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Nazareno Pastorino – Eternità e natura umana nella filosofia di Emanuele Severino

Nazareno Pastorino

Università degli studi di Salerno


Dipartimento di Filosofia

Eternità e natura umana nella filosofia di Emanuele Severino

Il pensiero di Emanuele Severino è certamente tra i più dibattuti al giorno


d’oggi. Esso si propone di restare sui temi classici dell’ontologia e della metafisica
occidentale, esibendone, però, spesso, un autentico capovolgimento prospettico.
L’assunto fondamentale della filosofia di Severino è il seguente: tutto è eterno: «questo
foglio, questa penna, questa stanza, questi colori, suoni e sfumature e ombre delle cose e
dell’animo sono eterni».1
La storia del pensiero occidentale è per il filosofo bresciano storia del nichilismo
ovvero la storia di un pensiero che si fonda non sulla verità, bensì sull’errore. Tale
errore, che Severino ritiene un errore di massima rilevanza, — tanto da etichettarlo
come «La malattia mortale»2 dell’Occidente stesso — è nient’altro che l’indiscussa ed
indubitata fede nella categoria del divenire. Sin dalla filosofia di Eraclito è possibile
evincere una cieca e ferma credenza che la salvezza razionale dell’ente si ritrovi nella
sua naturale oscillazione tra essere e nulla. Per essere più chiari: ogni ente è fintanto che
esso è, così come non sarà quando quest’ultimo ricadrà nel non-essere. Severino
attribuisce primariamente a Platone questo gravissimo errore tanto che in Essenza del
nichilismo non esita ad affermare:

«Ormai Platone era divenuto il difensore del concreto, dal


naufragio parmenideo, e sotto questo riparo il pensiero
occidentale si poneva una volta per tutte, senza avvedersi
che l’ovile non era stato chiuso prima che entrasse il lupo
e senza avvedersi che era stata lasciata fuori, in sovrana
solitudine la luce della verità dell’essere. Nell’ovile si era
lasciato entrare quanto si sarebbe dovuto abbandonar
fuori, e cioè l’astratta separazione dell’essere e della
determinazione; mentre si era abbandonato fuori quanto

1 E. SEVERINO, Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 19821, 19952 p. 28.


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Ivi, p. 75

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sarebbe dovuto entrare per primo, il respiro del gregge, la


verità di Parmenide».3

La verità di Parmenide, secondo la quale ciò che è resta fermamente sempre ed


eternamente nel regno dell’essere, non permette in alcun modo che l’ente possa essere
considerato come qualcosa di perennemente conteso tra essere e nulla.
Che l’ente possa oscillare tra essere e nulla o che addirittura questo possa essere
il suo carattere peculiare, è per Severino massimamente contraddittorio, impossibile, il
luogo ove il Logos — inteso come capacità razionale ma anche come possibilità di poter
discorrere correttamente — è profondamente assente.
Secondo Severino già nel frammento 88 di Eraclito è possibile riscontrare tale
contraddizione, infatti, il frammento 88 recita così:

«Lo stesso: il vivente e il morto, il desto e il dormiente, il


giovane e il vecchio; queste cose, infatti, tramutandosi son
quelle e quelle, di nuovo tramutandosi, son queste».4

Si tenga presente che Severino preferisce questa traduzione del frammento:

«Son lo stesso le cose che hanno nomi opposti (giovane-


vecchio, morto-vivo…) perché le une, metapesónta (dal
verbo metapípteìn, che vuol dire cadere), precipitando
(così avevamo tradotto), sono altre». 5

Questo precipitare delle cose diviene per la cultura occidentale l’evidenza


indiscutibile del divenire6. Ciò di cui si sta parlando acquisisce notevole rilievo se si
tiene presente che la “cosa”, ciò che ci sta di fronte come altro da noi, riceve le nostre
azioni sulla base di questa concezione dell’identità e dell’alterità. Infatti, nota Severino
che in greco “cosa” può essere detta in molti modi, uno di questi, πρᾶγμα, esso richiama
la prassi, ciò che può dirsi relativo al fare, all’agire; la “cosa” è ciò su cui

3 Ivi, p. 74.
4 DK 22 B 88.
5 E. SEVERINO, L’identità della follia – Lezioni Veneziane, Rizzoli, Milano, 2007 p. 31.
6
Cfr. Quanto, giustamente, affermato da A CRESCINI in E. Severino, il suo “essere” il
suo “nichilismo”, in «Giornale di metafisica» «I», 1995, n. 3., p. 479: «[per Severino]
la cosa non scompare, non cade dunque nel nulla, ma cade in se stessa, nella sua
autentica manifestazione».

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massimamente si può agire7. L’uomo vive, organizza, fa, agendo e rapportandosi alle
cose; ciò sarebbe impossibile o massimamente difficile se tra la cosa “legna” e la cosa
“cenere” venisse messo in discussione il ponte che collega causalmente i due elementi.
Che qualcosa sia se stessa pur essendo diversa da sé, è per l’Occidente qualcosa
di impensabile, tanto che lo stesso Platone nel Teeteto afferma con chiarezza che
«Nemmeno in un sogno» o «Nemmeno nella follia» si può pensare che «una cosa sia
l’altro da sé»8. Quando tuttavia si pensa alla cenere come prodotto della combustione
della legna si dimentica totalmente che l’identico non può in alcun modo essere diverso
da sé. Il principio di non contraddizione, ovvero ciò che è stato definito come
principium firmissimum sarebbe violato. Il problema che ci si pone davanti è il
seguente: affermare che qualcosa diventi altro da sé è per Severino affermare
implicitamente che quel qualcosa è già da sempre altro da ciò che è.
Nel concordare all’essere di una cosa una certa capacità di trasformazione, non
si fa altro che piegare l’identificazione alla non-identificazione. Il procedimento che
permette tale atto, tuttavia, si fonda pur sempre su una ricerca dell’identità del diverso;
infatti per il pensiero occidentale la diversificazione si fonda ontologicamente sulla base
del suo concetto antitetico, senza che ciò sia denunciato come folle
autocontraddittorietà. In Tautótes Severino afferma: «L’“atto”con cui qualcosa diventa
altro da sé è l’atto stesso con cui qualcosa si identifica all’altro da sé». 9
L’ontologia occidentale, per questo, è un’ontologia fondata sull’auto-
contraddizione: infatti, il proprio fondamento razionale la costringe a pensare sempre il
“questo” nell’altro. Inoltre la contraddittorietà diviene duplice o, come preferisce
scrivere Severino, raddoppia se si pensa che non solo qualcosa per essere altro deve
essere in se stessa già altro (a dispetto della sua identità) ma addirittura per essere
identica e diversa da sé deve essere in qualche modo nulla.10
Si comprende bene perché Severino pensa che la metafisica occidentale sia un
profondo errore: seguendo il divenire come base e paradigma fondamentale che regola
la natura delle cose si finisce per concepire le cose o come già da sempre altro da ciò
che sono, o come un puro nulla.

7 Cfr. E. SEVERINO, L’identità della follia – Lezioni Veneziane, cit.,p. 35.


8 PLATO, Thaeth. 190 b-c.
9 E. SEVERINO, Tautótes, Adelphi, Milano 1995, pp. 14-15.
10 Cfr. ivi, p. 26.

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Al fine di comprendere meglio, ecco riproposto un esempio che molte volte


ritorna nelle opere di Severino: spesso si dice che il pezzo di legna che era qui di fronte
a me, bruciando — o meglio dall’essersi completamente consumato tramite la
combustione — è divenuto cenere, ma nell’affermare questo si sta implicitamente
affermando che la legna sia già in qualche modo cenere, ma questo appare impossibile
perché come afferma Platone nel Fedone:

«Non solo la grandezza stessa non vorrà mai essere,


insieme, un esser grande e un esser piccolo, ma anche la
grandezza che è in noi non vorrà mai accogliere in sé la
piccolezza o essere sopportata da essa e quando il suo
contrario, la piccolezza, le si avvicina, essa, la grandezza,
o fugge o gli lascia il posto, oppure quando quella
sopraggiunge, perisce».11

L’Occidente nasconde a sé l’aporia del divenire, la nasconde proprio perché essa


si rende insostenibile alla ragione. Cercando di penetrare il problema: l’Occidente
ammettendo il divenire delle cose, come si è già detto, deve ammettere di pensare
l’alterità come presente nell’identità e, viceversa, di pensare l’identità come ciò che
essendo ciò che è — cioè identico a sé — non è identico a sé. Per uscire da questo
labirinto di specchi, si dovrebbe poter affermare che qualcosa muta indipendentemente
dal momento che lo precede, che la cenere diventa cenere isolandosi dal nesso di
causalità che la lega alla legna che è stata bruciata; in tal caso però bisogna esser
disposti ad accettare un altro assurdo logico: la cenere vien fuori dal nulla. Cercando di
far un passo ulteriore riproponendo le parole di Severino sull’argomento presenti in
Tautótes:

«Quando il pensiero dell’Occidente si convince che, per


diventar cenere, la legna deve diventare innanzitutto un
niente, e che, a sua volta, è il niente della legna e della
cenere, in quanto tali a diventar cenere, anche in questo
caso, nel diventar niente da parte della legna il niente
diventa predicato della legna e la legna diventa soggetto
del niente; e, nel diventar cenere da parte della nientità
della legna e della cenere in quanto tali, la cenere diventa
il predicato del niente e il niente il soggetto della
cenere».12

11 PLATO, Phaed. 102 d-e.


12 E. SEVERINO, Tautótes, cit. p. 129.

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Si tenga ora presente che è impossibile che qualcosa diventi un niente,


poiché il passaggio che conduce, o dovrebbe condurre, un ente al suo esatto contrario
— il ni-ente — rimane, secondo Severino, assolutamente indimostrato. La ragione
alienata tende a nascondersi questo problema, infatti, quando è pronta ad affermare
senza dubbio che della legna che brucia non resterà nulla, intende rafforzare non una
ragione che si fondi su ciò che effettivamente appare, ma quel tipo di ragione, che,
attraverso un giudizio del tutto arbitrario, poi, arriverà ad asserire: “l’essere si è
tramutato in nulla”. Tuttavia, quando appare tale passaggio? I nostri occhi cosa vedono?
Possiamo solo testimoniare che da un pezzo di legna è rimasta della cenere, che prima
avevamo l’ente “legna” e ora abbiamo l’ente “cenere”.13
Di conseguenza, risulta ugualmente impossibile che la cenere possa derivare
dalla nientità della legna, che quest’ultima possa essere considerata in termini di
soggetto rispetto al nulla, il quale, a sua volta, sarebbe soggetto rispetto al predicato
ulteriore: la cenere.
Occorre, dunque, ripensare il rapporto tra soggetto e predicato in modo che la
predicazione non risulti esterna all’identità del soggetto;14 sperando di esser più chiari
con qualche esempio: dire che la lampada è accesa significa dover affermare che parte
del significato del soggetto “lampada” è affidato al predicato “accesa”, di conseguenza,
l’identità dell’ente in questione — in questo caso la lampada — è affidato all’essere
“accesa”. A ben vedere si sta affermando dunque, paradossalmente che l’essere A di A è
B.15

13 Si prenda in considerazione quanto detto da Severino in La legna e la cenere, Rizzoli,


Milano 2000, p. 20 e a p. 52: «Ma quell’”evidenza” suprema che imprigiona tutti gli
abitatori dell’Occidente, vorremmo discuterla un giorno o l’altro? E scorgendo che non
è affatto un’“evidenza”, ma la fede e la violenza originaria che guida la nostra civiltà,
non dovremmo dire che la follia estrema è proprio la convinzione che l’essere sia
nulla?» «Quel che rimane del tutto impensato è che all’interno di questo progetto il
contenuto che viene descritto non è mai ciò che appare, bensì ciò che si è
preliminarmente deciso di assumere come il contenuto che appare, come il “dato”». Il
corsivo è di Severino. Cfr. Su questo tema anche quanto detto da A. CRESCINI, E.
Severino, il suo “essere” il suo “nichilismo” in «Giornale di metafisica» «I», 1995, n.
3, p. 468.
14
Anche V.VITIELLO sembra arrivare a tale conclusione in Grammatiche del pensiero,
Ets, Pisa, 2009, pp. 101-102.
15 Cfr. E. SEVERINO, Tautótes cit., pp. 140-141.

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Per Severino affermare: «la lampada è accesa» è errato. Questa affermazione è


pienamente all’interno del pensiero nichilistico che avvolge la storia occidentale, infatti,
affermare: «la lampada è accesa» ci obbliga a pensare che la lampada che ora è accesa
possa divenire spenta. Questo modo di pensare — che per chiunque è del tutto usuale e
scontato — implica, ad un livello sotteso, che, come si è tentato di spiegare, parte del
significato lampada dipenda dal predicato “è accesa”, di conseguenza, seguendo tale
impostazione, l’ente lampada dipende da qualcosa che oscilla tra essere e nulla. Infatti
la lampada è accesa fintanto che è accesa e sarà spenta quando sarà spenta. L’“essere
accesa” della lampada cade nel nulla quando è spenta, viceversa “l’essere spenta” della
lampada cade nel nulla quando noi diciamo che “è accesa”. Si potrebbe obbiettare a tale
impostazione che la predicazione — in questo caso “è accesa” — è un qualcosa di
predicabile e non predicabile all’ente in questione senza che ciò possa destabilizzare la
natura dell’ente che rimane saldo, fermo e uguale a sé indipendentemente della sua
predicazione che gli appartiene e non gli appartiene. Anche questa però non appare una
soluzione credibile poiché, a ben vedere, non è pensabile nessun ente separato e distinto
dal modo in cui si manifesta. Per essere più chiari: non appare mai a noi semplicemente
una lampada, essa appare a noi o come lampada accesa o come lampada spenta.
Appurato dunque che, anche per Severino non accade mai soltanto un ente che non sia
in una modalità d’apparire, bisogna compiere un ulteriore passo: secondo l’autore,
l’Occidente intrattiene un rapporto errato e nichilistico con tutti gli enti perché crede di
poter affermare: “la lampada è accesa” come se il predicato “è accesa” possa
considerarsi come attribuibile o non attribuibile alla determinazione; il modo corretto di
discorrere, il quale maggiormente può addirsi alla verità di ciò che realmente ci appare,
è il seguente: “la lampada-accesa appare accesa”. Parimenti, quando
semplicisticamente affermiamo: “la lampada è spenta” dovremmo dire invece: “la
lampada-spenta appare spenta”.
Ora si rifletta: il cambiamento proposto da Severino è solo il tentativo di trovare
una migliore e più dettagliata strutturazione linguistica, oppure, come appare sensato,
tale rivoluzione del linguaggio deriva da una più profonda e nuova concezione
ontologica di tutta la realtà? dire: “La lampada-accesa appare accesa” significa
affermare che esiste sempre ed eternamente la lampada-accesa, come esiste sempre ed
eternamente la lampada-spenta. Per Severino tutte le cose sono dinanzi a noi, sempre ed
eternamente, tutti gli enti, gli stati d’animo, i colori, i suoni e così via sono eterni poiché

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essi restano in presenza, restano in atto eternamente anche quando noi crediamo che essi
non vi sono più.
Severino lascia intendere più volte nei suoi scritti che il pensiero occidentale ha
creduto l’ente schiavo dall’impossibile oscillazione tra essere e nulla non avvedendosi
che piuttosto si può dire che l’ente ora appare, ora non appare più. Cerchiamo di
addentrarci nella questione siccome appare di grande importanza: nessuna cosa nasce
dal nulla, così come nulla vi fa ritorno. Tutto è eternamente, sempre dinanzi a noi,
qualche esempio può essere utile per capire meglio: noi diciamo che questa stanza è
illuminata quando a noi appare illuminata, ma in realtà, secondo Severino, l’esser
illuminata della stanza non dipende affatto dal proprio apparire così. L’ontologia
necessaria che riguarda tutti gli enti fa sì che ogni cosa sia fermamente come essa è.
Eternamente questa stanza è e resterà illuminata, così come eternamente è e resterà buia
indipendentemente dal suo mostrarsi a noi in tal modo o in tal altro. La stanza che noi
percepiamo come illuminata è anche, in una ottica lontana da quella nichilista, la stanza
non illuminata. Si presti molta attenzione a questo passaggio: non si sta qui affermando
che la stanza che a noi ora appare illuminata può apparirci non illuminata divenendo
non illuminata, (poiché magari il sole che la rendeva illuminata non la illumina più) ma
che proprio questa stanza, nell’ottica fondamentale del distino di tutti gli enti è
illuminata e non illuminata, rimanendo se medesima sottraendosi da ogni
contraddittorio.16
Si mostra, da quanto appena detto, l’indubitabile originalità del pensiero di
Severino, indipendentemente dal fatto che lo si possa considerare come pensiero valido,
pensiero in grado di descrivere la struttura vera e reale del mondo, o che lo si consideri
come pensiero orfano di sufficienti garanzie per dimostrare in maniera inconfutabile la
propria validità. Tutti gli enti sono come sono, non mutano. La stanza per essere
illuminata ha bisogno del passaggio da uno stato di buio ad uno stato di luce per essere
illuminata, la stanza come luogo reale, possiede la possibilità di apparire a noi come
illuminata e come non illuminata, ma ciò vuol dire necessamente che essa contenga
come attuale lo stato che la mostra a noi illuminata sempre, mostrando una natura eterna
ed indiveniente.

16
Circa i problemi che incontra la posizione severiniana e se tale impostazione si sottrae
davvero da qualsiasi contraddizione Cfr. V.VITIELLO, Filosofia Teoretica, cit., pp. 230-
232.

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Il medesimo discorso può essere compiuto prendendo in esame il celeberrimo


esempio già citato della lampada riportato principalmente, ma non solo17 in Tautótes18:
Comunemente si dice: «la lampada che è sul mio scrittoio è accesa» se essa ci appare
accesa. Secondo Severino parlare in questo modo è errato, o meglio contratto, non si
dovrebbe dire: «La lampada è accesa» ma: «La lampada-accesa appare accesa». La
lampada-accesa appare accesa quando essa entra nel cerchio finito dell’apparire,
(quando, in buona sostanza, riusciamo a percepirla) parimenti, la lampada-spenta
appare spenta quando entrerà nel cerchio dell’apparire finito. È scontato dire che
quando la lampada-accesa appare nel proprio essere-accesa, la lampada-spenta non
appare più uscendo dal cerchio dell’apparire finito.
Tutto questo dovrebbe stimolare in noi la seguente riflessione: gli enti non
iniziano né cessano di esistere, così come non divengono, essi eternamente
appartengono al regno dell’essere, nonostante il loro incominciare e smettere di
apparire.
Si tenga presente quanto Severino scrive in La struttura originaria:

«La lingua dell’Occidente, che non si trova già più a suo


agio col semantema “l’essere acceso è di questa lampada”,
si rifiuta poi senz’altro di ricondurre “l’esser acceso è di
questa lampada” a “l’esser acceso è questa lampada” e
respinge quest’ultima espressione come priva di senso.
Eppure, dire che questa lampada è accesa significa che la
luminosità in cui consiste questo esser accesa non è una
luminosità generica e isolata da un contesto specifico e
non è nemmeno, tale luminosità una stella o un fuoco
terrestre, o un lampo, ma è appunto questa lampada,
questa certa forma visibile da cui si diffonde questa luce:
lo star acceso è questo esser lampada (giacché questa
lampada è questo esser lampada) e il predicato “accesa”,
che conviene alla lampada è uno stare accesa». 19

Dire che la lampada è accesa significa affermare che la luminosità appartiene


inscindibilmente alla lampada e che dunque essa è la lampada stessa, per cui non si può
parlare mai di una lampada accesa o spenta, piuttosto si dovrà parlare sempre di una

17 Cfr. Ad esempio su questo tema il capitolo intitolato La lampada accesa, la lampada


spenta in E. SEVERINO, Sortite, Rizzoli, Milano 1994.
18 Cfr. E. SEVERINO, Tautótes, cit., pp. 187 e sgg.
19 E. SEVERINO, La struttura originaria, Adelphi, Milano 19811, 20073, p. 19.

Il corsivo è di Severino.

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lampada-accesa e di una lampada-spenta. Si noti bene che con il termine “lampada-


accesa” si fa riferimento ad un unico ente e non ad un ente di cui è stato predicato
l’esser acceso. Ora si può comprendere meglio in che senso per Severino non può
esistere il divenire: esso va inteso solo e soltanto come apparire, qui ed ora,
dell’immutabile. Il divenire non è affatto la prova che ogni ente muta ed è soggetto a
corruzione. Il divenire mostra, al contrario, l’eternità e l’immutabilità dell’ente
nell’occasione in cui proprio questa immutabilità si mostra visibile a noi.
La terra ed i suoi enti sono eternamente destinati al cerchio dell’apparire; tutto
ciò che accade o che accadrà è, afferma Severino, «già qui dinnanzi, nella vicinanza
estrema, sempre e per sempre»20, tuttavia tale appartenenza e vicinanza degli enti al
cerchio dell’apparire è per propria natura sempre un incominciare. Come è possibile
risolvere questa apparente contraddizione? Bisogna intendere più profondamente i
rispettivi significati di: “eterno” ed “incominciare” cercando di comprendere anche in
che relazione tali termini stanno tra loro. Quando Severino afferma che tutti gli enti
sono eterni e che eternamente sono destinati all’apparire intende quanto segue: tutti gli
enti non essendo alla mercè del divenire, così come è inteso dal nichilismo, non
provenendo dal nulla e non ritornandovi, sono eternamente presenti nell’unico regno
possibile: quello dell’essere. Occorre, però, anche tener presente che ogni apparire è
sempre un incominciare ad apparire, l’incominciare ad apparire rende a noi manifesto
ciò che eternamente è, ciò che indipendentemente dal suo apparire, già era, è ed
eternamente sarà quale ente immutabile.
Le cose della terra21 appartengono eternamente al cerchio dell’apparire ma
entrano ed escono da esso; entrandovi incominciano ad apparire, uscendovi cessano di
apparire.22 Cosa significa che un ente esce dal cerchio di luce dell’apparire? Significa
che entra nell’ombra del cerchio del non-apparire e così a noi sembra che quell’ente non

20 Ivi, p. 141.
21 Questa espressione è molto utilizzata da Severino soprattutto in Destino della
necessità. Cfr. Ivi, p. 144 e sgg.
22
Cfr. quanto detto da ANGELO CRESCINI in E. Severino, il suo “essere” il suo
“nichilismo”, cit., a p. 477. Si presti ben attenzione che l’autore parla dell’entrare ed
uscire dal cerchio dell’apparire nei termini seguenti: «per Severino […] non si può mai
parlare propriamente di un uscire dal nulla delle cose che si formano e di un rientrare
nel nulla di quelle che spariscono definitivamente. Esse semplicemente entrano
nell’orizzonte dell’esperienza cosciente e ne escono».

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sia più. In realtà quell’ente resta immobile, pur essendo fuori dal cerchio di ciò che ci
appare23.
Si può, da quanto detto, avanzare la seguente riflessione: come l’apparire
incominciante non aggiunge nulla al Tutto eterno, così l’apparire cessante non toglie
nulla a quest’ultimo, questo semplicemente perché anche l’apparire incominciante e
l’apparire cessante sono sempre all’interno del Tutto eterno.
Ora è d’obbligo domandarsi che posizione ha l’uomo in questo quadro
ontologico? Anche l’uomo essendo un ente finito non può in alcun modo nascere dal
nulla né farvi ritorno: anche l’uomo, come tutti gli enti, deve necessariamente essere
eterno.
Appare fondamentale precisare che l’obiettivo primario, base imprescindibile di
tutta la filosofia di Emanuele Severino, è quello di affermare quanto segue: è
assolutamente errato pensare che nella natura di ogni ente — e dunque anche nella
natura umana — possa esistere una scissione che ci autorizzi a pensare tale natura come
ad un tempo, transeunte, mortale, diveniente, schiava e soggetta alla possibilità di
svanire nel nulla, e, ad un tempo, ritenerla, d’altra parte, stabile, immortale ed eterna.
La metafisica occidentale, sin dai suoi albori attraverso il concetto di
fondamento e di sostanza, ha cercato di attribuire un’essenza stabile in grado di
sorreggere la cosa. Tale essenza, indifferentemente se la si concepisca come immanente
alla cosa stessa o separata da essa, la si pensa, o meglio, la si è sempre pensata come
carattere fondamentale dell’ente.
Ora c’è da domandarsi: chi o cosa fa di tale carattere l’essenza dell’ente? Cosa è
l’ente rispetto a tale essenza? E, per converso, cosa è tale essenza rispetto all’ente?
Esiste un’essenza separata dalla cosa che può assegnarle maggiore dignità ontologica?
Esiste un’essenza che rispetto all’ente è del tutto immanente ad esso? Se si vuole, in
qualche modo, credere in un’essenza separata dalla cosa, si dovrà anche ammettere che
ogni ente non sia soltanto transeunte e temporale ma sia anche — e ciò appare
improponibile — se stesso nel suo carattere fondamentale, grazie a ciò che se stesso non
è: l’altro. Occorre, dunque, mostrare che non solo l’essenza dell’ente è immanente a
quest’ultimo, ma che quest’ultima è nient’altro che il suo esser cosa nella sua pura e
semplice manifestazione.

23Cfr. E. SEVERINO, Essenza del nichilismo, cit., p. 101: «il comparire di qualcosa è lo
sparire di qualcosa e viceversa; qualcosa può comparire (entrare nell’apparire) solo se
qualcosa sparisce, e viceversa». Il corsivo è di Severino.

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Nazareno Pastorino – Eternità e natura umana nella filosofia di Emanuele Severino

In questo modo, Severino si propone di annullare qualsiasi differenza ontologica


tra essere ed ente, tra essenza dell’ente ed ente stesso.
L’uomo come qualsiasi altro ente non ha nulla al di fuori di sé che attenga alla
propria natura, nulla che lo sostenga in qualità di sostanza che sopravanzi a livello di
mera qualità ontologica l’esser-presente dell’ente stesso: l’esser meramente presente
diviene nell’ottica di Severino, direi, l’esser profondamente presente.
Severino chiama “la Gioia” la vera e piena natura dell’ente che si nasconde sul
fondo di esso: la sua assoluta eternità non dipendente da altro. La Gioia è da intendersi
come la naturale salvezza dell’ente tramite il toglimento della contraddizione. Si
ribadisca qui che con l’espressione: «toglimento della contraddizione» si intende
l’affiorare della verità intorno alla reale essenza dell’ente ed il conseguente tramonto
della terra isolata24. La Gioia è, secondo Severino, un sentiero illuminato ed eterno che
da sempre e per sempre appartiene all’ente in quanto tale e più specificamente essa
attiene primariamente all’uomo. L’autore, infatti, non esita ad affermare: «La Gioia è
insieme l’essenza inconscia dell’uomo. Nella regione più profonda e nascosta di noi
stessi, noi siamo la Gioia».25 Cosa significa che noi siamo la Gioia? Cosa cerca di
affermare Severino quando parla della «nostra regione più nascosta»? Che significato è
possibile attribuire alle parole appena riportate secondo le quali la Gioia è l’essenza
inconscia26 dell’uomo? Per provare a dare una risposta equilibrata a tali questioni,
certamente ancora controverse ed al centro di innumerevoli dibattiti, appare utile
ricordare che in un noto passo de La struttura originaria l’autore è pronto ad affermare
quanto segue: ad un livello profondo quasi ormai sepolto, l’Occidente vuole fortemente
che le cose siano, vuole fermamente che gli enti abbiano una natura stabile la quale non
sia soggetta alla follia del divenire: è impossibile pensare che l’ente nasca dal nulla ed
ivi faccia ritorno. Si rifletta ora sull’elemento della volontà appena richiamato: come

24 Si tenga presente quanto affermato in Destino della necessità, cit, a pagina 597 e poi
ribadito ne La Gloria, Adelphi, Milano, 2001 a pagina 26 circa il rapporto tra
l’isolamento della terra e la Gioia: «L’isolamento del destino dal proprio essere la Gioia
del Tutto — il suo nascondere il proprio essere l’infinito il proprio essere l’infinito
illuminarsi del tutto — è il fondamento dell’isolamento della terra dal destino. Solo
all’interno dell’apparire finito del Tutto la terra può essere isolata e il mortale
accadere».
25Ivi, p. 29.
26 Sul possibile rapporto tra Severino e Freud rispetto al problema dell’eternità dell’ente

e l’a-temporalità dell’inconscio Freudiano Cfr. l’interessantissimo saggio di G. PULLI,


Freud e Severino, Moretti & Vitali, Bergamo, 2009.

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bisogna intenderlo? Cosa significa specificamente: «l’Occidente vuole che le cose della
terra, in quanto cose, non siano un niente»?27 Si può provare a rispondere nel modo
seguente: l’Occidente non vuole altro che la verità dell’ente lontana dal nichilismo.
L’Occidente sa nel proprio inconscio che tutto è eterno e nulla è soggetto al divenire
come mostrato dal pensiero nichilistico. Si provi ora ad intendere, anche sulla base di
quanto detto, il vero significato che Severino attribuisce alla parola “inconscio”, ovvero
la base più profonda che attiene specificamente all’essere umano: l’inconscio è sentirsi
appartenente alla Gioia del Tutto. Detto con le parole di Severino: «Il sentiero che la
terra percorre inoltrandosi nel cerchio dell’apparire è già da sempre tracciato nella
Gioia».28
Divenire pienamente consapevole che il destino della terra è quello di
appartenere alla Gioia del Tutto, significa dunque, per l’uomo, divenire consapevole che
ogni ente — compreso l’uomo stesso — è assolutamente libero dalla solitudine della
terra. Questo è ciò che Severino chiama la Gloria.
Nella Gloria l’uomo porta a sé presente ciò che gli è connaturato: tutto è eterno:
«questo foglio, questa penna, questa stanza, questi colori, suoni e sfumature e ombre
delle cose e dell’animo sono eterni»29 proprio essendo e rimanendo enti finiti. La Gloria
del Tutto, nel mostrare che tutti gli enti sono eterni, mostra anche che l’eternità non
respinge affatto la loro finitezza. In questo senso appare giusto pensare che Severino
voglia abbattere qualsiasi differenza ontologica tra essere ed ente conducendo così ad
una sostanziale indifferenza ontologica. Ciò vuol dire sostanzialmente che, nell’ottica di
Severino, non esiste nulla che non sia l’attualità stessa dell’ente.
Occorre ora riflettere: se tutto è eterno anche l’uomo deve esserlo. Se l’uomo è
eterno come può accadere qualcosa come la morte? Cosa è la morte per Severino? Sin
dalle prime pagine de La Gloria Severino tenta di fare luce sul rapporto che la cultura
occidentale ha avuto con il problema e la paura della morte. Questo breve riferimento
alla tradizione serve all’autore per indicare quanto e con quanta forza l’uomo abbia
cercato da sempre di vincere la morte trasponendo la vita eterna in altro, lontano, dalla
marcescenza dei corpi dei suoi simili che nella morte lo precedono. L’anima, libera dal
destino infame e segnato del corpo, non si disfa, non perisce e così si solleva dal dolore
e dall’angoscia della mortalità. Tuttavia, come rileva lo stesso Severino, con l’avanzare

27 E. SEVERINO, La struttura originaria, cit., p. 15. Il corsivo è di Severino.


28 E. SEVERINO, La Gloria, cit., p. 29.
29 E. SEVERINO, Essenza del nichilismo, cit., p. 28.

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Nazareno Pastorino – Eternità e natura umana nella filosofia di Emanuele Severino

dell’età moderna e il consolidarsi della scienza moderna come campo di sapere


autonomo e desacralizzato, postulare l’immortalità dell’anima non si offre più come
soluzione che dà assoluto riparo. Infatti la netta separazione tra il destino eterno e
glorioso dell’anima e quello mortale e fatiscente del corpo genera, secondo l’autore,
angoscia e dolore, questo perché con la morte del corpo i caratteri specifici di ogni ente
— proprio quei caratteri che qualificano il sé come base dell’identità — sono
abbandonati e destinati a ritornare, non si sa come, nel nulla.
Si tenga ora presente quanto scritto ne La Gloria da Severino:

«la fede nella vittoria sulla morte è la fede o nella


perpetuazione indefinita del divenir altro oppure
nell’approdo del divenir altro a uno scoglio capace di
resistere per sempre, una volta assestatosi come altro, al
tentativo di distruggerlo, e di farlo divenire quell’altro che
è la sua distruzione. La stessa “vittoria sulla morte” è cioè
divenir altro, ossia è avvolta dalla radice della morte. Il
“Verbo”, che facendosi “carne” crede di dissolvere il
“pungiglione della morte”, è esso stesso questo
pungiglione».30

L’uomo crede di poter vincere la morte divenendo altro, affidandosi ad essa. Il


Dio cristiano, facendosi carne ed esperendo egli stesso la morte, lungi dall’essere ciò
che libera dalla morte, è colui che massimamente ne conferma la forza. Cerchiamo di
andare al cuore di questo ragionamento nel tentativo di capirne a fondo il nucleo
concettuale che lo sorregge: Severino, come più volte si è affermato, è convinto che la
storia dell’Occidente sia storia del nichilismo. Alla base di questa affermazione vi è la
ferma convinzione che nulla in sé è eterno e tutto possa diventare nulla. La salvezza
proposta dal Dio cristiano è perfettamente radicata su questo presupposto: per giungere
a tale salvezza occorre che A perisca, si perda nel nulla e, così, diventi B. Tuttavia,
come si è tentato di spiegare, ciò è impossibile. É impossibile che qualcosa divenga
altro da sé, ciò — come già evidenziato — sottende l’assoluto non-senso, quella estrema
follia della quale, secondo Severino, è pervaso il pensiero occidentale: ciò che diventa
altro è già da sempre altro. L’obiettivo di Severino è affermare esattamente l’opposto:
tutto è sempre ed eternamente ciò che è e non vi è spazio per il divenire così come è
stato concepito dalla follia occidentale. L’ente è già da sempre “salvo” dal baratro del

30 E. SEVERINO, La Gloria, Adelphi, Milano 2001, pp. 93-94

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Nazareno Pastorino – Eternità e natura umana nella filosofia di Emanuele Severino

nulla; la salvezza appartiene all’ente perché l’ente stesso è, nell’ottica del destino non
alienato della necessità, eterno.
Il tentativo di Severino — ciò verso cui tutti gli scritti dell’autore cercano di
approssimarsi e a cui tutti i suoi scritti tendono — è quello di mostrare come sia
possibile e giusto cercare l’eternità di tutti gli enti nella natura di questi ultimi quale loro
radice caratterizzante e peculiare. In altri termini: si tratta di mostrare, appunto nel senso
di “porre sotto gli occhi”, in che modo l’ente è eterno, come e perché il carattere
dell’eternità gli è proprio.
Per avanzare nella comprensione di ciò che ci si è preposti, potrebbe risultare
molto utile partire dalle parole dello stesso autore:

«Volendo la propria immortalità attraverso il divenir altro,


il mortale (anima, io, individuo, persona, soggetto,
coscienza, Io trascendentale ecc) non solo vuole
l’impossibile, ma perde di vista la grandezza dell’autentico
oltrepassamento della morte — perde di vista la Gloria che
egli è in se stesso, nella sua essenza più profonda».31

Il mortale volendo la propria immortalità attraverso il divenir altro, secondo


Severino, non si avvede che il vero ed autentico senso della Gloria già da sempre gli
appartiene. Ma in che modo può darsi realmente tale eternità? Sotto i nostri occhi
costantemente si mostra il divenire, sotto i nostri occhi si impone da sempre la morte di
alcuni essenti per poter lasciar spazio alla generazione e alla vita di altri. Severino ci
invita ad avere un sguardo più profondo: ogni ente è eterno e tale eternità va intesa
come «l’insieme delle determinazioni del destino dell’essente». 32 Cosa significa quanto
appena affermato? Cosa si intende per «l’insieme della totalità del destino»? É lo stesso
autore a dilungarsi su tale argomento cercando di far chiarezza, affermando poco più
avanti che non certo ogni ente sia da considerarsi se stesso ed ogni altra cosa, non che,
ad esempio, questo schermo sia, insieme, questo schermo e quell’albero lì fuori, quella
foglia, questa scrivania o qualsiasi altro essente. Bisogna, invece, intendere tale
“insieme” come ciò che non costituisce concretamente l’essente; sarebbe, infatti,
impossibile credere che l’eternità di tutti gli enti possa risolversi in un mero e

31 Ivi, p. 173. Cfr. anche ivi p. 174: «nessun essente si sottrae al proprio cuore. Il cuore
di ogni essente è il destino della verità di ogni essente».
32 Ivi, 180.

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Nazareno Pastorino – Eternità e natura umana nella filosofia di Emanuele Severino

semplicistico monismo metafisico. Non si tratta, secondo Severino di affermare che


“tutto è in tutto”, piuttosto che ogni cosa costituisce se stessa nel suo pieno significare
lontano della menzogna del pensiero nichilistico, solo e soltanto attraverso l’essere in
relazione con la totalità dell’essente. Ancora una volta citare le parole dello stesso
autore ci può aiutare a dissolvere qualche interrogativo ed al contempo proporne altri:

«D’altra parte, poiché ogni essente è eterno, ogni essente è


ciò che esso è e appare così come appare, solo in quanto
esso è in relazione a ogni altro essente, e non solo alle
determinazioni di quell’insieme. Il “predicato” necessario
di ogni essente, quindi, è sia l’essere in relazione alle
determinazioni persintattiche, sia l’essere in relazione alle
determinazioni iposintattiche, ossia alle determinazioni
che sono specificazioni delle determinazioni
persintattiche. Nessun essente può essere ciò che è e può
apparire come appare, se non appare la persintassi e
l’iposintassi dell’essente»33

Occorre ora partire dal testo su riportato per muovere alcune considerazioni per
rendere più chiara la posizione dell’autore. Ogni essente appare così come appare, solo
in quanto esso è in relazione con gli altri essenti. Esso è in questa relazione. Tale
relazione è, secondo Severino, «il predicato necessario» che caratterizza e qualifica ogni
ente in quanto tale (vale a dire salvo dalla follia del pensiero nichilistico occidentale che
lo vede oscillante tra essere e nulla). Ora si tenga presente che la relazione a cui si sta
accennando è la relazione che ogni ente intrattiene con il “reticolo” delle determinazioni
persintattiche prima ed iposintattiche poi.34 Occorre, però, domandarsi: cosa intende
Severino con l’espressione “persintassi”? Con essa egli vuole indicare «lo sfondo
intramontabile della terra»35, con cui ogni ente è sempre in relazione. Ogni ente
significa in se stesso e per se stesso proprio in virtù di questo essere insieme con, essere
in questa relazione con le determinazioni persintattiche (dello sfondo). Si tenga presente
quanto lo stesso Severino afferma circa l’essenza vera e reale di ogni ente:

33 Ivi, 181. Il corsivo è di Severino


34 Mi preme precisare che i termini “prima” e “poi” non hanno qui un significato
temporale. Li utilizzo al fine di indicare che, come afferma anche Severino (E.
SEVERINO, Oltrepassare, Adelphi, Milano 2007, p. 181), le determinazioni iposintattiche
vanno considerate specificazioni delle determinazioni persintattiche.
35 Ivi, 182.

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Nazareno Pastorino – Eternità e natura umana nella filosofia di Emanuele Severino

«[la persintassi] “stabilisce” ciò che l’essente in quanto


essente è, nel senso che l’essente è già da sempre lo
“stare” in sé secondo le determinazioni della persintassi e
pertanto è lo stare eternamente in sé non isolato, dunque,
dal proprio “predicato” necessario. (né all’essente possono
convenire predicati non necessari)».36

La persintassi fissa ciò che l’essente realmente è quale essente appartenente alla
struttura eterna del destino: ogni ente non è isolato, ogni ente è se stesso come
significato che si realizza in relazione alla totalità di tutti gli enti. Cerchiamo di essere
più chiari vista la complessità dell’argomento: l’ente in se stesso sta in rapporto con le
determinazioni persintattiche, ossia con la totalità degli altri enti. Ogni ente — e
dunque anche l’essere umano — è nell’ottica severiniana un significato che oltrepassa
già da sempre la sua semplice presenza come oggetto. Si badi bene, con ciò non si vuol
assolutamente affermare che il medesimo esce da sé, e divenendo altro acquisisce un
significato che gli appartiene più propriamente; come già si rimarcava all’inizio di
questo scritto, non si tratta affatto di inquadrare l’altro come la “casa” dello stesso, il
tautòn, come fondato ed autoprodotto dal suo contrario: il diverso, al contrario bisogna
riconoscere, in un’ottica non nichilistica, che all’ente appartiene come propria radice il
suo esser connesso con il “reticolo” persintattico al quale appartengono tutti gli enti
come eternamente significanti.
“Oltrepassare”, titolo di uno dei più recenti scritti di Severino, indica a ben
vedere il definitivo passo compiuto dal pensiero di Severino, il quale condurrebbe ad un
riapparire e risignificare della natura umana e di tutto l’ente in una nuova ottica, il
quale ,0sovverte tutta la storia della metafisica e dell’ontologia. Oltrepassare la struttura
del logos folle dell’occidente significa accogliere e concepire ogni singolo ente, così
come ogni singolo accadere, come non isolato e dunque pienamente all’interno dei nessi
necessari che fondano la struttura originaria della necessità. Con il sopraggiungere della
terra che salva — così Severino chiama la terra non isolata dallo sguardo del destino37
— si fanno innanzi gli eterni ed essi non devono assolutamente intendersi soltanto
come:

36 Ivi, 184.
37 Ivi, p. 359 e ss.

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Nazareno Pastorino – Eternità e natura umana nella filosofia di Emanuele Severino

«Le piante, i monti, le stelle, gli animali ma anche le


emozioni, gli impulsi, i pensieri, le sapienze, le immagini,
i mondi che i mortali innalzano sopra di sé e che
considerano come l’”al di là” e il divino».38

Tutto è eterno poiché ogni cosa è connessa ad ogni altra. Nell’ottica del destino
della necessità nessun essente deriva dal nulla, così come nessun essente può
annichilirsi in esso. Ogni essente è principalmente, piuttosto, un significato eterno della
struttura persintattica che via via si mostra, ossia entra nel cerchio dell’apparire. Essere
un significato vuol dire significare, ossia lasciare sempre, eternamente una traccia,
appunto un segno, il quale, secondo Severino, apre all’infinito succedersi di
configurazioni di mondo. Questa lampada che noi diciamo (erroneamente secondo
l’autore) accesa, è un eterno perché quando essa appare — vale a dire entra nel cerchio
dell’apparire — appaiono altri ed infiniti significati: appare la sua ombra, appaiono i
fogli che essa illumina, appare in me il sentimento d’angoscia per il lavoro ancora da
terminare.
Queste determinazioni trovano la loro eternità nel continuo oltrepassamento
delle configurazioni della terra. Oltrepassare, qui, vuol dire avvicendarsi eterno ed
infinito degli enti rispetto al cerchio dell’apparire. Ogni ente che entra in questo cerchio
è un significato appartenente alla struttura persintattica della totalità dell’essente: niente,
pertanto, nasce dal nulla, nulla muore annichilito nel nulla. Tutto ciò che appare, può
farlo, soltanto perché è appartenente da sempre e per sempre alla struttura originaria
della necessità che lo vede da sempre, eternamente parte, significato sempre vivo di tale
struttura. Nella Gloria del tutto — come non ha esitato a rimarcare anche Vincenzo
Vitiello — non c’è spazio per il mistero, non c’è spazio per il passaggio dalla
manifestazione eterna e necessaria del Tutto significante all’accadere particolare delle
manifestazioni finite. Ogni accadere — anche l’accadere della morte — non è
nient’altro che la manifestazione di un eterno che va a riscoprirsi lontano dell’ottica
nichilistica immeditamente39 quale significato vero e reale facente parte dell’unità eterna
e necessaria del Tutto40.

38 Ivi, p. 172.
39
Si intenda qui il termine “immediatamente” come: “in maniera non mediata”.
40
Cfr. V. VITIELLO, Il Dio possibile, cit., pp. 37-62. Cfr. in particolare pp. 51-56.

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Nazareno Pastorino – Eternità e natura umana nella filosofia di Emanuele Severino

Bibliografia:

Monografie:

— E. SEVERINO, Destino della necessità: kata to chreon, Adelphi, Milano 1980;

— E. SEVERINO, La struttura originaria, Adelphi, Milano 1981;

— E. SEVERINO, Oltre il linguaggio, Adelphi, Milano 1992;

— E. SEVERINO, Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 1995;

— E. SEVERINO, Tautótes, Adelphi, Milano 1995;

— E. SEVERINO, La legna e la cenere – Discussioni sul significato


dell’esistenza, Rizzoli, Milano 2000;
̉́
— E. SEVERINO, La gloria: ασσα ̉́
ουκ ελπονται: Risoluzione di «destino della
necessità», Adelphi, Milano 2001;

— E. SEVERINO, Oltrepassare, Adelphi, Milano 2007.

— AA. VV., I presocratici — prima traduzione integrale con testi originali a


fronte delle testimonianze e dei frammenti nella raccolta di Hermann Diels e
Walther Kranz / a cura di Giovanni Reale, Bompiani, Milano 2008.

— PLATONE, Teeteto, tr. it. di C. Mazzarelli, in PLATONE, Tutti gli scritti, a c.


di G. Reale, Bompiani, Milano 2000.

— PLATONE, Fedone, tr. it. di G. Reale, in PLATONE, Tutti gli scritti, a c. di G.


Reale, Bompiani, Milano 2000.

— G. PULLI, Freud e Severino, Moretti & Vitali, Bergamo, 2009.


— V. VITIELLO, Topologia del moderno, Marietti, Genova, 1992.
— V. VITIELLO, Filosofia teoretica — le domande fondamentali: percorsi e
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— V. VITIELLO, Il Dio possibile — esperienze di cristianesimo, Città Nuova,
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— V. VITIELLO, Dire Dio in segreto, Citta Nuova, Roma 2005.
— V. VITIELLO, Grammatiche del pensiero — Dalla kenosi dell'io alla logica
della seconda persona, Ets, Pisa 2009.

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Nazareno Pastorino – Eternità e natura umana nella filosofia di Emanuele Severino

Articoli:

— A. CRESCINI, Emanuele Severino il suo “essere” il suo “nichilismo”,


giornale di metafisica «1», 1995, n. 3, pp. 461-522;

— A. CRESCINI, Replica a Emanuele Severino, «Giornale di metafisica», 1997,


n. 1, pp. 137-166;

— C. SCILIRONI, Necessità del significato e destino del linguaggio in E.


Severino, «Sapienza», 1984, pp. 415-432;

— U. SONCINI, Critica al monismo metafisico neoparmenideo di Severino,


«Filosofia», 1993, fasc. I, pp. 137-177.

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