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Parte quarta: sistemi di pensiero

C a p i t o l o 1: sistemi ‘chiusi’ e sistemi ‘aperti’

1. La ricerca della coerenza e lo studio della cosmologia

Nel 1935 un gruppo di etnologi francesi intraprese lo studio della popolazione dei
Dogon che vivevano nell'interno dell'attuale stato del Mali al tempo parte dell'Africa
coloniale francese. Marcel Griaule, che era alla guida del gruppo di etnologi, fu in
grado di ricostruire, in molti anni di ricerca e di studio quella che egli chiamò la
cosmologia Dogon, una complessa visione dell'ordine del mondo dalla sua creazione.
Questa cosmologia aveva, almeno per come era descritta da Marcel Griaule, un
carattere di sistematicità e di coerenza. Negli anni che seguirono la pubblicazione dello
studio, gli antropologi iniziarono a parlare di sistemi di pensiero. Cominciarono cioè
studiare in una nuova prospettiva l'attività speculativa dei popoli sino ad allora
ritenuti poco votati alla riflessione. Nessuna visione del mondo, per quanto possa
essere complessa, articolata e raffinata è totalmente coerente; tuttavia, si può dire che
il pensiero umano tende comunque sempre alla ricerca di una coerenza -> è una
caratteristica di tutti i sistemi di pensiero. I sistemi di pensiero comprendono ambiti di
riflessione assai diversi tra loro (es. pratiche magiche e stregoneria, rapporto tra
cultura e natura, teorie riguardanti le relazioni tra i sessi).

2. Differenze e somiglianze

Alla metà degli anni 60 del secolo scorso l’antropologo inglese Robin Horton mise a
confronto quelli che chiamò i “sistemi di pensiero tradizionali africani” con il pensiero
scientifico sviluppatosi in Europa nell'età moderna; questi, per quanto diversi tra loro,
avevano entrambi una medesima funzione esplicativa. Entrambi i sistemi, sostenne
Horton, sono alla ricerca di una spiegazione del mondo, dove ‘spiegare’ significa 1)
oltrepassare il senso comune (fermo alle apparenze), e la diversità dei fenomeni per 2)
ricercare l'unità dei principi e delle cause. Spiegare significa anche 3) semplificare al
di là della complessità dei fenomeni, e 4) superare l'apparente disordine per trovare un
principio d'ordine del mondo. Infine, spiegare significa 5) cogliere la dimensione della
regolarità dietro l'anomalia e della causalità dei fenomeni. I sistemi di pensiero
africani affrontano questi problemi in termini di concetti religiosi e di divinità, mentre
quello scientifico moderno fa la stessa cosa in termini di forze fisiche. La difficoltà con
cui gli occidentali tendono ad accostarsi a questi sistemi di pensiero dipende dal fatto
che non li considerano per quelli che sono: dei tentativi di prendere distanze dal senso
comune. Li considerano, invece, dei modi di ragionare sbagliati dal punto di vista
logico-causale.

3. L’uso delle analogie esplicative: malattia e relazioni sociali


Il pensiero elabora sempre delle analogie esplicative. È stato osservato che mentre il
pensiero occidentale, da un certo momento in poi, si è rivolto alle cose per costruire le
proprie analogie esplicative, altri sistemi tra cui quelli dell’Africa Subsahariana,
hanno privilegiato il mondo sociale. Secondo Horton ciò avverrebbe perché, una volta
adottato dalla società, un certo modo di esprimere le relazioni tra entità (per esempio
quello fondato sulla centralità dei legami sociali) esso tende a rafforzarsi con
l'esclusione di altri. Nei sistemi di pensiero come quelli africani le analogie esplicative
sono infatti personalizzate. Le spiegazioni vengono cioè date in termini di relazioni
sociali e interpersonali. Un esempio emerge dalle cause che venivano attribuite
all'AIDS in Camerun: i notabili del regno ‘nso, ad esempio (in alcuni paesi africani i
regni antichi esistono formalmente ancora anche se sotto l'autorità dei governi),
accusavano i giovani uomini di volersi sottrarre all'autorità tradizionale
contravvenendo al rigido sistema che consente di avere in teoria rapporti con donne
solo previa autorizzazione dei capi. Dal canto loro i giovani considerano l'AIDS come
una manifestazione delle forze maligne che i capi, divenuti stregoni, indirizzano verso
i giovani allo scopo di trattenerli presso di sé.

4. ‘chiusura’ e ‘apertura’ dei sistemi di pensiero

Nella prima metà del 900, antropologi e missionari avevano dato per scontato le teorie
di Lévy-Bruhl secondo le quali era possibile parlare di “mentalità primitiva” fondata
su principi diversi da quelli della logica razionale (aristotelica) in quanto a tale
mentalità avrebbe fatto difetto il principio di identità (A=A), il principio di non
contraddizione (se A=A allora A=/B) e il principio di causalità. Benché superate già
alla meta del secolo, tali teorie furono in grado di suscitare alcune problematiche
importanti facenti capo alla diversità di quelli che sarebbero stati chiamati più tardi
‘sistemi di pensiero’ e ispirarono molte ricerche sul campo compiute negli anni
precedenti la Seconda guerra mondiale. Dopo Lévy-Bruhl, altri autori hanno tentato di
rendere conto delle differenze che caratterizzano il modo di concepire la realtà nelle
diverse culture. Horton ritenne che uno degli elementi centrali della differenza tra
sistemi di pensiero africani e scienza moderna sia costituito dal fatto che l’indovino o il
sacerdote africano non sono consapevoli del fatto che esistono delle alternative
esplicative. Lo scienziato, invece, è consapevole dell'esistenza di alternative ai principi
teoretici chiamati a spiegare la realtà. Horton fece dunque una suddivisione tra
sistemi di pensiero chiusi, i sistemi di pensiero tradizionali, come quelli che è possibile
rilevare in Africa, e sistemi di pensiero aperti, quelli che fanno capo a modelli e
concetti di natura scientifica. Questa distinzione tra apertura e chiusura alle possibili
alternative teoretiche ed esplicative si è rivelata, tuttavia, con il tempo,
eccessivamente rigida. La distinzione tra sistemi di pensiero chiusi e aperti va infatti
intesa in senso relativo e non assoluto. Tanto più che l'apertura di cui parla Horton è
tipica della scienza e non del modo in cui, anche in Occidente, la maggior parte delle
persone ragiona e si comporta abitualmente. Si potrebbe dire che la piena
consapevolezza delle alternative sia qualcosa che emerge con l'affermazione della
scrittura. Di conseguenza, la comparsa di un pensiero critico, e quindi aperto nel senso
che Horton attribuisce a questo termine, è bloccata là dove la produzione e la
trasmissione del sapere dipendono esclusivamente, o quasi, dalla comunicazione di
tipo orale. Con la scrittura invece, sarà più facile conoscere e confrontare affermazioni,
concezioni e teorie diverse ed elaborarne eventualmente di nuove.

Box Gli Azande, che abitano tra il Sudan e il Congo, vennero a lungo studiati
dall'antropologo inglese Evans Pritchard che nel 1937 pubblicò un libro molto
importante sulle loro credenze in materia di stregoneria, oracoli e magia che
costituiscono parti interdipendenti di un unico complesso (Stregoneria, Oracoli e
Magia tra gli Azande, Evans Pritchard). Questo sistema ha una sua struttura logica
nel quale stregoneria, oracoli, magia costituiscono un complesso sistema di credenze e
di riti che acquistano senso soltanto se visti come parti indipendenti di un unico
complesso. Nella società Azande infatti qualunque tipo di disgrazia è attribuita a un
atto di magia e di stregoneria. Esiste cioè sempre una ragione interna al sistema, che
rende conto del perché qualcosa “non ha funzionato”. Tutto ciò rende il pensiero
Azande “prigioniero di sé stesso”.

C a p i t o l o 2: pensiero metaforico e pensiero magico

1. Le credenze ‘apparentemente irrazionali’ e il pensiero metaforico

Tra i temi che più hanno coinvolto gli studiosi di antropologia sono quelli delle
credenze apparentemente irrazionali e del pensiero magico che sono state considerate
a lungo segni di un'alterità radicale. Tuttavia, è legittimo ritenere che queste visioni
del mondo possono essere dedotte dal solo modo di parlare? Questo problema è stato
sollevato dall'antropologo australiano Roger Keesing in relazione al fatto che molto
spesso il pensiero degli altri popoli è stato interpretato alla lettera, come se cioè
quanto gli altri popoli affermano corrispondesse davvero a una concezione ultima e
definitiva della realtà da essi ritenuta vera. Nel 1894 l'etnografo tedesco Karl von den
Steinen pubblicò uno studio sui Bororo del Mato grosso (Brasile) in cui veniva
riportata l'affermazione seguente: “noi uomini Bororo” siamo arara Rossi” (arara=
pappagallo amazzonico). Se gli uomini bororo sostenevano di essere dei pappagalli,
secondo Lévy-Bruhl, ciò era perché si consideravano discendenti di un pappagallo
mistico, che aveva i suoi discendenti rappresentanti nei pappagalli della foresta.
Tuttavia, nella vita quotidiana i Bororo erano ben lontani dal comportarsi come degli
arara. Dunque, considerare se stessi come dei pappagalli rossi può avere lo stesso
significato che ha presso di noi proclamarsi tifosi di una certa squadra. Quando ci
proclamiamo tali stiamo dicendo che siamo uniti, ci dobbiamo fare forza o portare
avanti le nostre idee. Gli antropologi sono giunti alla conclusione che la dimensione
pratica e la dimensione simbolica della società bororo finiscono per produrre
un'assimilazione metaforica dei maschi bororo agli arara. In tal senso, i fattori da
prendere in considerazione sono tre: 1. I Bororo dichiarano che l'iridescenza delle
piume degli arara è una manifestazione dello spirito, l’Aroe. Quindi appare
comprensibile l'idea che gli uomini diventino, nei riti, il ricettacolo dello spirito,
quando si vestono di piume di arara e che di conseguenza, si sentono assimilati ai
pappagalli; 2. La società Bororo si caratterizza per un sistema di discendenza
matrilineare e un modello di residenza uxorilocale; l'uomo infatti è tenuto a risiedere
nella parte del villaggio occupato dal gruppo della moglie; 3. L'ultimo elemento da
considerare è che, per i Bororo, gli unici animali da compagnia sono i pappagalli, che
vengono custoditi amorevolmente dalle donne. I pappagalli vengono così a occupare
una posizione di animali “simbolo”, vengono paragonati agli uomini per rappresentare
l’ironia della condizione maschile. Gli uomini, infatti, svolgono un ruolo preminente
sul piano politico rituale ma vivono in uno stato di apparente dipendenza dalla metà
delle loro mogli.

2. La magia e le sue interpretazioni

Per magia si intende comunemente un insieme di gesti, atti e formule verbali (a volte
anche scritte) mediante cui si vuole influire nel corso degli eventi e sulla natura delle
cose. I primi antropologi interpretarono la magia come una specie di aberrazione
intellettuale tipica dell'uomo primitivo, oppure come una scienza imperfetta. Nel
primo caso si sarebbe trattato di una mancanza, nei primitivi, di coerenza logica; nel
secondo caso di un tentativo di manipolare, sebbene in maniera sbagliata, la natura di
cui pure si intuivano regolarità e costanti. James G. Fraser, che a questo argomento
dedicò una famosa opera pubblicata nel 1890, Il Ramo d’Oro, riteneva che esistessero
due tipi fondamentali di magia: la magia imitativa e la magia contagiosa. La prima si
risolveva nell'idea (sbagliata) che imitando la natura la si sarebbe potuta influenzare.
La magia contagiosa invece si fonderebbe sull'idea (errata) che due cose, per il fatto di
essere state a contatto, conserverebbero, anche una volta allontanate, il potere di agire
l'una sull’altra. Sempre Fraser, che analizzò il pensiero magico e religioso in una
prospettiva intellettualistica e positivista, riteneva che magia, religione e scienza
fossero tra loro legate dall'eterno tentativo dell'uomo di spiegare l'origine dei fenomeni
e le relazioni tra di essi cioè di tendere alla coerenza.

Box per prospettiva intellettualistica si intende un modo di considerare i fenomeni che


riguardano il pensiero umano e l'uso dei simboli che si rifà al punto di vista
dell'osservatore “scientifico”. Tuttavia, laddove non c'è coerenza logica (dal punto di
vista dell'osservatore) c'è errore. La logica razionale non è, però, l'unica cosa che guida
le scelte umane. Un'altra teoria della magia fu elaborata da Bronislaw Malinowski nel
corso degli anni ’30 a partire dalla sua esperienza di ricerca nelle isole Trobriand. Egli
distinse nettamente la magia della religione: la religione non è chiamata a spiegare
l'origine dei fenomeni, ma a fornire certezze di fronte ai grandi misteri della vita. La
magia, invece, ha finalità eminentemente pratiche. Malinowski aveva una concezione
strumentale e operativa della cultura, grazie alla quale l'uomo poteva sopravvivere in
un ambiente pieno di ostacoli, imprevisti, incertezze, riteneva quindi che la magia
fosse un mezzo per rispondere a situazioni generatrici di ansia. Compiendo una serie
di atti particolari appropriati alla situazione da affrontare si cercherebbe di
prefigurare il buon esito dell'impresa, gli atti magici sono quindi ‘atti sostitutivi’. La
funzione della magia è quella di “ritualizzare l’ottimismo" dell’uomo. La questione
dell'efficacia della magia non deve quindi essere posta nei termini dei principi di
causalità e di non contraddizione, bensì in termini di una ricerca di rassicurazioni.

3. Magia e ‘presenza’

Un'altra teoria nei riguardi del pensiero magico è quella elaborata a metà del 900 da
Ernesto de Martino, etnologo studioso del mezzogiorno d'Italia. Secondo de Martino,
l'universo magico può essere compreso solo in relazione all'angoscia, tipicamente
umana, della perdita della presenza. La presenza è una condizione che l'essere umano
non cessa di immaginare e di costruire per sottrarsi all'idea, angosciosa, di non esserci.
De Martino descrisse l'emergere del pensiero magico come il primo tentativo coerente
di affermare la presenza umana nel mondo. La conquista della presenza non si traduce
mai però, secondo De Martino, in un'acquisizione definitiva. Essa è infatti qualcosa
che può essere sempre rimessa in discussione dalla crisi individuale o collettiva.
L'esigenza di affermare la presenza era particolarmente viva presso quello che de
Martino chiamò, sulla scia di Gramsci, “mondo subalterno”, il mondo povero e
illetterato del mezzogiorno che, non avendo preso ancora coscienza della propria
identità storica e di classe, era legato a forme “primitive” di affermazione della propria
presenza nel mondo. Sebbene la religione abbia sempre combattuto la magia, in molti
riti religiosi si trovano ad esempio gesti e formule che hanno lo scopo di influenzare gli
spiriti e le divinità.

Box Il pensiero magico, inteso come modo di accostare cose e azioni sulla base di
principi che non hanno un fondamento reale, è una costante della storia dell'umanità.
Nelle nostre società tecnologicamente avanzate il pensiero magico è stato confinato in
alcune aree del nostro comportamento, mentale e pratico. Gli esseri umani non
possono rinunciare all'idea che sia possibile trovare qualcosa con cui rassicurarsi di
fronte all'incertezza della vita. Con la ricerca di sicurezza si moltiplicano anche i casi
di truffa nei confronti di clienti sprovveduti, sollecitati e costretti a pagare somme
anche notevoli (anche nel campo dei nuovi culti religiosi). Questi casi hanno come
protagonisti individui insicuri, da un lato, e personaggi privi di scrupoli, dall’altro.

C a p i t o l o 3: il pensiero mitico

1. Il pensiero mitico

Come tutte le cosmologie, anche quella Dogon conteneva i miti della creazione, cioè i
racconti relativi all'origine del mondo fisico, della società, dei riti, delle tecniche, della
distinzione tra i sessi ecc. Per molto tempo gli antropologi hanno studiato la
connessione tra i riti e miti. I riti, infatti, fanno spesso riferimento a dei miti. La
celebrazione di un rito è spesso collegata al racconto di un fatto accaduto in un tempo
indeterminato e che è ritenuto responsabile dello stato attuale delle cose e della
condizione degli esseri umani.

2. Caratteristiche e protagonisti del racconto mitico

I miti possono suddividersi in cosmogonie, ossia teorie sull'origine dell'universo;


oppure teogonie, cioè storia di lotte tra divinità o spiriti dal cui esito sarebbero dipese
le sorti del mondo e dell'umanità; oppure vicende accadute in un passato senza tempo
che giustificherebbero lo stato attuale delle cose e delle relazioni. Alcuni studiosi
hanno ritenuto, in passato, che i miti fossero un modo inesatto e primitivo di
ricostruzione o di giustificazione storica di eventi o fatti realmente accaduti. In realtà i
miti possono coesistere con altre forme di narrazione storica. Caratteristiche del
racconto mitico: il mito ignora in primo luogo lo spazio e il tempo. I personaggi del mito
agiscono o abitano in luoghi impossibili da frequentare per gli esseri viventi; il mito
disegna situazioni, spesso originarie, caratterizzate da una profonda unità degli esseri.
Il mito in generale produce un antropomorfizzazione della natura; è vero però anche il
contrario, cioè che talvolta gli esseri umani presenti nei miti hanno caratteristiche
tipiche degli animali. Questa comunanza di esseri umani, spiriti, animali e cose, viene
descritta nei miti come una situazione originaria di equilibrio cosmico e di unità, la cui
fine, spesso raccontata nel mito, avrebbe dato origine al mondo attuale. Benché vi
siano eccezioni, la creazione del mondo viene quasi sempre rappresentata come il
risultato di un processo di successive separazioni e allontanamenti tra gli elementi
costitutivi dell'unità originaria (vedi Genesi-Bibbia, mito dell’androginoPlatone,
separazione Sole e Luna Baruya della Nuova Guinea). In tutte le aree del pianeta, ma
specialmente presso le culture dei nativi nordamericani, in Europa, in Africa
Subsahariana, questa rottura dell'equilibrio originario è spesso raffigurata come il
frutto dell'azione di un personaggio particolare, un essere mezzo uomo e mezzo
animale, oppure un uomo semidivino, un eroe. Questo personaggio prende il nome di
Trickster (imbroglione, briccone). Il Trickster più celebre è quello dei miti dell'origine
degli indiani Winnebago del Nord America. Si tratta di un personaggio particolare che
incorpora caratteri opposti e contraddittori. Comportandosi in questo modo, cioè in
modo presociale e pre morale, quindi in modo preculturale, il trickster crea la realtà
così come gli uomini la conoscono e la esperiscono. Tale realtà è piena di
contraddizioni, di bene e di male.

Box Noti sono i buffoni presenti nella comunità degli Zuñi del sud-ovest degli Stati
Uniti (New Mexico, Arizona), i quali vengono chiamati nella lingua locale koyemshis.
Camminando all'indietro, pronunciando le frasi e le parole al contrario, mimando
comportamenti diversi rispetto alla norma, questi buffoni sembrano voler evocare il
comportamento del trickster. Se la rottura dell'ordine sociale è ciò che rende la ragione
della condizione umana presente, lo scopo dell'inversione rituale messa in scena dai
koyemshis sarebbe quello di evocare un episodio della mitologia Zuñi connesso con la
concezione stessa dell'ordine sociale. I buffoni non dicono o fanno alcunché che possa
avere valore prescrittivo, ma si limitano a compiere azioni contrarie alla norma.

3. Le funzioni del mito

Quali sono le “funzioni" del mito? È probabile che il mito abbia funzioni speculative,
pedagogiche, sociologiche, classificatorie. Malinowski aveva una concezione pratico-
operativa della cultura, per cui riteneva che il mito fosse una specie di autorizzazione
a compiere certi riti, la giustificazione dell'ordine esistente. Il mito sarebbe inoltre
qualcosa in cui le società possono leggere una ‘morale’ dei rapporti tra gli uomini e tra
i gruppi, qualcosa che fissa un codice di comportamento, di pensiero e di disposizioni.
A metà del secolo scorso, Alfred R. Radcliffe-Brown analizzò e comparò una serie di
miti dei nativi nordamericani con alcuni miti degli aborigeni australiani. In queste
società organizzate in metà matrimoniali, alcuni miti hanno per protagonisti animali
che parlano e agiscono come gli uomini. Questi animali compaiono sempre in coppia,
ogni animale mitico inoltre, si presenta sempre associato a un determinato gruppo
sociale come suo simbolo (totem). Radcliffe-Brown giunse alla conclusione che il mondo
della vita animale è rappresentato nei miti in termini di relazioni sociali simili a
quelle della società umane e che le coppie d’opposizione costituite dagli animali-
simbolo esprimono l'applicazione di un determinato principio strutturale. Tale
principio consiste nella combinazione delle due idee di contrario e di opponente. La
prima caratterizza come contrario due specie sulla base di certe caratteristiche. L'idea
di opponente mette in risalto la loro relazione complementare che tuttavia appare
come tale solo se messa in rapporto con l'organizzazione sociale.

4. Il pensiero che pensa se stesso?

Una diversa interpretazione del mito è stata elaborata, nella seconda metà del ‘900, da
Claude Lévi-Strauss che tratta il mito essenzialmente come un'attività speculativa
senza curarsi dei legami che il racconto mitico può avere con la vita sociale e culturale
di una popolazione. Lévi-Strauss considera il racconto mitico a partire dal modello
della linguistica strutturale. Il mito è infatti un'entità formalmente scomponibile in
unità minime (i mitemi), le quali rivestono un senso solo se poste accanto ad altre dello
stesso tipo. Il medesimo mitema prende sembianze diverse in culture diverse, ma
ricorre in racconti mitici differenti, assumendo di volta in volta un significato diverso a
seconda degli altri mitemi a cui si trova affiancato. Secondo Lévi-Strauss il mito è un
ambito speculativo in cui il pensiero umano non soffre delle costrizioni della realtà
materiale e sociale, essendo libero di pensare ciò che non può esistere realmente ma
che può esistere invece nell’immaginazione. Il mito è anche chiamato, secondo Lévi-
Strauss, a conciliare gli aspetti contraddittori dell'esistenza umana e del mondo
naturale che non possono essere mediati da alcuna forma di pensiero razionale. Il
pensiero mitico, così come è stato concepito da LéviStrauss, ci appare come un
pensiero libero che ha i propri limiti solo in se stesso. Il mito sarebbe allora “il frutto di
un pensiero che pensa (liberamente) se stesso”.

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