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Il metodo e l'antropologia, Malighetti-Molinari

Discipline dea i (Sapienza - Università di Roma)

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Introduzione.

L’antropologia deriva dall’etnografia, parola che deriva da ethnos (popolo) e graphéin (scrivere); ciò indica
proprio che il prodotto è il resoconto dell’osservazione e della condivisione della vita, ecc. con i propri
interlocutori. Problematico è comunque trasformare un’esperienza personale in un resoconto scientifico
che deve dunque essere indipendente dalle proprie sensazioni ed è questa la peculiarità del lavoro
antropologico, la cui particolarità è poi la ricerca sul campo; è il campo infatti che molto spesso identifica
antropologi e interlocutori, per esempio Malinowski e i trobriandesi, Evans-Pitchard e i nuer o gli azande,
Geertz e i balinesi. La maggior parte del lavoro sul campo è spesa alla ricerca di informazioni e significati, a
raccogliere interviste, testimonianze, dialoghi, ecc. L’esperienza è definita da Lévi-Strauss come spaesante,
infatti l’antropologo abbandona il suo paese, cambia le sue abitudine e si adatta a quelle del posto, spesso si
espone al pericolo. Strauss afferma anche che etnografia, etnologia e antropologia sono tre tappe distinte e
consecutive: l’etnografia corrisponde ai primi stadi della ricerca ovvero osservazione, descrizione e lavoro
sul campo, lì’etnologia un primo passo verso la sintesi e l’antropologia l’ultimo stadio della sintesi che
culmina con l’elaborazione scientifica. Per lungo tempo si è ritenuto che il lavoro sul campo è qualcosa che
si impara, oltre che con una penna e un blocco per appunti, con la pratica. In Stregoneria, oracoli e magia
tra gli Azande Evans-Pitchard affermò di aver chiesto dei consigli prima di partire per la sua esperienza;
Westermarck gli disse di non conversare con un informatore per più di venti minuti perché comunque uno
dei due sarebbe stanco, Haddon di comportarsi come un gentiluomo, Seligman di tenersi lontano dalle
donne, Malinowski di non fare l’idiota.
Va comunque detto che l’antropologia è una scienza giovane, finalizzata alla presentazione scientifica dei
risultati.

Il dualismo cartesiano res cogitans e res extensa è quello che ha garantito la validità oggettiva del sapere in
quanto ne consegue una concezione della conoscenza come rappresentazione mentale del mondo; è un
modello che nel corso dell’Ottocento caratterizza la ricerca scientifica e ance l’antropologia lo sfrutta, nel
corso della sua formazione. Inizialmente sono gli evoluzionisti a interpretare l’ideale di oggettività fondando
i loro lavori sul metodo comparativo con un metodo concepito in termini strumentali; nel corso del XIX
secolo invece l’antropologia ha cominciato ad essere identificata come un discorso sull’uomo a partire
dall’esperienza dell’altro, vede un incontro con una dimensione diversa che però può risultare contrastante
con l’accostamento di soggetto e metodo, quest’ultimo nato per elidere la soggettività; l’altro diventa uno
dei tanti, la variante di un’identità, e su questo si basa l’antropologia positivistica. Malinowski recandosi alle
Trobriand avvicina all’istanza dell’osservazione quella della partecipazione; tale ricerca è diventata poi il
mito fondante dell’antropologia. In Argonauti afferma che l’oggettività conoscitiva deriva proprio
dall’osservazione partecipante. Malinowski ha applicato l’osservazione imparziale nel suo resoconto
scientifico ma nel suo meccanismo di difesa, i diari pubblicati postumi, riflettono molto bene la sua
esperienza personale testimoniando come ci sia un’oscillazione tra neutralità e coinvolgimento. Il soggetto
diventa conosciuto ma è allo stesso tempo conoscente e le sue soggettività sono annullate in quanto
sarebbero d’ostacolo alla conduzione della ricerca; il soggetto non è il fondamento del metodo, ma il suo
effetto: la formazione del ricercatore è inevitabile in quanto questo abbandona la sua vita quotidiana per
vivere in un altro contesto, con altre persone, altre regole, ecc.

Per quanto riguarda invece il discorso tra soggettività ed oggettività, è solo di recente che gli antropologi
hanno preso consapevolezza del loro rapporto latente negli scritti. Da Malinowski in poi la questione della
scrittura è stata presetnata come sdoppiata tra una monografia ufficiale e una produzione redatta sul
campo; spesso di ostacolo alla tematizzazione dell’esperienza etnografica è stata anche l’aspirazione di
corrispondere al modello positivista e da qui gli antropologi hanno pensato un’ambivalenza tra soggettivo

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ed oggettivo. È Geertz a inaugurare un ripensamento dei fondamenti epistemologici dell’antropologia


mettendo in discussione il mito di un metodo scientifico univo e fisso e la concezione della conoscenza
come rappresentazione, ecc. La nuova interpretazione di Geertz rifiuta l’empatia come strumento di
conoscenza . il rifiuto della tradizionale antropologia ha portato ala separazione dall’antropologia attuale da
quella classica; l’antropologia si è infatti adattata ai mutamenti del pensiero filosofico e scientifico, con i
ripensamento dei suoi fondamenti di cultura, etnia, razza, comunità, identità. La nuova antropologia si
focalizza sul corpo come strumento di conoscenza; l’immersione della vita nella comunità ospitante,
l’apprendimento pratico, non formalizzato né esplicito affiancata alla preoccupazione di ottenere
informazioni portano a un altro modo di vivere.

Capitolo 1: I questionari.

L’interesse conoscitivo per l’uomo era già vivo durante l’Illuminismo ma è con il positivismo che le scienze
umane i le scienze sociali avanzano aprendo una nuova frontiere della ragione scientifica che le differenzia
dalle scienze naturali solo per il grado di scientificità: le scienze sociali vengono definite come scienze
naturali che riguardano gli individui nelle loro relazioni sociali. Classificazione e controllo dei dati osservativi
erano stati già anticipati dal metodo induttivo di Bacone attraverso le sue tabulae ma la loro visione
matematica fu introdotta da Galilei; nel Saggiatore questo distingue proprietà primarie e secondarie
(oggettive e soggettive per Locke) intendendo con le prime quelle reali, indispensabili per pensare un
oggetto nello spazio (forma, grandezza, numero) e con le seconde quelle che come il colore e il sapore non
hanno sussistenza ed esistono in funzione del rapporto tra le proprietà reali e l’apparato percettivo
dell’uomo; analogamente Newton distinse proprietà assolute e relative: delle prime si occupa la scienza, le
seconde hanno rilievo solo per le cose umane. Importante è la polemica di Cartesio con il suo dubbio
iperbolico, il possibile inganno riguardo i sensi ed i corpi che viene risolto solo quando viene confutata
l’esistenza del genio ingannatore e provata quella di Dio. Il dualismo cartesiano così risolto tra res cogitans e
res extensa fonda il nuovo concetto e di natura; nelle Meditazioni metafisiche offre poi il fondamento della
scienza moderna: osservazione e sperimentazione. Allo stesso tempo la soluzione cartesiana ha poco
successo di fronte agli sviluppi delle scienze della vita tra il Sette e Ottocento. La realtà concepita come
materia in movimento, come universo-macchina, vede poi la naturalizzazione dell’uomo e la visione della
natura come organica e inanimata.

Con il positivismo la fiducia nella scienza si sente anche alla storia, che prende la forma del progresso; tale
idea fu sostenuta da Comte, che vede la storia come il storia della scienza, identifica nelle conquiste del
sapere del suo tempo il vertici dell’evoluzione dell’umanità; positivo significa letteralmente ciò che è posto,
cioè che è dato, effettivo, certo, concreto e reale: significa che la certezza del risultato definisce la natura del
sapere. Le scienze positive sono, secondo Comte, l’astronomia, la fisica, la chimica, la biologia e la
sociologi,a della quale è il fondatore. La matematica non è scienza perché implica un sapere a sé, la
psicologia non p scienza perché riguarda i fatti psichici, ch sostanzialmente non esistono, a differenza dei
fatti sociali. La vicinanza tra sociologia e biologia è importante, dato che questa seconda scienza è quella che
più si avvicina alla prima studiando gli esseri viventi. Alla sociologia, Comte applica la distinzione tra statica e
dinamica sociale; la prima studia le leggi dell’organizzazione sociale e le sue strutture invarianti, la seconda
riguarda l’organizzazione e l’ordine spontaneo che tiene in accordo e in equilibrio le parti del sistema
sociale. Nella concezione di Comte la sociologia predi legge metodi quali comparazione e storicizzazione,
mentre osservazione ed sperimento ritiene siano più consoni alle scienze dei corpi bruti.

Le argomentazioni darwiniane ebbero molte ripercussioni sulle scienze sociali che si stavano formando, tra
queste l’antropologia. La teoria di Darwin è infatti biologica, nella quale il termine evoluzione significa

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trasformazione e deriva dal caso e culmina nell’adattamento e nella lotta per la sopravvivenza;
l’evoluzionismo di Spencer invece fornì un’interpretazione del darwinismo in chiave cosmica e in particolare
applica il darwinismo alla classificazione di tutti i sistemi politici noti, ordinati gerarchicamente in cinque
stadi evolutivi: il gradino più basso è rappresentato dalle società primitive senza capo, poi ci sono quelle con
un capo, quelle composte da una gerarchia di capi, gli stati politici e le società moderne. Anche in Comte la
nozione di evoluzione ha una matrice naturalista e definita dall’umanità, che deve necessariamente passare
per tre stadi: teologico (infanzia, credenza in esseri sovrannaturali), metafisico (adolescenza, spiegazione
attraverso concetti astratti ei filosofici) e positivo (maturità intellettuale, trionfo delle scienze). La
progressione sul piano sociale è costruita da Comte ricalcando la storia dell’Occidente europeo seguendo
sempre tre stadi: militare (evoca le belligeranza medievali), legale (sul modello degli stati assoluti) e
industriale (massima espressione del progresso umano). Ogni momento è condizione generativa di un
ulteriore sviluppo. La sociologia è l’apice del pensiero della storia umana; ,a presunzione di aver raggiunto lo
stadio finale del progresso umano però fa risultare i selvaggi studiati dagli antropologi come rappresentanti
della preistoria dell’umanità. Come la storiografia infatti anche l’etnografia rappresenta un allontanamento
temporale e spaziale.

Il positivismo eleva la separazione tra teoria e dati; si assume che l’osservatore rispecchi in maniera
oggettiva la realtà e che il ricercatori verifichi una teoria esistente e ne formuli una nuova; nel caso
dell’antropologia questa impostazione ha prodotto una contrapposizione tra il momento descrittivo della
ricerca, ovvero l’etnografia, e il sapere teorico, frutto della scienza antropologica. È per questo che nel XIX
secolo i ruoli vengono differenziati: viaggiatori, esploratori forniscono informazioni di prima mano e poi un
ristretto numero di professionisti lavora su di esse. Walter Baldwin Spencer diede al suo assistente inviato
sul campo moltissime domande da fare riguardo le informazioni necessarie; Spencer fu attratto dal progetto
del museo di Oxford di costruire una collezione che permettesse d mostrare l’evoluzione di diverse tipologie
di oggetti, dalle forme primitive a quelle contemporanee. Partecipò dunque alla spedizione nel deserto
centrale australiano dove collaborò con Gillen; presto divenne lui a raccogliere informazioni in base ai
questionari mandatigli da Spencer per verificare i lavori di Fison e Howitt, che descrissero poi nei loro scritti
i nativi come rappresentanti di uno stadio remoto della storia dell’umanità. La figura dell’antropologo
armchair fu però anche criticata, Evans-Pitchard ritenne sorprendente il fatto che alla fine del XIX secolo
ancora nessun antropologo avesse condotto una ricerca sul campo.

A consolidare la distinzione tra antropologi armchair e ricercatori sul campo l’introduzione dei questionari
antropologici, elenchi di domande incentrate sui principali problemi che poi sarebbero state elaborate dagli
studiosi; nel 1939 la British Association for the Advacnement of Science (BAAS) incaricò una commissione di
elaborare una serie di domande riguardanti razze minacciate; fu questa a fondare l’Ethnological Society of
London, con lo scopo di collezionare fatti e dati etnografici; sia Morgan che Frazer redassero
autonomamente i loro questionari, il primo incentrato sulla parentela e il secondo sulle relazioni sociali,
sulle tribù, ecc. La tecnica dei questionari esercitò un forte impatto sulle indagini relative a popolazioni
considerate ai primi stadi della scala evolutiva e presto divenne fondamentale, tanto che nel 1874 si arrivò,
per opera di vari autori sotto la BAAS e il Royal Anthropological Institue of Great Britain and Ireland, alla
pubblicazione delle Notes and Queries on Anthropology; furono 4 edizioni distinte, l’ultima del 1912, che
divennero un riferimento per i corrispondenti degli antropologi armchair. La prima edizione vide la
collaborazione di Tylor (solo tre anni prima era uscito Primitive Culture), Lubbock, Evans e Galton ed era
organizzato in 3 sezioni: Costituzione dell’uomo, Cultura e Miscellanea. Man mano che le edizioni
avanzavano, l’uso per l’antropologia diventava sempre più definito, si pensi che già l’edizione del 1892 i
chiamava ‘Guida alla ricerca antropologica per viaggiatori o altri’. L’edizione più importante e completa è
quella del 1912, divisa in 4 sezioni: antropologia fisica, tecnologia, sociologia, arti e scienze.

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In un saggio del 1889 Tylor prende in considerazione le varie forme di famiglia ed applica il metodo della
statistica; il suo nuovo metodo cioè si base sulla distribuzione statistica di frequenza delle variabili; la
distribuzione indica il numero di volte in cui accade il fenomeno studiato, le variabili sono caratteristiche
rilevate in una popolazione di riferimento. In tale saggio per esempio su 350 popolazioni, nota che in 66 di
queste è presente il costume dell’evitamento, cioè si evitano contatti con la famiglia del coniuge ma accade
in modi diversi: in 8 è reciproco, in 13 la moglie evita i parenti del marito, nei restanti 45 viceversa. Invece
282 di queste mostrano tre tipologie di residenza matrimoniale: in 65 il marito prende residenza presso la
moglie, in 141 viceversa e nei restanti 76 il marito si trasferisce prima presso la moglie e poi questa si
trasferisce presso quella originaria del coniuge. Applicando formule matematiche e statistiche e avendo
stabilito un legame tra i due costumi, Tylor ipotizza poi che possa trattarsi di modalità di comportamento
utilizzate per marcare la distanza dei membri di una famiglia da un nuovo membro acquisti. Morgan invece
si distacca da tale interpretazione e dopo aver studiato i diversi sistemi di parentela, ne distingue due,
classificati (i parenti consanguinei in linea collaterale non vengono distinti da quelli in linea diretta: non c’è
distinzione tra padre e zio) e di tipo descrittivo (i parenti consanguinei vengono distinti); inoltre distingue
cinque gradi di evoluzione della famiglia che passano per la famiglia consanguinea (matrimonio consentito
tra fratelli e sorelle), punalau (divieto di matrimonio tra fratelli e sorelle), sindiasmiana (le coppie nascono e
si separano spontaneamente), patriarcale (il sesso maschile ha l’autorità suprema), monogamica (formale
uguaglianza tra i coniugi).

Capitolo 2: Il lavoro sul campo.

Verso la fine del diciannovesimo secolo la concezione di ricerca etnografica cambia; nel 1884 venne
promosso un progetto relativo alla costa del Pacifico canadese che ebbe un grande impatto sulla scienza
antropologica; nel 1892 fu varato anche un programma per la realizzazione dell’Ethnographic Survey of the
United Kingdom. Tornando al programma prima menzionato, mirava alla raccolta di dati di tipo fisico,
enologico, archeologico e folklorico nelle Isole Britanniche; in quegli stessi anni tale progetto venne
applicato all’India. È proprio il decennio degli anni Ottanta che gli stessi storici della materia infatti
considerano come separazione dell’etnografia moderna dagli esperimenti prima condotti. Era difficile porre
le domande dei questionari senza conoscere la lingua nativa e spesso dunque non se ne comprendeva
l’importanza o la risposta stessa; per questo in alcuni studiosi maturò l’idea di condurre personalmente le
ricerche sul campo, accostandosi criticamente a quelle prima condotte e sostenendo la necessità di
verificare personalmente. Prima della rivoluzione etnografica di Malinowski, vi furono altri esempi
importanti dell’osservazione in prima persona.

Tra questi l’esperienza francese della Société des Observateurs de l’Homme; fondata nel 1799 da Jauffret,
intendeva promuovere lo studio scientifico del genere umano nella sua variabilità fisica, sociale, culturale e
linguistica e vide il coinvolgimento di molti studiosi, come Lamarck, Volney e De Gérando. Quest’ultimo in
Considerazioni sui vari metodi da seguire nell’osservazione dei popoli selvaggi proporne che l’oggetto della
ricerca scientifica siano i selvaggi e che le informazioni siano raccolte in prima persona da soggetti formati,
non da semplici esploratori, e dunque si riavvicina al metodo scientifico e alle sue fasi di osservazione,
induzione ed esperimento. Inoltre afferma che molti errori comuni erano commessi dai viaggiatori inesperti
nell’osservare i popoli, come l’incompletezza delle loro informazioni causata dalla brevità dei soggiorni,
dallo scarso rigore nell’annotazione delle particolarità, dall’attenzione agli effetti e non alle cause,
prospettando invece pratiche opposte, come la lunga permanenza sul campo, l‘organizzazione sistematica
dei dati raccolti e la necessita di un osservatore esperto che non tragga conclusioni affrettate. Pone inoltre
particolare accento sulla questione linguistica, cioè la non conoscenza della lingua dei nativi non porterà
mai a capirli fino in fondo e oltretutto non si potrà mai interagire con essi. Pur essendo piuttosto

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promettente il programma della Société non sarà portato avanti dato che nel 1805 Napoleone deciderà di
finanziare solo gli ambiti di ricerca ritenuti utili al progresso.

Per quanto riguarda invece gli Stati Uniti, la distinzione tra teorici e raccoglitori era meno netta, infatti ci si
aprì molto precocemente al concetto di indagini compiute in prima persona da parte dei ricercatori; la
fondazione di istituti di ricerca ebbe molta importanza nella promozione delle indagini di tipo etnologico.
Tra i contributi più importanti quello di Henry Schoolcraft, collaboratore della Smithsonian Institution e tra i
fondatori dell’American Ethnological Society; uno degli istituti che si distinse maggiormente fu il Bureau of
American Ethnology, diretto per venti anni da Powell, sotto la cui direzione venne data particolare
importanza allo studio delle lingue native. In tale contesto importante fu Cushing, che ebbe l’incarico di
studiare gli arrangiamenti e l’architettura domestica tra gli zuni decidendo poi di rimanere tra di loro e
diventare membro della loro società. Nel 1884 venne creata anche una Committee per promuovere una
ricerca sugli indiani canadesi, che ebbe come esponenti Tylor e il linguista Horatio Hale, e appunto fu
incentrata sulle caratteristiche fisiche, sulle lingue e sull’economia dei nativi canadesi. Nell’ambito della
Committee molto importante fu il contributo di Boas, che si considerò un grande sostenitore della ricerca
sul campo e si schierò contro il metodo evoluzionistico, sostenendo che gli evoluzionisti avevano finto per
considerare le somiglianze culturali come frutto di un’uniforme modalità di funzionamento della mente
umana, piuttosto che affermare l’esistenza di connessioni tra i popoli e che avevano ridotto le diversità
umane a semplici categorie. Boas invece si schierò a favore di uno studio contestuale della cultura; anche se
il suo contributo non fu decisivo per la riformulazione del metodo etnografico, la prospettiva idiografica da
lui sostenuta sarà ripresa da alcuni studenti, come le antropologhe Benedict e Mead o da Geertz.

In Gran Bretagna inizialmente si preferiva l’applicazione del metodo sperimentale ma presto fu proprio
questo a portare a un cambiamento e ridefinire l’oggetto dell’antropologia; recarsi personalmente sul
terreno d’osservazione, confrontarsi con le tecniche di raccolta delle informazioni e restringere le aree di
ricerca per aumentare la precisione portò a un fondamentale cambiamento metodologico che ebbe effetti
anche sulla forma del resoconto scritto. Un forte sviluppo alla pratica etnografica fu dato da Haddon, che
pianificò una spedizione nello stretto di Torres con l’università di Cambridge, dove era lettore di
antropologia fisica. La spedizione vide l’applicazione dalla psicologia sperimentale, molti studiosi dei più vari
settori coinvolti e soprattutto terminò con un grande successo producendo 6 volumi di dati e numerosi
articoli; l’esito principale non fu teorico ma metodologico. Haddon incoraggiò il fieldwork sostenendo la
necessità di investigare sul campo e la necessità di osservatori formati contro i rapidi raccoglitori di
informazioni, anche per ottenere partecipazione dai nativi. La sua esperienza fu comunque piuttosto
limitata ed episodica; nel corso della spedizione nello stretto di Torres fu particolarmente attivo Rivers, che
rimase lì senza interruzioni affermando che ad avere importanza non fossero solo i fatti, ma anche il modo
con cui venivano raccolti e promosse la scientificità del suo metodo in ordine con la sua volontà di fondare
l’antropologia su un metodo rigorosamente scientifico. Chiamò il suo metodo genealogico, cioè partiva
dall’analisi delle tipologie di parentela per indagare poi i problemi delle loro società; sono dati che
potrebbero essere utili per definire le regole matrimoniali, le eredità, le migrazioni, i ruoli rituali, la
demografia, ecc. Rivers dette un contributo fondamentale alle Notes and Queries del 1912, dedicando
molto spazio alla parentela e suggerendo che fossero utilizzati solo cinque termini, ovvero padre, madre,
figlio, marito e moglie, e dedicando particolare attenzione alle effettive modalità di conduzione della ricerca
sul campo, soprattutto riguardo il raccoglimento di informazioni quali elementi linguistici, formule magiche
e rituali e affermando che il ricercatore non dovesse imporre la propria visione del mondo e prendendo in
considerazione il modo di porre le domande, sostenendo che se queste fossero state poste in modo largo e
aperto, anche la risposta sarebbe stata tale. Aggiunge anche consigli su come relazionarsi alle persone
intervistate e su come acquisire ulteriori informazioni, le quali devono essere subito annotate, bisogna

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anche descrivere il contesto nel quale si svolge un’azione, trascrivere i nomi degli informatori, ecc. Tale
esperienza fece di Rivers il più importante antropologo britannico; la sua rivoluzione fu poi portata avanti da
Malinowski; secondo Evans-Pitchard il poco tempo speso tra i nativi costituiva ancora un limite per il pieno
sviluppo dell’antropologia.

Capitolo 3: L’osservazione partecipante.

L’origine della moderna tradizione di ricerca etnografica viene fatta risalire a Malinowski. Si dice che al
momento dello scoppio della Prima guerra mondiale fosse andato in Australia, a Melbourne, per un
congresso e che fu internato in quanto polacco e dunque cittadino sotto l’impero austriaco. L’internamento
fu proprio la condizione che gli permise di incentivare la sua ricerca tra gli anni 1915-1916 e poi tra il 1917 e
il 1918. Argonauti del Pacifico occidentale, pubblicato nel 1922, è un test che fu elogiato da moltissimi
antropologi: Frazer ne riconobbe l’alto valore scientifico sia per l’ottima preparazione del ricercatore che per
la specificità del metodo, Haddon lo definì il punto più alto della ricerca e dell’interpretazione etnologica,
anche Evans-Pitchard riconobbe l’eccezionalità del lavoro del suo maestro, ecc. Malinowski non fu il primo a
vivere tra i nativi ma l’importanza del suo lavoro deriva da altro, cioè dalla presenza di una preparazione
pronta a recepire ciò da lui cercato, cioè aveva una formazione in antropologia ed il suo maestro era stato
Seligman. Il percorso nelle isole Trobriand fu decisivo, mentre l’esperienza precedente in Nuova Guinea era
stata definita da Malinowski stesso come un fallimento, poiché scarna dal punto di vista dei contenuti ma
anche perché condotta secondo informazioni di altri ricercatori.

Con Argonauti è inaugurata l’antropologia economica, dato che l’oggetto principale della monografia è
proprio un sistema di transazione commerciale che coinvolge un gran numero di comunità nello scambio e
nel commercio di varie oggetti. La ricca documentazione fotografica venne usata da Malinowski proprio per
provare quello che stava affermando e per confermare l’oggettività del metodo; la rivoluzione che
Malinowski era intenzionato a condurre derivava da una rigorosa applicazione del metodo scientifico e
vedeva la ricerca sul campo come subordinata all’elaborazione teorica. Illustra i principi, chiamata le tre
pietre angolari del terreno, su cui procedere: in primis l’antropologo deve conoscere principi, finalità e
risultati della ricerca scientifica, deve poi vivere tra le persone che stia e infine applicare alcuni metodi per
raccogliere, elaborare e definire i dati. L’insistenza sula preparazione scientifica dell’antropologo è tale
perché necessaria; è la teoria che consente infatti poi di elaborare i dati e le conclusioni. Per quanto
riguarda il vivere tra gli indigeni, si intende che l’osservazione diretta sul campo, l’interagire e il parlare con
chi si studia sono le uniche fonti attendibili; bisogna tagliarsi fuori dai contatti con gli altri uomini e
padroneggiare la lingua degli indigeni per instaurare una vera partecipazione e vivere in armonia con
l’ambiente circostante e in empatia con gli interlocutori. Riguardo la terza indicazione invece, questa ha
l’obiettivo di tradurre in termini operativi i primi due attraverso la documentazione statistica; come era già
stato visto con Tylor, la statistica sostiene la scientificità e il rigore del metodo proposto. Infine Malinowski
sostiene indispensabile tenere un diario etnografico nel quale raccogliere le modalità di comportamento
quotidiane dei nativi.

Malinowski inaugura un modello di studio ella cultura che fornisce un profilo chiaro della società indagata e
fu anche questo un punto che sostanzialmente modificò la disciplina; Malinowski fa coincidere il concetto di
cultura con quello di società ma ancora più importante fu il tipo di scrittura utilizzata, la monografia
etnografica. Questa segna una particolare forma di produzione testuale consistente nella ricostruzione di un
intero modo di vita nella sua globalità, scomposto ed analizzato, ed è fondato sull’osservazione diretta e
prolungata e finalizzata alla restituzione oggettiva, infatti la forma è per lo più impersonale. Peculiarità della
monografia è la restituzione in forma narrativa di un’esperienza dai caratteri scientifici.

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Nel 1967 vennero pubblicati postumi due diari scritti da Malinowski durante le sue esperienze a Mailu e
nelle Trobriand; da questi emerge una grande differenza con le note di campo raccolte nelle monografie;
questo perché nei diari è presente tutto il coinvolgimento personale e non manca di riferirsi agli indigeni con
termini come nigger o selvaggi; ciò fa capire che l’esperienza di Malinowski sul campo fu segnata da un
certo disagio, rivelò inoltre l’impossibilità dell’isolamento teorizzato e ancor di più confuta il metodo sul
quale lo stesso Malinowski voleva fondare l’antropologia, ovvero l’osservazione partecipante. Infatti la
partecipazione implica un certo livello di coinvolgimento personale, cosa che invece è esclusa nella pratica
oggettiva che è l’osservazione, dunque l’espressione si rivela ossimorica; inoltre come ha appurato Wax, dai
diari emerge che Malinowski non partecipò alla pratiche di commercio kula che sono al centro della sua
opera; una volta gli fu concesso di partecipare ma il maltempo costrinse le canoe a rientrare e dunque la
sua figura venne vista di cattivo auspicio. Va comunque specificato che il contesto in cui Malinowski
condusse le sue ricerche era molto complicato anche a causa dell’applicazione delle dure leggi sul lavoro
imposte dalla madrepatria inglese; l’antropologo manifesta disapprovazione vero i funzionari e i missionari
insensibili ed ignoranti; ribadisce comunque sempre la superiorità dell’antropologo rispetto ai nativi
studiati.

Comunque i lavori di Malinowski formarono gli etnografi a lui successivi, soprattutto i suoi allievi e poi anche
quelli di Radcliffe-Brown; quest’ultimo aveva negato il valore esplicativo che Boas aveva dato all’etnografia e
alla storia e aveva posto come oggetto di studio dell’antropologia le forme della vita sociale, cioè una realtà
empirica e oggettiva accessibile all’osservazione diretta ed immediata, per questo il suo contributo non fu
molto significativo. Tra gli allievi di Malinowski fu importante Evans-Pitchard con i suoi lavori sugli azande e
sui nuer, che diventarono modelli per gli studi etnografici. Criticò sia il comparativismo degli evoluzionisti
che l’approccio di Radcliffe-Brown, sostenendo che la comparazione va circoscritta nelle applicazioni e
limitata alle sue pretese esplicative perché comunque serve a comprendere determinate specificità;
l’Università di Chicago ebbe il merito di estendere il lavoro di Malinowski ad altri ambiti, per esempio la
Scuola ecologica di Robert Park applico gli strumenti dell’antropologia malinowskiana al mondo della ricerca
urbana. I sociologi urbani che si avvicinarono all’antropologia non a caso produssero lavori in cui era
predominante l’interesse nei confronti di tematiche come le istituzioni ed i modi di vita; Robert e Helen
Lynd ripresero il principio di Wissler secondo cui la religione americana andasse studiata nel suo ambiente
sociale e, a tal proposito, concentrarono la loro attività di sociologi sullo studio delle pratiche religiose di
una piccola cittadina americana di provincia contribuendo ad avvicinare il metodo etnografico allo studio di
fenomeni culturali proprio delle società industrializzate influenzando anche alcuni lavori successivi. Gli studi
nati dall’intersezione tra interessi sociologi e antropologici porteranno a prestare attenzione a comunità più
complesse, come quelle dell’America Latina, chiamate da Redfield folk society. Nel corso degli anni
Cinquanta e Sessanta anche l’antropologia britannica sviluppò una serie di correnti di studi sul fenomeno
urbano, in particolare sotto la Scuola di Manchester di Max Gluckman, influenzate principalmente dallo
struttural-funzionalismo di Radcliffe-Brown. Gli approcci malinowskiani vennero criticati da Radin, che li
considerava poco attendibili, che poi criticò anche i lavori di Margaret Mead, la prima antropologa a
condurre un lavoro fuori dagli Stati Uniti, che partì per Samoa senza conoscere la lingua del posto e
raccogliendo informazioni in luoghi diversi e adattando dei metodi che furono ritenuti confusi e
scarsamente scientifici. Radin a sua volta fece uso delle storie di vita, cioè forme di intervista nelle quali un
intervistato appunto a partire da un fatto vi ricollega alcuni avvenimenti importanti della sua vita, metodo
derivato dall’influenza di psicologia e psicanalisi; ma comunque prima di Geertz non ci sarà alcun contributo
metodologico nell’antropologia statunitense. Per quanto riguarda quella francese, figura fondamentale fu
Marcel Mauss, che privilegiava il lavoro di gruppo e raccolte di informazioni da parte di osservatori
specializzati e il suo metodo era inoltre basato sull’intensive method. Si ricorda anche van Gennep, che

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applicò il metodo comparativo allo studio del folklore europeo, e Griaule, che partecipò alla Missione Dakar-
Gibuti coniugando l’etnografia al lavoro di gruppo e venne inoltre finalizzata alla raccolta di materiali per la
madrepatria ma utilizzò un approccio aggressivo per superare le ostilità dei nativi e infatti il suo metodo
fallì. Le riflessioni malinowskiane ebbero successo in Cina, grazie a Fei Xiatong, che coniugò l’etnografia di
Malinowski con lo struttural-funzionalismo di Radcliffe-Brown.

Capitolo 4: Il circolo ermeneutico.

I vari avvenimenti del XX secolo, dalle guerre, dalla decolonizzazione, dalla guerra fredda e dalla guerra del
Vietnam, ecc. cambiarono la concezione dell’antropologia, etichettata come figlia dell’imperialismo. La
disciplina ha poi finito per addossarsi problemi del mondo contemporaneo, si parla per esempio di
antropologia femminista; il processo di ridefinizione disciplinare ebbe impulso da Geertz e dal suo
Interpretazione di culture; questo pose le basi teoriche per un’antropologia che affronta la crisi dei
paradigmi totalizzanti attraverso gli stimoli provenienti da diversi campi del sapere, come la filosofia del
linguaggio, la sociologia, la critica letteraria. Geertz si oppone di applicare il metodo scientifico delle scienze
naturali a quelle che studiano l’uomo, respinge il neopositivismo e il neoempirismo e approcciandosi
invece alla scienza contemporanea, quella delle particelle, della neurofisiologia, ecc. La scienza
contemporanea è infatti quella che restituisce immagini complesse e disordinate di un mondo di oggetti non
assoluti, che magari fanno riferimento alle scienze sociali o a quelle dure, come la fisica sub-atomica e la
quantistica e il suo indeterminismo: ad essere indeterminato è il valore dell’interazione finita tra oggetto e
strumento. È solo quando viene liberata dai dogmatismi, dalle speculazioni, ecc, che la scienza può essere
ricondotta all’uomo e alla sua capacità di dare senso al mondo: Bachelard la definì fenomenotecnica; gli
oggetti delle scienze, sia sociali che naturali, sono costrutti artificiali. Su questa riga Geertz impegna
l’antropologia all’elaborazione di un’antropologia della conoscenza antropologica, nel senso che vuole
capire cosa sono gli oggetti e dunque comprendere le condizioni della loro pensabilità. Geertz afferma sia il
linguaggio a costruire gli oggetti, a formare e a trasformare i suoi significati. La totalità dei significati crea il
mondo. Le scienze umane per Geertz diventano interpretative e in base al suo approccio ermeneutico
l’attività conoscitiva diventa formatrice e piuttosto che rappresentare i fenomeni dà loro un valore.

Secondo Geertz il metodo comparativo portava a conclusione generali e superficiali; l’idea di Geertz è quella
di non tracciare alcuna linea tra l’universale e il particolare essendo questa una distinzione molto difficile da
fare che potrebbe tra l’altro risultare poco veritiera; non mette in discussione la possibilità di effettuare
comparazioni ma la loro veridicità in quanto piuttosto comparare bisognerebbe trovare analogie e metafore
inaspettate. Secondo Geertz si può cogliere la specificità dei fenomeni non tanto nella comparazione delle
somiglianze quanto nel confronto delle differenze e per questo l’antropologia di Geertz, chiamata nook and
cranny ovvero angolo e nicchia, trova nel particolare le verità generali; inoltre Geertz sollecita l’elaborazione
di un pensiero sociale che riesca a comprendere la complessità della differenze. L’approccio di Geertz è
quello della metodica dell’inferenza clinica, cioè invece di sottoporre una serie di osservazioni a una legge
che le governi, l’inferenza cerca di collocare un insieme di segni in un contesto che possa dar loro significato.
Ciò che caratterizza il metodo di Geertz è dunque il risalire all’universale attraverso contesti particolari.

Dalla prospettiva di Geertz l’antropologia risulta essere un accordo sul significato che lo studioso attribuisce
a quando conosciuto dall’interlocutore; l’analisi culturale è definita come incompleta e controvertibile.
L’accettazione di criteri differenti da quelli fissati dalla concezione moderna della scienza sta a significare che
lo sviluppo scientifico può essere dato da modalità differenti. Per questo Geertz non parla mai di verifica ma
di valutazione; il valore della teoria dipende dalla capacità di mostrare il suo oggetto e dalla capacità del suo
autore di portarla avanti. La funzione dell’autore dice Geertz che è infatti proprio la persuasione, attraverso

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il testo e la sua organizzazione. La natura prospettica della conoscenza e l’esclusione di verifiche esaustive
portano a considerare l’atto interpretativo come morale, ne deriva una sorta di responsabilità.

La revisione che Geertz fa delle discipline sociali si fonda sulla riscoperta della dimensione ermeneutica,
basata sulla comprensione, sull’interpretazione e il carattere costruttivo della conoscenza. All’interno del
circolo ermeneutico l’antropologia interpretativa si inserisce insieme al rapporto tra interpretazione e
traduzione; ontologia ed epistemologia sono legate tra loro: il soggetto conosce il proprio oggetto a partire
da sé e si riconosce come soggetto nell’interazione con l’oggetto. Secondo il circolo ermeneutico soggetto
ed oggetto si implicano a vicenda: il soggetto interpreta un oggetto che ha significato nel suo essere colto da
qualcuno; il soggetto è però inteso come soggetto storico, fondato sulla sua cultura e sul suo sapere. Geertz
riprende la prospettiva ermeneutica sostenendo che l’essere e la cosa, prima di ogni altra contrapposizione,
siano legati dalla precomprensione e la circolarità definisce la coappartenenza entro cui l’interprete è
mediato con il proprio oggetto, dunque le interpretazioni dell’antropologo e quelle dell’indigeno si fondono
e si richiamano. Il metodo interpretativo fa sì che l’antropologo metta in discussione le sue teorie di
partenza e che interpreti la realtà e il linguaggio ponendoli in relazione con le sue teorie e infatti l’attività
conoscitiva vede così un’implicazione di soggetto ed oggetto.

Geertz elegge a obiettivo della propria etnografia l’analisi dei significati soggettivi che costituiscono le azioni
degli individui nel mondo sociale, infatti coniuga le indicazioni dell’ermeneutica con la sociologia per
fondare una fenomenologia scientifica della cultura fondata sull’analisi delle strutture di significato dei
termini, dei segni tipici della vita degli individui. Indaga il punto di vista dell’attore mettendo le sue azioni in
relazione con gli ideali, le attitudini e i valori per ricostruire livelli di significato non espliciti nelle prospettive
degli attori ma di cui va ripreso il punto di vista per capire come fondano il loro agire; è un approccio
definito da Geertz thick description, descrizione densa, espressione di Ryle. Geertz compara tic involontari
e ammiccamenti, i primi sono solo gesti mentre i secondo sono esempi di comportamento significativo,
appunto l’oggetto dell’etnografia; la prospettiva è infatti per lo più linguistica e comunicativa ma si riferisce
alla sfera pubblica, quella dell’azione, nella quale sostiene non ci siano identificazioni empatiche. Geertz si
oppone alla tradizione antropologica intenzionata a identificare l’elemento significativo del comportamento
con qualcosa di mentale antecedente all’azione e sostiene che questo pregiudizio sia derivato dal dualismo
cartesiano e dalla divisione tra la parte fisica e quella del pensiero; è quella che Ryle chiama la leggenda dei
due mondi e Geertz sostiene sia impossibile risalire dai comportamenti agli antecedenti mentali e ritiene
che le uniche manifestazioni mentali da analizzare sono le azioni e le reazioni umane come il tono di voce o i
gesti. Geertz però pur affermando che per capire il comportamento dell’uomo in base ai predicati mentali
bisogna andare oltre l’azione, afferma anche che il mentale è qualcosa di osservabile e trova appunto la sua
manifestazione in talune azioni e cose, che siano abilità, abitudine, inclinazioni analizzare attraverso il
principio dell’interpretazione soggettiva. Geertz chiamò la sua metodologia epistemologia pratica, una
metodologia che renda comprensibili i pensieri. Il pensiero è qui considerato come attività pubblica ed
intersoggettiva, viene costruito su elementi simbolici e in base ai contesti di comunicazione e all’esperienza;
il pensiero è il centro della soggettività umana e sottolinea il radicamento dell’azione nel linguaggio e nelle
pratiche di comunicazione e solo in secondo luogo il pensiero è una questione privata. Infatti inviata a
comprenderlo dal punto di vista etnografico, descrivendo le modalità per le quali assume il suo significato.
In sintesi, è come se fondasse una scienza empirica delle idee.

Escludere l’immedesimazione empirica significa non assumere il punto di vista del nativo, infatti il metodo
ermeneutico non si fonda su questo ma su una fusione di orizzonti. È qui che viene definita la differenza tra i
discorsi degli antropologi e quelli degli informatori: i membri di una stessa cultura non posso interpretare
dal punto di vista antropologico la loro stessa cultura. Geertz ritiene a questo proposito che le

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interpretazioni antropologiche siano diverse dai resoconti degli informatori; le finalità antropologiche sono
inoltre diverse da quelle native. Un incontro sul campo è possibile quando accettato dalla comunità di
riferimento e quando l’antropologo in questione riesce a capire e soprattutto a tradurre il linguaggio dei
nativi. La dinamica del circolo ermeneutico insegna a non prescindere dal punto di vista dell’attore ma di
non fermarsi neanche ad esso e dunque andando oltre, individuando i significati del loro modo di
presentarsi, dei loro gesti, ecc. L’antropologo deve sia capire il punto di vista dei nativi sia cosa loro pensano
di star facendo; gli esiti a cui l’antropologo arriva spesso sono molto stratificati e costituiscono di fatto
quello che l’etnografo ha registrato, che è stato di comprendere e che i nativi hanno saputo dirgli. La
traduzione non è pensata come una semplice trasposizione di parole, ma implica un trasferimento simbolico
da una lingua all’altra, da una cultura all’altra, è un’operazione conoscitiva e interpretativa che però
comporta un’irrimediabile differenza tra il testo originale e quello tradotto; l’antropologo utilizza i significati
appartenenti alla propria cultura per ricostruire i modi in cui i soggetti appartenenti a differenze culture
danno significato a se stessi, stare nella differenza e mettere in luce e dare un significato a ciò che è
straniero.

Ciò che Geertz critica principalmente della moderna antropologia è il ruolo della scrittura; la disparità tra
antropologo e nativo era ormai troppo evidente, l’antropologo a volte doveva negoziare per la sua presenza
e Geertz ne ritrova le cause proprio nella scrittura; considerando la pratica etnografica nel senso
etimologico Geertz sottolinea che oltre a definire un’esperienza sul campo, l’etnografia era caratterizzata dal
rapporto diretto con l’oggetto dello studio e della trascrizione di esso; Geertz pose proprio il problema della
trascrizione delle azioni e della fissazione del significato dell’esperienza. Riprendendo un concetto di
Ricoeur, considera il lavoro dell’etnografo come equivalente all’attività di inscrivere i contenuti dei discorsi
orali nelle note di campo e nel testo finale; codificava in un certo senso una cultura in un’altra. Geertz
propose pratiche di scrittura nuove, complesse e più aperte, con la visione di essa di un mezzo per costruire
la realtà; pone il problema della firma, cioè la presenza dell’autore nel testo, premendo per l’utilizzo della
prima persona e l’inserimento di memorie personali nel testo, oltre che le processualità dall’apprendimento
e dunque le circostanze che determinano la ricerca. Sollecita la produzione di un testo polifonico rispetto al
vecchio modello monofonico e fonologico; tra le varie critiche che rivolge, particolare è quella a Dwyer, il cui
stile prevedeva lunghe citazioni e narrazioni e in un certo senso la decurtazione dell’antropologo che
rimaneva un soggetto passivo ed interveniva solo nelle note, dunque il cui ruolo era finalizzato solo alla
raccolta di dati e alla trascrizione dei dialoghi. In molti hanno mostrato come i testi di Geertz non riescano a
realizzare i suoi stessi insegnamenti e a emanciparsi dai limiti da lui criticati e che piuttosto sto che far
emergere il rapporto con il campo e gli interlocutori costruiva passivamente legami con altre persone; molti
altri hanno sostenuto che i suoi lavori facevano emergere i significati ma non i soggetti e faceva sembrare
l’antropologo il solo scrittore, non la figura presente sul campo e gli interlocutori erano semplicemente
assente, nel senso che piuttosto che un legame tra antropologo e interlocutori, il legame era tra
l’antropologo e il suo scritto.

L’etnografia postmoderna ha visto l’influenza di varie figure come Rabiow, Marcus, Clifford, Fisher, Tyler e
molti altri che hanno contribuito a un’espansione delle potenzialità della scrittura; inoltre constatarono che
l’etnografia del primo Novecento era stata caratterizzata dallo sviluppo in un contesto politico ed economico
dominato dal colonialismo, nel quale le culture non erano pensate come tali ma come resistenza,
appropriazione, contraddizioni, ecc. Molti topoi del lavoro antropologico, come quello di cultura, comunità,
identità, etnia, razza, tribù e nazione, furono rivisti così che la realtà etnografica assunse tratti novi, diversi.
Gli autori postmoderni si rifiutarono di promuovere la globalizzazione come qualcosa che potesse risolvere i
conflitti interni criticando quanto più le trasformazioni del mondo contemporaneo e le ricerche cambiano, il
campo viene de localizzato e diventa l’insieme del percorso dell’antropologo ricercatore che si concentra

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sugli assemblaggi, cioè non più su un oggetto fisso e stabile ma sulle combinazioni di elementi con
traiettorie temporali eterogenee e diversi contesti culturali; il lavoro diventa inoltre collaborativo,
interdisciplinare e transdisciplinare; ad essere multi situato non è solo lo spazio di indagine ma lo stesso
antropologo, che attraversa mondi culturali diversi mostrando meglio anche la complessità della loro
esperienza.

Capitolo 5: Antropologie dal corpo.

Negli ultimi anni del Novecento alcune prospettive metodologiche hanno posto il corpo al centro del
metodo etnografico; il soggetto conoscente non è più concepito come semplice osservatore ma come una
presenza viva, attiva, e a ciò si arriva proprio considerando l’antropologo come figura corporea che vive la
quotidianità dei soggetti con cui costruisce l’esperienza di ricerca. Il corpo non è inteso dal punto di vista
cartesiano come dualismo di corpo-oggetto ma è proprio il corpo che vive la concretezza del quotidiano. Il
concetto di incorporazione, di incontro tra corpi, ha riscosso molto successo nella riflessione antropologica
pensando che proprio da essa potesse poi scaturire un nuovo tipo di antropologia, l’antropologia dal corpo
che potesse completare quella del corpo. Si può dire che il concetto di incorporazione fosse derivato da
Mauss e dal suo saggio del 1936 Tecniche del corpo, dove il concetto indicava la plasmazione sociale e
politica della corporeità; se ogni cultura può essere vista come un progetto i umanità, ovvero
antropopoiesi, si manifesta a livello somatico come somatopoiesi: è la cultura che scrive sul corpo
modellandone i gesti, i comportamenti e il corpo diventa dunque simbolo incarnato della società. Il corpo
viene liberato falla sua concezione esclusivamente biologica; il dualismo mente-corpo viene sostituito da
quello corpo-mondo e dall’interesse per la loro interazione; il corpo si riappropria della soggettività e
diventa plasmato dalla cultura, per usare le parole di Csordas il corpo non è solo plasmato culturalmente ma
produce a sua volta significati ed esperienze: è fondamento della cultura e dell’azione sociale. Non a caso
‘interesse del corpo ha esercitato notevole influenza sull’antropologia medica; Scheperd-Hughes e Lock
identificarono per esempio un corpo pensante che si relaziona attivamente con il mondo sociale e
individuano il significato della malattia in questo, cioè la malattia, se esaminata attraverso il concetto dei tre
corpi (individuale, sociale e politico) diventa un’azione di prassi del corpo: il disagio del corpo diventa una
forma di espressione della critica politica o del mondo sociale. Dato che nell’antropologia del corpo il corpo
era ridotto praticamente a un oggetto, Csordas, il più autorevole teorico dell’incorporazione, propose una
netta distinzione tra corpo ed incorporazione, predicendo il secondo termine in quanto inscrive la
corporeità nel concetto di soggettivazione, il corpo è soggetto e non solo oggetto della ricerca: diventa
strumento metodologico. Conoscere dal corpo significa superare il postulato della neutralità del ricercatore,
la cultura si studia non solo a partire dai corpi che la fanno ma anche dal corpo che si è. Secondo Okely il
ricercatore deve essere in grado di riconoscere come la sua corporeità dia forma alle sue interpretazioni sul
campo e come metterla in gioco per portare a nuove forme di apprendimento. La partecipazione è detta
radicale, cioè il coinvolgimento personale nella vita quotidiana degli altri diventa opposto all’ermeneutica di
Geertz che non valorizzava affatto la partecipazione. L’esperienza diretta è infatti importante perché è fonte
di conoscenza in quanto impegna innanzitutto la dimensione sensoriale e pratica.

L’antropologia dal corpo vide varie proposte, dalla fenomenologia culturale di Csordas all’antropologia
cognitiva e all’antropologia ecologica di Ingold, ma comunque tutte sono di derivazione di due teorie del
corpo: la Fenomenologia della percezione di Merleau-Ponty e dalla teoria della pratica e dal concetto di
habitus di Bourdieu; Ponty ritenne sia il razionalismo che l’empirismo incapaci di cogliere la pienezza del
vissuto, in quanto il primo riduce la percezione a elementi neutri e il secondo invece unifica caoticamente i
dati sensibili e definisce entrambe le istanze come complementari. Il suo discorso fu volto a sottrarre la
percezione al dominio della coscienza autoriflessiva; afferma che la percezione si offre spontaneamente alla

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descrizione qualora venga collocata entro una prospettiva esistenziale e afferma che il soggetto della
percezione sia il corpo, che precede la differenziazione tra soggetto e oggetto. Merleau-Ponty avanza una
rilettura fenomenologica di alcune esperienza patologiche note alla psicologia del tempo, come
l’anosognosia e la sindrome dell’arto fantasma: nel primo caso il paziente è incapace di riconoscere i deficit
neurologici dai quali è affetto, nel secondo l’individuo mutilato trattiene la sensazione fisica dell’arto
mancante coinvolgendo un arto che non c’è più nei suoi compiti. Lo scopo era illustrare come il corpo
proprio costituisca una sorta di abitudine. Csordas partì dalle sue considerazioni per pensare
all’incorporazione come a un progetto attivo di posizionamento del mondo e nel mondo e come dimensione
originaria della soggettività. A considerare il corpo non come un oggetto tra gli oggetti ma come una
condizione in virtù della quale possiamo avere degli oggetti e costruire una struttura oggettuale della realtà;
riprende in particolare la nozione di habitus di Bourdieu; quest’ultimo coniugò il termine con la nozione
marxiana di prassi qualificando le a centralità del corpo nel fondare la vita sociale attraverso il duplice
processo di interiorizzazione dell’esteriorità e di esteriorizzazione dell’interiorità, dunque la socializzazione
assume carattere pratico. È per esposizione pratica, ovvero corporea, che ci si appropria di un insieme di
disposizioni strutturate dal contesto sociale e che strutturano l’agire umano, dunque le azioni individuali
sono legate alle ampie pratiche culturali della comunità di riferimento. Attraverso l’habitus Bourdieu
esprime l’idea che i comportamenti abituali sono strumenti attivi di continua rimodulazione delle pratiche
sociali che da una parte non sono mai direttamente riconducibili alle condizioni oggettive della loro
produzione ma dall’altra permane in essi una tendenza alla riproduzione; l’habitus opera a livello inconscio
e risuona nell’abitudine.

Il contributo della fenomenologia è stato fondamentale per la ridefinizione della scienza antropologica e
dello stesso concetto di corpo concepito come soggettività; l’antropologia dal corpo produce una
riconcettualizzazione dell’idea stessa di cultura facendo attenzione alla sua produzione. Csordas prende a
modello due riferimenti teorici: alla percezione di Merleau-Ponty e alla prospettiva prassiologica di
Bourdieu. In questo modo la coltura è delineata come il prodotto di ciò che gli esseri umani fanno
intersoggettivamente attraverso l’esperienza intercorporea; ogni aspetto della cultura diventa un sistema di
simboli da leggere, interpretare e trascrivere attraverso il metodo fenomenologico; dunque, la
fenomenologia culturale non studia qualcosa di diverso dall’antropologia ma solo da un altro punto di vista
focalizzando l’attenzione sull’immediatezza dell’esperienza corporea anche quando si utilizzano le tecniche
classiche incentrate sulla verbalizzazione. Invita ad affiancare la percezione su un insieme di attitudine
corporee come la postura, il portamento, che restituisco il vissuto. Oltre ad occuparsi del corpo, ce se ne
occupa con il corpo, il corpo come soggetto attivo di produzione culturale, come condizione esistenziale
dell’uomo; per dare consistenza ed illustrare la sua proposta metodologica Csordas propone la nozione di
forme somatiche di attenzione, un concetto che dal punto di vista fenomenologico riguarda esperienze
vissute ed irriflesse e da quello analitico la relazione tra coscienza individuale e pratiche collettive. Valorizza
l’attenzione che ha un ruolo fondamentale nella costruzione della soggettività e dell’intersoggettività in
quanto fenomeni corporei e dato che riguarda sia l’impegno dei sensi che l’oggetto, definisce
contemporaneamente un essere presenti al corpo e un essere presenti con il corpo nel mondo. In sintesi si
presta attenzione non solo alla sensazione del corpo ma anche alla situazione nel quale è immerso il corpo e
che genera quella sensazione. Csordas afferma però che tutte le forme somatiche di attenzione contemplino
un certo grado di elaborazione culturale dato che sono fenomeni culturalmente costruiti; per esemplificare
ciò, illustra alcuni casi etnografici relativi alle pratiche culturali in Nord America, nel contesto del
Rinnovamento carismatico cattolico. Si tratta di una pratica di guarigione chiamata parola della conoscenza,
nella quale il guaritore capisce in modo irriflesso le problematiche del paziente. Nel caso dell’Espiritismo
portoricano l’ispirazione non è considerato un dono divino ma una forma di possessione del guaritore che

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può vedere gli spiriti, sentirli, avvertire immediatamente quello che il pazienta ha in mento e sentire la sua
sofferenza. Sono forme di conoscenza tra le quali Csordas include le immagini incorporate, cioè processi che
coinvolgano tutte le modalità sensoriali e che possano implicare una sorta di trance. Csordas pone
particolare attenzione alla ricerca condotta nell’India del Sud sulla medicina Siddha e in particolare sul
medico principale, Daniel. Tale forma di medicina prevedeva che il medico facesse la sua diagnosi e capisse
il problema del paziente solo quanto i loro battiti cardiaci entrassero in sintonia. È una ricerca che Csordas
ritiene importantissima dal punto di vista metodologico perché stabilisce un legame indiretto tra
l’incorporazione e il paradigma semiotico (semiotica: la scienza dei segni); lo stesso Daniel utilizza la
semiotica per stabilire u confronto tra sistemi medici tradizionali e la biomedicina occidentale; la relazione
iniziale tra i polpastrelli del medico ed il polso del paziente è detta indice, nella quale i due polsi indicano
una condizione di normalità e anormalità; quando la pulsazione del medico entra in sincronia con quella del
paziente si parla invece di icona. Csordas critica però l’interpretazione del fenomeno che risulta essere
toppo vaga, mentre l’incorporazione intende offrire un’interpretazione fenomenologica precisa. Csordas
parla di un’esperienza personale; aveva assistito al rito di una guaritrice carismatica e durante il corso di un
esercizio il paziente affermò di avere le ginocchia bloccate e che a quel punto la gamba di Csordas fece un
salto e per questo chiese se anche un non credente potesse avvalersi di tali pratiche; la guaritrice lasciò tre
possibili interpretazioni del fatto: che si trattasse di un responso divino, di una sua problematica condivisa
con il paziente o della capacità dell’antropologo di farsi coinvolgere nelle esperienze altrui. Fu un’importante
occasione di riflessione per Csordas, che ribadisce che il processo interpretativo è biunivoco, cioè
l’osservatore è sempre anche osservato e chi è osservato allo stesso tempo osserva.

L’antropologia cognitiva vede una sorta di sottocategoria, il connessionismo, che vede l’applicazione della
cosiddetta teoria degli schemi. L’attrattiva esercitata dal connessionismo sugli antropologi deriva dalla
spiegazione dei processi mentali alternativa al modello dell’intelligenza artificiale. Il connessionismo infatti
pensa che la conoscenza deriva dalle connessioni di una rete estesamente distribuita tra tante piccole unità
di elaborazione che lavorano come neuroni inoltre le teorie confessioniste riconoscono un ruolo importante
alle emozioni e alle motivazione nella costruzione dei reticoli. Dal punto di vista confessionista gli schemi
non sono strutture rigide e non determinano in senso causale il comportamento ma permettono di
rispondere a situazioni nuove o ambigue riempiendo di nuovi dettagli concreti le aree vuote o poco definite
della rete. Una teoria della cultura basata sul connessionismo potrebbe spiegare tanto la stabilità quanto il
cambiamento culturale; la cultura stessa gioca un ruolo fondamentale nel costruire gli schemi.
L’antropologia cognitiva di ispirazione connessionista infatti ritiene fondamentale l’esperienza fatta con il
corpo, che è il dato primo della cultura; nel corpo è poi radicata la mente. Csordas criticò le versioni più
recenti dell’antropologia cognitiva in quanto in un certo senso il corpo restava inteso come oggetto, come
mera fonte di informazioni e non come sede di soggettività ed intersoggettività. Solo l’esperienza che da il
corpo è personale. L’ipotesi di fondo del connessionismo è che la cognizione umana non sia organizzata
come un linguaggio; gli schemi culturali non si acquisiscono attraverso generalizzazioni esplicite ma
attraverso esperienze e partecipazioni ripetute; la teoria degli schemi viene affiancata a quella della pratica
perché la trasmissione del sapere quotidiano ha proprio valenza pratica, deriva da errori, osservazioni,
tentativi. Formulato in termini confessionisti, lo scopo dell’etnografia è quello di estendere gli schemi
cognitivi del ricercatore affinché questo prenda familiarità con quelli altrui. L’implicazione corporea dello
studioso sul campo diventa così un prerequisito fondamentale per la costruzione della conoscenza; è un
coinvolgimento fondamentale per la creazione di legami intersoggettivi; le neuroscienze spiegano
l’intersoggettività attraverso il ricorso a un processo neuro cognitivo denominato risonanza, che è poi lo
stesso processo che rende possibile la conoscenza del mondo. C’è da dire che se non ci fosse in ognuno di
noi uno schema interpretativo già attivato, non saremo in grado di arrivare al alcuna conoscenza. Questo

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rende possibili anche i legami tra soggetti che non devono necessariamente provenire dallo stesso contesto
culturale: può capitare che non necessariamente due persone debbano avere le stesse esperienze per
condividere alcuni schemi. Gli antropologi connessionisti immaginano la pratica sul campo come
un’esperienza di intenso coinvolgimento sul piano autobiografico e cognitivo e lo stesso vale per altri autori
che comunque non seguivano tale corrente, per esempio Okely comunque considerava rilevante l’impegno
sensoriale, emozionale e pratico nel lavoro sul campo. Un contributo metodologico venne dato da Olivier de
Sardan che propose un’interpretazione originale sull’osservazione partecipante distinguendo le
osservazioni che l’antropologo trasforma in dati e altre che il ricercatore acquisisce quando vive
semplicemente con gli altri che non portano a conoscenze esplicite ma giocano un ruolo importante nel
processo di familiarizzazione dell’antropologo con la cultura locale e gli permettono di interpretare alcune
situazioni in cui viene a trovarsi; è una modalità di acquisizione della conoscenza che Sardan chiama
impregnazione. Wikan parò di risonanza, una connessione tra interlocutore ed antropologo che renda viva
la conoscenza dell’altro non trattandosi di una conoscenza intellettuale ma di condividere un mondo con
altri e occuparsene allo stesso modo. Gli antropologi di tipo connessionista convergono sulla
marginalizzazione della scrittura come perno della comprensione e della conoscenza: la scrittura non è
l’attività principale dell’antropologo e non è un impegno cerebrale, servirebbe solo a far scattare memorie
incorporate.

Nel panorama antropologico contemporaneo a spiccare per complessità è la panoramica di Ingold, che
analizza il rapporto e le dinamiche tra uomo e ambiente all’interno di tre ambiti disciplinari ovvero biologia,
psicologia e filosofia. Ingold definisce la sua prospettiva ecologica, declinata poi in una teoria della
conoscenza, dello sviluppo e dell’apprendimento. Comincia con il contestare la tesi della complementarietà
per la quale l’essere umano è una giustapposizione di parti separate e che schematizzava l’organismo, la
mente e l’individuo sociale nei termini di un programma sostenendo il suo limite, ovvero l’incapacità di
offrire una teoria dello sviluppo umano nelle sue concrete dinamiche formative; secondo Ingold le teorie
che intendono la socializzazione come un processo di trasformazione del bambino nel tengono conto che la
sua crescita avviene all’interno di un contesto, grazie al coinvolgimento nel mondo sociale. Spostando
l’attenzione dal programma al contesto il rapporto tra biologia e cultura viene ridisegnato: la cultura infatti
non interviene a modificare l’essere umano. Il ruolo del contesto nel processo di sviluppo è considerato da
Ingold alla luce di un costrutto che le teorie sistemiche e costruttive denominano accoppiamento
strutturale. Organismo e ambiente sono una coppia inseparabile ed è in questo contesto che l’ottica
bioantropologica di Ingold si fa ecologica. Ingold assume il senso etimologico del termine ecologia, che
deriva dal greco oikos e significa casa e dunque ne riprende l’idea di familiarità ed intimità e non invece la
visione di un ambiente inorganico. Attraverso la biologia dello sviluppo Ingold ripensa il concetto di vita in
generale e lo declina attraverso l’idea di persona, che è il soggetto conscio delle relazioni sociali. Le
differenza specifiche dell’essere umano sono caratteristiche dell’organismo; ogni neonato afferma Ingold
che viene al mondo già inserito in un campo di relazioni sociali e attraverso esse diventa persona e d questo
contesto emerge un agente autonomo dotato di una propria identità; secondo Ingold la società non deriva
dall’interazione tra gli individui; se le relazioni sociali sono a tutti gli effetti relazioni biologiche, ne deriva
che la socialità non è iscritta nei geni ma p solo la condizione fondamentale delle relazioni. Dunque non c’è
distinzione tra biologico e sociale. Ingold demistifica anche l0’idea di cultura rifiutando in particolare l’idea
che il mondo debba essere culturalmente costruito prima di essere abitato e per essere abitato; Ingold
impugna la tradizione fenomenologica e che fa del corpo vissuto e immerso nel mondo la condizione
originaria dell’attività riflessiva e cosciente; l’approccio ecologico può poi spingere la soggettivazione della
corporeità in una direzione rimasta inevasa dalla spetta fenomenologia, cioè quella biologica; per Ingold
corpo significa organismo.

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Il consolidamento dell’approccio fenomenologico può attuarsi solo riconoscendo che il corpo


fenomenologico coincide con l’organismo vivente; secondo Ingold la mente è l’organismo, dunque non si
risolve pienamente il dualismo cartesiano neanche affermando il dominio di una sull’altra come aveva fatto
Csordas. La nozione di mente pratica si pone in alternativa al postulato fondamentale della psicologia
cognitiva, ovvero l’autonomia della mente dalle informazioni che devono essere elaborate, dunque i dai
sensoriali corporei. Secondo Ingold la separazione tra le attività della mente e la reattività del corpo persiste
anche nel connessionismo; dato che la percezione viene sempre concepita come ricezione di stimoli esterni
e l’azione continua ad essere pensata come la risposta ad essa, si tornava al comportamentismo. L’unico
modo per superarlo è, propone Ingold, la percezione diretta, cioè che il corpo, soggetto della percezione, sia
nel mondo come presenza intenzionale, come corpo attivo che distingue percezione e azione. Per Gibson il
sistema percettivo è sostanzialmente uno strumento adattivo, finalizzato alla ricezione i stimoli e azioni che
possono soddisfare i bisogni. Le potenzialità di utilizzo, gli elementi invarianti di un ambiente, sono chiamati
affordances: sono le relazioni degli individui con l0ambiente ed è in un certo senso una proprietà
dell’ambiente. Ciò che percepiamo è una funzione diretta dei nostri atti, infatti a seconda dell’impegno in
cui siamo presi si è anche sintonizzati a raccogliere certi tipi di informazioni piuttosto che altri, dunque la
percezioni è un atto di significazione e il significato è immanente all’implicazione pratica degli organismi con
il mondo, non deriva da alcun processo interpretativo. La conoscenza dunque, che ha così un ruolo di primo
piano, emerge dalla persona, indivisibilmente corpo e mente, preso dalla sua vita e dal suo ambiente. Ingold
sottolinea il parallelismo tra la critica di Gibson al cognitivismo e quella di Bourdieu all’antropologia
cognitiva, infatti entrambi concordano nel sostenere che la conoscenza non si esprime nella pratica ma si
genera in essa; Ingold ritiene che un individuo impari a percepire nei modi appropriati alla sua cultura
attraverso il coinvolgimento concreto nell’esecuzione di compiti quotidiani; non esiste dunque il tipo di
conoscenza derivante dalle abilità (es. non si impara ad allacciarsi le scarpe attraverso istruzioni formali, ma
attraverso l’esperienza); per quanto riguarda le abilità, sono invece considerate da Ingold biologiche.
Bourdieu afferma che non c’è modo per imparare le pratiche che non sia la stessa pratica e che non si
acquisisce un’abilità seguendo un manuale ma solo impegnandosi effettivamente nel procedimento; la
prospettiva di Ingold, i suoi studi sull’apprendimento situato, sulla partecipazione periferica legittima e sulle
comunità di pratica evidenziano come l’apprendimento non sia un processo individuale, tenuto in
isolamento, ma si attua in una cornice partecipativa: si impara in mezzo agli altri e per gli altri.
L’apprendimento situato colloca al di fuori dell’individuo gli elementi fondamentali per comprendere il
processo di sviluppo , mentre il concetto di partecipazione periferica legittima indica la modalità di
partecipazione della persona che apprende, la comunità di pratica invece il contesto in cui si apprende.
Secondo Wenger la pratica diventa un’esperienza condivisa; secondo Reed, allievo di Gibson, gli agenti
sociali possono arrivare a condividere le affordances in quanto l’esercizio quotidiano di certe pratiche volte
al perseguimento di attività comunitarie porta i soggetti a raccogliere le medesime informazioni.
Apprendere diventa mezzo per costruirsi un’identità e per appartenere a una comunità. La variabilità
culturale di conseguenza diventa una differenza di abilità; Ingold esemplifica un contesto con due persone
on diversi background che, se poste nella stessa situazione, agiranno in modo diverso: l’antropologia
cognitiva risponderebbe a questo affermando che trattalo gli stessi input sensoriali attraverso diversi
modelli culturali, la teoria della pratica invece suggerisce che le due persone percepiscono ciò che le
circonda in modo diverso perché sono state addestrate a orientarsi in relazione al’ambiente; la differenza
non sta nel modo in cui la gente si rappresenta ‘ambiente nella propria testa ma nei modi in cui scopre ciò
che l’ambiente permette ai fini delle proprie attività. Laddove le differenze culturali siano intese come
differenze di abilità, non si comprenderà attraverso l’intelletto ma attraverso il corpo abile. Ingold definisce
il punto di vista del nativo con il termine taskscape, orizzonte di compiti, fusione di pratica e landscape. Il
lavoro etnografico viene a coincidere con l’esplorazione delle specifiche tipologie di relazione pratico-

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operativa che un gruppo intrattiene con l’ambiente; per fare l’esempio di una stessa esperienza di Ingold tra
gli allevatori di renne in Finlandia, è necessario che il ricercatore impari a vedere e ad agire come lui per
comprendere il suo mondo; il corpo del ricercatore diventa lo strumento della conoscenza, in quanto
l’apprendimento di un’abilità presuppone socializzazione e interazione. In tutto ciò si nota che la prospettiva
ecologica di Ingold converge con l’antropologia connessionista nel momento in ci entrambe sottolineano
l’importanza della partecipazione e della coesistenza.

Nel corso del tempo venne data anche importanza agli aspetti autobiografici e alla soggettività del
ricercatore nella conduzione della ricerca e questo ha portato a nuove prospettive di ricerca, come
l’antropologia dell’esperienza straordinaria o experiential approachl orientata verso particolari esperienza
quali sogni, visioni, premonizioni, ecc. solitamente considerati ininfluenti ai fini dell’elaborazione oggettiva
dei dati e difficilmente inseriti nei resoconti etnografici; è una pratica che infatti si è consolidata solo tra gli
anni Ottanta e Novanta ed è un orientamento che dunque sostiene con forza la partecipazione radicale del
ricercatore abbandonando definitivamente la visione di un ricercatore onnisciente; riprendendo la posizione
di Turber tale prospettiva rimarca l’importanza della disposizione personale ad aprirsi a nuove dimensioni di
esistenza e di esperienza per far sì ch questa sia veramente istruttiva; il locus della trasformazione
esistenziale del ricercatore viene ancora cercato nel corpo, nel concetto di mindful body elaborato
dall’antropologia critica di ispirazione fenomenologica; da questo punto di vista il corpo è attivo ed
incorpora pensieri ed idee. Il problema che si è posto riguardo l’antropologia dell’esperienza straordinaria è
stato quello che richiamarsi alle proprie sensazioni, alle proprie esperienze potrebbe comportare e
produrre delle ingenuità descrittive e dunque potrebbe anche risultare difficile valutare la consistenza
antropologica dei resoconti; diversi autori hanno cercato di rispondere a queste critiche interrogandosi sulle
implicazioni metodologiche da usare per condurre una ricerca simile per arrivare a dire che l’antropologo
che studia tra i nativi non è uno di loro, ma uno con loro e che deve dunque mantenere una forma di
distacco dai suoi resoconti, addirittura c’è stata la proposta di includere le versioni degli informatori senza
rinunciare a sottoporle a un esame critico. L’apertura all’esperienza straordinaria implica una certe
riflessività, cioè qualcosa che è vissuto sul piano esistenziale prima di essere pensato come interpretazione;
nel corso degli ultimi anni l’interesse di questa disciplina non è più catalizzato sull’analisi dei contenuti delle
esperienze straordinarie ma sugli effetti che l’impatto dei contesti di ricerca produce sulla conoscenza
etnografica. Il ricercatore sperimenta questa particolare dimensione del suo lavoro quando mette fa parte
l’ossessione di raccogliere dati per entrare in contatto con il mondo in cui studia; la partecipazione del
ricercatore alla vita rituale diventa così uno strumento che permette al ricercatore di capire davvero ciò che
sta facendo.

Si era prima parlato di incorporazione; per questa la parola, il conoscere la lingua inteso, può essere
controproducente, in quanto la domanda rivolta all’interlocutore metterebbe in risalto la sua volontà
intrusiva di sapere; per questo spesso il nativo risponde in modo evasivo e frammentario; l’analogia tra
etnografia e socializzazione era stata supportata dall’antropologia dal corpo, che però dava poco attenzione
alle dinamiche della costruzione dell’autorità etnografica, in quanto la condivisione della quotidianità e la
qualità eminentemente pratica dell’interazione sembrano implicare un’integrazione immediata e naturale
nella comunità abitata; dato che l’antropologia dal corpo si poggia sull’esistenza di meccanismi neurologici
universali, l’antropologo o trova con l’interlocutore una sorta di intesa. Alla base della pratica ecologica
dell’educazione dell’attenzione vi e invece la percezione diretta, cioè l’imparare a vedere e ad agire come gli
altri, l’intersoggettività discorsiva. Comprensione, competenza, ecc. portano l’interlocutore a vedere il
mondo come gli altri, ma non ad immedesimarsi in essi: l’immedesimazione è impossibile.. corporeità e
pratica continuano comunque ad essere vicinissimi, infatti l’ideale regolativo è comunque l’impregnazione
totale e attraverso un processo di mimesi pratica si può conoscere l’altro essere umano. È pure vero,

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secondo la Borutti, che l’insistenza sulla partecipazione e la pratica, il coinvolgimento del ricercatore nella
quotidianità dei suoi ospiti, ecc. danno rilievo alla dimensione affettiva dell’esperienza di ricerca;
Wittgenstein aveva parlato della vita sul concetto di sfondo; Ingold lo riprese dicendo che lo sfondo indica il
senso che il mondo ha per noi e che dunque resta tale e nell’imparare le pratiche altrui l’etnografo o
comunque il ricercatore lo può simulare, ma non assimilare. Il processo di avvicinamento a un contesto
estraneo sconta un limite ontologico ed etico. L’antropologia dal corpo lascia comunque aperto il problema
di come combinare l’impegno fisico del ricercatore con la finalità generale della partecipazione etnografica,
che di fatto è di natura intellettuale e non pratica. Per i teorici dell’incorporazione la scrittura viene vista
come eccesso; anche Ingold la giudica irrilevante per l’avanzamento della disciplina. La scrittura rimane però
una pratica costituiva dell’antropologia in quanto p di fatto l’interpretazione teorica, retorica ed empirica
della ricerca condotta.

La pratica etnografica si fonda inevitabilmente sull’autorità del ricercatore, sulle sue capacità, sul suo ruolo,
sulla sua competenza sul fare domande e tutto questo poi si traduce nella qualità delle risposte e delle
relazioni; nella contemporaneità i contesti di ricerca antropologica sono cambiati con la fine del
colonialismo e della globalizzazione; prima l’autorità dell’antropologo era autorizzata dall’appartenenza al
potere coloniale, ora non più, come non deriva dal potere economico e politico. Le ricerche etnografiche si
realizzano sotto lo sguardo critico di interlocutori che mettono in discussione lo stesso fare etnografia, è
cambiata la natura dei rapporti tra ricercatori e interlocutori e ormai rapporti sono influenzati dalla
personalità, dal genere, dai coinvolgimento emotivo, politico del ricercatore e questo porta l’etnografo a
dover creare le condizione che gli consentano di interagire con gli interlocutori e ottenere quanto a lui
necessario. Infatti l’etnografia si fonda su una sorta di gerarchia discorsiva che pone il sapere del ricercatore
più in alto rispetto a quello del suo interlocutore e le differenze tra essi non possono essere ridotte
attraverso esperienze empatiche o simili. Comunque il lavoro di campo implica una sorta di violenza, di fatto
già la presenza del ricercatore può presentarsi come un’intrusione e il ricercatore esercita pressione sui
nativi nel momento in cui fa domande alle quali magari non sono in grado di rispondere. L’autorità
dell’osservatore è quella che poi si manifesta nella scrittura, in quanto ha la facoltà di testualizzare i
contenuti delle sue ricerche in un testo finale che è sottoposto a convenzioni di stile e organizzazione del
testo, a livello di scrittura la relazione è piramidale, nel senso che si parla di qualcosa per qualcuno. È
indispensabile che il prodotto della ricerca sul campo sia dunque trasformato in un prodotto intellettuale
dato che il lavoro etnografico non è un semplice passaggio di lavoro dall’orale allo scritto ma implica una
continua rielaborazione dello scritto, in continua elaborazione e rielaborazione di vari dati e fonti,
documenti, lettere, racconti individuali, ecc. La scrittura evidenzia comunque come la costruzione
interpretativa dell’oggetto sia artificiale, cioè è il momento in cui tutte le problematiche si risolvono per dar
luogo a una forma di conoscenza; la scrittura finale comunque senza dubbio si colloca in un momento molto
successivo alle ultime esperienze sul campo, dunque i tempi della scrittura etnografica sono molto lunghi.
Non è comunque questo il limite del sapere antropologico, ma è il fatto che questo funziona come uno
schema di riferimento concettuale e gli antropologi fondano la loro esperienza su di essi. In un certo senso
l’antropologo è radicato nel suo sapere ma è proprio su questo che fonda la sua autorità, che è poi quella
che autorizza i suoi discorsi e attraverso la scrittura porta a compimento la pratica antropologica.

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