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UNIVERSITA’ VITA-SALUTE SAN RAFFAELE

FACOLTA’ DI FILOSOFIA
Corso di Laurea in Filosofia

Esperienze dell’uomo di natura

Relatore: Andrea Tagliapietra

Elaborato finale di: Lorenzo Messaggi

Matricola: 000210

Anno Accademico 2006/2007


2
CONSULTAZIONE ELABORATO FINALE

Il sottoscritto Lorenzo Messaggi n° matr. 000210, nato a Milano il 31 Luglio 1985,


autore della tesi dal titolo:

Esperienze dell’uomo di natura

AUTORIZZA

la consultazione della tesi stessa, fatto divieto di riprodurre, in tutto o in parte, quanto in
esso contenuto.

Data ...................... Firma ............................................

3
4
Indice 5

Avvertenza 7

I. Verso una definizione dell’uomo di natura 9

II. Esperienze dell’uomo di natura 44

I. Erodoto: l’esperimento del faraone Psammetico per determinare


la lingua madre dell’umanità 51

II. Arnobio: una variazione antiplatonica sul paragone della caverna 55

III. Calderón: la disconoscenza di Sigismondo 64

IV. Marivaux: la genesi dell’infedeltà in amore 74

V. Maupertuis: alcuni progetti per una scienza a venire 84

VI. Jauffret: l’“esperienza sull’uomo naturale” nei piani della nascente


antropologia 91

Bibliografia 103

5
6
Avvertenza

Il presente lavoro si propone di indagare la storia di un’idea, un’idea presente


probabilmente fin dalle origini nel pensiero occidentale, e che ancor’oggi, seppur
considerata ‘praticamente impossibile’ da realizzare, può essere utilizzata come ipotesi
euristica e si riverbera su alcune esperienze e alcuni studi del pensiero e della scienza
contemporanei. Si tratta, in estrema sintesi, dell’idea che esista la possibilità di isolare,
nell’uomo, la natura e la cultura, intese l’una, come quelle risposte di comportamento e
di pensiero agli stimoli ambientali che l’uomo deve a una propria dotazione innata,
l’altra, viceversa, come quelle risposte che l’uomo apprende attraverso la frequentazione
dei propri simili. L’idea presuppone che sia possibile distinguere questi due elementi, e
che sia possibile verificare questa distinzione attraverso la forzata separazione, dalla
nascita, di un uomo dal resto della società. Senza alcun possibilità di un apprendimento
culturale, l’uomo svilupperebbe solo quei caratteri che possiede da sé, che sono appunto
propri della sua costituzione essenziale, della sua natura. Osservandolo e facendone
esperienza, si dovrebbero poter determinare senza indugi queste caratteristiche.
Di quest’idea, per quanto a mio avviso importante, perchè connessa a quel problema
del che cosa è l’uomo che da sempre l’uomo investiga, e che essa investiga secondo un
metodo radicale e sperimentale, manca ancora una storia, che rintracci i testi in cui essa
compare, e tenti di spiegarne la genesi intellettuale e teorica, e il percorso che essa
conduce nei secoli. Perché se ne riveli, se esiste, uno sviluppo coerente, unitario e
progressivo, o quantomeno si riesca a individuarne una tradizione, e perché i singoli
testi in cui essa compare vengano restituiti alla dimensione di eventi che hanno una
certa causa, e non a meri episodi o aneddoti intellettuali, occorrerebbe una trattazione
più sistematica e più vasta, in grado di collegare e spiegare ciò che ad oggi appare
ancora frammentario. Finora non ho trovato tracce di uno studio di questo genere, né
questo ha la pretesa di esserlo. Qui si è trattato di mettere insieme alcune delle fonti in
cui di questa esperienza si trattava (quelle che più propriamente mi sembravano
evidenziare i caratteri della ‘naturalità’ dell’uomo e dell’utilizzo di un metodo
empirico), per come venivano ritrovate attraverso i rimandi diretti degli autori,
attraverso le preziose note di commento alle edizioni critiche dei testi e attraverso quegli
studi che si dedicavano a individuare le possibili influenze precedenti sulla genesi di un

7
singolo testo. Così, non conoscendo uno studio di insieme sull’argomento, è probabile
che molto sia sfuggito, sia per la mia volontaria selezione (anche se ho cercato di
inserire in nota quei testi di cui ero al corrente, ma che non mi è stato ancora possibile
recuperare o studiare adeguatamente), sia perché non si poteva pretendere esaustività da
lavori che non avevano questo scopo.
In definitiva, non si è ritenuto di dover trarre alla fine del testo alcuna conclusione,
nella speranza che questa decisione non venga compresa né come confessione di
un’insufficienza del lavoro, né come un’ipocrita falsa modestia, ma come coscienza che
bisognava operare una prima selezione e riconoscendo che conclusioni, anche negative,
potranno darsi solo al termine di una più ampia ricerca, che si ha intenzione di
intraprendere, e di cui questa tesi costituisce solo una prima ricognizione.

8
È probabile che non vi sia alcuna specie di selvaggi presso i quali non si trovi almeno qualche inizio
di società.
JOSEPH-MARIE DEGÉRANDO, Considerations Générales sur les Diverses Méthodes à suivre dans
l’Observation des Peuples Sauvages , 1800

I. Verso una definizione dell’uomo di natura

Nei primi decenni che seguirono la scoperta dell’America la percezione degli ‘altri’,
di tutti coloro che appartenessero a una civiltà differente da quella europea, fu piuttosto
rudimentale: per molti anni ‘gli Indiani’ tout court, la totalità dei popoli e delle culture
con cui per la prima volta si era entrati in contatto (o, nel caso dei popoli delle Indie
Orientali, già conosciuti, con cui ci si cominciò a confrontare), vennero chiamati
‘selvaggi’. Il termine ebbe dunque, in origine, lo stesso campo semantico che
nell’antichità aveva caratterizzato la parola ‘barbaro’. La stessa reazione intellettuale
che portò, a partire dal VI secolo a.C., all’epoca delle grandi colonizzazioni, delle
esplorazioni geografiche e della scoperta da parte dei Greci dei popoli che li
circondavano, a definire come βάρβαρος tutto ciò che era straniero, sembrò ripetersi
all’epoca della scoperta del Nuovo Mondo, e la nuova umanità con cui si cominciarono
ad avere relazioni fu fatta rientrare in toto nella categoria del ‘selvaggio’.
Dovettero passare decenni e si dovette a poco a poco prendere coscienza delle
differenze etnografiche tra le popolazioni scoperte nelle Indie perché avvenisse una
ridefinizione di questo termine, e perché la nozione di selvaggio potesse assumere i
tratti più precisi che la caratterizzeranno nella modernità. Nozione specifica rispetto al
complesso del ‘genere’ barbari, che denotava cioè solo alcuni dei popoli appena
incontrati nelle Indie occidentali, distinti dagli altri, che permanevano barbari, ma
quest’ultimi, ed essi soltanto, dotati di una vita sociale ben più organizzata e sviluppata,
in una certa misura assimilabile alle forme di vita e di associazione umana fino ad allora
conosciute. Si caratterizzeranno così, grazie alla nuova documentazione che negli anni
successivi la scoperta delle Americhe giunse abbondante in Europa, due tipi etnografici
distinti, il primo indicante gli homines sylvestres, i Cannibali e le culture più ‘primitive’
del Nuovo Mondo, il secondo indicante invece quelle popolazioni che avevano
intrapreso un percorso di ascesa nella ‘scala’ dell’umanità, ovverosia che
assomigliavano maggiormente alla civiltà classico-cristiana. Così che il termine

9
‘selvaggi’ verrà ad indicare progressivamente i membri di un insieme più ristretto e
selettivo di quello dei ‘barbari’, e si giungerà a prendere coscienza del fatto che, se tutti
i selvaggi sono barbari (nel senso più generale di stranieri), per contro non tutti i barbari
sono selvaggi 1 .
Tratto fondamentale della figura del selvaggio, per come viene a definirsi nella
cultura europea tra il XVI e il XVIII secolo, è infatti l’assenza di leggi, di poteri, di una
religione e di un insediamento stabile, insomma di un qualsiasi elemento che possa
rivelare agli occhi di un osservatore occidentale una organizzazione comunitaria e
politica. I selvaggi vengono identificati (e distinti) come “quelli che sono come fiere
silvestri, che vivono per i campi senza cittadi né case, senza politia, senza leggi, senza
riti né creanze” già dal sacerdote domenicano Bartolomé de Las Casas, che dedica gli
ultimi tre capitoli della sua Apologetica Historia 2 alla definizione delle differenze
specifiche all’interno dei ‘barbari’. Questa caratterizzazione avrà successo, e trapasserà
nel senso comune della Repubblica delle Lettere 3 . Gli scrittori della prima modernità,
sulla scorta della definizione classica dell’uomo contenuta nella Politica aristotelica
(l’uomo come φύσει πολιτιχòν ζοῷν), giungono a stabilire l’equazione per cui selvaggi
sarebbero tutti coloro che non possono essere chiamati cives. Nel proemio al De
1
Cfr. la voce sauvage della seconda edizione del Dictionnaire de la Langue Française (1872-1877), più conosciuto
come Littré, dal nome del suo autore, Émile Littré (1801-1881). Egli presenta questa distinzione lessicale in modo
particolarmente chiaro: “Le nom des barbares a été donné par les anciens soit à des races qui, comme les Perses,
avaient une civilisation différente de la civilisation gréco-romaine, soit à des populations qui, comme les Gaulois, les
Germains, les Scythes, n’avaient qu’une société peu avancée, sans lettre et sans sciences. Les modernes donnent le
nom de sauvages, par comparaison aux animaux, à des populations qui vivent dans les forêts en une condition
inférieure à celle des barbares” (il dizionario è consultabile presso la University of Chicago, all’interno del progetto
di digitalizzazione del patrimonio letterario francese chiamato ARTFL, all’indirizzo
http://humanities.uchicago.edu/orgs/ARTFL/).
2
Bartolomé de Las Casas, Apologética Historia de las Indias (tr. it. parziale, a cura di Alberto Pincherle, La
Leggenda Nera, Milano, Feltrinelli, 1959) ; citato in Sergio Landucci, I Filosofi e i Selvaggi: 1580-1780, Bari,
Laterza, 1972, p. 94.
3
Su chi fossero propriamente i selvaggi, almeno fino al Settecento, sembra esserci una sostanziale unanimità nella
comunità intellettuale. A questo proposito è opportuno mostrare ancora le testimonianze dei dizionari; questa volta
per come si trovano alle voci sauvage del Dictionnaire de l’Académie Française (1° ed, 1694, ma la definizione
rimane quasi immutata almeno fino alla sesta edizione, del 1835) e dell’Encyclopédie (tomo XIV, 1765). Gli
Accademici scrivono: “Sauvage, se dit aussi des certains peuples qui vivent ordinairement dans les bois, sans
religion, sans loix, sans habitation fixe et plustost en bestes qu’en hommes.”, mentre il redattore della voce
enciclopedica, il cavaliere de Jaucourt, definisce i selvaggi “peuples barbares qui vivent sans lois, sans police, sans
religion et qui n’ont point d’habitation fixe”.

10
procuranda salute indiorum (1589), testo destinato ad esercitare un’influenza notevole
in ragione dell’autorità di Joseph de Acosta, gesuita, missionario e naturalista spagnolo
del XVI secolo, l’autore propone una gerarchia dell’umanità che si fonda proprio su un
discrimine di tipo politico: al vertice di essa sta, ovviamente, la civiltà europea, in
mezzo stanno le civiltà delle Indie Orientali (Cinesi e Giapponesi) e Occidentali
(Peruviani, Messicani), comunque dotate di una “respublica”, di “leges” e di un
“magistratus” che le governano, e, al fondo, si trovano invece, come ultima specie:

Homines sylvestres, feris similes, vix quicquam humani sensus habentes,


sine lege, sine rege, sine foedere, sine certu magistratu et republica, sedes
identidem commutantes aut ita fixa habentes ut magis ferarum specus aut
pecudum caulas imitentur 4 .

Questi sono propriamente, nella nuova definizione, i sauvages: gli uomini senza una
πόλις e che somigliano più a bestie selvatiche che a uomini, come appunto aveva già
detto Aristotele 5 .
Se il contenuto di questa definizione non sembra cambiare nei decenni successivi,
nel corso del Sei-Settecento si va restringendo sempre più la sua estensione:
osservazioni e relazioni più accurate da parte dei viaggiatori di ritorno dalle Americhe,
sull’autorità delle quali (peraltro molto discussa e discutibile 6 ) il mondo dei dotti
4
Anche i rimandi al De procuranda salute indiorum di Acosta sono tratti da Sergio Landucci, I Filosofi e i Selvaggi:
1580-1780, Bari, Laterza, 1972, pp. 97-99.
5
Cfr. Aristotele, Politica, 1253 a 27-9.
6
A proposito dell’influenza sulla cultura europea (e dell’inattendibilità) delle testimonianze dei viaggiatori mette
conto leggere l’interessante saggio di Todorov, Viaggiatori e indigeni (in L’Uomo del Rinascimento, a cura di
Eugenio Garin, Bari, Laterza, 1988, pp. 329-57). Particolarmente emblematica appare l’interpretazione della fortuna
dei resoconti di Amerigo Vespucci, che Todorov ritiene dovuta probabilmente più che ad una fedele descrizione dei
suoi viaggi (incerti), alla loro “qualità letteraria”. “Amerigo fa della letteratura”, “le sue lettere mirano prima di tutto
a sbalordire gli amici di Firenze, a distrarli e a incantarli”, dice Todorov, e il risultato è che un’opera in forma di
epistola come il Mundus Novus di Vespucci (Mundus Novus, 1504, tr. it. di Cristiano Spila, Il Mondo Nuovo, Troina,
Città Aperta, 2007) piena di fantasie e di topoi dell’esotismo rinascimentale, diviene forse l’opera più popolare
dell’epoca, viene ripubblicata almeno cinquanta volte in più lingue nella prima metà del Cinquecento, e gli dona una
fama eterna. Ancora duecentocinquanta anni dopo l’inaffidabilità delle relazioni di viaggio era lamentata con forza da
Rousseau, in una sua celeberrima invettiva del secondo Discours (Note X): “Depuis trois ou quatre cens ans que les
habitans de l’Europe inondent les autres parties du monde et publient sans cesse de nouveaux recueils de voyages et
de rélations, je suis persuadé que nous ne connoissons d’hommes que les seuls Européens [...] Il n’y a guéres que

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elaborava le sue posizioni teoriche, conducono a limitare sempre più il numero di coloro
che possono in effetti essere considerati propriamente selvaggi: “via via che le relazioni
si succedevano, la migliore conoscenza della vita dei diversi popoli, in particolare
l’individuazione dell’esistenza di capi militari e tribali, che prima o dopo non doveva
mancare, implicava puntualmente la dislocazione di un sempre maggior numero di
comunità indiane nella classe delle genti in qualche modo politiche” 7 . Accanto ai molti
resoconti di viaggio che presentavano il quadro di società prive di potere coattivo
interno, ve n’erano altrettanti che costituivano una obiezione nei confronti di coloro che
volessero considerarli meramente sans société. Il continente americano si popolò
sempre più di ‘regni’ e ‘repubbliche’, si pervenne a circoscrivere il pregiudizio sulla
‘bestialità’ e l’‘anarchia’ dei popoli scoperti e i selvaggi veri e propri si ridussero a
essere casi-limite, rari, malnoti e abitanti delle zone più remote e meno conosciute 8 .

quatre sortes d’homme qui fassent des voyages de long cours; les Marins, les Marchants, les Soldats et les
Missionaires; or on ne doit guéres s’attendre que les trois premiéres Classes fournissent des bons Observateurs, et
quant à ceux de la quatriéme, occupés de la vocation sublime qui les appelle, quand ils ne seroient pas sujet à des
préjugés d’état comme tous les autres, on doit croire qu’ils ne se livreroient pas volontiers à des recherches qui
paroissent de pure curiosité, et qui les dètourneroient des travaux plus importans auxquels ils se destinent”. E
continua: “On n’ouvre pas un livre de voyage où l’on ne trouve des descriptions de caractères et de moeurs; mais on
est tout étonné d’y voir que ces gens qui ont tant décrit de choses, n’ont dit que ce que chacun savoit déjà [...] et que
ces traits vrais qui distinguent les nations, et qui frapent les yeux faits pour voir, ont presque toujours échapé aux
leurs. Rousseau conclude affermando che: “ce seroit une grande simplicité de s’en rapporter là dessus à des
voyageurs grossiers” e si rammarica che “dans une Siécle où l’on se pique de belles connoissances, il ne se trouve pas
des hommes bien unis, riches, l’un en argent, l’autre en genie, tous deux aimant la gloire et aspirant à l’immortalité,
dont l’un sacrifie vingt mille écus de son bien et l’autre dix ans de sa vie à un célèbre voyage autour du monde; pour
y étudier, non toujours des pierres et des plantes, mais une fois les hommes et les moeurs”. Cfr. Jean Jacques
Rousseau, Discours sur l’Origine et les Fondements de l’Inégalité parmi les Hommes, Amsterdam, chez M.-M. Rey,
1755 (in Oeuvres Completès, tome IIIeme, Paris, Gallimard, 1964), pp. 212-13.
Solo a fine Settecento si farà un singolare tentativo di rigorizzazione della metodologia della spedizione scientifica e
geografica, attraverso l’elaborazione delle cosiddette Instructions de voyage, veri e propri vademecum per viaggiatori,
elaborati da studiosi e filosofi, che indicavano loro quali dati raccogliere e con quale metodo (sull’‘invenzione’ di
questo genere letterario, cfr. Moravia S., La Scienza dell’Uomo nel Settecento, Bari, Laterza, 1970, pp. 151-61. Il
volume riporta in appendice anche uno dei testi di maggior rilievo di questo tipo di scritti, ad opera dell’idéologue e
membro della Société des Observateurs de l’Homme Joseph-Marie Degérando (1772-1842) intitolato: Considerations
générales sur les diverses méthodes à suivre dans l’observation des peuples sauvages, ivi, pp. 277-308).
7
Cfr. Sergio Landucci, I Filosofi e i Selvaggi, op. cit., p. 103.
8
Significativa appare la modifica apportata alla definizione di selvaggio tra la prima (1694) e la quarta (1762)
edizione del Dictionnaire de l’Académie Française; in quest’ultima si legge: “SAUVAGE se dit aussi de certains
peuples qui vivent ordinairement dans le bois, presque sans religion, sans lois, sans habitation fixe, et plutot en bêtes

12
All’ambiguità dei ‘fatti’ che venivano raccontati in Europa faceva eco una
corrispondente confusione nell’elaborazione di ‘quadri teorici’ che fossero in grado di
dare una spiegazione delle forme associative che si riscontravano nel Nuovo Mondo.
Da un lato infatti stavano tutti quei pensatori di cui abbiamo detto che, riprendendo la
definizione aristotelica (che si era trasformata attraverso la mediazione degli scolastici
nell’implicazione che ogni societas dovesse essere anche civitas 9 ), tenevano fermo che
la natura dell’uomo fosse naturalmente politica e che dunque tutti gli uomini dovessero
di necessità vivere in una forma di aggregazione assimilabile alla πόλις greca (dotata di
leggi, di magistrati, di governo ecc.). Essi si spingevano polemicamente a sottolineare la
superficialità e l’inverosimiglianza di tutte quelle relazioni di viaggio che non potessero
essere inscritte all’interno del loro sistema: queste pericolose controfattualità, per coloro
che pedantemente giuravano sulla parola di Aristotele, venivano private di credibilità
per salvare i presupposti teorici che erano in contraddizione con esse 10 . Dall’altra parte
stavano i negatori della naturalità dell’organizzazione politica dell’umanità, i quali

qu’en hommes” (corsivo mio). La quarta edizione (non mi è stato possibile consultare la seconda e la terza) sembra
aver recepito finalmente questo cambio di direzione: lo stato dei selvaggi non era di totale assenza di regole, ma
esistevano all’interno di questi gruppi forme di socialità organizzata, per quanto diverse da quelle europee.
9
Cfr. Tommaso d’Aquino, De Regimine Principum, ad Regem Cypri o De Regno,1267, Liber I, Capitulus 1: Quod
necesse est homines simul viventes ab aliquo diligenter regi : “Naturale autem est homini ut sit animal sociale et
politicum, in multitudine vivens, magis etiam quam omnia alia animalia, quod quidem naturalis necessitas declarat.
Aliis enim animalibus natura praeparavit cibum, tegumenta pilorum, defensionem, ut dentes, cornua, ungues, vel
saltem velocitatem ad fugam. Homo autem institutus est nullo horum sibi a natura praeparato, sed loco omnium data
est ei ratio, per quam sibi haec omnia officio manuum posset praeparare, ad quae omnia praeparanda unus homo non
sufficit. Nam unus homo per se sufficienter vitam transigere non posset. Est igitur homini naturale quod in societate
multorum vivat [...] Si ergo naturale est homini quod in societate multorum vivat, necesse est in hominibus esse per
quod multitudo regatur. Multis enim existentibus hominibus et unoquoque id, quod est sibi congruum, providente,
multitudo in diversa dispergeretur, nisi etiam esset aliquis de eo quod ad bonum multitudinis pertinet curam habens;
sicut et corpus hominis et cuiuslibet animalis deflueret, nisi esset aliqua vis regitiva communis in corpore, quae ad
bonum commune omnium membrorum intenderet”.
10
Un esempio di ‘deduzione’ teorica dell’impossibilità dell’esistenza di associazioni non-politiche mi sembra potersi
trovare in un brano che traggo da Sergio Landucci, I Filosofi e i Selvaggi, op. cit., p. 108, scritto dai Gesuiti francesi
(Mémoires pour l’Histoire des Sciences et des Beaux Arts, Trevoux, 1724): “C’est ici le point sur lequel on est le plus
prevenu contre ces habitants du Nouveau [...] Monde; car on n’a pas laissé de leur accorder quelques idées, quoique
fausses, de la Divinité et d’une Religion, mais du reste on les a fait vivre dans une indépendance parfaite et plus que
republiquaine. La raison eût pû cependant détromper de cette idée, en attendant que les faits mêmes en
démonstrassent la fausseté; car pour peu qu’on raisonne, on voit bien que vivre en communauté, en société, et n’avoir
point de gouvernement et d’oeconomie politique est une contradiction que l’humanité ne sçauroit comporter en
aucune sorte…” (corsivo mio).

13
potevano vantare come capostipite di questa linea di pensiero nella modernità Hobbes.
È questi, infatti, a pensare per primo l’esistenza di uno “stato di natura” che preceda,
logicamente e storicamente 11 , l’istituzione di uno Stato politico e a pensarlo però come
assolutamente opposto alla civilis societas, senza considerare figure intermedie che gli
consentirebbero (anche nel suo caso) di rendere coerente il suo pensiero con i fatti, e in
particolare di inserire in un quadro sistematico proprio quei selvaggi d’America il cui
influsso nell’elaborazione della sua antropologia e la cui presenza in numerosi passi dei
suoi testi è indiscutibile. Dal momento che egli pone come alternativa radicale quella tra
status naturalis (inteso, come noto, come stato di asocialità, di belligeranza senza sosta
tra gli uomini, di precarietà e miseria delle condizioni materiali 12 ) e stato civile (inteso
come quello stato ‘inventato’ dagli uomini nel quale è garantita una pace ‘artificiale’, in
cui ci si emancipa dal metus violentae mortis et periculum perpetuum ed in cui è
concesso lo sviluppo delle arti e il conseguimento della leisure attraverso l’istituzione di
un potere coercitivo superiore ai singoli individui), non sembra esserci alcuno spazio
per considerare quegli embrioni di socialità che sono le tribù indigene, che infatti
Hobbes relega nel suo sistema ancora nello spazio della “nulla societas”. “È vero che,
guardando ai selvaggi, egli li ha pur trovati organizzati in tante tribù disperse, ma ben
tali raggruppamenti, così «piccoli», gli sono apparsi come i soggetti dell’isolamento
‘asociale’ naturale: molecole spontanee, per dir così, che scadono però ad un valore
atomico nel confronto con l’ipotesi di una loro aggregazione in civili Leviatani, quali
quelli che altrove, nel Vecchio Mondo, s’erano pur sviluppati” 13 . Se rifiuta decisamente
il πολιτιχòν ζοῷν aristotelico e la sua antropologia, Hobbes sta mantenendo però il
pregiudizio scolastico per cui non vi può essere alcuna società senza organizzazione

11
Sulla ‘storicità’, sull’esistenza reale dello “stato di natura” in Hobbes (di cui una prova sarebbero proprio le tribù
nordamericane), che non sarebbe uno stato puramente fittizio, una mera “logical hypothesis” come molti interpreti,
dal Seicento ad oggi, hanno voluto interpretarlo, si sofferma in maniera convincente proprio Sergio Landucci, I
Filosofi e i Selvaggi, op. cit., pp. 114-42.
12
Per la discussione seguente si confronti: Thomas Hobbes, Leviathan, London, printed for Andrew Crooke, 1651 (tr.
it di Gianni Micheli, Leviatano, La Nuova Italia, Scandicci (Firenze), 1976), Capitolo XIII, Della Condizione
Naturale dell’Umanità per quanto concerne la sua Felicità e la sua Miseria.
13
Sergio Landucci, I Filosofi e i Selvaggi, op. cit., p. 139.

14
politica 14 . È così costretto a interpretare le famiglie, le gentes, e le tribù di cui ha notizia
dalle Americhe come eccezioni a questa derivazione civitas-societas 15 . In esse non vi è
infatti un potere centrale e costrittivo, eppure la guerra “of every man against every
man” viene in una certa misura evitata attraverso un sentimento naturale di “concordia”
che consente l’istituzione di isole di socialità. Ma è una concordia fondata sulla
“concupiscenza naturale” (natural lust), cioè sulla necessità di relazioni sessuali-
matrimoniali, che non può dare luogo che a piccoli gruppi umani e non è suscettibile di
ulteriori sviluppi. L’assoluta insocialità originaria, che sembra essere la conclusione di
un esperimento ideale fondato su quegli impulsi e passioni umane distruttive 16
universalmente operanti presso gli uomini, si realizza ai suoi occhi però storicamente
sempre in maniera imperfetta, come gli risulta dalla letteratura sulle popolazioni del
Nuovo Mondo. In lui non emerge ancora l’istanza e la pretesa di ritrovare nella realtà,
seppur solo in un passato preistorico, un’epoca o un luogo in cui gli uomini vivano in
una situazione di assoluta singolarità e conflittualità 17 : lo stato di natura è sì realiter
existens, ma al modello teorico si aggiunge subito una precisazione dettata ab extra che
di fatto lo trasforma, perchè il dato empirico gli fa tradurre lo stato di natura ‘puro’ in
quello stato in cui si ritrovano i sauvages americani. Questo non si identifica con lo
“stato di natura”, ma vi è molto vicino, tant’è che egli ritrova una conferma empirica di
quello in questo e, paradossalmente, proprio questa condizione di eccezionalità
rappresentata da una società pre-politica, conferma la sua ipotesi: in essa infatti il
governo è una manifestazione tanto precaria e labile che non permette l’uscita dalla
condizione di lotta e incertezza permanenti, e l’organizzazione è ad un livello troppo
limitato per consentire agli uomini ciò che loro preme di più: la vita e, inoltre, una vita
14
“è manifesto che durante il tempo in cui gli uomini vivono senza un potere comune che li tenga tutti in soggezione,
essi si trovano in quella condizione che è chiamata guerra e che è quella di ogni uomo contro ogni altro uomo”,
Hobbes, Leviatano, op. cit., p. 120.
15
“Infatti, in parecchi luoghi dell’America, i selvaggi, se si eccettua il governo di piccole famiglie la cui concordia
dipende dalla concupiscenza naturale, non hanno affatto un governo, e vivono, oggigiorno, in quella maniera brutale
che ho detto prima” (corsivo mio), p. 121.
16
: “nella natura umana troviamo tre cause principali di contesa: in primo luogo, la competizione, in secondo luogo, la
diffidenza, in terzo luogo la gloria.”, ivi, p. 119.
17
“Si può per avventura pensare che non vi sia mai stato un tempo né una condizione di guerra come questa, ed io
credo non ci sia mai stata generalmente in tutto il mondo, ma ci sono parecchi luoghi ove attualmente si vive così” e
poco sotto ipotizza ancora “...anche se non ci fosse mai stato un tempo in cui i particolari [i singoli individui] fossero
in condizione di guerra l’uno contro l’altro”, ivi, pp. 121-22.

15
in qualche misura “comoda”. Proprio il fatto che questi gruppi non riescano ad uscire da
una condizione di guerra permanente (e infiniti erano i resoconti che presentavano la
guerra come principale attività dei ‘selvaggi’) li mantiene all’interno di una peculiare
collocazione storica, che può ancora dirsi ‘di natura’, perché ancora precedente
l’istituzione di una civilis societas. Allo stesso tempo è proprio questa ubicazione al di
fuori della sfera politica che impedisce ad Hobbes di interpretare le famiglie selvagge
come forme vere e proprie di società e impedisce il riconoscimento della loro peculiarità
in quanto società totalmente eterogenee rispetto a qualsiasi delle forme di società
politiche alle quali si erano limitate le classificazioni tradizionali. Utilizzando la
distinzione presente alla voce État de nature 18 dell’Encyclopédie, potremmo
riconoscere negli ‘uomini di natura’ hobbesiani, per come appaiono nel Capitolo XIII
del Leviatano, rappresentanti di uno ‘stato di natura’ inteso secondo il ‘significato
giuridico’ e non secondo il ‘significato etnologico’. Secondo il primo significato “ceux
que l’on dit vivre dans l’état de nature, ce sont ceux qui ne sont soûmis à l’empire l’un
de l’autre, ni dependans d’un maitre commun: ainsi l’état de nature est alors opposé à
l’état civil”. Del secondo significato invece il cavaliere de Jaucourt, autore della voce,
dice: “l’état de nature est la triste situation où l’on conçoit que feroit reduit l’homme,
s’il étoit abbandonné à lui meme en venant au monde: en ce sens l’état de nature est
opposé à la vie civilisée”. Quando più tardi ci si appunterà su questo significato
etnografico (lo stato di natura in quanto condizione di assenza della ‘cultura’) l’idea di
Hobbes apparirà così palesemente insufficiente, e i suoi ‘selvaggi’ non potranno più
apparire ‘uomini naturali’. Saranno meramente uomini che vivono all’infuori di un
regime politico.
Per comprendere meglio come questa linea di pensiero, che è stata giustamente
definita pan-politicista 19 e che potremmo riassumere ancora una volta attraverso la
formula nulla societas sine civitas che accomuna sia gli ‘aristotelici’ sia gli
‘hobbesiani’, sia incapace di spiegare e descrivere le forme di socialità del Nuovo
Mondo, è necessario osservarne una delle formulazioni più radicali, ossia quella che si
ritrova nell’Histoire Naturelle di Buffon e che, a metà Settecento, appariva in aperto

18
Louis de Jaucourt, voce État de Nature (Droit nat.), in Encyclopédie, vol VI, 1756 (disponibile online all’indirizzo
http://portail.atilf.fr/encyclopedie/Formulaire-de-recherche.htm ).
19
Sergio Landucci, I Filosofi e i Selvaggi, op. cit., p. 147.

16
contrasto con la consapevolezza ormai acquisita e non più posta in dubbio dell’esistenza
di forme di ‘cultura’ presso i selvaggi:

...l’on n’a trouvé dans toute cette partie de l’Amérique aucune nation civilisée
[...] car quoique ces nations sauvages eussent des espèces de moeurs ou de
coûtumes particuliéres à chacune, et que les unes sussent plus ou moins
farouches, plus ou moins cruelles, plus ou moins courageuses, elles étoient
toutes également stupides, également ignorantes, également dénuées d’arts et
d’industrie.
Je ne crois donc pas devoir m’étendre beaucoup sur ce qui à rapport aux
coûtumes de ces nations sauvages, tous les Auteurs qui en ont parlés n’ont pas
fait attention que ce qu’ils nous donnoient pour des usages constans et pour les
moeurs d’une société d’hommes, n’étoit que des actions particulières à quelques
individus souvent déterminez par les circonstances ou par le caprice;certaines
nations, nous dissent-ils, mangent leur ennemis, d’autres les brûlent, d’autres les
mutilent, les unes sont perpétuellement en guerre, d’autres cherchent à vivre en
paix; chez les unes on tue son père lorsqu’il a atteint un certain âge, chez les
autres les pères et mères mangent leurs enfans, toutes ces histoires sur lesquelles
les voyageurs se font étendus avec tant de complaisance se réduisent à des récits
de faits particuliers, et signifient seulement que tel sauvage a mangé son ennemi,
tel autre l’a brûlé ou motile, tel autre a tué ou mange son enfant, e tout cela peut
se trouver dans une seule nation de sauvages comme dans plusieurs nations, car
toute nation où il n’y a ni régle, ni loi,ni maître, ni société habituelle, est moins
une nation qu’un assemblage tumultueux d’hommes barbares et indépendans,
qui n’obeissent qu’à leurs passions particulières, et qui ne pouvant avoir un
intérêt commun, sont incapables de se diriger vers une même but et de se
soûmettre à des usages constans, qui tous supposent une suite de desseins
raisonnez et approuvez par le plus grand nombre 20 .

20
George-Louis Leclerc Buffon, Histoire Naturelle, tome III, Paris, de l’Imprimerie Royale, 1749 (disponibile online
all’indirizzo: http://www.buffon.cnrs.fr/index.php?lang=fr#hn), pp. 490-91.

17
Il brano di Buffon è molto chiaro e la sua conclusione è drastica. All’homme sauvage
non si può attribuire alcuna manifestazione di socialità e i racconti dei viaggiatori sono
totalmente fuorvianti: essi presentano come leggi, costumi e pratiche comunitarie
comportamenti che non sono che casuali, disordinati, mutevoli e individualistici. I
‘selvaggi’ non costituiscono né uno Stato né una nazione né tanto meno un agglomerato
coeso, ma si limitano a rapporti di prossimità precari e disorganizzati. Addirittura
fenomeni come la comunanza della lingua, la determinazione di uno stesso capo, la
conoscenza reciproca e le medesime abitudini non riescono a convincere Buffon
dell’esistenza presso di loro di un principio di società 21 . Già nella succitata lettera di
Vespucci 22 , prima vera presa di coscienza dell’esistenza di una terra e di un’umanità
differente 23 nella modernità, tra i tratti che caratterizzavano il vivere secundum naturam
degli abitanti delle Americhe si poteva leggere che:

[...] vivunt simul sine rege, sine imperio e unusquisque sibipsi dominus est.
Tot uxores ducunt quot volunt et filius coit cum matre et frater cum sorore et
primus cum prima et obvius cum sibi obvia. Quotiens volunt matrimonia
dirimunt, et in hiis nullum servant ordine. Preterea nullum habent templum et
nullam tenent legem, neque sunt idolatre. Quid ultra dicam? Vivunt secundum
naturam, et epycuri potius dici possunt quam stoici 24 .

21
“La même nation, dira-t-on, est composée d’hommes qui se reconnoissent, qui parlent la même langue, qui se
réunissent, lorsqu’il le faut, sous un chef, qui s’harment de même, qui hurlent de la même façon, qui se barbouillent
de la même couleur; oui si ces usages étoient constans, s’ils ne se séparoient pas sans raion, si leur chef ne cessoit pas
de l’être par son caprice ou par le leur, si leur langue même n’étoit pas si simple qu’elle leur est presque commun à
tous”, ivi, p. 491.
22
Cfr. nota 5.
23
Si veda l’introduzione al Mundus Novus di Cristiano Spila, op. cit. : “La dimensione culturale della «scoperta» solo
con lui [Vespucci] assume la pienezza del suo significato, perché solo con lui l’Europa comprende che il problema
della via occidentale delle Indie – mero problema tecnico di convenienza mercantile – si trasforma in un gigantesco
impegno di esplorazione e colonizzazione” (pp. 10-11) e “È ben vero che Vespucci non scoprì per primo quelle terre,
ma ebbe il merito di descriverle e di averle fatte conoscere all’Europa, sostenendo la tesi che esse non appartenevano
all’Asia, ma rappresentavano la «quarta pars mundi», un nuovo continente.” (p. 24). Sebbene la “questione
vespucciana” rimanga tuttora aperta è pur vero che merito storico-culturale indiscusso del navigatore fiorentino
rimane quello, importantissimo, di aver riconosciuto l’esistenza del nuovo continente.
24
Mundus Novus, op. cit., p. 56, corsivo mio.

18
In questo testo l’autore individuava la ‘selvaggezza’ e la differenza dei selvaggi nel
loro presunto epicureismo, in una sorta di ‘solipsismo’ delle pratiche di vita, in una
sregolatezza intesa come mancanza sia di regole sia di istituti e figure adatte a farle
rispettare, che li riduceva a comportamenti animaleschi. Buffon, a due secoli e mezzo di
distanza, riprendeva lo stesso tema: i selvaggi si limitano ad “actions particulières à
quelques individus souvent déterminez par les circonstances ou par le caprice” 25 . Di
assenza di regole come criterio più sicuro per distinguere un processo culturale da un
processo naturale ha parlato anche Lévi-Strauss: “...la discussione che precede non ha
fruttato solo questo risultato negativo: con la presenza o l’assenza della regola nei
comportamenti sottratti alle determinazioni istintive, essa ci ha fornito il criterio più
valido per riconoscere gli atteggiamenti sociali. Ovunque si manifesti la regola, noi
sappiamo con certezza di essere sul piano della cultura” 26 . I modi di agire degli indigeni
di Buffon rassomigliano a quelli delle scimmie antropoidi di Lévi-Strauss:

La vita sociale delle scimmie [...] non si presta alla formulazione di alcuna
regola. In presenza del maschio o della femmina, dell’animale vivo o morto, del
soggetto giovane o vecchio, del parente o dell’estraneo, la scimmia si comporta
con sorprendente versatilità. Non solo non è costante il comportamento dello
stesso soggetto, ma neppure il comportamento collettivo consente di riconoscere
una qualsiasi regolarità. Gli stimoli esterni o interni e gli adattamenti
approssimativi provocati dagli scacchi e dai successi sembrano fornire tutti gli
elementi necessari alla soluzione dei problemi di interpretazione, così nel campo
della vita sessuale come in ciò che concerne le altre forme di attività [...] Tutto
sembra svolgersi come se le grandi scimmie, già capaci di dissociarsi dal
comportamento proprio della specie, non riuscissero tuttavia a ristabilire una
norma su un piano nuovo. La condotta istintiva perde la nettezza e la precisione
che si riscontra presso la maggior parte dei mammiferi; ma la differenza è

25
George-Louis Buffon, Histoire Naturelle, op. cit., p. 490.
26
Cfr. Claude Lévi-Strauss, Les Structures Elementaires de la Parenté, Paris, Presses Universitaires de France, 1947
(tr. It. di Alberto M. Cirese e Liliana Serafini, Le Strutture Elementari della Parentela, Milano, Feltrinelli, 1969), p.
46.

19
puramente negativa, e il campo abbandonato dalla natura resta territorio non
occupato 27 .

Come Lévi-Strauss cambierà strada nelle pagine successive per tentare di riconoscere
il punto di passaggio tra natura e cultura, perché appunto le scimmie non mostrano segni
di una ‘regola’ e quindi permangono in una situazione pre-culturale, così Buffon
dichiarerà l’inutilità di studiare i presunti costumi degli indigeni, che non sono che
risposte istintuali all’ambiente o capricci irragionevoli.
Presso di loro, se non sono dunque esaminabili usi e costumi condivisi, ma si rimane
a una condizione ‘naturale’, è però forse possibile venire a contatto e studiare “la nature
de l’individu”, ovverosia il carattere dell’uomo “avec les vraies couleurs et les seuls
traits naturels”, in cui sia possibile distinguere “ce que la Nature seule nous a donné de
ce que l’education, l’imitation, l’art et l’exemple nous ont communiqué” 28 . È il
medesimo fine, quello di sceverare la ‘natura’ dalla ‘cultura’, ciò che sarebbe innato e
universalmente presente in tutti gli uomini da quello che verrebbe invece appreso, cui
negli stessi anni tenderanno in molti. Ma la tesi già presente in quegli anni, e che si
sarebbe affermata nei decenni successivi, assegnava all’‘uomo di natura’ un referente
empirico ormai diverso: non certo i sauvages, tra i quali si riconoscevano tracce di una
cultura che veniva intesa in senso sempre più comprensivo, esteso e indefinito, ma,
come vedremo, gli enfants sauvages e gli ipotetici ragazzi cresciuti in condizioni
d’isolamento totale. Nonostante ciò l’interpretazione buffoniana, proprio perché porta
alle estreme conseguenze i presupposti politicisti, ci è servita per comprendere
l’importanza di questa corrente intellettuale: essa ha prospettato (dopo Hobbes) la
possibilità di una umanità apolitica e asociale, istintuale e bestiale, anche se non ha
saputo mostrarne l’esistenza fattuale. In questo quadro teorico, o ci si rifiuta di credere
nell’esistenza di figure di vita dell’uomo anteriori allo stato politico, o si crede che i
sauvages siano uomini separati da ogni relazione con i propri simili, bruti e in uno stato
che precede ogni forma di cultura in senso etnografico. Questa seconda via, inaugurata
da Hobbes ma esplicitata solo da Buffon, non sarà più, dopo il Discours sur l’Inegalité
di Rousseau, percorribile, perchè questi metterà definitivamente in luce la differenza

27
Ivi, pp. 44-46.
28
George-Louis Buffon, Histoire Naturelle, op. cit., p., p. 492.

20
che intercorreva tra i ‘selvaggi’ e l’uomo naturale e rimprovererà esplicitamente a
Hobbes di non aver proceduto criticamente su questa questione, come vedremo in
seguito. Empiricamente sconfitta, sotto i colpi di quelle teorie che invece rivendicavano
la socialità e la culturalità pre-politiche dei selvaggi, di cui si parlerà tra poco, la
prospettiva politicista aveva comunque introdotto l’esigenza di cercare l’homme
naturel. Se, come ci si convincerà definitivamente nella seconda metà del XVIII secolo,
quest’uomo non si deve cercare presso i selvaggi, permarrà l’esigenza teorica di trovarlo
altrove. Indicativo è allora che nelle stesse pagine di Buffon sopra citate il naturalista
francese sembri essere consapevole del problema e si contraddica, così che, dopo aver
rintracciato poche righe sopra gli individui ‘di natura’ nei ‘selvaggi’, prospetti una
diversa soluzione e si rivolga per individuare il “sauvage absolutement sauvage” ai
ragazzi cresciuti al di fuori del consorzio umano 29 :

Un sauvage absolutement sauvage, tel que l’enfant élevé avec les ours, dont
parle Conor, le jeune homme trouvé dans les forêts d’Hanower, ou la petite fille
trouvée dans les bois en France, seroient un spectacle curieux pour un
philosophe, il pourroit en observant son sauvage, évaluer au juste la force des
appétits de la Nature, il y verroit l’ame à découvert, il en distingueroit tous les
mouvemens naturels… 30

Parallelamente a questa linea interpretativa, nel Sei-Settecento se ne trova un’altra


basata sulla distinzione e la dissociazione teorica tra società e Stato, limpidamente
espressa dalla massima leibniziana per cui omnem civitatem esse societatem, sed non
contra 31 . Non sovrapponendo più le due categorie della societas e della civitas, e non
considerandole più come legate da un rapporto di reciproca implicazione, per il quale
l’una non poteva sussistere senza l’altra, si apriva la possibilità di rendere conto proprio

29
L’incoerenza di Buffon appare evidente, ma, a onor del vero, egli si era cautelato attraverso l’utilizzo del
condizionale e della locuzione “peut-être”; precisamente aveva scritto: “il feroit peut-être necessaire d’examiner la
nature de l’individu” nei selvaggi.
30
Ivi, p. 492.
31
Traggo le successive citazioni dei testi leibniziani da Sergio Landucci, I Filosofi e i Selvaggi, op. cit., pp. 109-112.
La formula latina citata è contenuta nel testo intitolato In Severinum de Mozambano (1668-72 circa), mentre il testo
in francese è tratto dal Jugement sur les Oeuvres de Mr. le Comte de Shaftesbury (1712)..

21
di quelle forme ambigue di socialità delle Americhe che per i dotti e i filosofi europei
erano rimaste problematiche. Il ‘miracolo’, rispetto alla tradizione, è appunto
l’attestazione (di cui Leibniz è consapevole e alla novità della quale non si sottrae) di
società che non sono civitates: “peuples entiers” qui sine magistratu societatem colunt.
Leibniz scrive:

Les Iroquis et les Hurons, sauvages voisins de la Nouvelle France et de la


Nouvelle Angleterre, ont renversé les maximes politiques trop universelles
d’Aristote et de Hobbes; ils ont montré par une conduite surprenante que des
peuples entiers peuvent être sans Magistrats et sans querelles, et que par
consequent les hommes ne sont ny assés portés par leur bon naturel ny assés
forcés par leur mechancheté à se pourvoir d’un gouvernement et à renoncer à
leur liberté.

In questo passo Leibniz, nel momento stesso in cui getta le basi del suo superamento
teorico, dimostra di subire comunque l’influsso del ‘paradigma politicista’: la condotta
dei popoli interi che vivono senza leggi né magistrati in concordia è così in contrasto
con le “maximes politiques” dominanti nei secoli precedenti che gli appare come una
“conduite surprenante”. Si tratta, nei termini dell’interpretazione del progresso
scientifico di Thomas Kuhn, della presa di coscienza di Leibniz di una “anomalia”,
ossia del riconoscimento che “la natura ha in un certo modo violato le aspettative
suscitate dal paradigma” 32 . È probabile che la “novità teorica” del riconoscimento dello
stato civile come distinto da quello che segue l’istituzione dello Stato sia stata suggerita
a Leibniz proprio dalla documentazione etnografica di cui si serviva, e che,
contemporaneamente, le “novità di fatto” che erano questi popoli coesi pur senza potere
coercitivo, possano essere state riconosciute solo perché si era compresa la
dissociazione detta. Teoria ed esperienza sono troppo intimamente legate, e si
influenzano reciprocamente, per poter distinguere da quale lato abbia preso avvio la
nuova comprensione dello stato dei selvaggi: i ‘fatti’ (ovverosia i testi: le relazioni e i
racconti dei viaggiatori) erano comuni a tutti i savants dell’epoca, ma parlavano in

32
Thomas Samuel Kuhn, The Structure of Scientific Revolutions, Chicago, The University of Chicago Press, 1960.
(tr. it. di Adriano Carugo, La Struttura delle Rivoluzioni Scientifiche, Torino, Einaudi, I ed. 1969), p. 76.

22
modo del tutto differente a seconda dei presupposti teorici di riferimento, dando origine
a ermeneutiche opposte. Leibniz non era stato l’unico pensatore ad occuparsi di questo
perfezionamento teorico, che anzi preoccupava anche molti altri pensatori nei decenni a
cavallo tra il XVII e il XVIII secolo. Il processo che ebbe inizio in questi anni sarebbe
stato molto lungo e contestato, tanto che “alla metà del Settecento era ancora aperto
tutto il ventaglio delle teorie sui selvaggi e le loro società”33 ed esse coesistevano l’una
accanto all’altra. Il riconoscimento della socialità dei popoli americani era in qualche
misura figlio di quel mito primitivistico e di quella idealizzazione dei selvaggi che, al di
là dei notissimi motivi di critica ideologica rivolta contro la civiltà e le società
dell’Europa cristiano-moderna, ebbero anche la funzione di anticipare letterariamente la
distruzione della necessità e dell’universalità dell’implicazione società-Stato. Il mito
dell’età dell’oro, accanto alle due tendenze di cui si è discorso sopra, quella che
riduceva i sauvages a uomini bestiali e isolati, perché privi di leggi e magistrati, e quella
che ritrovava re e governi anche fra di loro, fu il sostrato su cui poté crescere questa
tradizione filosofica (abbandonando le risonanze letterarie): esso ebbe la virtù
ermeneutica di permettere di fare esperienza, nel Nuovo Mondo, non più di uomini feri
similes, ma di ‘società’ tribali. Dal punto di vista dell’elaborazione più strettamente
filosofico-teorica, Landucci individua l’emergere di questa alternativa duplice, ad
Aristotele e ad Hobbes, nel De Jure Naturae et Gentium (1672) di Pufendorf, ove egli
sostiene che “status naturali et vita socialis sibi proprie non opponuntur, cum etiam illi
qui in statu naturali vivunt socialem invicem vitam agere possint debeantque et saepe
numero soleant” 34 . Allo stato naturale non è più opposto lo stato sociale, chè anzi anche
nello stato di natura vi possono essere società legittime (per esempio la società
coniugale, familiare, tribale ecc.), ma gli è invece propriamente contrapposto lo stato
civile, in quanto non nasce da una necessità naturale umana, ma è una creazione
artificiale. L’uomo, che pure anche per Pufendorf tende al vivere in comunità, non deve
essere però considerato πολιτιχòν ζοῷν ma più semplicemente animale sociabile,
perché le comunità in cui vive non è detto debbano raggiungere la consistenza di una
civitas. Il medesimo contenuto concettuale si trova espresso nel Treatise of Human
Nature (1739-40) di Hume:

33
Sergio Landucci, I Filosofi e i Selvaggi, op. cit., p. 147.
34
Traggo la citazione da Sergio Landucci, I Filosofi e i Selvaggi, op. cit., p. 145 (De jure, II.II.5., corsivo mio).

23
Though government be an invention very advantageous, and even in some
circumstances absolutely necessary to mankind; it is not necessary in all
circumstances, nor is it impossible for men to preserve society for some time,
without having recourse to such an invention […] And so far am I from thinking
with some philosophers, that men are utterly incapable of society without
government, that I assert the first rudiments of government to arise from
quarrels, not among men of the same society, but among those of different
societies […] This we find verified in the American tribes, where men live in
concord and amity among themselves without any established government and
never pay submission to any of their fellows, except in time of war, when their
captain enjoys a shadow of authority, which he loses after their return from the
field, and the establishment of peace with the neighbouring tribes […] The state
of society without government is one of the most natural states of men, and must
submit with the conjunction of many families, and long after the first generation.
Nothing but an encrease of riches and possessions coued oblige men to quit it;
and so barbarous and uninstructed are all societies on their first formation, that
many years must elapse before these can encrease to such a degree, as to disturb
men in the enjoyment of peace and concord. 35

La domanda sulla collocazione dal punto di vista giuridico dei ‘selvaggi’, seppure,
come già detto, accanto ad altre soluzioni che non avevano cessato di essere proposte,
aveva trovato una risposta soddisfacente: né membri di una civitas né individui atomici,
questi vivevano comunque in comunità stabili e capaci di mantenersi unite nel tempo.
Riconosciuta la possibilità, e addirittura la ‘naturalità’ della sussistenza di gruppi privi
di qualunque potere coattivo interno ma pur sempre organizzati e in grado di convivere
pacificamente (a meno che questa concordia non fosse perturbata da guerre intertribali),
era ora dunque possibile che si ravvisasse pure la presenza presso di loro di forme di
cultura. La ‘questione politica’ divenne ‘questione etnologica’. L’individuazione di una
società umana, laddove si credeva esistessero uomini senza relazioni di sorta, ebbe

35
Cfr. David Hume, A Treatise of Human Nature, 1739-40 (disponibile online all’indirizzo:
http://www.gutenberg.org/etext/4705 ), III.II.8, Of the Source of Allegiance, corsivo mio.

24
come conseguenza anche una nuova attenzione per i moeurs, i coutumes, le tradizioni e
i sistemi di pensiero e di comportamento dei ‘selvaggi’. Non si trattava solo di non
riconoscere più nei selvaggi i membri di uno stato di natura nel suo ‘significato
giuridico’ 36 , ma nel corso del Settecento si pervenne alla consapevolezza che essi non
erano neppure attestanti uno stato di natura secondo il ‘significato etnologico’. Entrambi
i significati (che d’altronde erano stati fino ad allora considerati come due elementi di
una medesima condizione, ed erano sempre stati descritti in parallelo e confusi 37 )
vennero abbandonati nella seconda metà del Settecento: non solo le tribù selvagge
mostravano un legame, una gerarchia e delle regole interne, ma si rivelava in esse anche
la presenza di realizzazioni prettamente ‘culturali’. Il problema in discussione stava
divenendo un altro: non più tanto quello giuridico-politico di una tassologia e una
genealogia delle modalità di vita sociale, ma quello più ambizioso di ritrovare la natura
dell’uomo al di là di tutte le circostanze, gli artifici e le ‘seconde nature’ che ne
alteravano la costituzione originaria. Sulla coppia état de nature-état civil si andò
imponendo quella di derivazione classica arte-natura, e alla domanda sullo status delle
comunità selvagge si cominciò a preferire quella sulla definizione dell’homme naturel,
che ci si rese conto essere altro rispetto al sauvage. La nozione di état de nature (se
includente lo stato sociale prepolitico) poteva mantenersi in contrapposizione allo ‘stato
politico’, ma quella di ‘selvaggio’, se includente lo stato sociale prepolitico, non poteva
più essere confusa con quella di ‘uomo di natura’. Anche il selvaggio che vivesse nella
zona più remota delle Americhe e allo stato più primitivo e nel più piccolo
raggruppamento umano, non era adatto al fine di “to point out the limits between nature
and art” 38 . In quegli anni, dunque, il τόπος che fino ad allora aveva caratterizzato il

36
Cfr. supra.
37
“Che il parametro specifico, per la definizione dei selvaggi, potesse essere ritrovato nell’opposizione ‘stato di
natura’-‘stato civile’, lo pensarono certo i giusnaturalisti; ma – fatto estremamente significativo – in genere i
giusnaturalisti non ebbero un concetto esclusivamente giuridico dello ‘stato di natura’. Hobbes stesso, nel momento
in cui propose una tale nozione, coll’implicarvi la «miseria» conseguente all’assenza delle arti utili e delle scienze,
procedette a quella caratteristica integrazione di significati, con relativa dilatazione di contenuto, che poi rimase tipica
[…] Dal significato giuridico, cioè, era spontaneo lo slittamento verso il più largo significato etnografico, appena si
parlava dei ‘selvaggi’ ”, Sergio Landucci, I Filosofi e i Selvaggi, op. cit., p. 336.
38
Adam Ferguson, An Essay on the History of Civil Society, 1767 (disponibile online all’indirizzo:
http://www.gutenberg.org/etext/8646 ), Section I. Of the question Relating to the State of Nature. Tutte le citazioni
segeuenti sono tratte da questo luogo.

25
pensiero europeo tramontò, e quella scontata e stereotipata identificazione del selvaggio
con l’uomo di natura venne messa definitivamente da parte. Vale la pena forse
trascurare l’ordine cronologico (e rimandare a più tardi la discussione del secondo
Discours di Rousseau) per comprendere più precisamente in cosa consistesse la nuova
acquisizione concettuale cui ci siamo riferiti. Per farlo ci riferiremo ad alcuni passi tratti
dall’opera di Adam Ferguson, An Essay on the History of Civil Society (1767), e in
particolare al capitolo con cui si apre il testo, significativamente intitolato Of the
Question Relating to the State of Nature. Lo stato di natura è qui da subito presentato
come quell’“ancient time” cui poeti, storici e filosofi hanno spesso alluso volendo
esporre le loro congetture e le loro differenti opinioni su cosa l’uomo aveva dovuto
essere “in the first age of his being”. Un’età dell’oro o del ferro rispetto al presente, a
seconda che si considerino le degenerazioni della specie umana oppure i suoi progressi,
ma comunque un tempo il cui carattere essenziale è quello della diversità, tanto che di
esso si dice che non ha alcuna “resemblance to what men have exhibited in any
subsequent period”. Proprio questa caratteristica, che aveva fatto credere a molti
scrittori di poter distinguere in esso “the human character” e le sue “original qualities”
successivamente modificatesi, è però per Ferguson la ragione di tanti errori e di tanti
sforzi inutili 39 . Facendo propria un’istanza di tipo empiristico, egli imputa ai molti
filosofi che lo avevano preceduto di aver sempre trascurato dell’uomo “what he has
always appeared within the reach of our own observation, and in the records of history”
e di aver selezionato “one or few particulars on which to establish a theory”. In poche
righe egli ha voluto esprimere una duplice critica: da un lato, ha mostrato come le
ipotesi sullo stato di natura fossero precarie e infondate perché tenevano conto solo di
alcuni caratteri della costituzione umana al fine di poter costruire un sistema verosimile;
dall’altro, ha messo in dubbio la possibilità stessa di studiare l’uomo di natura, perchè
non se ne hanno testimonianze storiche. A differenza di Rousseau, come vedremo, e
adottando un empirismo piuttosto accentuato, Ferguson ha sottolineato l’incoerenza del
“natural historian” che in ogni altra sua indagine si sente in dovere di raccogliere
testimonianze fattuali e di non offrire supposizioni se non suffragate da osservazioni ed

39
Ivi, “The desire of laying the foundation of a favourite system, or a fond expectation, perhaps, that we may be able
to penetrate the secrets of nature, to the very source of existence, have, on this subject, led to many fruitless inquiries,
and given rise to many wild suppositions.”

26
esperimenti, mentre per quanto riguarda lo studio dell’uomo “he substitutes hypothesis
instead of reality, and confounds the provinces of imagination and reason, of poetry and
science”. La sua critica si appunta non solo contro le speculazioni deduttivistiche dei
filosofi, ma anche contro ogni forma di problema delle origini: quello che deve
interessare lo storico della natura è l’uomo come è oggi 40 , così come quando questi
studia gli animali suppone che “their presents dispositions and istincts are the same
which they originally had, and that their present manner of life is a continuance of their
first destination”. È improbabile pensare all’esistenza concreta di uno stato, quello di
natura, che non è mai stato possibile osservare, ed è inutile anche produrre ragionamenti
ipotetici e congetturali su di esso, à la Rousseau: saranno sempre ipotesi ‘infalsificabili’
perché al di fuori di ogni verifica fattuale. Inoltre, l’impostura dei teorici dello stato di
natura appare ancora più evidente se si considera che essi lo avevano immaginato come
uno stato brutale, privo di intelligenza e ragione, senza società e senza comunicazione
tra uomini, oppure di guerra tra di essi. Ora invece tutti i caratteri dell’uomo che
possono essere documentati (che si ritrovano ovunque e in ogni tempo conosciuto) sono
per Ferguson ben differenti:

If both the earliest and the latest accounts collected from every quarter of the
earth, represent mankind as assembled in troops and companies; and the
individual always joined by affection to one party, while he is possibly opposed
to another; employed in the exercise of recollection and foresight; inclined to
communicate his own sentiments, and to be made acquainted with those of
others; these facts must be admitted as the foundation of all our reasoning
relative to man. His mixed disposition to friendship or enmity, his reason, his
use of language and articulate sounds, like the shape and the erect position of his
body, are to be considered as so many attributes of his nature: they are to be
retained in his description, as the wing and the paw are in that of the eagle and
the lion, and as different degrees of fierceness, vigilance, timidity, or speed, have
a place in the natural history of different animals.

40
Ivi, “...it may be safely affirmed, that the character of man, as he now exists, that the laws of his animal and
intellectual system, on which his happiness now depends, deserve our principal study” (corsivo mio).

27
La condizione ‘naturale’ dell’uomo è infatti quella sociale e culturale: “the society
appears to be as old as the individual, and the use of the tongue as universal as that of
the hand or the foot”. Per paradosso, lo ‘stato di natura’ è ovunque:

If we are asked therefore, where the state of nature is to be found? we may


answer, it is here; and it matters not whether we are understood to speak in the
island of Great Britain, at the Cape of Good Hope, or the Straits of Magellan.
While this active being is in the train of employing his talents, and of operating
on the subjects around him, all situations are equally natural […] if nature is
only opposed to art, in what situation of the human race are the footsteps of art
unknown? In the condition of the savage, as well as in that of the citizen, are
many proofs of human invention; and in either is not any permanent station, but a
mere stage through which this' travelling being is destined to pass. If the palace
be unnatural, the cottage is so no less; and the highest refinements of political
and moral apprehension, are not more artificial in their kind, than the first
operations of sentiment and reason 41 .

Alla base della spiegazione di Ferguson sta una concezione dell’uomo come
interamente dalla parte della natura e una considerazione della cultura come un prodotto
naturale umano: produrre cultura è proprio della natura dell’uomo, così come è proprio
della natura della chiocciola costruire il suo proprio guscio. La natura non è più
considerata come opposta all’arte e come pietra di paragone, supposto stato originale,
dal quale gli uomini si sarebbero nel tempo allontanati attraverso le scienze e le
tecniche, ma è intesa come il progresso stesso cui l’uomo e destinato e non può
sottrarsi 42 . Se per natura si intende questa potenzialità che l’uomo mette da sempre in
atto 43 , allora si capisce come Ferguson possa argomentare che è improprio dire che
l’uomo abbia abbandonato lo stato di natura quando ha cominciato a perfezionarsi.
All’interno del suo impianto teorico egli è per l’appunto oggi come già da sempre nel

41
Ivi, corsivi miei.
42
“We speak of art as distinguished from nature; but art itself is natural to man. He is in some measure the artificer of
his own frame, as well as of his fortune, and is destined, from the first age of his being, to invent and contrive”, ivi.
43
“...a progress, no doubt, in which the savage, as well as the philosopher, is engaged; in which they have made
different advances, but in which their ends are the same”, ivi.

28
suo stato naturale 44 , perché considera falsa l’opposizione natura-cultura e considera la
seconda come riducibile alla prima. Ma, da un punto di vista esterno alla sua proposta, e
che mantenga in essere tale distinzione, i passi citati di Ferguson rappresentano una
delle più manifeste e indubitabili testimonianze documentali della riconosciuta
culturalità di ogni popolazione selvaggia. Gli accostamenti tra il “selvaggio” e il
“filosofo”, tra il “palazzo”, il “cottage” e la “caverna”, tra il “governo” e il “corpo di
leggi” e lo spontaneo “affetto” per i propri compagni, possono considerarsi come
denunce dei pregiudizi etnocentrici e come individuazioni di sistemi di vita e di
pensiero molto diversi da quelli della tradizione greco-cristiana, ma non per questo non
suscettibili di alcun interesse.
Precisamente al Discours sur l’Origine et les fondemens de l’Inégalité parmi les
Hommes (1755) di Rousseau è da riportare la prima franca dissociazione tra selvaggi e
‘uomini di natura’, ovvero, data l’identificazione rousseauiana natura-origine, di
selvaggi e uomini primitivi 45 . La distinzione è espressa con una nitidezza e una
precisione tali che questa non può essere considerata come il risultato dell’utilizzo di
meri artifici retorici, di formule di circostanza o di previdenti riserve cautelative da parte
del filosofo, ma è invece di certo la conseguenza di una esigenza teorica di rigore. Tutti
gli autori che tratteranno l’argomento dopo la pubblicazione del testo, sia per accettarne
i contenuti, sia per criticarli aspramente, ne saranno influenzati, ed esso rimarrà decisivo
per la cultura della seconda metà del Settecento. Resta pur vero che la dissociazione
compiuta con tale evidenza venne riconosciuta solo raramente dai suoi contemporanei, e
che sul tema del ‘primitivismo’ e della concezione dell’uomo di natura rousseauiano si
sono diffusi nel tempo equivoci durevoli. Nonostante infatti la fermezza delle
affermazioni contenute nell’introduzione al secondo Discours, addentrandosi nel testo si

44
“The latest efforts of human invention are but a continuation of certain devices which were practised in the earliest
ages of the world, and in the rudest state of mankind”, ivi.
45
Cfr. Discours sur l’Inégalité, op. cit., p. 135, dove Rousseau sostiene che “pour bien jouger de l’état naturel de
l’Homme” è necessario “de l’éxaminer, pour ainsi dire, dans le premier Embryon de l’espéce [...] En dépouillant cet
Etre, ainsi constitué de tous les dons surnaturels qu’il a pu recevoir, et de toutes les facultés artificielles, qu’il na pu
acquerir que par des long progrès; En le considerant, en un mot, tel qu’il a dû sortir des mains de la Nature”. Tutta la
prima parte del discorso è dedicata a una ricostruzione e raffigurazione di questo stato, mentre la seconda parte si
preoccupa di scoprire e seguire “les routes oubliées et perdues qui de l’état Naturel ont dû mener l’homme à l’état
Civil”, tutte le “positions intermédiares” che riempiono “l’espace immense qui sépare ces deux états” (p. 191-92), in
una prospettiva evoluzionistica e storica di sviluppo dell’umanità.

29
ritrovano temi, elementi tipici e formule stereotipate dell’immagine dei ‘selvaggi’
americani che aveva corso l’Europa per due secoli, ora associate a una condizione che
era invece stata con esattezza definita da Rousseau stesso come totalmente congetturale
e priva di qualsiasi contenuto storicamente testimoniabile. L’opera si apre infatti con
una serie di passi che appaiono come inequivocabili: Rousseau si lamenta del fatto che
“les Philosophes qui ont examiné les fondemens de la société, ont tous senti la nécessité
de remonter jusqu’à l’état de la Nature, mais aucun d’eux n’y est arrivé” 46 e che questo
presunto stato di natura (il bersaglio polemico è in particolare, come è notissimo,
Hobbes) di cui essi hanno parlato non è quello vero: gli uomini che essi hanno
presentato erano già uomini viventi in condizioni di ‘socialità’, e tutto ciò che di essi
veniva detto non poteva essere che una falsa immagine. La loro figura era già stata
alterata, si era già allontanata dalla condizione originaria, ed era impossibile dunque
pretendere di vedere, in queste descrizioni, la ‘natura’ dell’uomo. Si era sì proceduto in
alcuni casi secondo lo stesso metodo ipotetico che Rousseau stesso prometteva di voler
seguire, ma l’analisi di coloro che l’avevano preceduto non era stata abbastanza radicale
e non aveva saputo distanziarsi totalmente dall’immagine dell’uomo per come gli si
presentava sotto gli occhi (“Ils parloient de l’Homme Sauvage et il peignoent l’homme
Civil” 47 ). La natura è qui intesa infatti come quell’ideale retrogrado della coscienza, la
quale “immagina e mette in scena una condizione di immediatezza e di semplicità che,
tuttavia, finisce sempre per precederla” 48 . Già in Rousseau essa è quella datità, sempre
più immaginata che reale, sempre più orientata a una definizione da parte dell’uomo di
se stesso che all’esigenza di trovarne una conferma empirica, dalla quale si deve partire
per comprendere le infinite manifestazioni del fenomeno umano. È quel dato cui l’uomo
si deve adeguare, con cui deve convivere e deve fare i conti; allo stesso tempo, nella
prospettiva rousseauiana, costituisce un fondo comune agli individui in ogni tempo e
luogo ancora rintracciabile, ma è pure l’elemento (contenendo in sé la dimensione della
possibilità di perfezionamento) sul quale l’artificiale (ovvero in Rousseau tutto ciò che
dipende dall’educazione, dall’abitudine o da eventuali doni sovrannaturali) si innesta

46
Ivi, p. 132.
47
Ibidem, si intenda con l’espressione di ‘homme sauvage’ proprio l’uomo di natura, il primitivo e non i ‘selvaggi’
del Nuovo Mondo, così come appare chiaramente dal testo.
48
Cfr. Andrea Tagliapietra, La Virtù Crudele, Einaudi, Torino, 2003, p. 28.

30
introducendo distinzioni sconosciute allo stato di natura 49 . La natura umana è già
compresa da Rousseau come dinamica e cangiante: i due tratti che la caratterizzano, e
che definiscono l’uomo nella distinzione da ogni altro animale, sono infatti,
significativamente, la libertà 50 e quel tratto che egli chiama perfectibilité 51 . Essa gli
appare, ancor più che la libertà stessa 52 , una “qualité disctintive e presque illimitée” 53 ,
che differenzia l’uomo non solo verso l’esterno, nei confronti delle altre specie, ma
anche all’interno, in quanto è la ragione dell’allontanamento dalla condizione originaria,
di ogni successivo sviluppo e di ogni successiva infelicità. “À l’aide des
circonstances” 54 , essa permette che si realizzino tutte le possibilità dell’uomo e che, nel
tempo, esso venga a differenziarsi da ogni altra specie; l’uomo, che si ipotizza uscito
dalle mani della natura simile ad ogni altro animale, si allontana necessariamente dalla
condizione di partenza:

L’Homme Sauvage, livré par la Nature au seul instinct, ou plûtôt


dédommagé de celui qui lui manque peut-être, par des facultés capables d’y
suppléer d’abord, et de l’êlever ensuite au-dessus de celle là, commencera donc
par les fonctions purement animales: appercevoir et sentir sera son premier état,
qui lui sera commun avec tous les animaux. Vouloir et ne pas vouloir, désiderer
et craindre, seront les premiéres, et presque les seules operations des son âme,

49
Cfr. ad es. Discours sur l’inegalité, op. cit., p. 133, “Combien tu as changé [l’uomo ‘civile’] de ce que tu étois!
C’est pour ainsi dire la vie de ton espéce que je te vais décrire d’après les qualités que tu as reçues, que ton education
et tes habitudes ont pu dépraver, mais qu’elle n’ont pu détruire.”
50
“Ce n’est donc pas tant l’entendement qui fait parmi les animaux la distinction spécifique de l’homme que sa
qualité d’agent libre...car la Physique explique en quelque manière le mécanisme des sens et la formation des idées;
mais dans la puissance de vouloir ou plûtôt de choisir, et dans le sentiment de cette puissance on ne trouve que des
actes purement spirituels, dont on n’explique rien par les loix de la Mécanique”, ivi, p. 141 (corsivo mio).
51
Il termine perfectibilité, spiega Starobinski nel suo commentario al Discours dell’edizione citata (pp. 1317-18), è
un neologismo che nasce nel mondo intellettuale francese proprio in coincidenza dell’uscita di questo testo. Esso
verrà utilizzato quasi sempre nell’accezione datagli da Rousseau, cui è molto probabile farne risalire l’origine.
Quest’idea è da considerarsi centrale per lo sviluppo del suo pensiero e ricorrerà anche in testi successivi.
52
“...quand les difficultés qui environnent toutes ces questions [sulla libertà], laisseront quelque lieu de disputer sur
cette différence de l’homme et de l’animal, il y a une autre qualité tres spécifique qui les distingue, et sur laquelle il
ne peut y avoir pas de contestation, c’est la faculté de se perfectionner...”, ivi, p. 142.
53
Ibidem.
54
Ibidem.

31
jusqu’à ce que de nouvelles circonstances y causent de nouveaux
développemens 55 .

Questo stato di natura, identificato con quello della prima età dell’uomo, è uno stato
dal quale, per la sua stessa essenza appunto perfettibile, l’uomo è destinato ad
allontanarsi. L’uomo, diversamente dall’animale, che è “au bout de quelques mois, ce
qu’il sera toute sa vie, et son espéce, au bout de mille ans, ce qu’elle étoit la premiere
année de ces mille ans”, è condotto, “à force des tems, de cette condition originaire,
dans laquelle il couleroit des jours tranquilles et innocens” ad uno sviluppo che fa
sbocciare nei secoli “ses lumières et ses erreurs”. E Rousseau appare ben conscio
dell’età della specie umana, ha il vantaggio di una chiara coscienza della ‘sterminata
antichità’ dell’uomo sulla sua terra, in confronto all’ordine di grandezza tradizionale a
questo proposito, della lunghezza dei tempi del suo sviluppo 56 . Si comprende allora
molto bene perché il filosofo arrivi a pensare che, trascorsi così tanti secoli e sotto
l’azione di una forza così potente e incessante com’è la perfettibilità, non sia più
possibile trovare in alcun luogo un homme naturel. “Gardons nous donc de confondre
l’homme Sauvage avec les hommes, que nous avons sous les yeux” 57 è un potente
monito che può essere inteso in senso più o meno stretto: gli uomini che abbiamo sotto
gli occhi sono gli Europei, i cosiddetti ‘popoli civilizzati’, i nostri compatrioti e coloro
che condividono costumi simili ai nostri, e dunque sarebbe solo un invito a non
aggiungere caratteri artificiali all’uomo di natura, o non sono anche tutti quei popoli
‘selvaggi’ che le relazioni di viaggio avevano raccontato? In questo secondo caso
nemmeno la documentazione etnografica potrebbe venirci in aiuto e mostrarci la vera
natura umana. Queste testimonianze, seppur importanti ai fini di una descrizione più
precisa degli uomini 58 “par leur conformités e leur differences” 59 sono inutili per la

55
Ivi, p. 142-43 (corsivo mio).
56
“Combien de siècles se sont peut-être écoulés avant que...” (p. 144), “et l’on jugera combien il eût falu de milliers
de Siècles , pour developper successivement dans l’Esprit humain les opérations, dont il étoit capable (p. 146) e così
via, ivi.
57
Ivi, p. 139.
58
Cfr. tutta l’argomentazione contenuta nella Note X, pp. 208-14, già citata, che sottolinea l’importanza dell’indagine
etnografica sui popoli e i costumi della terra. I rilievi sull’interesse di questi studi non sono affatto incompatibili con
la dissociazione selvaggi-uomini di natura: è opportuno conoscere tutte le manifestazioni dell’uomo, nel presente e
nel passato, ai fini di una più precisa comprensione di come questo si è manifestato storicamente. Altro è però lo

32
ricostruzione dello stato di natura. Esso rimane inaccessibile allo sguardo empirico, per
quanto più allargato, comprensivo e privato di una prospettiva etnocentrica; esso può
essere ricostruito solamente attraverso ricerche non storiche, che scartino tutti i fatti, per
“raisonnemens hypothetiques et conditionnels” 60 e formulando congetture su questo
stato “qui n’existe plus, qui n’a peut-être point existé, qui probabilement n’existera
jamais” 61 . Claude Lévi-Strauss in Tristi tropici considera Rousseau (e in particolare
proprio il Rousseau del secondo Discours) come “il più etnologo di tutti i filosofi” 62 , un
“maestro” e un “fratello” per ogni etnologo, insomma alla stregua di un ‘padre
intellettuale’ della scienza etno-antropologica. Pur riconoscendo questa sua importanza
per la genesi storica e ideale della disciplina, l’interpretazione in senso ‘comparativista’
dell’argomento rousseauiano che egli nelle stesse pagine sostiene non sembra corretta.
Lèvi-Strauss riduce questo ragionamento a una sorta di presa di coscienza delle
differenze nell’umano (questa davvero presente nel testo) cui si accompagnerebbe la
pretesa di ricostruire la figura dell’uomo naturale attraverso l’individuazione dei tratti
comuni all’umanità di ogni luogo e di ogni tempo. Egli mirerebbe a riscoprire un
“modello teorico”, “un tipo che non è riprodotto fedelmente da nessuna [delle società
umane]” e che “non corrisponde ad alcuna realtà osservabile”, ma di cui si potrebbe
ritrovare la “forma immanente nello stato sociale” “sviluppando i caratteri comuni alla
maggior parte delle società umane”. L’homme naturel sarebbe dunque per Rousseau un
uomo sociale e dotato di linguaggio ab origine, ma spogliato di ogni carattere
contingente e ricostruito solo su quei tratti (empirici, si badi) che sono universali.
Un’ermeneutica che a mio avviso è insostenibile, per due motivi. Il primo sono le nette
affermazioni appena viste: l’esigenza di écarter tous les faits mal si concilia con il
riconoscimento dei caratteri universali dell’uomo intesi come quelli che è ovunque
possibile riscontrare. Il secondo è che se Rousseau considerasse i fatti, che gli attestano

studio dell’uomo di natura, che non può essere così condotto. Insomma le due materie, l’etnografia e la riflessione
sull’uomo di natura, entrambe bisognose di un importante sviluppo futuro per poter offrire risposte più credibili,
rimangono distinte, perché occupandosi di oggetti differenti devono utilizzare due metodi distinti.
59
Ibidem.
60
Ivi, p. 133.
61
Ivi, p. 123.
62
Tutte le successive citazioni sono tratte da: Claude Lévi-Strauss, Tristes Tropiques, Paris, Plon, 1955 (tr. it. di
Bianca Garuffi, Tristi Tropici, Milano, il Saggiatore, 1960), pp. 378-82.

33
proprio un uomo in ogni caso aggregato in società, non potrebbe descriverne con tanta
energia proprio l’assoluta insocievolezza originaria: perchè consciamente trascura i fatti
(o utilizza solo quei fatti che gli sembrano dare sostegno alle sue ipotesi) può risalire ad
una condizione originaria che è così differente da quella di alcun popolo che conosce. E
infatti, seppur con qualche incertezza 63 , è proprio il riconoscimento della distinzione tra
‘selvaggi’ e ‘uomini di natura’ l’intuizione rousseauiana forse più feconda. Ecco il
passo in cui essa è più chiaramente espressa:

Voilà precisement le degré où étoient parvenus la plûpart des Peuples


Sauvages qui nous sont connus; et c’est faute d’avoir suffisamment distingué les
idées, et remarqué combien ces Peuples étoient déjà loin du premier état de
Nature, que plusieurs se sont hâtés de conclure que l’homme est naturellement
cruel et qu’il a besoin de police pour l’adoucir, tandis que rien n’est si doux que
lui dans son état primitif, lorsque placé par la nature à des distances égales de la
stupidité des brutes et des lumières funestes de l’homme civil, et borné
également par l’istinct et par la raison à se garantir du mal que le menace, il est
retenu par la pitié Naturelle de faire lui-même du mal à persone, sans y être porté
par rien, même après en avoir reçû 64 .

63
Si veda, come esempio in cui questa indecisione è più visibile e che valga per tutte le affermazioni più ambigue, il
luogo in cui l’uomo di natura è così accomunato ad animali e selvaggi: “...tel est l’état animal en général, et c’est
aussi, selon le rapport des Voyageurs, celui de la plûpart des Peuples Sauvages”, Discours sur l’inegalité, op. cit., p.
141. Starobinski così lo commenta: “Ce passage peut laisser croire que Rousseau assimile son “homme sauvage”,
antérieur à toute société, aux populations sauvages décrites par les recits des voyageurs”. Ma in realtà il passo
dev’essere così interpretato: “si les récits decrivent des sociétés rudimentaires déjà sorties de l’état primitif, ils
fournissent néanmoins les elements qui pourront être utilises pour un portrait de l’état de nature. Les hommes que
dépeignent Du Tertre ou Kolbe sont encore assez proches de la sauvagerie originelle, ils en gardent certains traits
essentials. Par soustraction des elements acquis et factices – peu nombreux chez eux – il nous sera plus facile de
conjecturer l’image de l’homme au “degré zero” de la civilization”. I popoli delle Americhe hanno tratti in comune
con lo stato di natura, ma si sono già molto allontanati da esso e ne rimandano una immagine già decisamente falsata.
Anche la descrizione dei Caraibi (“...les Caraibes, celui de tous les Peuples existans, qui jusqu’ici s’est écarté le
moins de l’état de la Nature”, p. 158) dev’essere intesa come un esempio di prova indiretta, che fornisce solo una
traccia, un indizio su cui misurare e rendere più convincente la proposta teorica. La corrispondenza fattuale è cercata
da Rousseau, ma non sembra ritenuta vincolante.
64
Ivi, p. 170 (corsivo mio).

34
Al di là della questione della naturale ‘dolcezza’ e docilità dell’uomo nello stato di
natura, che naturalmente costituisce una delle obiezioni polemiche principali a Hobbes,
ciò che preme mostrare con questo passo è che Rousseau ritiene che il grado cui erano
giunti i popoli selvaggi che gli Europei conoscevano, anche i più ‘primitivi’, era già ben
lontano da quello originario. Ci si trova già in uno stato che Rousseau chiama di
“société commencée”, di “société naissante” o di “veritable jeunesse du Monde” 65 , uno
stadio, nella prospettiva evoluzionistica del Discours, che sta a metà tra lo stato politico
(perché l’armonia interna di queste società non è garantita “par des Réglemens et des
Loix” ma solo a causa dei “moeurs”, dei “caractéres”, dello stesso “genre de vie et
d’alimens” e dalla “influence commune du Climat” 66 ) e quello di natura. Per arrivarvi
egli dice: “Je parcours comme un trait des multitudes de Siécles” 67 e le relazioni
interumane che descrive sono già ben differenti da quelle primordiali, tanto da
richiedere agli uomini “des qualités différentes de celles qu’ils tenoient de leur
constitution primitive” 68 : i popoli selvaggi costituiscono vere e proprie società, e
dunque la volontà di Rousseau non è tanto quella di revocare in dubbio l’immagine
crudele dei selvaggi presente in Hobbes (che anch’egli aveva potuto leggere in quella
letteratura etnografica che ben conosceva), ma la questione filosofica, ermeneutica,
relativa alla naturalità o meno di questa crudeltà e allo status dei selvaggi. La risposta
nei termini della dissociazione stato di natura-stato degli indigeni nordamericani è
quella che sembra emergere da una lettura attenta del testo, e che però spesso è stata,
come abbiamo già detto 69 , travisata, anche a causa delle imprecisioni di Rousseau
stesso.
Da questo stesso testo è dunque necessario partire per comprendere come, nella
seconda metà del XVIII secolo, una certa idea avrebbe avvicinato pensatori anche
lontani tra di loro, ma accomunati dalla credenza che il vero uomo di natura potesse
essere studiato, sebbene non attraverso le indagini etnografiche: era necessario, come
Rousseau stesso aveva detto, trovare il modo di farne esperienza all’interno di quella
stato di società ormai riconosciuto come universale. Come liberare l’uomo delle

65
Ivi, p. 170-71.
66
Ivi, p. 169.
67
Ivi, p. 167.
68
Ivi, p. 170.
69
Cfr. supra.

35
‘sovrastrutture’ culturali, se ogni uomo nasceva all’interno di esse? Come ritrovare il
volto originario della natura umana sepolta sotto le incrostazioni culturali? 70 Come
sceverare l’artificiale e il naturale nella natura presente dell’uomo?

Il faudroit même plus de Philosophie qu’on ne pense à celui qui


entreprendroit de déterminer exactement les précautions à prendre pour faire sur
ce sujet de solides observations; et une bonne solution du Problême suivant ne
me parôitre pas indigne des Aristotes et des Plines de nôtre siécle: Quelles
expériences seroient nécessaires pour parvenir à connoître l’homme naturel; et
quells sont les moyens de faire ces experiences au sein de la société? Loin
d’entreprendre de résoudre ce Problême, je crois en avoir assés medité le Sujet,
pour répondre d’avance que les plus grand Philosophes pas trop bons pour
diriger ces experiences, ni les plus puissans souverains pour le faire […] Ces
recherches si difficiles à faire, et auxquelles on a si peu songé jusqu’ici, sont

70
La metafora dei depositi e dei sedimenti che rappresentano l’elemento culturale e artificiale che si accumula
rendendo irriconoscibile il sostrato originario si trova, a poche pagine di distanza, ben due volte nella Préface del
Discours. Il primo luogo è il rimando alla Repubblica di Platone (Libro X, 611 c d) e all’immagine della statua di
Glauco (“comment l’homme viendra-t-il à bout de se voir tel que l’a formé la Nature, à travers tous les changemens
que la succession de tems et des choses a dû produire dans sa constitution originelle, et de démeler ce qu’il tient de
son propre fond d’avec ce que les circonstances et se progrès ont ajouté ou changé à son Etat primitif? semblable à la
statue de Glaucus, que le tems, la mer et les orages avoient tellement defigurée, qu’elle ressembloit moins à un dieu
qu’à une Bête féroce, l’ame humaine altérée au sein de la société par mille causes sans cesse renaissantes, par
l’aquisition d’une multitude de connaisssances et d’erreurs, par les changemens arrivés à la constitution des Corps, et
par le choc continuel des passions, a, pour ainsi dire, changé d’apparence au point d’être presque méconnaissable...”,
Discours sur l’inegalité, op. cit., p. 122). Il secondo luogo si riferisce alle istituzioni umane e dice: “les établissemens
humains paroissent au premier coup d’oeil fondés sur des monceaux de Sable mouvant: ce n’est qu’en les éxaminant
de près, ce n’est qu’après avoir écarté la poussiére et le sable qui environnent l’Edifice, qu’on apperçoit la base
inébranlable sur laquelle il est élevé, et qu’on apprend à en respecter les fondemens”. La metaforica del fango, dello
sporco e delle incrostazioni è in una certa misura assimilabile a quella che deriva dal termine greco classico a-phéleia
e che letteralmente significa “senza” (a-) “asperità” o “protuberanze” (dalla radice phel, phelleús), per indicare ciò
che è “liscio”, “piano”, “schietto”, per indicare la naturalità di un ente; ma essa vi aggiunge l’elemento temporale e, a
differenza di tante altre immagini che contengono questo elemento ma sottolineano l’azione del tempo in quanto
corruttrice dei caratteri dell’oggetto, essa si limita ad attestarne una modificazione esterna, di superficie. Questa
metaforica prevede che la natura dell’oggetto rimanga inalterata, ed esprime la fiducia che sia possibile riscoprirla,
seppure dopo un lavoro di ‘ripulitura’ (per altre figure della naturalità si veda Andrea Tagliapietra, La Virtù Crudele,
op. cit., pp. 18-29).

36
pourtant les seuls moyens qui nous restent de lever une multitude de difficultés
qui nous dérobent la connaissance des fondemens réels de la société humaine 71 .

Rousseau ha con questo passo posto per la prima volta la questione della possibilità
stessa di uno studio (non più solo congetturale, ma confermato dall’esperienza)
dell’homme naturel (che egli con onestà intellettuale dichiara di non aver potuto
compiere), ne ha sottolineato tutte le difficoltà sia teoriche sia pratiche (si veda l’appello
alla liberalità e al concorso dei sovrani più potenti per permettere lo svolgersi concreto
dell’esperienza) e ha indirizzato tutti coloro che in quegli stessi anni elaboreranno delle
soluzioni a questo problema, tentando di individuare le condizioni di possibilità di
quella che chiameremo “esperienza dell’uomo di natura”.
I testi che abbiamo esaminato finora sono stati propedeutici alla comprensione di
quel rovesciamento completo della teoria precedente 72 che si è verificato nel Settecento
e che avrebbe condotto nei decenni successivi, secondo quanto afferma Landucci,
all’“universalizzazione della nozione di civilisation, ovvero la sua trasformazione nella
73
nozione moderna di “cultura” come coestesa rispetto a tutta l’umanità” . La ricerca
dell’‘uomo di natura’ continuò per tutto il XVIII secolo, ma comportò una sempre
71
Cfr. Rousseau, Discours sur l’inegalité, op. cit., pp. 123-24.
72
Per comprendere la portata dell’influenza della dissociazione rousseauiana selvaggi-uomini di natura si confrontino
le posizioni di Buffon sulla questione nel volume III (1749) dell’Histoire naturelle (cfr. supra) e quelle espresse nel
volume VII (1758) (“Un Empire, un Monarque, une famille, un père, voilà les deux extrêmes de la société : ces
extrêmes sont aussi les limites de la Nature ; si elles s’étendoient au delà,n’auroit-on pas trouvé, en parcourant toutes
les solitudes du globe, des animaux humains privés de la parole, sourds à la voix comme aux signes, les mâles et les
femelles dispersés, les petits abandonnés, etc? Je dis même qu’à moins de prétendre que la constitution du corps
humain fût toute différente de ce qu’elle est aujourd’hui, et que son accroissement fût bien plus prompt, il n’est pas
possible de soûtenir que l’homme ait jamais existé sans former des familles...”, p. 28) e nel volume XIV (1766) (“si
l’enfant étoit né dans l’état de pure nature, s’il n’avoit pour instituteur que sa mère hottentote, et qu’à deux mois
d’âge il fût assez formé de corps pour se passer de ses soins et s’en séparer pour toujours, cet enfant ne seroit-il pas
au dessous de l’imbécille, et quant à l’extérieur tout-à-fait de pair avec les animaux? mais dans ce même état de
nature, la première éducation, l’éducation de nécessité exige autant de temps que dans l’état civil; parce que dans
tous deux, l’enfant est également foible, également lent à croître...”, p. 35), corsivi miei. Entrambi i passi mostrano
come la concezione del selvaggio di Buffon si sia modificata: egli ha riconosciuto l’esistenza di legami sociali tra di
essi e ha dunque dovuto, per poter continuare ad applicar loro la nozione di stato di natura, modificarne le
caratteristiche. Il suo stato di natura si è differenziato da quello di Rousseau, ed è divenuto uno stato in cui socialità
ed educazione sono presenti. L’asocialità originaria anche per Buffon non è più dunque riconosciuta nelle tribù
americane o africane.
73
Sergio Landucci, I Filosofi e i Selvaggi, op. cit., p. 339.

37
maggiore insoddisfazione di fronte all’individuazione di esso nel selvaggio americano o
africano. L’analisi di un testo di un celeberrimo medico-filosofo, Jean Itard, risalente al
primo anno del secolo XIX, ci permette di esaminare il momento storico in cui questa
inversione di tendenza si è definitivamente compiuta. Si tratta dell’introduzione al
Mémoire sur les Premiers Développements de Victor de l’Aveyron, ovverosia della
prima relazione che il giovane studioso presentò sui suoi iniziali tentativi di educare il
ragazzo ‘selvaggio’ Victor, ritrovato per la prima volta nell’estate del 1798 mentre
vagava nudo nei boschi del dipartimento dell’Aveyron 74 . Questo testo esprime con una
decisione e una sicurezza che sono il frutto della rottura teorica che s’era venuta
producendo da alcuni decenni, la necessità di cercare in altro luogo che non presso i
popoli selvaggi il vero ‘uomo di natura’. La sua chiarezza è tale che è d’uopo citarlo
diffusamente:

Gettato su questo globo senza forze fisiche e senza idee innate, incapace di
ubbidire da solo alle leggi costituzionali della sua natura organica che lo
chiamano al primo posto nel sistema degli esseri, l’uomo può trovare solo in
seno alla società quel grado eminente che gli fu assegnato nella natura, e senza la
civiltà sarebbe uno degli animali più deboli e meno intelligenti: verità senza
dubbio spesso ripetuta, ma che non è stata ancora dimostrata rigorosamente [...] I
filosofi che l’hanno formulata per primi, quelli che l’hanno poi sostenuta e
propagata, hanno esibito come prova lo stato fisico e morale di alcune
popolazioni erranti, che hanno considerato come non civili in quanto non lo
erano nel modo in cui lo siamo noi, e presso le quali essi sono andati ad
attingere i caratteri dell’uomo nel puro stato di natura. No, checché se ne dica,
non è davvero là che bisogna cercare o studiare l’uomo di natura. Nell’orda
selvaggia più vagabonda come nella nazione europea più civile, l’uomo è solo
ciò che lo si fa essere. Necessariamente allevato dai suoi simili, ne ha contratto
le abitudini e i bisogni; le sue idee non gli appartengono; egli ha goduto della più
bella prerogativa della sua specie, cioè della capacità di sviluppare il suo

74
Sull’importanza di questo ritrovamento nella cultura idéologique della fine del secolo XVIII, sull’estremo interesse
che il giovane sauvage de l’Aveyron suscitò sia sulla scienza e la cultura parigina che sugli ambienti mondani si legga
Sergio Moravia, La Scienza dell’Uomo nel Settecento, Bari, Laterza, 1970 (2° ed., 1978), pp. 107-12.

38
intelletto mediante la forza dell’imitazione e l’influenza della società. Bisognava
dunque cercare altrove il tipo dell’uomo veramente selvaggio, di quello che non
deve nulla ai suoi simili. Bisognava dedurlo dalle storie particolari di quel
piccolo numero di individui, i quali nel corso del secolo XVII sono stati trovati,
in epoche diverse, mentre vivevano isolati nei boschi dove erano stati
abbandonati sin dalla più tenera età.
Ma tale era, in quei tempi remoti, l’imperfetto cammino della scienza,
abbandonata alla mania delle spiegazioni, all’incertezza delle ipotesi e al lavoro
esclusivo di gabinetto, che l’osservazione non era valutata per nulla e che quei
dati preziosi furono perduti per la storia naturale dell’uomo 75 .

Se con l’espressione “selvaggio”, spiegherà poco più avanti Itard in una nota, “si è
inteso fino ad oggi l’uomo poco civile, si converrà che colui il quale non lo è in alcun
modo merita a maggior ragione questa denominazione” 76 . Victor, all’occasione
rappresentante della categoria degli enfants sauvages e di tutti coloro i quali, per
circostanze straordinarie, siano vissuti senza alcun contatto con i propri simili, è un
esempio di ciò che possiamo considerare, almeno a detta di Itard, un ‘uomo di natura’.
Il valore del suo caso viene magistralmente spiegato dal medico nel momento in cui
passa a considerare quali siano le finalità di questa esperienza di osservazione e di
educazione che lo avrebbe tenuto impegnato, negli anni successivi, in una relazione
totale con il suo allievo, fatta di un’attenzione e di una dedizione costanti, e di un
legame che che sembra andare al di là di ogni interesse meramente scientifico. Gli scopi
che esplicitamente si propone sono due: il primo è di ordine filantropico e consiste nel
promuovere “lo sviluppo fisico e morale” 77 del giovane Victor, il secondo, quello che
più qui ci interessa, è di ordine scientifico: Itard “avrebbe determinato ciò che è
[l’homme naturel] e avrebbe dedotto da ciò che gli manca la somma fino ad ora non

75
Jean-Marc Gaspard Itard, Mémoire sur les Premiers Développements de Victor de l’Aveyron, Paris, 1801. (tr. it. di
Sergio Moravia, Memoria sui Primi Progressi di Victor dell’Aveyron, in Sergio Moravia, Il Ragazzo Selvaggio
dell’Aveyron. Pedagogia e Psichiatria nei Testi di J. Itard, P. Pinel e dell’Anonimo della «Décade», Bari, Laterza,
1972, pp. 51-52).
76
Ivi, p. 55.
77
Cfr. Sergio Moravia, Il ragazzo selvaggio dell’Aveyron, Bari 1972, p. 53

39
calcolata delle conoscenze e delle idee che l’uomo deve alla sua educazione” 78 . Il
problema è rimasto quello dei filosofi che lo avevano preceduto, individuare e dare una
prova fattuale dei caratteri dell’uomo allo stato di natura, ma il modo in cui egli poté
pensare di risolverlo è ben diverso: egli si rivolge a un altro oggetto (l’enfant sauvage) e
rivendica l’utilità di un metodo osservativo e durevole nel tempo. Se la proposta del
nuovo oggetto di studio non era certo originale, ed era anzi già stata discussa e
contestata nel Settecento 79 , il metodo empirico era stato lo scoglio su cui si erano
frantumate le speranze di tutti coloro che si erano occupati del problema. I casi di
analoghi ritrovamenti erano stati rari e comunque, prima di Itard, nessuno si era
preoccupato di promuoverne o intraprenderne uno studio adeguato: essi rimanevano mal
noti e la loro veridicità aveva sempre potuto essere messa in dubbio 80 . Ma la possibilità
e le modalità attraverso le quali una simile esperienza, quella sul “tipo dell’uomo
veramente selvaggio”, avrebbe potuto essere messa in atto erano già state pensate, sotto
forma di “ipotesi ingegnosa” 81 , da filosofi e intellettuali che lo avevano preceduto. Essi
avevano elaborato dei veri e propri ‘esperimenti mentali’ nei quali immaginavano di
avere sotto gli occhi quest’homme naturel, vissuto in una condizione di isolamento dalla
società umana. Nel testo l’Itard fa l’esempio di Condillac, “quando suppone due

78
Ibidem.
79
Cfr. ad esempio Rousseau, Discours sur l’inegalité, op. cit., Note III, p. 196-98. Egli contesta qui l’uso dei casi
degli enfants sauvages per provare che l’uomo sia per natura quadrupede; la postura bipede gli appare quella più
naturale e considera questi casi come semplici eccezioni: “L’exemple des Enfans étant pris dans un âge où les forces
naturelles ne sont point encore développées ni les membres raffermis, ne conclud rien du tout, et j’aimerois autant
dire que les chiens ne sont pas destinés à marcher parce qu’ils ne font que ramper quelques semaines après leur
naissance. Les faits particuliers ont ancore peu de force contre la pratique universelle de tous les hommes, même des
Nations qui n’ayant eu aucune communication avec les autres, n’avoient pû rien imiter d’elles. Un Enfant abbandoné
dans une forêt avant que de pouvoir marcher, et nourri par quelque bête, aura suivi l’exemple de sa Nourrice, en
s’exerçant à marcher comme elle. L’habitude lui aura pû donner des facilités qu’il ne tenoit point de la Nature; et
comme des Manchots parviennent à force d’exercis à faire avec leurs pieds tout ce que nous faisons de nos mains, il
sera parvenu enfin à employer ses mains à l’usage des pieds”
80
Lucien Malson evidenzia nel suo testo come proprio Itard sia il primo ricercatore che fornisca descrizioni molto
precise del suo caso e che non lasci dubbi sulla veridicità delle sue osservazioni scrupolosissime, cfr. Lucien Malson,
Les Enfants Sauvages, Paris, Union generale d’editions, 1964. (tr. it. di Pier Vittorio Molinario, I ragazzi selvaggi,
Milano, Rizzoli, 1971), pp. 60-63.
81
Cfr. Sergio Moravia, Il ragazzo selvaggio dell’Aveyron, Bari 1972, p. 52.

40
fanciulli abbandonati in profonda solitudine”82 e ne studia lo sviluppo delle facoltà,
mostrando, attraverso il confronto con il caso reale di ritrovamento di una fanciulla
selvaggia cresciuta con una compagna della medesima età 83 , le capacità predittive della
congettura del filosofo. Proprio di questo genere di esperienze, solo pensate,
immaginate e auspicate e mai molto probabilmente messe in atto 84 , si parlerà nel
capitolo successivo.
A conclusione di questo primo capitolo, mi pare opportuno citare un testo poco
conosciuto 85 , ma che può aiutare a chiarire perché e in che unico senso i casi dei
fanciulli vissuti al di fuori della società umana possano dirsi ‘uomini di natura’. Sia che
si tratti di fanciulli rinchiusi (allevati in condizioni di totale isolamento), sia che si tratti
di fanciulli animalizzati (allevati da animali), sia infine che si tratti di fanciulli solitari
(liberi e sopravvissuti per autosostentamento senza l’aiuto di animali)86 le precisazioni
di questo testo sono preziose. Esso ben specifica cosa debba intendersi con la locuzione

82
Cfr. Etienne Bonnot de Condillac, Essai sur l’Origine des Connaissances Humaines, Amsterdam, chez Pierre
Mortier, 1746 (tr. it di Giorgia Viano, Saggio sull’Origine delle Conoscenze Umane, in Opere, Torino, Utet, 1976),
IIa parte, sez. I., pp. 207-15.
83
Il riferimento è alla fanciulla di Sogny, ritrovata nel settembre del 1731 all’età di 9-10 anni, nello Champagne, ed
educata in un convento di monache con il nome di Mademoiselle Leblanc. Quando potè parlare, raccontò di essere
vissuta nei boschi con una compagna e di averla uccisa accidentalmente con un violento colpo sulla testa. Itard spiega
la facilità relativa con cui questa sviluppò il linguaggio attraverso la pur minima socializzazione che essa aveva avuto
con la compagna, e che ne avrebbe promosso memoria, immaginazione e capacità di usare segni. Anna Ludovico
invece fa rientrare questo caso all’interno di quelli dei fanciulli sopravvissuti per autosostentamento (distinti da quelli
allevati da animali e da quelli imprigionati per molti anni), e spiega la loro maggiore predisposizione linguistica
attraverso il concetto di “autoimprinting”: “i fanciulli autoallevatisi non hanno ricevuto un imprinting da parte di
qualche animale socializzato; non hanno, cioè, fatta propria una serie di comportamenti tipici di una determinata
specie attraverso l’apprendimento alla sopravvivenza, apprendimento che resta fissato e rimane immutato per tutta la
durata dell’esistenza dell’animale; bensì essi, per così dire, non hanno avuto un “maestro di vita” all’infuori di se
stessi e quindi la percezione di se stessi è stato l’apprendimento-guida nei confronti dell’ambiente esterno. E ciò,
ovviamente, ha favorito i comportamenti della specie homo sapiens...”, cfr. Anna Ludovico, Anima e Corpo: i
Ragazzi Selvaggi alle Origini della Conoscenza, Roma, Aracne, 2006, p. 72.
84
A meno che non si creda alla testimonianza di Erodoto (cfr. Erodoto, Ἰστορἴαι, 440-429 a. C. circa, tr. it. di Augusta
Izzo d’Accinni, Storie, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 1984, pp. 317-21).
85
Anonimo, Réflexions sur le Sauvage de l’Aveyron et sur ce qu’on appelle en général, par Rapport à l’Homme,
l’État de la Nature, «Décade Philosophique», 10 vend. an IX, vol. 27, pp.8-18. (tr. it. di Sergio Moravia, Riflessioni
sul Selvaggio dell’Aveyron, e su ciò che si chiama in generale, in Rapporto all’Uomo, lo Stato di Natura, in Sergio
Moravia, Il Ragazzo Selvaggio dell’Aveyron, op. cit., pp. 179-188).
86
Questa distinzione all’interno del genere degli enfants sauvages è utilizzata sia da Malson (I ragazzi selvaggi, op.
cit.) che da Ludovico (Anna Ludovico, Anima e Corpo, op. cit.).

41
‘uomini di natura’ e quali individui possano dirsi davvero tali. Si tratta di un breve
saggio anonimo che si inserisce nel dibattito sorto intorno al giovane Victor, pubblicato
sulla Décade Philosophique, l’organo degli idéologues. Tralasciando le valutazioni che
egli muove intorno al caso in questione, è la critica generale alle imprecisioni nella
definizione dei concetti di “natura” e di “uomo naturale” che ci interessano e che sono
applicabili anche al di fuori dell’occasione specifica. Solo dopo aver chiarito queste
nozioni sarà eventualmente possibile utilizzare con efficacia il caso sperimentale offerto
dal giovane Victor. L’Anonimo comincia con una discussione assai acuta sulle
accezioni del termine “natura” nel dibattito filosofico della sua epoca: essa è intesa
come “l’insieme delle qualità essenziali di un essere”, come “tutto ciò che non è stato
elaborato dall’industria umana”, come nome collettivo che indica “la fatalità degli esseri
esistenti”, come “le leggi e le cause” che governano tutta la realtà e come “le intenzioni
finali riconosciute o supposte nell’universo”. 87 Da questi significati che si
sovrappongono derivano poi le tre accezioni, anch’esse spesso confuse, che egli
individua per la nozione di “uomo di natura”88 : a) “l’individuo che non ha ricevuto
alcuna educazione, le cui facoltà si sono sviluppate solo per opera del principio intimo e
attivo della sua esistenza” 89 , e che non è stato mai “modificato da alcuna circostanza
esterna e accessoria”; b) “colui che è stato modificato dalle sole circostanze esterne
della nostra esistenza fisica, e non ha provato l’influenza delle cause esterne che
appartengono all’ordine morale” 90 ; c) l’uomo che risponde esattamente alla
destinazione della Natura, che realizza le intenzioni ch’essa ha avuto relativamente alla
nostra specie” 91 . Se queste sono le tre fondamentali nozioni di “uomo di natura”, l’unica
che sarà utilizzabile per il caso di Victor e di tutti gli altri ragazzi selvaggi, è
manifestamente la seconda, ed è a questo senso che ci si riferirà in tutto il secondo
capitolo:

87
Anonimo, Réflexions sur le Sauvage de l’Aveyron, op. cit., p. 181-82.
88
“Dal momento che il termine natura è soggetto a tante diverse interpretazioni, come è possibile impedire che i
sistemi elaborati intorno all’uomo di natura, non diventino la sorgente di numerose dispute di parole e ragionamenti
sofistici? Basterà tuttavia portare un po’ di luce nelle definizioni, affinché i filosofi si intendano e i sistemi crollino.
Io credo che si possano ridurre a tre definizioni diverse tutte le idee che si possono formare intorno all’uomo di
natura”, ivi, p. 182.
89
Ivi, pp. 182-83.
90
Ivi, p. 184.
91
Ivi, pp. 186-87.

42
Vogliamo intendere per uomo di natura quello che è stato modificato dalle
sole circostanze esterne della nostra esistenza fisica e che non ha provato
l’influenza delle cause esterne appartenenti all’ordine morale; che ha trovato
intorno a lui solo esseri inanimati o privi di intelligenza, i quali non potevano
entrare in alcun rapporto con lui; e che, non avendo mai incontrato i suoi simili,
non ha provato né i benefici effetti di uno scambio fondato sul linguaggio, né
quelli delle istituzioni sociali?
Se adottiamo questa definizione, il Selvaggio dell’Aveyron può
effettivamente realizzare tale ipotesi.

La prima accezione dell’espressione è infatti troppo restrittiva, volendo considerare


un uomo che “non sia mai stato modificato da alcuna circostanza esterna o accessoria” 92
e non può adattarsi ad alcun individuo, perché presupporrebbe l’assenza di ogni
qualsivoglia influsso dell’ambiente esterno. Non solo di un ambiente umano, ma anche
dell’ambiente fisico stesso. Un uomo siffatto è ovviamente un’astrazione: “L’uomo non
esiste nel vuoto, ma si trova collocato al centro di una macchina immensa, i cui
molteplici meccanismi gli comunicano incessantemente nuovi impulsi” 93 . Dovunque
l’uomo sia posto, in qualsiasi circostanza lo si faccia vivere sarà il tale o il talaltro
uomo: sarà l’uomo di società, sarà l’uomo delle foreste, sarà l’uomo abbandonato in un
deserto, sarà l’uomo in catene, sarà un uomo che non può vedere la luce ecc ma il suo
essere localizzato in uno spazio fisico e il suo intrattenere relazioni con gli oggetti che
lo circondano sono elementi da cui in alcun modo si può pensarlo affrancato. Viceversa,
la seconda accezione, cioè la separazione dell’uomo da qualsiasi rapporto con i suoi
simili, è pensabile ed è stata storicamente pensata: in questo caso si tratterà di mettere in
atto situazioni in cui singoli si trovino in condizioni di totale mancanza di rapporti con
membri della nostra specie, oppure di aspettare che il caso ci fornisca individui di tal
genere. Anche la terza definizione non sarà da noi utilizzata, perché mentre qui ci si
occuperà di esperienze che vogliono determinare ciò che l’uomo è, essa vuole invece
significare e indicare ciò che l’uomo può o deve essere.

92
Ivi, p. 183.
93
Ibidem.

43
Per una legge universale che trascuriamo, la versatilità dell’intelletto è il compenso ai mutamenti, ai
pericoli e alle difficoltà. Un animale in perfetta armonia con il suo ambiente è un perfetto meccanismo; la
natura non fa mai appello all’intelligenza fino a quando l’abitudine e l’istinto non diventano insufficienti.
Non v’è intelligenza là dove non vi sono mutamenti o necessità di mutamenti; hanno intelligenza solo
quegli animali che devono affrontare necessità di diverso genere e pericoli.
HERBERT GEORGE WELLS, The Time Machine, 1895.

II. Esperienze dell’uomo di natura

Nel capitolo precedente si è cercato di mostrare come, per quali motivi, e attraverso
quali testi si sia giunti in un certo momento storico e della storia del pensiero, attorno
alla seconda metà del Settecento, all’individuazione dell’uomo di natura con
quell’uomo che sia vissuto per un qualche periodo di tempo, dalla nascita in poi, al di
fuori di ogni forma di socialità che potesse trasfigurarne il vero volto. La scienza e la
filosofia, preso atto della potenza e della pervasività dell’influsso della società
sull’individuo 94 , che ne rendevano pressoché irriconoscibili i caratteri originali,

94
Già Pascal si era espresso, in alcuni famosi frammenti, sul potere dell’abitudine e sulla sua capacità di rendere
irriconoscibile la natura umana. La riflessione di Pascal è in realtà più complessa, e sembra giungere addirittura ad
una negazione dell’esistenza stessa della natura umana e ad una riduzione di essa all’abitudine. Per quanto qui ci
interessa, basti notare la consapevolezza nascente nel pensiero dell’importanza dell’abitudine nel determinare le
convinzioni, i sentimenti e i comportamenti dell’uomo. Cfr. Blaise Pascal, Pensées de M. Pascal sur la religion et sur
quelques autres sujets. Qui ont été trouvées après sa mort parmi ses papiers, 1670 (tr. it. di Adriano Bausola e Remo
Tapella, Pensieri, Milano, Bompiani, 2000), fr. 120: “I padri temono che l’amore naturale dei loro figli si dissolva.
Che cosa è dunque questa natura, soggetta a venir cancellata? La consuetudine è una seconda natura che distrugge la
prima [La coutume est une seconde nature, qui detruit la première]. Ma che cosa è la natura? Perché l’abitudine non è
naturale? Ho gran paura che questa natura non sia essa stessa altro che una prima consuetudine, come la consuetudine
è una seconda natura”. E ancora: “La natura dell’uomo è tutta naturale, omne animal. Non c’è nulla che non si possa
rendere naturale, e non v’è nulla di naturale che non si possa far scomparire [il n’y a naturel qu’on ne fasse perdre]”
(fr. 121). Viceversa Rousseau si mostra conscio, in un passo che abbiamo già citato, di quest’influenza, ma ritiene che
la natura umana possa ancora essere scoperta: “Combien tu as changé [l’uomo ‘civile’] de ce que tu étois! C’est pour
ainsi dire la vie de ton espéce que je te vais décrire d’après les qualités que tu as reçues, que ton education et tes
habitudes ont pu dépraver, mais qu’elle n’ont pu détruire.”, Discours sur l’inegalité, op. cit., p. 133, corsivi miei.
Anche in Locke, tra gli argomenti portati a sostegno della tesi che le idee innate non siano davvero tali nel Libro I
dell’Essay on Human Understanding, si sostiene che il “custom” è “a greater power than nature” e compare l’idea
che bisogni ricercare ciò che sia davvero innato nell’uomo in coloro che siano “…the least corrupted by custom, or
borrowed opinions; learning and education having not cast their native thoughts into new moulds; nor by
superinducing foreign and studied doctrines, confounded those fair characters nature had written there; one might
reasonably imagine that in THEIR minds these innate notions should lie fairly to every one’s view…” (John Locke,

44
continuavano a credere nella possibilità di anestetizzare l’influsso delle “cause morali”
sullo sviluppo delle potenzialità naturali della persona, e si misero alla ricerca di
condizioni nelle quali esse potessero rivelarsi; nelle quali, parlando nei termini
dell’antropologia contemporanea, la natura potesse essere distinta dalla cultura, le radici
bio-fisiche dei comportamenti da quelle psico-sociali, gli ‘istinti’ dall’influenza di un
ambiente umano. Considerando ancora natura e cultura come due elementi distinguibili
e non come il risultato di una reazione chimica che è già dal principio avvenuta e in cui
non è possibile procedere a separare nuovamente i reagenti ormai divenuti una

An Essay Concerning Human Understanding, 1690, disponibile online all’indirizzo:


http://www.gutenberg.org/etext/10615, I.I.27). Se la natura (in questo caso nella forma di “innate speculative
principles” o di “innate practical principles”) può mostrarsi e, è bene specificarlo, per Locke ancora si può soprattutto
mostrare nei “children, idiots, savages and illiterate people” non ancora educati su certe questioni, lo può solo
laddove essa non sia “darkened, and at last quite worn out of the minds of men” “by education, and custom, and the
general opinion of those amongst whom we converse” (John Locke, An Essay, op. cit. I.II.20). Si può forse
rintracciare in passi come questi anche una eco di quella messa in discussione delle auctoritates con cui si apre la
modernità, dal Novum Organum di Bacone in poi. Lo spirito antidogmatico, la critica della tradizione e il nuovo
metodo scientifico avevano rivelato tutti i pregiudizi e le false credenze su cui gli uomini di lettere fondavano le loro
conoscenze: se prima “L’umanista che aveva svolto il programma delle arti liberali, per lungo tempo fondate su testi
classici, era un vero polyhistor e nessun argomento lo lasciava completamente disorientato: Aristotele forniva la
chiave delle arti e delle conoscenze, Giustiniano apriva l’accesso al diritto romano, Ippocrate alla medicina”, “Con la
cesura epistemologica intervenuta nella seconda metà del Seicento in nome della nuova filosofia della ragione e della
esperienza, gli studiosi europei presero piena coscienza dei limiti insiti nella filologia umanistica e nel sapere del
polyhistor. Il percorso intellettuale di Cartesio, a questo proposito, era emblematico: il filosofo aveva rifiutato la
soggezione ai precettori e lo studio delle lettere per ricercare solo la scienza che poteva trovare in se stesso e nel gran
libro del mondo; al sapere delle scuole sostituiva gli insegnamenti della sua ragione. Sulla scia delle riflessioni di
Cartesio si impose l’idea che convenisse essere meno sapienti e più ragionevoli, e sempre più spesso
l’enciclopedismo fu sentito come un esercizio deleterio” (Bots Hans, Waquet Françoise, La République des Lettres,
Paris, Belin, 1997 (tr. it. di Roberta Ferrara, La Repubblica delle Lettere, Bologna, il Mulino, 2005, pp. 63-68). Un
esercizio fuorviante per l’intelletto, che ne appesantiva e limitava la mobilità, che confondeva e conduceva all’errore,
e che dunque doveva essere evitato. I libri e i pregiudizi dei maestri erano diventati capi d’accusa verso se stessi: i
savants dovevano liberarsene per accedere a un sapere più vero. Può darsi, sia detto en passant e come mera
congettura, che questi stessi sapienti che avevano riconosciuto come operanti su di sé le forze della tradizione, della
trasmissione ereditaria di idee e metodi da cui faticavano a liberarsi, fossero in seguito condotti ad estendere queste
considerazioni a tutto il resto dell’umanità. Resisi consapevoli della ‘artificialità’ di gran parte dei loro stessi
presupposti intellettuali, poterono in seguito ritrovare gli stessi pregiudizi anche nelle pur rozze idee dei contadini
d’Europa, dei bambini, dei selvaggi ecc. Il ruolo prepotente dell’educazione, a qualsiasi livello, da quello dei letterati
a quello del compatriota più rozzo e del selvaggio della tribù più distante, sarebbe stato in seguito riconosciuto: la
scoperta dell’influenza della tradizione e dei dogmi (classici e ecclesiastici), promosse forse la scoperta dell’influenza
di ogni tradizione sulla vita e il pensiero dell’individuo.

45
soluzione 95 , si può pensare di osservare situazioni in cui si riveli la pura natura
dell’uomo: dalla sottrazione all’uomo sociale, i cui caratteri derivano dalla somma di
istanze naturali e culturali, dei caratteri dell’uomo naturale, si può dunque credere, come
faceva Itard, di poter dedurre “la somma fino ad ora non calcolata delle conoscenze e
delle idee che l’uomo deve alla sua educazione” 96 . Non solo l’osservazione dell’uomo
di natura, ma, per converso, anche l’individuazione del retaggio culturale è ciò che
interessa. Non è un caso che alcuni degli autori di cui ci si occuperà facciano parte di
una corrente di pensiero che ha alle sue spalle il sensualismo lockeano e una
prospettiva genetica e anti-innatistica di sviluppo delle conoscenze, e che comunque con
le loro ipotesi vogliano far comprendere come o il linguaggio, o alcune idee, o alcuni
sentimenti, o alcuni comportamenti, o alcune facoltà e capacità del singolo siano dovute
all’azione dell’educazione e non possano svilupparsi ‘spontaneamente’. Non
inverificabili semina celesti o una dotazione propria della sua specie ne segnano la
natura e il destino, bensì i rapporti che instaura fin dalla nascita con gli oggetti e gli
individui appartenenti alla sua stessa dimensione naturale. Il tentativo di studiare
l’homme naturel si accompagna sempre in questi testi a un ridimensionamento delle
pretese istanze naturali dell’uomo: accanto al mostrare la natura umana, il risultato cui
si vuole giungere è quello di definire in senso critico i suoi limiti. Più che dimostrare ciò
che l’uomo è, si tende a dimostrare ciò che l’uomo non è, a contestare e a limitare il
bagaglio e le predisposizioni alla vita che molti supponevano egli avesse. Le
“esperienze sull’uomo naturale” 97 , come sostiene Malson nell’Introduzione al suo

95
Cfr. l’interpretazione del rapporto natura-cultura in condizioni storiche in Lévi-Strauss: “...la distinzione non è
sempre così facile: spesso lo stimolo bio-fisico e quello psico-sociale provocano reazioni dello stesso tipo, e ci si può
chiedere, come già faceva Locke, se la paura del fanciullo al buio si spieghi come una manifestazione della sua natura
animale o come il risultato dei racconti della sua nutrice. C’è di più: nella maggioranza dei casi le cause non sono
neppure realmente distinte, e la risposta del soggetto costituisce una vera e propria integrazione delle radici
biologiche e di quelle sociali del suo comportamento [...] Il fatto è che la cultura non è né semplicemente giustapposta
né semplicemente sovrapposta alla vita. Per un verso essa si sostituisce alla vita, e per un altro la utilizza e la
trasforma per realizzare una sintesi di altro ordine”, Lévi-Strauss, Le Strutture Elementari, op. cit., p. 40.
96
Jean-Marc Gaspard Itard, Mémoire sur les Premiers Développements, op. cit., p. 53.
97
Probabilmente mai davvero tentate, ma con una certa approssimazione surrogate dai numerosi ritrovamenti e studi
sugli enfants sauvages dalla fine del Settecento in poi. Quest’espressione, qui spesso ripetuta, è mutuata da un testo
che in seguito analizzeremo meglio, ovvero L’Introduzione alle Memorie della Società degli Osservatori dell’Uomo
di Louis-François Jauffret, che fu il fondatore di questa società (cfr. Louis-François Jauffret, Introduction aux
Mémoires de la Société des Observateurs de l’Homme, 1803., tr. it. di Sergio Moravia, Introduzione alle Memorie

46
studio sui ragazzi selvaggi, sembrano giungere a questa conclusione: nel fanciullo, un
isolamento stretto e prolungato rivela l’assenza di solidi ‘a priori’, di schemi di
adattamento specifici:

I fanciulli privati troppo presto di ogni rapporto sociale – quelli che vengono
chiamati ‘ragazzi selvaggi’ – si trovano completamente sprovvisti nella loro
solitudine, al punto da sembrare misere bestiole, quasi fossero animali infimi [...]
La verità è che il comportamento, nell’uomo, non deve all’eredità specifica
quanto le deve nell’animale [...] Alla vita costretta nei limiti, dominata e regolata
da una natura data, si sostituisce qui l’esistenza aperta, creatrice e ordinatrice di
una natura acquisita [...] Ciò che l’analisi stessa delle similitudini conferma
comune negli uomini, è una struttura di possibilità e insieme di probabilità, che
non può attuarsi al di fuori del contesto sociale, qualunque esso sia. Prima del
rapporto con gli altri, e con il gruppo, l’uomo non è che un insieme di
potenzialità leggere, quanto un vapore inconsistente. Non c’è condensazione se
non c’è l’ambiente, cioè il mondo degli altri 98 .

I passi che si affronteranno, se non rinunciano evidentemente alla nozione di natura


umana e alla credenza nell’esistenza di un uomo di natura, che anzi vanno ricercando,
inaugurano però uno studio dell’uomo spogliato delle influenze della società e
dell’ambiente che, nel tempo, condurranno a restringerne sempre più i caratteri ‘dati’,
per mostrare invece l’importanza di ciò che viene acquisito dalla nascita 99 in poi.
“L’uomo in origine non è altro che un verme, le cui metamorfosi non hanno nulla di più
sorprendente di quelle di ogni altro insetto”, scriveva a metà Settecento un filosofo
ancor’oggi poco studiato, La Mettrie100 . Le sue perfezioni sono spiegabili anche senza il
ricorso a un’idea di natura che le comprenda in sé come originarie, ma in base a un idea

della Società degli Osservatori dell’Uomo, in Sergio Moravia, La Scienza dell’Uomo nel Settecento, Bari, Laterza,
1970, pp. 265-75).
98
Lucien Malson, I Ragazzi Selvaggi, op. cit., pp. 10-11.
99
O addirittura dalla condizione fetale, dalle relazioni chel’individuo intrattiene con l’ambiente esterno già nella vita
intrauterina.
100
Julien Offroy de La Mettrie,, Histoire Naturelle de l’Âme, 1745 (tr. it. di Sergio Moravia, Storia Naturale
dell’Anima, in Opere Filosofiche, Roma-Bari, Laterza, 1974, pp. 49-161), p. 52.

47
di natura più povera di contenuti rispetto a quelli attribuitigli dalla tradizione, ma che
faccia proprio di questa carenza, di questo vuoto contenutistico, di questa tabula rasa,
di questa indeterminazione, la condizione di possibilità perché la forza
dell’apprendimento metta in atto tutto ciò che l’uomo è in potenza. Una potenza intesa
non in senso aristotelico, come se gli uomini avessero in sé la capacità di attingere le
loro perfezioni, come se fossero “vermi nati a formar l’angelica farfalla” 101 , ma una
potenza che si realizza in relazione all’ambiente, in particolare in ambiente umano.
Questa immagine dell’uomo può essere fatta risalire al dialogo platonico Protagora e in
particolare al mito di Epimeteo e Prometeo in esso contenuto102 . In esso si racconta che
il semidio Epimeteo avrebbe ricevuto il compito di dotare gli animali di “competenze”
(nel testo greco: dynameis) e che quando questi arrivò alla specie uomo, avendo già
distribuito tutte le dotazioni che servono alla sopravvivenza, cioè quelle per procacciarsi
il cibo, per difendersi, per fuggire e così via, egli lasciò l’uomo ‘nudo’ e senza mezzi.
Nel mito è Prometeo, fratello di Epimeteo, a venirgli in aiuto, rubando agli dei Efesto e
Atena le loro arti, cioè il fuoco, la techne, nel senso di artigianato e arte, e la scienza. Le
competenze decisive per l’uomo non sono “per natura”. L’uomo è uomo proprio per il
fatto che la sua dotazione naturale è insufficiente per la sua vita e deve perciò produrre
da sé ciò che lo contraddistingue. Una simile prospettiva è stata ripresa nel XX secolo
da Arnold Gehlen che ha definito l’uomo come “animale carente”, debole e
insufficiente a se stesso rispetto a tutti gli altri animali, ma che interpreta la ‘mancanza’
nei termini di un vantaggio selettivo 103 : il fatto che l’uomo nasca prematuro e libero da
istinti predeterminati rende possibile l’apertura al mondo e la sua capacità di agire ed
adattarsi alle condizioni di vita più differenti. Messo da parte l’intervento divino,
l’uomo sviluppa le sue facoltà in relazione all’ambiente circostante, e, se può
sopravvivere (o almeno questo sembrano dirci i casi di enfants sauvages sopravvissuti
soli in boschi e foreste), attraverso un processo di autoformazione, è evidente che un
ambiente umano, nel quale egli possa apprendere attraverso l’imitazione e l’educazione
di altri uomini, è quello in cui egli è massimamente in grado di progredire. L’uomo è

101
Dante, Purgatorio, X, 124-5.
102
Platone, ΠΡΩΤΑΓΟΡΑΣ, dopo il 387 a.C. (tr. it. di Francesco Adorno, Protagora, in Opere Complete, Roma-Bari,
Laterza, 1966, vol. V, pp. 59-131), 320d-321c.
103
Cfr. Arnold Gehlen, Der Mensch Seine Natur und Seine Stellung in der Welt, Frankufurt am Main, 1967 (tr. it. di
Carlo Mainoldi, L’Uomo, la sua Natura e il suo Posto nel Mondo, Milano, Feltrinelli, 1983).

48
inteso come una creatura in divenire, e che si determina, nei modi più diversi, solo a
seconda degli oggetti, delle persone e delle esperienze con cui si confronta. Ben poco
gli è innato, quasi tutto è appreso. Insomma le “esperienze sull’uomo di natura” mirano
a indovinare ciò che (siano essi idee, comportamenti, sentimenti e così via) sia davvero
innato nell’uomo o si sviluppi comunque, nelle circostanze più sfavorevoli, in un
secondo tempo, “per opera del principio intimo e attivo della sua esistenza”104 . A
intendere ciò che l’uomo può da sé, lasciato a se stesso, senza alcun aiuto divino o
umano. Queste esperienze sono intese come una sorta di experimentum crucis, che dopo
secoli di dispute e polemiche, possa dare una prova empirica di cosa divenga un uomo
lasciato solo alle prese con il mondo fisico circostante. Che poi questa sia una
condizione veramente ‘umana’ o non sia altro che una astrazione destinata a generare un
mostro 105 , è un altro problema. Mi pare però che, coerentemente con quanto detto sopra,
si possa rubricare la condizione di assoluta asocialità, per quanto certo limitata a pochi
casi e piuttosto remota a verificarsi 106 , non come non umana, ma come uno dei
molteplici ambienti possibili in cui l’uomo può venire a trovarsi. Una possibilità, per
quanto improbabile, ripetiamolo ancora, tra le tante, in nulla qualitativamente diversa.
In termini quantitativi, quella che verosimilmente dà origine al minor numero di
perfezioni dell’uomo, quella più infeconda e più simile alla condizione animale, ma che
è sia pensabile sia storicamente verificatasi. Considerarla anormale, significa

104
Anonimo, Réflexions sur le Sauvage de l’Aveyron, op. cit., p. 183.
105
Cfr. Lucien Malson, I Ragazzi Selvaggi, op. cit., dove lo stato dei ragazzi selvaggi è considerato aberrante:
“Invece di uno stato di natura dove l’homo sapiens e l’homo faber si evidenziano, possiamo osservare soltanto una
condizione aberrante, a un livello a cui ogni psicologia lascia il posto alla teratologia” (p. 10). Non si comprende
esattamente se Malson rigetti in toto la nozione di ‘natura umana’ (“I ‘ragazzi selvaggi’...ci fornirebbero la prova
definitiva, se ce ne fosse bisogno, che l’espressione ‘natura umana’ è assolutamente priva di senso”, p. 41) o se egli
esclude che una condizione tanto degenerata, dal nostro punto di vista, o tanto poco progredita, possa ancora dirsi
umana. Se, cioè, la mancanza della comunanza con altri uomini precipiti chi vi sia vissuto in una condizione inferiore
a quella umana (“L’uomo, fuori della società degli uomini, non può essere che un mostro”, p. 40; “Mentre ogni cosa
oggigiorno ci invita a prendere coscienza del ruolo indiscutibile, fondamentale – senza limiti precisi – dell’ambiente
sociale nella formazione dell’uomo, bisogna dunque continuare a stupirsi se, venendo a mancare questo ambiente,
non ritroviamo davanti a noi che spettri?”, p. 41, corsivi miei). Più che a un rifiuto della ‘natura umana’, si
tratterebbe allora di un ennesimo tentativo di definire l’essere umano con il tratto della socialità, come se l’essere
membro di un gruppo fosse condizione indispensabile per poter dire di trovarsi di fronte ad un uomo.
106
Il numero dei ragazzi selvaggi conosciuto è nell’ordine di una cinquantina di casi, almeno a quanto riportano i
repertori del Malson (Lucien Malson, I Ragazzi Selvaggi, op. cit., pp. 72- 73, che raccoglie 53 casi) e della Ludovico
(Anna Ludovico, Anima e Corpo, op. cit., pp. 197-212).

49
presupporre che normalità sia per l’uomo lo scambio sociale: e invece questa non è una
legge necessaria, ma solo una possibilità privilegiata, che si realizza quasi sempre. Se si
dà una definizione di natura umana ‘carente’ di contenuti, e dunque aperta e
onnicomprensiva (ovvero in grado di abbracciare tutte le svariate manifestazioni del
fenomeno uomo) il caso della insocievolezza diviene uno dei tanti luoghi da osservare
per poi eventualmente trarre dalla comparazione delle differenze delle conclusioni più
generali. In questo caso la ‘natura’ umana è sia culturale che non culturale, e si mostra
in ogni individuo della specie homo sapiens. Se si dà una definizione della ‘natura’
come contrapposta all’artificio, all’educazione, alla cultura e alla socialità e così via le
“esperienze sull’uomo di natura” che vedremo sono ancora le uniche in cui davvero si
possa così isolare l’elemento ‘natura’, le uniche in cui l’homme naturel si dia spogliato
dell’influenza sociale. Se si dà una definizione di ‘natura’ come sempre culturale, allora
ci si riduce, come fa Malson, a considerare una mera teratologia lo studio di questi casi
Invece, l’insocievolezza, se non è la condizione originale dell’umanità, è comunque una
delle sue condizioni. Si è potuta realizzare grazie al caso, e si potrebbe ricreare
artificialmente. Essa è tanto possibile quanto lo sono tutte le altre. È un’ altra situazione,
e alla pari con quelle più comuni, in cui vale la pena indagare cosa sia l’uomo. Dunque
la prima definizione, in virtù della sua fecondità e della sua apertura a tutte le forme di
vita umane, mi sembra quella più accettabile. E se il nostro régard si è voluto spingere
ad osservare e comparare, attraverso le discipline etno-antropologiche 107 , la totalità dei
gruppi umani, attraverso la psicologia dello sviluppo la condizione infantile, attraverso
gli studi delle psicologie speciali la vita di idioti, folli, disabili e malati, e in generale
ogni condizione in cui un membro della specie uomo possa venire a trovarsi, perché
arrestarsi di fronte a quest’ultimo stato che è quello della totale insocialità? In questo
senso forse, che non pretende più di astrarre l’uomo da alcuna delle circostanze
ambientali in cui può trovarsi, può ancora ritrovarsi l’utilità di una “esperienza
dell’uomo di natura”, che si metta accanto a tutte quelle esperienze sull’uomo vissuto in
società. Se l’uomo è davvero il prodotto di circostanze cui si conforma, allora tutte le

107
Si utilizza quest’espressione più comprensiva per evitare di dover meglio definire i confini tra discipline come
l’etnologia, l’etnografia, la paletnologia, l’antropologia fisica e culturale ecc., che hanno subito nel tempo
spostamenti di senso e che ancora oggi, a seconda dei vari indirizzi delle discipline seguiti in Francia, in Gran
Bretagna, negli Stati Uniti e negli altri paesi, e dei diversi metodi di interpretazione della realtà storica dei gruppi
umani ad essi connessi, sono piuttosto discutibili e confusi.

50
circostanze ci devono interessare: non perché l’uomo in società non riveli la sua
‘natura’, ma perché questa stessa ‘natura’ si svela ovunque, attraverso l’adattamento
agli ambienti più disparati.
Da qui in avanti, si esamineranno, in ordine cronologico, alcune esperienze di
costruzione di questa condizione di assoluta insocialità di cui abbiamo finora parlato;
quelle che abbiamo già citato come “esperienze sull’uomo naturale”. Occorre subito
dire, per cautelarsi da possibili obiezioni critiche, che tutte le esperienze che seguiranno
sono solo un’approssimazione di una ricostruzione di uno stato di completa mancanza
di forme di socialità, di educazione e di interazione con altri esseri umani. Al vaglio di
un esame attento, esse rivelano sempre, in una misura più o meno accentuata, rapporti
con altri uomini, siano essi le nutrici, gli uomini incaricati di prendersi cura dei fanciulli
allevati, gli altri fanciulli allevati nelle stesse condizioni e così di seguito. Stranamente,
ciò che il caso è riuscito a fare con i ragazzi selvaggi, non sembra essere riuscito alle
fantasie e alle congetture della letteratura e della filosofia. Ragioni teoriche (insite nello
scopo stesso dell’esperimento, ad esempio la volontà di studiare la genesi del linguaggio
in più bambini isolati) e ragioni pratiche (ad esempio il voler rendere verosimile la
possibilità di tali esperimenti introducendo figure che accudiscano e facciano crescere i
bambini) non hanno consentito di andare oltre un avvicinamento alla condizione di
isolamento totale. Detto questo, rimane vero che la consapevolezza degli influssi di ogni
genere di contatto umano all’epoca in cui gli autori scrissero dovette essere meno
precisa della nostra, e che essi comunque si proposero di rendere quelle influenze che
potevano riconoscere quanto meno importanti, e, se non di raggiungere la completa
separazione, almeno di avvicinarsi asintoticamente ad una condizione di assenza di
educazione e di società.

II.I. Erodoto: l’esperimento del faraone Psammetico per determinare la lingua madre
dell’umanità

Il Libro II delle Storie di Erodoto è costituito da una lunga digressione sulla storia, i
costumi e le curiosità dell’Egitto, occasionata dal fatto che, alla morte di Ciro, sale al
trono di Persia il figlio Cambise, che organizza una spedizione militare contro l’Egitto.
Tra i racconti che lo storico dice di avere ascoltato presso i sacerdoti del tempio di

51
Efesto (Ptah) a Menfi, ne racconta uno che si diceva avvenuto sotto il regno del re
egiziano Psammetico I 108 e che ha avuto una discreta fortuna, essendo una delle
testimonianze più antiche, nella storia degli studi sulle origini del linguaggio 109 :

Psammetico, poiché, per quante indagini facesse, non riusciva trovare alcun
mezzo per sapere quali fossero stati i primi fra gli uomini, escogitò questo
espediente: diede due bimbi appena nati, figli di uomini presi a caso, ad un
pastore perché li allevasse presso le greggi, ordinandogli che nessuno parlasse
mai dinanzi ad essi, ma che stessero da soli in una capanna solitaria e che, al
momento opportuno, conducesse loro delle capre e, dopo averli saziati di latte,
attendesse a tutte le occupazioni. Psammetico fece questo e diede questi ordini,
volendo udire quale parola avrebbero pronunciata per prima i bambini, una volta
che avessero lasciato i balbettii indistinti. E ciò finalmente avvenne. Quando fu
trascorso un periodo di due anni da che il pastore faceva questo, mentre egli
apriva la porta e entrava, tutti e due i bimbi correndogli incontro dissero

108
Con questo nome Erodoto indica sempre il faraone egiziano Psammetico I, appartenente alla XXVI dinastia (664-
610 a.C.); altri due re della stessa dinastia portarono tale nome, ma l’identificazione è sicura perché egli li ricorda
sempre come Psammi (Psammetico II) e Psamminito (Psammetico III), cfr. Erodoto, Ἰστορἴαι, 440-429 a. C. circa, tr.
it. di Augusta Izzo d’Accinni, Storie, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 1984, nota 4, p. 217.
109
Il passo viene ancor oggi menzionato nei testi che si propongono di studiare la storia delle teorie sull’origine del
linguaggio (cfr. ad es. Marcel Danesi, Vico, Metaphor and the Origin of Language, Indiana University Press, 1993, p.
5 e Lia Formigari, Il Linguaggio. Storia delle Teorie, Roma-Bari, Laterza, 2004, p. 81). Ma esso era certamente
conosciuto anche agli studiosi Settecenteschi: è ripreso esplicitamente dal de Brosses nel Traité de la Formation
Méchanique des Langages et des Principes Physiques de l'Étymologie, Paris, 1765 (tr. it. di Luca Nobile, Trattato
della Formazione Meccanica delle Lingue e dei Prinicipi Fisici dell'Etimologia, Roma, Università “La Sapienza”,
2005, pp. 146-48), e il curatore del testo lo considera uno dei luoghi preferiti della linguistica dell’epoca rimandando
a Mersenne, al tema del concorso vinto da Herder nel 1769 all'Accademia delle Scienze di Berlino ("Supponiamo che
gli uomini siano abbandonati alle loro facoltà naturali. Sono in condizione di inventare il linguaggio? E con quali
mezzi arriveranno da soli a questa invenzione?") e al Condillac dell’Essai sur l’Origine des Connaissances
Humaines, op. cit. Per informazioni più precise per il reperimento di quelli tra questi passi che non verranno in
seguito da noi considerati si veda: Trattato della Formazione Meccanica delle Lingue, op. cit., p. 147, nota 5.
Starobinski accenna nel suo commentario al Discours sur l’Inegalité, op. cit., p. 1296, a un altro testo di un
contraddittore di Rousseau che riferisce l’esperienza di Erodoto, Jean de Castillon. Un ulteriore testo in cui ho trovato
citata l’esperienza del faraone egiziano è quello del Jauffret, Introduzione alle Memorie della Società degli
Osservatori, op. cit., p. 272, dove si legge: “Psammetico, re d’Egitto, volle un giorno, secondo quanto riferisce
Erodoto, tentare una educazione di questo genere. Ackbar, imperatore del Mogol, cercò anche lui, alcuni secoli or
sono, di fare educare dei fanciulli lontano da qualsiasi società”.

52
«bekos», tendendo le braccia. Dopo che li ebbe uditi una prima volta, il pastore
se ne stette silenzioso; ma, poiché spesso quando andava e si prendeva cura di
loro quella parola ritornava sovente, allora, datane notizia al padrone, per suo
ordine gli condusse i bambini. Uditigli anch’egli, Psammetico si informò su
quali uomini chiamassero qualche cosa «bekos», e trovò che i Frigi chiamavano
così il pane. In tal modo gli Egizi, servendosi di questo fatto come prova,
riconobbero che i Frigi sono più antichi di loro 110 .

L’esperimento tentato dal faraone si proponeva questo scopo: determinare quale


fosse il popolo più antico della terra attraverso l’analisi di quella lingua che i bambini
avessero parlato spontaneamente senza l’influsso di alcuna trasmissione esterna. La
teoria che l’esperimento presuppone è che esista un’unica lingua madre, la più antica,
cui tutte le altre possono essere fatte risalire in quanto si sarebbero da essa sviluppate
attraverso successive modificazioni. È quella che gli studiosi delle lingue chiamano
ipotesi monogenetica, un’ipotesi della cui esistenza nel mondo antico sarebbe una
testimonianza proprio questo passo erodoteo, e il cui percorso è poi possibile seguire
dall’età tardo-antica (si pensi all’influsso che dovette avere il paradigma vetero-
testamentario su questo tema, attraverso la figura di Adamo come impositore di nomi e
l’episodio della confusione babelica delle lingue, tanto da portare tutta una tradizione
teolinguistica all’individuazione della lingua madre nell’ebraico) fino a giungere
almeno ai primi anni dell’Ottocento111 . Si tratta di una visione naturalistica della nascita
del linguaggio, che la descrive come sviluppo spontaneo di potenzialità naturali che si
realizzano all’infuori di qualsiasi educazione. Un ultimo presupposto implicito è che
nell’originarsi del linguaggio l’ontogenesi ripercorra le stesse tappe della filogenesi, e
che dunque questi bimbi non influenzati da fattori esterni ricreino il linguaggio proprio
degli uomini originari. Il faraone, probabilmente mosso dalla speranza di una conferma
dell’opinione diffusa all’epoca per cui gli egiziani dovessero essere il popolo più antico
(e dunque più nobile) della terra, intraprese l’esperienza e ne seppe accettare di buon

110
Erodoto, Storie, op. cit., p. 319.
111
“L’idea di monogenesi delle lingue era sempre stata nettamente maggioritaria, certo anche a causa del perdurante
influsso della descrizione biblica delle origini umane. Ancora nel Settecento pochissimi erano stati gli autori che
avevano avanzato, come Voltaire, ipotesi poligenetiche”, Lia Formigari, Il Linguaggio. Storia delle Teorie, op. cit., p.
195).

53
grado anche i risultati negativi per la dignità sua e della sua gente. Si può dubitare sia
della veridicità globale del racconto, la questione è infatti storicamente ancora aperta,
sia dei particolari con cui esso è stato tramandato, spesso infatti essi si trovano
leggermente alterati e già Erodoto evidenziava come già alla sua epoca fossero state
diffuse “sciocche storie” e versioni differenti dell’episodio112 , sia dell’esattezza delle
conclusioni cui il sovrano giunse. A questo proposito vale la pena di notare che già
alcuni scoliasti sottolineavano come il risultato che venne accolto dal faraone (ovvero
che la lingua più antica dovesse essere quella frigia, perché la prima parola
spontaneamente pronunciata dai bambini era stata simile al termine frigio “bekos” che
significava pane 113 ) non fosse accettabile, e che probabilmente la prima parola non
doveva essere che l’imitazione onomatopeica del belato delle capre loro nutrici 114 .
Infine, un ulteriore elemento che mi pare degno di essere notato, è che la storia delle
“esperienze sull’uomo di natura” si apre con un testo in cui già compare un elemento
che si ritroverà in quasi tutte le riproposizioni successive: si tratta del fatto che
l’esperimento viene tentato per volontà o grazie all’interesse di un sovrano o di un
principe ‘illuminato’, che ha a disposizione sia i mezzi, sia la libertà e il potere per
effettuare una prova tanto straordinaria. Anche gli altri tentativi storici di realizzare
l’esperienza di cui si è tramandata, di cui ben poco si sa e la cui storicità è ben dubbia,
furono messi in atto da sovrani particolarmente interessati allo sviluppo dei saperi 115 . E

112
Cfr., “I greci, fra molte altre sciocche storie raccontano anche che Psammetico, fatta tagliare la lingua ad alcune
donne, fece poi allevare i bambini presso queste donne”, Erodoto, Storie, op. cit., p. 319.
113
Nonostante all’epoca i frigi fossero considerati un popolo recente, e nonostante il termine “bekos” esistesse in
frigio, ma fosse utilizzato per indicare il pane non presso questo popolo, ma a Cipro.
114
Lo stesso problema rileva il de Brosses: “I bambini che un vecchio re fece allattare da alcune capre, lontano da
ogni commercio umano, articolavano dei suoni, ed erano quelli che imitavano dal verso delle loro nutrici, che essi
coglievano con tanta più facilità in quanto questi suoni erano composti di lettere labiali e gutturali che si sviluppano
per prime negli organi dei bambini”, Trattato della Formazione Meccanica delle Lingue, op. cit., p. 147.
115
Nel XIII secolo l’imperatore del Sacro Romano Impero Federico II (1194-1250), anche conosciuto con
l’appellattivo di Stupor Mundi per la sua infinita curiosità intellettuale e per la grandiosa opera di mecenatismo delle
scienze e delle lettere, secondo quanto riporta Salimbene da Parma nella sua Chronica, avrebbe ordinato ad alcune
nutrici di crescere dei bambini senza mai parlare loro, per osservare se essi avessero iniziato a parlare in ebraico, in
greco, in latino o nella lingua dei loro genitori. Ma il tentativo si rivelò inutile, perché i bambini morirono tutti prima
di iniziare a parlare. Nel XVI secolo ad interessarsi di nuovo al problema fu Giacomo IV di Scozia (1473-1513), che
si dice affidò a una donna sorda e cieca due neonati per crescerli. Infine l’imperatore d’India Akbar il Grande (1542-
1605), illetterato ma di grande apertura intellettuale, credendo che il linguaggio nascesse dall’ascolto, si racconta

54
a sovrani simili si rivolgeranno, nella seconda metà del secolo XVIII e all’inizio del
secolo XIX, pure i filosofi che riproporranno l’esigenza di una simile impresa.

II.II. Arnobio: una variazione antiplatonica sul paragone della caverna.

Il secondo brano che si passa ad esaminare è contenuto in un’opera di carattere


apologetico in sette libri, l’Adversus Nationes 116 , che si ritiene composta verso la fine
del III secolo e comunque prima del 311 d.C. 117 , e il cui autore è Arnobio di Sicca118
(metà del III sec. d.C.-327 d.C. circa), detto anche Arnobio il Vecchio o il Retore o
Maggiore o Afro per distinguerlo da Arnobio il Giovane, monaco del V secolo d.C.
Precisamente, esso si trova all’interno del Libro II, in cui si affrontano il problema della
natura dell’uomo e dell’anima, e si sostiene che essa, di per se stessa mortale, è
destinata alla morte se rifiuta la verità rivelata dall’unico Maestro, Cristo, ed è invece
premiata con la vita eterna se crede in lui. Il libro, il più densamente speculativo di
quelli presenti nell’apologia, è fondamentale all’interno della problematica intellettuale
ed esistenziale del filosofo: il motivo che sembra spingerlo ad abbracciare la religione
cristiana è infatti apparso a molti interpreti la volontà di trovare una risposta alla paura e
alle inquietudini per l’estinzione finale, e proprio in questo libro Arnobio propone
l’unica soluzione a suo dire vera sulla questione della vita oltremondana. Dopo aver
infatti riconosciuto l’impossibilità di una conoscenza certa di Dio, del mondo fisico e

abbia fatto crescere un bambino senza permettergli di ascoltare parola, esperienza al termine della quale ne verificò il
mutismo.
116
Tale titolo, che significa letteralmente Contro I Pagani, è il solo attestato nell’unico codice che ha trasmesso
l’opera di Arnobio (codex Parisinus 1661 del secolo IX, conservato nella Biblioteca Nazionale di Parigi), ma in
passato l’opera è stata spesso conosciuta con il titolo Adversus (o Adversum) Gentes, sulla fede nella testimonianza di
San Girolamo, unica fonte antica sulla vita e sulle opere di quest’autore, di cui sappiamo molto poco.
117
Il 311 d.C. è infatti l’anno (con l’Editto di Nicomedia) in cui si concluse la grande e ultima persecuzione cristiana,
iniziata dall’imperatore Diocleziano nel 303 d.C.; l’anno è di poco precedente alla promulgazione dell’Editto di
Milano, con cui gli imperatori Costantino il Grande e Licinio posero ufficialmente fine a tutte le persecuzioni
religiose e proclamarono la neutralità dell’Impero nei confronti di ogni fede, equiparando la fede cristiana alle altre
religioni.
118
Di Arnobio sappiamo che operò tra la seconda metà del III secolo e la prima metà del IV secolo d.C. presso Sicca,
località dell’attuale Tunisia. Apprezzato retore e maestro di retorica negli anni 284-305 d.C., alla sua scuola si formò
Lattanzio. Si racconta che si sia convertito improvvisamente al cristianesimo in età avanzata (forse in seguito ad un
sogno), e che l’Adversus Nationes sia stato composto per convincere il suo vescovo della sincerità della sua fede.

55
delle origini e della destinazione delle nostre anime, che condanna l’uomo a una scepsi
universale, essendogli consentito su questi argomenti solo di pervenire a una suspicio
che non può essere scambiata per verità, egli supererà il momento scettico attraverso un
entusiastico slancio verso la parola di Dio. Quest’affidarsi alla parola di Cristo gli
sembra senz’altro più ragionevole di quella perpetua inquisitio pagana, sia perché quella
è destinata a non raggiungere mai le conoscenze cui tende, sia perché questa fede gli
appare suffragata dall’autorità del Cristo e comunque portatrice di speranza. Tra le tante
proposte incerte, questa ha almeno il pregio di promettere la salvezza 119 . All’interno di
questa prospettiva, che propone la conversione e l’accettazione del cristianesimo
attraverso la dimostrazione della falsità e dell’irragionevolezza delle opinioni dei
pagani, si inseriscono le argomentazioni di cui parleremo, che sono volte a dimostrare
che l’anima non è stata creata immortale da alcun dio (nemmeno dal Dio dei cristiani) e
che riceve invece l’immortalità solo “per dono munifico del sommo Imperatore, purché
tentino e si sforzino con meditata riflessione di conoscerlo” 120 . Esse si svolgono
attraverso quella che è stata considerata una variazione sul paragone della caverna
platonico 121 , un’ esperimento congetturale che ha il fine di dimostrare come la dottrina

119
“Non è permesso alle vostre menti di impigliarsi in tali questioni e di preoccuparsi di cose così remote dalle vostre
capacità, prendendo a cuore, come se fossero utili, argomenti tanto peregrini. È la vostra situazione che è a rischio,
intando riferirmi alla salvezza delle vostre anime, perché se non vi mettete d’impegno a conoscere il Dio sovrano, una
volta sciolti dai vincoli del corpo, vi aspetta una morte tremenda...”, Arnobio, Adversus Nationes, prima del 311 d.C.,
(tr. it di Biagio Amata, Difesa della vera religione, Roma, Città Nuova, 2000), p. 202.
120
Ivi, p. 175.
121
Quest’interpretazione è stata sostenuta da Konrad Gaiser in due conferenze tenute a Napoli il 2 e 3 ottobre 1984
presso l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, in seguito pubblicate con il titolo: Il Paragone della Caverna:
Variazioni da Platone ad Oggi, Napoli, Bibliopolis, 1985. In esso viene studiata la preistoria del paragone contenuto
nel Libro VII della Repubblica di Platone (514a-519b), attraverso le suggestioni della tradizione precedente che
potrebbero avere influenzato il filosofo, per passare poi alla descrizione delle rielaborazioni del mito in autori antichi
e moderni, tra cui Arnobio. Il tema è comune a entrambi (il problema gnoseologico ed educativo, che pure è solo uno
dei tanti aspetti del pensiero platonico estrapolabili dal paragone). A cambiare sono sia la forma in cui i contenuti
vengono espressi, da un lato una metafora e dall’altro un esperimento speculativo, sia i contenuti stessi: nella
metafora platonica il filosofo è l’uomo della caverna che riesce da solo a liberarsi dei ceppi, e ad uscire dalla caverna
per vedere la verità; egli è in grado con le sue sole forze di accedere alla visione delle idee soprasensibili e della
conoscenza vera, e può poi aiutare i suoi compagni a conoscere il vero mondo facendo compiere loro lo stesso
percorso di liberazione e ascesa. Questo percorso rimane però, si badi, uno sforzo che il singolo individuo deve
compiere da sé, in cui può essere diretto e aiutato, ma che richiede la partecipazione attiva di un soggetto che è
potenzialmente in grado di compierlo. Platone è fiducioso nelle possibilità dell’uomo di pervenire alla conoscenza del
vero. Viceversa il cavernicolo di Arnobio, come vedremo, quando esce dal suo rifugio è in una condizione di

56
della reminescenza (usata da Platone come prova dell’immortalità delle anime 122 ) sia
falsa. Se si riesce a mostrarne la falsità, si dimostrerà che anche l’immortalità delle
anime supposta dai pagani non è che un altro dei loro errori, e che dunque è necessario
convertirsi a Cristo se si vuole salvarsi dalla morte eterna. Arnobio aveva già portato
altre prove contro l’innatismo (se ci fossero davvero idee inscritte nell’anima umana
tutti dovrebbero conoscerle, o perlomeno, se si suppone che ognuno possa scoprirle in
se stesso attraverso il ricordo, esse dovrebbero essere le stesse in tutti gli uomini 123 ), ma
“perché più manifestamente e apertamente vi mostriamo quanto valga l’uomo” 124
ritiene opportuno costruire l’esperimento di cui stiamo per parlare, che dovrebbe
costituire l’argomento confutatorio definitivo.
L’esperienza di Arnobio è una esperienza che è proposta come puramente
congetturale, tanto che la descrizione si apre con la richiesta ai suoi lettori di “limitarsi a
immaginare nella vostra mente il quadro seguente”125 , e di cercare di raffigurarsi la
situazione immaginata “ricorrendo a un modello” 126 . Un modello certo, ma un modello
che appare fin dall’inizio concretissimo e particolareggiato, trattandosi nelle righe che
seguono di un esperimento mentale che non si limita affatto a tratteggiare gli aspetti
salienti (funzionali alla comprensione dei presupposti e delle condizioni di partenza
dell’esperienza), che non si riduce a una semplificazione del concreto ai fini di renderne
più semplice l’intendimento, ma che vuole dare da subito un’evidenza del tutto reale a

completa incomprensione e non partecipa per niente di una conoscenza divina, è insufficiente a se stesso e non può
intraprendere alcun cammino verso la verità. L’uomo di Arnobio, lasciato a se stesso, senza il soccorso degli altri
uomini, è rozzo e bruto, totalmente privo di capacità intellettive, quasi fosse un oggetto inanimato.
122
Le due teorie, quella della reminescenza e quella dell’immortalità dell’anima, si sovrappongono nel testo di
Arnobio, ma perché la derivazione della seconda dalla prima (in quanto questa ne costituirebbe una delle prove) è
affermata più volte dallo stesso Platone. A questo proposito si confrontino il Menone (85b-86d) e il Fedone (72e-
73a). La formulazione più chiara e sintetica di questa implicazione si trova nel secondo dei due dialoghi: “...anche
secondo quell’argomentazione che sei solito [Socrate] ripetere spesso, vale a dire che l’apprendere, per noi, non è
altro che una specie di ricordare, ebbene, anche secondo questa dottrina, sarebbe necessario che noi, in qualche modo,
avessimo appreso prima ciò che ora ricordiamo. Tuttavia, ciò sarebbe impossibile, se la nostra anima non esistesse
già in qualche luogo prima di nascere in questa forma umana. Di conseguenza, anche per questo motivo l’anima
sembra essere qualcosa di immortale.”, ΦΑΙΔΩΝ, 370-360 a.C., tr. it. di Andrea Tagliapietra, Fedone o Sull’Anima,
Milano, Feltrinelli, 1994, pp. 99-101, corsivo mio).
123
Arnobio, Adversus Nationes, op. cit., XIX, pp. 162-63.
124
Ivi, p. 163.
125
Ibidem.
126
Ibidem.

57
ciò di cui si sta parlando, e che cerca di prendere in considerazione tutti quei minimi
dettagli che bisognerebbe considerare se volessimo condurre realmente l’esperienza,
volendo pensarla “proprio come se avessimo realizzato ciò che si potrebbe realizzare se
vi ponessimo mano” 127 . Non c’è in Arnobio appunto alcuna volontà di allontanarsi dalla
concretezza, e proprio questa decisione di rimanere ancorato alle condizioni materiali
dell’esperienza, fa sì che egli riesca a considerarla in maniera molto più radicale di tutti
coloro che lo seguiranno; il suo soffermarsi a pensare con esattezza e minuzia tutto ciò
che potrebbe in qualche misura interferire con il totale isolamento del suo neonato, non
rimane in questo caso un mero artificio retorico, volto a rendere credibile la possibilità
di questa esperienza attraverso la sua raffigurazione sensibile verosimile, ma è invece
un momento di straordinaria rilevanza teorica. La sua acribia e il suo ancoraggio alla
pratica quotidiana fanno infatti sì che egli prenda coscienza di un certo numero di
problemi che altri dimenticheranno o trascureranno, ma che renderanno allo stesso
tempo le loro proposte ben più ingenue ai nostri occhi più avvertiti. L’attenzione
arnobiana si appunta invece sul dettaglio senza rendere perciò la descrizione
semplicemente più plausibile, ma scovando alcuni accorgimenti pratici che
inficerebbero la rilevanza dei risultati, rendendoli suscettibili di opportune e giustificate
critiche. Qui davvero ci troviamo di fronte a una “esperienza dell’uomo naturale”
proposta in tutta la sua radicalità e in cui la prassi non si allontana dal presupposto
teorico di uno studio dello sviluppo di ciò che l’uomo diviene se tenuto lontano da ogni
influenza umana. La discussione si apre così:

Supponiamo, dunque, in una cavità della terra, un luogo abitabile, a forma di


cuccia, chiuso da un tetto e da pareti, non gelido d’inverno, non troppo caldo
durante la canicola, ma così temperato e moderato che non vi si soffra né il
morso del freddo né il forte calore dell’estate. In esso non si senta assolutamente
nessun tipo di suono, né canto d’uccello, né urlo di animale, né rumore di
tempesta, né voce di uomo, né insomma alcun fragore di tuono paurosamente
echeggiante nel cielo. Cerchiamo poi di trovare il modo per illuminarlo: non
portandovi dentro il fuoco, né esponendolo alla vista del sole, ma si crei un
chiarore artificiale che, alternato alle tenebre, finga una parvenza di luce. Non ci

127
Ibidem.

58
sia neppure una porta, né un ingresso diretto: vi si acceda attraverso flessuosi
meandri, né mai si apra se non quando lo esiga un motivo di necessità128 .

Lo “sfondo necessario al nostro quadro” 129 è fin troppo restrittivo: non solo Arnobio
infatti si preoccupa di fare in modo che in nessuna maniera l’isolamento del suo
bambino, portato in questo rifugio “appena venuto alla luce” 130 , possa venire in meno,
specificando che deve essere in esso rinchiuso e che per nessuno debba essere concessa
la possibilità di fuggirne, ma considera anche l’ambiente ideale in cui egli debba vivere,
specificandone la temperatura, l’acustica e l’illuminazione. Questi particolari, come
detto, non sono del tutto ininfluenti: Arnobio tiene conto sia del fattore climatico 131 , sia
dell’isolamento acustico necessario perché l’ascolto passivo di voci umane o animali
non possa consentire lo sviluppo di una lingua attraverso un procedimento mimetico, sia
del fatto che la presenza di luce vada garantita senza la visione diretta del fuoco o del
sole 132 . Ultima indicazione sulle caratteristiche del rifugio è che (anche in questo caso
servirà affinché non possano svilupparsi idee delle cose e quindi per capire se egli le
possieda comunque perché innate) in esso “non ci sia assolutamente nulla e sia del tutto
privo e mancante di qualsiasi cosa” 133 . È ridotta dunque all’osso non solo l’influenza
‘morale’ del contatto con altri uomini, ma anche l’influenza ‘fisica’ dei semplici oggetti
inanimati che, con la loro presenza, possano permettere l’apprendimento di un certo
numero di idee e di relazioni di esse. Si comprende allora anche perché la nutrice non
debba solo attenersi alla ferrea regola del silenzio ed evitare ogni tipo di comunicazione
verbale, labiale o gestuale, ma anche perché le operazioni che essa compie di fronte ad

128
Ivi, pp. 163-64.
129
Ivi, p. 164.
130
Ibidem.
131
Si pensi al grande spazio dedicato alla possibile influenza del clima sulle costituzioni individuali e dei popoli nella
trattazione settecentesca; Landucci ne I Filosofi e i Selvaggi, op. cit., p. 446, nota 140, rimanda a un passo dei
Problemata (aristotelici o pseudoaristotelici) che testimonia l’esistenza di una riflessione similare anche nel pensiero
antico.
132
Anche queste cautele sono necessarie per poter verificare i risultati sperimentali: saprà il bimbo riconoscere forse,
in quanto idee innate, il sole, il fuoco e la loro natura? (Cfr. Arnobio, Adversus Nationes, op. cit.: “Potrà mostrare, se
glielo chiedi, che cos’è il sole, la terra, il mare, le stelle, le nuvole, la nebbia, le piogge, i tuoni, la neve, la grandine?”,
pp. 165-66; “Se accenderai un immenso fuoco, o gli porrai tutt’intorno bestie velenose, non andrà attraverso le
fiamme, le vipere, le tarantole, non sapendo che sono nocive, e ignorando addirittura che cosa sia la paura?”, p. 166).
133
Ivi, p. 164.

59
egli debbano essere minimizzate, perché essa debba mostrarglisi completamente nuda e
perché la sua alimentazione debba consistere solo di acqua e di un unico tipo di cibo 134 .
È così ininfluente il peso delle doti naturali rispetto al peso dell’educazione all’interno
della concezione di Arnobio, che è del tutto indifferente che il neonato in questione sia
“un discendente di Platone o di Pitagora o di uno di coloro che si dice siano stati di
intelletto divino o chiamati sapientissimi dai responsi degli dei” 135 o che lo si consideri
in istanti diversi del suo sviluppo fisico e intellettuale (“Cresca, dunque, nutrito per
quanti anni volete, in quella solitudine nascosta, volete per venti, volete per trenta, anzi
toccati i quaranta” 136 ). Il risultato sarà comunque uno solo:

...sia condotto in mezzo alle assemblee con gli altri uomini, e se davvero egli
è parte di una natura superiore e vive quaggiù dopo essere disceso dalle sorgenti
di un’esistenza già beata, prima che acquisti nozione di alcuna cosa, o apprenda
l’umano linguaggio, lo si interroghi e risponda chi lui sia, chi sia suo padre, in
quali regioni sia nato, in che modo o in che maniera nutrito, tra quali opere o
affari sia stato immerso e abbia trascorso il periodo degli anni antecedenti. Non
rimarrà egli più ottuso ed ebete di tutte le bestie, di un pezzo di legno, di un
sasso? Posto davanti a cose nuove e mai antecedentemente conosciute, non
ignorerà prima di tutto chi sia lui stesso? Potrà mostrare, se glielo chiedi, che
cos’è il sole, la terra, il mare, le stelle, le nuvole, la nebbia, le piogge, i tuoni, la
neve, la grandine? Potrà sapere che cosa siano gli alberi, le erbe o le piante, il
toro, il cavallo o l’ariete, il cammello, l’elefante o il nibbio? 137

Nelle pagine successive si moltiplicano, secondo un procedimento tipico di Arnobio


e della sua lingua letteraria, che utilizza enfasi e artifici ovunque al fine di rendere più
chiari e efficaci i concetti che vuole esprimere, attraverso la ripetitività di temi e
strutture sintattiche analoghe (in questo caso davvero ininfluenti ai fini di un progresso
teorico), domande retoriche simili a quelle appena viste, per giungere a dimostrare
l’assoluta infondatezza delle tesi di coloro che sostengono che le anime degli uomini
134
Ivi, pp. 164-65.
135
Ivi, p. 164.
136
Ivi, p. 165.
137
Ibidem.

60
“sono volate quaggiù immortali e dotate di scienza” 138 . Questo modo di disputare
costituisce una delle novità, rispetto agli apologeti che lo avevano preceduto, del
metodo arnobiano ed è coerente con la sua antropologia pessimista e scettica sulla
possibilità gnoseologiche dell’uomo: il continuo ricorso all’interrogazione mette in serio
imbarazzo l’avversario e ben sottolinea la drammaticità e lo stato di penosa incertezza,
di dubbio e di generale miseria dell’uomo. Se, come sottolinea il curatore dell’edizione
italiana del testo nella sua Introduzione, “i molti riferimenti a Platone fanno supporre
che tutta la sua metodologia apologetica segue nelle linee generali la posizione di scepsi
del grande filosofo, che si poneva in ideale continuità con la maieutica socratica,
descritta, nel Menone, come momento della ricerca e via per attingere la verità” 139 ,
rimane vero che, pur imitandone il metodo, come dicevamo, il bersaglio polemico qui
espressamente citato 140 è proprio Platone 141 e la sua teoria della conoscenza come
anamnesi espressa in forma dialettica, e non solo mitica, nello stesso Menone 142 .
L’incongruenza si risolve considerando la totale indipendenza dalle fonti e dalla cultura
del suo tempo di Arnobio, più preoccupato di confutare e ribattere tutte quelle tesi
pagane che non concordavano con il credo cristiano che non di rispettare l’autorità di
coloro che l’avevano preceduto 143 . Da buon retore e apologeta, utilizza alcuni di questi
materiali quando possono aiutarlo a sostenere il credo cristiano e ne rifiuta altri quando
lo contraddicono, e da buono scettico riporta tutte le opinioni tradizionali al solo scopo
di rivelarne la falsità contrapponendole e di mostrare l’infinita diversità delle tesi
sostenute su uno stesso argomento, per concludere che nessuna di esse è quella vera 144 .

138
Ivi, p. 167.
139
Cfr. Platone, Menone, 79ss.
140
Cfr. Arnobio, Adversus Nationes, op. cit., p. 167: “Come mai, o Platone, nel Menone, cerchi di sapere da un
fanciullino cose che hanno a che fare con il procedimento aritmetico, e dalle sue risposte tenti di dimostrare che non
apprendiamo quello che sappiamo, ma torniamo a ricordare quello che in tempi lontani avevamo imparato?”; si noti
che l’apostrofe continua anche nelle righe successive, in cui Arnobio continua ad argomentare utilizzando la seconda
persona singolare.
141
Cfr. ivi, p. 29.
142
Cfr. Platone, Menone, 80 e sgg.
143
Ivi, pp. 46-47.
144
È uno dei “modi” argomentativi, elaborati dalla tradizione scettica antica e codificati da Enesidemo attorno alla
metà del I sec. a.C. nel suo Schizzo Introduttivo alla Filosofia di Pirrone, come testimonia Diogene Laerzio. (Cfr.
Diogene Laerzio, ВІΩΝ ΚΑΙ ΓΝΩΜΩΝ ΤΩΝ ΕΝ ΦΙΛΟΣΟΦΙΑΙ ΕΥΔΟΚΙΜΗΣΑΝΤΩΝ, (tr. it. di Giovanni Reale, Vite
e Dottrine dei più Celebri Filosofi, Milano, Bompiani, 2005, pp. 1121-31). Enesidemo aveva elaborato una tavola dei

61
Se accetta dunque alcune tesi e miti platonici, rifiuta decisamente la tesi della
reminescenza in quanto incompatibile con il suo pensiero sulla natura dell’anima. Infatti
lui stesso collega le due tesi esplicitando il significato che vuole dare all’intera
esperienza che ha descritto:

Dove vuole mirare dunque tutto ciò? Ecco: dato che si è creduto che le anime
sono divine e create immortali da Dio, e che quindi vengono nel corpo
dell’uomo fornite di ogni sapere, potremmo sperimentare su questo fanciullo,
che abbiamo voluto fosse allevato nella maniera descritta, se quella credenza
meriti fede oppure sia stata accettata con leggerezza e presunta vera in
conseguenza di vane aspettative 145 .

E ancora più sotto affianca la presenza delle idee innate all’immortalità (“l’anima
dotta di cui parlate, immortale, perfetta, divina” 146 ), confermando la tesi per cui la
denuncia della hybris umana 147 e il rilievo dell’insufficienza umana siano il vero scopo
di Arnobio.
Il fanciullo platonico del Menone è messo a confronto con quello rimasto chiuso per
quarant’anni nel rifugio, per mostrare come le conoscenze del primo, che mancano al
secondo, siano dovute al fatto di “essere stato posto nel consorzio civile” 148 : egli era
stato capace di risolvere il problema geometrico sottopostogli da Platone grazie a una
conoscenza per la “pratica quotidiana” 149 del valore di alcuni numeri e grazie alla sua
intelligenza, facoltà che gli permetteva non già di scoprire qualcosa di conosciuto in
precedenza, ma di combinare le idee che già possedeva al fine di estendere le sue
conoscenze. L’uomo arnobiano dell’Adversus Nationes invece, cresciuto senza

“tropi”, ossia delle ragioni strutturali per cui si deve giungere alla scepsi su una determinata questione. Il quinto tropo
è quello attraverso il quale, dopo aver rilevato la differenza e la contraddittorietà delle opinioni degli uomini a
seconda della loro educazione, delle loro leggi, dei loro costumi e della loro appartenenza a sette filosofiche
differenti, si conclude sospendendo il giudizio riguardo al vero.
145
Arnobio, Adversus Nationes, op. cit., p. 165, corsivo mio.
146
Ivi, p,. 168.
147
“Volete, o uomini, deporre l’innata vostra superbia e arroganza, voi che chiamate Dio padre e pretendete di avere
la sua immortalità?” (ivi, p. 159)
148
Ivi, p. 167.
149
Ivi, p. 168.

62
apprendere previamente alcunché da altri uomini e limitato anche nella possibilità di
conoscere un ambiente composito, non sarà in grado di comprendere non solo un
quesito geometrico “astruso” e “involuto”, ma nemmeno “una cosa più a portata di
mano, qual è il risultato di un’operazione come due per due o due per tre” 150 . Rimarrà
invece muto, dice Arnobio, non sapendo né dare risposta, né capire la domanda, né
tanto meno capire che si stia parlando con egli e gli si stia rivolgendo una domanda.
Egli sarà la prova provata che l’uomo lasciato a se stesso non è migliore di alcun
animale, anzi questa condizione lo istupidisce a tal punto da renderlo simile a un legno e
a un sasso, inadeguato a fare qualsiasi cosa e senza scopi, seppure egli possa
sopravvivere in questo stato bestiale per molti anni e in salute. L’educazione è l’unico
strumento attraverso cui il singolo possa emanciparsi dalla completa stupidità:
“Frequentate poi le scuole e istruito dalle lezioni dei maestri, diventa saggio, dotto, e
depone l’ignoranza che fin allora l’accompagnava” 151 . Ma è un sapere questo ancora
tutto intramondano, che può certo servire all’uomo a migliorare le sue condizioni
materiali di esistenza, ma che lo mantiene dalla parte del mondo fisico e animale. Egli
apprende in maniera molto simile agli animali 152 , e ciò che apprende non è poi così
diverso da ciò che apprendono le altre creature 153 . In tutto o quasi simile ad esse,
entrambi sono animati e dotati di movimento vitale154 , e le anime di entrambi non sono
però né divine né immortali.

150
Ibidem.
151
Ivi, p. 169.
152
“Ma anche l’asinello e il bue allo stesso modo con la pratica e l’abitudine della costrizione imparano ad arare e a
girare la mola, il cavallo a sopportare il giogo e ad avvertire i cambi di direzione quando è legato al carro, il
cammello ad abbassarsi sia quando prende sia quando depone il carico, la colomba, lasciata libera, a volare indietro
verso il tetto del padrone, il cane a contenere e a reprimere il latrato, quando ha scovato la preda, il pappagallo a
ripetere le parole e il corvo a pronunziare nomi.”, ibidem.
153
“Vorrei però sapere qual è questa ragione per cui noi valiamo di più di tutte le categorie di animali. Perché ci
siamo fatti domicili per poter sfuggire ai freddi dell’inverno e ai calori dell’estate? E che? Gli altri animali non
provvedono a ciò? Non vediamo che alcuni si costruiscono dimore di piccoli nidi nei posti più adatti, altri si
difendono e si fortificano su scogli e rupi scoscese, altri scavano il suolo della terra e si preparano ripari e tane sicure
nei cunicoli infossati? E se madre natura li avesse voluti dotare anche di mani capaci di assecondarli, non ci sarebbe
da dubitare che essi pure costruirebbero alti fastigi di mura e modellerebbero artistiche e originali creazioni”, ivi, p.
161.
154
Ivi, p. 160.

63
Eppure, e su questa aporia irrisolta chiuderemo la nostra trattazione, quest’uomo
così simile all’animale, così incapace, nonostante l’educazione, di giungere alla
conoscenza di una verità stabile e non solo verosimile, e la cui anima non è affatto
immortale in se stessa, è quello stesso uomo che è al centro del progetto di salvezza:
salvato dalla misericordia di Dio, egli può conquistare la vera scienza e giungere alla
verità. L’uomo è partecipe dell’infima qualitas delle altre creature, eppure è un essere di
media qualitas, perché attraverso la fede e la grazia può accedere all’eternità e farsi
simile alla summa qualitas divina.

II.III.Calderón: la disconoscenza di Sigismondo

L’opera che si suole considerare più rappresentativa di tutta la produzione di


Calderón de la Barca (1600-1681), poeta e drammaturgo spagnolo del secolo XVII, sia
per le vicende della sua ricezione, sia per la sua collocazione nella tradizione letteraria
del motivo della vita come sogno, sia per i suoi pregi intrinseci, è La Vida es Sueño 155 ,
del 1635. Opera che, per eccellenza, può dirsi emblematica e polisemica di per se stessa,
è stata oggetto nel corso dei secoli delle più varie interpretazioni, in particolare in età
romantica, che ne hanno fatto esplodere tutte le potenzialità contenutistiche. La storia è
ben nota, ma vale la pena riassumerla in poche righe prima di procedere oltre.
Sigismondo, erede al trono di Polonia, fin dalla nascita viene allontanato dalla reggia e
rinchiuso in una torre isolata fra le montagne a causa di una profezia nefasta segnata sul
suo capo e letta nel firmamento dal padre, il re Basilio, alla vigilia della sua nascita. La
profezia aveva rivelato che il figlio gli si sarebbe ribellato, che ne avrebbe usurpato il
regno e che si sarebbe trasformato nel più crudele e perverso dei tiranni. Per tentare di
arginare il destino, Basilio aveva finto la morte del figlio, e lo aveva imprigionato
affidandolo alle cure del ministro Clotaldo. Basilio, ormai vecchio, volendo tentare di
capire se il figlio fosse davvero così malvagio, come era stato predetto dagli astri e dai
presagi, escogita uno stratagemma per metterlo alla prova: lo stordirà con un narcotico,
e, trasportatolo a corte dal carcere dove fin allora è vissuto, lo trasformerà in re. Se
l’esperimento fallirà, e Sigismondo si comporterà da despota, verrà riportato alla sua

155
Pedro Caldéron de la Barca, La Vida es Sueño, 1635 (tr. it. Dario Puccini, La Vita è Sogno, Milano, Garzanti,
2003).

64
torre, e penserà di aver soltanto sognato; se l’esperimento riuscirà a lui sarà invece
affidato il regno di Polonia. Sigismondo si abbandona a violente intemperanze, ed è
subito ricondotto alla torre, ma una rivolta popolare, che chiede che il regno non finisca
nelle mani di un sovrano di origini straniere (Astolfo), fa sì che egli sia subito liberato e
che, alla testa dei ribelli, vinca coloro che erano rimasti fedeli al sovrano. Sigismondo
però, maturato dall’esperienza di breve maestà precedente, non si vendica degli
sconfitti: divenuto pensoso e saggio, perdona il padre, che prima voleva umiliare, e, con
il potere riacquistato, restaura pace e giustizia nel regno. A questo filo narrativo, che è
quello principale e quello che ci serve per capire quanto si dirà sotto, si affiancano le
vicende, incentrate sul tema dell’amore e dell’onore, di Rosaura, Astolfo e Stella,
fondamentali per una corretta comprensione dei significati plurimi del testo, ma che qui
verranno toccate solo di sfuggita.
Tra i tanti problemi teorici che il teatro calderoniano in generale e quest’opera in
particolare sollevano, due sono quelli su cui qui ci si soffermerà: uno è quello del grado
di libertà e di condizionatezza dell’agire umano 156 , e l’altro, in strettissima relazione
con questo, è il tema della natura e della educazione come fattori determinanti
l’individuo, e dunque il suo agire157 . Perchè il protagonista Sigismondo è fino all’ultimo
atto un individuo feroce e sanguinario? Questa ferinità è il prodotto delle condizioni in
cui è stato costretto o è frutto di un destino che le precede? Perché infine egli riesce a
mutare l’indole che fino ad allora l’aveva caratterizzato? Lo sviluppo teorico di questi
temi, la protratta condizione di solitudine cui Sigismondo è sottoposto nella sua torre, e
anche alcune straordinarie coincidenze tra la vicenda qui raccontata e quella realmente

156
Connesso in alcune sue opere anche con la problematica teologica del libero arbitrio e della grazia divina.
157
“... [La Vita è Sogno] è per eccellenza il dramma che dimostra come Calderón sia il poeta della libertà umana. Le
circostanze (nel caso specifico l’oroscopo e chi l’interpreta in un determinato modo; ma all’oroscopo possiamo,
modernamente, sostituire l’eredità biologica e psicologica, o i condizionamenti sociali, o qualsiasi altra forza
condizionante: il problema riguarda il rapporto tra l’uomo e ciò che è intorno all’uomo, in generale) possono
inclinare; ma l’uomo resta libero. La libertà è il suo diritto; dalla libertà deriva la sua responsabilità”, Franco
Meregalli, Calderón (in Storia della Civiltà Letteraria Spagnola, Torino, Utet, 1990, volume I, pp. 561-76), p. 567;
anche Angelo Monteverdi considera il protagonista Sigismondo “...l’uomo dello stato naturale scatenato d’un tratto
sulla società costituita” e affermando che “l’uomo della natura non era certo sconosciuto alla poesia drammatica
spagnola”, rimanda a due opere di Lope de Vega: Urson y Valentin (1605) e El Hijo de Reduán (anteriore al 1604)
(cfr. Le Fonti di “La Vida es Sueño”, in Studi di Filologia Moderna, Catania, 1913, pp. 177-210).

65
vissuta da Kaspar Hauser di Norimberga 158 (insieme a Victor il più famoso tra quegli
enfants sauvages che abbiamo detto poter essere considerati la casuale realizzazione
delle condizioni di osservazione dell’uomo naturale), mi sembrano poter giustificare
l’inserzione di questo testo all’interno delle “esperienze dell’uomo di natura” di cui si è
finora parlato.
Mi pare opportuno cominciare l’analisi del dramma attraverso una esposizione delle
condizioni in cui Sigismondo vive per tutti i primi anni della sua esistenza: la prigione
dove il principe appena nato è stato segregato e nascosto si trova presso alte montagne

158
Kaspar Hauser fu ritrovato il 26 maggio del 1628 in una piazza di Norimberga. All’epoca doveva avere circa 17-
18 anni, secondo le perizie mediche che in seguito furono eseguite, ed aveva trascorso tutta l’infanzia e l’adolescenza
in condizioni di segregazione. La sua storia, che ebbe una vastissima risonanza negli anni successivi per tutta
l’Europa (egli fu addirittura soprannominato con affetto das Kind von Europa), sia nel mondo intellettuale che nella
sensibilità popolare, è raccontata con precisione da uno degli uomini che per primi, dimostrando grande filantropia,
compassione e scrupolo per la verità, si occuparono di lui: si tratta del giurista tedesco Anselm von Feuerbach, padre
del ben più noto filosofo Ludwig. Questi ha lasciato un prezioso e affascinante resoconto sulla vicenda di Kaspar,
intitolato Un Delitto Esemplare contro l’Anima. (Paul Johann Anselm von Feuerbach, Kaspar Hauser: Beispiel eines
Verbrechens am Seelenleben des Menschen, Ansbach, J. M. Dollfuss, 1832, tr. it. di Rossana Sarchielli e Rosella
Carpinella Guarneri, Kaspar Hauser: un Delitto Esemplare contro l’Anima, Milano, Adelphi, 1996), in cui egli stesso
suggerisce un confronto tra la figura storica di Kaspar e quella letteraria di Sigismondo (cfr., ivi, p. 48). Le due storie
presentano in effetti alcune affinità sorprendenti, sia per quanto riguarda la vicenda nel suo insieme, sia per quanto
riguarda alcuni dettagli minori. In primis coincidono le ragioni dell’imprigionamento, perché in entrambi i casi si
tratta di neonati occultati per ragioni dinastiche, di principi ereditari che vengono tolti di mezzo facendoli scomparire
(Kaspar era probabilmente il principe ereditario del Baden). In entrambi i casi essi non vengono uccisi, ma vengono
segregati in un luogo piccolo e buio dove sono impossibilitati a muoversi e dove trascorrono tutta la loro gioventù
(per Kaspar si tratta di un locale piccolo e basso, un buco, dove era costretto a rimanere sempre in posizione seduta).
Tutti e due sono affidati alle cure di un unico uomo, che si preoccupa di fornire loro una qualche educazione (anche
se per Kaspar si limita all’apprendimento di poche parole e del suo nome, che sa pronunciare e scrivere
meccanicamente, ma senza capirne il senso). Infine, tra i particolari minori, vi sono l’utilizzo di un narcotico al
momento della liberazione, e l’identica consapevolezza del torto, del delitto, che nei loro confronti è stato compiuto
(cfr. infra il monologo di Sigismondo con questo commovente episodio raccontatoci da Feuerbach: “Era una limpida
sera d’agosto (1829), quando il suo insegnante gli mostrò per la prima volta il cielo stellato. Impossibile esprimere a
parole il rapimento che Kaspar ne provò. Non si stancava di guardarlo, individuando le varie costellazioni e notando
le stelle più lucenti con i loro diversi colori. «Questo,» esclamò, «è quanto di più bello abbia visto al mondo» [...]
Quando tornò in sé il rapimento aveva ceduto alla malinconia. Si accasciò tremante su una sedia e chiese perché mai
quell’uomo cattivo lo avesse tenuto rinchiuso senza fargli vedere tutte quelle belle cose; lui (Kaspar) non aveva fatto
niente di male. Poi scoppiò in un pianto inconsolabile e disse che l’uomo dal quale era sempre stato andava rinchiuso
anche lui per un paio di giorni, così avrebbe capito quant’era duro. Prima del grande spettacolo del cielo stellato,
Kaspar non aveva mai espresso del risentimento verso quell’uomo, e tantomeno ne aveva desiderato la punizione”,
ivi, pp. 82-83.

66
dirupate e difficilmente accessibili; in un deserto fatto di “nude rocce” da cui è difficile
distinguerla, in quanto la “tozza” e “rustica” dimora è di “così rozza fattura” che la si
può scambiare per un “masso rotolato dalla cima” 159 . Calderón dalla prima scena
dell’opera, anche attraverso questa descrizione ambientale, esprime al contempo le due
idee della solitudine della vita di Sigismondo, e della sua selvatichezza: il paesaggio, e
la torre stessa, pur certo costruita da uomini, non recano che una minima traccia
dell’intervento umano. L’interno invece della torre non è descritto precisamente dal
drammaturgo: buia “prigione oscura” e come “tenebroso anfratto” 160 , simile ad un
sepolcro 161 e più adatta ad un morto che a un vivo, tutto ciò che in essa si può scorgere
lo è attraverso la debole lanterna che il principe tiene nelle sue mani: veniamo così a
sapere che egli è “carico di catene” e “in abiti di belva”162 . Sappiamo che l’unico uomo
che ha conosciuto è il ministro Clotaldo 163 , e che questi si è preoccupato, pur in queste
condizioni così impervie, di educarlo alle cose del mondo, alla morale, alla virtù e alle
scienze 164 . È così che si è potuto produrre un individuo anceps, sempre in bilico tra la
natura animale e le conoscenze umane che egli ha appreso, da sempre in catene, ma che
conosce il valore della libertà, consapevole di cosa un uomo possa divenire e dunque
disperato per la sua condizione, che lui stesso sa riconoscere bestiale. La tragedia di
Sigismondo nasce sì dalle condizioni materiali della sua esistenza, ma si acuisce e
diventa rabbia e rancore per la consapevolezza della possibilità di una libertà che gli
spetterebbe in quanto assegnata a tutti gli enti, ma che ancor più gli spetta in quanto
uomo. La percezione della sua dignità è splendidamente espressa da Sigismondo in un
soliloquio divenuto giustamente famoso:

Nasce l’uccello, coi doni


della suprema bellezza.

159
Calderón, La Vita è Sogno, op. cit., I.I, p. 9.
160
Ivi, I.II, p. 11.
161
“poiché culla e sepolcro | per me questa torre è stato”, ivi, I.II, p. 19
162
Ivi, I.II, pp. 11-13.
163
Cfr. “e anche se vedo e parlo | con un uomo solamente | che le mie sventure ascolta, | e le notizie mi reca | di cielo
e terra”, ivi, I.II, p. 19; “e là soltanto Clotaldo | può vederlo e frequentarlo”, ivi, I.VI, p. 53.
164
Cfr. “Lui gli ha insegnato le scienze; | lo ha educato nella fede | cattolica”, ivi, I.VI, p. 53; “Di nulla mi son
sorpreso | perché ogni fatto avevo già previsto [...] Lessi un giorno nei libri in mio possesso | che Dio impiegò la
massima saggezza | nel far dell’uomo un mondo in miniatura”, ivi, II.VII, p. 111.

67
appena è fiore di piume
o efflorescenza di ali,
già veloce esso fende
le distese dell’etere,
rifiutandosi al conforto
del nido rimasto vuoto;
ed io che ho più anima
perché ho minor libertà?
Nasce la bestia, e la pelle
ha con grazia maculata,
tanto che sembra degli astri
ben simulato disegno,
grazie al divino pennello,
e già i bisogni dell’uomo,
resi più audaci e crudeli,
la spingono alla ferocia, mostro nel suo labirinto:
ed io, con maggiore istinto
perché ho minor libertà?
Nasce il pesce, e non respira,
essere informe ed amorfo,
in alghe e fanghiglie avvolto,
e già vascello di squame,
sopra l’onda si rimira
mentre dovunque s’aggira,
percorrendo i grandi spazi
che nei punti più profondi
gli spalancano gli abissi;
ed io che ho maggior giudizio
perché ho minor libertà?
Nasce il ruscello, serpente
Che in mezzo ai fiori si snoda,
e appena, filo d’argento,

68
in mezzo ai fiori si fende,
già col suono innalza lodi
alla dolcezza dei fiori
che gli offrono lo sfarzo
della corsa in campo aperto;
ed io che ho ancora più vita
perché ho minor libertà? 165

Detta e riconosciuta a questo punto la centralità della libertà come tratto


dell’esistenza umana nel testo, si può comprendere, al livello della narrazione, il perché
dell’atteggiamento distruttivo, violento e bestiale di Sigismondo quando viene liberato e
viene inserito nella vita di corte. Appare semplicistica l’opinione di Cesare Acutis, che
scrive: “Di fronte all’umana natura la filosofia di Calderón non fu meno pessimista di
quanto lo sarebbe stata, a tre secoli di distanza [...] la riflessione psicoanalitica di Freud:
guidato dai suoi impulsi naturali, l’uomo si abbandona all’aggressività e alla sensualità
fino a rischiare di tutto distruggere e autodistruggersi. Argine al sempre incombente
pericolo è la cultura, che, difendendo l’umanità dalla natura, regola i rapporti degli
uomini tra di loro” 166 . Se è vero infatti che “il conflitto natura/cultura, che è alla base
del testo, si traduce topologicamente nell’opposizione della torre al palazzo” 167 ,
Calderón manifesta chiaramente la consapevolezza che le condizioni di Sigismondo non
165
Ivi, I.II, p. 13-15.La domanda di Sigismondo, che presuppone la libertà come carattere assegnato dalla natura a
tutti gli esseri e dunque anche all’uomo, porta a discutere un altro dei problemi di questi genere di esperimenti sulla
natura umana, ovverosia se siano esperienze di cattività e di segregazione quelle in cui, riprendendo la formulazione
di Rousseau, si possa davvero conoscere l’uomo naturale “au sein de la société”. L’homme naturel, per come l’aveva
appunto immaginato Rousseau, era una creatura libera e indipendente, non un individuo chiuso in una grotta, in una
stanza o in un ambiente comunque controllato. Al di là di possibili critiche dal punto di vista morale sulla liceità della
privazione della libertà ad un giovane, ci si può chiedere se abbia senso parlare di ‘naturalità’ per esperienze in cui
certo il contatto con altri uomini è minimo, ma in cui l’habitat che viene costruito si mostra sempre artificiale, se non
per altro, perché impedisce più o meno la libertà di movimento e dunque di azione del soggetto.
166
Cfr. il breve saggio sul testo calderoniano di Cesare Acutis, intitolato Un Eroe della Cultura, che fa da
introduzione all’edizione Einaudi de La Vita è Sogno (a cura di Cesare Acutis, La Vita è Sogno, Torino, Einaudi,
1980); si tenga presente che tutte le note precedenti e successive si riferiscono sempre invece alla già citata edizione
Garzanti.
167
Ibidem. Si vedano a questo proposito le parole di Astolfo nella Scena VI dell’Atto II, che paiono confermare in
pieno questa tesi: “Misurate con più calma | il vostro agire impetuoso; | lo scarto tra belva e uomo | è pari tra selva e
reggia.”, ivi, II.V, p. 103.

69
sono certo quelle che gli permetterebbero di sviluppare ciò che egli è di per se stesso,
ma sono invece costrittive e repressive, e sviluppano tratti che potrebbero non essergli
innati. Quando giunge a corte, viene considerato un ‘selvaggio’, ma Calderón sa bene
che non è solo tale, che qualcosa ha già influito su di lui. Egli è già stato inserito in un
contesto culturale-artificiale che lo ha preesistito e lo ha alterato. Ha già subito due
educazioni, che occorre distinguere: una educazione ‘morale’ condotta secondo la sua
dignità principesca, e una educazione ‘fisica’, condotta attraverso le circostanze in cui
egli si è trovato a vivere. Le due educazioni hanno interagito l’una con l’altra, la prima,
come abbiamo detto, facendogli percepire l’esistenza della seconda (la prigionia), e
delle alternative ad essa, e la seconda invece influenzando gli esiti della prima: le virtù e
i sentimenti umani di Sigismondo, che l’educazione di Clotaldo avrebbe dovuto
sviluppare, sono stati messi a dura prova dalla segregazione, e lo hanno trasformato in
una bestia. È la vita vissuta nelle condizioni solitarie e più che bestiali che abbiamo
descritto ad averlo fatto in una certa misura divenire quello che si rivela al momento
dell’iniziale incontro con la società degli uomini. “Dopo tanta vita grama, dopo un così
lungo contatto brutale con la natura arcigna, Sigismondo diventa selvatico” 168 , diventa
“un uomo | che d’umano ha solamente il nome: | temerario, arrogante, | aspro, superbo,
spietato e selvaggio, | spietato in mezzo alle belve” 169 . Nulla hanno potuto contro questa
deriva né gli inadeguati insegnamenti di un istitutore che non ha compreso la specificità
della condizione della persona che ha di fronte a sé, e nulla ha potuto la sua indole 170 .
Sigismondo lo fa presente con parole molto chiare:

Mio padre, ch’è qui presente,


per scansare i brutti guasti
del mio animo crudele,
fece di me una belva:
a tal punto che qualora,

168
Cfr. la Prefazione di Dario Puccini a La Vita è Sogno, op. cit., p. XXV.
169
Cfr. La Vita è Sogno, op. cit., II.VIII, p. 119.
170
Sebbene gli astri avessero predetto per Sigismondo un destino rovinoso di tiranno e di “arroganti furori” (ivi, I.IV,
p. 27), la risoluzione del dramma può essere interpretata a mio avviso sia come una vittoria della libertà umana su di
un fato avverso, che come una rivelazione della vera inclinazione naturale di Sigismondo, fraintesa dalle osservazioni
del cielo e dei presagi dalla falsa scienza del padre Basilio e corrotta dalla sua decisione di imprigionarlo.

70
per mia nobiltà ostinata,
per mio istinto generoso,
per mio spontaneo valore,
fossi nato mite e dolce,
sarebbe certo bastata
quel genere d’esistenza,
quella forma d’educarmi,
a darmi tempra spietata.
Che bel modo d’emendarmi! 171

Il sovrano, anch’egli “illuminato”, Basilio, ha sbagliato nella pièce tutti i suoi calcoli
ed è il vero sconfitto (seppur perdonato e salvato dalla morte) della vicenda.
Presentatoci come un “saggio Talete” e un “dotto Euclide” 172 , che nel mondo ha
meritato reputazione di dotto e che stima sopra tutto le scienze divinatorie e astrologiche
che coltiva, i tentativi che mette in essere si rivelano completamente fallimentari. Il
primo (l’imprigionamento del figlio) era stato fatto sulla presunzione di conoscere il
destino e di poterlo domare 173 , e viene smentito in entrambi gli scopi: non vince il
destino, che infatti fa sì che gli venga infine sconfitto, né lo conosce, e infatti il suo
regno sarà, come preannuncia l’ultima scena dell’opera, ben governato. Il secondo
tentativo, che già in parte ritratta la fiducia del sovrano nelle possibilità di lettura degli
astri, consiste nel mettere alla prova il carattere di Sigismondo, portandolo narcotizzato
alla sua reggia e rivelandogli le sue nobili origini: se sì mostrerà assennato, smentendo i
segni celesti, potrà divenire il nuovo re, altrimenti sarà ricondotto alla sua torre, e
penserà sempre che la sua avventura a corte sia stata solo frutto di un lungo e realistico
sogno. Anche quest’esperimento fallirà e anche in questo caso non a causa della natura
di Sigismondo, ma a causa di un esperimento mal pensato e di quell’educazione che gli

171
Ivi, III.XIV, p. 231.
172
Ivi, I.VI, p. 43.
173
Cfr. “Io, nel corso dei miei studi, | scopersi in essi e dovunque | che Sigismondo sarebbe | stato l’uomo più
arrogante, | il principe più crudele | e il monarca più perverso, | sì da ridurre il suo regno | in fazioni contrapposte, | in
scuola di tradimenti, | e in accademia di vizi; e che da lui, dall’ira mosso, | tra orrori e delitti, avrebbe | finito per
calpestarmi”; “Ora, dando io credito | ai presagi che, puntuali, | m’annunciavano sciagure | in vaticini fatali, | decisi di
rinchiudere | la fiera che mi era nata, | per vedere se un sapiente | riesce a domare gli astri”, ivi, I.VI, p. 51.

71
ha fatto comprendere la tremenda ingiustizia perpetratagli per tutto il resto della sua
vita, e di cui egli cerca una vendetta. Solo il tempo, nella convenzionalità drammatica
necessariamente ristretto, attraverso un processo di adattamento al nuovo ambiente
sociale e di rieducazione ai sentimenti umani che prima aveva potuto conoscere, ma mai
sperimentare in prima persona, nel suo totale isolamento, consente a Sigismondo di
prendere coscienza dei doveri della sua nuova condizione e attuarli. “Sigismondo opera
su di sé prima che sugli altri la trasformazione del suo ruolo nel mondo” 174 , una
trasformazione che richiede tempo e lo svolgersi di nuove esperienze per apprendere
davvero chi può e deve essere. Sigismondo infatti riconosce e assume su di sé
quell’umanità che aveva “previsto”, ma che gli era stata negata, solo quando essa
diviene un fatto che lo riguarda personalmente. Jankélévitch ne Il Non-so-che e il
Quasi-niente 175 ha ben individuato il salto di qualità tra i due generi di conoscenza di
cui si sta parlando: da un lato una falsa conoscenza, che in realtà è appunto
disconoscenza e misconoscimento della realtà delle cose, e dall’altro una conoscenza
“presa-sul-serio”. Discorrendo sul problema della morte così scrive ed esemplifica:

Ogni tipo di mito protettore, di eufemismo e di pietoso malinteso alimenta


attorno alla morte un’ambiguità eminentemente favorevole alla disconoscenza.
Si sa senza sapere! Sapere in generale che tutti gli uomini sono mortali,
semplicemente perché lo si è letto nel De viris: questa è una scienza astratta,
concettuale ed indeterminata, una scienza banalizzante nel suo rassicurarci; certo
gli uomini vorrebbero che la morte fosse un argomento da versione latina, e non
chiedono che di credervi, e fanno come se. La morte è il «segreto» universale, il
mistero di Pulcinella e la grande verità arci-nota: da che mondo e mondo, non
c’è niente da sapere sulla morte, tutto quello che c’è da sapere su di essa, lo si
sapeva già! lo si sapeva da sempre... E tuttavia lo si può imparare
inesauribilmente, benché già lo si sappia! Come può l’uomo apprendere ciò che
sa già? Ma lo si può! 176

174
Cfr. La Vita è Sogno, op. cit., Prefazione, p. XXV.
175
Vladimir, Jankélévitch, Le Je-ne-sais-quoi et le Presque-rien, Presses Universitaires de France, Paris, 1957 (tr. it.
di Carlo Alberto Bonadies, Il Non-so-che e il Quasi-niente, Genova, Marietti, 1987).
176
Ivi, pp. 110-15.

72
La chiarezza di questo brano e l’evidenza straordinaria del paradosso che esso mette
in luce permettono di ben capire ciò che Sigismondo non poteva ‘prevedere’ e ciò a cui
non poteva essere, nel primo momento del contatto con gli uomini, adeguato. Poteva
ben conoscere la virtù, potevano ben essergli state insegnate le parole e i sentimenti
umani, gliene mancava la pratica. Come quegli atei di cui parla Montaigne, che per
spirito di distinzione si davano tono chiamando la fede superstizione, ma che “non
mancheranno di giungere le mani verso il cielo, se piantate loro un bel colpo di spada
nel petto” 177 , anche Sigismondo diviene coscienzioso 178 e giunge a conoscere sul serio,
e quindi a rispettare, le leggi umane, solo quando divengono per lui un problema. La
vera conoscenza che non “scivola su di noi senza scuotere la sinecura” 179 ha questi tre
caratteri, secondo Jankélévitch. Innanzitutto il “fatto-che-ci-riguarda-personalmente”:
si tratta di applicare a se stessi una verità generale, che finché rimane impersonale è del
tutto rassicurante, ma che solo quando è percepita su di sé si rivela nella sua importanza
per il soggetto. In secondo luogo l’“effettività”: la verità viene scoperta nei suoi
contrassegni sensibili, nei suoi risvolti per l’agire e il soffrire umano. In terzo luogo la
“prossimità”, che è la forma temporale dell’effettività: questa verità non più
anestetizzata e riguardante altri, ma che conta e conta proprio per sé, è una verità che ci
coinvolge proprio ora, di cui facciamo esperienza proprio (e solo) nel momento in cui
non si può più far finta che non ci riguardi. La verità che scopre Sigismondo, ma solo
quando è ricondotto al termine dell’esperimento del padre nella torre, e proprio nella
torre, è quella della transitorietà delle sorti umane e dell’importanza di agire con
giustizia e ragionevolezza nei confronti degli altri uomini per essere felici 180 . Ma la può
scoprire solo dopo averla esperita nella tragedia e nel dolore, dopo essere stato principe,
di rivedersi costretto in catene. Questo Basilio non aveva capito, e per questo aveva
sottoposto il figlio a una prova che non era in grado di superare. Solo in questo senso
può, a mio avviso, essere recuperata la ‘naturalità’ del Sigismondo che precede la
177
Cfr. Montaigne, Michel Eyquem de, Les Essais, Paris, Abel l’Angelier, 1595 (tr. it. di Fausta Garavini, Saggi,
Milano, Adelphi, 1992), Apologia di Raymond Sebond, pp. 574-75.
178
Cfr. La Vita è Sogno, op. cit., III.XIV, p. 239. “La tua saggezza sorprende”, “Com’è cambiato il suo cuore!”,
“Com’è accorto ed assennato!”, ci viene detto di lui nelle ultime battute dell’opera dagli altri personaggi.
179
Jankélevitch, Il Non-so-che, op. cit. p. 113.
180
“È vero. Occorre domare | questa natura ribelle, | questa furia, quest’assillo, | se al sogno in caso torniamo. | E lo
faremo, avvertiti | da un mondo così bizzarro, dove vivere è sognare; | e l’esperienza mi insegna | che l’uomo che vive
sogna | quel che è, fino al risveglio”, La vita è Sogno, op. cit., II.XIX, p. 159.

73
liberazione: non nel senso di una vera assenza di educazione, ma nel senso di quella
verginità che conosce sì astrattamente le cose del mondo, ma non le ha mai
sperimentate. Nel senso pieno di un riconoscimento di cose che sapeva già, ma che non
sapeva-sul-serio, attraverso un apprendistato esistenziale.

II.IV. Marivaux: la genesi dell’infedeltà in amore

La Dispute 181 di Marivaux (1688-1763) fu sonoramente fischiata dal pubblico


parigino al suo debutto, il 19 ottobre 1744, quando i Comédiens Français decisero di
metterla in scena al calar del sipario sulla tragedia Manlius. Nonostante essa fosse stata
letta con grande entusiasmo dagli attori che avrebbero dovuto rappresentarla, ed essi
avessero deciso, all’unanimità, di inserirla nel loro cartellone, Marivaux stesso decise di
non proporne ulteriori repliche: a spingerlo a ciò dovettero essere il giudizio negativo
del pubblico e i costi non indifferenti per l’allestimento delle scene. Essa non fu
riproposta che agli inizi del XX secolo, nel 1938, dagli stessi Comédiens Français, e
ancora oggi si hanno poche speranze di poterla veder rappresentata. La sua scarsa
fortuna non pregiudica però l’interesse e la profondità teorica e filosofica di questa
piccola commedia composta di un unico atto e di venti scene. Se Marivaux è molto
spesso stato considerato dalla critica, sin dal XVIII secolo, come un autore piacevole e
divertente, ma superficiale, è in commedie minori come questa che possiamo riscoprire,
pur permanendo all’interno di quel tema dell’“éternelle surprise de l’amour”, che già
d’Alembert individuava come tratto caratterizzante l’intera sua opera, il valore e la
pregnanza del suo pensiero. Marivaux non è affatto estraneo al pensiero filosofico e ai
fermenti intellettuali della sua epoca, cui anzi partecipa attivamente182 , e non solo fa
proprie queste idee e questi problemi, ma si può dire che egli abbia contribuito
fortemente a renderli popolari e accessibili ad un pubblico molto più vasto di quello dei
philosophes e dei savants, mettendo in scena idee che nessun drammaturgo prima di lui

181
Pierre Chamberlain de Marivaux, La Dispute, 1744, in Théâtre Complet: Edition Etablie par Henri Coulet et
Michel Gilot, Paris, Gallimard, 1994, pp. 543-570.
182
Egli creò addirittura due riviste per poter esprimere il suo pensiero filosofico e morale, L’Indigent Philosophe e Le
Cabinet du Philosophe; in più, a mo’ di ulteriore esemplificazione, si consideri lo stretto rapporto che ebbe per molti
anni con Rousseau, tanto che Marivaux lo aiutò a ritoccare il testo di una sua commedia, il Narcisse, come racconta
questi nel secondo libro delle Confessions.

74
aveva presentato. Come ha scritto in un saggio che vuole rivelare la profondità
filosofica del breve testo marivaudiano William Trapnell, “One must look to scientific
literature to find greater similarity to Marivaux’s thought in the Dispute […] In fact,
critics tend to stress art at the expense of thought, which in the Dispute is certainly the
more original of the two” 183 , mentre “this obscure work illustrates two preoccupations
of 18th century France […] the desire to found scientific inquiry on experimental proof
and the search for ‘natural’ man or extra-social man” 184 . Se dal punto di vista stilistico
questa commedia infatti non è altro che un ennesimo esempio di quella sottile
schermaglia sentimentale, di quel gioco amoroso leggero e delicato che riesce, in
dialoghi serrati e in poche risposte incisive, a mostrare una psicologia del sentimento, di
quella préciosité e di quella galanteria che riproducono l’andamento della
conversazione mondana della sua epoca, e che proprio da lui ha preso il nome di
marivaudage, dal punto di vista contenutistico ci troviamo di fronte a un’opera che
sviluppa, come vedremo in maniera critica, alcune questioni ampiamente discusse nella
sua epoca 185 . Se ancora ci troviamo di fronte all’ennesima variazione sul tema della
genesi del sentimento amoroso e delle prove che i suoi personaggi devono sempre
sopportare per giungere, al di là delle apparenze, degli inganni, dei travestimenti e degli
stratagemmi, a verificare la sincerità dei loro amori, è vero che in questo caso si tratta di
una épreuve completamente sui generis, che non ha precedenti né nel suo teatro né nelle
trame tradizionali.
La disputa che spiega il significato del titolo dell’opera ha origine da un tema
dibattuto in una conversazione di società 186 : chi si sia macchiato della prima infedeltà

183
William H. Trapnell, The ‘Philosophical’ Implications of Marivaux’s Dispute, in Studies on Voltaire and the
Eighteenth Century, vol. LXIII, 1970, pp. 193-219, qui p. 196.
184
Ivi, p. 194.
185
Bisogna per correttezza accennare che anche da una prospettiva meramente formale quest’atto unico, insieme
all’altra commedia Les Acteurs de Bonne Foi (1747), sono importanti in quanto esempi di anticipazione di quella
problematica del teatro nel teatro cara a Pirandello.
186
Trapnell sottolinea che il tema della prima incostanza e infedeltà in amore, come vedremo subito oggetto della
contesa, era uno di quelli spesso dibattuti nei salotti secenteschi, e ipotizza che il dispendioso espediente messo in
atto per un oggetto così frivolo e il fallimento dell’esperimento possano considerarsi spie di un’ironia di Marivaux su
questo genere di questioni (Trapnell, The ‘Philosophical’ Implications, op. cit., p. 197-98). La domanda sulla prima
incostanza sembra inserirsi in quel filone, a metà tra il gioco di società e la letteratura, con cui ci si divertiva e si
faceva sfoggio di ésprit e di virtù mondane, di riflessioni sull’amore nel Seicento francese, per esempio attraverso le
cosiddettte questions e maximes d’amour.

75
tra l’uomo e la donna. La questione, sollevata alla corte di un principe di un reame
indefinito, aveva visto contrapporsi il principe stesso e la sua amante Hermianne, che
sostenevano rispettivamente il proprio partito, l’uno pronunciandosi per la donna, l’altra
per l’uomo. Per trovare una risposta a questa domanda il Principe invita Hermianne ad
assistere a “un spectacle très curieux” 187 , che consisterà nel mostrarle il singolare
evento della nascita dei “premières amours”. Il padre del Principe aveva infatti fatto
crescere, in completo isolamento dal mondo, due ragazzi e due ragazze della medesima
età 188 ; al raggiungimento dei diciott’anni di età, i quattro verranno messi per la prima
volta a contatto l’uno con l’altro, e il Principe ed Hermianne potranno finalmente,
spiando e ascoltando da una galleria che circonda l’edificio in cui vivono, verificare chi
abbia commesso la prima infedeltà. L’osservazione ‘sperimentale’ dei primi sentimenti
di questi giovani si rivelerà un completo insuccesso e non darà alcuna risposta
definitiva: da un lato entrambi i sessi appariranno inclini all’infedeltà, seppure per
moventi psicologici molto differenti, dall’altro interverrà nell’ultima scena una terza
coppia, fino ad allora tenuta nascosta ma allevata in identico modo, che, con il suo
rifiuto di sciogliersi, non permetterà di decidere nemmeno della naturale tendenza o
meno degli esseri umani, sia uomini che donne, al tradimento.
Passando ad un’analisi più minuziosa dell’opera, bisogna subito mettere in evidenza
che le prime scene presentano una descrizione dell’esperienza che non è dettagliata, sia
per suggerire l’elemento fantastico, sia perchè secondo la consuetudine di molti autori
drammatici della prima metà del XVIII secolo, Marivaux si limita a dare poche
indicazioni di scena, e nemmeno possediamo informazioni su come debba essere stato
l’allestimento dell’unica rappresentazione del 1744: nonostante la povertà delle
informazioni però, tutti i caratteri essenziali alla comprensione delle condizioni
dell’esperienza sono presenti nel testo.
È opportuno proporre per esteso il modo in cui l’esperimento in questione ci viene
presentato, e che in poche righe condensa molti elementi degni di essere analizzati:

187
Marivaux, La Dispute, op. cit., I, p. 545.
188
In realtà al termine della commedia si svelerà l’esistenza di una terza coppia, la cui comparsa in scena scioglierà il
dramma e concluderà l’esperimento.

76
Voici le fait, il y a dix-huit ou dix-neuf ans que la dispute d’aujourd’hui
s’éléva à la cour de mon père, s’échauffa beaucoup et dura très longtemps. Mon
père naturellement assez philosophe, et qui n’était pas de votre sentiment [di
Hermianne], résolut de savoir à quoi s’en tenir, par une épreuve qui ne laissait
rien a désiderer. Quatre enfants au berceau, deux de votre sexe et deux du nôtre
furent portés, dans la fôret où il avait fait bâtir cette maison exprès pour eux, où
chacun d’eux fut logé à part, et où actuellement même il occupe un terrain dont
il n’est jamais sorti, de sorte qu’ils ne se sont jamais vus. Il ne connaissent
encore que Mesrou et sa soeur qui les ont éléves, qui ont toujours eu soin d’eux,
et qui furent choisis de la couleur dont ils sont, afin que leur élèves en fussent
plus étonnés quand ils verraient d’autres hommes, on va donc par la première
fois leur laisser la liberté de sortir de leur enceinte et de se connaitre; on leur a
appris la langue que nous parlons, on peut regarder le commerce qu’ils vont
avoir ensemble, comme le premier âge du monde; les premières amours vont
recommencer, nous verrons ce qui en arrivera 189 .

Questa si svolgerà in un luogo solitario e lontano da ogni possibilità di interferenza


umana esterna 190 , all’interno di un edificio che il re ha fatto appositamente costruire per
rinchiudere i fanciulli oggetto dell’esperimento, che è totalmente separato e
inaccessibile dal mondo esterno 191 , che è al suo interno suddiviso in uno spazio comune
e in spazi in cui sono stati, fino al momento dell’esperimento separatamente allevati i
quattro giovani, e dove, si dice poche righe più in là, è stata preparata una galleria dalla
quale è possibile osservare ogni punto dell’edificio 192 . Altri elementi che concorrono a
completare lo sfondo all’interno del quale la prova prende luogo sono la presenza di un
servo e di una serva nera (Mesrou e Carise), che hanno avuto il compito di prendersi
cura delle ‘cavie’ in tutti gli anni della loro segregazione, e il cui ruolo è piuttosto
controverso: se il compito dell’esperienza è, infatti, come abbiamo già cominciato a
dire, di cogliere la genesi del sentimento amoroso (e dell’immediata infedeltà che ne

189
Ivi, II, p. 547.
190
Cfr. anche: “...voici le lieu du monde le plus sauvage, et le plus solitaire”, Dispute, op. cit., I, p. 545.
191
Cfr. anche: “...qu’est-ce que c’est cette maison, où vous me fait entrer, et qui forme un édifice si singulier, que
signifie la hauteur prodigieuse des différents murs qui l’environnent: où me menez-vous?”, ibidem, corsivo mio.
192
“...voici une galerie qui règne tout le long de l’edifice”, ivi, II, p. 547.

77
deriva) in anime originarie, incorrotte dalla società, e che possano agire secondo il
proprio istinto, come se si fosse “au commencement du monde et de la société” 193 , la
loro presenza rischia di falsificare sensibilmente la prova. Questi infatti non si sono
limitati ad accudire i giovani nelle loro esigenze primarie, ma si sono preoccupati di
fornire loro una educazione, che ricorda in tutto e per tutto quella appresa dai
contemporanei di Marivaux per prepararli alla vita mondana 194 . In più, quando
finalmente i quattro giovani vengono liberati per la prima volta, il loro ruolo non appare
affatto neutrale: essi intervengono e li influenzano in più situazioni, sia dando loro
avvertimenti che si riveleranno inutili e cercando di metterli in guardia dal rischio
dell’infedeltà, sia, al contrario, provocando in più occasioni i ragazzi alla colpa 195 .
Mesrou e Carise, più che a semplici osservatori esterni alla vicenda come il principe e
Hermianne, assomigliano davvero a sperimentatori che interrogano, saggiano e mettono
alla prova la natura degli oggetti sperimentali (in questo caso i giovani) sotto esame. In
che modo è possibile recuperare la ‘naturalità’ di un’esperienza che sembra falsata sin
dall’inizio dalla presenza di queste due figure? Forse lo si può fare tenendo presente
l’ingenua sensibilità di un’epoca che porta a far sì che nessuno dei personaggi sulla
scena consideri i due servi, in quanto neri, interamente umani 196 , e comprendendo che,
essendo appunto la finalità dell’esperimento quella di mostrare i primi moti del cuore,
perché questi si potessero manifestare era necessario dotare i fanciulli di una capacità di
relazione, e dunque la finalità teorica ha imposta un’attenuazione del rigore
193
Ivi, p. 546.
194
“Les enfants de La Dispute ne sont pas des sauvages. Ils ont appris la musique, et par consequent aussi, il faut le
supposer, tout ce qui entrait dans l’éducation d’une jeune personne bien élevée au XVIII° siècle: la danse, les belles
manières et, pourquoi pas, les reverences [...] Il y a de la puérilité dans leur langage, quand ils parlent de choses dont
ils ignorent encore les noms ou de sentiments qu’ils n’avaient jamais éprouvés, mais quelle attention il portent à ces
sentiments mêmes, quelle délicate justesse ils mettent à les exprimer!”, ivi, Notice, p. 1068.
195
Su tutti gli interventi che si susseguono nel testo, il più evidente è quello dell’ultima scena, quando Carise,
rivolgendosi ai due nuovi sopravvenuti Meslis e Dina, li induce apertamente, ma senza ottenere successo, al
tradimento: dapprima rivolgendosi a Meslis (“...voyez, Meslis, si parmi les femmes vous n’en verriez pas quelqu’une
qui vous plairait encore plus que Dina, on vous la donnerait”) e poi a Dina (“Et vous, Dina, examinez”), ivi, XX, pp.
569-70.
196
Cfr. il passo appena citato su Carise e Mesrou: “...furent choisis de la couleur dont ils sont, afin que leur élèves en
fussent plus étonnés quand ils verraient d’autres hommes” e quest’affermazione di Églé che, alla vista di Azor, si
spaventa come se vedesse per la prima volta in vita sua un uomo: “...qu’est-ce que c’est cela, un persone comme
moi...” (ivi, IV, p. 549). I due schiavi sono dunque considerati nel testo alla stregua di ‘non persone’, e per questo si
può affidare loro la cura e l’apprendimento dei giovani senza invalidare la ‘naturalità’ della situazione.

78
dell’isolamento. Anche in questo caso, essi possono essere considerati hommes naturels
solo nel senso che l’autore ha voluto “épargner à des sensibilités raffinées, à des
intelligences en alerte, les tristes connaissances dont est pourvu très tôt l’enfant du
monde civilisé” 197 , presentando così sulla scena degli individui perfettamente in grado
di sviluppare, e manifestare nei modi consueti, i meccanismi dell’eros, senza però
averne alcuna previa conoscenza. Essi, a differenza di qualsiasi fanciullo cresciuto in
società, non hanno nemmeno idea della possibilità dell’esistenza di esseri simili a loro,
né dell’esistenza dell’amore, emozione a loro totalmente sconosciuta; privi di una
prescienza di questo sentimento, privi di aspettative e di paure, privi della coscienza dei
doveri e delle regole che la società impone, incoscienti dei rischi e delle possibilità cui
vanno incontro, da questo punto di vista sono in grado di comportarsi in modo naturale,
spontaneo e ingenuo. Essi sono originali, a differenza di Sigismondo, perché, almeno
limitatamente al loro essere sociali e al sentimento dell’amore, non hanno né notizie né
pregiudizi. In questo ambito circoscritto, essi rappresentano davvero una tabula rasa, e
tutto ciò che viceversa hanno già appreso costituisce la base attraverso cui essi possono
approciarsi ad un nuovo mondo, quello del commercio con gli altri uomini: Marivaux
immagina dei ragazzi perfettamente formati e perfettamente preparati ad affrontare e a
provare situazioni e emozioni ancora altrettanto, e senza che questo sia un paradosso,
perfettamente sconosciute. Quel che importa è che l’anima dei giovani sia del tutto
originaria rispetto all’amore, e ad esso soltanto.
Data questa interpretazione del significato del testo marivaudiano, che riesce in
qualche modo a salvare la plausibilità dell’esperienza del re “naturellement assez
philosophe”, bisogna pur mettere in evidenza che forse nemmeno Marivaux credeva
nella plausibilità e nelle possibilità euristiche dell’esperienza che faceva mettere in atto
ai suoi personaggi, e che invece stesse esercitando verso di essa una sottile ironia
scettica. Le convinzioni e gli scopi dei personaggi sarebbero dunque messi alla berlina,
e con essi quella tendenza generale del XVIII secolo a ricostruire geneticamente e
temporalmente i processi di apprendimento umano, quell’idea di “recommencer à zéro
l’odyssée de la coscience” che Georges Gusdorf considera caratteristica del pensiero
contemporaneo a Marivaux, e di cui rintraccia le origini intellettuali nel metodo

197
Ivi, Notice, p. 1069.

79
empirico lockeano 198 . Il problema delle origini è una costante del pensiero
Settecentesco (sia esso declinato come problema dell’origine dell’uomo, della società,
dell’ineguaglianza, della proprietà, della conoscenza, del linguaggio, della religione, del
sentimento del bello ecc) 199 e Marivaux, influenzatone, si inserisce all’interno di queste
discussioni per mostrarne i limiti. Anch’egli finge di farci assistere “au commencement
du monde et de la société”, di cogliere sul fatto “les hommes et les femmes de ce temps-
là” 200 e di mostrarcene i loro caratteri e le loro avventure, ma solo per poi mostrarci
come questa pretesa sia del tutto priva della possibilità di essere soddisfatta. In questo
senso allora la pièce non sarebbe altro che una riproduzione di quelle “esperienze
dell’uomo di natura” che altri filosofi stavano progettando, di una creazione
immaginaria, ma in linea con le convinzioni del tempo, che dapprima doveva apparire a
un osservatore ingenuo verosimile e utile, ma che poi doveva rivelargli, attraverso un
coup de théâtre finale (peraltro preannunciato da quegli elementi ‘culturali’ di cui si è
detto) la vanità di un simile tentativo 201 . Il re “assez philosophe” è ancora una volta un
assai cattivo filosofo, che ha costruito un esperimento speculativo nuovamente inadatto
agli scopi che si proponeva. Si tratterebbe dunque di una sorta di satira, come
dimostrerebbe il fulmen in clausola dell’ultima scena, ovvero l’apparizione di Meslis e
Dina. Per tutti coloro che avessero creduto che l’esperienza poteva, se non giungere a
determinare chi per primo tra uomo e donna avesse tradito, almeno la naturale infedeltà
dei cuori di entrambi i sessi, giunge improvvisa la smentita. Meslis e Dina

198
Georges Gusdorf, Les Sciences Humaines et la Pensée Occidentale, tome IV, Les Principes de la Pensée au
Siècle des Lumieres, Paris, Payot, 1971, pp. 232-249.
199
“Le XVIII° siècle s’est passionnément posé le problème des origines: quelle est l’origine de l’individu humain,
est-il né de l’oeuf ou de l’animalcule? Quelle est l’origine de la société? l’origine de l’inegalité? l’origine de la
proprieté? l’origine de la perception de la profondeur? l’origine de la connaissance? l’origine du sentiment du beau?
l’origine de la religion? l’origine du langage? Marivaux fit recevoir La Dispute aux Comédiens Français le 22
septembre 1744, alors ni Condillac, ni Diderot, ni Rousseau, ni Buffon n’avaient encore publié leur traites, ma ceux-
ci étaient en gestation, et l’Essai sur l’Entendement Humain de Locke était traduit depuis longtemps. Marivaux fait
donc bien référence aux idées de son temps quand, dans La Dispute il pretend nous faire assister «au commencement
du monde et de la société»”, La Dispute, op. cit., p. 1065.
200
Ibidem, I, pp. 546-47.
201
“On voit maintenant combien est subtil le jeu de Marivaux dans La Dispute: il fait semblant de poser un de ces
problèmes de genèse dont son siècle est si occupé, et il fausse les conditions de l’expérience en faisant agir des
personnages dont les facultés intellectives et affectives sont développées, puis il brouille ses données propres en
amenant au dernier moment d’autres personnages don’t il n’avait jamais été question”, ibidem, pp. 1072-73.

80
contraddicono le coppie precedentemente considerate, pur essendo stati posti nelle
stesse condizioni. La conclusione scettica (può essere, e può non essere, che l’indole
umana sia così incostante) è dunque obbligatoria, e può interpretarsi sia come un
riconoscimento della variabilità dei sentimenti e degli intrecci umani, sia come
l’improvvisa smentita di tutto quanto era stato osservato in precedenza. Il carattere
fittizio e scarsamente credibile di esperienze che pretendano di conoscere la natura
umana ricostruendo un ambiente e degli individui originali sarebbe allora ciò che
Marivaux ci vuole rivelare, anticipando nella letteratura molte questioni che scienza e
filosofia si porranno solo più tardi.
Un ultimo elemento del testo che si vuole prendere in considerazione è relativo al
problema dello sguardo: come ha sottolineato Trapnell, “one must look to scientific
litterature to find greater similarity to Marivaux’s thought in the Dispute” 202 . Se, come
si è detto, non è certo solo alla letteratura scientifica, bensì anche alla problematica
filosofica della sua epoca, che bisogna riandare, è però evidente in Marivaux la ripresa
di alcuni metodi della scienza che si andava affermando e che egli, ancora una volta
precorrendo una riflessione successiva, applica all’uomo, già trasformato in oggetto di
un sapere in tutto simile a quello delle scienze della natura. Rimandando all’esperienza
dello scienziato contemporaneo Charles Bonnet 203 sulla fisiologia animale, e in
particolare sulla sua esperienza per determinare le modalità di riproduzione degli afidi,
consistente in una osservazione sotto vetro di uno di questi, prolungatasi senza sosta per
ben trentacinque giorni, Trapnell individua la medesima istanza empirico-documentaria
nel drammaturgo, seppur spostatasi dalla fisiologia animale alla psicologia umana: “He
and Bonnet both assemble an apparatus specifically designed for the purpose of
isolating, raising and observing animal subjects. Marivaux assure continuity to his
nineteen-year project by assigning responsibility to a prince and his father, execution to
a black and his sister” 204 . Il dispositivo costruito da Marivaux è tale da poter permettere
una osservazione totale, sistematica e continuativa per un tempo notevole, sia quando i

202
Trapnell, The Philosophical Implications, op. cit., p.196.
203
Charles Bonnet (1720-1793), naturalista e filosofo svizzero, fu un osservatore appassionato della natura e compì
numerose ricerche sugli insetti, scoprendo, nel 1740, la partenogenesi (tipo di riproduzione di alcune piante e di
alcuni invertebrati, in cui la cellula uovo si sviluppa, spontaneamente o per l’induzione artificiale di stimoli fisici,
chimici o meccanici, senza essere stata fecondata) degli afidi.
204
Trapnell, The Philosophical Implications, op. cit., p. 204.

81
soggetti vivono nei propri ‘mondi’ (le loro stanze), sia quando poi vengono inseriti in
quel mondo comune nel quale, attraverso quella galleria di cui abbiamo parlato, il
principe e la sua amante potranno vederli e controllarli in ogni luogo. Trapnell ancora
riporta in una nota il seguente giudizio, che ritiene perfettamente applicabile alla
Dispute, di Jacques Roger: “Jamais écrivain n’a ressemblé plus que [Marivaux] à une
naturaliste, n’a été plus que lui soumis à son objet...Il est toujours resté...l’observateur
de ces animaux étranges que sont les hommes...Nul romancier ne méritait mieux d’être
le contemporain de Reaumur” 205 . Marivaux insomma appare in qualche modo
precursore delle scienze umane che nei decenni successivi si sarebbero così fortemente
sviluppate. E ancora l’architettura costruita da Marivaux consente quello che potremmo
chiamare, con le dovute cautele, un régard panottico ante-litteram. Le camere dei
giovani assomigliano tanto alle celle del del Panopticon benthamiano 206 cui Foucault ci
ha familiarizzato: esse appunto possono essere descritte come quelle, come “tante
gabbie, altrettanti piccoli teatri, in cui ogni attore è solo e perfettamente visibile” 207 . Lo
spazio marivaudiano è uno spazio che assicura “la disimmetria, lo squilibrio, la
differenza” 208 tra le parti in causa e che fonda un potere basato sul principio del vedere
senza essere visti: da un lato i quattro giovani, che non sanno di essere guardati, e
dall’altro il principe e Hermianne, che li osservano senza poter essere visti, proprio
come accade nel progetto carcerario di Bentham e in ogni dispositivo panottico ad esso
ispirato. Ancora, le immagini che Foucault usa per descrivere il funzionamento di questi
dispositivi 209 si adattano perfettamente anche alla Dispute: da un lato l’edificio nascosto
nella foresta è un vero e proprio “serraglio del re” in cui l’osservazione non si dirige più
su degli animali e sui loro comportamenti, ma su degli uomini verso i quali gli
205
Ivi, p. 204, nota 22. Il testo di Roger è tratto dal suo studio Sciences de la Vie dans le Pensée Français du XVIII°
Siècle.
206
“Il principio è noto: alla periferia una costruzione ad anello; al centro una torre tagliata da larghe finestre che si
aprono verso la faccia interna dell’anello; la costruzione periferica è divisa in celle, che occupano ciascuna tutto lo
spessore della costruzione; esse hanno due finestre, una verso l’interno, corrispondente alla finestra della torre; l’altra,
verso l’esterno, permette alla luce di attraversare la cella da parte a parte. Basta allora mettere un sorvegliante nella
torre centrale, ed in ogni cella rinchiudere un pazzo, un condannato, un operaio o uno scolaro”, Michel Foucault,
Surveiller et Punir. Naissance de la Prison, Paris, Gallimard, 1975 (tr. it. di Alcesti Tarchetti, Sorvegliare e Punire.
Nascita della Prigione, Torino, Einaudi, I° ed. 1976), p. 218.
207
Ivi, p. 218.
208
Ivi, p. 220.
209
Ivi, pp. 221-22.

82
osservatori possono concedersi di dirigere uno sguardo di naturalisti e placare una
curiosità disinteressata, da improvvisati filosofi; dall’altro, come lo stesso Panopticon,
questa costruzione è utilizzata per compiere una esperienza, come se fosse un
“laboratorio”, in cui si è ricreato un ambiente artificiale e isolato che permetta di
compiere sui giovani esperimenti indisturbati e senza il timore delle interferenze della
cultura, per così dire ricreando, paradossalmente, una condizione naturale in vitro. Non
è un caso che nelle stesse pagine di Sorvegliare e Punire Foucault affidi al principio
panottico, questa geniale forma architettonica che può essere applicata ai più svariati
ambiti della vita sociale, proprio la possibilità di contribuire allo studio dell’uomo
attraverso l’educazione in reclusione:

Il Panopticon può essere utilizzato come macchina per fare esperienze [...]
Tentare esperienze pedagogiche – e in particolare riprendere il famoso problema
dell’educazione in reclusione, utilizzando trovatelli; si potrebbe vedere ciò che
accade quando, nel sedicesimo o diciottesimo anno di età, si mettono in presenza
ragazzi e ragazze; si potrebbe verificare se, come pensa Helvetius, chiunque può
apprendere qualunque cosa; si potrebbe seguire «la genealogia di ogni idea
osservabile»; si potrebbero allevare diversi bambini in diversi sistemi di
pensiero, far credere ad alcuni che due più due non fanno quattro o che la luna è
un formaggio, poi metterli tutti insieme quando avessero venti o venticinque
anni; si avrebbero allora discussioni violente che varrebbero assai più delle
conferenze e dei sermoni per i quali si spende tanto denaro; si avrebbe almeno la
possibilità di fare qualche scoperta nel campo della metafisica. Il Panopticon è
un luogo privilegiato, per rendere possibile la sperimentazione sugli uomini e
per analizzare con tutta certezza le trasformazioni che si possono operare su di
loro. 210

Il Panopticon, minimizzando i costi materiali di tali esperienze, e massimizzando


invece le capacità osservative e di intervento degli sperimentatori, appare qui come la
soluzione spaziale ottimale per uno studio sperimentale dell’uomo. Pur non essendo
così perfezionata dal punto di vista di una razionalità strumentale, l’architettura

210
Ivi, p. 222.

83
proposta da Marivaux tende comunque alle stesse finalità, quella di poter scrutare e
rendere trasparente ogni aspetto, anche minimo, della vita delle ‘cavie’ in essa
contenute, e quella di poter intervenire in ogni momento per saggiare e verificare le loro
risposte; proprio per questo obiettivo comune e grazie all’ingegno del drammaturgo
nella Dispute troviamo soluzioni analoghe a quelle foucaultiane: anch’egli ha infatti
voluto creare un luogo totalmente penetrabile allo sguardo di alcuni osservatori, qui
interessati a risolvere la loro querelle galante sull’amore naturale.

II.V. Maupertuis: alcuni progetti per una scienza a venire

La Lettera per il Progresso delle Scienze 211 costituisce un altro testo di fondamentale
importanza per la storia di questa pur minuscola idea che è quella del pensare
un’esperienza dell’homme naturel. È la prima volta infatti, siamo nel 1752, che un
filosofo la pensa come concretamente realizzabile, ed è la prima volta che essa viene
considerata non solo come una “ricerca utile per il genere umano” e “curiosa per gli
scienziati” che dovrebbero metterla in essere, ma anche come un’esperienza inserita in
un elenco di quelle nelle quali “al punto in cui sono giunte attualmente le Scienze, ci
sentiamo in grado di ottenere un successo” 212 . La Lettera è stata pubblicata per la prima
volta a Berlino nel 1752. Maupertuis (1698-1759), che ne è l’autore, si rivolgeva a
Federico II 213 per indicargli i punti sui quali la ricerca dei savants doveva impegnarsi, e
come il re avrebbe potuto favorire i loro lavori. Si tratta di un certo numero di lavori da
intraprendere sugli argomenti più disparati, dalle esplorazioni geografiche alle

211
Pierre Louis Moureau de Maupertuis, Lettre sur le Progrès des Sciences, 1752. (tr. it. di Maria Luisa Serena,
Lettera per il Progresso delle Scienze, in AA. VV., Filosofia Scienza Politica nel Settecento Francese: Saggi,
Ricerche, Testi, Firenze, CLUSF , 1978, a cura di Paolo Rossi), pp. 237-258.
212
Ivi, p. 237.
213
In mancanza di una evidenza testuale precisa, si possono fare varie ipotesi sul sovrano destinatario dell’opera.
Émile Callot ritiene che sia indirizzata al re di Francia Luigi XV (cfr. Émile Callot, Maupertuis, le Savant et le
Philosophe, Paris, Rivière, 1964, p. 129). La curatrice italiana della traduzione della lettera, Maria Luisa Serena,
sostiene invece sia dedicata a Federico II di Prussia, presso il quale effettivamente Maupertuis era impegnato in
quegli anni e da cui stava ricevendo sostegno nell’aspra querelle con Koenig e Voltaire (cfr. Lettera per il Progresso,
op. cit. p. 237, nota 1), ma scrive di non ritenere errato pensare “che questo scritto sia indirizzato a tutti i Sovrani e a
tutti gli uomini autorevoli nell’ambito della cultura europea” (ibidem). Non possedendo altre testimonianze, non
avendo motivi per considerare inattendibile una delle due fonti, considerando le ragioni storiche di sopra e infine la
fama di Roi-philosophe che Federico II seppe guadagnarsi, lo si è qui preferito.

84
esperienze sull’elettricità, passando attraverso le osservazioni astronomiche e la
sperimentazione in campo biologico e medico. Figura tra le più attraenti e spirito tra i
più curiosi di tutto il siècle philosophique, Maupertuis era dotato di una conoscenza
davvero enciclopedica, in grado di muoversi criticamente e con proprietà nei vasti
domini delle scienze esatte, della biologia, della filosofia della Natura e della scienza e
della filosofia morale. Il suo lavoro nella Repubblica delle Lettere non si limitò però a
una serie di studi pur così vari e approfonditi, perché egli non fu mai una personalità per
così dire solipsistica e dedita al lavoro di gabinetto, ma rivelò il suo amore per le
scienze e la filosofia anche attraverso un desiderio di intraprendere, di organizzare, di
promuovere e di dirigere le ricerche e le scoperte che altri avrebbero potuto compiere al
suo posto. Animatore della vita intellettuale europea di quegli anni, fu tra coloro che
permisero la penetrazione della filosofia inglese nella cultura illuminista 214 , fece
conoscere il pensiero francese attraverso le sue lettere, le sue amicizie e la sua attività
alla corte di Federico II di Prussia 215 , frequentò i salotti e strinse legami con i circoli
intellettuali più importanti d’Europa. È questo il medesimo spirito, quello di promotore,
in proprio e attraverso la sollecitazione delle energie altrui, del sapere settecentesco, che
anima la sua Lettera. Essa non va confusa con una vera epistola: come tutti i suoi
contemporanei, anche Maupertuis ci ha lasciato delle lettere reali, delle quali però non è
ancora stata intrapresa la stesura di un inventario o una loro pubblicazione. Si tratta
quindi ovviamente di una lettera fittizia, non certo di una lettera privata, ma destinata
alla lettura di un pubblico quanto più vasto possibile. Lo stesso stile, infatti, mostra, con
la sua precisa semplicità, che il testo è mosso dal desiderio di essere quanto più
possibile ascoltato e compreso, nell’intento di ‘volgarizzare’ problemi e questioni che
agitavano il mondo intellettuale e di suscitare una ricerca scientifica sempre più ampia.
Acquisito per Maupertuis che la conoscenza in generale, e quindi anche la conoscenza
scientifica, deriva dall’esperienza fenomenica e che, in una prospettiva sensista, tutte le
214
“Les courants essentiels du siècle traversent son esprit et prennent forme dans l’oeuvre: Bacon, Locke, Berkeley,
Newton, voilà ses inspirateurs direct, et par lui ils entrent dans la tradition philosophique et scientifique française;
cette influence qu’il eut sur ses contemporains reste aujourd’hui encore fort mal connue”, Émile Callot, Maupertuis,
le Savant et le Philosophe, op. cit., p. 12.
215
Fu infatti chiamato a Berlino dallo stesso re per riorganizzare e dirigere l’Accademia delle Scienze di Berlino, di
cui fu nominato Presidente nel 1746, e presso la quale lavorerà fin quasi alla morte; vero è che la sua attività si riduce
dopo il 1753 quando, spossato moralmente e intellettualmente da una serie di polemiche intellettuali e dalla
tubercolosi, cerca pace e serenità con alcuni viaggi in Francia, dove muore nel 1759.

85
idee nascono attraverso un processo di rielaborazione e di combinazione di sensazioni
provenienti dall’esterno, egli abbandona ogni ipotesi metafisica per costruire una
scienza che si cura di comprendere solo le qualità e i rapporti tra gli enti osservati
nell’esperienza. Il progresso delle conoscenze umane diviene così un percorso di
illuminazione di ciò che fino ad ora è rimasto oscuro attraverso uno sguardo empirico
sulla natura. Uno sguardo che deve rivolgersi dappertutto, tanto che egli arriva ad
affermare che, nel caso di un ambito di ricerca allora allo stato nascente, cioè gli
esperimenti sull’elettricità, varrebbe la pena, pur non sapendo quale strada seguire, “di
accumulare quante più esperienze possibili. Venissero fatte a caso, potrebbero far luce
su questo tipo di Fisica” 216 . In mancanza di un metodo e di un percorso di ricerca
migliore, che non si può ancora delineare, la fiducia nelle esperienze scientifiche rimane
tale da permettergli di affermare che un semplice accumulo e catalogo di esse possa
servire da materiale utile ad un’elaborazione futura. Questo perché in questi domini
niente di certo può ancora essere affermato: sono ancora in uno stadio embrionale e
nonostante si intuisca che da essi si può attendere molto, non si sa ancora come
muoversi. Viceversa, la riflessione e la progettazione appaiono un momento preliminare
all’osservazione empirica: per colui che aveva combattuto per vedersi riconosciuta la
paternità del principio della “moindre action” 217 , per un’utilitarista ante-litteram
disposto a lasciare da parte ogni scrupolo e ogni “sapore di crudeltà” per fare dei
criminali delle carceri ‘cavie’ per esperimenti medici sull’uomo, sulla base del principio
che “un uomo non è niente paragonato alla specie umana; un criminale meno di
niente” 218 , era necessario che anche il lavoro scientifico fosse sottoposto al principio di
utilità, e che si tentassero in primis quelle esperienze che avevano la maggior speranza
di dare risultati, e di dare i risultati più importanti per il miglioramento delle condizioni
dell’umanità 219 . Maupertuis pensa una scienza che si dedichi sì a tutto, convinto che il

216
Maupertuis, Lettera per il Progresso, op. cit., pp. 255-56.
217
Si tratta di una legge fisica, assimilabile al principio d’economia e universalmente estendibile ad ogni corpo e
sempre in atto, per cui ogni volta che avviene qualche cambiamento nella Natura, la quantità d’azione impiegata per
questo cambiamento è sempre la minore possibile. La Natura non spreca, e agisce sempre secondo una razionalità
economica.
218
Maupertuis, Lettera per il Progresso, op. cit., pp. 249-52.
219
In questo modo si comprende bene anche perché l’ultimo paragrafo della Lettera sia dedicato alle “ricerche da
vietare”, cioè quelle sulla pietra filosofale, sulla quadratura del cerchio e sul moto perpetuo: “Le Accademie sanno

86
suo ambito sia inesauribile e in toto degno d’indagine, ma che istituisca delle gerarchie
interne. Il ragionamento e il pensiero dovevano precedere l’esperienza per distoglierla
da operazioni inutili e permettere allo scienziato di applicarsi ai fenomeni decisivi,
come lo spirito dell’illuminato sovrano cui egli si rivolge, che “si dedica a tutto, e si
dedica ad ogni cosa in relazione al grado di utilità che questa presenta” 220 . Ecco allora
perché la lettera viene scritta: quest’accademico, ben avvertito della necessità di un
lavoro scientifico che sempre più deve farsi collettivo (ma anche coordinato) per essere
efficiente, invia al re delle “riflessioni sui progressi di cui mi sembra che le Scienze
abbiano il maggior bisogno; affinché se voi avete la mia stessa opinione sulle cose che
vi sottopongo, possiate dare l’avvio a qualcuna” 221 e perché è consapevole che ci sono
alcune scienze che non possono svilupparsi se non con la benevolenza di un’autorità
regale: “sono tutte quelle che esigono enormi spese che i privati non possono
permettersi, o esperimenti che non sarebbero normalmente praticabili” 222 . Fatte queste
premesse introduttive, il testo procede a enumerare una serie di esperienze, come
abbiamo deto relative ad ogni campo del sapere, che rispondono a questi due caratteri,
di priorità e impellenza intellettuale e di straordinarietà dei mezzi da mettere a
disposizione per poterle realizzare, che le rendono degne di essere prese sotto l’ala
protettiva di un sovrano.
Come ha scritto Pierre Brunet, la Lettera “malgré tant des critiques acerbe set en
dépit des sarcasmes, contenait tant d’idées neuves et intéressantes” 223 , tra le quali, oltre
al progetto di uno studio dell’uomo di natura, si trovano, ad esempio, proposte
all’avanguardia come quella di istituire un Collegio di Scienze Straniere per permettere
scambi culturali tra le grandi civiltà del mondo (ma forse, dice Maupertuis, “non si
dovrebbero escludere nemmeno le nazioni più selvagge” 224 ) o quella (che avrebbe
trovato attuazione solo pochi anni dopo con la spedizione del capitano Cook del 1768-
1771) di andare alla ricerca di quel “Mondo a parte”, di quella terra australis incognita

bene il tempo che perdono ad esaminare le pretese scoperte di questi disgraziati ma questo non è niente se si pensa al
prezzo che pagano loro stessi, alla spesa che sostengono, e alle pene che si danno”, ivi, p. 258.
220
Ivi, p. 238.
221
Ibidem.
222
Ibidem.
223
Pierre Brunet, Maupertuis. L’Oeuvre et sa Place dans la Pensée Scientifique et Philosophique du XVIII° Siecle,
Paris, Blanchard, 1929, p. 371.
224
Maupertuis, Lettera per il Progresso, op. cit., p. 246.

87
già congetturata dagli antichi dove, secondo Maupertuis, si troverebbero varietà
naturalistiche del tutto sconosciute, perché evolutesi in luoghi completamente separati
dal resto della terraferma 225 . È tra le “esperienze metafisiche”, ovvero tra quegli
esperimenti che non riguardano i corpi ma gli spiriti, e che sono “ancora più curiosi e
interessanti” 226 , che troviamo i passi che hanno attinenza con la nostra trattazione:

Come si siano formate le lingue, lo comprendiamo piuttosto in generale.


Reciproci bisogni di uomini che possedevano gli stessi organi, hanno prodotto segni
comuni per farsi capire. Ma le estreme differenze che oggi si riscontrano nei modi di
esprimersi provengono forse dalle alterazioni, che ogni padre di famiglia ha
introdotto in una lingua dapprima comune a tutti? oppure questi modi d’esprimersi
sono stati diversi fin dalle origini? Due o tre bambini allevati insieme fin dalla più
piccola età, senza alcun contatto con altri uomini, si formerebbero certamente una
lingua, seppur limitata. Questa sarebbe una cosa adatta a far molta luce sul
precedente problema, osservare cioè se questa nuova lingua, abbia una qualche
somiglianza con le lingue che si parlano oggi; e vedere con quale lingua abbia
maggiore uniformità. Affinché l’esperimento sia completo, bisognerebbe formare
molti gruppi di questo tipo, formarli con bambini di diverse nazioni, e i cui genitori
parlassero le lingue più diverse; la nascita è già infatti una specie di educazione;
vedere poi se le lingue di questi diversi gruppi abbiano qualcosa in comune, e fino a
qual punto si somigliano. Bisognerebbe evitare soprattutto che questi piccoli popoli
apprendessero qualche altra lingua; e fare in modo che gli studiosi addetti a questa
ricerca apprendessero la loro.
Un tale esperimento non si limiterebbe ad istruirci sull’origine delle lingue;
potrebbe farci apprendere altre cose sull’origine delle idee stesse, e sulle nozioni
fondamentali dello spirito umano. 227

Avevamo già accennato parlando di Marivaux all’interpretazione di Georges Gusdorf


di quest’idea di “recommencer à zéro l’odyssée de la conscience” 228 presente in molti
225
Ivi, pp. 238-41.
226
Ivi, p. 256.
227
Ivi, p. 257.
228
Gusdorf, Les Sciences Humaines, op. cit., p. 244.

88
pensatori dell’età dei Lumi, che egli considera come un vero e proprio “lieu commun”,
un “même espace mentale” e una “identique orientation de pensée” 229 , e che
consisterebbe in un rigetto e in un disprezzo verso una metafisica che pretendeva di
spiegare la conoscenza umana attraverso una spiegazione deduttiva, che possiamo far
risalire a Locke e al suo Essay concerning Human Understanding. Gusdorf ritiene e
mostra che a questa ricusazione di una metafisica tradizionale e razionalistica non
corrisponde un totale abbandono delle ipotesi metafisiche, ma l’introduzione in molti
testi del pensiero illuminista di un nuovo genere di metafisica ‘genealogica’. La
metafisica assume qui, nella nuova organizzazione della conoscenza, un’accezione
molto differente da quella che aveva avuto in passato: essa diviene una conoscenza
dell’intelletto, uno studio critico sulle possibilità e i limiti della conoscenza umana, una
conoscenza della conoscenza, che è preliminare ad ogni possibilità di sapere in quanto
determina cosa sia possibile conoscere e con quale grado di certezza. Trasformata la
metafisica in quella che noi oggi chiameremmo un’epistemologia, ciò che fanno molti
filosofi illuministi è di intendere la questione epistemologica come una questione che
debba essere studiata in maniera ‘storica’: “Alors que l’epistémologie du rationalisme
classique présentait un caractère contemplatif, les idées innées constituant en chaque
homme une dotation invariabile de vérité, le XVIII° siècle, mobilisant la vérité dans les
temps, se préoccupe de retrouver le sillage de la connaissance dans le devenir de
l’homme et du monde. L’analyse de l’espace mental intègre la dimension temporelle,
car l’espace mental est compris comme l’espace-temps du developpement” 230 . Anche in
questo senso la filosofia settecentesca non sta facendo altro che seguire il percorso
tracciato da Locke quando, rifiutando di credere nell’esistenza di idee innate
nell’intelletto umano, aveva cominciato a studiare come esse potessero formarsi in
questo, “à partir du point d’origine où l’homme vient au monde par l’intermédiare de la
connaissance sensible” 231 . Ma questi tentativi di ricostruzione della genesi del pensiero
umano, sottolinea Gusdorf, si erano caratterizzati non attraverso uno studio empirico: si
trattò di proporre una “histoire conjecturale”, di carattere transempirico, di una pseudo-
genesi che non faceva altro che applicare ad un presunto uomo originario le sue ipotesi

229
Ivi, p. 238-242.
230
Ivi, p. 237.
231
Ivi, p. 238.

89
sulla formazione delle idee nello spirito umano, oltretutto, come tipico di quest’epoca,
facendo confusione, o mostrando coscientemente, di considerare equivalenti la
filogenesi e l’ontogenesi. In definitiva il ricorso all’uomo di natura (che è poi di volta in
volta quest’Adamo originario o un neonato allevato separato dalla società) serve alla
filosofia dell’epoca per proporre un racconto epistemologico fittizio e immaginario, in
cui si mostra il sorgere temporale delle idee e delle facoltà dell’uomo (perché appunto si
sono rifiutate le teorie innatiste) 232 . E queste esperienze, che sono puramente ipotetiche,
per il fatto stesso di essere caratterizzate dalla rappresentazione di un soggetto concreto,
che agisce e si relaziona con oggetti concreti, finiscono per sembrare verosimili, seppur
non suffragate da alcuna esperienza reale. L’innovazione e l’importanza del testo di
Maupertuis consistono nel fatto che in lui non si tratta di concepire visivamente e in
concreto ciò che è solo un modello teorico e astratto, ma di proporre per la prima volta
che l’esperienza venga realizzata empiricamente. È difficile in questo caso pensare che
essa sia stata davvero messa in atto perché, come vedremo nel prossimo capitolo,
l’idéologue Jauffret mostrerà di ben conoscere questo progetto di Maupertuis, eppure di
trovarsi nella necessità di doverlo riproporre nuovamente, proprio perché sicuramente

232
Cfr. a questo proposito alcuni testi che sono rimasti fuori dalla seguente trattazione (e che verranno eventualmente
analizzati in maniera più diffusa in futuro); essi sono apparsi proprio intorno alla metà del secolo XVIII e vi sono
contenuti riferimenti all’“esperienza sull’uomo di natura”. Il primo, in ordine di tempo, è la Storia Naturale
dell’Anima (1745) di La Mettrie: in esso compare un riassunto della “bella congettura di Arnobio” che serve
all’autore come suggello alla sua opera, per arrivare a dimostrare la sintetica tesi anti-innatista che “Senza sensi,
niente idee” (Julien Offroy de La Mettrie, Histoire Naturelle de l’Âme, 1745, tr. it. di Sergio Moravia, Storia
Naturale dell’Anima, in Opere Filosofiche, Roma-Bari, Laterza, 1974, pp. 49-162), pp. 160-62. Il secondo
riferimento è al Condillac del Saggio sull’Origine delle Conoscenze Umane (1746), op. cit., pp. 207-215, dove
all’inizio della sezione dedicata al problema dell’origine e dei progressi del linguaggio, il filosofo suppone che due
bambini siano abbandonati in un deserto prima di conoscere qualsiasi segno, e segue l’ipotetica nascita dei loro mezzi
comunicativi. A distanza di circa vent’anni escono invece due opere, che abbiamo giò avuto occasione di citare, che
sono qui pertinenti. Una è il Trattato sulla Formazione Meccanica delle Lingue (1765) del De Brosses dove, in un
luogo molto simile a quello di Condillac, si crede di poter dimostrare che bambini allevati in una condizione naturale
svilupperanno senza aiuti esterni un linguaggio. (De Brosses, Trattato sulla Formazione Meccanica, op. cit., pp. 146-
48). L’altra è l’Essay on the History of Civil Society (1767), op. cit., di Ferguson dove nella Part I, Section I (Of the
question relating to the State of Nature) si immagina che siffatti bambini isolati formeranno una loro società in tutto e
per tutto simile a quella del resto degli esseri umani. Di datazione incerta sono alcuni frammenti pubblicati postumi di
Montesquieu ed esclusi volontariamente dall’autore dalle sue opere perché semplici suggestioni non approfondite, in
cui si ipotizza l’opportunità di una esperienza molto simile a quella del faraone Psammetico raccontata da Erodoto
(Charles Louis de Montesquieu, Mes Pensées, in Oeuvres completes: texte presenté et annoté par Roger Callois,
Paris, Gallimard, 1949, pensiero 775).

90
era rimasto fino ad allora solo sulla carta 233 . Rimane vero che, pur rimanendo identici a
quelli dei suoi contemporanei gli scopi per cui Maupertuis ritiene di estremo interesse lo
studio degli uomini di natura (che sono i problemi della genesi del linguaggio e la
formazione delle idee nello spirito), a differenza di questi egli intende davvero fondarsi
sui fatti. Non elabora alcuna teoria di “epistemologia archeologica” 234 , non mette
insieme osservazioni e ipotesi particolari sul linguaggio e la psicologia per costruire una
esperienza che tenti di rispondere alle domande su questi, ma mostra solamente la strada
attraverso cui crede che quelle questioni possano trovare una risposta. Così si capisce
dove sta la differenza con i suoi contemporanei, e perché Jauffret citerà proprio lui
quando vorrà far sua e approfondire la medesima istanza di un sapere che sia finalmente
fondato nei fatti:

È da molto tempo ormai che ascoltiamo Filosofi, la cui scienza è diventata


un’abitudine e un vizio dello spirito, senza che noi ne abbiamo tratto maggiore
abilità: Scienziati e Filosofi della natura ci potrebbero informare forse meglio;
almeno ci porgerebbero le loro conoscenze senza averle sofisticate.
Dopo tanti secoli trascorsi, durante i quali, malgrado gli sforzi dei più grandi
uomini, le nostre conoscenze metafisiche non hanno fatto il minimo progresso,
c’è da credere che se è nella Natura che ne possano raggiungere qualcuno, ciò
potrebbe avvenire solo con mezzi nuovi e straordinari come quelli descritti. 235

II.VI. Jauffret: l’“esperienza sull’uomo naturale” nei piani della nascente


antropologia

Nel 1800 Jauffret era già tutt’altro che uno sconosciuto. Ribelle come tanti altri
intellettuali del tempo a qualsiasi forma di impegno settoriale, Jauffret non doveva la
sua notorietà solo agli studi di “storia naturale dell’uomo”, ma anche alle opinioni
espresse nei campi più disparati, dalla politica alla pedagogia, nei quali era sempre
riuscito a distinguersi. Intellettuale brillante e talentuoso, Louis-François Jauffret era

233
Cfr. infra.
234
Gusdorf, Les Sciences Humaines, op. cit., p. 238.
235
Maupertuis, Lettera per il Progresso, op. cit., p. 257.

91
nato in un villaggio della Provenza nel 1770, e, trasferitosi giovanissimo nella vivace
Parigi fin de siècle, cominciò presto ad entrare in contatto con i vari ambienti scientifici
e filosofici della capitale. La prima attività di Jauffret era stata, come accadeva alla
maggior parte dei giovani istruiti provenienti dalla provincia, di tipo letterario. Scrisse
dunque dapprima qualche poesia e alcuni idilli, che non passarono del tutto inosservati,
ma la lettura di alcuni volumi di storia naturale, da quelli dell’abate Pluche a quelli di
Charles Bonnet, fece sì che i suoi interessi virassero verso lo studio delle scienze, e in
particolare si dedicasse soprattutto al problema dell’educazione dell’infanzia. Legato al
gruppo dei borghesi moderati, dovette, in seguito alla Rivoluzione, allontanarsi da
Parigi a causa delle sue posizioni politiche, e vi fece ritorno solo dopo la reazione
termidoriana. Fu in questo periodo che strinse i primi stretti legami con i più eminenti
studiosi del suo tempo, da Lacépède a Lamarck, da Jussieu a Cuvier, da Cabanis a Pinel.
Questi molteplici contatti si riveleranno negli anni immediatamente successivi di grande
importanza per la fondazione della Société des Observateurs de l’Homme, e gli
permetteranno nel frattempo di discutere e approfondire i suoi studi naturalistici. Fino
ad allora nulla lasciava presagire l’indirizzo antropologico che stavano per prendere i
suoi studi, ma alla base di questo interesse doveva stare la vivacità con cui all’epoca
erano dibattuti i problemi di science de l’homme e dalla curiosità per i libri di viaggio e
per le relazioni sugli usi e i costumi di popoli esotici della cultura francese coeva. Non
appare allora incomprensibile perché egli rivolse i suoi studi naturalistici verso indagini
che proprio in quell’epoca cominciarono ad essere definite antropologiche 236 . Già
divenuto professore di storia naturale all’École Centrale di Versailles, volse i propri
interessi e le proprie capacità organizzative alla fondazione, nel 1799, della Société des
Observateurs de l’Homme, salutata con vivissimo entusiasmo dagli ambienti filosofici e
scientifici della capitale. Essa svolge i suoi lavori in continuità (seppur spesso espressa
in termini aspramente critici) con la travagliata analisi dell’uomo sviluppatasi nel corso
del Settecento, mantenendone l’obiettivo di uno studio finalmente scientifico e positif
dell’essere umano, che concepisca l’uomo come complesso di fenomeni e di dati
suscettibile di un’indagine rigorosa. A questo fine vengono mobilitate tutte le migliori
energie intellettuali della Parigi dell’epoca: Jauffret fu infatti in grado di raccogliere

236
Per una discussione critica sulla storia dei significati nel tempo assunti dal termine ‘antropologia’, dall’Ethica
Nicomachea alla fine del Settecento, cfr. Moravia, La Scienza dell’Uomo, op. cit., pp. 66-69.

92
attorno a sé naturalisti (come Cuvier, Duméril e Jussieu), filosofi-psicologi (come
Destutt de Tracy, Laromiguière, Garat...), medici (come Cabanis, Hallé, Moreau de la
Sarthe...), studiosi dei segni e del linguaggio (Degérando, Sylvertre de Sacy, Sicari,
Itard...), geografi-esploratori (Baudin, Bougainville, Levaillant...), storici-archeologi
(Volney, Millin, Pastoret...), insieme a molti altri studiosi. Occorreva reclutare
rappresentanti delle più diverse branche del sapere relativo all’uomo, se si voleva
raggiungere l’ambizioso obiettivo di conoscere integralmente l’uomo; il carattere
interdisciplinare era indissociabile da una volontà di studiare tutta la natura dell’uomo,
fisica e morale, isolata e sociale. La grandezza del progetto si basava sulla fiducia
condivisa da questi studiosi di poter, attraverso l’observation, la comparaison e
l’analyse, giungere a fondare una conoscenza integrale e fondata sui fatti dell’uomo, e
di poterla liberare dalle ipoteche metafisiche in cui era fino ad allora rimasta
imprigionata. In tutti i testi di quest’ambiente emerge la coscienza di trovarsi di fronte
ad una disciplina inedita, i cui metodi, i cui obiettivi e il cui ethos sono rivendicati e
distinti orgogliosamente, ma anche presi sul serio e problematizzati: la novità non è
rivendicata per orgoglioso spirito di distinzione, ma per sottolineare le difficoltà cui si
andrà incontro e la vastità dello sforzo che dovrà essere affrontato, e
contemporaneamente la sua utilità e necessità per il progresso delle scienze. Questi temi
appaiono con una limpidezza straordinaria che dimostra come i tempi per la nascita di
una antropologia fossero ormai maturi, nel manifesto programmatico della Société des
Observateurs de l’Homme 237 , la cui stesura fu affidata proprio all’intelligente e ancor
giovane Jauffret, che l’aveva fondata. Emerge qui l’istanza definitoria nei confronti
delle altre scienze con cui comunque l’antropologia avrebbe dovuto lavorare in stretta
interdipendenza, dunque la comprensione di una specificità che si combina con
l’interdisciplinarietà, che sfrutta indagini e materiali raccolti da altre discipline per
perfezionare l’analisi di un oggetto di studio proprio 238 , che è, ovviamente, l’uomo.
237
È la già ricordata Introduzione alle Memorie della Società degli Osservatori dell’Uomo del 1803.
238
“La Società degli Osservatori dell’uomo ha dovuto occuparsi prima di tutto di misurare attentamente il cammino
che doveva percorrere e determinare con precisione il genere di lavori al quale doveva consacrarsi [...] Essa si
propone di osservare l’uomo sotto i suoi diversi aspetti fisici, intellettuali e morali, avendo cura tuttavia di contenersi
entro limiti determinati. Per esempio, l’osservazione dell’uomo fisico abbraccia l’anatomia e la fisiologia, la
medicina e l’igiene: ma a questo proposito la società non perderà mai di vista che il suo scopo è di non approfondire
queste diverse scienze se non in ciò che riguarda la storia naturale dell’uomo propriamente detta”. (Jauffret,
Introduzione alle Memorie, op. cit., p. 265, corsivi miei).

93
Emerge lo spirito osservativo e antisistematico 239 , e la volontà di raccogliere e
catalogare i materiali più disparati sull’uomo, al fine di confrontarli e di comprenderli
meglio attraverso la loro varietà, le loro differenze e le loro somiglianze 240 . Emerge,
infine, la consapevolezza della rottura con il passato 241 e della proiezione verso un
futuro (si noti, anche da un punto di vista stilistico, il frequentissimo utilizzo di questo
tempo) in cui si mostrerà quanto “la sua [della Società degli Osservatori] esistenza può
essere utile al progresso di una scienza che è stata sempre la più nobile di tutte, anche se
è stata sempre la meno coltivata [quella dell’uomo]” 242 e quanto “la sua fondazione fu
utile nello stesso tempo alla fondazione della scienza e alla felicità degli uomini” 243 .

239
“Fin dal suo stesso nome la società mostra in qual modo essa crede di poter arrivare ad una conoscenza più
approfondita dell’uomo. Il suo proposito è soprattutto quello di raccogliere molti fatti, di estendere e moltiplicare le
osservazioni, lasciando da parte tutte quelle vane teorie, tutte quelle speculazioni arrischiate le quali non servirebbero
che ad avviluppare di nuove tenebre uno studio già di per sé tanto oscuro”, ibidem.
240
Il metodo comparativo è da Jauffret esteso a tutti gli oggetti di studio dell’antropologia: dall’anatomia (“Non sarà
che attraverso la riunione successiva di questi numerosi dati, e grazie ad un lavoro completo sull’anatomia comparata
dei popoli, che si potranno un giorno caratterizzare in modo esatto le varietà della specie umana”, ivi, p. 266), alla
fisiognomica (“Se esistono differenze notevoli fra popolo e popolo, ed anche tra famiglia e famiglia, ne esistono di
meno sensibili senza dubbio, ma tuttavia non meno reali, fra individuo e individuo; ed è lo studio approfondito di
queste differenze che costituisce la fisiognomica”, ivi, p. 267), alla storia (“Indagini sistematiche e numerosi studi
particolari presso i popoli antichi [...] getteranno una grande luce sull’Antropologia comparata”, ivi, p. 268), alle
relazioni di viaggio, all’antropografia, agli studi di psicologia e ideologia a quelli sul linguaggio (Jauffret si propone
già di “cominciare a gettare le basi di un Dizionario comparato di tutte le lingue conosciute”, ivi, p. 274; un’opera
titanica e forse utopica, ma che certo dimostra l’ambizione e la visionarietà di questi studiosi). Egli sostiene appunto:
“...che è solo raccogliendo una massa enorme di fatti, e circondandosi di una gran quantità di oggetti da paragonare
tra loro che la società vuole procedere alla conoscenza dell’uomo” (ivi, pp. 270-71), e in questo modo si
comprendono le ragioni di un altro progetto di lunga veduta, e cioè quello di un proto-Musée de l’Homme, “...di
riunire a poco a poco, in un museo speciale, diversi oggetti relativi ai lavori di cui si occupa la società, e soprattutto
tutti i prodotti dell’operosità dei selvaggi, tutti gli oggetti che possono servire a far conoscere la varietà della specie
umana, come pure i costumi e le usanze dei popoli antichi e moderni”, ivi, p. 270.
241
Non solo con le ipotesi metafisiche dei filosofi ‘sistematici’, ma anche nei confronti degli scienziati e degli
sperimentatori del passato, richiamati a un maggior rigore metodologico. Si vedano, a mo’ d’esempio, i rimproveri
nei confronti dei viaggiatori (e il rimando a quelle instructions de voyage dell’anthropologiste Dégerando di cui
abbiamo già parlato nel primo capitolo) o la critica ad una fisiognomica, in alcuni suoi esponenti, troppo sicura di sé e
dei suoi risultati: “...pur biasimando l’imprudente desiderio di voler decifrare ciascuno di questi tratti [i lineamenti], e
la temerità di pretendere di generalizzare mere induzioni, la società non respingerà le osservazioni condotte su un
oggetto così nuovo e interessante...”, ivi, p. 267.
242
Ivi, p. 265.
243
Ivi, p. 275.

94
È sempre qui che troviamo l’ultima proposta che vedremo di compiere una
“esperienza sull’uomo naturale”, ed è proprio da questo testo che la locuzione è stata
tratta, come abbiamo già anticipato. Jauffret, tra le tante proposte contenute in questo
testo e che vanno a comporre il quadro organico degli studi che l’antropologia nascente
decide di darsi, individua le coordinate di come questa esperienza dovrebbe a suo modo
svolgersi, per quali fini e con quali mezzi:

Un giorno la società dovrà forse esaminare se, per seguire in modo tanto
nuovo quanto esteso lo sviluppo progressivo delle forze fisiche, intellettuali e
morali dell’uomo, non sarebbe opportuno tentare, con l’autorizzazione del
governo, un’esperienza sull’uomo naturale, consistente nel fare osservare con
cura, durante dodici o quindici mesi, quattro o sei fanciulli, metà di un sesso e
metà dell’altro, posti fin dalla nascita in uno stesso ambiente, lontano da
qualsiasi istituzione sociale, e abbandonati per lo sviluppo delle idee e del
linguaggio al solo istinto della natura. Non è dubbio che un mezzo sicuro per
ottenere una serie di osservazioni in grado di concorrere efficacemente a
illuminarci sullo sviluppo delle nostre facoltà sarebbe quello di collocare così,
fin dalla loro nascita, sotto gli sguardi della filosofia, dei fanciulli i quali, isolati
dai nostri costumi, dalle nostre istituzioni, dai nostri pregiudizi ed anche dal
nostro linguaggio, non potessero agire ed esprimersi se non secondo l’istinto e lo
stato che la natura fornisce a tutti gli uomini. 244

Nonostante gli elementi che Jauffret introduce in questa descrizione (piuttosto


sommaria, ma la quale, vedremo tra poco, egli seppe pensare altrove con maggior
precisione) siano quelli tradizionali, ossia l’idea di una separazione di uno o più neonati
dal resto del mondo al fine di conoscere quali delle loro capacità si manifestino senza un
intervento esterno, egli sottolinea anche in questa occasione la ‘novità’ dell’esperienza
che la Società, o studiosi futuri, dovranno saper tentare: non è una differenza di
contenuti rispetto alle esperienze simili del passato che sono già state tentate o proposte,

244
Ivi, p. 272.

95
e alcune delle quali Jauffret mostra di conoscere 245 , ma la differenza sta nel metodo che
dovrà essere seguito per trarre tutti i possibili benefici da un’esperienza così inconsueta.
Se gli esperimenti del passato sono considerati da questo solo dei “rozzi tentativi, di cui
la storia non assicura nemmeno l’autenticità” 246 , ciò dipende dal fatto che essi non
furono condotti “in un secolo illuminato come il nostro” 247 , ovvero non furono condotti
con la dovuta cautela e precisione nello svolgimento dell’esperienza e nella
registrazione dei suoi risultati, e così non poterono certo determinare su basi positives
cos’è realmente l’uomo nello stato pre-sociale. Egli riconosce tutte le difficoltà che
assediano un simile tentativo, anche nel suo secolo, e che “hanno potuto finora
spaventare coloro stessi che ne hanno potuto meglio apprezzare i vantaggi” 248 :

Infatti, una simile esperienza implicherebbe il sacrificio di una vita intera.


Bisognerebbe, dedicandosi a questa impresa, essere abbastanza giovani per
sperare ragionevolmente di poterla condurre a termine, abbastanza filosofi per
fare a meno, durante tutta la durata di essa, di quelli che si chiamano i piaceri
della società, abbastanza disinteressati per immolare la propria fortuna alla
propria gloria, abbastanza benestanti da non essere a carico di nessuno,
abbastanza diffidenti verso i sistemi verso i sistemi da poter osservare senza
prevenzione, e infine abbastanza amici della verità per dire tutto e non omettere
nulla. 249

Insomma una esperienza che richiederebbe di saper trovare un osservatore, sia


‘filosofo’ che disposto a sacrificare un lungo periodo della propria vita per eseguirla
scrupolosamente, un individuo che assommi la piena capacità di guardare scevro dai

245
Cfr. i seguenti passi, che dimostrano la conoscenza di Jauffret della letteratura sull’argomento: “Psammetico, re
d’Egitto, volle un giorno, secondo quanto riferisce Erodoto, tentare un a educazione di questo genere. Ackbar,
imperatore del Mogol, cercò anche lui, alcuni secoli or sono, di fare educare dei fanciulli lontano da qualsiasi
società.”, ivi, p. 272, e, poco più sotto: “Già molti filosofi ne hanno presentito i vantaggi, e hanno auspicato che un
osservatore coraggioso fosse autorizzato a tentarla”, cui segue l’immediata citazione della Lettera sui progressi delle
scienze di Maupertuis, ivi, p. 273.
246
Ivi, p. 272.
247
Ibidem.
248
Ibidem.
249
Ibidem.

96
pregiudizi i fatti, di saperli ragionare, e che abbia una tale passione per la verità da
metterla prima di qualsiasi altra cosa; un’esperienza che richiederebbe un tale dispendio
di energie (intellettuali, esistenziali ed economiche) che la rende anche in quel tempo
difficile da attuarsi. Eppure un’esperienza di una tale “utilità reale”, perché essa
potrebbe contribuire a risolvere difficili problemi sia sull’origine del linguaggio che
sull’origine delle idee e delle nozioni fondamentali dell’animo umano, che la
renderebbero senza dubbio degna della protezione di un governo illuminato, e “così
nuova e così interessante” che non si capisce come non si riescano a trovare uomini
dotati del “coraggio di un Commerson” che della “pazienza di un Réaumur” 250 pronti a
metterla in pratica. Lo stile retorico del testo è tutto mosso dal desiderio di veder presto
messo in atto questa prova, di esortare e spronare giovani ricercatori a dare la propria
disponibilità, tanto che la discussione del problema si conclude sostenendo che:

Quali che fossero i risultati di una esperienza sull’uomo naturale, essi non
potrebbero essere indifferenti. La stessa mancanza di risultati sarebbe utile a
ottenersi, poiché illuminandoci sull’infruttuosità di una educazione
esclusivamente naturale ci insegnerebbe ad apprezzare maggiormente il
beneficio delle istituzioni sociali alle quali l’uomo sarebbe debitore di ciò che è
oggi. 251

Non si può fare a meno di pensare, leggendo queste parole, al giovane Itard, che
proprio negli stessi anni stava conducendo su Victor, l’enfant sauvage di cui abbiamo
parlato in precedenza, una esperienza educativa che lo avrebbe impegnato
completamente per oltre cinque anni della sua vita, che Jauffret doveva conoscere molto
bene 252 , e che si sarebbe conclusa solo alcuni dopo.
“Non sappiamo”, scrive Moravia, “se l’esperimento fu davvero tentato” 253 . Molti dei
lavori che la Société si era prefissa infatti non furono mai portati a termine da essa:
nonostante il favore con cui fu da subito accolta, molti problemi la funestarono negli

250
Ivi, p. 273.
251
Ibidem.
252
Per l’interessamento degli Observateurs alla vicenda di Victor dell’Aveyron si veda Moravia, La Scienza
dell’Uomo, op. cit., pp. 110-12.
253
Ivi, p. 102.

97
anni a venire e in breve tempo quest’esperienza ebbe fine. Le ristrettezze finanziarie
dell’associazione, i troppi impegni dei membri di maggior rilievo, le difficoltà inerenti
alla difficoltà del progetto, e la situazione politica interna di quegli anni fecero sì che
l’entusiasmo di molti ben presto si fiaccasse, e che già nel 1805 essa non esistesse più.
Sul piano scientifico, la cosa più grave è che i suoi Mémoires non furono mai pubblicati,
e che anche i suoi archivi, passati nella seconda metà dell’Ottocento in quelli della
Société d’Anthropologie, sono andati perduti 254 . Nonostante ciò, dalle cronache di
alcuni giornali dell’epoca, possiamo attingere alcune notizie molto interessanti sulla
attività degli Observateurs, e, per quanto qui ci interessa più precisamente, di un
concorso bandito nel 1801:

Determinare, attraverso l’osservazione giornaliera d’uno o più bambini in


culla, l’ordine nel quale si sviluppano le facoltà fisiche, intellettuali e morali, e
fino a che punto questo sviluppo è secondato o contrariato dall’influenza degli
oggetti da cui il bambino è circondato e da quella, più grande ancora, delle
persone che comunicano con lui.255

Analogo concorso, cui Jauffret accenna anche nell’Introduzione alle Memorie della
Società, fu presentato nel 1803, perché anch’esso doveva mostrare “quanta importanza
[la Società] attribuisce alla raccolta di una serie di osservazioni ben condotte sopra i
primi sviluppi dell’uomo appena nato”, e si proponeva di “considerare con occhio
attento la prima alba dello spirito che si sviluppa”, di “tenere un diario particolareggiato
dei progressi dell’intelligenza in un bambino”, di “veder nascere le sue facoltà l’una
dall’altra” 256 . La questione dello sviluppo delle facoltà e delle idee dell’uomo, dei
meccanismi psicologici attraverso cui idee e risposte complesse avevano origine, non
suona certo estranea a questi studiosi di matrice ideologica, e all’evoluzione filosofico-

254
Sulla rapida estinzione della Société e sulle vicende relative ai suoi documenti si rimanda a Moravia, La Scienza
dell’Uomo, op. cit., pp. 94-101.
255
Traggo la citazione da Moravia, La Scienza dell’Uomo, op. cit., p. 100. Il tema del concorso è contenuto nella
«Décade Philosophique», 30 therm. an VIII, vol. 26, pp. 368-69. La «Décade Philosophique» era l’organo ufficiale
degli idéologues, il mezzo attraverso cui diffondevano le idee e le iniziative del movimento. Esso uscì
ininterrottamente tra il 1794 e il 1807.
256
Jauffret, Introduzione alle Memorie, op. cit., p. 271.

98
antropologica avvenuta nel Settecento, che aveva portato a considerare l’uomo come
studiabile tutto entro il contesto mondano-ambientale e a farlo oggetto senza residui
dell’observation empirico-sperimentale. L’“esperienza sull’uomo naturale” è allora solo
una delle derivazioni di un problema più grande: ridotto l’uomo alla sua dimensione
materiale e compresolo come un ente facente parte di un ambiente con cui aveva
rapporti fin dalla nascita (Cabanis si spinse fino a considerare lo stadio fetale) e che lo
influenzava, l’uomo naturale era semplicemente quello modificato solo da cause fisiche
e non dai rapporti con gli altri uomini. Un caso particolare, e un ambiente particolare,
che aveva in più il merito di poter contribuire alla secolare controversia sull’uomo di
natura, e per questo ancora più degno di essere studiato. Per questo Jauffret era tanto
interessato a svolgerla concretamente, tanto da scrivere una lista di istruzioni, di note e
di memento sotto il titolo Sur l’étude de l’homme, scoperta e pubblicata da Robert
Reboul 257 :

perché la natura dell’uomo è così poco nota?; 2. per conoscere l’uomo


bisogna risalire alla sua origine e natura; 3. il selvaggio non è l’uomo di natura;
4. a che cosa sono giunti tutti i tentativi fatti finora per conoscere l’uomo di
natura; 5. un’esperienza sull’uomo di natura è possibile; 6. numerosi filosofi ce
ne hanno presentato i vantaggi; 7. qualità che occorre possedere per condurre
con successo un’esperienza sull’uomo di natura; 8. a quale età i bambini che ci
si propone di osservare debbono essere separati dalla società?; i bambini di
natura si formeranno un linguaggio? osservazioni da fare sull’origine del
linguaggio; 10. fino a che punto l’uomo nasce buono o cattivo?; 11.
osservazioni da fare sull’origine delle idee; 12. risposta ad alcune obiezioni.
Diversità degli spiriti e dei caratteri; 13. i bambini di natura sentiranno qualche
volta delle grida; 14. in che modo saranno nutriti e vestiti i bambini di natura?;
15. in che misura si deve temere la prevenzione dell’osservatore?; 16. i bambini
di natura possono ammalarsi: possono morire; 17. su un passo di Rousseau
relativo all’esperienza sull’uomo di natura; 18. un esperimento sull’uomo di

257
R. M. Reboul, Louis-François Jauffret. Sa Vie et ses Oeuvres, Paris-Aix-Marseille, 1869, pp. 118-19. Il testo, che
traggo ancora una volta da Moravia, La Scienza dell’Uomo, op. cit., p. 102, è raccolto da Reboul insieme ad altri
materiali relativi alla Société des Observateurs e soprattutto al suo fondatore.

99
natura è degno di essere protetto da un governo illuminato; 19. i risultati di un
esperimento di questo genere non possono essere indifferenti; 20. anche arrivare
ad un’assenza di risultati riuscirebbe utile; 21. la sorte dei bambini di natura non
sarà compromessa da questo esperimento: sarà semmai migliorata; 22. gli
uomini illuminati devono incoraggiare l’osservatore e tenersi in contatto con
lui.

Queste indicazioni telegrafiche, che in parte riprendono temi già presenti


nell’Introduzione alle Memorie della Società degli Osservatori dell’Uomo, aggiungendo
solo alcune precisazioni, sia di ordine teorico sia di ordine pratico, mostrano una volta
di più come Jauffret volesse realizzare davvero l’esperienza che aveva proposto, e che
non si trattasse assolutamente di una proposta congetturale, come era stato per alcuni
suoi predecessori in passato.
Se è vero che l’Introduzione alle Memorie della Società degli Osservatori
dell’Uomo è un testo “di importanza storica capitale” 258 ; se è vero che “la moderna
antropologia generale non si è sostanzialmente discostata da questa concezione
istituzionale-programmatica della scienza dell’uomo delineata da Jauffret” 259 , come
scrive Moravia, che essa, come la filosofia, secondo l’adagio heideggeriano, è nata già
grande; se è vero che all’interno di questo testo l’“esperienza sull’uomo di natura” è
presentata come una delle più importanti e ambiziose; se è vero che probabilmente essa
non fu mai tentata, saranno da studiare le ragioni per cui essa fu messa nel cassetto, o se
invece essa è stata riformulata e ripresa da esperimenti di epoche successive. Ma
sappiamo anche che già negli stessi anni, e poi nei secoli successivi, il caso mise gli
studiosi dell’uomo nell’insperata condizione di poter eseguire un’indagine in apparenza
non troppo dissimile da quella auspicata da Jauffret. Forse la fine di questa fantasia è
coincisa con la sua realizzazione, o con qualcosa che vi assomigliava
sorprendentemente, ovvero con il ritrovamento e lo studio scientifico di numerosi casi
di enfants sauvages.

258
Cfr. G. Hervé, Le premier Programme de l’Anthropologie, «Revue Scientifique», XII, 1909, pp. 502-508 (citato in
Sergio Moravia, La Scienza dell’Uomo, op. cit., p. 72).
259
Sergio Moravia, La Scienza dell’Uomo, op. cit., p. 75.

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