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TEMATICO
L’IO IN QUESTIONE:
LA CRISI
DEL SOGGETTO
MODERNO
L’io in questione:
la crisi
del soggetto
moderno
l problema del “soggetto” aveva costituito mente come il compimento e la massima enfatiz-
I una delle questioni fondamentali attorno a zazione del “soggetto moderno”, giungendo a
cui si era sviluppata l’indagine filosofica intendere quest’ultimo come una realtà “assolu-
della cosiddetta “età moderna”: in maniera diret- ta” (l’Io pratico in Fichte, l’autocoscienza tra-
ta o indiretta non vi era filosofia, dopo la svolta scendentale in Schelling, lo spirito in Hegel). Ma
umanistico-rinascimentale, che non affrontasse il già all’interno delle filosofie idealistiche l’“io” si
problema della fondazione o della giustificazione presentava non come qualcosa di già dato in sé e
della capacità dell’io (e rispettivamente della sua per sé, bensí come l’esito di un lungo e spesso
incapacità) nel conoscere la verità e nel dominare drammatico percorso di appropriazione. Il sog-
le proprie azioni volgendole al bene. La “natura” getto doveva giungere ad afferrare sé stesso, a
della soggettività era infatti considerata come il conquistarsi, o più semplicemente a realizzarsi,
luogo deputato e assolutamente centrale da cui attraverso lo scontro, l’integrazione e il dominio
prendono origine e a cui ritornano tutti i nostri di ciò che era altro da sé (la natura, gli altri uomi-
rapporti con il mondo. Sia che venisse inteso ni, lo stesso Dio). In altri termini, l’io degli ideali-
come “sostanza” o come “esperienza” sensibile, sti portava in sé una “negatività” permanente,
sia che si basasse su una ragione universale o su anche se spesso nascosta dietro l’azione vitto-
una credenza empirica, sia che fosse concepito riosa dell’io, nella quale non soltanto il soggetto,
come il signore del mondo o come un ente essen- ma la realtà intera degli oggetti, giungeva ad
zialmente finito tra gli altri, l’immagine prevalen- autocoscienza.
te del soggetto umano che emerge dalle diverse A questa problematicità “interna” del soggetto
filosofie dell’età moderna viene giocata sull’iden- moderno – un io infinito e assoluto che nasceva
tificazione dell’“io” con la “coscienza”. come superamento dell’io finito e contingente – si
Intorno alla metà dell’Ottocento, però, nell’in- affiancò ben presto una violenta critica dall’ester-
dagine sulla soggettività si profila un profondo no, o per meglio dire, un programma di fuoriuscita
mutamento di prospettiva. I sistemi filosofici del- dall’idealismo. Da Schopenhauer a Kierkegaard,
l’idealismo tedesco si erano caratterizzati voluta- da Marx a Nietzsche, tutta la seconda metà
dell’Ottocento è attraversata da questi molteplici st’ultimo può riappropriarsi della sua natura, vale
tentativi di fuoriuscire da un’immagine dell’io a dire il lavoro. In particolare, nella società capita-
come pura trasparenza a sé stesso, come idealiz- listica la condizione strutturale da cui il soggetto
zazione del mondo nello spirito autocosciente, è inevitabilmente determinato è quella della per-
come affermazione irreversibile della verità e del dita di sé sotto forma di alienazione del proprio
bene. lavoro nelle mani di altri, che ne ricavano un pro-
La filosofia del Novecento radicalizza questa fitto non corrisposto al lavoratore. La filosofia
critica del soggetto moderno rendendola un moderna, anche quando aveva individuato nel-
carattere permanente della soggettività. In altri l’agire il proprium dell’uomo, non aveva mai
termini, la crisi del soggetto non verrà più intesa messo in questione l’identità tra io e pensiero, tra
come una situazione occasionale o temporanea soggettività e coscienza. Al contrario, Marx
che si possa superare (tornando all’autoafferma- sostiene – riprendendo un’idea hegeliana e tra-
zione assoluta dell’io), ma come una condizione sportandola al di fuori del sistema idealistico –
strutturale che caratterizza l’io in quanto tale. Il che i condizionamenti materiali e storico-sociali
soggetto non va semplicemente in crisi, ma è un cui è sottoposto l’uomo portano ad un’alienazio-
fenomeno essenzialmente critico: esso “è” la sua ne o estraniazione della coscienza da sé stessa.
stessa crisi. La crisi diviene, per l’io, il nuovo Da questo punto di vista, il soggetto marxiano è
paradigma di riferimento. Così, la questione del- un prodotto della storia e della società, che può
l’io non si configura più come un tentativo di giungere ad una liberazione da tale alienazione
determinare ciò che appartiene essenzialmente e nel momento in cui riesce a invertire l’ordine della
a priori al soggetto, ma si profila come una messa produzione e a produrre liberamente sé stesso;
in questione dell’io stesso. Dalla questione dell’io ma tale autoproduzione dipende a sua volta dal
all’io in questione: è questo il mutamento di para- fatto che il soggetto (attraverso la via della rivolu-
digma che segna la transizione dal pensiero zione comunista) divenga padrone di quelle con-
moderno al pensiero contemporaneo. dizioni socio-economiche del suo lavoro che in
Ciò significa principalmente due cose: 1. non vi precedenza lo tenevano assoggettato.
è un senso o un valore trascendente in cui si La riflessione sulla crisi del soggetto moderno
possa collocare l’essere del soggetto umano, per- si presenta in maniera particolarmente acuta nel
ché al contrario tutti questi significati ideali sono pensiero di Friedrich Nietzsche (1844-1900) [u
dei prodotti della mente umana; 2. l’essenza del T2] il quale la concepisce non soltanto come
soggetto umano è sempre condizionata, delimita- un’analisi descrittiva, ma più radicalmente come
ta, determinata dai fattori materiali e sociali della un modo di produrre e compiere lo svuotamento
sua esistenza. In questa maniera, l’indagine sul dell’immagine tradizionale dell’io. Il soggetto
soggetto diviene un’indagine sulle circostanze umano viene inteso infatti da Nietzsche come la
concrete che determinano di volta in volta il suo maschera dietro cui si nasconde l’illusione, o
essere e il suo agire: il soggetto è innanzitutto meglio l’inganno del pensiero metafisico, che
colui che è “assoggettato” alle condizioni concre- crede di poter stabilire in maniera definitiva il
te della natura e della storia. vero rispetto al falso, lo spirituale rispetto al
È stato Karl Marx (1818-1883) [u T1] a tematiz- materiale, il bene rispetto al male, l’infinito
zare in maniera esplicita la natura storicamente rispetto al finito, Dio rispetto all’uomo e così via.
determinata del soggetto umano: l’io non possie- Prendendo di mira tutto il soggettivismo moder-
de un’essenza immutabile data una volta per no, da Descartes a Hegel, Nietzsche intuisce che
tutte, e la sua stessa “natura” è definita dai rap- distruggere l’io significa sovvertire l’intera tradi-
porti sociali e produttivi che lo investono e in cui zione della metafisica occidentale, giacché esso è
esso investe la propria attività. Di conseguenza, il depositario di quella tendenza che ha portato i
per comprendere e per determinare l’essere del filosofi a credere nell’esistenza di verità immuta-
soggetto, si deve sempre partire dalle condizioni bili, stabili, trascendenti. Per questo motivo, il
materiali nelle quali di volta in volta, a seconda ribaltamento della tradizione metafisica in
dei diversi assetti socio-economico-politici, esso Nietzsche fa leva sul nesso tra la morte di Dio e
si viene a trovare. Vi è un punto privilegiato per quella che potremmo chiamare la morte dell’io,
individuare il modo in cui tale assetto conforma a cioè il superamento dell’uomo così come è stato
sé il soggetto umano e insieme il modo in cui que- pensato dalla metafisica platonica e cristiana, in
abbia portato alla costituzione correlativa, in qualcosa di già dato o di atemporale, ma si defi-
ambiti diversi, di soggetto e oggetto: la Storia nisce di volta in volta storicamente in forme
della follia, per esempio, mostra, da una parte, diverse; compito dello storico e del filosofo è
come qualcosa come la “follia” si costituisca appunto quello di esaminare la costituzione di
quale oggetto solo in rapporto a un determinato queste forme, cioè dei saperi che mettono capo
sapere, e dall’altra, come questo stesso sapere alla formazione di soggetti e oggetti, evitando la
porti alla costituzione di determinate forme di scorciatoia del ricorso a “universali antropologi-
soggettività (il “folle”, così come – in rapporto ad ci” (l’“uomo” come essenza naturale atemporale,
altri saperi – il “malato”, il “criminale”, ecc., o la “follia” come oggetto naturale sempre già dato
anche il soggetto “sano”, “normale”, ecc.). e così via). Questo però non significa affatto pre-
Analogamente, nelle Parole e le cose, Foucault tendere che il soggetto non esista assolutamen-
prende in esame la formazione del soggetto che te, ma piuttosto «far apparire i processi propri di
parla, lavora, vive in riferimento allo sviluppo un’esperienza in cui il soggetto e l’oggetto “si for-
delle scienze umane: l’“uomo” (come mano e si trasformano” l’uno in rapporto all’altro
soggetto/oggetto di un sapere) nasce con l’an- e l’uno in funzione dell’altro» (come lo stesso
tropologia e dunque tramonta (“muore”) con Foucault scrive in un’autopresentazione del pro-
l’eclissi della forma storica di questo stesso prio pensiero, raccolta ora in Archivio Foucault 3,
sapere. Il soggetto non è dunque per Foucault Feltrinelli, Milano 2005).
Il gesto con cui Marx ribalta la fondazione del come un prodotto radicalmente storico, di modo
soggetto hegeliano e al tempo stesso radicalizza la che sia l’oppressione che la liberazione del soggetto
contestazione che all’idealismo era mossa da parte risultano imputabili essenzialmente alla prassi
dei giovani della “sinistra hegeliana”, di Feuerbach e economico-politica dell’ordinamento sociale.
dei socialisti utopistici, costituisce uno dei binari più Tale ordinamento è basato sul lavoro alienato
importanti per la critica della soggettività moderna dell’uomo (un’idea che Marx attinge dagli
che attraversa la seconda metà dell’Ottocento per economisti classici come Smith e Ricardo),
dilagare poi in tutto il Novecento. Anzi, si può dire ed è perciò attraverso un’analisi di tale alienazione
che tale critica si troverà necessariamente del lavoro che può delinearsi la critica del soggetto
a confrontarsi e a passare – direttamente moderno, che va inteso in maniera storicamente
o indirettamente, in accordo o in disaccordo – determinata come la soggettività dei lavoratori
attraverso la posizione marxiana. Se per Hegel sfruttati nella società “capitalistica” e “borghese”.
il “soggetto” vero e proprio è l’idea o la sostanza È il proletariato il vero e proprio soggetto di questa
infinita mentre i soggetti finiti sarebbero solo società, perché sul suo lavoro si fonda anche
i predicati di quella sostanza, per Marx il soggetto il privilegio delle classi dominanti. Nel brano
reale è quello determinato materialmente, sia che segue Marx analizza la triplice forma
a livello naturale che a livello economico-sociale; di alienazione o “autoestraniazione” cui è
e se Feuerbach aveva individuato nella religione la sottoposto il soggetto lavoratore, il quale non solo
forma principale di alienazione del soggetto umano, viene espropriato del prodotto del suo lavoro
da cui quest’ultimo può affrancarsi recuperando (che diviene merce) e della sua stessa attività
l’autonomia di una “natura umana” sfigurata lavorativa (trasformata anch’essa in merce), ma è
e oppressa, per Marx tale natura deve essere intesa costretto ad estraniarsi anche dagli altri soggetti.
luogo, perché riceve dei mezzi di sostentamento. E quindi, in primo luogo perché può esiste-
re come operaio, e in secondo luogo perché può esistere come soggetto fisico. Il colmo di que-
sto asservimento si ha quando egli si può mantenere come soggetto fisico soltanto in quanto
è operaio ed è operaio soltanto in quanto è soggetto fisico.
55 (Secondo le leggi dell’economia politica, l’estraniazione dell’operaio nel suo oggetto si
esprime nel fatto che quanto più l’operaio produce, tanto meno ha da consumare; quanto
maggior valore produce, tanto minor valore e minore dignità egli possiede; quanto più bello
è il suo prodotto, tanto più l’operaio diventa deforme; quanto più raffinato il suo oggetto,
tanto più egli s’imbarbarisce; quanto più potente il lavoro, tanto più egli diventa impotente;
60 quanto più il lavoro è spirituale, tanto più egli è diventato materiale e schiavo della natura).
L’economia politica nasconde l’estraniazione insita nell’essenza stessa del lavoro per il fatto che
non considera il rapporto immediato esistente tra l’operaio (il lavoro) e la produzione.
Certamente, il lavoro produce per i ricchi cose meravigliose; ma per gli operai produce sol-
tanto privazioni. Produce palazzi, ma per l’operaio spelonche. Produce bellezza, ma per l’ope-
65 raio deformità. Sostituisce il lavoro con macchine, ma ricaccia una parte degli operai in un
lavoro barbarico e trasforma l’altra parte in macchina. Produce cose dello spirito, ma per
l’operaio idiotaggine e cretinismo.
Il rapporto immediato esistente tra il lavoro e i suoi prodotti è il rapporto tra l’operaio e gli
oggetti della sua produzione. Il rapporto che il ricco ha con gli oggetti della produzione e con
70 la stessa produzione è soltanto una conseguenza di quel primo rapporto. E lo conferma. […]
Quando noi dunque ci domandiamo: qual è il rapporto essenziale del lavoro? La doman-
da che ci poniamo verte intorno al rapporto dell’operaio con la produzione.
Sinora abbiamo considerato l’estraniazione, l’alienazione dell’operaio da un solo lato, cioè
abbiamo considerato il suo rapporto coi prodotti del suo lavoro. Ma l’estraniazione si mostra
75 non soltanto nel risultato, ma anche nell’atto della produzione, entro la stessa attività produtti-
va. Come potrebbe l’operaio rendersi estraneo nel prodotto della sua attività, se egli non si
estraniasse da sé stesso nell’atto della produzione? Il prodotto non è altro che il “resumé” del-
l’attività, della produzione. Quindi, se prodotto del lavoro è l’alienazione, la produzione stes-
sa deve essere alienazione attiva, alienazione dell’attività, l’attività della alienazione.
80 Nell’estraniazione dell’oggetto del lavoro si riassume la estraniazione, l’alienazione che si
opera nella stessa attività del lavoro.
E ora, in che cosa consiste l’alienazione del lavoro?
Consiste prima di tutto nel fatto che il lavoro è esterno all’operaio, cioè non appartiene al
suo essere, e quindi nel suo lavoro egli non si afferma, ma si nega, si sente non soddisfatto,
85 ma infelice, non sviluppa una libera energia fisica e spirituale, ma sfinisce il suo corpo e
distrugge il suo spirito. Perciò l’operaio solo fuori del lavoro si sente presso di sé; e si sente
fuori di sé nel lavoro. E a casa propria se non lavora; e se lavora non è a casa propria. Il suo
lavoro quindi non è volontario, ma costretto, è un lavoro forzato. Non è quindi il soddisfaci-
mento di un bisogno, ma soltanto un mezzo per soddisfare bisogni estranei. La sua estranei-
90 tà si rivela chiaramente nel fatto che non appena vien meno la coazione fisica o qualsiasi altra
coazione, il lavoro viene fuggito come la peste. Il lavoro esterno, il lavoro in cui l’uomo si alie-
na, è un lavoro di sacrificio di sé stessi, di mortificazione. Infine l’esteriorità del lavoro per
l’operaio appare in ciò che il lavoro non è suo proprio, ma è di un altro. Non gli appartiene,
ed egli, nel lavoro, non appartiene a sé stesso, ma ad un altro. Come nella religione, l’attività
95 propria della fantasia umana, del cervello umano e del cuore umano influisce sull’individuo
indipendentemente dall’individuo, come un’attività estranea, divina o diabolica; così l’attivi-
tà dell’operaio non è la sua propria attività. Essa appartiene ad un altro; è la perdita di sé.
Ne viene quindi come conseguenza che l’uomo (l’operaio) si sente libero soltanto nelle sue
funzioni animali, come il mangiare, il bere, il procreare, e tutt’al più ancora l’abitare una casa
100 e il vestirsi; e invece si sente nulla più che una bestia nelle sue funzioni umane. Ciò che è ani-
male diventa umano, e ciò che è umano diventa animale.
presupponga una causa, hanno ammesso o radicati in qualcosa cui si possa attribuire il nome
l’esistenza di un io-sostanza come principio causale di “io”. Qualcosa pensa, dunque… (è solo a questo
di ciò che esso pensa. In realtà, secondo Nietzsche, che si dovrebbe limitare il cogito di Nietzsche!); ma
l’uomo non dispone di alcun indizio che lo assicuri questo qualcosa, se c’è, resta ignoto al pensiero
del fatto che a pensare sia realmente l’io o umano, soprattutto se esso pretende di coglierlo in
il soggetto, né che lo si debba intendere come virtù di quella certezza immediata che la filosofia
sostanza o come causa. Si danno solo pensieri, moderna ha identificato come la principale proprietà
ma ciò non implica che essi siano causati, unificati della coscienza.
3. Con queste affermazioni Nietz- pensieri a prescindere da una sog- 4. Cioè: procedimento dubitativo.
sche sottrae all’io il dominio del pen- gettività che li pensi, nega l’identità
sato e, ammettendo l’esistenza di classica tra soggetto e coscienza.
Nietzsche non si limita a descrivere la perdita o esperienze fondamentali (la verità, il bene,
di certezza e di autoevidenza dell’io moderno: la felicità) che si presumeva illusoriamente
egli intende portare tale perdita all’estremo costituissero degli ideali più grandi dell’uomo stesso,
e indurre un nuovo, inaudito passo del pensiero, e che invece si rivelano spietatamente piccoli come
dall’io all’oltre-io, dall’uomo al superuomo. lui. L’unica grandezza dell’uomo sta invece per
Nel brano seguente, tratto da Così parlò Zarathustra Nietzsche nel superare sé stesso: non dirigendosi
(scritto tra il 1883 e il 1885), Nietzsche assume verso qualcosa o qualcuno che stia al di là di esso,
la crisi del soggetto come disprezzo di sé da parte ma decidendosi per sé stesso, come una vera
dell’uomo, una sorta di disgusto di tutti quei valori potenza, che si rifiuta ad ogni ideale ultraterreno.
Giunto nella città vicina, sita presso le foreste, Zarathustra vi trovò radunata sul mercato una
gran massa di popolo: era stata promessa infatti l’esibizione di un funambolo. E Zarathustra
parlò così alla folla:
Io vi insegno il superuomo. L’uomo è qualcosa che deve essere superato. Che avete fatto per
5 superarlo?
Tutti gli esseri hanno creato qualcosa al di sopra di sé: e voi volete essere il riflusso in que-
sta grande marea e retrocedere alla bestia piuttosto che superare l’uomo?
Che cos’è per l’uomo la scimmia? Un ghigno o una vergogna dolorosa. E questo appunto
ha da essere l’uomo per il superuomo: un ghigno o una dolorosa vergogna.
10 Avete percorso il cammino dal verme all’uomo, e molto in voi ha ancora del verme. In pas-
sato foste scimmie, e ancor oggi l’uomo è più scimmia di qualsiasi scimmia.
E il più saggio tra voi non è altro che un’ibrida disarmonia di pianta e spettro. Voglio forse
che diventiate uno spettro o una pianta?
Coscienza e inconscio
La distinzione dello psichico in ciò che è cosciente e ciò che è inconscio è il presupposto fon-
damentale della psicoanalisi; solo questa distinzione le consente di comprendere e inserire in
una sistemazione scientifica i così frequenti e importanti processi patologici della vita psichica.
Per dirlo ancora una volta con altre parole, la psicoanalisi non può far consistere l’essenza dello
5 psichico nella coscienza, ed è invece indotta a considerare la coscienza come una delle qualità
dello psichico, che può aggiungersi ad altre qualità ma che può anche rimanere assente.
[…] Per la maggior parte di coloro che hanno una formazione filosofica, l’idea di alcun-
ché di psichico che non sia anche cosciente è talmente inconcepibile da apparire assurda e
suscettibile di esser confutata in base ai puri princìpi della logica. Penso che ciò dipenda dal
10 fatto che costoro non hanno mai studiato i tipici fenomeni dell’ipnosi e del sogno, i quali –
anche a prescindere dalla patologia – conducono necessariamente a questa nostra concezio-
ne. La psicologia della coscienza che costoro seguono rimane però impotente a risolvere i
problemi del sogno e dell’ipnosi.
“Esser cosciente” è innanzitutto un termine puramente descrittivo, che si richiama alla
15 percezione più immediata e più certa. L’esperienza ci mostra poi che un elemento psichico,
per esempio una rappresentazione, non è in genere cosciente in modo durevole. È tipico inve-
ce che questo suo esser cosciente scompaia rapidamente; la rappresentazione che ora è
cosciente, un momento dopo non lo è più, anche se, in condizioni facilmente ripristinabili,
può ridiventarlo. Nel frattempo tale rappresentazione è stata non sappiamo bene che cosa.
20 Possiamo dire che è stata latente, intendendo con ciò che è rimasta in ogni momento capace
di farsi cosciente. Anche se diciamo che è stata inconscia la descrizione è corretta. Questo
inconscio coincide allora con il latente o capace di farsi cosciente. I filosofi potrebbero obiet-
tare: “No, il termine inconscio non può essere qui adoperato; fintantoché la rappresentazio-
ne è rimasta allo stato di latenza, non è stata comunque alcunché di psichico”. E se ci met-
25 tessimo fin d’ora a contraddirli, ci imbarcheremmo in una disputa puramente verbale, dalla
quale non si ricaverebbe un bel niente. Tuttavia noi siamo pervenuti al termine, o al concet-
to di inconscio, per una via diversa, grazie all’elaborazione di determinate esperienze nelle
quali entra in giuoco la “dinamica” psichica. Abbiamo imparato, o meglio siamo stati costret-
ti ad ammettere, che esistono processi psichici o rappresentazioni molto forti – ecco che viene
30 introdotta la considerazione di un fattore quantitativo, e dunque economico –, le quali sono
capaci di produrre nella vita psichica tutti gli effetti delle rappresentazioni comuni (compre-
si quegli effetti che a loro volta possono diventare coscienti in qualità di rappresentazioni),
pur senza diventare esse stesse coscienti. Non occorre ripetere qui nei particolari quanto è già
stato descritto assai spesso. Basti dire che la teoria psicoanalitica, a questo proposito, afferma
35 e sostiene che queste rappresentazioni non possono divenire coscienti perché una certa forza
vi si oppone, che esse altrimenti diverrebbero coscienti, e che in tal caso si costaterebbe quan-
to poco differiscono da altri elementi psichici riconosciuti come tali. Questa teoria diventa
incontestabile per il fatto che nella tecnica psicoanalitica sono stati trovati mezzi grazie ai
quali la forza contrastante può essere soppressa e possono essere rese coscienti le rappresen-
40 tazioni in questione. Chiamiamo rimozione lo stato in cui tali rappresentazioni si trovano
prima di diventare coscienti; quanto alla forza che ha prodotto e mantenuto attiva la rimozio-
ne, diciamo di avvertirla, durante il lavoro analitico, come una resistenza.
Ricaviamo dunque il nostro concetto di inconscio dalla dottrina della rimozione. Il rimos-
so è per noi il modello dell’inconscio. Costatiamo però di avere due specie di inconscio: il
45 latente che è tuttavia capace di divenire cosciente, e il rimosso che in quanto tale e di per sé
non è capace di divenire cosciente. Questa nostra visione della dinamica psichica non può
non influenzare la nomenclatura e il modo di descrivere i fatti. Diciamo preconscio ciò che è
latente, e cioè inconscio solo dal punto di vista descrittivo e non in senso dinamico1; riservia-
mo invece a ciò che è rimosso e dinamicamente inconscio la denominazione di inconscio2.
50 Abbiamo in tal modo tre termini: cosciente (c), preconscio (prec) e inconscio in senso non
più meramente descrittivo (inc). Riteniamo che il Prec sia molto più vicino al C di quanto lo
sia l’Inc; e poiché abbiamo detto psichico l’Inc, a maggior ragione e senza esitare diremo altret-
tanto a proposito del Prec latente. […]
Proseguendo nel lavoro analitico si costata però che anche queste distinzioni sono inade-
55 guate e insufficienti dal punto di vista pratico. Fra le situazioni che testimoniano questo fatto,
sceglierò la seguente che mi appare decisiva. Ci siamo fatti l’idea che esista nella persona un
nucleo organizzato e coerente di processi psichici che chiamiamo l’Io di quella persona. A tale
Io è legata la coscienza; esso domina le vie d’accesso alla motilità, ossia alla scarica degli ecci-
tamenti nel mondo esterno; l’Io è quell’istanza psichica che esercita un controllo su tutti i
60 processi parziali, è l’istanza psichica che di notte va a dormire e che anche allora esercita la
censura onirica. Provengono da questo Io anche le rimozioni mediante le quali alcune ten-
denze psichiche non soltanto rimangono escluse dalla coscienza, ma anche dagli altri modi
di agire e di farsi valere. Ciò che viene messo da parte mediante la rimozione si contrappone
all’Io durante l’analisi, e compito dell’analisi è eliminare le resistenze che l’Io manifesta a
65 occuparsi del rimosso. Ora, durante l’analisi ci vien fatto di osservare che l’ammalato al quale
poniamo determinati compiti si trova in difficoltà: le associazioni vengono meno quando
dovrebbero avvicinarsi al rimosso. Gli diciamo allora che è dominato da una resistenza; egli
però non ne sa nulla, e anche quando i sentimenti spiacevoli che avverte dovrebbero fargli
comprendere che una resistenza sta ora agendo in lui, non sa come chiamarla e descriverla.
70 Dato però che questa resistenza proviene certamente dal suo Io e ad esso pertiene, ci trovia-
mo di fronte a una situazione che non avevamo previsto. […] Costatiamo che l’Inc non coin-
cide col rimosso; rimane esatto asserire che ogni rimosso è inc, ma non che ogni Inc è rimos-
so. Anche una porzione dell’Io, una porzione Dio sa quanto importante dell’Io, può essere, e
anzi indubitabilmente è inc. E questo Inc dell’Io non è latente nel senso del Prec, giacché se
75 così fosse non dovrebbe poter diventare attivo senza farsi c, né il suo farsi cosciente dovreb-
be dar luogo a difficoltà cosi grandi3. Costretti quindi a istituire una terza specie di Inc non
1. Il preconscio, cioè, esiste in ma- agisce sulla vita psichica dell’io. una forza nell’Io), ma al tempo
niera nascosta (latente), ma non 3. L’inconscio, dunque, è dinamica- stesso, a differenza del preconscio,
agisce; per poter agire, infatti, deve mente presente nell’Io, fa parte di non agisce diventando cosciente,
diventare cosciente. esso: non è semplicemente rimos- bensí restando inconscio. In altre
2. L’inconscio vero e proprio esiste so, altrimenti non avrebbe funzione parole, l’Io è insieme conscio e in-
come rimosso, ma, al tempo stesso, dinamica (cioè non agirebbe come conscio.
L’Io e l’Es
La ricerca in campo patologico ha fatto sì che il nostro interesse si rivolgesse in modo trop-
po esclusivo al rimosso. Ora che sappiamo che anche l’Io può essere inconscio nel vero senso
della parola, vorremmo conoscerlo meglio. Nel corso delle nostre indagini l’unico punto di
riferimento è stato fino ad ora il contrassegno dell’essere cosciente o inconscio; ma abbiamo
5 veduto come tale indicazione possa assumere più di un significato.
Va detto che tutto il nostro sapere è invariabilmente legato alla coscienza. Anche l’Inc pos-
siamo imparare a conoscerlo solo rendendolo cosciente. Un momento: ma come è possibile
questo? Che cosa significa “rendere cosciente qualche cosa”? Com’è che ciò può avvenire?
Sappiamo già da dove dobbiamo partire. Abbiamo detto che la coscienza costituisce la
10 superficie dell’apparato psichico; l’abbiamo cioè attribuita, in quanto funzione, a un sistema
spazialmente collocato al primo posto, se si procede dal mondo esterno. Spazialmente non
solo in senso funzionale, del resto, ma questa volta anche nel senso della dissezione anatomi-
ca. Anche la presente indagine deve partire da questa superficie percipiente.
Innanzitutto sono c [conscie] tutte le percezioni: quelle che ci giungono dall’esterno (le per-
15 cezioni sensoriali) e quelle che provengono dall’interno, e che chiamiamo sensazioni e senti-
menti. Come stanno però le cose con quei processi interni che – in modo rozzo e impreciso –
possiamo indicare globalmente come processi di pensiero? Essi si producono in qualche luogo
all’interno dell’apparato come spostamenti di energia psichica sulla via dell’azione. Orbene
sono questi processi ad affacciarsi alla superficie dove si origina la coscienza? Oppure è la
20 coscienza che giunge fino ad essi? È qui visibile una delle difficoltà che si incontrano quando
si voglia prendere sul serio la rappresentazione spaziale, topica, dell’accadere psichico.
Entrambe le possibilità sono ugualmente inconcepibili, e dev’esserci una terza soluzione. […]
Mi sembra che si possa trarre un gran vantaggio seguendo il suggerimento di un autore il
quale, per motivi personali, si ostina invano a dichiarare di non avere nulla a che fare con la
25 scienza, intesa nel suo significato più rigoroso ed elevato. Mi riferisco a Georg Groddeck4, il
quale ripetutamente insiste nel concetto che ciò che chiamiamo il nostro Io si comporta nella
vita in modo essenzialmente passivo, e che – per usare la sua espressione – noi veniamo “vis-
suti” da forze ignote ed incontrollabili.
Abbiamo tutti provato tali impressioni, anche se esse non ci hanno sopraffatto al punto di
30 farci escludere tutto il resto. Noi speriamo di trovare nel contesto della scienza il posto che
compete alla concezione di Groddeck. Propongo di tenerne conto chiamando “l’Io” quell’en-
tità che scaturisce dal sistema p [= percezione] e comincia col diventare prec; ma di chiamare
l’altro elemento psichico in cui l’Io si continua e che si comporta in maniera inc, l’“Es” nel
senso di Groddeck. […] Un individuo è dunque per noi un Es psichico, ignoto e inconscio,
35 sul quale poggia nello strato superiore l’Io, sviluppatosi dal sistema P come da un nucleo.
4. Georg Groddeck (1866-1934) era suoi studi sull’inconscio e per l’ap- cura delle malattie cosiddette psi-
un medico tedesco celebre per i plicazione della psicoanalisi alla cosomatiche.
Il rapporto tra l’Io e l’Es non spiega secondo Freud nell’introiezione e nell’assimilazione, come precetto
soltanto l’azione dell’inconscio nella storia di ogni morale, di quel “complesso edipico” che ciascuno
io psichico, ma anche la formazione di quell’istanza attraversa nella sua infanzia, ovvero del divieto,
ideale all’interno della vita del soggetto psichico rappresentato dal padre, di unirsi sessualmente
che egli denomina «Super-Io». Esso consiste con la propria madre.
Il tentativo più importante di riaffermare la datità originaria, solo nell’intenzione dell’io, grazie
centralità del soggetto umano come coscienza alla quale emerge l’essenza della realtà. Da un lato,
razionale è senza dubbio quello compiuto all’inizio dunque, Husserl afferma che le cose vanno intese
del Novecento da Edmund Husserl. Non si tratta di così come si danno in sé stesse, purificate e liberate
un puro e semplice ritorno alla visione dell’io come da tutti i pregiudizi che provengono del soggetto
sostanza pensante o come attività trascendentale, conoscente; ma, dall’altro lato, è solo nella
bensì di una rivisitazione di quelle prospettive coscienza pura dell’io che tale oggettività diviene
aperte in filosofia da Descartes e da Kant, seguendo possibile, appunto perché l’io non è nulla di
però un filo conduttore diverso, vale a dire “psicologico” (cioè non è un ente di tipo
il carattere “intenzionale” dei vissuti dell’io. naturalistico, come appunto sarebbe il nostro
Il soggetto è sempre in rapporto costitutivo con meccanismo mentale e cerebrale), ma è una sfera
cose che sono altro da sé, ma il significato di queste d’essere originaria e assoluta. Così, nel I libro delle
cose può emergere in carne ed ossa, cioè nella loro Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia
fenomenologica (1913), da cui è tratto il brano assolutamente esistente. Essa infatti è ciò che
che segue, si arriva alla conclusione paradossale necessariamente rimane (il “residuo”) una volta
che quand’anche pensassimo il mondo come non che si sia per ipotesi sospesa ogni altra conoscenza
esistente (giacché il mondo non è semplicemente naturale del mondo. La coscienza di cui parla
ciò che si trova al di fuori di noi, ma il correlato Husserl non è dunque sottratta alla crisi del
delle nostre esperienze vissute), non potremo soggetto, ma al contrario l’assume dentro
tuttavia mai pensare la coscienza se non come di sé e si afferma proprio in virtù di quella crisi.
1. L’essere assoluto della coscienza è tale che essa non ha bisogno di nessun’altra “cosa” per esistere.
Anche Heidegger ha intrapreso la via della mondo non vuol dire essere collocato in un
fenomenologia, ma essa l’ha portato – a differenza contenitore o in un contesto, bensì comprendere
del suo maestro Husserl – a scardinare il primato l’essere di tutti gli enti che si incontrano nel mondo.
dell’io come coscienza e a reinterpretare La comprensione dell’essere non è innanzitutto
radicalmente l’essere del “soggetto” umano come un’attività teorica o riflessiva dell’uomo, ma
ciò che per sua stessa natura differisce dalla coincide con il suo stesso modo di esistere.
soggettività: una vera e propria fuoriuscita Tutto qui si gioca dunque a livello “ontologico”:
(ex-sistentia) dal soggetto, vale a dire l’“esserci”. ogni conoscenza degli oggetti richiede una
Questo nome indica l’uomo, ma non considerato preliminare comprensione dell’essere di quegli
come un semplice ente tra enti, bensì come l’ente oggetti e va “fondata” su di essa; ma una tale
che ha un rapporto con il proprio essere e con comprensione è il modo d’essere dell’esserci,
il senso dell’essere in generale. Ciò che costituisce e quindi solo un’“analitica esistenziale”
il primato dell’esserci non è più dunque l’attività (cioè un’interpretazione dell’esistenza come modo
della sua coscienza pura nei confronti del mondo: d’essere dell’uomo) potrà fornire un’“ontologia
al contrario, è il proprio essere nel mondo ciò che fondamentale”, cioè la comprensione tematica del
contraddistingue il suo essere; ma essere nel senso dell’essere dell’uomo e di tutti gli altri enti.
Come Heidegger afferma in due celebri paragrafi di perché l’uomo – l’esserci – è quell’ente che pone
Essere e tempo (1927), il problema dell’essere va e prima ancora comporta in sé il problema
riproposto in filosofia come problema dell’esistenza, dell’essere.
1. La comprensione “esistentiva” è quella che l’esserci ha del proprio essere nella vita quotidiana, e cioè senza
un’esplicita tematizzazione teoretica; quest’ultima invece prende il nome di comprensione “esistenziale”.
Perciò l’ontologia fondamentale, da cui soltanto tutte le altre possono scaturire, deve esser
45 cercata nell’analitica esistenziale dell’Esserci.
L’Esserci ha dunque un primato in vari sensi rispetto a ogni altro ente. In primo luogo ha
un primato ontico: questo ente è determinato nel suo essere dall’esistenza. In secondo luogo
ha un primato ontologico: per il suo esser-determinato dall’esistenza l’Esserci è in sé “ontolo-
gico”. Ma all’Esserci appartiene anche cooriginariamente, quale costitutivo della comprensio-
50 ne dell’esistenza, una comprensione dell’essere di ogni ente non conforme all’Esserci.
L’Esserci ha pertanto un terzo primato in quanto esso è la condizione ontico-ontologica della
possibilità di ogni ontologia. L’Esserci si è dunque rivelato come l’ente che, prima di ogni
altro, dev’essere interrogato ontologicamente.
Ma l’analitica esistenziale, da parte sua, ha in ultima analisi radici esistentive, cioè ontiche.
55 Soltanto nel caso che l’indagine propria della ricerca filosofica stessa venga esistentivamente
afferrata come una possibilità di essere dell’Esserci di volta in volta esistente, sussiste la pos-
sibilità di dischiudere l’esistenzialità dell’esistenza e, con ciò, la possibilità di affrontare una
problematica ontologica sufficientemente fondata. Ma così è anche chiarito il primato ontico
del problema dell’essere.
60
Il tema dell’analitica dell’Esserci
L’ente che ci siamo proposti di esaminare è il medesimo che noi stessi sempre siamo. L’essere
di questo ente è sempre mio. Nell’essere che è proprio di esso, questo ente stesso si rapporta
al proprio essere. Come ente di questo essere, esso è rimesso al suo aver-da-essere. L’essere è
65 ciò di cui ne va sempre per questo ente. Da questa caratterizzazione dell’Esserci derivano due
ordini di conseguenze:
1. L’“essenza” di questo ente consiste nel suo aver-da-essere. L’essenza (essentia) di questo
ente, se mai si possa parlare di essa, dev’essere intesa a partire dal suo essere (existentia). Ma
il compito ontologico è proprio quello di mostrare che, se noi scegliamo per l’essere di que-
70 sto ente la designazione di esistenza, questo termine non ha e non può avere il significato
ontologico del termine tradizionale existentia. Esistenza significa, per l’ontologia tradiziona-
le, qualcosa come la semplice-presenza, modo di essere, questo, essenzialmente estraneo a un
ente che ha il carattere dell’Esserci. A scanso di equivoci: per dire existentia useremo sempre
l’espressione interpretativa semplice-presenza, mentre attribuiremo l’esistenza, come determi-
75 nazione d’essere, esclusivamente all’Esserci. L’essenza dell’Esserci consiste nella sua esistenza. I
caratteri evidenziabili di questo ente non sono quindi “proprietà” semplicemente-presenti di
un ente semplicemente-presente, “avente l’aspetto” di essere così o così, ma sono sempre e
soltanto possibili maniere di essere dell’Esserci, e null’altro. Ogni esser-così, proprio di que-
sto ente, è primariamente essere. Perciò il termine “Esserci”, con cui indichiamo tale ente,
80 esprime l’essere e non il che-cosa, come quando si dice pane, casa, albero.
2. L’Essere di cui ne va per questo ente nel suo essere, è sempre mio. L’Esserci non è per-
ciò da intendersi ontologicamente come un caso o un esemplare di un genere dell’ente inte-
so come semplice-presenza. Per l’ente così inteso il suo essere è “indifferente” o, meglio anco-
ra, “è” tale che a esso il suo essere non può risultare né indifferente né non indifferente. Il
85 discorso rivolto all’Esserci deve, in conformità alla struttura dell’esser-sempre-mio, propria di
questo ente, far ricorso costantemente al pronome personale: “io sono”, “tu sei”.
E di nuovo l’Esserci è sempre mio in questa o quella maniera di essere. L’Esserci ha già
sempre in qualche modo deciso in quale maniera sia sempre mio. L’ente a cui nel suo essere
ne va di questo essere stesso, si rapporta al suo essere come alla sua possibilità più propria.
90 L’Esserci è sempre la sua possibilità, ed esso non l’“ha” semplicemente a titolo di proprietà
posseduta come una semplice-presenza. Appunto perché l’Esserci è essenzialmente sempre la
sua possibilità, questo ente può, nel suo essere, o “scegliersi”, conquistarsi, oppure perdersi e
non conquistarsi affatto o conquistarsi solo “apparentemente”. Ma esso può aver perso sé
stesso o non essersi ancora conquistato solo perché la sua essenza comporta la possibilità del-
Negli anni successivi a Essere e tempo, Heidegger come fa un pastore – dell’essere stesso, cioè della
ripensa a fondo l’esistenza dell’uomo, e se verità enigmatica di ciò che fa essere gli enti ma
nell’opera del 1927 l’esserci era inteso come un sarà sempre differente da essi. E se la concezione
progetto (cioè la comprensione dell’essere) sempre tradizionale dell’uomo come “animale dotato
irrimediabilmente gettato (perché la possibilità più di ragione” e come “soggetto” si basa sulla
propria dell’esserci è l’impossibilità ad essere come metafisica (intesa da Heidegger come dimenticanza
un ente tra enti), nella Lettera sull’“umanismo” dell’essere a favore dell’ente), questo pensiero
(1947) l’esistenza viene reinterpretata come oltre-metafisico intende invece l’uomo come
“gettata” dall’essere stesso. L’uomo è colui che colui che esiste in quanto appellato
abita in una “radura”, nella quale egli ha cura – dall’essere stesso.
Umanismo e metafisica
Lei mi chiede: Comment redonner un sens au mot “Humanisme”? La domanda nasce dall’inten-
zione di mantenere la parola “umanismo”. Io mi chiedo se ciò sia necessario. O non è anco-
ra abbastanza evidente il male che recano tutte le denominazioni di questo genere? […]
Ogni umanismo o si fonda su una metafisica o pone sé stesso a fondamento di una meta-
5 fisica del genere. È metafisica ogni determinazione dell’essenza dell’uomo che già presuppo-
ne, sapendolo o non sapendolo, l’interpretazione dell’ente, senza porre il problema della veri-
tà dell’essere. Per questo, se consideriamo il modo in cui viene determinata l’essenza dell’uo-
mo, appare che il tratto specifico di ogni metafisica è nel suo essere “umanistica”.
Pertanto ogni umanismo rimane metafisico. Nel determinare l’umanità dell’uomo, l’uma-
10 nismo non solo non si pone la questione del riferimento dell’essere all’essere umano, ma
impedisce persino che si ponga una simile questione, perché, a causa della sua provenienza
metafisica, l’umanismo non la conosce e non la comprende. Viceversa, la necessità e la forma
propria della questione della verità dell’essere, obliata nella metafisica e proprio a causa della
metafisica, possono venire alla luce solo quando, nel pieno dominio della metafisica, viene
15 posta la domanda: “Che cos’è metafisica?”. Anzi, ogni domandare dell’“essere”, così come
ogni domandare della verità dell’ essere, deve essere introdotto come un domandare “metafi-
sico”.
Il primo umanismo, cioè quello romano, e tutte le altre forme di umanismo che si sono via
via affermate fino ad oggi, presuppongono come evidente l’“essenza” universale dell’uomo.
20 L’uomo è considerato come animal rationale. Questa determinazione non è solo la tradu-
zione latina del greco zòon lògon èkon ma è un’interpretazione metafisica. Questa determina-
zione dell’essenza dell’uomo non è falsa, ma è condizionata dalla metafisica. Tuttavia è la sua
provenienza essenziale, e non solo i suoi limiti, che in Essere e tempo è divenuto degno di
essere messo in questione. Ciò che è degno d’esser messo in questione non è abbandonato
25 all’azione dissolvente di uno scetticismo vuoto, ma è affidato al pensiero come ciò che esso
ha da pensare come proprio.
È vero che la metafisica rappresenta l’ente nel suo essere, e pensa così anche l’essere dell’en-
te. Ma essa non pensa l’essere come tale, non pensa la differenza tra l’essere e l’ente. La metafi-
sica non si interroga sulla verità dell’essere stesso. Perciò, essa non si chiede neppure mai in che
30 modo l’essenza dell’uomo appartenga alla verità dell’essere. Non solo la metafisica non ha anco-
ra posto finora questo problema, ma questo problema è inaccessibile alla metafisica in quanto
metafisica. L’essere attende ancora di divenire esso stesso degno per l’uomo di essere pensato.
La metafisica si chiude di fronte al semplice fatto essenziale che l’uomo si dispiega nella
sua essenza solo in quanto è chiamato dall’essere. Solo a partire da questo reclamo, l’uomo
35 “ha” trovato dove la sua essenza abita. Solo a partire da questo abitare egli “ha” il “linguag-
gio” come dimora che conserva alla sua essenza il carattere estatico. Lo stare nella radura del-
l’essere, lo chiamo e-sistenza dell’uomo. Solo all’uomo appartiene un tal modo d’essere. L’ e-
sistenza così intesa non è solo il fondamento della possibilità della ragione, ma è ciò in cui
l’essenza dell’uomo conserva la provenienza della sua determinazione.
40 Ma l’essenza dell’uomo consiste nel fatto che egli è qualcosa di più del mero uomo come ce
lo si rappresenta quando lo si intende come un essere vivente fornito di ragione. Qui il “più”
non lo si deve intendere come un’aggiunta, come se la tradizionale definizione dell’uomo
dovesse restare la determinazione fondamentale, per poi subire un’amplificazione attraverso
l’aggiunta del carattere esistenziale. Il “più” significa: più originario e quindi più essenziale
45 nella sua essenza. Ma qui compare l’enigma: l’uomo è nella condizione dell’essere-gettato. Ciò
significa che l’uomo, come e-sistente controgetto dell’essere è più che animal rationale, proprio
in quanto è meno rispetto all’uomo che si concepisce a partire dalla soggettività. L’uomo non
è il padrone dell’ente. L’uomo è il pastore dell’essere. In questo “meno” l’uomo non perde nulla,
anzi ci guadagna, in quanto perviene
50 alla verità dell’essere. Guadagna l’essen-
Tutta la storia della filosofia, secondo Lévinas, rapporto tra finito e infinito, come emerge da una
è caratterizzata dall’imperialismo del Medesimo, celebre interpretazione della prova cartesiana
padrone e gestore di una totalità in cui l’alterità, dell’esistenza di Dio contenuta in Totalità e infinito
nella forma del dominio politico o della (1961): l’idea dell’infinito si pone rispetto all’io
concettualizzazione, è riassorbita nell’ipseità come un’istanza irriducibile, come il termine di un
del Medesimo. Per Lévinas, al contrario, la filosofia rapporto che non
dell’alterità, genuinamente intesa, non può che è mai né può mai essere totalizzante. L’infinito
consistere in un’apertura incondizionata all’“Altro” – eccede l’io, ma proprio in virtù di questo suo
un’apertura in cui l’altro non è sottomesso eccesso annulla il dominio totalizzante del
né al potere, né alla rappresentazione del Medesimo e si propone come modello per pensare
Medesimo, ma si rapporta con il Medesimo senza qualunque rapporto con l’Altro. Concepire ogni
perdere nulla della sua radicale alterità. Il modello o forma di alterità secondo il modello del rapporto
il paradigma di questa nuova impostazione è il tra finito e infinito è il solo modo, secondo Lévinas,
per sfuggire alla deriva dell’ontologia: sottratto al secondo una modalità che rende sì possibile
dominio della rappresentazione e della riduzione la relazione, ma al tempo stesso esclude che questa
totalizzante, l’Altro vi si manifesta come volto, cioè relazione si definisca nella forma del dominio.
1. Lévinas fa qui riferimento all’arte totalità, è per Lévinas una delle mo- lizzarla, sottoporla al gioco della
maieutica di Socrate. dalità storiche con cui il Medesimo rappresentazione oggettiva.
2. La scienza dell’essere, nella sua ha potuto inglobare l’alterità, tota-
– linguaggio e bontà. Questa relazione non è prefilosofica, infatti non violenta l’io, non gli è
imposta brutalmente dall’esterno, suo malgrado, o a sua insaputa come un’opinione; più esat-
tamente gli è imposta, al di là di qualsiasi violenza, con una violenza che lo mette interamen-
45 te in questione. Il rapporto etico, opposto alla filosofia prima dell’identificazione della liber-
tà e del potere, non è contro la verità, va verso l’essere nella sua esteriorità assoluta e mette
proprio in atto l’intenzione che anima il cammino verso la verità […].
3. Lévinas fa qui riferimento alla pri- siede l’oggetto del suo desiderio. rapporto tra finito e infinito è la de-
ma prova cartesiana dell’esistenza Così il Desiderabile si costituisce terminazione dell’Altro come volto:
di Dio, enunciata nella terza delle non come l’oggetto, come qualco- il volto, per Lévinas, è ciò che il
Meditazioni sulla filosofia prima. sa che possa essere dominato, ma Medesimo non può mai assimilare
4. Il Desiderio è per Lévinas una del- piuttosto come l’orizzonte del o dominare, ciò che resta intatto in
le figure dell’alterità liberata dal do- Desiderio stesso, come ciò che un’alterità alla quale l’io può rap-
minio totalizzante del Medesimo. muovendo il Desiderio lo rinnova portarsi ma che al tempo stesso
Nel Desiderio, genuinamente inte- continuamente. non può assoggettare.
so, colui che desidera non è mai 5. Il risultato dell’omologazione del
appagato, neppure quando pos- rapporto tra il Medesimo e l’Altro al
6. Nel vocabolario fenomenologico, ‘dare’) operata dalla soggettività investe la relazione di un senso che
e in particolare in Husserl, la trascendentale. È in questo senso precede e quindi prescinde dalla
Sinngebung designa la donazione che qui Lévinas si serve del termine: rappresentazione soggettiva dell’io,
di senso (Sinn: ‘senso’; gebung: il il volto, nella sua alterità irriducibile, cioè dalla Sinngebung del soggetto.
Nello sviluppo della sua riflessione, Lévinas ha “ebraica” del pensiero lévinassiano: l’io è
sempre più radicalizzato l’eccedenza dell’Altro (di responsabilità assoluta per Altri, è sostituzione
«Altri», come egli dice, proprio per non “totalizzare” di sé ad Altri, espiazione al posto di Altri, è un
anche l’alterità nella dialettica soggetto-oggetto essere ostaggio di Altri e in definitiva è passività
o Medesimo-Altro, tutta interna all’io). Per questo senza possibilità di riscatto o liberazione. E se
la parola “io” verrà sempre più a identificare un in Totalità e infinito l’ontologia veniva preceduta
fenomeno che non ha in sé il proprio principio, o oltrepassata dalla metafisica, in Altrimenti che
che non solo sta di fronte e in rapporto a ciò che essere o al di là dell’essenza (1978) la metafisica
è diverso da sé, ma è preceduto da esso in maniera si sviluppa definitivamente come etica,
assolutamente prioritaria, fino a identificare il “sé e quest’ultima costituisce un passo oltre ogni
stesso” come una radicale espropriazione di sé. possibile pensiero che parta dall’essere e non
Emerge qui in maniera sempre più evidente l’origine dall’Altro (rispetto all’essere).
La sostituzione
La responsabilità per altri non è l’accidente di un Soggetto, ma precede in esso l’Essenza, non
ha atteso la libertà in cui sarebbe stato preso l’impegno per altri. Io non ho fatto niente e sono
sempre stato in causa: perseguitato. L’ipseità, nella sua passività senza archè dell’identità, è
ostaggio. La parola Io significa eccomi, rispondente di tutto e di tutti. La responsabilità per gli
5 altri non è stata un ritorno a sé, ma una contrazione esasperata che i limiti dell’identità non
possono trattenere. […] La responsabilità dell’ossessione è una responsabilità dell’io per ciò
che l’io non aveva voluto, cioè per gli altri. Questa anarchia della ricorrenza a sé, al di là del
gioco normale dell’azione e della passione in cui si mantiene – dov’è – l’identità dell’essere, al
di qua dei limiti dell’identità, questa passività nella prossimità a causa di un’alterità in me,
10 questa passività della ricorrenza a sé che non è tuttavia l’alienazione d’una identità tradita –
che altro può essere se non la sostituzione di me agli altri? Non alienazione tuttavia – perché
l’Altro nel Medesimo è la mia sostituzione all’altro secondo la responsabilità, per la quale, inso-
stituibile, sono convocato. Attraverso l’altro e per l’altro, ma senza alienazione: ispirato. […]
Il volto dell’altro nella prossimità – più che rappresentazione – è traccia irrappresentabile,
15 modalità dell’Infinito. Non è perché tra gli esseri esiste un Io, essere che persegue dei fini, che
l’Essere assume una significazione e diviene universo. È perché nell’approssimarsi s’inscrive
o si scrive la traccia dell’Infinito – traccia di una partenza, ma traccia di ciò che, s-misurato,
non entra nel presente e inverte l’archè in anarchia – che vi è abbandono d’altri, ossessione
per esso, responsabilità e Sé. Il non intercambiabile per eccellenza, l’Io, l’unico si sostituisce
20 agli altri. Nulla è gioco. Così si trascende l’essere.
L’io non sarebbe solamente un essere dotato di certe qualità, dette morali, ch’esso porte-
rebbe come una sostanza porta degli attributi o ch’essa riveste come degli accidenti del suo
divenire; è la sua unicità eccezionale nella passività o la Passione di Sé ad essere questo avve-
nimento incessante di soggezione a tutto, di sostituzione, il fatto, per l’essere, di dis-amorar-
25 si, di svuotarsi del suo essere, di mettersi “alla rovescia” e, se si può dire, il fatto di “altrimen-
ti che essere”, soggezione che non è né nulla né prodotto d’una immaginazione trascenden-
tale. […]
Perché Altri mi riguarda? […] Sono io il custode di mio fratello? – Queste domande non
hanno senso se si è già presupposto che l’Io ha cura solo di Sé, se è solo cura di sé. In questa
30 ipotesi, in effetti, resta incomprensibile come il fuori-dall’Io assoluto – Altri – mi riguardi.
Ora, nella “preistoria” dell’Io posto per
sé, parla una responsabilità. Il sé è da
Le ultime ricerche di Foucault (negli ultimi corsi, il problema non è quello, puramente illusorio,
agli inizi degli anni Ottanta, al Collège de France, di abolire il potere in quanto tale, ma di evitare
e nei tre volumi pubblicati del suo vasto progetto che si trasformi in una condizione di puro dominio;
di una Storia della sessualità), vertono sulla ovvero, ciò che bisogna aver di mira, come Foucault
costituzione del soggetto come oggetto per sé chiarisce, non è di non essere affatto governati,
stesso, ovvero sulle tecniche e sulle procedure con ma di non essere eccessivamente governati,
cui il soggetto stesso si autoforgia riconoscendosi bilanciando appunto le procedure di
non solo come ambito di un sapere, ma anche in assoggettamento con quelle di soggettivazione.
una sua precisa dimensione etica (che Foucault I passi che seguono sono tratti da una delle ultime
considera a partire dall’ideale greco della cura interviste di Foucault, L’etica della cura di sé come
di sé e delle sue trasformazioni nel cristianesimo). pratica della libertà, concessa il 20 gennaio 1984,
Se infatti tutti i rapporti interindividuali sono pochi mesi prima della morte: essa non solo illustra
rapporti di potere (ciò che di per sé non è affatto il senso dell’ultima fase delle riflessioni
negativo, per Foucault), proprio la costituzione foucaultiane, ma permette anche di gettare uno
di sé nella libertà può impedire che queste relazioni sguardo retrospettivo sulle ricerche precedenti
di potere – e le corrispondenti tecniche di governo, e sul modo complessivo in cui Foucault ha cercato
cioè di orientamento della condotta altrui – di ripensare i rapporti tra soggettività, verità
diventino dei veri e propri stati di dominio: e potere.
Vorremmo innanzitutto sapere qual è, oggi, l’oggetto della sua riflessione. Abbiamo seguito i suoi
ultimi sviluppi, in particolare i suoi corsi sull’ermeneutica del soggetto al Collège de France nel
1981-1982, e vorremmo sapere se la sua impostazione attuale è sempre determinata dal polo sog-
gettività e verità.
5 In realtà questo è sempre stato il mio problema, anche se ho formulato il quadro della mia
riflessione in un modo un po’ differente. Ho cercato di capire come il soggetto umano entras-
se nei giochi di verità, sia nel caso dei giochi di verità che presentano la forma di una scien-
za o che si riferiscono a un modello scientifico, sia nel caso dei giochi di verità che si posso-
no riscontrare nelle istituzioni o nelle pratiche di controllo1. È il tema del mio lavoro Le paro-
10 le e le cose, dove ho cercato di vedere come, in alcuni discorsi scientifici, il soggetto umano
giunga a definirsi come individuo che parla, che vive, che lavora. Ho messo in luce questa
problematica, nei suoi aspetti generali, nei corsi al Collège de France.
Non vi è un salto tra la sua problematica precedente e quella della soggettività/verità, in partico-
lare a partire dal concetto di “cura di sé”?
15 Fino a quel momento avevo affrontato il problema dei rapporti tra il soggetto e i giochi di
verità a partire dalle pratiche coercitive – come nel caso della psichiatria e del sistema peni-
tenziario – oppure nelle forme di giochi teorici o scientifici – come l’analisi delle ricchezze,
del linguaggio e dell’essere vivente. Nei corsi al Collège de France ho cercato di coglierlo
attraverso quella che può essere definita una pratica di sé, un fenomeno che ritengo abbastan-
1. “Giochi di verità” è un’espressio- e la separazione del vero dal falso. stessa verità, ma la storia delle pro-
ne che non ha una portata negativa Ciò che interessa a Foucault non è cedure di “veridizione”, nelle quali
o puramente relativistica, ma indi- né la storia delle modalità con cui il cioè i discorsi risultano definiti veri
ca l’insieme di procedure che, in un soggetto pretende o presume di ac- o falsi.
certo sapere e in un certo periodo, quisire la verità, né la storia dei
regolano la produzione della verità possibili occultamenti di questa
20 za importante nelle nostre società sin dall’epoca greco-romana – anche se non è stato molto
studiato. Queste pratiche di sé hanno avuto un’importanza e soprattutto un’autonomia molto
più grande nelle civiltà greca e romana che successivamente, quando sono state investite, fino
a un certo punto, dalle istituzioni religiose, pedagogiche o di tipo medico e psichiatrico.
Vi è dunque, oggi, una sorta di spostamento: i giochi di verità non riguardano più una pratica coer-
25 citiva, ma una pratica di autoformazione del soggetto.
Proprio così. È quella che potrebbe essere definita una pratica ascetica, dando all’ascetismo
un senso molto generale, cioè, non il senso di una morale della rinuncia, ma quello di un
esercizio di sé su di sé, attraverso cui si cerca di elaborare sé stessi, di trasformarsi e di acce-
dere a un certo modo di essere. Assumo quindi l’ascetismo in un senso più generale rispetto
30 a quello che gli attribuisce, per esempio, Max Weber; ma, comunque, la prospettiva è un po’
la stessa.
Un lavoro di sé su sé stessi che può essere compreso come una liberazione, come un processo di
liberazione?
Su questo punto sarei un po’ più prudente. Sono sempre stato un po’ diffidente nei confron-
35 ti del tema generale della liberazione, nella misura in cui, se non lo si tratta con qualche pre-
cauzione e all’interno di certi limiti, rischia di riportare all’idea che esiste una natura o un fondo
umano che, in seguito ad alcuni processi storici, economici e sociali, si è trovato mascherato, alie-
nato o imprigionato in alcuni meccanismi, in certi meccanismi di repressione. In base a quest’ipo-
tesi, basterebbe far saltare i chiavistelli repressivi perché l’uomo si riconcili con sé stesso,
40 ritrovi la sua natura o riprenda contatto con la sua origine e restauri un rapporto pieno e posi-
tivo con sé stesso. Credo che questo tema non possa essere accettato così, senza verifica. […]
È per questo motivo che insisto più sulle pratiche di libertà che sui processi di liberazione, i
quali, lo ripeto, hanno un loro posto, ma non mi sembra che possano definire da soli tutte le
forme pratiche di libertà. Si tratta del problema che ho dovuto affrontare proprio a proposito
45 della sessualità: ha senso dire “liberiamo la nostra sessualità”? […] Mi sembra che il proble-
ma etico della definizione delle pratiche di libertà sia molto più importante dell’affermazio-
ne, un po’ ripetitiva, che bisogna liberare la sessualità o il desiderio. […]
Sì, perché che cos’è l’etica se non la pratica della libertà, la pratica riflessa della libertà?
50 Questo significa che lei intende la libertà come una realtà già etica in sé stessa?
La cura di sé, come ha detto lei, è in un certo modo la cura degli altri. In questo senso, la cura di
sé è anche sempre etica, è etica in sé stessa.
55 Per i Greci non è etica perché è cura degli altri. La cura di sé è etica in sé stessa; ma implica
dei rapporti complessi con gli altri, nella misura in cui questo èthos della libertà è anche un
modo di aver cura degli altri; per questo motivo, per un uomo libero, che si comporta come
si deve, è importante saper governare la moglie, i figli, la casa. L’arte di governare sta anche
in questo. L’èthos implica un rapporto con gli altri nella misura in cui la cura di sé rende capa-
60 ci di occupare, nella città, nella comunità o nelle relazioni interindividuali, il posto appro-
70 No, non l’ho “impedito”. Forse ho dato delle formulazioni inadeguate. Ho rifiutato che si pre-
supponesse a priori una teoria del soggetto – come si poteva fare, per esempio, nella fenome-
nologia o nell’esistenzialismo – e che, a partire da questa teoria del soggetto, si ponesse la
questione di sapere come, per esempio, fosse possibile tale forma di conoscenza. Ho cercato
di dimostrare come il soggetto costituisse sé stesso, in questa o quella determinata forma, in
75 quanto soggetto folle o soggetto sano, in quanto soggetto delinquente o in quanto soggetto
non delinquente, attraverso alcune pratiche che erano giochi di verità, pratiche di potere, ecc.
Dovevo rifiutare una certa teoria a priori del soggetto per poter fare l’analisi dei rapporti che
intercorrono tra la costituzione del soggetto o le differenti forme del soggetto e i giochi di
verità, le pratiche di potere, ecc.
Non è una sostanza. È una forma e, soprattutto, questa forma non è mai identica a sé stessa.
Non abbiamo lo stesso tipo di rapporto con noi stessi quando ci costituiamo come un sog-
getto politico che va a votare o prende la parola in un’assemblea e quando cerchiamo di rea-
lizzare il nostro desiderio in una relazione sessuale. Probabilmente esistono rapporti e inter-
85 ferenze tra queste differenti forme del soggetto, ma non si è mai in presenza dello stesso tipo
di soggetto. In ogni caso, si gioca, si stabiliscono differenti forme di rapporto con sé stessi.
Mi interessa la costituzione storica di queste differenti forme del soggetto, in rapporto con i
giochi di verità. […]
Tale questione rimanda al problema del soggetto, poiché, nei giochi di verità, si pone la questione
90 di sapere chi dice la verità, come la dice e perché la dice. Perché nel gioco di verità, si può gioca-
re a dire la verità: c’è un gioco, si gioca alla verità o la verità è un gioco.
La parola “gioco” può indurre in errore: quando dico “gioco” dico un insieme di regole di pro-
duzione della verità. Non è un gioco nel senso di imitare o recitare…, si tratta di un insieme di
procedure che conducono a un certo risultato, che può essere considerato, in funzione dei suoi
95 princìpi e delle sue regole di procedura, come valido o no, come vincente o perdente. […]
Dipende: ci sono giochi di verità in cui la verità è una costruzione e altri in cui non lo è. […]
Questo non significa che di fronte non c’è nulla e che è tutto frutto della mente di qualcuno.
[…]
100 In fondo, al cuore del problema della verità c’è anche un problema di comunicazione, il problema
della trasparenza delle parole del discorso. Chi ha la possibilità di formulare delle verità ha anche
un potere, il potere di poter dire la verità e di esprimerla come vuole.
Sì, e questo non significa, tuttavia, che quello che dice non sia vero, come crede la maggior
parte delle persone: quando si fa loro notare che può esistere un rapporto tra la verità e il
105 potere, dicono: “Ah, allora non è la verità!”. […]
Mi sembra che l’idea che possa esistere uno stato di comunicazione tale che i giochi di
verità potranno circolare senza ostacoli, senza vincoli e senza effetti coercitivi appartenga
all’ordine dell’utopia2. Significa proprio non vedere che le relazioni di potere non sono qualcosa
di cattivo in sé, da cui bisogna affrancarsi; credo che non possa esistere una società senza relazio-
110 ni di potere, se queste vengono intese come strategie attraverso cui gli individui cercano di condur-
re e di determinare la condotta degli altri. Il problema non è, dunque, di cercare di dissolverle
nell’utopia di una comunicazione perfettamente trasparente, ma di darsi delle regole di dirit-
to, delle tecniche di gestione e anche una morale, un èthos, la pratica di sé, che consentano,
in questi giochi di potere, di giocare con il minimo possibile di dominio. […]
115 Questo compito è sempre stato una grande funzione della filosofia. Nel suo versante cri-
tico – intendo critico in senso lato –, la filosofia è proprio ciò che rimette in discussione tutti
i fenomeni di dominio, a qualunque livello e in qualunque forma si presentino – politici, eco-
nomici, sessuali e istituzionali. Questa funzione critica della filosofia deriva, fino a un certo
punto, dall’imperativo socratico: “occupati di te stesso”, cioè “fonda te stesso in libertà, attra-
120 verso la padronanza di te”.
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