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Ritorno alla realtà

Emilio Komar
Incontro con una delle personalità più acute della filosofia contemporanea.La riscoperta di un grande
uomo dimenticato dall'integralismo di tutti gli “antintegralisti”.
L'idealismo e la sua mancanza di rispetto per la realtà: un esito nichilista che annulla
l'io umano.

Il realismo in san Tommaso Premette che la vera conoscenza è comunicazione tra un


cuore che parla e un cuore che ascolta. Emilio Komar, 74 anni, emigrato da Lubiana
all'Argentina di Perón nel 1947, ricorda con vivida lucidità i “cuori” che gli hanno
parlato. Nomi sconosciuti ai più - Spectorsky Eugenio, Swiezaski Stefano - e nomi più
noti - Carlo Mazzantini, Giuseppe Gemmellaro - fino a Del Noce (“con lui ho avuto
coincidenze sorprendenti”) e la cui morte ha interrotto un carteggio cui Komar
attribuisce grande importanza. Ma questa, come dice lui stesso, è ars longa di cui
occorrerà parlare in altra occasione.
Rifugge le interviste come la peste. E del resto non ne ha mai date. Alla richiesta, ma è
meglio dire un vero e proprio assedio durato mesi, oppone una selva di «no» variamente
motivati. Poi, improvvisa quanto imprevista, la resa, precisamente motivata: « Accetto
per monsignor Giussani e la considerazione immeritata che ha di me ». Quindi otto ore
di domande e risposte distribuite in due cafeterias di Buenos Aires, tra il rumore delle
tazzine di caffé, il calore implacabile dell'estate argentina e la verve polemica, limata
con fatica ad intervista conclusa, di questo tomista “realista” che ha assistito al degrado
dell'ossequio che il pensiero deve alla verità.

Lei si definisce «realista cristiano». Perché sente la necessità di accostare questi due
termini?

Perché tutta la filosofia cristiana è realista. Il realismo non è solo un atteggiamento di


adesione alle cose: noi non siamo “cosisti”, anzi, piuttosto per noi tutte le cose sono
creature dirette o indirette di Dio; le stesse creazioni umane non sono operate ex nihilo:
noi non ricreiamo, ma concreiamo, perché le cose sono già state pensate. In tedesco
viene tradotto con una espressione ancor più efficace (di Erhard Weigel): «Der Mensch
denkt nach», dove nach significa sì dopo, ma anche secundum. Noi, infatti, pensiamo le
cose dopo Dio, e seguendo il pensiero che Dio ne ha avuto. È un approccio alla realtà
che gli idealisti non possono sopportare.
Considera l'idealismo l'avversario principale del cristianesimo?

È il nemico radicale, perché il pensiero idealista è assoluta mancanza di rispetto per il


dato, concepisce tutto quasi fosse creato ex nihilo; ma questo partire dal nulla fa sì che
gli idealisti si trovino alla fine nel e col nulla.

Dove la vede l'influenza dell'idealismo oggi?

Tutta la filosofia contemporanea, soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, è


dominata da quello che preferirei chiamare un “criptoidealismo”. Da quattro secoli a
questa parte la lotta è sempre la stessa: già nel 1513 il V Concilio Lateranense
proclamava che Dio ha creato l'uomo singulariter, non in maniera tipica (alma
generica). A volte i programmi educativi, anche cattolici, ostentano l'idea di voler
creare un nuovo tipo di giovani. Ma quale nuovo tipo! Bisogna formare la singola
persona, facendo crescere ciò che Dio ha già posto dentro di noi, come diceva san
Bernardo, «sibi similis, Deo similis»; ma la formula si può anche rovesciare, «Deo
similis, sibi similis». L'uomo standardizzato fa fatica ad assomigliare a Dio, mentre
l'uomo che si sottomette alla legge di Dio lavora per costruire il suo “io” autentico.
Invece tutti gli idealismi possono tendere solo all'essere generico e non riescono a
concepire la relazione “io-tu”.

Ci pare che questa sua risposta riveli un certo pessimismo verso la filosofia cattolica
contemporanea...

Non ha forza e in pratica neppure la capacità di obbligare le altre posizioni a rivelarsi


nella loro parzialità. Da una parte c'è una filosofia pessima, di certi laici e anche chierici
che vogliono comprimere le grandi visioni di sant'Agostino e san Tommaso nel buco
stretto di Gadamer, di Heidegger, pensando di fare una cosa “moderna”; dall'altra,
appunto, un “criptoidealismo” ... Bisogna liberare la filosofia da questo servilismo alla
moda di turno.

Dove vede un cedimento al “criptoidealismo” in campo cattolico?

Nel culturalismo di molti pensatori cattolici; e nel culturalismo c'è l'idealismo. Non
penetrano veramente la realtà, hanno ceduto alle esigenze di Kant.
Poco fa ha detto che il pensiero idealista finisce nel nulla. Perché questo esito
nichilista?

«Deus eduxit res ex nihilo», dice San Tommaso, Dio ha tratto il mondo dal nulla. Se
non ci fosse una forza, un bene, un essere pieno che esiste da sempre e per sempre,
l'unica alternativa sarebbe che le cose si siano tratte da sole. L'essere sarebbe il
passaggio in un viaggio che va dal nulla al nulla. Il nichilismo moderno è la necessaria
conseguenza di questa impostazione che si trova alla radice dello stesso idealismo. Ma
noi non possiamo fare niente dal nulla, noi siamo solo collaboratori di Dio alla
creazione del mondo. Chesterton è stato tra i pochi che hanno sottolineato la grande
importanza della concezione della creazione nel pensiero di san Tommaso.
Anche nella Chiesa il tema della creazione non è trattato con molta frequenza; si è perso
lo stesso sentimento di essere creature. Il cardinale Ratzinger, quando era arcivescovo
di Monaco, ha dedicato le sue prime prediche di Quaresima a questo tema, spiegando
come l'idea di creazione sia fondamentale per la comprensione dell'ordine delle cose.

In una sua recente conferenza lei ha tracciato una distinzione tra due tipi di idealismo:
uno “più innocente” che si risolve in panteismo, ed un secondo, “più insidioso”, che ha
assimilato al marxismo materialista.
No, non è esatto, di materia nel marxismo non si parla. Si parla di materiali, di materia
prima da plasmare, deformare, usare. Non rispetta, questo marxismo, l'ordine intrinseco
dell'oggetto. Direi che una caratteristica che stupisce leggendo i libri dei marxisti è che
in essi, pur trattandosi di libri materialisti, non ci sia mai un capitolo che parli della
materia; vi si trova solo l'attivismo, che ha come unico scopo quello di trasformare, e
che davanti ad una cosa può porsi solo l'interrogativo: «Che farne?»! Immaginate una
persona a cui regalano una statua di legno bella e preziosa e che dice: «Che bella statua,
si potrebbero farne duemila stuzzicadenti». Questo è un esempio di come oggi la
materia non sia più compresa e conosciuta, e come accada che tutto l'essere sia privato
della sua originaria impronta.

Ma il marxismo non è finito?

Il marxismo è finito come sistema, ma non si sono esauriti gli elementi che lo
compongono. Il cosiddetto pensiero dialettico, per esempio: dialettico significa
antidialogo e ciò postula una assenza di soggetti. La dialettica nega l'esistenza di enti
particolari, li riduce a momenti di un processo. In questo senso il marxismo si è dissolto
disseminandosi. Ha conquistato il mondo in forma impura, attraverso il positivismo.

Quando lei parla della realtà, della creazione, è come se queste fossero una rivelazione
continua...

Lo sono. La realtà, le cose, non possono essere prese come semplici fatti; c'è in esse una
profondità irriducibile. Come dietro le opere d'arte c'è un artista, qualcuno che le ha
sentite, amate e progettate, così le cose sono già state pensate. Pensate, volute e amate.

Questo suo accenno introduce la grande questione dell'educazione dell'uomo


contemporaneo a vedere la realtà per quello che essa è veramente.

L'educazione è una questione di prim'ordine perché la vera conoscenza è sempre una


comunicazione tra un cuore che parla e un cuore che ascolta. L'errore radicato
nell'intellettualismo è una concezione dell'uomo scisso tra ragione e sensibilità, tra
senso e valore. Il vero spirito intellettuale è uno sguardo insieme penetrante, acuto e
pieno d'amore, come scriveva Edith Stein. La volontà è primariamente affettiva,
sosteneva giustamente Rosmini: è questa che permette al sapiente di gustare il sapore
della cosa, di non provare mai noia. Questo è ragionevole, perchè la prima percezione
di valore la registra la volontà e la volontà è per sua natura esclusivamente affettiva: il
cuore parla al cuore in modo univoco. Allora, per tornare all'educazione, bisogna
imparare da Dio più che dagli uomini. Le grandi virtù conoscitive per l'uomo sono
l'attenzione e la docilità, e non la creazione ex nihilo e l'interpretazione; infatti, se non
ci sono sguardo e attenzione sulle cose, è vano il ragionamento. Il metodo in sé, avulso
dal reale, non esiste, ma è sempre imposto di volta in volta dall'oggetto.

Quando dice che ci sono programmi educativi, anche cattolici, deludenti, a che cosa si
riferisce? Dove lo vede?

Appunto nel fatto che è assente una educazione all'attenzione. Primeggia la prassi.
Persino in teologia. Mentre la vera conoscenza si deve occupare della verità che sta
nelle cose, che è la reale presenza di un Altro. E questo concetto di conoscenza era
quello che, almeno inizialmente, Husserl voleva attuare: un vero ritorno alle cose.
Anche un pensatore di un altra cultura come Ortega y Gasset esprime l'esigenza di
tornare alla realtà. Così, un pezzo di essere può aprirci il cammino verso l'essere pieno,
come può chiuderlo. Bisogna tener fermo questo punto di vista perchè una educazione
possa essere considerata tale.

Le università pubbliche, statali, sono dominate dal pensiero positivista, in certi casi da
un positivismo della peggior specie. Vale la pena, per un cattolico, contendere questi
spazi, tentare cose diverse?

È sempre giusto, prima, imparare ciò che viene insegnato e dare esami... anche non
credendoci. Così lo si conosce, questo positivismo a volte dozzinale. C'è anche da dire
che non tutti sono positivisti, anzi la maggioranza è culturalista. Si studia filosofia come
si studia storia della letteratura, si riuniscono informazioni, ma non si parla delle
“cose”. Il pathos filosofico, del resto, lo può dare solo uno che ce l'ha. A Torino
seguivo un salesiano, Giuseppe Gemmellaro, siciliano, allora giovane decano della
facoltà di filosofia del Pontificio ateneo salesiano. Quest'uomo mi caricava le batterie
per settimane, perché quando apriva la bocca “filosofava” veramente. Lo stesso
facevano Gentile e Sciacca. La loro era una filosofia forte. Anche Mazzantini
filosofava; lo faceva in modo pacato. Nelle conferenze parlava in una maniera quasi
monotona, foneticamente intendo; ma il pensiero non era monotono. In un momento
dell'esposizione era capace di alzare la voce ed esclamare: «Ma in questo, signori,
siamo tutti greci!», e stare in silenzio alcuni secondi. E noi ci rendevamo facilmente
conto che la pensavamo in modo sbagliato. Oppure diceva: «Per essere benevolmente
critici, bisogna prima essere criticamente benevoli». Così arrivava a noi...

Sappiamo che lei si dedica da anni ad un lavoro di “riperiodizzazione della modernità”.


Generalmente la modernità è trattata come contrapposta al cattolicesimo...

È una questione lunga, un po' il lavoro di tutta la mia vita. Devo comunque ricordare
una coincidenza importante per me, la scoperta di un pensatore polacco, Stefano
Swiezaski, che scrisse, tra le altre cose, una storia della filosofia del secolo XV in sette
volumi, purtroppo in polacco. Con lui ho avuto un contatto assolutamente casuale.
Venne ad un congresso di filosofia cristiana a Cordoba, al quale non potei partecipare
perché ero relatore ad un altro congresso. Andarono invece alcuni miei alunni, i quali,
ascoltandolo, si guardarono tra loro sorridendo. La cosa lo infastidì ed essi gliene
spiegarono la ragione. «Le stesse cose - gli dissero - ce le aveva insegnate lo scorso
mese il professor Komar». Lui volle sapere chi fossi. La cosa si ripeté nel corso di un
seminario nella località di San Isidro, dove lo invitarono a parlare di Pico della
Mirandola, su cui anch'io avevo fatto lezione. Stessa scena di Cordoba. Pensò di
dovermi incontrare, ma l'incontro, per varie ragioni, non poté aver luogo. Mi mandò un
bigliettino invitandomi a scrivergli a Varsavia. Lo feci, mi inviò i suoi libri, ed
iniziammo un carteggio entusiasmante. Quando la sua opera verrà pubblicata in una
lingua più accessibile ribalterà molte cose.
Noi siamo stati tutti clienti della storiografia liberale che è ispirata in parte a Leibniz e
in parte a Hegel e ai suoi discepoli, e noi la ripetevamo con qualche riferimento
cattolico, con una spruzzata di acqua benedetta e alcuni santini di don Bosco. Questa
era la storia cattolica della filosofia moderna. Ma dentro aveva una tremenda tesi di
origine liberale...

Questo nucleo “liberale” non è stato ancora contestato a fondo da parte cattolica?

No, è stato contestato parzialmente. La reazione alla Rivoluzione francese, il


tradizionalismo, si è opposto a questa visione della modernità generando uno schema di
pensiero antimoderno. Questo schema domina il tradizionalismo cattolico del secolo
passato fino a Maritain. Maritain lo riflette nell'ultimo libro, L'antimoderne, che poi
rinnegherà, ma è una impostazione profondamente radicata nel mondo francofono. Tra
una modernità non vera e un'antimodernità di reazione c'è una base comune da cui si
producono progressismo e integrismo, modernismo e tradizionalismo. Tutti sono
dipendenti da una falsa visione del pensiero moderno, sono gemelli siamesi che non
possono essere operati. Tanto che molti autori partono da posizioni integraliste e poi
diventano progressisti. Lo stesso Maritain, o quella misteriosa figura italiana che è
Gioberti, e molti altri che dall'antimoderno transitarono al moderno. E dietro a ciò non
c'è tanto un errore teoretico-filosofico, ma un errore storico-cultural-politico. Che è poi
la tesi di Augusto Del Noce.

Può precisare questo punto, che ha attribuito a Del Noce, che cioè dietro questa
concezione di moderno/antimoderno c'è un errore storico-cultural-politico?

Per Del Noce il tema centrale è quello dell'interpretazione storica del fascismo. Per lui
il fascismo non è integrista, ma è rivoluzionario, è una forma occidentale del marxismo,
dell'idealismo che afferma la supremazia della prassi. In questo senso la polemica
italiana è una polemica di importanza universale. Gentile è il primo autore che prende
sul serio le tesi su Feuerbach. L'ultima tesi, l'undicesima, afferma che fino ad ora la
filosofia ha interpretato il mondo, ma da ora in poi lo creerà. La filosofia che crea e
trasforma il mondo rende inutile la contemplazione dell'essere.

A lei che cosa è servito del pensiero di Del Noce?

Pressochá tutto. Ho avuto con lui coincidenze sorprendenti, con un linguaggio,


ovviamente, differente. Io ero interessato alla storia politica italiana indipendentemente
da Del Noce. Un mio mentore, un avvocato di Gorizia, il dottor Kraly, venne confinato
a Lipari, dove si trovava quasi tutta la creme dell'opposizione italiana: alcuni grandi
massoni, alcuni grandi socialisti, comunisti, popolari... Del Noce interpreta il fascismo
come movimento rivoluzionario e moderno, al contrario degli antifascisti che lo
presentano come un movimento essenzialmente reazionario. Del Noce comincia con il
fascismo e procede all'indietro... attraverso Gentile che voleva continuare il
Risorgimento, ma liberando le idee della filosofia cristiana risorgimentale dal
platonismo ed il marxismo dal materialismo... attraverso Gioberti, Rosmini, attraverso
la filosofia francese agustiniense, Malebranche, gran resistente all'Illuminismo e le cui
opere sono totalmente sconosciute, poi la linea di pensiero oratoriano francese che trae
ispirazione da san Filippo Neri. È tutto un percorso che ho fatto con lui e che avrei
voluto continuare con lui.

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