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GIAN MARCO EVA

Sociologia Generale
Prof. Alessandro Basi
26 Gennaio 2016

Elementi di persistenza e di
mutamento nella società
pre-figurativa
“L’arte nell’epoca della sua dissoluzione […] è allo stesso tempo un’arte del
1
cambiamento e l’espressione pura del cambiamento impossibile.”

La precedente frase, con la quale ho voluto cominciare questo saggio, racchiude


implicitamente in sé le coordinate entro le quali spaziare per comprendere la profonda
unione che intercorre tra gli eventi di persistenza e gli eventi di cambiamento.
Questo esempio, che è strettamente legato all’arte, arriva a noi dal genio lucido e

disincantato di Guy Debord2 che, secondo quello che si può apprendere dai suoi testi,
del dibattito di persistenza e mutamento s’interessò ben poco.
“L’arte” -lui dice- (in questo caso è l’arte il soggetto, ma potremmo facilmente
sostituirlo con tutto ciò che può essere oggetto di apprendimento e conoscenza da
parte della mente umana) “nell’epoca della sua dissoluzione” - quindi nel momento in
cui essa sta per giungere al termine- “é allo stesso tempo un’arte del cambiamento e
l’espressione pura del cambiamento impossibile.” -simultaneamente è elemento di
cambiamento ed espressione del cambiamento impossibile: che altro non è che persistenza-.
All’interno del corso ci è stato abbondantemente chiarito quanto persistenza e
mutamento siano aspetti diversi del medesimo, un’identico a specchio che procede
dall’uno; questa definizione ci porta a pensare che i due aspetti siano apprezzabili
unicamente nel sincronico e non nel diacronico. Questo ci viene confermato dal
filosofo Francese, che, con le parole “è allo stesso tempo”, rende esplicito come quelle
due forme siano sullo stesso piano nel senso del tempo.

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Il concetto di dualismo non discordante che avvolge persistenza e mutamento


diventerà sempre più chiaro all’interno di questo saggio che intende affrontare i
processi dell’epoca contemporanea nei quali il cambiamento e il perdurare si
manifestano o stanno per rendersi manifesti.
Per il momento è sufficiente sapere che nel luogo dove il mutamento si rivela,
dimora la persistenza. E viceversa.

PARAGRAFO I: l’uomo, il civile.

L’esercizio volto all’acquisizione di conoscenze pratiche, come formazione


individuale, per il quale nel corso della storia è stato possibile riprodurre la vita di
generazione in generazione prende il nome di cultura. E’ capacità di tutti i viventi
memorizzare la propria cultura ma solo l’uomo è stato in grado di sfruttarla con una
migliore attitudine. Questa peculiarità della nostra specie risiede nella consapevolezza
che abbiamo della nostra capacità culturale. Sappiamo di avere cultura, possediamo
l’intelligenza e abbiamo cognizione delle nostre migliorie. A differenza dell’uomo gli
animali non hanno percezione dei loro miglioramenti perché il loro scopo è
sopravvivere. Alla nostra categoria invece appartiene la capacità di imparare per
accrescere la propria cultura, elemento che ha reso possibile la nascita della civiltà.
Certo la civiltà non è nata dall’oggi al domani, anzi, se dovessimo dare uno
sguardo allo spazio che occupa sulla linea temporale degli eventi umani, altro non è
che un breve momento all’interno del quale l’essere umano è riuscito ad organizzarsi.
Questo breve momento comunque è un traguardo al quale l’uomo era destinato di
arrivare. Noi umani, avevamo capacità insite in noi stessi dai primordi (mano prensile,
la capacità di camminare eretti e la parola). Per ora siamo gli unici del mondo
animale: gli unici civilizzati. Gli altri viventi non hanno sviluppato un linguaggio
necessario per la civilizzazione (per ora, non è da escludere in futuro) e non hanno
sviluppato la capacità di produrre.
L’atto produttivo, che è tipico dell’uomo, non è da considerarsi scontato. I nostri
primi antenati non conoscevano tecniche produttive ed era sufficiente per loro essere
raccoglitori e cacciatori spinti dall’istinto di sopravvivenza (come nel regno animale).

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Solo molto tardi arrivarono le prime scoperte e le conseguenti invenzioni.


Consideriamo che l’uomo, secondo i più recenti studi, è partecipe della storia da
3 500 000 anni ma solo nel mesolitico ( 20 000 - 10 000 a.c. ) apparve l’agricoltura e
solo 3 500 anni prima di Cristo venne inventata la scrittura. Questo ci aiuta a capire
ciò che intendevo poco prima: quanto sia breve la storia della civiltà rispetto alla storia
dell’uomo. Ma ci viene in soccorso per comprendere anche uno dei profondi
mutamenti che l’essere umano ha subito nel corso della propria storia, così antico che
oramai noi, al nostro tempo, fatichiamo ad apprezzare. Da raccoglitore, l’uomo, è
diventato coltivatore e da cacciatore si è evoluto in allevatore. In un dato momento
della storia l’uomo è passato dal raccogliere al produrre, dal trovare al creare. Questa
grande trasformazione unita a tante altre importanti rivoluzioni della storia ha fatto sì
che l’affermarsi dell’uomo persistesse.
L’uomo ha persistito nel suo imporsi evolvendo e mutando. Questa volontà di
imporsi mediata dalla propria capacità culturale ha veicolato l’uomo verso la
civilizzazione; ma: per quanto sia reale il fatto che molte comunità siano giunte alla
civilizzazione é altresì vero che questo ragionamento non vale per tutte le società
umane. Ancora oggi l'essere umano sfrutta il suo intelletto per vivere nei luoghi più
selvaggi, a contatto con la natura, lontano dalle luci della città e lontano dalla civiltà.

All’apice del nostro sistema civile, non abbiamo più bisogno di mangiare cibo
stagionale o locale, e abbiamo un appetito insaziabile. Non siamo mai stati così bravi a
sfruttare la natura ma non siamo ancora così bravi da gestirne le conseguenze.
Consumi di massa creano montagne di spazzatura; solamente nel regno unito vengono
prodotti oltre mille milioni di tonnellate di immondizia ogni anno. E scarichiamo dove
non vogliamo che si veda. Ma in alcune zone del mondo questa è la casa dei meno
fortunati. A Mumbasa nel Kenya la gente deve ricavare una vita dalle cose che gli altri
gettano via. Quelle discariche sono sia casa che terreno di caccia. Sono cacciatori e
raccoglitori moderni, adattati a vivere nel lato oscuro della giungla urbana. Il loro
retaggio culturale non è ancora ben organizzato (per diverse cause) come lo è il nostro.
Con la cultura siamo stati capaci di consolidare atti produttivi e riproduttivi e la
tensione volta a migliorare questi due elementi ci ha portato alla civiltà. Questa

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capacità riflessiva volta a migliorare, appartiene latentemente anche agli abitanti di


Mumbasa in quanto esseri umani. L’uomo ha sempre cercato di riprodurre,
migliorando, mentre gli animali tendono a riprodurre la loro cultura senza apportare
migliorie alle loro condizioni. Forse un giorno ci saranno le giuste condizioni sociali,
culturali, tecnologiche, economiche e politiche tali per cui collettività, come questa di
Mumbasa, possano giungere allo sviluppo ed al benessere. Non è paradossale
pensarlo: la tensione volta a migliorare attiene a tutti gli uomini. L’essere umano che
fino ad ora ha saputo adoperare al meglio la propria cultura ha raggiunto la civiltà.
Coloro che invece ancora sono distanti dalla modernità: impareranno. La cultura ci
rende uguali a tutti i viventi, la civiltà ne accentua le differenze.

Ritengo che a questo punto sia perspicuo come la cultura abbia consolidato
l’uomo in una posizione di prestigio rispetto agli altri viventi. Non è ancora stato
espresso però quale sia l’esercizio adoperato dall’uomo orientato a tramandare la
propria cultura alle generazioni successive. Per fare chiarezza su questo, ci viene in
soccorso un testo del 1971, opera dell’antropologa Margaret Mead, intitolato:
“Generazioni in conflitto”. Questo è un elaborato sull’umanità non costruito su gli
eventi storici, ma sui processi culturali nel quale l’autrice si pone l’obiettivo di fare
chiarezza su uno dei - così come lei lo definisce- “problemi fondamentali della società
di oggi che riguarda il tramandarsi di tradizioni, di valori, insomma di una cultura da
una generazione all’altra”.

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PARAGRAFO II: ruggine generazionale

“Le distinzioni che faccio fra i tre diversi tipi di cultura: postifigurativa, in cui i
bambini apprendono sopratutto dagli anziani, cofigurativa, in cui sia i bambini che gli
adulti apprendono dai loro pari e prefigurativa, in cui gli adulti apprendono anche dai

loro figli, sono un riflesso del momento in cui viviamo.” 3


L’antropologa intavola in questo modo la differenziazione delle culture che ha
potuto osservare nel corso dei suoi studi.
A differenza del paragrafo 1 dove ho cercato di mantenere un significato di
univocità per il termine cultura, in questo paragrafo vedremo come questo ammetta
l’accezione plurale. Proprio perché la Mead ci parla di culture e non di cultura è
necessario prima di proseguire fare chiarezza su questo punto.
La cultura è attitudine del vivente: la capacità di conservare. Ogni organismo
deve memorizzare una serie di atti che egli necessita per sopravvivere e per riprodursi.
Questa definizione ci consente di meditare la cultura come unitaria nel vivente.
Gli antropologi ci hanno fatto capire che seppur la cultura sia una struttura
esclusiva, alle differenti società attengono diverse manifestazioni della stessa. Ed è
proprio per le differenti manifestazioni della cultura che quest’ultima può essere intesa
con il termine plurale. La cultura è unitaria nel vivente ma si modifica negli aspetti:
cibi, vestiari, modi di abitare, sistemi difensivi, tecnologie, lingua ecc. Tra società
diverse la struttura della cultura è immutata; ciò che cambia sono gli accidenti. Un
comodo esempio lo si trova nel paragrafo 1 ed è legato alla realtà di Mumbasa.
Quando dicevo che un giorno gli abitanti di quella poverissima realtà avrebbero
raggiunto la civiltà, implicitamente intendevo proprio quanto appena detto. Loro,
portatori della propria cultura che differisce dalla nostra solo per gli eventi e per le
manifestazioni sono a loro insaputa (per il momento) diretti verso una società civile
simile alla nostra. Dico simile per non contraddirmi: se dovessero raggiungere uno
stato di benessere uguale al nostro a quel punto il termine cultura, per l’essere umano,
acquisirebbe solo significato singolare.
Valicato questo dibattito, che è appartenuto e attiene al mondo dell’antropologia
e della sociologia, è concepibile l’analisi della Dottoressa Mead.

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La suddivisione da parte dell’antropologa non è costruita per comprendere i


metodi di trasmissione culturale attraverso il tempo e la storia. La sua analisi ci porta a
conoscenza dei fondamenti di tre culture corrispondenti a tre diversi tipi di rapporti
tra padre e figli. Se comunque dovessimo sovrapporre alle tre tipologie di cultura
descritte dalla Mead una linea del tempo, scopriremmo quando nel corso degli eventi
umani si sono verificati quei mutamenti sociali, che hanno rivoluzionato i processi di
trasmissione culturale.
L’autrice avverte che nell’età contemporanea, per quanto riguarda la nostra
società, non vi è più una cultura postfigurativa nella quale i mutamenti sono così lenti
ed impercettibili che i nonni, cullando tra le braccia i propri nipoti, non riescono ad
immaginare nessun altro futuro possibile per i bambini che non sia identico alla
propria vita passata. Questo tipo di cultura attiene a società le quali non hanno
percezione di cambiamento. Citando la tribù degli Arapesh la Mead rende chiaro
come per loro il passato, per quanti mutamenti comprendesse, fosse perduto. “Per gli
Arapesh non esiste passato all’infuori di quello che è personificato dai vecchi e, in una
forma più giovane, dai loro figli e dai figli dei loro figli”. Si è verificato un mutamento,
ma esso è stato assimilato così radicalmente che le differenze tra abitudini acquisite in
periodi diversi sono scomparse nella comprensione e nelle aspettative della gente. Con
questo tipo di educazione è quindi impossibile che si verifichi una frattura, essa
comporterebbe un tale cambiamento di identità e continuità, sia esteriormente che
interiormente, da apparire come una nuova nascita4.
Alla nostra società, largamente più evoluta, appartiene invece la coscienza del
mutamento. In un dato momento della nostra evoluzione, che sulla linea del tempo
prima citata potrebbe essere nelle coordinate della rivoluzione industriale, è
incominciato un processo per il quale la famiglia tradizionale - patriarcale (titolare di
cultura postfigurativa) è venuta meno. Dopo l’industrializzazione si incomincia a
vivere con i propri pari e ad apprendere dagli stessi. Quando prima la triade familiare
patriarcale garantiva la certezza , espressa dai membri appartenenti alla generazione
più vecchia con ogni loro atto, che il loro modo di vivere (per quanto, in realtà, molti
mutamenti possano esservi già incorporati) è immutabile ed eternamente lo stesso, ora
questa certezza viene meno in favore di una cultura cofigurativa nella quale si cresce

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facendo esperienza con i propri pari. In una cultura cofigurativa i giovani e gli anziani
apprendono rispettivamente dai propri coetanei, e gli adulti rinunciano a trasmettere
ai giovani il loro comportamento culturale. Questo avvenimento genera
inequivocabilmente un conflitto tra generazioni all’interno del quale le culture
prefigurative che non riescono a comprendere il mutamento si scontrano con le
culture cofigurative che sono titolari di conoscenze differenti da quelle dei loro
predecessori. Da un lato c’è l’incredulità da parte degli anziani di fronte ad un mondo
che non hanno conosciuto e che non riescono a spiegarsi , mentre dall’altra parte ci si
dirige verso l’ignoto con la brama di cambiamento, in direzione di ciò che ancora non
è stato prodotto e riprodotto.
Con la coscienza di oggi è facilmente comprensibile come la cultura cofigurativa
abbia preso il sopravvento su quella postfigurativa: la nascita delle scuole, degli
impieghi, delle istituzioni, degli ospizi, hanno contribuito a scardinare il metodo di
insegnamento verticale postfigurativo in favore di un apprendimento orizzontale con i
propri pari. E’ importante precisare che la cultura cofigurativa non ha sostituito la
cultura postfigurativa facendola scomparire, anzi: In tutte le culture cofigurative sono
ancora gli anziani ad avere il predominio, nel senso che sono essi a stabilire il modo e a
fissare i confini entro cui, nel comportamento dei giovani, si manifesta la
cofigurazione.5
Margaret Mead ci suggerisce che cultura postfigurativa, cultura cofigurativa e

cultura prefigurativa attualmente coesistono. Tuttavia mentre le prime due stanno

scomparendo, la terza si sta affermando.

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PARAGRAFO III: il futuro è ora

Le culture prefigurative sono descritte dall’antropologa Margaret Mead

come quelle in cui le nuove generazioni non imparano le proprie abitudini dagli

anziani, perché i giovani vengono introdotti in un mondo radicalmente diverso

da quello che era ai tempi dei loro predecessori. “Oggi chiunque sia nato e

cresciuto prima della seconda guerra mondiale è simile ad un immigrante nel

tempo[…] il quale cerca di lottare contro le nuove condizioni di vita che non gli

sono familiari.” 6

Gli anziani sono divisi dai giovani anche perché la loro è una condizione

stranamente isolata. Nessuna generazione ha mai avuto modo di conoscere,

provare e assimilare dei mutamenti così rapidi né visto mutare di fronte ai suoi

stessi occhi le fonti del potere, i mezzi di comunicazione, il concetto di umanità,

i confini dell’universo percorribile, la certezza di un mondo conosciuto e

limitato, gli imperativi fondamentali della vita e della morte (Mead, p116). La

frattura nasce anche a seguito di una ribellione giovanile caratterizzata da

un’acquiescenza del tutto indifferente e utilitaria alle regole che sono considerate

delle assurdità. “Per loro il passato non è altro che un immenso, incomprensibile

fallimento […] perciò sono pronti ad aprire la strada a qualcosa di nuovo per

mezzo di una demolizione sociale simile al lavoro di una ruspa che abbatta gli

alberi e distrugga le caratteristiche del paesaggio per fare posto a una nuova

comunità”. 7

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A questo punto di rottura tra due gruppi radicalmente diversi e

strettamente a contatto diventa inevitabile che entrambi siano estremamente

isolati.

Anticipo che, per l’antropologa, la questione è risolvibile nel momento in

cui le vecchie generazioni “scendano a patti” con i giovani: sono i giovani ad

essere i veri portatori di cultura, e spetta agli adulti di adeguarsi. Tra i giovani

contestatori c’è chi lo riconosce. è significativo che siano essi a chiedere ai

genitori e ai rappresentanti di questi, presidi, rettori, giornalisti, di schierarsi

dalla loro parte, di venire a patti o quantomeno di lasciarli liberi di agire.

Chiedono e sperano, anche se dimostrano contro gli amministratori delle

università, che il rettore vada a discutere con loro e che porti i propri figli

(Mead, p124). Le vecchie generazioni invece continuano ad usare le

caratteristiche del passato come criteri per l'analisi dei processi che non

rispondono più a questi parametri. Questi adulti non si rendono conto che i

valori non sono mai assoluti, ma sempre relativi ad una società e a un certo

tempo.

Viviamo in tempi in cui gli adulti sottolineano una crisi dell'istruzione

accusando i giovani di non essere adeguatamente preparati; dove gli studenti si

ribellano contro l’autorità. Una formazione in cui fallimento e abbandono

aumentano scandalosamente. La rilevanza speciale che acquisisce questo

problema in materia di istruzione ci viene suggerita da Gustavo M, educatore

Argentino, ed è dovuta al fatto che l'educazione è sempre stata la responsabile

della storia per trasmettere non solo la conoscenza ma anche i modelli di

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comportamento socialmente accettato. Dal momento in cui un adulto

percepisce che i modelli di comportamento ottenuti dai giovani sono una

rivoluzione rispetto a quelli di cui è a conoscenza, è immancabilmente portato a

pensare al decadimento dei valori che ha fatto propri e che non riconosce più

nelle nuove generazioni. Ma per nostra conoscenza, si sta facendo lo stesso

errore che Margaret Mead ha sottolineato in relazione agli adulti: con la

comprensione del presente come una semplice continuazione del passato, sono

alla ricerca di risposte nei posti sbagliati.

Il futuro è ora dice la Mead, ed è aldilà delle porte del futuro che sono

celate le risposte. La lettura del futuro aggiunge, è impersonata non dal genitore

o dal nonno; ma dal bambino. Deve essere il bambino ancora in grembo alla

madre e non l’anziano imponente con i capelli bianchi che nelle culture

postfigurative rappresenta sia il passato che il futuro in tutta la loro grandezza e

continuità a divenire il simbolo di che cosa deve essere la vita.8 é un bambino di cui

ignoriamo il sesso, l’aspetto e le capacità. è un bambino che sarà un genio o che

soffrirà di qualche grave menomazione, e avrà bisogno di cure da parte degli

adulti fornite in modo più intelligente, profondo e innovatore di quello attuale

(Mead, p126).

Credo che, con questa definizione, l’antropologa intenda dire che il futuro è

nel linguaggio delle nuove generazioni ma la lettura di questo linguaggio deve

partire dalle vecchie generazioni. “Dobbiamo sistemare il futuro, come avviene

al bambino non ancora nato in grembo alla madre, già bisognoso di cose per le

quali se non saranno pronte prima che egli nasca, sarà troppo tardi” 9. Solo nel

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momento in cui un adulto anziché invocare la propria giovinezza per

comprendere i giovani, è disposto ad affrontare la lettura del linguaggio dei

propri figli, si potrà intravedere uno spiraglio di luce in quell’ormai

pluridecennale buio che avvinghia il rapporto tra generazioni.

Dal momento che le tesi riportate sopra si rifanno ad un testo del 1971 è

interessante esaminare come quasi mezzo secolo dopo, quelle percezioni della

ricercatrice, siano ancora attualissime. Da quanto appena detto si evince quindi

che ancora non è stato trovato il punto di incontro tra generazioni (passato e

futuro), causa di immobilismo e divisioni sociali. Un’immobilismo che avverte

Michel Serrs nel libro tempo di crisi. Per il filosofo Francese quello che colpisce è

che nonostante i giganteschi sconvolgimenti che negli ultimi decenni hanno

trasformato l’umanità, le istituzioni non sono cambiate.

La crisi riconosciuta dal Filosofo è ben più amplia della sola crisi

economica che rumorosamente i mass media hanno fatto entrare nelle nostre

abitazioni. L’autore avverte che di recente sono entrate in crisi la produzione

agricola e la circolazione dei suoi prodotti, l’insegnamento, l’Università, cioè la

trasmissione del sapere e delle tradizioni, l’esercito, la guerra stessa e il

terrorismo, gli ospedali, il diritto, il legame sociale, le città, le religioni…

Con altre parole dice: piuttosto che parlare soltanto del recente disastro

finanziario, la cui importanza deriva dal fatto che il denaro e l’economia si sono

impadroniti di tutti i poteri, dei media e dei governi, meglio sarebbe assumere

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l’esperienza, evidente e globale, che l’insieme delle nostre istituzioni conosce ormai una crisi che

supera di gran lunga la portata della storia comune.

Si capisce che la cosiddetta crisi è dovuta in linea di principio al fatto che il

passato, con i concetti di illuminazione istituiti come un nord intellettuale, ha

fallito come “azienda”. Al di là di questo non sono state formulate tesi per

l’inserimento di tecnologie, la logica, il formato e la struttura del rendimento

istituzionale e per rispondere a concetti obsoleti, che risultano essere

incompatibili con il presente. Allo stesso modo, i valori del passato, prodotto di

quella particolare configurazione della realtà sociale, sono esauriti e non si

adattano a questo nuovo contesto. (Gustavo M)

La conseguenza di questo nell'istruzione è che la scuola, come una

moderna istituzione per eccellenza non è stata adattata alle variazioni tipiche

dei tempi. Con il passare delle trasformazioni socioculturali è stata osservata una

forte interferenza di dispositivi di globalizzazione e tecnologici, nonché il

riconoscimento della diversità culturale, nel processo di istruzione formale.

Nonostante queste agnizioni, dal recente testo “Corrispondenze”10 si apprende

come ancora non si sia riuscito ad integrare al mondo scolastico, in evidente

stato di obsolescenza, le nuove tecnologie: sia fisiche che intellettuali. In questo

elaborato viene denunciato, da parte di molti oratori, come il sistema

istituzionale sia di importanza marginale nell’introdurre nuove metodologie

didattiche richieste a gran voce sia dagli studenti che dagli educatori. Proprio

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per questo “apparente scarso interesse” da parte delle istituzioni, che per prime

dovrebbero investire sul cambiamento, permane l’immobilismo sopra citato.

Dallo stesso testo si evince come i giovani siano a proprio agio ad utilizzare gli

strumenti tecnologici nell’ambiente scolastico. A differenza dell’idea comune di

“decrescita culturale” legata all’introdurre il linguaggio digitale nel mondo

dell’istruzione, si intende che questo tipo di linguaggio appartiene già agli

studenti, ed è la strada da percorrere permettere loro di utilizzare tali tecnologie

come potenziamento allo studio. Ancora Michel Serres ci viene in aiuto con

un’altro testo intitolato “Non è un mondo per vecchi” nel quale dice: Lo spazio

della classe o dell’aula universitaria si può anche descrivere come un veicolo in

cui i passeggeri, seduti ai loro posti nei vagoni, si lasciano condurre dal pilota

verso il sapere. Il corpo del passeggero è rilassato, pancia all’aria, lo sguardo

vago e passivo. Invece il conducente, attivo e attento, inarca la schiena e tiene le

braccia sul volante. Quando i ragazzi usano il computer o il cellulare,

richiedono il corpo di un conducente in tensione attiva, non quello di un

passeggero in rilassata passività: domanda, non offerta. Inarcano la schiena, non

lasciano la pancia all’aria. Provate a spingere questi ragazzi dentro un’aula: il

loro corpo abituato a guidare non sopporterà a lungo di rimanere al posto del

passeggero passivo; allora, senza una macchina da guidare, i ragazzi

cominceranno a fibrillare. Baccano. Date loro un computer e ritroveranno la

gestualità del loro corpo-pilota. Seguendo questo ragionamento si capisce in

senso più esteso come non esistano più spettatori ma soltanto conducenti. Ma al

di fuori di questa conclusone è interessante fare un paragone tra la scuola di

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oggi e la scuola di un secolo fa. I giovani di allora entrando a scuola muovevano

i propri passi verso il futuro, verso strumenti che a casa non possedevano

(cartine geografiche, abaci, abbecedari e calamai) e che rappresentavano le

tecnologie di allora. Nella scuola di oggi, qualsiasi studente muove i propri passi

verso il passato per via del fatto che a casa propria possiede strumentazioni ben

più all’avanguardia di quelle scolastiche.

È in questa separazione dal mio punto di vista che si svela la crisi scolastica

attuale, una crisi che io stesso ho sentito frequentando l’istituzione scuola.

Paradossalmente per far fronte a questo problema è necessario rendere le scuole

come una volta, integrate a tal punto di tecnologia e novità da renderle case del

sapere. Mi ripeto, attualmente ciascuna abitazione è una casa del sapere. Forse

proprio per questo l’abbandono scolastico va sempre più aumentando. Senza

rischio mi viene da pensare che una dose di colpevolezza vada ricercata tra gli

educatori. Molti tra di essi infatti non sono ancora riusciti a superare il conflitto

tra generazioni; ragione per cui spesso si rifanno a pratiche educative arretrate

che non rispondono alle diversità di linguaggio che si trovano nelle aule

moderne.

Al di fuori del contesto scolastico potremmo integrare i ragionamenti

appena postulati a molte, se non tutte, strutture istituzionali che sbarrano la

strada al cambiamento. Queste, gelose della propria persistenza, che ha

insegnato loro l’agio, non si rendono conto che il mutamento è stato ed è tuttora

il motore sociale delle migliorie umane. O forse lo sanno e maliziosamente

perpetuano le vecchie pratiche per impedire l’ingresso del cambiamento.

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Qualunque sia la motivazione non ha la stessa importanza di un’eventuale

risposta che potrebbe essere: assecondare il cambiamento anziché denunciarlo

dopo la manifestazione dello stesso. Il cambiamento lo vedo come un nuovo

nato: esso va accudito e studiato, è importante saziarlo e accompagnarlo. Un

tale esercizio limita i ritardi dell’evoluzione, nei quali già ci troviamo. Il futuro è

ora ci ricorda Margaret Mead e per questo non possiamo più permetterci di

procrastinare l’ideazione dello stesso. Dato che possiamo costruirlo, e anche

bene, non lasciamo che giunga a noi a stenti e privo di forze: nutriamolo e

rendiamolo vigoroso.

Riprendo la frase che ho abbandonato alla terza pagina del paragrafo tre:

“è aldilà delle porte del futuro che sono celate le risposte.” Quelle porte sono

chiuse e c’è solo una chiave per aprirle: il cambiamento. Dietro quelle porte

sono chiusi gli infiniti tesori del sapere. Con il tempo esse si apriranno sotto la

spinta della curiosità e dello spirito indagatore delle future generazioni.

O così credo.

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Didascalie:
1. Guy Debord, La società dello spettacolo, Baldini e Castoldi, Milano,2001, cit.

2. Scrittore, regista e Filosofo Francese. Tra i fondatori dell’Internazionale Situazionista. (1931-1994)

3. Generazioni in conflitto, Margaret Mead, Rizzoli, Milano,1972 cit.

4. ibidem.

5. ibidem.

6. ibidem.

7. ibidem.

8. ibidem.

9. ibidem.

10. Corrispondenze - Giovani, linguaggi digitali, pratiche educative, a cura di Daniel Boccacci, Unicopoli, 2016

Bibliografia:
• La società dello spettacolo, Guy Debord, 2001, Baldini e Castoldi,
Milano, 2001.
• Generazioni in conflitto, Margaret Mead, Rizzoli, Milano, 1972.
• Tempo di crisi, Michel Serres, Bollati Boringhieri editore, Torino, 2010.
• Non è un mondo per vecchi, Michel Serres, Bollati Boringhieri editore,
Torino, 2013.
• Corrispondenze - Giovani, linguaggi digitali, pratiche educative, a cura di
Daniel Boccacci, Unicopoli, 2016.

Bibliografia multimediale:
• www.pluralmodestia.wordpress.com, Gustavo M, Buenos Aires, 2011.
(https://pluraldemodestia.wordpress.com/2011/12/20/margaretmead/)
• Paperino nel mondo della matemagica, Disney, Stati Uniti d’America,
1959.
• Documentario: Human Planet, BBC, Regno Unito, 2011.
• www.treccani.it

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