire che il numero perfetto di
tre non si compie: in realtà questo è un dialogo tra sordi, non
è vero che si conclude qualcosa e quindi non si conclude
nemmeno il ciclo, quasi a voler dire che si potrebbe
continuare all'infinito. Poiché non si va da nessuna parte tanto
vale fermarsi qui: un punto vale l'altro.
Questa ipotesi è ragionevole anche se si tiene conto del modo
in cui i dialoghi vengono introdotti dallo scrittore. L'autore sempre
specifica chi è il personaggio che parla con la stessa identica
formula di introduzione: «e cominciò a dire» (il verbo potrebbe
anche significare rispondere), che si può anche tradurre «e parlò
NN (si aggiunge il nome) e disse». Di particolare c'è che si dice
solo chi è che parla e non si dice a chi si parla. Ben diverso è
invece il modo in cui l'autore introduce i discorsi tra Dio e
Giobbe, quando non è più un dialogo tra sordi, ma un dialogo
vero, dove Giobbe cambia posizione perché ha ascoltato la voce di
Dio; ed a sua volta Dio parte dal cambiamento di Giobbe per fare un
secondo discorso ed andare ancora più avanti (quindi anche Dio ha
ascoltato Giobbe). Quando c'è un vero dialogo, quindi, il modo in cui
inizia il discorso è: «e parlò (Dio o Giobbe) a/con (Giobbe o Dio) e
Prof.ssa Bruna Costacurta - Pag. 36
[13]Ora accadde che un giorno, mentre i suoi figli e le sue figlie stavano
mangiando e bevendo in casa del fratello maggiore, [14]un messaggero
venne da Giobbe e gli disse: «I buoi stavano arando e le asine pascolando
vicino ad essi, [15]quando i Sabei sono piombati su di essi e li hanno predati e
hanno passato a fil di spada i guardiani. Sono scampato io solo che ti racconto
questo».
[16]Mentr'egli ancora parlava, entrò un altro e disse: «Un fuoco divino è
caduto dal cielo: si è attaccato alle pecore e ai guardiani e li ha divorati. Sono
scampato io solo che ti racconto questo».
[17]Mentr'egli ancora parlava, entrò un altro e disse: «I Caldei hanno formato
tre bande: si sono gettati sopra i cammelli e li hanno presi e hanno passato a
fil di spada i guardiani. Sono scampato io solo che ti racconto questo».
[18]Mentr'egli ancora parlava, entrò un altro e disse: «I tuoi figli e le tue figlie
stavano mangiando e bevendo in casa del loro fratello maggiore,
[19]quand'ecco un vento impetuoso si è scatenato da oltre il deserto: ha
investito i quattro lati della casa, che è rovinata sui giovani e sono morti. Sono
scampato io solo che ti racconto questo».
[7] Satana si allontanò dal Signore e colpì Giobbe con una piaga maligna, dalla
pianta dei piedi alla cima del capo.
[8] Giobbe prese un coccio per grattarsi e stava seduto in mezzo alla cenere.
[9] Allora sua moglie disse: "Rimani ancor fermo nella tua integrità? Benedici
Dio e muori!".
[10] Ma egli le rispose: "Come parlerebbe una stolta tu hai parlato! Se da Dio
accettiamo il bene, perché non dovremo accettare il male?".
In tutto questo Giobbe non peccò con le sue labbra.
tace. Nessuno parlò “perché vedevano che molto grande era il suo
dolore”.
È proprio in questo silenzio che Giobbe parla, e lo fa per
maledire la vita. In questo modo inizia il libro in poesia.
vv. 1-3
[1]Dopo, Giobbe aprì la bocca e maledisse il suo
giorno; [2]prese a dire:
[3]Perisca il giorno in cui nacqui
e la notte in cui si disse: E’ stato concepito un uomo.
vv. 4 e 5
[4] Quel giorno sia tenebra,
non lo ricerchi Dio dall'alto,
né brilli mai su di esso la luce.
[5] Lo rivendichi tenebra e morte,
gli si stenda sopra una nube
e lo facciano spaventoso gli uragani del giorno!
Giobbe vuole solo il buio e non vuole vedere la luce, che invece
è la prima opera della creazione di Dio. Giobbe si pone in aperta
contraddizione con tutto ciò che è vivere e quindi anche con l’inizio
della vita – la luce – che è l’inizio immaginario della creazione.
Decide di voler cancellare non solo se stesso, ma tutto il processo
della creazione: se Dio ha detto “sia la luce”, qui è come se
Giobbe dicesse “sia il buio” (notazione anche di Alonso). E vuole un buio
totale, dove il giorno deve diventare notte e la notte deve anch’essa
essere posseduta dal buio.
Giobbe vuole cancellare tutto, non vuole che niente sopravviva.
Il giorno deve perire e deve perire la notte. Ecco la maledizione del
giorno, che deve essere posseduto dalla tenebra.
Al v. 5a (“lo rivendichi tenebra e morte”) Giobbe utilizza due
termini sinonimi: 1) tenebra, che serve per dire oscurità in modo
generico; 2) “salmawet”, è un termine ricercato, poetico (si
pronuncia “zalmaret”); mawet vuol dire morte; significa un buio che
ha in sé il suono della morte, è un buio totale, particolare, assoluto,
mortale a significare la totalità dell’oscurità.
Al v. 5c figura l’espressione “E lo atterriscano gli oscuramenti
del giorno” (trad. CEI “e lo facciano spaventoso gli uragani del
giorno”). C’è un riferimento mitologico ai demoni notturni ma molto
più probabilmente il riferimento corre all’eclissi di sole. L’eclissi è
un’esperienza traumatica, gli animali si spaventano; questa
sensazione era forse la stessa di quella percepita dagli antichi che
no sapevano spiegarsela scientificamente. La sensazione è quella
del sole che viene divorato e che perciò si oscura. Le tenebre
Prof.ssa Bruna Costacurta - Pag. 46
vv. 6 – 10
[6] Quel giorno lo possieda il buio
non si aggiunga ai giorni dell'anno,
non entri nel conto dei mesi.
[7] Ecco, quella notte sia lugubre
e non entri giubilo in essa.
[8] La maledicano quelli che imprecano al giorno,
che sono pronti a evocare Leviatan.
[9] Si oscurino le stelle del suo crepuscolo,
speri la luce e non venga;
non veda schiudersi le palpebre dell'aurora,
[10] poiché non mi ha chiuso il varco del grembo
materno,
e non ha nascosto l'affanno agli occhi miei!
vv. 11-16
[11]E perché non sono morto fin dal seno di mia
madre
e non spirai appena uscito dal grembo?
[12]Perché due ginocchia mi hanno accolto,
e perché due mammelle, per allattarmi?
[13]Sì, ora giacerei tranquillo,
dormirei e avrei pace
[14]con i re e i governanti della terra,
che si sono costruiti mausolei,
[15]o con i principi, che hanno oro
e riempiono le case d'argento.
[16]Oppure, come aborto nascosto, più non sarei,
o come i bimbi che non hanno visto la luce.
vv. 17-19
[17]Laggiù i malvagi cessano d'agitarsi,
laggiù riposano gli sfiniti di forze.
[18]I prigionieri hanno pace insieme,
non sentono più la voce dell'aguzzino.
[19]Laggiù è il piccolo e il grande,
e lo schiavo è libero dal suo padrone.
vv. 20-23
[20]Perché dare la luce a un infelice
e la vita a chi ha l'amarezza nel cuore,
[21]a quelli che aspettano la morte e non viene,
che la cercano più di un tesoro,
[22]che godono alla vista di un tumulo,
gioiscono se possono trovare una tomba...
[23]a un uomo, la cui via è nascosta
e che Dio da ogni parte ha sbarrato?
v. 24
[24]Così, al posto del cibo entra il mio gemito,
e i miei ruggiti sgorgano come acqua,
LA GIUSTIZIA IN ISRAELE
Il ricorso al giudice
giudizio escatologico.
La condanna del giudice deve inoltre prevedere in Israele una
proporzione della pena al male commesso (principio accolto
anche dagli ordinamenti moderni). La proporzione è richiesta anche
in funzione educativa da parte della legge, per distinguere meglio
i valori tra loro. La severità o meno di una pena è una dimensione
importante perché fa passare un messaggio. La proporzione tra il
reato e la pena è la famosa legge del taglione (“vita per vita,
occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per
piede”), cui Dt 19,21 aggiunge “il tuo occhio non avrà pietà”. La
legge del taglione altro non è che l’affermazione del principio di
proporzione: reato grande pena grande; reato piccolo pena
piccola. Non veniva applicata alla lettera ! Solo voleva affermare la
necessaria proporzionalità tra reato e pena, esattamente come
accade oggi negli ordinamenti contemporanei. Anzi, la legge del
taglione vuole esattamente evitare la vendetta, che di per sé
richiede una ritorsione più grande del male ricevuto: questa è
proprio la dinamica del male. La legge del taglione serve invece
proprio ad evitare il giro perverso della vendetta ed a fare giustizia,
attraverso la proporzione.
Con la legge, tuttavia, si mette il recinto intorno al male, ma
non si risolve effettivamente il problema del male, perché
comunque sono obbligato ad usare dei mezzi che se pure sono
necessari, non sono tuttavia in sé giusti. Togliere la libertà ad
un uomo non è in sé giusto, può diventare necessario e giusto se
questo è l’unico mezzo per evitare alla persona di fare altro male.
Ad es. la pena di morte di solito è prevista quando il reato
commesso è gravissimo. Essa è però il massimo della
contraddizione perché per dire che la vita non va toccata e che non
bisogna uccidere, lo facciamo uccidendo ! Si uccide per proibire di
uccidere ! La Scrittura è ben consapevole di sapere che questo
modo di esercitare la giustizia con il giudice ed il tribunale non
funziona. Lo presenta come una specie di ammissione di
sconfitta. Lì dove non si riesce davvero a fare giustizia allora non si
può fare altro che ricorrere a questo modo che è, non proprio
ingiusto, ma imperfetto. Bisogna tendere alla giustizia perfetta, ma
dove essa non riesce, allora bisogna accontentarsi di questa
giustizia imperfetta.
ha mai accusato Giobbe, solo che questo è il modo in cui gli uomini
leggono il dolore: gli amici, Giobbe ed anche noi tendenzialmente:
se c’è una sofferenza bisogna andare in cerca del colpevole, se
non io o qualcun altro, allora Dio. E’ una dinamica accusatoria
difficile a spezzare e che nel libro di Giobbe si spezzerà solo alla fine.
LA SOFFERENZA È ACCUSATORIA: va in cerca del colpevole.
Tuttavia che l’accusa di Giobbe a Dio è importante perché,
entrando nella dinamica del rib, Giobbe non lo accusa
semplicemente dicendogli “sei colpevole e basta”, ma “sei
colpevole e voglio che tu smetta di esserlo, perché credo che tu sia
buono e voglio che tu torni a mostrarti tale”. Lo accusa dopo
averlo perdonato. La sua accusa a Dio può anche prendere delle
forme che ci possono sembrare perfino blasfeme (in Gb 7,13 ss.
Giobbe cita il Salmo 8, ma solo che lo cita per bestemmiarlo, per
stravolgerlo: dice lasciami, vattene, non ti prendere cura di me: è la
perversione di una preghiera). Ma Giobbe fa questo perché vuole
che Dio torni ad essere Dio; è sicuro che Dio è buono e giusto e
vuole che Dio torni ad essere così. In realtà il suo parlare è il parlare
dell’uomo di fede che non vuole accettare che Dio sia cattivo, la
visione di un Dio ingiusto che è quella che gli presentano gli amici e
che sembra testimoniata dalla sua sofferenza, anche lo stravolgere i
salmi è all’interno di un rib che ha il fine di manifestare il Dio in cui
Giobbe crede ed a cui non vuole rinunciare. Questo è il Giobbe
gigante nella fede a cui Dio alla fine del libro dirà “tu Giobbe hai
parlato bene”. Cerca il confronto con Dio fidandosi del Dio della vita,
anche a rischio di morire ma proprio perché ha la certezza che Dio è
il Dio della vita. Giobbe vuole che Dio si converta ed in questo
modo entra anche lui dentro il rib e la teoria retributiva, solo che
non è quella semplice degli amici, ma quella messa in crisi e
problematizzata che supera gli schemi semplificati per aprirsi alla
complessità del problema del dolore.
Se la sofferenza viene vista nella linea del rib è sempre
qualcosa che sì serve, ma che deve anche finire. Serve alla
felicità. Il libro di Giobbe pone il problema a questo livello. Giobbe
non si accontenta di trovare una spiegazione semplice al dolore e
così chiede la stessa cosa al lettore. Ci chiede di condividere la
ribellione la ricerca e la lotta di Giobbe, di non avere paura di
mettere in crisi le nostre certezze se questa sono messe in
discussione dalla realtà; di non rispondere con risposte vecchie ad
una domanda nuova. Giobbe ha il coraggio di porre una
domanda nuova: perché l’innocente soffre ? Perché l’esperienza
della sofferenza è sproporzionata rispetto alla colpa ? Alle domande
nuove bisogna trovare risposte nuove. Il libro di Giobbe ci dice
anche “non abbiate paura delle parole, di porvi delle domande, non
Prof.ssa Bruna Costacurta - Pag. 58
IL CAPITOLO 10
Gb 10,1-12
Gb 10,13-17
Gb 10,18-22
[18]Perché tu mi hai tratto dal seno materno?
Fossi morto e nessun occhio m'avesse mai visto!
[19]Sarei come se non fossi mai esistito;
dal ventre sarei stato portato alla tomba!
[20]E non son poca cosa i giorni della mia vita?
Lasciami, sì ch'io possa respirare un poco
[21]prima che me ne vada, senza ritornare,
verso la terra delle tenebre e dell'ombra di
morte,
[22]terra di caligine e di disordine,
dove la luce è come le tenebre.
Il Dio con cui Giobbe lotta è il Dio in cui lui crede e che crede
buono. È sempre lo stesso Dio che lui cerca, ma solo che vuole che
Egli si mostri come Lui è davvero. Questo è importante perché la
costante tentazione dell’uomo è quello di mettersi alla ricerca di
un altro Dio e mettere così in campo due dei, uno cattivo e l’altro
buono; uno della vita ed uno della morte; uno che dà la pioggia ed
uno che fa o non fa qualcos’altro. Giobbe invece crede in un Dio
solo, ha una chiara prospettiva monotesistica. Giobbe sa che Dio è
diverso da quello che gli presentano gli amici, ma che si tratta
sempre dello stesso Dio. Giobbe non va in cerca di un altro Dio
ma va in cerca di un Dio Altro, diverso, al di là, trascendente,
Altro dall’uomo ma che non è un altro dio. Giobbe è deciso ad
entrare nel mistero ! Ma ci vorrà ancora del tempo prima che
questo avvenga.
Difficoltà testuali
un problema grave !
Con l’ebraico biblico non abbiamo altra letteratura
contemporanea: abbiamo solo quello; al più si può cercare
qualche altra lingua semitica. Ma non c’è una letteratura con cui
fare una comparazione. Per il NT questo problema non c’è.
I problemi testuali ci mettono peraltro davanti alla realtà che la
Parola di Dio è un dono, di cui in quanto tale non ce ne possiamo
appropriare. Siamo davanti al mistero; nella Parola di Dio è Dio che
si rivela e pertanto non può essere sempre compresa. Il che non
deve assolutamente indurre ad un disimpegno. L’oscurità del testo è
l’occasione di fare esperienza del dono della Parola.
sconvolge le montagne:
[10]nelle rocce scava gallerie
e su quanto è prezioso posa l'occhio:
[11]scandaglia il fondo dei fiumi
e quel che vi è nascosto porta alla luce.
Con la sua firma Giobbe accetta di morire, che Dio conti pure i
suoi passi, Dio può fare quello che vuole; anzi adesso è Giobbe
che conta i suoi passi per venire verso di Lui: è Giobbe a contare i
propri passi. Secondo la prospettiva degli amici di Giobbe il
documento di Dio è la stessa sofferenza di Giobbe. Adesso
Giobbe dice che del suo documento si fa un diadema, trasforma
l’accusa di Dio nella propria gloria e adesso, contando i propri passi,
Giobbe va verso Dio. In un certo senso Giobbe adesso esce di
scena con questa accusa teatrale. È la forza della disperazione,
di chi non ha nulla da perdere, di chi è disposto a tutto anche a
morire pur di entrare nel mistero di Dio; bisogna morire ? Entrare
nella verità del mistero di Dio è più importante, vale la pena
di giocarsi la vita.
Prof.ssa Bruna Costacurta - Pag. 72
I vv. 35-37 spesso vengono portati dopo, alla fine del capitolo.
Perché questo ? Non si sa.
Dio mette subito Giobbe davanti al fatto di non aver fatto lui la
terra su cui egli sta. Sin dalla prima domanda Giobbe è invitato a
riflettere come davanti a tutte queste domande possa solo
rispondere “no”. Le domande lo incalzano non perché Giobbe si
spaventi, ma perché indietreggi dentro di sé, perché possa
prendere coscienza del fatto di non sapere. Giobbe sa di cosa Dio
sta parlando, sono cose quotidiane, che Giobbe ben conosce,
eppure dinanzi ad esse Giobbe realizza di non sapere. Giobbe deve
riconoscere l’assoluta oscurità del segreto del mondo, non
avendolo fatto, in realtà Giobbe non lo conosce !
ciò che mancava ancora a Giobbe: capire che Dio è Dio e che è
diverso dall’uomo e da come l’uomo desidera che sia.
Dinanzi a questa provocazione Giobbe finalmente capisce di
non essere Dio: quando Dio propone questo scambio delle parti,
anche la creazione cambia, Dio presenta a Giobbe una natura
diversa, problematica, che spaventa, adeguata alla sfida che Dio sta
muovendo a Giobbe. È la natura dei grandi mostri (io coccodrillo,
l’ippopotamo e quello mitico, il Leviatan). Una natura che spaventa
l’uomo ma con la quale invece Dio gioca.
Quello che viene messo in gioco è il nostro sogno di Dio: che
risolve i problemi umani, come quello che Dio propone a Giobbe di
essere; un Dio che in un attimo risolve il problema del male. Se nel
primo discorso Dio ha messo in questione il problema
dell’onniscienza, Dio adesso passa al problema dell’onnipotenza.
Le nostre categorie di potenza non sono quelle di Dio; sono quelle
volte a risolvere i problemi dell’uomo ed innanzitutto il dramma del
male. Il Dio onnipotente per noi è quello che evita il male. Ma
Dio è invece un altro e la sua potenza è un’altra: è quella di chi
amando l’uomo lo vuole portare alla felicità della salvezza, senza
bloccare la libertà; è la potenza che vince il dolore dando un senso
al dolore, alla vita ed alla morte; e tutto questo non intervenendo
con la forza ma mitemente provocando la conversione del cuore;
non è il Dio della magia o della bacchetta magica.
Dio non percorre i cammini della magia, ma quelli impensabili
per l’uomo di una potenza che si fa amore, mitezza, entrando
nell’apparente impotenza di chi per salvare si dona fino al punto
di morire. Questa è la potenza di Dio e la potenza (ed il Dio) con cui
adesso Giobbe si deve misurare e che Giobbe deve accettare. È un
Dio che pone definitivamente il problema: oseresti tu cancellare il
mio giudizio e dire che io sono colpevole e tu innocente ? Gli amici
dinanzi alla sofferenza accusavano Giobbe, il quale rispondeva alle
accuse accusando a sua volta Dio. Dio adesso conclude dicendo che
non è necessario accusare qualcuno per dimostrare di
essere innocente e soprattutto che la sofferenza non è
un’accusa. In questo modo Giobbe, non per via di discorsi, ma
attraverso l’esperienza personale, può finalmente capire.
Gb 42
[1]Allora Giobbe rispose al Signore e disse:
[2]Comprendo che puoi tutto
e che nessuna cosa è impossibile per te.
[3]Chi è colui che, senza aver scienza,
può oscurare il tuo consiglio?
Ho esposto dunque senza discernimento
cose troppo superiori a me, che io non comprendo.
Prof.ssa Bruna Costacurta - Pag. 77
Nella seconda risposta Giobbe dice che quello che ha detto era
al di sopra delle sue possibilità, un andare oltre, quella pretesa di
essere Dio o di sapere quanto meno come Dio dovrebbe essere.
Giobbe adesso riprende l’incipit di Dio, per mettersi
definitivamente nelle sue mani. A questo punto Giobbe può dire la
sua frase finale:
[4]«Ascoltami e io parlerò,
io t'interrogherò e tu istruiscimi».
[5]Io ti conoscevo per sentito dire,
ma ora i miei occhi ti vedono.
[6]Perciò mi ricredo
e ne provo pentimento sopra polvere e cenere.
GB 42,7-17: L’EPILOGO
Prof.ssa Bruna Costacurta - Pag. 79
[7]Dopo che il Signore aveva rivolto queste parole a Giobbe, disse a Elifaz il
Temanita: «La mia ira si è accesa contro di te e contro i tuoi due amici, perché
non avete detto di me cose rette come il mio servo Giobbe. [8]Prendete
Prof.ssa Bruna Costacurta - Pag. 80
dunque sette vitelli e sette montoni e andate dal mio servo Giobbe e offriteli
in olocausto per voi; il mio servo Giobbe pregherà per voi, affinchè io, per
riguardo a lui, non punisca la vostra stoltezza, perché non avete detto di me
cose rette come il mio servo Giobbe».
[9]Elifaz il Temanita, Bildad il Suchita e Zofar il Naamatita andarono e fecero
come loro aveva detto il Signore e il Signore ebbe riguardo di Giobbe.
che anche Giobbe desideri che Dio perdoni gli amici, li deve quindi
amare ed averli già perdonati.
Il Dio che si rivela in questo epilogo è il Dio buono che adesso si
manifesta pienamente perché perdona gli amici e fa entrare in
questa dinamica di perdono e di bene anche Giobbe. Chi riceve il
dono del Dio buono non sono solo gli amici che vengono perdonati,
ma anche Giobbe che entra nel desiderio di perdono di Dio. Adesso
sì Giobbe è benedetto e può dire i miei occhi ti vedono. Non è più
qualche cosa che si aggiunge alla benedizione di Giobbe, ma è
qualcosa con cui questa benedizione si manifesta. Quando
Giobbe ha detto “adesso i miei occhi ti vedono” egli è entrato nella
benedizione totale, ma questa benedizione totale trova il suo
modo di esprimersi. Solo adesso Giobbe può fare quello che
solo Dio può fare: perdonare.
[10]Dio ristabilì Giobbe nello stato di prima, avendo egli pregato per i suoi
amici; accrebbe anzi del doppio quanto Giobbe aveva posseduto. [11]Tutti i
suoi fratelli, le sue sorelle e i suoi conoscenti di prima vennero a trovarlo e
mangiarono pane in casa sua e lo commiserarono e lo consolarono di tutto il
male che il Signore aveva mandato su di lui e gli regalarono ognuno una
piastra e un anello d'oro.
[12]Il Signore benedisse la nuova condizione di Giobbe più della prima ed egli
possedette quattordicimila pecore e seimila cammelli, mille paia di buoi e
mille asine. [13]Ebbe anche sette figli e tre figlie. [14]A una mise nome
Colomba, alla seconda Cassia e alla terza Fiala di stibio. [15]In tutta la terra
non si trovarono donne così belle come le figlie di Giobbe e il loro padre le
mise a parte dell'eredità insieme con i loro fratelli.
[16]Dopo tutto questo, Giobbe visse ancora centoquarant'anni e vide figli e
nipoti di quattro generazioni. [17]Poi Giobbe morì, vecchio e sazio di giorni.
che non arriva a giustificare questo dolore e lo lascia per ciò che è,
un mistero inspiegabile. Sottolinea il mistero del suo dolore. Il
raddoppiamento è quindi un modo con cui si segnala la perdita
e con cui attraverso le categorie classiche della benedizione si
esplicita quella che è la situazione di Giobbe. È un modo per dire
che dentro la morte si trova la vita, che dentro la maledizione
si può trovare la benedizione, che nella prova e nel dolore si
può incontrare Dio. Questo è stato detto con Giobbe che
esclamava “i miei occhi ti vedono”, nella fede pura, ed adesso viene
detto con le categorie classiche che servono di solito ad esprimere
la benedizione, ma che non dicono che queste cose sono il premio,
ma il modo con cui nei termini classici si dice che Giobbe è
stato benedetto, ma di quella benedizione che Giobbe già godeva
dicendo che vedeva Dio senza chiedere nient’altro.
I beni raddoppiati fanno vedere che il bene produce bene: ma
questo bene è il nuovo rapporto con Dio, in cui si vede che
Giobbe è benedetto quando rinuncia alla sua benedizione. La sua
benedizione è avere occhi che vedono Dio, egli rinuncia alla
forma visibile della benedizione per accedere alla benedizione vera
che è dire “i miei occhi ti vedono”. Quando egli rinuncia alla
benedizione visibile allora vengono anche quelle cose che Giobbe
non ha chiesto, un po’ come nel sogno di Gabaon fa Salomone. In
questo modo Giobbe arriva veramente alla piena riconciliazione e
benedizione, comprendendo che quando si fa esperienza di Dio la
realtà cambia ed anche la morte cambia e diventa luogo in cui è
possibile incontrare Dio.
Il libro finisce senza dare spiegazioni del male, ma
affermando che il male viene trasformato in bene. Giobbe ha
posto la domanda in tutta la sua crudeltà, sul senso di una
sofferenza che ti fa maledire la vita. La risposta non è stata Dio in
modo logico, ma per via d’esperienza. La risposta c’è, ma non si
capisce, è un mistero, è il Dio; perché si possa manifestare in
pienezza, bisognerà aspettare che il Figlio di Dio si faccia
carne (Natale) e muoia e risorga (la Pasqua), perché nella
resurrezione di Gesù c’è la fine della morte ma anche la fine
della colpa, perché il dilemma tra colpevole e innocente finisca,
perché di questa morte non è colpevole né Giobbe, né gli amici, né
gli uomini, perché Gesù dice “Padre perdona loro perché non sanno
quello che fanno”. La colpa è finita e Giobbe ha trovato la sua
risposta.
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SALMO 126
Prof.ssa Bruna Costacurta - Pag. 85
Restaurazione/ritorno dall’esilio
Ed in Ger 30,18-19:
vv. 5-6
[5]Chi semina nelle lacrime
mieterà con giubilo.
[6]Nell'andare, se ne va e piange,
portando la semente da gettare,
ma nel tornare, viene con giubilo,
portando i suoi covoni
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SALMO 46
[1]Al maestro del coro. Dei figli di Core.
Su «Le vergini...». Canto.
[2]Dio è per noi rifugio e forza,
aiuto sempre vicino nelle angosce.
[3]Perciò non temiamo se trema la terra,
Prof.ssa Bruna Costacurta - Pag. 94
vv. 2-4
All’inizio c’è questa proclamazione del “Dio per noi” che rende
sicuri, come “rifugio, forza, aiuto”. C’è subito nel salmo
l’affermazione del rapporto con Dio che fonda la fiducia e nel
quale ci si può rifugiare. Il termine tradotto con “rifugio” è un
termine che vuol dire luogo di riparo e di protezione. Molto spesso
questo è riferito a Dio e reca l’idea di un luogo nel quale è possibile
nascondersi, dove i nemici non possono arrivare e le intemperie ed i
pericoli non possono fare del male. Questo termine è spesso
associato ad altri del tipo, roccia, rupe, luogo alto, roccaforte,
fortezza. È comunque un rifugio astratto che evoca tuttavia
qualcosa di molto concreto dove quando si entra non c’è più
motivo di avere paura.
Insieme a questo termine si aggiunge un termine sia astratto
che concreto che però và in una linea più attiva e che si può
tradurre con “forza” o “fortezza”. In italiano il termine fortezza è
ambiguo, vuol dire sia forza/potenza che costruzione che protegge;
ed in questa ambivalenza c’è sia il significato astratto (forza) che
concreto (fortezza).
In questa linea và anche la terza parola “aiuto”, che suppone
qualcuno che si trova in una situazione di debolezza e che riceve
aiuto da chi si trova in posizione di forza. Anche il termine aiuto è un
termine sia astratto (l’aiuto che si dà) che concreto (indicando
l’alleato, la persona che viene in aiuto). Questo aiuto nella
dimensione biblica può avere un significato materiale (militare) ma
anche spirituale.
Si comincia quindi con Dio come rifugio, poi come forza e come
riparo che combatte ed ora come alleato. Il salmo indica la
situazione di difficoltà come situazione in cui si ha bisogno di aiuto
sia dal punto di vista materiale che spirituale, perché ci si trova
nelle angosce. Il termine angoscia in ebraico fa riferimento a
qualcosa che stringe e che comprime: è l’idea della strettoia,
dell’essere messo in una situazione stretta. Questa è proprio
l’angoscia, situazione in cui uno si sente stretto, compresso ed
oppresso. Ed infatti una della somatizzazioni più comuni
dell’angoscia è proprio la difficoltà a respirare. Ci si sente stretti e
Dio invece porta al largo (come dice un altro salmo). Il nostro salmo
dice invece che Dio lì dentro si fa trovare sempre, si lascia trovare.
La traduzione più probabile è si lascia trovare sempre,
grandemente, in modo grande, molto. Questo è significativo perché
questo Dio che è roccaforte, fortezza, che sta in alto, inaccessibile,
questo Dio invece si fa presente, si rende disponibile, è a
disposizione, sempre presente in mezzo ai suoi ed accetta di essere
trovato. Il Dio inaccessibile, lontano è invece sempre a portata di
mano.
Prof.ssa Bruna Costacurta - Pag. 96
v. 5-6
[5]Un fiume e i suoi ruscelli rallegrano la città di Dio,
la santa dimora dell'Altissimo.
[6]Dio sta in essa: non potrà vacillare;
la soccorrerà Dio, prima del mattino.
v. 7
[7]Fremettero le genti, i regni si scossero;
egli tuonò, si sgretolò la terra.
vv. 9-11
[9]Venite, vedete le opere del Signore,
egli ha fatto portenti sulla terra.
[10]Farà cessare le guerre sino ai confini della terra,
romperà gli archi e spezzerà le lance,
brucerà con il fuoco gli scudi.
[11]Fermatevi e sappiate che io sono Dio,
eccelso [mi innalzo] tra le genti, eccelso [mi innalzo]
sulla terra.
Prof.ssa Bruna Costacurta - Pag. 102
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QOELET
La datazione dell’opera è fatta risalire al III sec. a.c. (per
Prof.ssa Bruna Costacurta - Pag. 103
Gilbert ca. il 250 a.c.). L’idea di fondo del libro è quella per cui in
realtà nulla serve.
vita è inutile.
[Capitolo 2]
[1]Io ho detto in cuor mio: «Vieni, dunque, ti voglio mettere alla prova
Prof.ssa Bruna Costacurta - Pag. 106
[22]Allora quale profitto c'è per l'uomo in tutta la sua fatica e in tutto
l'affanno del suo cuore con cui si affatica sotto il sole? [23]Tutti i suoi giorni
non sono che dolori e preoccupazioni penose; il suo cuore non riposa neppure
di notte. Anche questo è vanità! [24]Non c'è di meglio per l'uomo che
mangiare e bere e godersela nelle sue fatiche; ma mi sono accorto che anche
questo viene dalle mani di Dio. [25]Difatti, chi può mangiare e godere senza
di lui? [26]Egli concede a chi gli è gradito sapienza, scienza e gioia, mentre al
peccatore dà la pena di raccogliere e d'ammassare per colui che è gradito a
Dio. Ma anche questo è vanità e un inseguire il vento!
2,24-26
[24]Non c'è di meglio per l'uomo che mangiare e bere e godersela nelle
sue fatiche; ma mi sono accorto che anche questo viene dalle mani di
Dio. [25]Difatti, chi può mangiare e godere senza di lui? [26]Egli
concede a chi gli è gradito sapienza, scienza e gioia, mentre al
peccatore dà la pena di raccogliere e d'ammassare per colui che è
gradito a Dio. Ma anche questo è vanità e un inseguire il vento!
3,16-17
[16]Ma ho anche notato che sotto il sole al posto del diritto c'è l'iniquità
e al posto della giustizia c'è l'empietà. [17]Ho pensato: Dio giudicherà il
giusto e l'empio, perché c'è un tempo per ogni cosa e per ogni azione.
8,11-14
11,9
12, 13-14
[13] Conclusione del discorso, dopo che si è ascoltato ogni cosa: Temi
Dio e osserva i suoi comandamenti, perché questo per l'uomo è tutto.
[14] Infatti, Dio citerà in giudizio ogni azione, tutto ciò che è occulto,
bene o male.
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LA SAPIENZA
La prospettiva di una nuova sapienza è aperta proprio dal
libro della sapienza, come capacità di risposta alla domanda del
morire e quindi del vivere. È l’ultimo libro del pentateuco
sapienziale, che pone anch’esso un problema che parte dalla realtà.
Israele è perseguitato, ha problemi di sopravvivenza, questa è la
realtà con cui il libro della sapienza si confronta.
È il libro più tardivo del pentateuco sapienziale. La datazione
più verosimile è dal 50 a.c. all’anno zero, dunque seconda metà
del I sec. a.c. E’ stato scritto direttamente e solo in greco, non ha
versioni anteriori ebraiche. Ad Alessandria in Egitto, attribuito
anch’esso, come Qoelet, a Salomone, con una finzione letteraria. Il
suo genere letterario è fondamentalmente greco, è quello
dell’encomio, della laudatio, dell’elogio di una virtù. Pur se costruito
Prof.ssa Bruna Costacurta - Pag. 113
secondo gli schemi tipici di una cultura greca, mantiene però degli
elementi tipicamente ebraici. La sua parte finale contiene ad es. un
midrash, cioè una rilettura (sapienziale) dell’evento dell’esodo,
fatto proprio con il sistema midrashico, che è tipicamente ebraico.
Fa dunque da ponte tra le due culture, quella ellenistica ed ebraica.
Con riferimento alla sua struttura si possono distinguere in
esso tre grandi blocchi:
1) Sap 1-6: si fa riferimento all’elogio che si vuole fare, con
esortazioni al lettore e compare la grande
contrapposizione sapienziale tra il giusto e l’empio,
il saggio e lo stolto;
2) Sap 6-9: c’è l’elogio della sapienza, la sua origine, la
sua natura, il suo agire il suo manifestarsi che termina
con la preghiera di Salomome (Sap 9);
3) Sap 10-19: con esempi concreti si illustra il discorso
fatto e l’importanza della sapienza. Si rilegge la storia di
Israele e l’evento dell’esodo, si mostra l’amore di Dio
per l’uomo, la sapienza del cammino dietro al signore e
la stoltezza dell’idolatria, per concludere con un
epilogo.
Lo schema è quello della lode di una virtù, la sapienza, con la
particolarità tipicamente ebraica della rilettura midrashica
dell’esodo, in cui non vengono fatti nomi: né Israele, né l’Egitto, né
il faraone, come se i personaggi fossero senza volto. Viene nominato
solo il mar rosso. O perché gli ebrei in diaspora sapevano bene di
cosa si trattasse oppure perché c’è un’apertura all’umano
universale, pur dentro la particolarità di una storia. La narrazione
dell’esodo contiene così la storia di ogni uomo, riconoscendo la
portata universale di questa stessa storia. La sapienza condurrebbe
ogni uomo ad entrare dentro quella storia di salvezza, ognuno
di noi può metterci il suo nome: questo è sapiente.
Attraverso sette esempi il libro mostra come Dio agisce nei
confronti dell’empio e del giusto; mostra come l’agire di Dio sia
coerente, secondo una sorta di legge del contrappasso. Si parla ad
es. dell’acqua del Nilo che diventa sangue per l’Egitto, mentre per
Israele c’è un’altra acqua, quella che sgorga dalla roccia nel
deserto. Sull’Egitto piovono le rane, su Israele le quaglie. Sull’Egitto
c’è l’invasione delle cavallette, per Israele c’è il serpente di bronzo
che guarisce dal morso dei serpenti velenosi; per l’Egitto c’è la
tenebra, per Israele tutto è illuminato. In Egitto muoiono i
primogeniti, Israele è salvato. Il Mar Rosso uccide l’Egitto, per
Israele il mar rosso si apre.
La presentazione di ciò che avviene per l’empio Egitto e di ciò
che avviene per il giusto Israele, in un libro peraltro scritto in Egitto,
Prof.ssa Bruna Costacurta - Pag. 114
Sap 2
[1]Dicono fra loro sragionando:
«La nostra vita è breve e triste;
non c'è rimedio, quando l'uomo muore,
e non si conosce nessuno che liberi dagli inferi.
[2]Siamo nati per caso
e dopo saremo come se non fossimo stati.
E' un fumo il soffio delle nostre narici,
il pensiero è una scintilla
nel palpito del nostro cuore.
[3]Una volta spentasi questa, il corpo diventerà
cenere
e lo spirito si dissiperà come aria leggera.
[4]Il nostro nome sarà dimenticato con il tempo
e nessuno si ricorderà delle nostre opere.
La nostra vita passerà come le tracce di una nube,
si disperderà come nebbia
scacciata dai raggi del sole
e disciolta dal calore.
[5]La nostra esistenza è il passare di un'ombra
e non c'è ritorno alla nostra morte,
poiché il sigillo è posto e nessuno torna indietro.
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IL SIRACIDE
Si presenta in modo simile al libro dei proverbi, è un insieme di
insegnamenti e riflessioni sapienziali. È una raccolta di Sapienza. Il
Siracide era di fatto uno scriba, un grande sapiente che presenta
questa sorta di grande raccolta, un’enciclopedia di grandi tesori
sapienziali. Ha una dimensione antologica, eterogenea.
È stato scritto a Gerusalemme in ebraico verso il II sec. a.c.,
poi tradotto in greco dal nipote di Ben Sira verso il 130 a.c. ad
Alessandria di Egitto. La questione testuale è così resa ancora più
complicata. L’ebraico si è perso, come nel caso del libro di Giuditta.
Non entra nel canone ebraico, ma nel canone greco e poi in quello
nostro. Nel 1896 nel ripostiglio della sinagoga del Cairo sono stati
riscoperti manoscritti ebraici del Siracide. Altri sono stati rinvenuti a
Qmram e Masada. Questi manoscritti consentono di recuperare
circa il 70% dell’originale ebraico. È una stranezza che pone anche
problematiche di tipo teologico in punto di ispirazione: a quale
rifarsi. Uno solo dei due o tutti e due ?
In Sir 24 c’è l’auto-presentazione della sapienza, come verbo e
come parola che è uscita dalla bocca di Dio ed ha posto la sua tenda
tra gli uomini. Nella parte finale del libro, dal cap. 42 alla fine, c’è la
presentazione della presenza di Dio nella natura e nella storia, dove
il Siracide fa una specie di galleria dei personaggi storici, attraverso
i ritratti dei principali personaggi della storia biblica. È una rilettura
sapienziale della storia di Israele, come presentazione di tutta la
Prof.ssa Bruna Costacurta - Pag. 118
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IL CANTICO DEI CANTICI
È un libro molto particolare dal punto di vista del contenuto.
Tutto incentrato sull’amore, il grande canto di un lui e di una lei che
si amano, dove Dio stranamente sembra non comparire. L’autore è
ignoto. La data di composizione è incerta. Non è nemmeno sicuro
che sia un libro unitario. La datazione deve però essere post-
esilica, risalire allo stesso tempo dei grandi libri sapienziali. Si può
anche affermare che si tratti di una composizione unitaria, il che
non esclude la presenza di materiale preesistente rielaborato.
Dal punto di vista del contenuto è il canto dell’amore di un
uomo e di una donna; sono loro i due grandi protagonisti, con un
coro che di tanto in tanto interviene. In questo libro Israele diventa
una specie di giardino, come quello dell’Eden, dove questi due
protagonisti si cercano, si trovano e si amano; e dove ricreano in un
certo modo il giardino dell’Eden che i progenitori avevano
pervertito. È il mondo bello di Gn 1, trasfigurato dall’amore che
recupera ogni male. Gli amanti attraverso l’amore recuperano il
giardino dell’Eden perso dai progenitori.
Molto si è discusso e ci si è interrogati su che tipo di amore
sia. Si è fatto fatica ad accettare che fosse il canto d’amore di un
uomo e di una donna; l’apparente assenza di Dio ha sempre fatto
problema. È un libro ispirato, canonico, e ci si aspetta quindi un
discorso religioso. Per rispondere a questa esigenza in passato si è
cercato di spiritualizzare il contenuto attraverso l’interpretazione
allegorica del testo. Questa è stata quasi unanime, fino al secolo
scorso. Tutto il libro è stato visto come una grande allegoria, con un
senso esclusivamente spirituale, non solo in ambito cristiano –
come allegoria dell’amore tra Dio ed il credente, tra Cristo e la
Chiesa, tra Cristo e l’umanità, lo Spirito e Maria –, ma anche in
ambito giudaico – dove era visto soprattutto come un’allegoria
della storia di Israele.
Si è andato quindi in varie direzioni, dando a questo lui ed a
questo lei una dimensione di divino. Solo che questa dimensione
allegorica è stata spesso esasperata fino a diventare
improbabile, si è cercata tentando di identificare allegoricamente
ogni singolo elemento che compare nel cantico. Non solo lui e lei,
ma anche le immagini, le piante, gli animali, di ogni cosa si è
cercato il significato allegorico, rendendo in questo modo il poema
Prof.ssa Bruna Costacurta - Pag. 119
Ct 2
[8]Una voce! Il mio diletto!
Eccolo, viene
saltando per i monti,
balzando per le colline.
[9]Somiglia il mio diletto a un capriolo
o ad un cerbiatto.
Eccolo, egli sta
dietro il nostro muro;
guarda dalla finestra,
spia attraverso le inferriate.
[10]Ora parla il mio diletto e mi dice:
«Alzati, amica mia,
mia bella, e vieni!
[11]Perché, ecco, l'inverno è passato,
è cessata la pioggia, se n'è andata;
[12]i fiori sono apparsi nei campi,
il tempo del canto è tornato
e la voce della tortora ancora si fa sentire
nella nostra campagna.
[13]Il fico ha messo fuori i primi frutti
e le viti fiorite spandono fragranza.
Alzati, amica mia,
mia bella, e vieni!
[14]O mia colomba, che stai nelle fenditure della
roccia,
nei nascondigli dei dirupi,
mostrami il tuo viso,
fammi sentire la tua voce,
perché la tua voce è soave,
il tuo viso è leggiadro».
[15]Prendeteci le volpi,
le volpi piccoline
che guastano le vigne,
perché le nostre vigne sono in fiore.
[16]Il mio diletto è per me e io per lui.
Egli pascola il gregge fra i gigli.
[17]Prima che spiri la brezza del giorno
e si allunghino le ombre,
ritorna, o mio diletto,
somigliante alla gazzella
o al cerbiatto,
sopra i monti degli aromi.
sepolcro, dove una donna va in cerca del suo amato (Gv 20, 11 ss.).
Quello che è interessante è questa specie di
sovrapposizione/fusione delle due voci, perché è lei che parla
ed è attraverso quello che lei dice si sente la voce di lui (v. 10: “ora
parla il mio diletto e mi dice”). Quando lui parla lo fa attraverso la
voce di lei e nella voce di lei ci sono le parole e la voce di lui. Questo
dice quello che è il mistero dell’amore come fusione di due
persone, questo perdersi dell’uno nell’altro che è un perdersi
per ritrovarsi. In Gn 2,23 l’uomo parla la prima volta e lo fa per
dire il nome di lei. Egli può dire il proprio nome perché dice il nome
di lei: è un riconoscersi l’uno nell’altro.
C’è poi l’altro elemento assolutamente determinante
dell’amore che è il desiderio, che si nutre nell’attesa e si nutre
dell’attesa. Lei si vede come colomba (v. 14) perché lui la vede
così; e lui è un cerbiatto perché lei lo vede come un cerbiatto. Tutti
e due vivono nell’attesa dell’incontro che è una cosa assolutamente
tipica dell’amore. Lui corre ma in un certo modo anche lei corre,
non fisicamente, ma con il desiderio, con l’attesa, con gli occhi che
guardano lontano per riuscire a vederlo, ed in un certo senso è
come se anche lei andasse sui monti per vederlo, per cercarlo, con il
desiderio, la cui dimensione va insieme a quella dell’attesa.
Ed è per questo che lui non entra subito, ma si ferma.
Aspettare dice una dimensione fondamentale dell’amore, l’apertura
al senso della continua novità, è l’amore che non si abitua mai
all’altro perché l’altro, se è visto con gli occhi dell’amore, è
sempre nuovo, è sempre una sorpresa, una meraviglia da
ricevere. Lui viene sempre, ma per lei è sempre una novità, è la
meraviglia davanti al dono, che non viene mai dato per scontato,
di cui non ci si appropria mai. Il desiderio che rimane sempre perché
va sempre al di là del possesso. Un possedere senza possedere,
sempre accogliendo, sempre riconoscendo l’altro come dono e
dunque ogni volta attendendo, meravigliandosi, ringraziando.
Tutto questo è vero di lui e di lei, ma è anche vero dell’amore
di Dio. Ecco quindi che i due amanti si vedono come animali che
corrono, ma che fanno anche tenerezza, con immagini di
tenerezza, che muovono istinti di protezione. E quando questo
cerbiatto arriva si ferma, resta dietro la parete, guarda dietro la
finestra. La dimensione dell’attesa, del rispetto dell’altro,
dell’unione che è possibile solo quando non diventa possesso,
ma accoglienza e dono reciproco. Non è un lupo che carpisce la
preda o un leone, ma l’amante che desidera incontrare lei il prima
possibile eppure insieme si ferma per dare tempo all’amore di
attendere e desiderare e rispettare ancora di più l’altro,
assaporando così il momento di incontrarsi.
Prof.ssa Bruna Costacurta - Pag. 122
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SALMO 110 (109)
[1] Di Davide. Salmo.
Oracolo del Signore al mio Signore:
"Siedi alla mia destra,
finché io ponga i tuoi nemici
a sgabello dei tuoi piedi".
[2] Lo scettro del tuo potere
stende il Signore da Sion:
"Domina in mezzo ai tuoi nemici.
[3] A te il principato
nel giorno della tua potenza
tra santi splendori;
dal seno dell'aurora,
come rugiada, io ti ho generato".
[4] Il Signore ha giurato
e non si pente:
"Tu sei sacerdote per sempre
al modo di Melchisedek".
[5] Il Signore è alla tua destra,
annienterà i re nel giorno della sua ira.
[6] Giudicherà i popoli:
in mezzo a cadaveri
ne stritolerà la testa su vasta terra.
[7] Lungo il cammino si disseta al torrente
e solleva alta la testa.
Prof.ssa Bruna Costacurta - Pag. 123
v. 1
"Siedi alla mia destra,
[14]Quando sarai entrato nel paese che il Signore tuo Dio sta per darti e ne
avrai preso possesso e l'abiterai, se dirai: Voglio costituire sopra di me un re
come tutte le nazioni che mi stanno intorno, [15]dovrai costituire sopra di te
come re colui che il Signore tuo Dio avrà scelto. Costituirai sopra di te
come re uno dei tuoi fratelli; non potrai costituire su di te uno straniero che
non sia tuo fratello. [16]Ma egli non dovrà procurarsi un gran numero di
cavalli né far tornare il popolo in Egitto per procurarsi gran numero di cavalli,
perché il Signore vi ha detto: Non tornerete più indietro per quella via!
[17]Non dovrà avere un gran numero di mogli, perché il suo cuore non si
smarrisca; neppure abbia grande quantità di argento e d'oro. [18]Quando si
insedierà sul trono regale, scriverà per suo uso in un libro una copia di questa
legge secondo l'esemplare dei sacerdoti leviti. [19]La terrà presso di sé e la
leggerà tutti i giorni della sua vita, per imparare a temere il Signore suo
Dio, a osservare tutte le parole di questa legge e tutti questi statuti,
[20]perché il suo cuore non si insuperbisca verso i suoi fratelli ed egli non si
allontani da questi comandi, né a destra, né a sinistra, e prolunghi così i giorni
del suo regno, lui e i suoi figli, in mezzo a Israele.
v. 2
[2] Lo scettro del tuo potere
stende il Signore da Sion:
"Domina in mezzo ai tuoi nemici.
Il salmo, dopo aver detto che è Dio che gli dà i nemici nelle
mani e che lo insedia sul trono, ora dice che Dio gli affida lo scettro
del dominio e del servizio, per dominare in obbedienza a un
comando che gli viene da Dio. Sì è il re che domina, ma con uno
scettro che in realtà tiene in mano il Signore: è lo scettro del “tuo
potere”, ma lo “stende il Signore da Sion”; ed il re vive appunto
obbedendo. Questo è il re del nostro salmo, ma secondo la
prospettiva biblica è Adam, cioè l’uomo. Nella prospettiva di Gn 1-2
Adam è il re del giardino ed il re messianico non fa altro che
portare a compimento la vocazione, il compito, il mandato divino di
Adam. Il dominio dell’uomo sul creato è obbedienza al
mandato di Dio. E qui non si sa se è il re che domina con lo scettro
o è Dio: l’immagine vuole volutamente confondere, perché sono
tutti e due a dominare, insieme.
v. 3
[3] A te il principato
nel giorno della tua potenza
tra santi splendori;
dal seno dell'aurora,
come rugiada, io ti ho generato".
v. 4
vv. 5-6
[5] Il Signore è alla tua destra,
annienterà i re nel giorno della sua ira.
[6] Giudicherà i popoli:
Prof.ssa Bruna Costacurta - Pag. 127
in mezzo a cadaveri
ne stritolerà la testa su vasta terra.
v. 7
[7] Lungo il cammino si disseta al torrente
e solleva alta la testa.
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SALMO 83 (82)
Il salmo 110 presenta oltre ai suoi misteri insoluti, anche la
scena assolutamente brutale di una vittoria e di un potere che si
esercita ammucchiando i cadaveri. Questo salmo, come molti altri,
ci porta ad interrogarci sul problema della violenza. In particolare
della violenza nei salmi, nei testi che dovrebbero essere di
preghiera. È un problema reale e non fittizio, molto dibattuto.
Non solo nel salterio, ma anche in molte altre preghiere nella
Scrittura (anche nell’Apocalisse, dunque anche all’interno del NT), si
Prof.ssa Bruna Costacurta - Pag. 129
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SALMO 136 (135)
[1]Alleluia.
Lodate il Signore perché è buono:
perché eterna è la sua misericordia.
[2]Lodate il Dio degli dei:
perché eterna è la sua misericordia.
[3]Lodate il Signore dei signori:
perché eterna è la sua misericordia.
Prof.ssa Bruna Costacurta - Pag. 132
vv. 1-3
[1]Alleluia.
Lodate il Signore perché è buono:
perché eterna è la sua misericordia.
[2]Lodate il Dio degli dei:
perché eterna è la sua misericordia.
[3]Lodate il Signore dei signori:
perché eterna è la sua misericordia.
vv. 4-9
vv. 10-12
vv. 13-15
[13]Divise il mar Rosso in due parti:
perché eterna è la sua misericordia.
[14]In mezzo fece passare Israele:
perché eterna è la sua misericordia.
[15]Travolse il faraone e il suo esercito nel mar Rosso:
perché eterna è la sua misericordia.
v. 16
[16]Guidò il suo popolo nel deserto:
perché eterna è la sua misericordia.
vv. 17-20
Prof.ssa Bruna Costacurta - Pag. 137
vv. 21-22
[21]Diede in eredità il loro paese;
perché eterna è la sua misericordia;
[22]in eredità a Israele suo servo:
perché eterna è la sua misericordia.
vv. 23-24
[23]Nella nostra umiliazione si è ricordato di noi:
perché eterna è la sua misericordia;
[24]ci ha liberati dai nostri nemici:
perché eterna è la sua misericordia.
vv. 25-26
[25]Egli dà il cibo ad ogni vivente:
perché eterna è la sua misericordia.
[26]Lodate il Dio del cielo:
perché eterna è la sua misericordia.