Sei sulla pagina 1di 30

PERCORSO 1

TEMATICO
L’IO IN QUESTIONE:
LA CRISI
DEL SOGGETTO
MODERNO

T1 Karl Marx • L’io estraniato T5 Martin Heidegger • L’uomo come esserci


Manoscritti economico-filosofici del 1844, Essere e tempo, §§ 4 e 9;
Primo manoscritto, XXII-XXIV Lettera sull’“umanismo”
T2 Friedrich Nietzsche • Dall’io al superuomo T6 Emmanuel Lévinas • L’io come relazione
Al di là del bene e del male, cap. 1, §§ 16, 17; etica con Altri
cap. 3, § 54; Così parlò Zarathustra, Totalità e infinito, §§ 4 e 5; Altrimenti che
Prefazione di Zarathustra, § 3 essere o al di là dell’essenza, cap. 4, § 4
T3 Sigmund Freud • L’Io, il conscio, T7 Michel Foucault • Il soggetto
l’inconscio come cura di sé
L’Io e l’Es, §§ 1-3 L’etica della cura di sé come pratica
T4 Edmund Husserl • La coscienza della libertà, Intervista del 20 gennaio 1984
come essere assoluto
Idee per una fenomenologia pura
e per una filosofia fenomenologica, libro I, § 49 Bibliografia

ESPOSITO-PORRO • © 2012, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI


1

L’io in questione:
la crisi
del soggetto
moderno

l problema del “soggetto” aveva costituito mente come il compimento e la massima enfatiz-
I una delle questioni fondamentali attorno a zazione del “soggetto moderno”, giungendo a
cui si era sviluppata l’indagine filosofica intendere quest’ultimo come una realtà “assolu-
della cosiddetta “età moderna”: in maniera diret- ta” (l’Io pratico in Fichte, l’autocoscienza tra-
ta o indiretta non vi era filosofia, dopo la svolta scendentale in Schelling, lo spirito in Hegel). Ma
umanistico-rinascimentale, che non affrontasse il già all’interno delle filosofie idealistiche l’“io” si
problema della fondazione o della giustificazione presentava non come qualcosa di già dato in sé e
della capacità dell’io (e rispettivamente della sua per sé, bensí come l’esito di un lungo e spesso
incapacità) nel conoscere la verità e nel dominare drammatico percorso di appropriazione. Il sog-
le proprie azioni volgendole al bene. La “natura” getto doveva giungere ad afferrare sé stesso, a
della soggettività era infatti considerata come il conquistarsi, o più semplicemente a realizzarsi,
luogo deputato e assolutamente centrale da cui attraverso lo scontro, l’integrazione e il dominio
prendono origine e a cui ritornano tutti i nostri di ciò che era altro da sé (la natura, gli altri uomi-
rapporti con il mondo. Sia che venisse inteso ni, lo stesso Dio). In altri termini, l’io degli ideali-
come “sostanza” o come “esperienza” sensibile, sti portava in sé una “negatività” permanente,
sia che si basasse su una ragione universale o su anche se spesso nascosta dietro l’azione vitto-
una credenza empirica, sia che fosse concepito riosa dell’io, nella quale non soltanto il soggetto,
come il signore del mondo o come un ente essen- ma la realtà intera degli oggetti, giungeva ad
zialmente finito tra gli altri, l’immagine prevalen- autocoscienza.
te del soggetto umano che emerge dalle diverse A questa problematicità “interna” del soggetto
filosofie dell’età moderna viene giocata sull’iden- moderno – un io infinito e assoluto che nasceva
tificazione dell’“io” con la “coscienza”. come superamento dell’io finito e contingente – si
Intorno alla metà dell’Ottocento, però, nell’in- affiancò ben presto una violenta critica dall’ester-
dagine sulla soggettività si profila un profondo no, o per meglio dire, un programma di fuoriuscita
mutamento di prospettiva. I sistemi filosofici del- dall’idealismo. Da Schopenhauer a Kierkegaard,
l’idealismo tedesco si erano caratterizzati voluta- da Marx a Nietzsche, tutta la seconda metà

ESPOSITO-PORRO • © 2012, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI


1 L’io in questione: la crisi del soggetto moderno 701

dell’Ottocento è attraversata da questi molteplici st’ultimo può riappropriarsi della sua natura, vale
tentativi di fuoriuscire da un’immagine dell’io a dire il lavoro. In particolare, nella società capita-
come pura trasparenza a sé stesso, come idealiz- listica la condizione strutturale da cui il soggetto
zazione del mondo nello spirito autocosciente, è inevitabilmente determinato è quella della per-
come affermazione irreversibile della verità e del dita di sé sotto forma di alienazione del proprio
bene. lavoro nelle mani di altri, che ne ricavano un pro-
La filosofia del Novecento radicalizza questa fitto non corrisposto al lavoratore. La filosofia
critica del soggetto moderno rendendola un moderna, anche quando aveva individuato nel-
carattere permanente della soggettività. In altri l’agire il proprium dell’uomo, non aveva mai
termini, la crisi del soggetto non verrà più intesa messo in questione l’identità tra io e pensiero, tra
come una situazione occasionale o temporanea soggettività e coscienza. Al contrario, Marx
che si possa superare (tornando all’autoafferma- sostiene – riprendendo un’idea hegeliana e tra-
zione assoluta dell’io), ma come una condizione sportandola al di fuori del sistema idealistico –
strutturale che caratterizza l’io in quanto tale. Il che i condizionamenti materiali e storico-sociali
soggetto non va semplicemente in crisi, ma è un cui è sottoposto l’uomo portano ad un’alienazio-
fenomeno essenzialmente critico: esso “è” la sua ne o estraniazione della coscienza da sé stessa.
stessa crisi. La crisi diviene, per l’io, il nuovo Da questo punto di vista, il soggetto marxiano è
paradigma di riferimento. Così, la questione del- un prodotto della storia e della società, che può
l’io non si configura più come un tentativo di giungere ad una liberazione da tale alienazione
determinare ciò che appartiene essenzialmente e nel momento in cui riesce a invertire l’ordine della
a priori al soggetto, ma si profila come una messa produzione e a produrre liberamente sé stesso;
in questione dell’io stesso. Dalla questione dell’io ma tale autoproduzione dipende a sua volta dal
all’io in questione: è questo il mutamento di para- fatto che il soggetto (attraverso la via della rivolu-
digma che segna la transizione dal pensiero zione comunista) divenga padrone di quelle con-
moderno al pensiero contemporaneo. dizioni socio-economiche del suo lavoro che in
Ciò significa principalmente due cose: 1. non vi precedenza lo tenevano assoggettato.
è un senso o un valore trascendente in cui si La riflessione sulla crisi del soggetto moderno
possa collocare l’essere del soggetto umano, per- si presenta in maniera particolarmente acuta nel
ché al contrario tutti questi significati ideali sono pensiero di Friedrich Nietzsche (1844-1900) [u
dei prodotti della mente umana; 2. l’essenza del T2] il quale la concepisce non soltanto come
soggetto umano è sempre condizionata, delimita- un’analisi descrittiva, ma più radicalmente come
ta, determinata dai fattori materiali e sociali della un modo di produrre e compiere lo svuotamento
sua esistenza. In questa maniera, l’indagine sul dell’immagine tradizionale dell’io. Il soggetto
soggetto diviene un’indagine sulle circostanze umano viene inteso infatti da Nietzsche come la
concrete che determinano di volta in volta il suo maschera dietro cui si nasconde l’illusione, o
essere e il suo agire: il soggetto è innanzitutto meglio l’inganno del pensiero metafisico, che
colui che è “assoggettato” alle condizioni concre- crede di poter stabilire in maniera definitiva il
te della natura e della storia. vero rispetto al falso, lo spirituale rispetto al
È stato Karl Marx (1818-1883) [u T1] a tematiz- materiale, il bene rispetto al male, l’infinito
zare in maniera esplicita la natura storicamente rispetto al finito, Dio rispetto all’uomo e così via.
determinata del soggetto umano: l’io non possie- Prendendo di mira tutto il soggettivismo moder-
de un’essenza immutabile data una volta per no, da Descartes a Hegel, Nietzsche intuisce che
tutte, e la sua stessa “natura” è definita dai rap- distruggere l’io significa sovvertire l’intera tradi-
porti sociali e produttivi che lo investono e in cui zione della metafisica occidentale, giacché esso è
esso investe la propria attività. Di conseguenza, il depositario di quella tendenza che ha portato i
per comprendere e per determinare l’essere del filosofi a credere nell’esistenza di verità immuta-
soggetto, si deve sempre partire dalle condizioni bili, stabili, trascendenti. Per questo motivo, il
materiali nelle quali di volta in volta, a seconda ribaltamento della tradizione metafisica in
dei diversi assetti socio-economico-politici, esso Nietzsche fa leva sul nesso tra la morte di Dio e
si viene a trovare. Vi è un punto privilegiato per quella che potremmo chiamare la morte dell’io,
individuare il modo in cui tale assetto conforma a cioè il superamento dell’uomo così come è stato
sé il soggetto umano e insieme il modo in cui que- pensato dalla metafisica platonica e cristiana, in

ESPOSITO-PORRO • © 2012, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI


702 percorsi tematici

virtù dell’affermazione di un super-io, quel supe- nalità la caratteristica fondamentale della


ruomo che pone nella sua stessa volontà di coscienza, intesa appunto come un tendere costi-
potenza l’essere della realtà intera. tutivo, e in forme diverse, verso un oggetto, che
Colui che nel Novecento ha interpretato con veniva conosciuto proprio in quanto “vissuto”
maggior coerenza questo aspetto strutturale nella sua stessa essenza all’interno della coscien-
della crisi del soggetto, dopo Marx e Nietzsche, è za; e successivamente era giunto a riconoscere la
stato Sigmund Freud (1856-1939) [u T3]. La psi- necessità di una “epochè”, ossia di una sospen-
coanalisi freudiana può essere letta anch’essa sione di quell’“atteggiamento naturale” con cui
come una critica nel profondo della nozione tradi- affermiamo dogmaticamente l’esistenza di un
zionale di soggetto, e in particolare dell’identità mondo fuori di noi, e l’affermazione di un “resi-
tra l’io e la coscienza. La vita psichica dell’io non duo” insopprimibile e assolutamente necessario
è affatto contenuta o esaurita nella coscienza: al che coincide proprio con l’essere puro della
di là o al di sotto di quest’ultima si nasconde per coscienza, chiamata trascendentale appunto per-
Freud un vero e proprio abisso, l’inconscio. ché costituisce la condizione di possibilità di ogni
Quest’ultimo è costituito da quei desideri inappa- altra conoscenza empirica. Quand’anche il
gati e inibiti che vengono “rimossi” dalla coscien- mondo intero fosse annientato, dice Husserl,
za e che rappresentano, per usare i termini di resterebbe l’essere assoluto della coscienza:
Freud, una sorta di «territorio straniero interno» un’affermazione, questa, che, nonostante le
all’io, che comunque continua ad agire nella sua apparenze contrarie, non è esente da quella crisi
vita psichica. Lungi dall’essere perfettamente tra- del soggetto moderno che segna tutto il pensiero
sparente a sé stesso, l’io rappresenta dunque sol- dell’epoca, anzi ne partecipa in modo evidente.
tanto la superficie di una vita psichica ben più Una coscienza come essere assoluto, affermante-
complessa e articolata. L’accesso a questa nuova si grazie alla sospensione di tutto ciò che è altro
definizione della soggettività è reso possibile a da esso, è forse la strategia più estrema per
Freud dallo studio delle patologie in cui ciò che rispondere ad una crisi di evidenza e a una deriva
resta fuori dall’io, o meglio, ciò che l’io ha rimos- psicologistica e soggettivistica che sembrava
so dalla coscienza di sé, torna a farsi presente, compromettere definitivamente la capacità della
minando, interrompendo, turbando più o meno ragione umana di cogliere l’evidenza delle cose.
gravemente l’autocoscienza. Non a caso è nell’in- E non è un caso che all’origine del pensiero di
terpretazione dei sogni, molto più che nell’analisi Martin Heidegger (1889-1976) [u T5], uno dei
dei pensieri del soggetto cosciente (o “sveglio”), pensatori che più hanno determinato la critica
che si svela questo fondo abissale (l’“Es”) per cui della tradizione filosofica della soggettività, stia
ogni io è quello che è: l’io, infatti, non ha solo una proprio il ribaltamento della concezione husser-
“natura”, fatta di impulsi e di stimoli, di azioni e di liana di un “io” senza mondo in una più origina-
reazioni, ma ha anche una storia, fatta di espe- ria concezione dell’io come esserci, vale a dire
rienze vissute nell’infanzia (soprattutto il rappor- come “essere-nel-mondo”. Per Heidegger ciò che
to con i genitori), di impulsi inibiti e di desideri risulta dominante nella tesi della coscienza pura
rimossi, che costituisce il volto mai completamen- è, paradossalmente, proprio una nozione di
te ricostruibile del soggetto umano. In qualche essere che vale soprattutto per gli enti naturali
modo, l’io è uno sconosciuto a sé stesso, e solo (intesi come sostanze definite attraverso precisi
tramite una continua interpretazione di sé attra- attributi ontologici) e non per l’uomo. L’intento
verso un altro da sé esso è restituito a sé stesso. dell’“analitica esistenziale” heideggeriana è
All’inizio del Novecento, il problema del sogget- invece proprio la distinzione tra il modo d’essere
to viene orientato anche in una direzione diame- degli enti intramondani e il modo d’essere di
tralmente opposta a quella della vita psichica del- quel particolare ente che è l’essere-nel-mondo.
l’io, come nel caso della fenomenologia trascen- Mentre l’essere degli enti si esaurisce nel-
dentale di Edmund Husserl (1859-1938) [u T4]. l’“utilizzabilità” e nella «mera presenza sottoma-
Partito dall’esigenza di delimitare la validità no», l’essere dell’“esserci” – ossia «quell’ente
oggettiva della logica rispetto alle riduzioni dello che noi stessi sempre siamo» – si compie come
“psicologismo”, che tendeva a ridurre i contenuti “esistenza”: le cose semplicemente sono, l’es-
della conoscenza agli atti del soggetto psichico, serci soltanto esiste, cioè è quello che può esse-
Husserl aveva dapprima individuato nell’intenzio- re, non perché si separi dalle cose del mondo rin-

ESPOSITO-PORRO • © 2012, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI


1 L’io in questione: la crisi del soggetto moderno 703

chiudendosi in una sfera coscienziale, ma, al to/oggetto o servo/padrone e va accolta come


contrario, perché comprende il proprio essere e una radicale eterogeneità o un’assoluta novità,
l’essere degli enti intramondani. E mentre questi come un evento capace di sconvolgere la totalità
ultimi si determinano in vista dell’esserci, l’es- dell’io. La relazione del soggetto con l’altro da sé
serci stesso non potrà mai realizzarsi in sé stes- (o meglio con “Altri”, proprio per designare l’ec-
so e per sé stesso se non trascendendosi come cedenza o la sporgenza del secondo termine
ente. Esso può realizzarsi in molteplici possibili- rispetto al primo) è per Lévinas l’effetto di una
tà mondane, a partire dagli enti che incontra nel trascendenza irriducibile ad ogni rappresentazio-
mondo, ma la sua più propria possibilità – il suo ne o pensiero dell’io, e costituisce un vero e pro-
“progetto” più proprio – sarà solo l’impossibilità prio esercizio “etico”, una responsabilità origina-
di essere come un ente tra gli altri, un’impossibi- ria che viene prima della stessa libertà del sog-
lità in cui esso è da sempre “gettato”. In questo getto o della sua decisione per alcuni valori. Io
consiste propriamente la finitezza ontologica non sono innanzitutto colui che sceglie eticamen-
dell’esserci: nel fatto che a fondamento dell’esi- te l’altro, ma sono io stesso assoggettato al suo
stere vi è una differenza ontologica (differenza richiamo, sono chiamato o ispirato da esso
esserci/ente intramondano e più radicalmente (secondo la terminologia del profetismo ebraico),
differenza essere/ente), che è il grande impensa- e quindi, in definitiva, sono me stesso in quanto
to della tradizione filosofica. Quando, dopo gli assoluta passività. In questo caso, per Lévinas si
anni Trenta, Heidegger ripenserà il rapporto tra scorge che non l’ontologia, bensì l’etica è la “filo-
uomo ed essere non più in termini di compren- sofia prima”, e che il soggetto “accade” non nel-
sione da parte dell’esserci, ma di appello da l’ordine dell’essere (cioè come una determinazio-
parte dell’essere, egli prenderà posizione decisa- ne ontologica, per quanto peculiare), bensì al di
mente contro ogni tipo di “umanismo”, perché in là dell’essenza e dell’essere.
quest’ultimo continua ad essere dimenticata la Il nostro percorso si chiude con uno degli auto-
grande questione della verità dell’essere, a parti- ri che più hanno contribuito a una riconsiderazio-
re dalla quale soltanto, invece, è ancora possibi- ne critica del soggetto moderno: Michel Foucault
le parlare di “uomo”. (1926-1984) [u T7]. Il progetto foucaultiano di
Questa concezione rigorosamente autoreferen- una “storia critica del pensiero” (intendendo qui
ziale dell’esserci heideggeriano (almeno quella di la “critica” in esplicito riferimento a Kant) mira
Essere e tempo), in cui cioè l’io è chiamato ad essenzialmente a esaminare le relazioni possibili
assumere la propria finitezza come un destino irre- tra soggetto e oggetto. Non si tratta tuttavia di
vocabile, sarà contestata tra gli altri da Emmanuel descrivere le condizioni puramente formali o
Lévinas (1906-1995) [u T6], il quale ha fatto emer- quelle empiriche con cui un soggetto già costitui-
gere potentemente l’appello dell’“Altro” e al- to e costituente perviene a conoscere un determi-
l’“Altro” che sempre abita, a suo modo di vedere, nato oggetto, ma piuttosto di ricostruire i proces-
la costituzione della soggettività. Nella storia del si congiunti con cui – in determinati ambiti del
pensiero, secondo Lévinas, questo rapporto tra il sapere – soggetto e oggetto si definiscono e si
Medesimo – cioè il senso ontologico tradizionale costituiscono l’uno in rapporto all’altro, ovvero i
attribuito alla soggettività – e l’Altro è stato con- processi di soggettivazione (costituzione del sog-
cepito prevalentemente in termini “ontologici”, getto) e oggettivazione (costituzione dell’ogget-
come un assorbimento e una dissoluzione del- to). L’intreccio tra questi due aspetti definisce ciò
l’essere-altro nell’essere-lo-stesso, come una che Foucault chiama «giochi di verità», cioè le
riduzione dell’“infinito” di cui l’Altro è portatore forme storiche in cui si articolano i discorsi
alla “totalità” del sé: il Medesimo ha imposto il suscettibili di essere definiti veri o falsi.
proprio dominio sull’Altro, riducendo la distanza In una prima fase, quella segnata dalla preva-
e la dismisura che caratterizzano essenzialmente lenza dell’approccio “archeologico”, Foucault ha
l’alterità alla misura della rappresentazione sog- concentrato la sua attenzione sul modo in cui la
gettiva, e questo sia a livello conoscitivo che a nascita di determinati saperi (psicologia, psichia-
livello politico. E anche quando ha postulato tria, medicina “individualizzante”, antropologia,
un’alterità, il soggetto l’ha intesa come alienazio- anatomia patologica, ecc.), a loro volta riflesso di
ne di sé o come oggetto di dominio da parte sua, pratiche storicamente determinate (internamen-
mentre essa va liberata dalla dialettica sogget- to, «addolcimento delle pene», detenzione, ecc.),

ESPOSITO-PORRO • © 2012, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI


704 percorsi tematici

abbia portato alla costituzione correlativa, in qualcosa di già dato o di atemporale, ma si defi-
ambiti diversi, di soggetto e oggetto: la Storia nisce di volta in volta storicamente in forme
della follia, per esempio, mostra, da una parte, diverse; compito dello storico e del filosofo è
come qualcosa come la “follia” si costituisca appunto quello di esaminare la costituzione di
quale oggetto solo in rapporto a un determinato queste forme, cioè dei saperi che mettono capo
sapere, e dall’altra, come questo stesso sapere alla formazione di soggetti e oggetti, evitando la
porti alla costituzione di determinate forme di scorciatoia del ricorso a “universali antropologi-
soggettività (il “folle”, così come – in rapporto ad ci” (l’“uomo” come essenza naturale atemporale,
altri saperi – il “malato”, il “criminale”, ecc., o la “follia” come oggetto naturale sempre già dato
anche il soggetto “sano”, “normale”, ecc.). e così via). Questo però non significa affatto pre-
Analogamente, nelle Parole e le cose, Foucault tendere che il soggetto non esista assolutamen-
prende in esame la formazione del soggetto che te, ma piuttosto «far apparire i processi propri di
parla, lavora, vive in riferimento allo sviluppo un’esperienza in cui il soggetto e l’oggetto “si for-
delle scienze umane: l’“uomo” (come mano e si trasformano” l’uno in rapporto all’altro
soggetto/oggetto di un sapere) nasce con l’an- e l’uno in funzione dell’altro» (come lo stesso
tropologia e dunque tramonta (“muore”) con Foucault scrive in un’autopresentazione del pro-
l’eclissi della forma storica di questo stesso prio pensiero, raccolta ora in Archivio Foucault 3,
sapere. Il soggetto non è dunque per Foucault Feltrinelli, Milano 2005).

T1 Karl Marx L’io estraniato


Manoscritti economico-filosofici del 1844, Primo manoscritto, XXII-XXIV

Il gesto con cui Marx ribalta la fondazione del come un prodotto radicalmente storico, di modo
soggetto hegeliano e al tempo stesso radicalizza la che sia l’oppressione che la liberazione del soggetto
contestazione che all’idealismo era mossa da parte risultano imputabili essenzialmente alla prassi
dei giovani della “sinistra hegeliana”, di Feuerbach e economico-politica dell’ordinamento sociale.
dei socialisti utopistici, costituisce uno dei binari più Tale ordinamento è basato sul lavoro alienato
importanti per la critica della soggettività moderna dell’uomo (un’idea che Marx attinge dagli
che attraversa la seconda metà dell’Ottocento per economisti classici come Smith e Ricardo),
dilagare poi in tutto il Novecento. Anzi, si può dire ed è perciò attraverso un’analisi di tale alienazione
che tale critica si troverà necessariamente del lavoro che può delinearsi la critica del soggetto
a confrontarsi e a passare – direttamente moderno, che va inteso in maniera storicamente
o indirettamente, in accordo o in disaccordo – determinata come la soggettività dei lavoratori
attraverso la posizione marxiana. Se per Hegel sfruttati nella società “capitalistica” e “borghese”.
il “soggetto” vero e proprio è l’idea o la sostanza È il proletariato il vero e proprio soggetto di questa
infinita mentre i soggetti finiti sarebbero solo società, perché sul suo lavoro si fonda anche
i predicati di quella sostanza, per Marx il soggetto il privilegio delle classi dominanti. Nel brano
reale è quello determinato materialmente, sia che segue Marx analizza la triplice forma
a livello naturale che a livello economico-sociale; di alienazione o “autoestraniazione” cui è
e se Feuerbach aveva individuato nella religione la sottoposto il soggetto lavoratore, il quale non solo
forma principale di alienazione del soggetto umano, viene espropriato del prodotto del suo lavoro
da cui quest’ultimo può affrancarsi recuperando (che diviene merce) e della sua stessa attività
l’autonomia di una “natura umana” sfigurata lavorativa (trasformata anch’essa in merce), ma è
e oppressa, per Marx tale natura deve essere intesa costretto ad estraniarsi anche dagli altri soggetti.

ESPOSITO-PORRO • © 2012, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI


1 L’io in questione: la crisi del soggetto moderno 705
Il lavoro estraniato
Noi partiamo da un fatto dell’economia politica, da un fatto presente.
L’operaio diventa tanto più povero quanto maggiore è la ricchezza che produce, quanto più
la sua produzione cresce di potenza e di estensione. L’operaio diventa una merce tanto più
vile quanto più grande è la quantità di merce che produce. La svalorizzazione del mondo
5 umano cresce in rapporto diretto con la valorizzazione del mondo delle cose. Il lavoro non
produce soltanto merci; produce sé stesso e l’operaio come una merce, e proprio nella stessa
proporzione in cui produce in generale le merci.
Questo fatto non esprime altro che questo: l’oggetto che il lavoro produce, il prodotto del
lavoro, si contrappone ad esso come un essere estraneo, come una potenza indipendente da
10 colui che lo produce. Il prodotto del lavoro è il lavoro che si è fissato in un oggetto, è diven-
tato una cosa, è l’oggettivazione del lavoro. La realizzazione del lavoro è la sua oggettivazio-
ne. Questa realizzazione del lavoro appare nello stadio dell’economia privata come un annul-
lamento dell’operaio, l’oggettivazione appare come perdita e asservimento dell’oggetto, l’appro-
priazione come estraniazione, come alienazione.
15 La realizzazione del lavoro si presenta come annullamento in tal maniera che l’operaio
viene annullato sino a morire di fame. L’oggettivazione si presenta come perdita dell’oggetto in
siffatta guisa che l’operaio è derubato degli oggetti più necessari non solo per la vita, ma anche
per il lavoro. Già, il lavoro stesso diventa un oggetto, di cui egli riesce a impadronirsi soltan-
to col più grande sforzo e con le più irregolari interruzioni. L’appropriazione dell’oggetto si
20 presenta come estraniazione in tale modo che quanti più oggetti l’operaio produce, tanto meno
egli ne può possedere e tanto più va a finire sotto la signoria del suo prodotto, del capitale.
Tutte queste conseguenze sono implicite nella determinazione che l’operaio si viene a tro-
vare rispetto al prodotto del suo lavoro come rispetto ad un oggetto estraneo. Infatti, partendo
da questo presupposto è chiaro che: quanto più l’operaio si consuma nel lavoro, tanto più
25 potente diventa il mondo estraneo, oggettivo, che egli si crea dinanzi, tanto più povero diven-
ta egli stesso, e tantomeno il suo mondo interno gli appartiene. Lo stesso accade nella religio-
ne. Quante più cose l’uomo trasferisce in Dio, tanto meno egli ne ritiene in sé stesso. L’operaio
ripone la sua vita nell’oggetto; ma d’ora in poi la sua vita non appartiene più a lui, ma all’og-
getto. Quanto più grande è dunque questa attività, tanto più l’operaio è privo di oggetto.
30 Quello che è il prodotto del suo lavoro, non è egli stesso. Quanto più grande è dunque questo
prodotto, tanto più piccolo è egli stesso. L’alienazione dell’operaio nel suo prodotto significa
non solo che il suo lavoro diventa un oggetto, qualcosa che esiste all’esterno, ma che esso esi-
ste fuori di lui, indipendente da lui, a lui estraneo, e diventa di fronte a lui una potenza per sé
stante; significa che la vita che egli ha dato all’oggetto gli si contrappone ostile ed estranea.
35 Ed ora consideriamo più da vicino l’oggettivazione, la produzione dell’operaio, e in essa
l’estraniazione, la perdita dell’oggetto, del suo prodotto.
L’operaio non può produrre nulla senza la natura, senza il mondo esterno sensibile. Questa
è la materia su cui si realizza il suo lavoro, su cui il suo lavoro agisce, dal quale e per mezzo
del quale esso produce.
40 Ma come la natura fornisce al lavoro i mezzi di sussistenza, nel senso che il lavoro non può
sussistere senza oggetti su cui applicarsi; così essa, d’altra parte, fornisce pure i mezzi di sus-
sistenza in senso più stretto, cioè i mezzi per il sostentamento fisico dello stesso operaio.
Quindi quanto più l’operaio si appropria col proprio lavoro del mondo esterno, della natura
sensibile, tanto più egli si priva dei mezzi di sussistenza nella seguente duplice direzione:
45 prima di tutto, per il fatto che il mondo esterno cessa sempre più di essere un oggetto appar-
tenente al suo lavoro, un mezzo di sussistenza del suo lavoro, e poi per il fatto che lo stesso
mondo esterno cessa sempre più di essere un mezzo di sussistenza nel senso immediato, cioè
un mezzo per il suo sostentamento fisico.
In questa duplice direzione, dunque, l’operaio diventa uno schiavo del suo oggetto: in
50 primo luogo, perché egli riceve un oggetto da lavorare, cioè riceve un lavoro; in secondo

ESPOSITO-PORRO • © 2012, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI


706 percorsi tematici

luogo, perché riceve dei mezzi di sostentamento. E quindi, in primo luogo perché può esiste-
re come operaio, e in secondo luogo perché può esistere come soggetto fisico. Il colmo di que-
sto asservimento si ha quando egli si può mantenere come soggetto fisico soltanto in quanto
è operaio ed è operaio soltanto in quanto è soggetto fisico.
55 (Secondo le leggi dell’economia politica, l’estraniazione dell’operaio nel suo oggetto si
esprime nel fatto che quanto più l’operaio produce, tanto meno ha da consumare; quanto
maggior valore produce, tanto minor valore e minore dignità egli possiede; quanto più bello
è il suo prodotto, tanto più l’operaio diventa deforme; quanto più raffinato il suo oggetto,
tanto più egli s’imbarbarisce; quanto più potente il lavoro, tanto più egli diventa impotente;
60 quanto più il lavoro è spirituale, tanto più egli è diventato materiale e schiavo della natura).
L’economia politica nasconde l’estraniazione insita nell’essenza stessa del lavoro per il fatto che
non considera il rapporto immediato esistente tra l’operaio (il lavoro) e la produzione.
Certamente, il lavoro produce per i ricchi cose meravigliose; ma per gli operai produce sol-
tanto privazioni. Produce palazzi, ma per l’operaio spelonche. Produce bellezza, ma per l’ope-
65 raio deformità. Sostituisce il lavoro con macchine, ma ricaccia una parte degli operai in un
lavoro barbarico e trasforma l’altra parte in macchina. Produce cose dello spirito, ma per
l’operaio idiotaggine e cretinismo.
Il rapporto immediato esistente tra il lavoro e i suoi prodotti è il rapporto tra l’operaio e gli
oggetti della sua produzione. Il rapporto che il ricco ha con gli oggetti della produzione e con
70 la stessa produzione è soltanto una conseguenza di quel primo rapporto. E lo conferma. […]
Quando noi dunque ci domandiamo: qual è il rapporto essenziale del lavoro? La doman-
da che ci poniamo verte intorno al rapporto dell’operaio con la produzione.
Sinora abbiamo considerato l’estraniazione, l’alienazione dell’operaio da un solo lato, cioè
abbiamo considerato il suo rapporto coi prodotti del suo lavoro. Ma l’estraniazione si mostra
75 non soltanto nel risultato, ma anche nell’atto della produzione, entro la stessa attività produtti-
va. Come potrebbe l’operaio rendersi estraneo nel prodotto della sua attività, se egli non si
estraniasse da sé stesso nell’atto della produzione? Il prodotto non è altro che il “resumé” del-
l’attività, della produzione. Quindi, se prodotto del lavoro è l’alienazione, la produzione stes-
sa deve essere alienazione attiva, alienazione dell’attività, l’attività della alienazione.
80 Nell’estraniazione dell’oggetto del lavoro si riassume la estraniazione, l’alienazione che si
opera nella stessa attività del lavoro.
E ora, in che cosa consiste l’alienazione del lavoro?
Consiste prima di tutto nel fatto che il lavoro è esterno all’operaio, cioè non appartiene al
suo essere, e quindi nel suo lavoro egli non si afferma, ma si nega, si sente non soddisfatto,
85 ma infelice, non sviluppa una libera energia fisica e spirituale, ma sfinisce il suo corpo e
distrugge il suo spirito. Perciò l’operaio solo fuori del lavoro si sente presso di sé; e si sente
fuori di sé nel lavoro. E a casa propria se non lavora; e se lavora non è a casa propria. Il suo
lavoro quindi non è volontario, ma costretto, è un lavoro forzato. Non è quindi il soddisfaci-
mento di un bisogno, ma soltanto un mezzo per soddisfare bisogni estranei. La sua estranei-
90 tà si rivela chiaramente nel fatto che non appena vien meno la coazione fisica o qualsiasi altra
coazione, il lavoro viene fuggito come la peste. Il lavoro esterno, il lavoro in cui l’uomo si alie-
na, è un lavoro di sacrificio di sé stessi, di mortificazione. Infine l’esteriorità del lavoro per
l’operaio appare in ciò che il lavoro non è suo proprio, ma è di un altro. Non gli appartiene,
ed egli, nel lavoro, non appartiene a sé stesso, ma ad un altro. Come nella religione, l’attività
95 propria della fantasia umana, del cervello umano e del cuore umano influisce sull’individuo
indipendentemente dall’individuo, come un’attività estranea, divina o diabolica; così l’attivi-
tà dell’operaio non è la sua propria attività. Essa appartiene ad un altro; è la perdita di sé.
Ne viene quindi come conseguenza che l’uomo (l’operaio) si sente libero soltanto nelle sue
funzioni animali, come il mangiare, il bere, il procreare, e tutt’al più ancora l’abitare una casa
100 e il vestirsi; e invece si sente nulla più che una bestia nelle sue funzioni umane. Ciò che è ani-
male diventa umano, e ciò che è umano diventa animale.

ESPOSITO-PORRO • © 2012, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI


1 L’io in questione: la crisi del soggetto moderno 707
Certamente mangiare, bere e procreare sono anche funzioni schiettamente umane. Ma in
quell’astrazione, che le separa dalla restante cerchia dell’attività umana e le fa diventare scopi
ultimi ed unici, sono funzioni animali.
105 Abbiamo considerato l’atto dell’estraniazione dell’attività pratica dell’uomo, cioè il lavoro,
da due lati. 1. Il rapporto dell’operaio col prodotto del lavoro considerato come oggetto estra-
neo e oppressivo. Questo rapporto è ad un tempo il rapporto col mondo esterno sensibile,
con gli oggetti della natura, inteso come un mondo estraneo che gli sta di fronte in modo osti-
le. 2. Il rapporto del lavoro con l’atto della produzione entro il lavoro. Questo rapporto è il rap-
110 porto dell’operaio con la sua propria attività come attività estranea che non gli appartiene,
l’attività come passività, la forza come impotenza, la procreazione come svirilimento, l’ener-
gia fisica e spirituale propria dell’operaio, la sua vita personale – e infatti che [altro] è la vita
se non attività? – come un’attività rivolta contro di lui, da lui indipendente, e che non gli
appartiene. L’estraniazione di sé, come, prima, l’estraniazione della cosa. […]
115 Parimenti, il lavoro estraniato degradando a mezzo l’attività autonoma, l’attività libera, fa
della vita dell’uomo come essere appartenente ad una specie un mezzo della sua esistenza fisi-
ca. Per opera dell’alienazione, la coscienza, che l’uomo ha della sua specie, si trasforma quin-
di nel fatto che la sua vita di essere appartenente ad una specie diventa per lui un mezzo. Il
lavoro alienato fa dunque: 3. dell’essere dell’uomo, come essere appartenente ad una specie,
120 tanto della natura quanto della sua specifica capacità spirituale, un essere a lui estraneo, un
mezzo della sua esistenza individuale. Esso rende all’uomo estraneo il suo proprio corpo,
tanto la natura esterna, quanto il suo essere spirituale, il suo essere umano. 4. Una conse-
guenza immediata del fatto che l’uomo è reso estraneo al prodotto del suo lavoro, della sua
attività vitale, al suo essere generico, è l’estraniazione dell’uomo dall’uomo. Se l’uomo si con-
125 trappone a sé stesso, l’altro uomo si contrappone a lui. Quello che vale del rapporto dell’uo-
mo col suo lavoro, col prodotto del suo lavoro e con sé stesso, vale del rapporto dell’uomo
con l’altro uomo, ed altresì col lavoro e con l’oggetto del lavoro dell’altro uomo. In generale,
la proposizione che all’uomo è reso estraneo il suo essere in quanto appartenente a una spe-
cie, significa che un uomo è reso estraneo all’altro uomo, e altresì che ciascuno di essi è reso
130 estraneo all’essere dell’uomo. L’estraniazione dell’uomo, in generale ogni rapporto in cui l’uo-
mo è con sé stesso, si attua e si esprime
soltanto nel rapporto in cui l’uomo è

guida alla lettura


1. In che cosa consiste, per Marx, l’estraniazione o alie-
con l’altro uomo. Dunque nel rapporto nazione?
del lavoro estraniato ogni uomo consi-
2. Quali sono i tre livelli in cui si realizza tale estraniazione?
135 dera gli altri secondo il criterio e il rap-
porto in cui egli stesso si trova come 3. Quali conseguenze essa produce nella vita dell’operaio?
lavoratore.

T2 Friedrich Nietzsche Dall’io al superuomo


Al di là del bene e del male, cap. 1, §§ 16, 17; cap. 3, § 54; Così parlò Zarathustra,
Prefazione di Zarathustra, § 3
Anche il pensiero di Nietzsche costituisce un l’intera tradizione che ha considerato il soggetto
momento di primaria importanza nel processo di come il centro noetico della realtà. Agli occhi di
critica dell’io qual era stato codificato dalla filosofia Nietzsche, esso non è né il portatore autoevidente
moderna. Nella sua radicale contestazione della del pensiero (l’io del cogito), né il centro unificatore
soggettività – come emerge dai brani tratti da (l’io penso) di ciò che viene pensato. L’io è solo
Al di là del bene e del male, uno scritto pubblicato un’invenzione illusoria o, tutt’al più, una
nel 1886 – Nietzsche non si oppone soltanto all’idea supposizione dei filosofi: essi, infatti, erroneamente
cartesiana e idealistica dell’io, ma prende di mira convinti che i pensieri siano effetti e che ogni effetto

ESPOSITO-PORRO • © 2012, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI


708 percorsi tematici

presupponga una causa, hanno ammesso o radicati in qualcosa cui si possa attribuire il nome
l’esistenza di un io-sostanza come principio causale di “io”. Qualcosa pensa, dunque… (è solo a questo
di ciò che esso pensa. In realtà, secondo Nietzsche, che si dovrebbe limitare il cogito di Nietzsche!); ma
l’uomo non dispone di alcun indizio che lo assicuri questo qualcosa, se c’è, resta ignoto al pensiero
del fatto che a pensare sia realmente l’io o umano, soprattutto se esso pretende di coglierlo in
il soggetto, né che lo si debba intendere come virtù di quella certezza immediata che la filosofia
sostanza o come causa. Si danno solo pensieri, moderna ha identificato come la principale proprietà
ma ciò non implica che essi siano causati, unificati della coscienza.

Dei pregiudizi dei filosofi


16. Continuano ancora ad esistere ingenui osservatori di sé, i quali credono che vi siano “cer-
tezze immediate”, per esempio “io penso”1, o, come era la superstizione di Schopenhauer, “io
voglio”: come se qui il conoscere potesse afferrare puro e nudo il suo oggetto, quale “cosa in
sé”, e non potesse aver luogo una falsificazione né da parte del soggetto, né da parte dell’og-
5 getto. Ma non mi stancherò di ripetere che “certezza immediata”, così come “assoluta cono-
scenza” e “cosa in sé”, comportano una contradictio in adjecto2: ci si dovrebbe pure sbarazza-
re, una buona volta, della seduzione delle parole! Creda pure fin che vuole il volgo, che cono-
scere sia un conoscere esaustivo; il filosofo deve dirsi: se scompongo il processo che si espri-
me nella proposizione “io penso”, ho una serie di asserzioni temerarie, la giustificazione delle
10 quali mi è difficile, forse impossibile, – come per esempio, che sia io a pensare, che debba esi-
stere un qualcosa, in generale, che pensi, che pensare sia un’attività e l’effetto di un essere che
è pensato come causa, che esista un “io”, infine, che sia già assodato che cos’è caratterizzabi-
le in termini di pensiero, – che io sappia che cos’è pensare. Se io, infatti, non mi fossi già ben
deciso al riguardo, su quale base potrei giudicare che quanto appunto mi sta accadendo non
15 sia forse un “volere” o un “sentire”? Ebbene, quell’“io penso” presuppone il confronto del mio
stato attuale con altri stati che io conosco a me attinenti, al fine di stabilire che cosa esso sia:
a causa di questo rinvio a un diverso “sapere”, esso non ha per me, in nessun caso, un’imme-
diata certezza. – Al posto di quella “certezza immediata”, alla quale il popolo, nel caso in que-
stione, può credere, il filosofo si ritrova in tal modo nelle mani una serie di problemi della
20 metafisica, vere e proprie questioni di coscienza dell’intelletto, che così si formulano: “Donde
prendo il concetto del pensare? Perché credo a causa ed effetto? Che cosa mi dà il diritto di
parlare d’un io e perfino d’un io come causa, e infine ancora d’un io come causa dei pensie-
ri?”. Chi, richiamandosi a una specie d’intuizione della conoscenza, si sentisse così fiducioso
da rispondere, come fa colui che dice: “Io penso e so che questo almeno è vero, reale, certo”
25 – troverebbe oggi pronti in un filosofo un sorriso e due punti interrogativi: “Signor mio, gli
farebbe forse capire il filosofo, è improbabile che lei non si sbagli: ma perché poi verità a tutti
i costi?”.
17. Per quanto riguarda la superstizione dei logici, non mi stancherò mai di tornare sem-
pre a sottolineare un piccolo, esiguo dato di fatto, che malvolentieri questi superstiziosi sono
30 disposti ad ammettere, – vale a dire, che un pensiero viene quando è “lui” a volerlo, e non
quando “io” lo voglio; cosicché è una falsificazione dello stato dei fatti dire: il soggetto “io” è
la condizione del predicato “penso”. Esso pensa: ma che questo “esso” sia proprio quel famo-
so vecchio “io” è, per dirlo in maniera blanda, soltanto una supposizione, un’affermazione,
soprattutto non è affatto una “certezza immediata”. E infine, già con questo “esso pensa” si è
35 fatto anche troppo: già questo “esso” contiene un’interpretazione del processo e non rientra

1. Nietzsche fa qui riferimento “contraddizione in termini”. Per plicemente false e inammissibili,


all’“io penso” di Kant. Nietzsche, quindi, la cosa in sé e le ma addirittura contraddittorie.
2. Questa espressione designa nel nozioni di conoscenza assoluta e di
lessico scolastico medievale una certezza immediata non sono sem-

ESPOSITO-PORRO • © 2012, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI


1 L’io in questione: la crisi del soggetto moderno 709
nel processo stesso3. Si conclude a questo punto, secondo la consuetudine grammaticale:
“Pensare è un’attività, a ogni attività compete qualcuno che sia attivo, di conseguenza…”.
Pressappoco secondo uno schema analogo il più antico atomismo cercava, oltre alla “forza”
che agisce, anche quel piccolo conglomerato di materia in cui essa risiede, da cui promana la
40 sua azione, l’atomo; cervelli più rigorosi impararono infine a trarsi d’impaccio senza questo
“residuo terrestre” e forse un bel giorno ci si abituerà ancora, anche da parte dei logici, a
cavarsela senza quel piccolo “esso” (nel quale si è volatilizzato l’onesto, vecchio io).
54. Ma che cosa fa, in fondo, l’intera filosofia moderna? Da Descartes in poi – e, per la veri-
tà, più per dispetto contro di lui che sulla base del suo esempio – da parte di tutti i filosofi,
45 sotto l’apparenza di una critica al concetto di soggetto e di predicato, si perpetra un attenta-
to contro l’antico concetto di anima, – vale a dire: un attentato al presupposto fondamentale
della dottrina cristiana. In quanto scepsi4 gnoseologica, la filosofia moderna è, occultamente
o apertamente, anticristiana: sebbene, sia detto per orecchie più delicate, non sia in alcun
modo antireligiosa. Una volta, infatti, si credeva all’“anima”, come si credeva alla grammati-
50 ca e al soggetto grammaticale: si diceva, “io” è condizione, “penso” è predicato e condiziona-
to – il pensare è un’attività per la quale un soggetto deve essere pensato come causa. Si cercò
allora, con un’ostinazione e un’astuzia mirabili, se non fosse possibile districarsi da questa
rete, ci si domandò se non fosse vero caso mai il contrario: “penso” condizione, “io” condi-
zionato; “io” dunque soltanto una sintesi che viene fatta dal pensiero stesso. Kant voleva
55 dimostrare, in fondo, che partendo dal soggetto, il soggetto non può essere dimostrato – e
neppure l’oggetto: pare non gli sia stata sempre ignota la possibilità di una esistenza apparen-
te del soggetto, quindi dell’“anima”, quel pensiero cioè che […] già una volta e con un
immenso potere è esistito sulla terra.

3. Con queste affermazioni Nietz- pensieri a prescindere da una sog- 4. Cioè: procedimento dubitativo.
sche sottrae all’io il dominio del pen- gettività che li pensi, nega l’identità
sato e, ammettendo l’esistenza di classica tra soggetto e coscienza.

Nietzsche non si limita a descrivere la perdita o esperienze fondamentali (la verità, il bene,
di certezza e di autoevidenza dell’io moderno: la felicità) che si presumeva illusoriamente
egli intende portare tale perdita all’estremo costituissero degli ideali più grandi dell’uomo stesso,
e indurre un nuovo, inaudito passo del pensiero, e che invece si rivelano spietatamente piccoli come
dall’io all’oltre-io, dall’uomo al superuomo. lui. L’unica grandezza dell’uomo sta invece per
Nel brano seguente, tratto da Così parlò Zarathustra Nietzsche nel superare sé stesso: non dirigendosi
(scritto tra il 1883 e il 1885), Nietzsche assume verso qualcosa o qualcuno che stia al di là di esso,
la crisi del soggetto come disprezzo di sé da parte ma decidendosi per sé stesso, come una vera
dell’uomo, una sorta di disgusto di tutti quei valori potenza, che si rifiuta ad ogni ideale ultraterreno.

Giunto nella città vicina, sita presso le foreste, Zarathustra vi trovò radunata sul mercato una
gran massa di popolo: era stata promessa infatti l’esibizione di un funambolo. E Zarathustra
parlò così alla folla:
Io vi insegno il superuomo. L’uomo è qualcosa che deve essere superato. Che avete fatto per
5 superarlo?
Tutti gli esseri hanno creato qualcosa al di sopra di sé: e voi volete essere il riflusso in que-
sta grande marea e retrocedere alla bestia piuttosto che superare l’uomo?
Che cos’è per l’uomo la scimmia? Un ghigno o una vergogna dolorosa. E questo appunto
ha da essere l’uomo per il superuomo: un ghigno o una dolorosa vergogna.
10 Avete percorso il cammino dal verme all’uomo, e molto in voi ha ancora del verme. In pas-
sato foste scimmie, e ancor oggi l’uomo è più scimmia di qualsiasi scimmia.
E il più saggio tra voi non è altro che un’ibrida disarmonia di pianta e spettro. Voglio forse
che diventiate uno spettro o una pianta?

ESPOSITO-PORRO • © 2012, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI


710 percorsi tematici

Ecco, io vi insegno il superuomo!


15 Il superuomo è il senso della terra. Dica la vostra volontà: sia il superuomo il senso della
terra!
Vi scongiuro, fratelli, rimanete fedeli alla terra e non credete a quelli che vi parlano di
sovraterrene speranze!
Lo sappiano o no: costoro esercitano il veneficio.
20 Dispregiatori della vita essi sono, moribondi e avvelenati essi stessi, hanno stancato la
terra: possano scomparire!
Un tempo il sacrilegio contro Dio era il massimo sacrilegio, ma Dio è morto, e così sono
morti anche tutti questi sacrileghi. Commettere il sacrilegio contro la terra, questa è oggi la
cosa più orribile, e apprezzare le viscere dell’imperscrutabile più del senso della terra!
25 In passato l’anima guardava al corpo con disprezzo: e questo disprezzo era allora la cosa
più alta: – essa voleva il corpo macilento, orrido, affamato. Pensava, in tal modo, di poter
sfuggire al corpo e alla terra.
Ma questa anima era anch’essa macilenta, orrida e affamata: e crudeltà era la voluttà di
questa anima!
30 Ma anche voi, fratelli, ditemi: che cosa manifesta il vostro corpo dell’anima vostra? Non è
forse la vostra anima indigenza e feccia e miserabile benessere?
Davvero, un fiume immondo è l’uomo. Bisogna essere un mare per accogliere un fiume
immondo, senza diventare impuri.
Ecco, io vi insegno il superuomo: egli è il mare, nel quale si può inabissare il vostro gran-
35 de disprezzo.
Qual è la massima esperienza che possiate vivere? L’ora del grande disprezzo. L’ora in cui
vi prenda lo schifo anche per la vostra felicità e così pure per la vostra ragione e la vostra
virtù.
L’ora in cui diciate: “Che importa la mia felicità! Essa è indigenza e feccia e un miserabile
40 benessere. Ma la mia felicità dovrebbe giustificare persino l’esistenza!”.
L’ora in cui diciate: “Che importa la mia ragione! Forse che essa anela al sapere come il
leone al suo cibo? Essa è indigenza e feccia e un miserabile benessere!”.
L’ora in cui diciate: “Che importa la mia virtù! Finora non mi ha mai reso furioso. Come
sono stanco del mio bene e del mio male! Tutto ciò è indigenza e feccia e benessere misera-
45 bile!”.
L’ora in cui diciate: “Che importa la mia giustizia! Non mi vedo trasformato in brace
ardente! Ma il giusto è brace ardente!”.
L’ora in cui diciate: “Che importa la mia compassione! Non è forse la compassione la croce
cui viene inchiodato chi ama gli uomini? Ma la mia compassione non è crocefissione”.
50 Avete già parlato così? Avete mai gridato così? Ah, vi avessi già udito gridare così!
Non il vostro peccato – la vostra
accontentabilità grida al cielo, la vostra
guida alla lettura

1. Qual è la critica di Nietzsche alla nozione moderna di


parsimonia nel vostro peccato grida al soggetto?
cielo!
2. A quali autori fa riferimento nel contesto della sua cri-
55 Ma dov’è il fulmine che vi lambisca tica? E con quali argomenti?
con la sua lingua! Dov’è la demenza che
3. Che cosa intende Nietzsche quando parla di “supe-
dovrebbe esservi inoculata? ruomo”?
Ecco, io vi insegno il superuomo:
4. Perché l’uomo deve superare sé stesso?
egli è quel fulmine e quella demenza!

ESPOSITO-PORRO • © 2012, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI


1 L’io in questione: la crisi del soggetto moderno 711

T3 Sigmund Freud L’Io, il conscio, l’inconscio


L’Io e l’Es, §§ 1-3

Al di là delle differenze di impostazione che “superficie” dell’io cosciente, un livello preconscio


caratterizzano i diversi sistemi filosofici e pur (quanto cioè è stato rimosso dalla coscienza, ma
tenendo conto delle dovute eccezioni, si può dire permane latente e sempre in prossimità di divenire
che il pensiero moderno ha promosso una nozione conscio) e il vero e proprio inconscio, che Freud
di soggetto essenzialmente o tendenzialmente chiamerà «Es» (il pronome personale neutro, che
coincidente con l’essere-cosciente. Se così è, se cioè esprime quella passività che sta al fondo di ogni vita
l’identità io-coscienza costituisce, in età moderna, il psichica). L’intera opera di Freud è il tentativo
cuore della soggettività, allora il pensiero di Freud sempre rinnovato e continuamente approfondito
configura una delle più radicali contestazioni del di districare l’involuto mistero della vita psichica:
soggetto di cui fino ad allora avevano parlato i sui temi della coscienza, dell’inconscio e del
filosofi. L’intero edificio della psicoanalisi si fonda preconscio egli torna infatti in quasi tutti i suoi
infatti sulla convinzione che l’io non si riduca alla scritti. Leggiamo qui un passo di un’opera
sola coscienza: agli occhi di Freud la coscienza è pubblicata nel 1922, L’Io e l’Es, in cui si trova
solo una parte, e neppure la più estesa, della vita esposta in forma sistematica una delle dottrine
psichica. Quest’ultima infatti include in sé, sotto la fondamentali della psicoanalisi.

Coscienza e inconscio
La distinzione dello psichico in ciò che è cosciente e ciò che è inconscio è il presupposto fon-
damentale della psicoanalisi; solo questa distinzione le consente di comprendere e inserire in
una sistemazione scientifica i così frequenti e importanti processi patologici della vita psichica.
Per dirlo ancora una volta con altre parole, la psicoanalisi non può far consistere l’essenza dello
5 psichico nella coscienza, ed è invece indotta a considerare la coscienza come una delle qualità
dello psichico, che può aggiungersi ad altre qualità ma che può anche rimanere assente.
[…] Per la maggior parte di coloro che hanno una formazione filosofica, l’idea di alcun-
ché di psichico che non sia anche cosciente è talmente inconcepibile da apparire assurda e
suscettibile di esser confutata in base ai puri princìpi della logica. Penso che ciò dipenda dal
10 fatto che costoro non hanno mai studiato i tipici fenomeni dell’ipnosi e del sogno, i quali –
anche a prescindere dalla patologia – conducono necessariamente a questa nostra concezio-
ne. La psicologia della coscienza che costoro seguono rimane però impotente a risolvere i
problemi del sogno e dell’ipnosi.
“Esser cosciente” è innanzitutto un termine puramente descrittivo, che si richiama alla
15 percezione più immediata e più certa. L’esperienza ci mostra poi che un elemento psichico,
per esempio una rappresentazione, non è in genere cosciente in modo durevole. È tipico inve-
ce che questo suo esser cosciente scompaia rapidamente; la rappresentazione che ora è
cosciente, un momento dopo non lo è più, anche se, in condizioni facilmente ripristinabili,
può ridiventarlo. Nel frattempo tale rappresentazione è stata non sappiamo bene che cosa.
20 Possiamo dire che è stata latente, intendendo con ciò che è rimasta in ogni momento capace
di farsi cosciente. Anche se diciamo che è stata inconscia la descrizione è corretta. Questo
inconscio coincide allora con il latente o capace di farsi cosciente. I filosofi potrebbero obiet-
tare: “No, il termine inconscio non può essere qui adoperato; fintantoché la rappresentazio-
ne è rimasta allo stato di latenza, non è stata comunque alcunché di psichico”. E se ci met-
25 tessimo fin d’ora a contraddirli, ci imbarcheremmo in una disputa puramente verbale, dalla
quale non si ricaverebbe un bel niente. Tuttavia noi siamo pervenuti al termine, o al concet-
to di inconscio, per una via diversa, grazie all’elaborazione di determinate esperienze nelle
quali entra in giuoco la “dinamica” psichica. Abbiamo imparato, o meglio siamo stati costret-
ti ad ammettere, che esistono processi psichici o rappresentazioni molto forti – ecco che viene
30 introdotta la considerazione di un fattore quantitativo, e dunque economico –, le quali sono
capaci di produrre nella vita psichica tutti gli effetti delle rappresentazioni comuni (compre-

ESPOSITO-PORRO • © 2012, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI


712 percorsi tematici

si quegli effetti che a loro volta possono diventare coscienti in qualità di rappresentazioni),
pur senza diventare esse stesse coscienti. Non occorre ripetere qui nei particolari quanto è già
stato descritto assai spesso. Basti dire che la teoria psicoanalitica, a questo proposito, afferma
35 e sostiene che queste rappresentazioni non possono divenire coscienti perché una certa forza
vi si oppone, che esse altrimenti diverrebbero coscienti, e che in tal caso si costaterebbe quan-
to poco differiscono da altri elementi psichici riconosciuti come tali. Questa teoria diventa
incontestabile per il fatto che nella tecnica psicoanalitica sono stati trovati mezzi grazie ai
quali la forza contrastante può essere soppressa e possono essere rese coscienti le rappresen-
40 tazioni in questione. Chiamiamo rimozione lo stato in cui tali rappresentazioni si trovano
prima di diventare coscienti; quanto alla forza che ha prodotto e mantenuto attiva la rimozio-
ne, diciamo di avvertirla, durante il lavoro analitico, come una resistenza.
Ricaviamo dunque il nostro concetto di inconscio dalla dottrina della rimozione. Il rimos-
so è per noi il modello dell’inconscio. Costatiamo però di avere due specie di inconscio: il
45 latente che è tuttavia capace di divenire cosciente, e il rimosso che in quanto tale e di per sé
non è capace di divenire cosciente. Questa nostra visione della dinamica psichica non può
non influenzare la nomenclatura e il modo di descrivere i fatti. Diciamo preconscio ciò che è
latente, e cioè inconscio solo dal punto di vista descrittivo e non in senso dinamico1; riservia-
mo invece a ciò che è rimosso e dinamicamente inconscio la denominazione di inconscio2.
50 Abbiamo in tal modo tre termini: cosciente (c), preconscio (prec) e inconscio in senso non
più meramente descrittivo (inc). Riteniamo che il Prec sia molto più vicino al C di quanto lo
sia l’Inc; e poiché abbiamo detto psichico l’Inc, a maggior ragione e senza esitare diremo altret-
tanto a proposito del Prec latente. […]
Proseguendo nel lavoro analitico si costata però che anche queste distinzioni sono inade-
55 guate e insufficienti dal punto di vista pratico. Fra le situazioni che testimoniano questo fatto,
sceglierò la seguente che mi appare decisiva. Ci siamo fatti l’idea che esista nella persona un
nucleo organizzato e coerente di processi psichici che chiamiamo l’Io di quella persona. A tale
Io è legata la coscienza; esso domina le vie d’accesso alla motilità, ossia alla scarica degli ecci-
tamenti nel mondo esterno; l’Io è quell’istanza psichica che esercita un controllo su tutti i
60 processi parziali, è l’istanza psichica che di notte va a dormire e che anche allora esercita la
censura onirica. Provengono da questo Io anche le rimozioni mediante le quali alcune ten-
denze psichiche non soltanto rimangono escluse dalla coscienza, ma anche dagli altri modi
di agire e di farsi valere. Ciò che viene messo da parte mediante la rimozione si contrappone
all’Io durante l’analisi, e compito dell’analisi è eliminare le resistenze che l’Io manifesta a
65 occuparsi del rimosso. Ora, durante l’analisi ci vien fatto di osservare che l’ammalato al quale
poniamo determinati compiti si trova in difficoltà: le associazioni vengono meno quando
dovrebbero avvicinarsi al rimosso. Gli diciamo allora che è dominato da una resistenza; egli
però non ne sa nulla, e anche quando i sentimenti spiacevoli che avverte dovrebbero fargli
comprendere che una resistenza sta ora agendo in lui, non sa come chiamarla e descriverla.
70 Dato però che questa resistenza proviene certamente dal suo Io e ad esso pertiene, ci trovia-
mo di fronte a una situazione che non avevamo previsto. […] Costatiamo che l’Inc non coin-
cide col rimosso; rimane esatto asserire che ogni rimosso è inc, ma non che ogni Inc è rimos-
so. Anche una porzione dell’Io, una porzione Dio sa quanto importante dell’Io, può essere, e
anzi indubitabilmente è inc. E questo Inc dell’Io non è latente nel senso del Prec, giacché se
75 così fosse non dovrebbe poter diventare attivo senza farsi c, né il suo farsi cosciente dovreb-
be dar luogo a difficoltà cosi grandi3. Costretti quindi a istituire una terza specie di Inc non

1. Il preconscio, cioè, esiste in ma- agisce sulla vita psichica dell’io. una forza nell’Io), ma al tempo
niera nascosta (latente), ma non 3. L’inconscio, dunque, è dinamica- stesso, a differenza del preconscio,
agisce; per poter agire, infatti, deve mente presente nell’Io, fa parte di non agisce diventando cosciente,
diventare cosciente. esso: non è semplicemente rimos- bensí restando inconscio. In altre
2. L’inconscio vero e proprio esiste so, altrimenti non avrebbe funzione parole, l’Io è insieme conscio e in-
come rimosso, ma, al tempo stesso, dinamica (cioè non agirebbe come conscio.

ESPOSITO-PORRO • © 2012, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI


1 L’io in questione: la crisi del soggetto moderno 713
rimosso, dobbiamo riconoscere che il carattere dell’essere inconscio viene a perdere per noi
in significato. Si riduce a una qualità plurivoca che non consente di trarre quelle ampie e rigo-
rose conclusioni per le quali avremmo voluto utilizzarlo. D’altronde dobbiamo anche guar-
80 darci dal trascurare questo carattere, posto che alla fin fine la proprietà dell’essere o no
cosciente rappresenta l’unico faro nella tenebra della psicologia del profondo.

L’Io e l’Es
La ricerca in campo patologico ha fatto sì che il nostro interesse si rivolgesse in modo trop-
po esclusivo al rimosso. Ora che sappiamo che anche l’Io può essere inconscio nel vero senso
della parola, vorremmo conoscerlo meglio. Nel corso delle nostre indagini l’unico punto di
riferimento è stato fino ad ora il contrassegno dell’essere cosciente o inconscio; ma abbiamo
5 veduto come tale indicazione possa assumere più di un significato.
Va detto che tutto il nostro sapere è invariabilmente legato alla coscienza. Anche l’Inc pos-
siamo imparare a conoscerlo solo rendendolo cosciente. Un momento: ma come è possibile
questo? Che cosa significa “rendere cosciente qualche cosa”? Com’è che ciò può avvenire?
Sappiamo già da dove dobbiamo partire. Abbiamo detto che la coscienza costituisce la
10 superficie dell’apparato psichico; l’abbiamo cioè attribuita, in quanto funzione, a un sistema
spazialmente collocato al primo posto, se si procede dal mondo esterno. Spazialmente non
solo in senso funzionale, del resto, ma questa volta anche nel senso della dissezione anatomi-
ca. Anche la presente indagine deve partire da questa superficie percipiente.
Innanzitutto sono c [conscie] tutte le percezioni: quelle che ci giungono dall’esterno (le per-
15 cezioni sensoriali) e quelle che provengono dall’interno, e che chiamiamo sensazioni e senti-
menti. Come stanno però le cose con quei processi interni che – in modo rozzo e impreciso –
possiamo indicare globalmente come processi di pensiero? Essi si producono in qualche luogo
all’interno dell’apparato come spostamenti di energia psichica sulla via dell’azione. Orbene
sono questi processi ad affacciarsi alla superficie dove si origina la coscienza? Oppure è la
20 coscienza che giunge fino ad essi? È qui visibile una delle difficoltà che si incontrano quando
si voglia prendere sul serio la rappresentazione spaziale, topica, dell’accadere psichico.
Entrambe le possibilità sono ugualmente inconcepibili, e dev’esserci una terza soluzione. […]
Mi sembra che si possa trarre un gran vantaggio seguendo il suggerimento di un autore il
quale, per motivi personali, si ostina invano a dichiarare di non avere nulla a che fare con la
25 scienza, intesa nel suo significato più rigoroso ed elevato. Mi riferisco a Georg Groddeck4, il
quale ripetutamente insiste nel concetto che ciò che chiamiamo il nostro Io si comporta nella
vita in modo essenzialmente passivo, e che – per usare la sua espressione – noi veniamo “vis-
suti” da forze ignote ed incontrollabili.
Abbiamo tutti provato tali impressioni, anche se esse non ci hanno sopraffatto al punto di
30 farci escludere tutto il resto. Noi speriamo di trovare nel contesto della scienza il posto che
compete alla concezione di Groddeck. Propongo di tenerne conto chiamando “l’Io” quell’en-
tità che scaturisce dal sistema p [= percezione] e comincia col diventare prec; ma di chiamare
l’altro elemento psichico in cui l’Io si continua e che si comporta in maniera inc, l’“Es” nel
senso di Groddeck. […] Un individuo è dunque per noi un Es psichico, ignoto e inconscio,
35 sul quale poggia nello strato superiore l’Io, sviluppatosi dal sistema P come da un nucleo.

4. Georg Groddeck (1866-1934) era suoi studi sull’inconscio e per l’ap- cura delle malattie cosiddette psi-
un medico tedesco celebre per i plicazione della psicoanalisi alla cosomatiche.

Il rapporto tra l’Io e l’Es non spiega secondo Freud nell’introiezione e nell’assimilazione, come precetto
soltanto l’azione dell’inconscio nella storia di ogni morale, di quel “complesso edipico” che ciascuno
io psichico, ma anche la formazione di quell’istanza attraversa nella sua infanzia, ovvero del divieto,
ideale all’interno della vita del soggetto psichico rappresentato dal padre, di unirsi sessualmente
che egli denomina «Super-Io». Esso consiste con la propria madre.

ESPOSITO-PORRO • © 2012, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI


714 percorsi tematici

L’Io e il Super-Io (ideale dell’Io)


È stato mosso infinite volte alla psicoanalisi il rimprovero di non curarsi di ciò che nell’uo-
mo vi è di più alto, di morale, di superiore alla persona singola. […] Ora, giacché ci stiamo
avventurando nell’analisi dell’Io, possiamo rispondere così a tutti coloro i quali – scossi nella
loro coscienza etica – hanno protestato che deve pur trovarsi nell’uomo qualche cosa di supe-
5 riore: “Certo che c’è. E questo qualche cosa è l’essere superiore, l’ideale dell’Io, o Super-io, il
rappresentante del nostro rapporto con i genitori. Da bambini piccoli abbiamo conosciuto,
ammirato e temuto questi esseri superiori, e più tardi li abbiamo assunti dentro di noi”.
L’ideale dell’Io è dunque l’erede del complesso edipico, e costituisce pertanto l’espressione
dei più potenti impulsi e degli sviluppi libidici più importanti dell’Es. Mediante la costituzio-
10 ne di tale ideale, l’Io è riuscito a padroneggiare il complesso edipico, e nello stesso tempo si
è sottomesso all’Es. Mentre l’Io è essenzialmente il rappresentante del mondo esterno, della
realtà, il Super-io gli si erge contro come avvocato del mondo interiore, dell’Es. I conflitti fra
l’Io e l’ideale – ora siamo preparati a questo – rispecchieranno, in ultima analisi, il contrasto
fra reale e psichico, fra mondo esterno e mondo interiore.
15 Ciò che la biologia e le vicende della specie umana hanno creato e depositato nell’Es,
viene, attraverso la formazione dell’ideale, assunto dall’Io e individualmente rivissuto per
esso. L’ideale dell’Io, per le vicende che hanno condotto alla sua formazione, si riallaccia sotto
molteplici aspetti alle acquisizioni filogenetiche, e cioè all’eredità arcaica dell’individuo sin-
golo5. Ciò che ha appartenuto alla
20 dimensione più profonda della vita psi-

guida alla lettura


1. In che modo Freud descrive il rapporto tra vita psichi-
chica individuale, si trasforma, median- ca e coscienza?
te la formazione dell’ideale, in quelli 2. In che rapporto stanno il preconscio e l’inconscio con
che noi riteniamo i valori più alti dello l’Io?
spirito umano. 3. Qual è la “natura” dell’Es?
4. Che rapporto sussiste tra Io, Es e Super-io?
5. Come si formano gli ideali morali nella vita psichica del
soggetto umano?
5. La “filogenesi” indica l’evoluzione della specie
umana nel corso della storia, mentre l’evoluzione 6. Che cosa lega il complesso edipico e i valori più alti del-
del singolo individuo è chiamata “ontogenesi”. lo spirito umano?

T4 Edmund Husserl La coscienza come essere assoluto


Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, libro I, § 49

Il tentativo più importante di riaffermare la datità originaria, solo nell’intenzione dell’io, grazie
centralità del soggetto umano come coscienza alla quale emerge l’essenza della realtà. Da un lato,
razionale è senza dubbio quello compiuto all’inizio dunque, Husserl afferma che le cose vanno intese
del Novecento da Edmund Husserl. Non si tratta di così come si danno in sé stesse, purificate e liberate
un puro e semplice ritorno alla visione dell’io come da tutti i pregiudizi che provengono del soggetto
sostanza pensante o come attività trascendentale, conoscente; ma, dall’altro lato, è solo nella
bensì di una rivisitazione di quelle prospettive coscienza pura dell’io che tale oggettività diviene
aperte in filosofia da Descartes e da Kant, seguendo possibile, appunto perché l’io non è nulla di
però un filo conduttore diverso, vale a dire “psicologico” (cioè non è un ente di tipo
il carattere “intenzionale” dei vissuti dell’io. naturalistico, come appunto sarebbe il nostro
Il soggetto è sempre in rapporto costitutivo con meccanismo mentale e cerebrale), ma è una sfera
cose che sono altro da sé, ma il significato di queste d’essere originaria e assoluta. Così, nel I libro delle
cose può emergere in carne ed ossa, cioè nella loro Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia

ESPOSITO-PORRO • © 2012, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI


1 L’io in questione: la crisi del soggetto moderno 715

fenomenologica (1913), da cui è tratto il brano assolutamente esistente. Essa infatti è ciò che
che segue, si arriva alla conclusione paradossale necessariamente rimane (il “residuo”) una volta
che quand’anche pensassimo il mondo come non che si sia per ipotesi sospesa ogni altra conoscenza
esistente (giacché il mondo non è semplicemente naturale del mondo. La coscienza di cui parla
ciò che si trova al di fuori di noi, ma il correlato Husserl non è dunque sottratta alla crisi del
delle nostre esperienze vissute), non potremo soggetto, ma al contrario l’assume dentro
tuttavia mai pensare la coscienza se non come di sé e si afferma proprio in virtù di quella crisi.

La coscienza assoluta come residuo dell’annientamento del mondo


L’esistenza di un mondo è il correlato di determinate varietà d’esperienza, che si distinguono
in virtù di certe strutture essenziali. Ma non è affatto cosa evidente che le attuali esperienze
possano decorrere soltanto conformemente a forme di connessione; ciò non può essere desun-
to puramente dall’essenza della percezione in generale e dalle altre specie di esperienze intui-
5 tive che cooperano alla percezione. Si può al contrario certamente pensare che l’esperienza, a
causa dei conflitti, si dissolva in parvenza, e non soltanto in casi singoli; si può pensare che
ogni parvenza, a differenza di come di fatto avviene, non annunci una verità più profonda e
che ogni conflitto non dia luogo, grazie a nessi più comprensivi, al mantenimento della com-
plessiva concordanza dell’esperienza; si può anche pensare che nell’esperire brulichino con-
10 flitti insanabili non solo per noi, ma insanabili in sé stessi, che l’esperienza si mostri all’im-
provviso riluttante di fronte alla nostra pretesa di conservare la concordanza tra le sue posi-
zioni di cose, che la sua connessione perda le regole fisse che ordinano gli adombramenti, le
apprensioni, le manifestazioni – che non ci sia più un mondo. Al suo posto potrebbero costi-
tuirsi delle rudimentali formazioni unitarie, effimeri punti d’arresto di intuizioni che sareb-
15 bero meri analoga delle intuizioni delle cose, poiché sarebbero del tutto inette a costituire
delle “realtà” stabili, delle unità durevoli, che “esistano in sé siano o non siano percepite”.
Se […] pensiamo […] alla possibilità del non essere, inclusa nell’essenza di ogni trascen-
denza di cosa, diviene evidente che l’essere della coscienza, di ogni corrente di vissuti in gene-
rale, verrebbe sì necessariamente modificato da un annientamento del mondo delle cose, ma non
20 ne sarebbe toccato nella sua propria esistenza. Sarebbe senza dubbio modificato. Infatti dal
punto di vista correlativo della coscienza, l’annientamento del mondo non significa altro che
da ogni corrente di vissuti (dalla corrente complessiva dei vissuti di un io, presa nella sua
totalità, cioè bilateralmente infinita) verrebbero escluse certe ordinate connessioni d’espe-
rienza e corrispondentemente le connessioni istituite della ragione teorizzante orientata con-
25 formemente a queste concatenazioni di esperienza. Invece questa reclusione non impliche-
rebbe quella di altri vissuti e altre connessioni di vissuti. Dunque nessun essere reale, tale cioè
che si presenti e si esibisca coscienzialmente mediante manifestazioni, è necessario all’essere
della coscienza stessa (nel senso amplissimo di corrente di vissuti).
L’essere immanente è dunque indubitabilmente essere assoluto nel senso che per principio nulla
30 “re” indiget ad existendum1.
D’altra parte, il mondo della res trascendente è interamente riferito alla coscienza. Ma non a
una coscienza concepita logicamente, bensì ad una coscienza attuale.
[…]
Noi dunque vediamo che la coscienza (il vissuto) e l’essere reale non sono affatto modi di
35 essere posti sul medesimo piano, che stiano pacificamente l’uno accanto all’altro e all’occasio-
ne “entrino in rapporti” o addirittura “si intreccino” l’uno con l’altro. A rigore possono intrec-
ciarsi e formare un intero solo esseri che siano affini per essenza, e di cui sia l’uno che l’altro
abbiano una propria essenza nel medesimo senso. Ora, anche se l’essere immanente o assolu-
to e quello trascendente vengono entrambi detti “esistenti” e “oggetti”, e anche se entrambi
40 hanno, quale statuto, la loro determinazione oggettuale, è evidente che quello che in entram-

1. L’essere assoluto della coscienza è tale che essa non ha bisogno di nessun’altra “cosa” per esistere.

ESPOSITO-PORRO • © 2012, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI


716 percorsi tematici

bi i casi si dice oggetto e determinazione oggettuale, riceve la medesima denominazione sol-


tanto secondo le vuote categorie logiche. Quanto al senso, tra coscienza e realtà si spalanca un
vero abisso. Da una parte vi è un essere che si adombra, che non può mai darsi assolutamen-
te, che è meramente contingente e relativo alla coscienza; dall’altra parte un essere necessario
45 e assoluto, che per principio non si dà attraverso adombramenti2 e manifestazioni.
Diviene quindi chiaro che, nonostante quando si parla di un essere reale dell’io umano e
dei suoi vissuti di coscienza nel mondo e di tutto ciò che rientra nei suoi rapporti “psicofisi-
ci” si formulino senza dubbio delle affermazioni nel loro senso ben fondate, la coscienza, con-
siderata nella sua “purezza”, deve essere considerata una connessione d’essere chiusa in sé stes-
50 sa, una connessione di assoluto essere, in cui niente può penetrare e da cui niente può sfuggi-
re; e che non ha alcun fuori spazio-temporale, né può essere all’interno di alcuna connessio-
ne spazio-temporale, come non può esercitare o subire alcuna azione causale in relazione a
nessuna cosa – premesso, che per causalità s’intenda la causalità naturale nel senso normale,
quale cioè una relazione di dipendenza tra realtà.
55 D’altra parte, l’intero mondo spazio-temporale, al quale l’uomo e l’io umano appartengono
come singole realtà subordinate, è secondo il suo senso un essere meramente intenzionale, quin-
di tale da avere il senso, meramente secondario e relativo, di un essere per una coscienza. [È
un essere, che la coscienza pone nelle sue esperienze], che può per principio essere intuito e
determinato come ciò che permane identico nella molteplicità delle manifestazioni motivate,
60 ma che, all’infuori di questa identità è un nulla.

guida alla lettura


1. In che cosa consiste l’esistenza di un mondo e in che
senso essa può anche essere annientata?
2. «Adombramenti» sono chiamati i molteplici 2. Che cosa permette di considerare la coscienza un es-
modi in cui una cosa appare manifestandosi nei sere assoluto?
suoi diversi lati e nelle sue diverse prospettive al- 3. In che senso la coscienza è un essere immanente?
la coscienza.

T5 Martin Heidegger L’uomo come esserci


Essere e tempo, §§ 4 e 9; Lettera sull’“umanismo”

Anche Heidegger ha intrapreso la via della mondo non vuol dire essere collocato in un
fenomenologia, ma essa l’ha portato – a differenza contenitore o in un contesto, bensì comprendere
del suo maestro Husserl – a scardinare il primato l’essere di tutti gli enti che si incontrano nel mondo.
dell’io come coscienza e a reinterpretare La comprensione dell’essere non è innanzitutto
radicalmente l’essere del “soggetto” umano come un’attività teorica o riflessiva dell’uomo, ma
ciò che per sua stessa natura differisce dalla coincide con il suo stesso modo di esistere.
soggettività: una vera e propria fuoriuscita Tutto qui si gioca dunque a livello “ontologico”:
(ex-sistentia) dal soggetto, vale a dire l’“esserci”. ogni conoscenza degli oggetti richiede una
Questo nome indica l’uomo, ma non considerato preliminare comprensione dell’essere di quegli
come un semplice ente tra enti, bensì come l’ente oggetti e va “fondata” su di essa; ma una tale
che ha un rapporto con il proprio essere e con comprensione è il modo d’essere dell’esserci,
il senso dell’essere in generale. Ciò che costituisce e quindi solo un’“analitica esistenziale”
il primato dell’esserci non è più dunque l’attività (cioè un’interpretazione dell’esistenza come modo
della sua coscienza pura nei confronti del mondo: d’essere dell’uomo) potrà fornire un’“ontologia
al contrario, è il proprio essere nel mondo ciò che fondamentale”, cioè la comprensione tematica del
contraddistingue il suo essere; ma essere nel senso dell’essere dell’uomo e di tutti gli altri enti.

ESPOSITO-PORRO • © 2012, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI


1 L’io in questione: la crisi del soggetto moderno 717

Come Heidegger afferma in due celebri paragrafi di perché l’uomo – l’esserci – è quell’ente che pone
Essere e tempo (1927), il problema dell’essere va e prima ancora comporta in sé il problema
riproposto in filosofia come problema dell’esistenza, dell’essere.

Il primato ontico del problema dell’essere


In quanto comportamenti dell’uomo le scienze hanno il modo di essere di questo ente (l’uo-
mo). Esso è da noi designato col termine Esserci. La ricerca scientifica non è né l’unico né il
più immediato dei modi possibili di essere di questo ente. L’Esserci è inoltre distinto dagli altri
enti. È opportuno chiarire provvisoriamente questa distinzione […].
5 L’Esserci non è soltanto un ente che si presenta fra altri enti.
Onticamente, esso è caratterizzato piuttosto dal fatto che, per questo ente, nel suo essere,
ne va di questo essere stesso. La costituzione d’essere dell’Esserci implica allora che l’Esserci,
nel suo essere, abbia una relazione d’essere col proprio essere. Il che, di nuovo, significa:
l’Esserci, in qualche modo e più o meno esplicitamente, si comprende nel suo essere. È pro-
10 prio di questo ente che, col suo essere e mediante il suo essere, questo essere è aperto ad esso.
La comprensione dell’essere è essa stessa una determinazione d’essere dell’Esserci. La peculiarità
ontica dell’Esserci sta nel suo esser-ontologico.
[…] L’essere stesso verso cui l’Esserci può comportarsi in un modo o nell’altro e verso cui
sempre in qualche modo si comporta, noi lo chiamiamo esistenza. E poiché la determinazio-
15 ne dell’essenza di questo ente non può avere luogo mediante l’indicazione della quiddità di
un contenuto reale, e la sua essenza consiste piuttosto nell’aver sempre da essere il suo esse-
re in quanto suo, è stato scelto il termine Esserci, quale pura espressione d’essere, per desi-
gnare questo ente.
L’Esserci comprende sempre sé stesso in base alla sua esistenza, cioè in base a una possi-
20 bilità che ha di essere o non essere sé stesso. Queste possibilità l’Esserci o le ha scelte da sé o
è incappato in esse o è cresciuto già da sempre in esse. L’esistenza è decisa, nel senso del pos-
sesso o dello smarrimento, esclusivamente da ogni singolo Esserci. Il problema dell’esisten-
za, in ogni caso, non può esser posto in chiaro che nell’esistere stesso. La comprensione di sé
stesso che fa qui da guida noi la chiamiamo esistentiva1. Il problema dell’esistenza è un “affa-
25 re” ontico dell’Esserci. A tal fine non si richiede la trasparenza teoretica della struttura onto-
logica dell’esistenza. Il problema intorno ad essa mira invece a esplicare ciò che costituisce
l’esistenza. All’insieme di queste strutture diamo il nome di esistenzialità. L’analitica di essa
non ha il carattere di una comprensione esistentiva, ma quello di una comprensione esisten-
ziale. Il compito di un’analitica esistenziale dell’Esserci è predelineato, quanto alla possibili-
30 tà e alla sua necessità, nella costituzione ontica dell’Esserci.
In quanto però l’esistenza determina l’Esserci, l’analitica ontologica di questo ente richie-
de già sempre una considerazione preliminare dell’esistenzialità. Ma questa è da noi intesa
come la costituzione d’essere dell’ente che esiste. Sennonché, nell’idea di una costituzione
d’essere di questo genere si trova già l’idea dell’essere. Di conseguenza, anche la possibilità di
35 svolgere l’analitica dell’Esserci viene a dipendere dalla elaborazione preliminare del problema
del senso dell’essere in generale.
Le scienze sono modi di essere dell’Esserci nei quali l’Esserci si rapporta anche all’ente dif-
forme da esso. Ma all’Esserci appartiene in linea essenziale l’essere in un mondo. La compren-
sione dell’essere, propria dell’Esserci, concerne perciò cooriginariamente la comprensione di
40 qualcosa come “il mondo” e la comprensione dell’essere dell’ente accessibile nel mondo. Le
ontologie il cui tema è costituito dall’ente fornito di un carattere d’essere difforme da quello
dell’Esserci sono dunque fondate e motivate nella struttura ontica dell’Esserci, la quale porta
con sé una comprensione preontologica dell’essere.

1. La comprensione “esistentiva” è quella che l’esserci ha del proprio essere nella vita quotidiana, e cioè senza
un’esplicita tematizzazione teoretica; quest’ultima invece prende il nome di comprensione “esistenziale”.

ESPOSITO-PORRO • © 2012, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI


718 percorsi tematici

Perciò l’ontologia fondamentale, da cui soltanto tutte le altre possono scaturire, deve esser
45 cercata nell’analitica esistenziale dell’Esserci.
L’Esserci ha dunque un primato in vari sensi rispetto a ogni altro ente. In primo luogo ha
un primato ontico: questo ente è determinato nel suo essere dall’esistenza. In secondo luogo
ha un primato ontologico: per il suo esser-determinato dall’esistenza l’Esserci è in sé “ontolo-
gico”. Ma all’Esserci appartiene anche cooriginariamente, quale costitutivo della comprensio-
50 ne dell’esistenza, una comprensione dell’essere di ogni ente non conforme all’Esserci.
L’Esserci ha pertanto un terzo primato in quanto esso è la condizione ontico-ontologica della
possibilità di ogni ontologia. L’Esserci si è dunque rivelato come l’ente che, prima di ogni
altro, dev’essere interrogato ontologicamente.
Ma l’analitica esistenziale, da parte sua, ha in ultima analisi radici esistentive, cioè ontiche.
55 Soltanto nel caso che l’indagine propria della ricerca filosofica stessa venga esistentivamente
afferrata come una possibilità di essere dell’Esserci di volta in volta esistente, sussiste la pos-
sibilità di dischiudere l’esistenzialità dell’esistenza e, con ciò, la possibilità di affrontare una
problematica ontologica sufficientemente fondata. Ma così è anche chiarito il primato ontico
del problema dell’essere.
60
Il tema dell’analitica dell’Esserci
L’ente che ci siamo proposti di esaminare è il medesimo che noi stessi sempre siamo. L’essere
di questo ente è sempre mio. Nell’essere che è proprio di esso, questo ente stesso si rapporta
al proprio essere. Come ente di questo essere, esso è rimesso al suo aver-da-essere. L’essere è
65 ciò di cui ne va sempre per questo ente. Da questa caratterizzazione dell’Esserci derivano due
ordini di conseguenze:
1. L’“essenza” di questo ente consiste nel suo aver-da-essere. L’essenza (essentia) di questo
ente, se mai si possa parlare di essa, dev’essere intesa a partire dal suo essere (existentia). Ma
il compito ontologico è proprio quello di mostrare che, se noi scegliamo per l’essere di que-
70 sto ente la designazione di esistenza, questo termine non ha e non può avere il significato
ontologico del termine tradizionale existentia. Esistenza significa, per l’ontologia tradiziona-
le, qualcosa come la semplice-presenza, modo di essere, questo, essenzialmente estraneo a un
ente che ha il carattere dell’Esserci. A scanso di equivoci: per dire existentia useremo sempre
l’espressione interpretativa semplice-presenza, mentre attribuiremo l’esistenza, come determi-
75 nazione d’essere, esclusivamente all’Esserci. L’essenza dell’Esserci consiste nella sua esistenza. I
caratteri evidenziabili di questo ente non sono quindi “proprietà” semplicemente-presenti di
un ente semplicemente-presente, “avente l’aspetto” di essere così o così, ma sono sempre e
soltanto possibili maniere di essere dell’Esserci, e null’altro. Ogni esser-così, proprio di que-
sto ente, è primariamente essere. Perciò il termine “Esserci”, con cui indichiamo tale ente,
80 esprime l’essere e non il che-cosa, come quando si dice pane, casa, albero.
2. L’Essere di cui ne va per questo ente nel suo essere, è sempre mio. L’Esserci non è per-
ciò da intendersi ontologicamente come un caso o un esemplare di un genere dell’ente inte-
so come semplice-presenza. Per l’ente così inteso il suo essere è “indifferente” o, meglio anco-
ra, “è” tale che a esso il suo essere non può risultare né indifferente né non indifferente. Il
85 discorso rivolto all’Esserci deve, in conformità alla struttura dell’esser-sempre-mio, propria di
questo ente, far ricorso costantemente al pronome personale: “io sono”, “tu sei”.
E di nuovo l’Esserci è sempre mio in questa o quella maniera di essere. L’Esserci ha già
sempre in qualche modo deciso in quale maniera sia sempre mio. L’ente a cui nel suo essere
ne va di questo essere stesso, si rapporta al suo essere come alla sua possibilità più propria.
90 L’Esserci è sempre la sua possibilità, ed esso non l’“ha” semplicemente a titolo di proprietà
posseduta come una semplice-presenza. Appunto perché l’Esserci è essenzialmente sempre la
sua possibilità, questo ente può, nel suo essere, o “scegliersi”, conquistarsi, oppure perdersi e
non conquistarsi affatto o conquistarsi solo “apparentemente”. Ma esso può aver perso sé
stesso o non essersi ancora conquistato solo perché la sua essenza comporta la possibilità del-

ESPOSITO-PORRO • © 2012, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI


1 L’io in questione: la crisi del soggetto moderno 719
95 l’autenticità, cioè dell’appropriazione di sé. Autenticità e inautenticità – queste espressioni
sono state scelte nel loro senso terminologico stretto – sono modi di essere che si fondano nel
fatto che l’Esserci è determinato, in linea generale, dall’esser-sempre-mio. L’inautenticità
dell’Esserci non importa però un “minor” essere o un grado “inferiore” di essere.
L’inautenticità può invece determinare l’Esserci, secondo la sua forma concreta più piena,
100 nella sua operosità e vivacità, e nella sua capacità di interessarsi e di godere.

Negli anni successivi a Essere e tempo, Heidegger come fa un pastore – dell’essere stesso, cioè della
ripensa a fondo l’esistenza dell’uomo, e se verità enigmatica di ciò che fa essere gli enti ma
nell’opera del 1927 l’esserci era inteso come un sarà sempre differente da essi. E se la concezione
progetto (cioè la comprensione dell’essere) sempre tradizionale dell’uomo come “animale dotato
irrimediabilmente gettato (perché la possibilità più di ragione” e come “soggetto” si basa sulla
propria dell’esserci è l’impossibilità ad essere come metafisica (intesa da Heidegger come dimenticanza
un ente tra enti), nella Lettera sull’“umanismo” dell’essere a favore dell’ente), questo pensiero
(1947) l’esistenza viene reinterpretata come oltre-metafisico intende invece l’uomo come
“gettata” dall’essere stesso. L’uomo è colui che colui che esiste in quanto appellato
abita in una “radura”, nella quale egli ha cura – dall’essere stesso.

Umanismo e metafisica
Lei mi chiede: Comment redonner un sens au mot “Humanisme”? La domanda nasce dall’inten-
zione di mantenere la parola “umanismo”. Io mi chiedo se ciò sia necessario. O non è anco-
ra abbastanza evidente il male che recano tutte le denominazioni di questo genere? […]
Ogni umanismo o si fonda su una metafisica o pone sé stesso a fondamento di una meta-
5 fisica del genere. È metafisica ogni determinazione dell’essenza dell’uomo che già presuppo-
ne, sapendolo o non sapendolo, l’interpretazione dell’ente, senza porre il problema della veri-
tà dell’essere. Per questo, se consideriamo il modo in cui viene determinata l’essenza dell’uo-
mo, appare che il tratto specifico di ogni metafisica è nel suo essere “umanistica”.
Pertanto ogni umanismo rimane metafisico. Nel determinare l’umanità dell’uomo, l’uma-
10 nismo non solo non si pone la questione del riferimento dell’essere all’essere umano, ma
impedisce persino che si ponga una simile questione, perché, a causa della sua provenienza
metafisica, l’umanismo non la conosce e non la comprende. Viceversa, la necessità e la forma
propria della questione della verità dell’essere, obliata nella metafisica e proprio a causa della
metafisica, possono venire alla luce solo quando, nel pieno dominio della metafisica, viene
15 posta la domanda: “Che cos’è metafisica?”. Anzi, ogni domandare dell’“essere”, così come
ogni domandare della verità dell’ essere, deve essere introdotto come un domandare “metafi-
sico”.
Il primo umanismo, cioè quello romano, e tutte le altre forme di umanismo che si sono via
via affermate fino ad oggi, presuppongono come evidente l’“essenza” universale dell’uomo.
20 L’uomo è considerato come animal rationale. Questa determinazione non è solo la tradu-
zione latina del greco zòon lògon èkon ma è un’interpretazione metafisica. Questa determina-
zione dell’essenza dell’uomo non è falsa, ma è condizionata dalla metafisica. Tuttavia è la sua
provenienza essenziale, e non solo i suoi limiti, che in Essere e tempo è divenuto degno di
essere messo in questione. Ciò che è degno d’esser messo in questione non è abbandonato
25 all’azione dissolvente di uno scetticismo vuoto, ma è affidato al pensiero come ciò che esso
ha da pensare come proprio.
È vero che la metafisica rappresenta l’ente nel suo essere, e pensa così anche l’essere dell’en-
te. Ma essa non pensa l’essere come tale, non pensa la differenza tra l’essere e l’ente. La metafi-
sica non si interroga sulla verità dell’essere stesso. Perciò, essa non si chiede neppure mai in che
30 modo l’essenza dell’uomo appartenga alla verità dell’essere. Non solo la metafisica non ha anco-
ra posto finora questo problema, ma questo problema è inaccessibile alla metafisica in quanto
metafisica. L’essere attende ancora di divenire esso stesso degno per l’uomo di essere pensato.

ESPOSITO-PORRO • © 2012, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI


720 percorsi tematici

La metafisica si chiude di fronte al semplice fatto essenziale che l’uomo si dispiega nella
sua essenza solo in quanto è chiamato dall’essere. Solo a partire da questo reclamo, l’uomo
35 “ha” trovato dove la sua essenza abita. Solo a partire da questo abitare egli “ha” il “linguag-
gio” come dimora che conserva alla sua essenza il carattere estatico. Lo stare nella radura del-
l’essere, lo chiamo e-sistenza dell’uomo. Solo all’uomo appartiene un tal modo d’essere. L’ e-
sistenza così intesa non è solo il fondamento della possibilità della ragione, ma è ciò in cui
l’essenza dell’uomo conserva la provenienza della sua determinazione.
40 Ma l’essenza dell’uomo consiste nel fatto che egli è qualcosa di più del mero uomo come ce
lo si rappresenta quando lo si intende come un essere vivente fornito di ragione. Qui il “più”
non lo si deve intendere come un’aggiunta, come se la tradizionale definizione dell’uomo
dovesse restare la determinazione fondamentale, per poi subire un’amplificazione attraverso
l’aggiunta del carattere esistenziale. Il “più” significa: più originario e quindi più essenziale
45 nella sua essenza. Ma qui compare l’enigma: l’uomo è nella condizione dell’essere-gettato. Ciò
significa che l’uomo, come e-sistente controgetto dell’essere è più che animal rationale, proprio
in quanto è meno rispetto all’uomo che si concepisce a partire dalla soggettività. L’uomo non
è il padrone dell’ente. L’uomo è il pastore dell’essere. In questo “meno” l’uomo non perde nulla,
anzi ci guadagna, in quanto perviene
50 alla verità dell’essere. Guadagna l’essen-

guida alla lettura


1. Che cosa distingue l’esserci dagli enti intramondani?
ziale povertà del pastore, la cui dignità
consiste nell’esser chiamato dall’essere 2. Che differenza intercorre tra l’existentia della tradizio-
ne e l’esistenza di cui parla Heidegger?
stesso a custodia della sua verità. Questa
chiamata viene con il getto da cui scatu- 3. In che senso l’analitica esistenziale costituisce un’on-
tologia fondamentale?
55 risce l’essere-gettato dell’esser-ci. L’uomo,
nella sua essenza secondo la storia del- 4. Perché Heidegger connette umanismo e metafisica?
l’essere, è quell’ente il cui essere, in 5. Perché è insufficiente considerare l’uomo come “ani-
male dotato di ragione”?
quanto e-sistenza, consiste nell’abitare
nella vicinanza dell’essere. L’uomo è il 6. Qual è il significato dell’espressione «pastore dell’es-
sere» come caratterizzazione dell’uomo?
60 vicino dell’essere.

T6 Emmanuel Lévinas L’io come relazione etica con Altri


Totalità e infinito, §§ 4 e 5; Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, cap. 4, § 4

Tutta la storia della filosofia, secondo Lévinas, rapporto tra finito e infinito, come emerge da una
è caratterizzata dall’imperialismo del Medesimo, celebre interpretazione della prova cartesiana
padrone e gestore di una totalità in cui l’alterità, dell’esistenza di Dio contenuta in Totalità e infinito
nella forma del dominio politico o della (1961): l’idea dell’infinito si pone rispetto all’io
concettualizzazione, è riassorbita nell’ipseità come un’istanza irriducibile, come il termine di un
del Medesimo. Per Lévinas, al contrario, la filosofia rapporto che non
dell’alterità, genuinamente intesa, non può che è mai né può mai essere totalizzante. L’infinito
consistere in un’apertura incondizionata all’“Altro” – eccede l’io, ma proprio in virtù di questo suo
un’apertura in cui l’altro non è sottomesso eccesso annulla il dominio totalizzante del
né al potere, né alla rappresentazione del Medesimo e si propone come modello per pensare
Medesimo, ma si rapporta con il Medesimo senza qualunque rapporto con l’Altro. Concepire ogni
perdere nulla della sua radicale alterità. Il modello o forma di alterità secondo il modello del rapporto
il paradigma di questa nuova impostazione è il tra finito e infinito è il solo modo, secondo Lévinas,

ESPOSITO-PORRO • © 2012, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI


1 L’io in questione: la crisi del soggetto moderno 721

per sfuggire alla deriva dell’ontologia: sottratto al secondo una modalità che rende sì possibile
dominio della rappresentazione e della riduzione la relazione, ma al tempo stesso esclude che questa
totalizzante, l’Altro vi si manifesta come volto, cioè relazione si definisca nella forma del dominio.

La metafisica precede l’ontologia


La filosofia occidentale è stata per lo più un’ontologia: una riduzione dell’Altro al
Medesimo, in forza dell’interposizione di un termine medio e neutro che garantisce l’intel-
ligenza dell’essere.
Questo primato del Medesimo ha costituito la lezione di Socrate. Non ricevere nulla da
5 Altri se non ciò che è in me, come se, da sempre, io possedessi ciò che mi viene dal di fuori1.
Non ricevere nulla o essere libero. La libertà non assomiglia alla capricciosa spontaneità del
libero arbitrio. Il suo senso ultimo dipende da questa permanenza nel Medesimo, che è
Ragione. La conoscenza è il dispiegarsi di questa identità. È libertà. E che la ragione sia in fin
dei conti la manifestazione di una libertà, che neutralizza l’altro e lo ingloba, è fatto che non
10 può sorprendere, poiché fu detto che la ragione sovrana conosce solo sé stessa e che nient’al-
tro la limita. La neutralizzazione dell’Altro, che diventa tema od oggetto – che appare, cioè,
che si pone in trasparenza – è appunto la sua riduzione al Medesimo. Conoscere ontologica-
mente significa sorprendere nell’ente affrontato ciò per cui non è questo ente, questo stranie-
ro, ma ciò per cui si tradisce in qualche modo, si consegna, si dà all’orizzonte nel quale si
15 perde e appare, dà presa, diventa concetto. Conoscere equivale ad impossessarsi dell’essere a
partire da niente o a ridurlo a niente, privarlo della sua alterità […]2 .
Per quanto riguarda le cose la loro resa si attua nella concettualizzazione. Per quanto
riguarda l’uomo essa può essere ottenuta dal terrore che fa cadere un uomo libero sotto il
dominio di un altro. Per le cose, l’opera dell’ontologia consiste nel cogliere l’individuo (che
20 solo esiste) non nella sua individualità, ma nella sua generalità (la sola di cui ci sia scienza).
La relazione con l’Altro si attua soltanto attraverso un terzo termine che io trovo in me.
L’ideale della verità socratica si fonda dunque sull’essenziale sufficienza del Medesimo, sulla
sua identificazione di ipseità, sul suo egoismo. La filosofia è un’egologia […].
La relazione con l’essere, che si esplica come ontologia, consiste nel neutralizzare l’ente
25 per comprenderlo o per impossessarsene. Non è quindi una relazione con l’altro in quanto
tale, ma la riduzione dell’Altro al Medesimo. Questa è la definizione della libertà: mantener-
si contro l’altro, malgrado ogni relazione con l’altro, garantire l’autarchia di un io. La tema-
tizzazione e la concettualizzazione, per altro inseparabili, non sono il raggiungimento della
pace con l’Altro, ma soppressione o possesso dell’Altro. Il possesso, infatti, afferma l’Altro, ma
30 all’interno di una negazione della sua indipendenza. “Io penso” equivale a “io posso” – ad una
appropriazione di ciò che è, ad uno sfruttamento della realtà. L’ontologia come filosofia prima
è una filosofia della potenza […].
Si devono invertire i termini. Per la tradizione filosofica, i conflitti tra il Medesimo e l’Altro
si risolvono con la teoria nella quale l’Altro si riduce al Medesimo o, concretamente, con la
35 comunità dello Stato nella quale sotto il potere anonimo, anche se intelligibile, l’Io ritrova la
guerra nell’oppressione tirannica che subisce da parte della totalità. L’etica in cui il Medesimo
tiene conto dell’irriducibile Altro, dipenderebbe dall’opinione. Lo sforzo di questo libro tende
a cogliere nel discorso una relazione non allergica con l’alterità, a cogliervi il Desiderio – nel
quale il potere, per essenza, assassino dell’Altro, diventa, di fronte all’Altro e “contro ogni
40 buon senso”, impossibilità di assassinio, considerazione dell’Altro o giustizia. Il nostro sfor-
zo consiste concretamente nel mantenere, nella comunità anonima, la società di Me con Altri

1. Lévinas fa qui riferimento all’arte totalità, è per Lévinas una delle mo- lizzarla, sottoporla al gioco della
maieutica di Socrate. dalità storiche con cui il Medesimo rappresentazione oggettiva.
2. La scienza dell’essere, nella sua ha potuto inglobare l’alterità, tota-

ESPOSITO-PORRO • © 2012, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI


722 percorsi tematici

– linguaggio e bontà. Questa relazione non è prefilosofica, infatti non violenta l’io, non gli è
imposta brutalmente dall’esterno, suo malgrado, o a sua insaputa come un’opinione; più esat-
tamente gli è imposta, al di là di qualsiasi violenza, con una violenza che lo mette interamen-
45 te in questione. Il rapporto etico, opposto alla filosofia prima dell’identificazione della liber-
tà e del potere, non è contro la verità, va verso l’essere nella sua esteriorità assoluta e mette
proprio in atto l’intenzione che anima il cammino verso la verità […].

La trascendenza come idea dell’Infinito


Questa relazione del Medesimo con l’Altro, senza che la trascendenza della relazione tronchi
i legami implicati da una relazione, ma senza che questi legami uniscano in un tutto il
Medesimo e l’Altro, è fissata, di fatto, nella situazione descritta da Cartesio nella quale l’“io
penso” ha con l’Infinito, che non può affatto contenere e dal quale è separato, una relazione
5 detta “idea dell’infinito”. Certo anche le cose, le nozioni matematiche e morali, secondo
Cartesio, ci sono presentate dalle loro idee e se ne distinguono. Ma l’idea dell’infinito è ecce-
zionale in quanto il suo ideatum va al di là della sua idea, mentre per le cose la coincidenza
totale delle loro realtà “oggettiva” e “formale” non è esclusa; a rigore, avremmo potuto ren-
dere conto da soli di tutte le idee, eccettuata quella dell’Infinito3. […] L’infinito è il carattere
10 proprio di un essere trascendente in quanto trascendente, l’infinito è l’assolutamente altro. Il
trascendente è l’unico ideatum di cui possiamo avere in noi solo un’idea; esso è infinitamen-
te lontano dalla sua idea – cioè esteriore – perché è infinito.
[…] La nozione cartesiana dell’idea dell’Infinito designa una relazione con un essere che
mantiene la sua esteriorità totale rispetto a chi lo pensa. Designa il contatto con l’intangibile,
15 contatto che non compromette l’integrità di chi è toccato. […] L’esteriorità assoluta dell’esse-
re esterno non va persa puramente e semplicemente con il fatto della sua manifestazione; esso
si “assolve” dalla relazione in cui si presenta. Ma la distanza infinita dello Straniero, malgra-
do la prossimità attuata dall’idea dell’infinito, la struttura complessa della relazione impari
delineata da questa idea, deve essere descritta. Non basta distinguerla formalmente dall’og-
20 gettivazione.
Bisogna fin da adesso indicare i termini che diranno la deformalizzazione o la concretiz-
zazione di quella nozione, assolutamente vuota in apparenza, che è l’idea dell’infinito.
L’infinito nel finito, il più nel meno che si attua attraverso l’idea dell’Infinito, si produce come
Desiderio4. Non come un Desiderio che è appagato dal possesso del Desiderabile, ma come il
25 Desiderio dell’Infinito che è suscitato dal Desiderabile invece di esserne soddisfatto.
Desiderio perfettamente disinteressato – bontà. Ma il Desiderio e la bontà presuppongono
concretamente una relazione nella quale il Desiderabile ferma la “negatività” dell’Io che si
esplica nel Medesimo, il potere, l’influenza. Il che si produce positivamente nel possesso di
un mondo di cui posso fare dono ad Altri, cioè come una presenza di fronte ad un volto5.
30 Infatti la presenza di fronte ad un volto, il mio orientamento verso Altri può perdere l’avidi-
tà dello sguardo solo mutandosi in generosità, incapace di andare incontro all’altro a mani
vuote. Questa relazione al di sopra delle cose ormai possibilmente comuni, cioè suscettibili

3. Lévinas fa qui riferimento alla pri- siede l’oggetto del suo desiderio. rapporto tra finito e infinito è la de-
ma prova cartesiana dell’esistenza Così il Desiderabile si costituisce terminazione dell’Altro come volto:
di Dio, enunciata nella terza delle non come l’oggetto, come qualco- il volto, per Lévinas, è ciò che il
Meditazioni sulla filosofia prima. sa che possa essere dominato, ma Medesimo non può mai assimilare
4. Il Desiderio è per Lévinas una del- piuttosto come l’orizzonte del o dominare, ciò che resta intatto in
le figure dell’alterità liberata dal do- Desiderio stesso, come ciò che un’alterità alla quale l’io può rap-
minio totalizzante del Medesimo. muovendo il Desiderio lo rinnova portarsi ma che al tempo stesso
Nel Desiderio, genuinamente inte- continuamente. non può assoggettare.
so, colui che desidera non è mai 5. Il risultato dell’omologazione del
appagato, neppure quando pos- rapporto tra il Medesimo e l’Altro al

ESPOSITO-PORRO • © 2012, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI


1 L’io in questione: la crisi del soggetto moderno 723
di essere dette – è la relazione del discorso. Ora, noi chiamiamo volto il modo in cui si pre-
senta l’Altro, che supera l’idea dell’Altro in me. Questo modo non consiste nell’assumere, di
35 fronte al mio sguardo, la figura di un tema, nel mostrarsi come un insieme di qualità che for-
mano un’immagine. Il volto d’Altri distrugge ad ogni istante, e oltrepassa l’immagine plastica
che mi lascia, l’idea a mia misura e a misura del suo ideatum – l’idea adeguata. Non si mani-
festa in base a queste qualità, ma kath’autò. Si esprime. Il volto, in opposizione all’ontologia
contemporanea, introduce una nozione di verità che non è lo svelamento di un Neutro imper-
40 sonale, ma un’espressione: l’ente si apre un varco attraverso tutti i rivestimenti e le generalità
dell’essere, per mostrare nella sua “forma” la totalità del suo “contenuto”, per sopprimere, in
fin dei conti, la distinzione di forma e contenuto (ciò che non si ottiene con una qualsiasi
modificazione della conoscenza che tematizza, ma appunto con il cambiamento della “tema-
tizzazione” in discorso). La condizione della verità e dell’errore teoretico, è la parola dell’Altro
45 – la sua espressione – che è già presupposta da ogni menzogna. Ma il contenuto primo del-
l’espressione è proprio questa espressione. Andare incontro ad Altri nel discorso significa
accogliere la sua espressione nella quale egli va continuamente al di là dell’idea che un pen-
siero potrebbe portarne con sé. Significa dunque ricevere da Altri al di là della capacità dell’Io;
ciò che significa esattamente: avere l’idea dell’infinito. Ma questo significa anche essere
50 ammaestrato. Il rapporto con Altri o il Discorso è un rapporto non-allergico, un rapporto
etico, ma questo discorso accolto è un ammaestramento. Ma l’ammaestramento non equiva-
le alla maieutica. Viene dall’esterno e porta in me più di quanto non abbia già. Nella sua tran-
sitività non-violenta si produce proprio l’epifania del volto. L’analisi aristotelica dell’intellet-
to, che scopre l’intelletto agente, che viene dall’esterno, assolutamente esterno, e che però
55 sostituisce, senza comprometterla affatto, l’attività sovrana della ragione, sostituisce già alla
maieutica un’azione transitiva del maestro, poiché la ragione, senza venir meno a sé stessa si
trova in grado di ricevere.
Infine, l’infinito che oltrepassa l’idea dell’infinito, mette in causa la nostra libertà sponta-
nea. La comanda e la giudica e la conduce alla sua verità. L’analisi dell’idea dell’Infinito cui si
60 accede solo a partire da un Io, si concluderà con il superamento del soggettivo.
La nozione del volto, alla quale faremo ricorso in tutta quest’opera, apre altre prospettive:
ci porta verso una nozione di senso anteriore alla mia Sinngebung 6 e, quindi, indipendente
dalla mia iniziativa e dal mio potere. Essa significa l’anteriorità filosofica dell’ente sull’essere,
una esteriorità che non fa appello né al potere né al possesso, un’esteriorità che non si ridu-
65 ce, come in Platone, all’interiorità del ricordo, e che, però, salvaguarda l’io che l’accoglie.

6. Nel vocabolario fenomenologico, ‘dare’) operata dalla soggettività investe la relazione di un senso che
e in particolare in Husserl, la trascendentale. È in questo senso precede e quindi prescinde dalla
Sinngebung designa la donazione che qui Lévinas si serve del termine: rappresentazione soggettiva dell’io,
di senso (Sinn: ‘senso’; gebung: il il volto, nella sua alterità irriducibile, cioè dalla Sinngebung del soggetto.

Nello sviluppo della sua riflessione, Lévinas ha “ebraica” del pensiero lévinassiano: l’io è
sempre più radicalizzato l’eccedenza dell’Altro (di responsabilità assoluta per Altri, è sostituzione
«Altri», come egli dice, proprio per non “totalizzare” di sé ad Altri, espiazione al posto di Altri, è un
anche l’alterità nella dialettica soggetto-oggetto essere ostaggio di Altri e in definitiva è passività
o Medesimo-Altro, tutta interna all’io). Per questo senza possibilità di riscatto o liberazione. E se
la parola “io” verrà sempre più a identificare un in Totalità e infinito l’ontologia veniva preceduta
fenomeno che non ha in sé il proprio principio, o oltrepassata dalla metafisica, in Altrimenti che
che non solo sta di fronte e in rapporto a ciò che essere o al di là dell’essenza (1978) la metafisica
è diverso da sé, ma è preceduto da esso in maniera si sviluppa definitivamente come etica,
assolutamente prioritaria, fino a identificare il “sé e quest’ultima costituisce un passo oltre ogni
stesso” come una radicale espropriazione di sé. possibile pensiero che parta dall’essere e non
Emerge qui in maniera sempre più evidente l’origine dall’Altro (rispetto all’essere).

ESPOSITO-PORRO • © 2012, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI


724 percorsi tematici

La sostituzione
La responsabilità per altri non è l’accidente di un Soggetto, ma precede in esso l’Essenza, non
ha atteso la libertà in cui sarebbe stato preso l’impegno per altri. Io non ho fatto niente e sono
sempre stato in causa: perseguitato. L’ipseità, nella sua passività senza archè dell’identità, è
ostaggio. La parola Io significa eccomi, rispondente di tutto e di tutti. La responsabilità per gli
5 altri non è stata un ritorno a sé, ma una contrazione esasperata che i limiti dell’identità non
possono trattenere. […] La responsabilità dell’ossessione è una responsabilità dell’io per ciò
che l’io non aveva voluto, cioè per gli altri. Questa anarchia della ricorrenza a sé, al di là del
gioco normale dell’azione e della passione in cui si mantiene – dov’è – l’identità dell’essere, al
di qua dei limiti dell’identità, questa passività nella prossimità a causa di un’alterità in me,
10 questa passività della ricorrenza a sé che non è tuttavia l’alienazione d’una identità tradita –
che altro può essere se non la sostituzione di me agli altri? Non alienazione tuttavia – perché
l’Altro nel Medesimo è la mia sostituzione all’altro secondo la responsabilità, per la quale, inso-
stituibile, sono convocato. Attraverso l’altro e per l’altro, ma senza alienazione: ispirato. […]
Il volto dell’altro nella prossimità – più che rappresentazione – è traccia irrappresentabile,
15 modalità dell’Infinito. Non è perché tra gli esseri esiste un Io, essere che persegue dei fini, che
l’Essere assume una significazione e diviene universo. È perché nell’approssimarsi s’inscrive
o si scrive la traccia dell’Infinito – traccia di una partenza, ma traccia di ciò che, s-misurato,
non entra nel presente e inverte l’archè in anarchia – che vi è abbandono d’altri, ossessione
per esso, responsabilità e Sé. Il non intercambiabile per eccellenza, l’Io, l’unico si sostituisce
20 agli altri. Nulla è gioco. Così si trascende l’essere.
L’io non sarebbe solamente un essere dotato di certe qualità, dette morali, ch’esso porte-
rebbe come una sostanza porta degli attributi o ch’essa riveste come degli accidenti del suo
divenire; è la sua unicità eccezionale nella passività o la Passione di Sé ad essere questo avve-
nimento incessante di soggezione a tutto, di sostituzione, il fatto, per l’essere, di dis-amorar-
25 si, di svuotarsi del suo essere, di mettersi “alla rovescia” e, se si può dire, il fatto di “altrimen-
ti che essere”, soggezione che non è né nulla né prodotto d’una immaginazione trascenden-
tale. […]
Perché Altri mi riguarda? […] Sono io il custode di mio fratello? – Queste domande non
hanno senso se si è già presupposto che l’Io ha cura solo di Sé, se è solo cura di sé. In questa
30 ipotesi, in effetti, resta incomprensibile come il fuori-dall’Io assoluto – Altri – mi riguardi.
Ora, nella “preistoria” dell’Io posto per
sé, parla una responsabilità. Il sé è da

guida alla lettura


1. Che cosa intende Lévinas con il termine “totalità”?
cima a fondo ostaggio, più anticamente 2. Quale funzione svolge l’idea di infinito e in che rappor-
dell’Ego, prima dei princìpi. Non si trat- to sta con il pensiero dell’io?
35 ta per il Sé, nel suo essere, di essere. Al 3. Che significa che l’io ha con l’altro un rapporto etico?
di là dell’egoismo e dell’altruismo c’è la 4. In che cosa consiste la responsabilità dell’io?
religiosità di sé.
5. Come si evidenzia la matrice ebraica del pensiero di
È a causa della condizione di ostag- Lévinas?
gio che nel mondo ci può essere pietà,
6. Che cosa intende Lévinas con il termine “Altri”?
40 compassione, perdono e prossimità.

ESPOSITO-PORRO • © 2012, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI


1 L’io in questione: la crisi del soggetto moderno 725

T7 Michel Foucault Il soggetto come cura di sé


L’etica della cura di sé come pratica della libertà, Intervista del 20 gennaio 1984

Le ultime ricerche di Foucault (negli ultimi corsi, il problema non è quello, puramente illusorio,
agli inizi degli anni Ottanta, al Collège de France, di abolire il potere in quanto tale, ma di evitare
e nei tre volumi pubblicati del suo vasto progetto che si trasformi in una condizione di puro dominio;
di una Storia della sessualità), vertono sulla ovvero, ciò che bisogna aver di mira, come Foucault
costituzione del soggetto come oggetto per sé chiarisce, non è di non essere affatto governati,
stesso, ovvero sulle tecniche e sulle procedure con ma di non essere eccessivamente governati,
cui il soggetto stesso si autoforgia riconoscendosi bilanciando appunto le procedure di
non solo come ambito di un sapere, ma anche in assoggettamento con quelle di soggettivazione.
una sua precisa dimensione etica (che Foucault I passi che seguono sono tratti da una delle ultime
considera a partire dall’ideale greco della cura interviste di Foucault, L’etica della cura di sé come
di sé e delle sue trasformazioni nel cristianesimo). pratica della libertà, concessa il 20 gennaio 1984,
Se infatti tutti i rapporti interindividuali sono pochi mesi prima della morte: essa non solo illustra
rapporti di potere (ciò che di per sé non è affatto il senso dell’ultima fase delle riflessioni
negativo, per Foucault), proprio la costituzione foucaultiane, ma permette anche di gettare uno
di sé nella libertà può impedire che queste relazioni sguardo retrospettivo sulle ricerche precedenti
di potere – e le corrispondenti tecniche di governo, e sul modo complessivo in cui Foucault ha cercato
cioè di orientamento della condotta altrui – di ripensare i rapporti tra soggettività, verità
diventino dei veri e propri stati di dominio: e potere.

Vorremmo innanzitutto sapere qual è, oggi, l’oggetto della sua riflessione. Abbiamo seguito i suoi
ultimi sviluppi, in particolare i suoi corsi sull’ermeneutica del soggetto al Collège de France nel
1981-1982, e vorremmo sapere se la sua impostazione attuale è sempre determinata dal polo sog-
gettività e verità.

5 In realtà questo è sempre stato il mio problema, anche se ho formulato il quadro della mia
riflessione in un modo un po’ differente. Ho cercato di capire come il soggetto umano entras-
se nei giochi di verità, sia nel caso dei giochi di verità che presentano la forma di una scien-
za o che si riferiscono a un modello scientifico, sia nel caso dei giochi di verità che si posso-
no riscontrare nelle istituzioni o nelle pratiche di controllo1. È il tema del mio lavoro Le paro-
10 le e le cose, dove ho cercato di vedere come, in alcuni discorsi scientifici, il soggetto umano
giunga a definirsi come individuo che parla, che vive, che lavora. Ho messo in luce questa
problematica, nei suoi aspetti generali, nei corsi al Collège de France.

Non vi è un salto tra la sua problematica precedente e quella della soggettività/verità, in partico-
lare a partire dal concetto di “cura di sé”?

15 Fino a quel momento avevo affrontato il problema dei rapporti tra il soggetto e i giochi di
verità a partire dalle pratiche coercitive – come nel caso della psichiatria e del sistema peni-
tenziario – oppure nelle forme di giochi teorici o scientifici – come l’analisi delle ricchezze,
del linguaggio e dell’essere vivente. Nei corsi al Collège de France ho cercato di coglierlo
attraverso quella che può essere definita una pratica di sé, un fenomeno che ritengo abbastan-

1. “Giochi di verità” è un’espressio- e la separazione del vero dal falso. stessa verità, ma la storia delle pro-
ne che non ha una portata negativa Ciò che interessa a Foucault non è cedure di “veridizione”, nelle quali
o puramente relativistica, ma indi- né la storia delle modalità con cui il cioè i discorsi risultano definiti veri
ca l’insieme di procedure che, in un soggetto pretende o presume di ac- o falsi.
certo sapere e in un certo periodo, quisire la verità, né la storia dei
regolano la produzione della verità possibili occultamenti di questa

ESPOSITO-PORRO • © 2012, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI


726 percorsi tematici

20 za importante nelle nostre società sin dall’epoca greco-romana – anche se non è stato molto
studiato. Queste pratiche di sé hanno avuto un’importanza e soprattutto un’autonomia molto
più grande nelle civiltà greca e romana che successivamente, quando sono state investite, fino
a un certo punto, dalle istituzioni religiose, pedagogiche o di tipo medico e psichiatrico.

Vi è dunque, oggi, una sorta di spostamento: i giochi di verità non riguardano più una pratica coer-
25 citiva, ma una pratica di autoformazione del soggetto.

Proprio così. È quella che potrebbe essere definita una pratica ascetica, dando all’ascetismo
un senso molto generale, cioè, non il senso di una morale della rinuncia, ma quello di un
esercizio di sé su di sé, attraverso cui si cerca di elaborare sé stessi, di trasformarsi e di acce-
dere a un certo modo di essere. Assumo quindi l’ascetismo in un senso più generale rispetto
30 a quello che gli attribuisce, per esempio, Max Weber; ma, comunque, la prospettiva è un po’
la stessa.

Un lavoro di sé su sé stessi che può essere compreso come una liberazione, come un processo di
liberazione?

Su questo punto sarei un po’ più prudente. Sono sempre stato un po’ diffidente nei confron-
35 ti del tema generale della liberazione, nella misura in cui, se non lo si tratta con qualche pre-
cauzione e all’interno di certi limiti, rischia di riportare all’idea che esiste una natura o un fondo
umano che, in seguito ad alcuni processi storici, economici e sociali, si è trovato mascherato, alie-
nato o imprigionato in alcuni meccanismi, in certi meccanismi di repressione. In base a quest’ipo-
tesi, basterebbe far saltare i chiavistelli repressivi perché l’uomo si riconcili con sé stesso,
40 ritrovi la sua natura o riprenda contatto con la sua origine e restauri un rapporto pieno e posi-
tivo con sé stesso. Credo che questo tema non possa essere accettato così, senza verifica. […]
È per questo motivo che insisto più sulle pratiche di libertà che sui processi di liberazione, i
quali, lo ripeto, hanno un loro posto, ma non mi sembra che possano definire da soli tutte le
forme pratiche di libertà. Si tratta del problema che ho dovuto affrontare proprio a proposito
45 della sessualità: ha senso dire “liberiamo la nostra sessualità”? […] Mi sembra che il proble-
ma etico della definizione delle pratiche di libertà sia molto più importante dell’affermazio-
ne, un po’ ripetitiva, che bisogna liberare la sessualità o il desiderio. […]

Lei dice che bisogna praticare la libertà eticamente…

Sì, perché che cos’è l’etica se non la pratica della libertà, la pratica riflessa della libertà?

50 Questo significa che lei intende la libertà come una realtà già etica in sé stessa?

La libertà è la condizione ontologica dell’etica. Ma l’etica è la forma riflessa che assume la


libertà. […]

La cura di sé, come ha detto lei, è in un certo modo la cura degli altri. In questo senso, la cura di
sé è anche sempre etica, è etica in sé stessa.

55 Per i Greci non è etica perché è cura degli altri. La cura di sé è etica in sé stessa; ma implica
dei rapporti complessi con gli altri, nella misura in cui questo èthos della libertà è anche un
modo di aver cura degli altri; per questo motivo, per un uomo libero, che si comporta come
si deve, è importante saper governare la moglie, i figli, la casa. L’arte di governare sta anche
in questo. L’èthos implica un rapporto con gli altri nella misura in cui la cura di sé rende capa-
60 ci di occupare, nella città, nella comunità o nelle relazioni interindividuali, il posto appro-

ESPOSITO-PORRO • © 2012, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI


1 L’io in questione: la crisi del soggetto moderno 727
priato – per esercitare una magistratura o per avere rapporti di amicizia. La cura di sé impli-
ca, inoltre, il rapporto con l’altro, nella misura in cui, per avere buona cura di sé, bisogna ascol-
tare le lezioni di un maestro. Si ha bisogno di una guida, di un consigliere, di un amico, di qual-
cuno che ci dica la verità. Pertanto, il problema dei rapporti con gli altri è presente in tutto lo
65 sviluppo della cura di sé. […]
Ma non credo che si possa dire che l’uomo greco che ha cura di sé debba, innanzitutto,
avere cura degli altri. Non è necessario che la cura degli altri preceda la cura di sé, la cura di sé
viene eticamente prima, nella misura in cui il rapporto con sé stessi è ontologicamente primo. […]

Ma lei ha sempre “impedito” che le si parlasse di soggetto in generale?

70 No, non l’ho “impedito”. Forse ho dato delle formulazioni inadeguate. Ho rifiutato che si pre-
supponesse a priori una teoria del soggetto – come si poteva fare, per esempio, nella fenome-
nologia o nell’esistenzialismo – e che, a partire da questa teoria del soggetto, si ponesse la
questione di sapere come, per esempio, fosse possibile tale forma di conoscenza. Ho cercato
di dimostrare come il soggetto costituisse sé stesso, in questa o quella determinata forma, in
75 quanto soggetto folle o soggetto sano, in quanto soggetto delinquente o in quanto soggetto
non delinquente, attraverso alcune pratiche che erano giochi di verità, pratiche di potere, ecc.
Dovevo rifiutare una certa teoria a priori del soggetto per poter fare l’analisi dei rapporti che
intercorrono tra la costituzione del soggetto o le differenti forme del soggetto e i giochi di
verità, le pratiche di potere, ecc.

80 Questo significa che il soggetto non è una sostanza…

Non è una sostanza. È una forma e, soprattutto, questa forma non è mai identica a sé stessa.
Non abbiamo lo stesso tipo di rapporto con noi stessi quando ci costituiamo come un sog-
getto politico che va a votare o prende la parola in un’assemblea e quando cerchiamo di rea-
lizzare il nostro desiderio in una relazione sessuale. Probabilmente esistono rapporti e inter-
85 ferenze tra queste differenti forme del soggetto, ma non si è mai in presenza dello stesso tipo
di soggetto. In ogni caso, si gioca, si stabiliscono differenti forme di rapporto con sé stessi.
Mi interessa la costituzione storica di queste differenti forme del soggetto, in rapporto con i
giochi di verità. […]

Tale questione rimanda al problema del soggetto, poiché, nei giochi di verità, si pone la questione
90 di sapere chi dice la verità, come la dice e perché la dice. Perché nel gioco di verità, si può gioca-
re a dire la verità: c’è un gioco, si gioca alla verità o la verità è un gioco.

La parola “gioco” può indurre in errore: quando dico “gioco” dico un insieme di regole di pro-
duzione della verità. Non è un gioco nel senso di imitare o recitare…, si tratta di un insieme di
procedure che conducono a un certo risultato, che può essere considerato, in funzione dei suoi
95 princìpi e delle sue regole di procedura, come valido o no, come vincente o perdente. […]

Dunque la verità non è una costruzione?

Dipende: ci sono giochi di verità in cui la verità è una costruzione e altri in cui non lo è. […]
Questo non significa che di fronte non c’è nulla e che è tutto frutto della mente di qualcuno.
[…]

100 In fondo, al cuore del problema della verità c’è anche un problema di comunicazione, il problema
della trasparenza delle parole del discorso. Chi ha la possibilità di formulare delle verità ha anche
un potere, il potere di poter dire la verità e di esprimerla come vuole.

ESPOSITO-PORRO • © 2012, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI


728 percorsi tematici

Sì, e questo non significa, tuttavia, che quello che dice non sia vero, come crede la maggior
parte delle persone: quando si fa loro notare che può esistere un rapporto tra la verità e il
105 potere, dicono: “Ah, allora non è la verità!”. […]
Mi sembra che l’idea che possa esistere uno stato di comunicazione tale che i giochi di
verità potranno circolare senza ostacoli, senza vincoli e senza effetti coercitivi appartenga
all’ordine dell’utopia2. Significa proprio non vedere che le relazioni di potere non sono qualcosa
di cattivo in sé, da cui bisogna affrancarsi; credo che non possa esistere una società senza relazio-
110 ni di potere, se queste vengono intese come strategie attraverso cui gli individui cercano di condur-
re e di determinare la condotta degli altri. Il problema non è, dunque, di cercare di dissolverle
nell’utopia di una comunicazione perfettamente trasparente, ma di darsi delle regole di dirit-
to, delle tecniche di gestione e anche una morale, un èthos, la pratica di sé, che consentano,
in questi giochi di potere, di giocare con il minimo possibile di dominio. […]
115 Questo compito è sempre stato una grande funzione della filosofia. Nel suo versante cri-
tico – intendo critico in senso lato –, la filosofia è proprio ciò che rimette in discussione tutti
i fenomeni di dominio, a qualunque livello e in qualunque forma si presentino – politici, eco-
nomici, sessuali e istituzionali. Questa funzione critica della filosofia deriva, fino a un certo
punto, dall’imperativo socratico: “occupati di te stesso”, cioè “fonda te stesso in libertà, attra-
120 verso la padronanza di te”.

guida alla lettura


1. Che cosa intende Foucault per “giochi di verità”?
2. In che consiste la “pratica di sé”?
3. Come descrive Foucault la dimensione etica della cura
di sé?
2. Foucault si riferisce qui, in particolare, alla teo-
ria dell’agire comunicativo di Jürgen Habermas.

BIBLIOGRAFIA
Fonti e altri scritti (1917-1923), Bollati di A. Dell’Asta, Jaca Book, Milano 1990.
Boringhieri, Torino 1989 • E. Lévinas, Altrimenti che essere
• K. Marx, Manoscritti economico- • E. Husserl, Idee per una o al di là dell’essenza, trad.
filosofici del 1844, trad. di N. Bobbio, fenomenologia pura e una filosofia di S. Petrosino e M.T. Aiello,
Einaudi, Torino 2004 (ma vedi anche fenomenologica, vol. I, trad. Jaca Book, Milano 1983.
la trad. di G. Della Volpe, in K. Marx - di E. Franzini e V. Costa, Einaudi, • M. Foucault, L’etica della cura di sé
F. Engels, Opere complete, vol. III, Torino 2002. come pratica della libertà (intervista
Editori Riuniti, Roma 1976). • M. Heidegger, Essere e tempo, con H. Becker, R. Fornet-Bétancourt
• F. Nietzsche, Al di là del bene nuova ed. it. a cura di F. Volpi sulla e A. Gomez-Müller, 20 gennaio 1984),
e del male, trad. di F. Masini, versione di P. Chiodi, Longanesi, in Archivio Foucault 3. 1978-1985:
Adelphi, Milano 1977. Milano 2005. Estetica dell’esistenza, etica, politica,
• F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra. • M. Heidegger, Lettera a cura di A. Pandolfi, trad.
Un libro per tutti e per nessuno, sull’“umanismo”, in Segnavia, di S. Loriga, Feltrinelli, Milano 1998,
trad. di M. Montinari, Adelphi, ed. it. a cura di F. Volpi, Adelphi, pp. 273-306 (poi anche in
Milano 1976. Milano 1987. M. Foucault, Antologia. L’impazienza
• S. Freud, L’Io e l’Es, trad. di C.L. • E. Lévinas, Totalità e infinito. della libertà, a cura di V. Sorrentino,
Musatti, in Opere, vol. IX: L’Io e l’Es Saggio sull’esteriorità, trad. Feltrinelli, Milano 2005, pp. 234-253).

ESPOSITO-PORRO • © 2012, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI

Potrebbero piacerti anche