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Verso l’autonomia

Percorsi educativi per ragazzi con disabilità intellettiva


Premessa
L’espressione “buone prassi” indica quelle azioni necessarie a trasformare le
organizzazioni culturali, sociali e istituzionali.

Il tema dell’autonomia nella realtà urbana è dominato dalla paura di non avere
sufficiente sicurezza. Questo perché essere autonomi significa essere slegati
dall’aiuto e dal sostegno altrui, quindi si pensa di non avere abbastanza
sicurezza quando si è autonomi proprio per la mancanza di un altro individuo
che eventualmente potrebbe proteggerci in situazioni di pericolo.

Oggi, si assiste all’individualismo di massa: ciascuno crede di poter


raggiungere un’ampia autonomia autarchica coincidente con l’assunzione di
un grande potere individuale. Però, l’autonomia come autarchia (“bastare a sè
stesso”), come capacità individuale di fare a meno dell’aiuto degli altri, porta a
grandi dipendenze, o meglio a sofferenza e subordinazione.

La prima autonomia che si raggiunge è l'essere capace di esprimersi non solo


con l’azione ma anche con la parola per diventare un autonomo parlante.
Essere autonomo parlante significa anche accettare di entrare in un codice che
ha le sue regole: se chi cresce non parla una lingua comprensibile da una
comunità, rischia di avere un’autonomia che non funziona nell’appartenenza e
quindi è una falsa autonomia.

Uno dei bisogni più presenti è il bisogno di appartenenza, il quale si innesca


molto precocemente, sin dai primi momenti in cui un essere vivente è al mondo.
L’appartenenza è una necessità e può essere definita come quel collegamento
continuo tra il soggetto e le quotidianità degli altri individui. Infatti, il termine
“appartenenza” rinvia ad “appartenere” che viene spiegato come essere
proprietà di qualcuno. Quindi, fa riferimento al bisogno di essere parte, di far
parte, di essere insieme. Infatti, la risposta al bisogno di appartenenza che viene
interpretata come “sono proprietà di qualcuno” porta alla ricerca del proprietario
ideale a cui sottomettersi. Però, ci sono delle insidie: la sottomissione (essere
proprietà di qualcuno) e la ribellione (conseguenza dell’essere sottomesso a
qualcuno, ci si vuole liberare da questo vincolo).

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Nei percorsi di crescita all’autonomia è importante il rapporto tra controllare
ed essere controllato: “so controllare quindi non ho bisogno che altri
controllino per me”. È importante la possibilità di accedere al controllo delle
informazioni al fine di individuare quelle giuste per realizzare il proprio
compito.

Vi è la necessità che non si metta come elemento indispensabile la conquista di


una totale organizzazione autonoma, ma deve esserci anche la possibilità che
l’organizzazione autonoma significhi: io, soggetto che ha bisogno dell’aiuto
degli altri, indico agli altri le operazioni da fare e gli altri non li fanno senza le
mie indicazioni ma aspettano le mie richieste. Quindi, il soggetto deve essere sì
in grado di organizzarsi autonomamente, ma questa condizione non deve essere
esclusiva, infatti ha la possibilità di chiedere aiuto anche se è autonomo. In
riassunto, l’autonomia non esclude la possibilità di contare sugli altri.

La relazione di contiguità, ossia “essere accanto a…”, è tipica di coloro che


lavorano negli atelier o nei laboratori e non è direttamente educativa. In questi
ambienti è necessaria l’organizzazione del tempo, dello spazio, dei materiali e
dei gesti, la quale è determinata dalla finalità produttiva del laboratorio.
Quindi, la relazione che si instaura tra chi conduce il laboratorio e i ragazzi che
ne fanno parte è secondaria perché tutto si incentra sulla produzione. Inoltre, chi
conduce il laboratorio ha delle esigenze: deve poter continuare a lavorare,
pertanto chi entra nel laboratorio non deve essere di impedimento, non deve
attirare un’attenzione particolare su di sé, distogliendola da quella che è
l’attività del laboratorio stesso. Il laboratorio impegna la tensione e impedisce di
parlarsi. Infatti, la relazione di contiguità avviene essendo a fianco, ma senza il
“faccia a faccia”. Questo tipo di relazione si può trovare in un certo senso anche
nella quotidianità: chi cresce ha avuto la possibilità di vivere accanto a chi si
occupa della vita domestica, prepara da mangiare, giusto oggetti, fa tante attività
che possono essere considerate di laboratorio domestico. Qualche volta,
inoltre, i suoi giochi si intrecciano con il lavoro, mentre altre volte prendono
spunto dal lavoro, il quale può essere a sua volta un punto interessante per lo
sviluppo di giochi.

L’ostacolo obliquo è un ostacolo che si presenta in maniera tale per cui colui
che deve saltare l’ostacolo può misurarsi secondo le proprie capacità e non
secondo uno standard livellato ad una certa altezza.

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Le cure ricorsive fanno riferimento all’organizzazione della quotidianità.

Introduzione
Con l’allungamento dell’aspettativa di vita, il numero dei disabili adulti in Italia
è cresciuto moltissimo. Questo fenomeno comporta la necessità di prestare
maggiore attenzione ai bisogni dell’età adulta, ma anche la richiesta di
guardare i bambini di oggi come adulti di domani per aiutarli a conquistare
un’autonomia utile nel futuro. Nel 1989, con questo obiettivo, è nato a Roma,
presso l’associazione italiana persone Down (AIPD), il primo corso di
educazione all’autonomia per adolescenti con la sindrome di Down. Il
progetto e il metodo che caratterizza questo corso è stato sperimentato anche
con ragazzi che avevano altre disabilità intellettive, dimostrando in un’efficacia
più generale.

Motivazioni e obiettivi di un itinerario di educazione all’autonomia


La crescita del bambino può essere vista come un graduale passaggio dalla
dipendenza all’autonomia. Nella crescita verso l’autonomia, un bambino con
disabilità incontra due tipi di ostacoli: da una parte le difficoltà legate al suo
deficit, dall’altra gli atteggiamenti di paura e le ambivalenze dell’ambiente che
interferiscono con il suo grado di autonomia potenziale. Spesso, i genitori, ma
anche la gente che lo circonda, sviluppano nei suoi confronti un atteggiamento
assistenziale e protettivo che ne limita l’acquisizione di indipendenza. Questo
accade perché il bambino viene ritenuto incapace di assistere da solo a se stesso.
Tra coloro che si occupano di ritardo mentale è sempre più pressante la
convinzione dell’importanza dell’educazione all’autonomia per l’inserimento
sociale del soggetto con disabilità. A tale scopo, è stato delineato un itinerario
educativo nell’ambito dell’autonomia esterna, formato da un elenco di abilità
utili: comunicazione, orientamento, comportamento stradale, uso del denaro,
uso dei servizi e dei mezzi di trasporto.
1) Comunicazione: è la possibilità di poter esprimere i propri bisogni, i propri
desideri e i propri pensieri. È più semplice con le persone conosciute ed è più
difficile quando ci si muove all’esterno fra estranei. È essenziale per sviluppare
la capacità di chiedere informazioni.
2) Orientamento: i soggetti con disabilità hanno una scarsissima attenzione
rispetto al percorso da fare, i punti di riferimento, i nomi delle strade. Però, è
importante sapersi orientare per muoversi in modo autonomo.quindi, bisogna
aumentare la capacità di guardarsi intorno in modo consapevole: leggere e

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seguire indicazioni stradali, trovare punti di riferimento, riconoscere le fermate
dell’autobus e altro. A questi soggetti non è possibile proporre l’uso di mappe,
ma è possibile lavorare sull’orientamento tramite il chiedere informazioni e
seguire indicazioni, usando adeguati punti di riferimento nella realtà.
3) Comportamento stradale: fondamentale per l’autonomia all’esterno e
l’assunzione di comportamenti adeguati che permettono di muoversi da soli
prestando la dovuta attenzione ai veicoli in arrivo e ai vari segnali pedonali. È
necessario acquisire coscienza sulla necessità di tenere un atteggiamento che
permetta di prevenire eventuali pericoli di mantenere buone relazioni con gli
altri. Spesso, le persone disabili, anche in età adulta, vengono tenute per mano
dei propri accompagnatori, ma questo atteggiamento va eliminato perché
conferma il soggetto bambino e questo va contro la conquista dell’autonomia.
4) Uso del denaro: l’obiettivo è permettere ai ragazzi di utilizzare il denaro per
fare acquisti autonomamente. Questo processo ha delle fasi: capire il significato
e l’uso del denaro, riconoscere i diversi tagli di monete e banconote, contare i
soldi, conoscere a grandi linee il valore dei principali articoli di uso più
consueto, leggere i prezzi, fornire il denaro richiesto, comprendere quando si
deve ricevere il resto e saperlo verificare. Per sviluppare queste abilità si devono
proporre occasioni di acquisto.
5) Uso dei servizi e dei mezzi di trasporto: per cavarsela nella realtà è
necessario imparare a riconoscere e a utilizzare adeguatamente e con
dimestichezza i negozi servizi di uso più comune. Per quanto riguarda i negozi,
si tratta di saper individuare gli esercizi commerciali utili all’acquisto dei vari
prodotti. Tra gli altri servizi troviamo l’uso dei principali uffici pubblici e i
luoghi di divertimento, ognuno dei quali ha delle proprie regole che devono
essere rispettate. Infine, è importante anche sapere usufruire dei mezzi di
trasporto, per i quali sono necessarie capacità di orientamento nello spazio
(percorsi) e nel tempo (orari).
Autonomia non vuol dire solo acquisire alcune competenze, ma riconoscersi
grandi e sentirsi tali: non basta “saper fare” le cose da grandi per sentirsi
grandi, ma è necessario intervenire anche sulla costruzione di un’identità di
adolescente e poi adulto, sul “saper essere” una persona grande. Per questo è
importante lavorare sia sul possesso di abilità sia sulla percezione di se stessi.

Il corso di educazione all’autonomia


Nel 1989, a Roma, presso l’associazione italiana persone Down, è nato il primo
corso di educazione all’autonomia rivolto a ragazzi tra i 15 e i 20 anni. Oggi

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questo corso si è espanso in tutta Italia. Il clima che regna in questo corso è
quello di fiducia e di rispetto nei confronti del ragazzo, il quale riesce a trovare
qui maggiore motivazione a imparare e può crescere più globalmente come
persona. Vengono proposti apprendimenti a loro misura per potersi poi integrare
come singoli o come piccolo gruppo fra la gente del quartiere, delle strade, della
realtà. Infatti, la maggior parte delle attività si svolgono in strada, sui mezzi, nei
luoghi pubblici, in mezzo agli altri con i quali si impara a relazionarsi in modo
sempre più adulto e autonomo. Questa esperienza “speciale” serve per acquisire
abilità e assumere anche maggiore consapevolezza di sé e potersi, grazie a
questa, integrare meglio nella realtà. Questo cammino verso l’autonomia non è
importante solo per la conquista di nuove abilità, ma come conquista di
dignità e acquisizione di identità, nella convinzione che esista un’autonomia
possibile per tutti e per ciascuno.

Il corso di educazione all’autonomia si colloca nel tempo libero e si struttura in


una serie di incontri pomeridiani. Ogni ragazzo si ritrova un pomeriggio a
settimana con un gruppo composto da otto o dieci ragazzi con sindrome di
Down e tre o quattro operatori. Dopo un momento comune, il gruppo si divide
in sottogruppi di due o tre ragazzi più un operatore e un volontario. È
all’interno del sottogruppo che vengono proposte la maggior parte delle attività.
Il sottogruppo è importante perché essere autonomi non significa solo cavarsela
da soli, ma anche imparare a collaborare, chiedere aiuto e a rispettare il proprio
turno. Inoltre, un Down non è abituato ad avere esperienze con un gruppo di
pari, è abituato ad avere un rapporto con figure adulte, quindi il gruppo dei pari
rappresenta per lui un’esperienza educante perché è un qualcosa di nuovo.
Questi gruppi devono essere costanti perché devono formarsi in essi dei ruoli.
È stato appurato che il periodo adeguato per permettere ad ognuno di acquisire
competenze sicurezza è tre anni.
Le attività proposte sono incentrate sulle cinque aree descritte precedentemente:
comunicazione, orientamento, comportamento stradale, uso del denaro, uso dei
servizi e dei mezzi di trasporto.
La realtà costituisce l’ambiente educativo in cui vengono proposti la maggior
parte degli apprendimenti secondo lo stile dell’imparare facendo.
Come contenitore per questa esperienza è stato creato il club dei ragazzi, di cui
gli iscritti al corso fanno parte e di cui portano la tessera. Questo permette loro
di identificarsi come adolescenti e come gruppo. Qui si fanno cose divertenti, si
fa amicizia e si imparano a fare le cose da grandi.

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I nodi che devono ispirare l’intero stile di lavoro sono quattro.
1) Rapporto basato sulla verità e sulla motivazione: la motivazione viene
usata come stimolo per ogni apprendimento (esempio: contare i soldi per andare
a fare merenda al fast-food). La motivazione funziona solo se si scelgono
motivazioni reali e non fittizie. Inoltre, tanto più la situazione sarà vera tanto più
ragazzi si sentiranno coinvolti, importanti e spinti ad agire (esempio: se un
ragazzo chiede ad una operatrice “mi vuoi sposare?” questa non risponderà
“conosciamoci meglio”, ma dirà “non sono innamorata di te, però possiamo
essere amici”).
2) Coinvolgimento attivo dei ragazzi nelle scelte e nella gestione delle
attività: i ragazzi devono essere sempre più protagonisti delle varie attività.
Protagonismo vuol dire essere al centro della situazione con assunzione di
responsabilità. I disabili, invece, sono spesso al centro dell’attenzione, ma quasi
mai con assunzione di responsabilità. Infatti, anche se nella vita spesso gli viene
proposto un ruolo attivo, questo è sempre sotto forma di aiuto (esempio: mi aiuti
a cucinare?) come accade per i bambini. È per tale motivo che i ragazzi con
disabilità si mostrano poco disponibili (esempio: perché devo farlo se ci sei tu e
io non sono necessario?).
3) Riconoscimento esplicito del loro essere grandi come rinforzo per
l’acquisizione di ulteriori autonomie: il riconoscimento del ruolo di queste
persone si realizza attraverso il linguaggio, i gesti e i contesti. È importante
mantenere un linguaggio semplice, ma non infantile e non utilizzare gesti come
il prendere per mano che per un adolescente, se non si è fidanzati, vuol dire solo
“sei un bambino, ti guido io”. Anche le attività devono essere adeguate al loro
essere adolescenti e devono ricevere fiducia da parte degli adulti perché questo
li stimola ad avere maggiore iniziativa e coraggio nel fare le cose. Le
conversazioni devono essere reali, non devono assecondare fantasie impossibili
e si deve parlare con i ragazzi dei loro desideri e dei progetti per il futuro.
4) Percorsi e strategie personalizzate: per ogni ragazzo, a partire dall’analisi
dell’abilità già possedute, vengono posti ogni hanno obiettivi individualizzati.
Infatti, dopo due o tre mesi di attività, ad ogni ragazzo vengono proposti cinque
obiettivi concreti da raggiungere per diventare “ragazzi in gamba“. Inoltre, per
ogni ragazzo, vengono individuate delle strategie per renderlo autonomo e
talvolta vengono usati anche strumenti facilitanti che possono facilitare
l’esecuzione di alcuni compiti e fungere da ausili per il raggiungimento degli
obiettivi di autonomia (esempio: si sceglie di dare ai ragazzi un marsupio perché

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permette di avere entrambe le mani libere per estrarre e conteggiare il denaro
con più facilità).

Lo staff del corso di educazione all’autonomia è formato da: coordinatore,


educatori/operatori e volontari. Ogni due o tre ragazzi presenti, c’è un
educatore, che cura il progetto educativo e il rapporto diretto con le famiglie, e
un volontario. Gli educatori sono persone che hanno una formazione
universitaria di tipo socio-psicopedagogico o una lunga esperienza sul campo
del volontariato come educatori o animatori, inoltre gli viene chiesta una
formazione sulla metodologia del progetto e devono documentare le attività
svolte. I volontari devono condividere l’esperienza con i ragazzi, affiancando
l’operatore seguendo le indicazioni di quest’ultimo.per loro sono programmati
incontri di formazione e di verifica durante l’anno. L’età degli operatori e dei
volontari non deve superare i 30-35 anni perché devono condividere con i
ragazzi un certo “spirito di banda“. Inoltre, è preferibile che operatore e
volontario siano del sesso opposto per poter fornire ai ragazzi entrambi i
modelli di riferimento, sia quello dell’uomo, sia quello della donna. Il
coordinatore, invece, è un professionista del settore che coordina e
supervisiona, aiutando gli operatori nella programmazione. Coordinatore e
operatori si incontrano periodicamente per la verifica e la programmazione del
corso stesso.
Lo stile di lavoro dello staff ha fatto proprio questi elementi: l’importanza della
supervisione, progettualità, elasticità e capacità di riprogettazione continuo,
ricerca di consulenze esterne se necessario, aggiornamento continuo, creatività e
documentazione accurata del lavoro.

Affinché il lavoro degli educatori sia efficace, il progetto deve essere condiviso
con i genitori, quindi deve esserci un’alleanza famiglie-educatori. Queste due
parti devono collaborare, nel rispetto dei reciproci ruoli, a camminare nella
medesima direzione, infatti per consentire ai ragazzi di diventare adulti è
necessario che anche i genitori comincino a considerarli tali.
Gli obiettivi sono: coinvolgere i genitori nella crescita dei propri figli
adolescenti, aiutarli a osservarli e a scoprirli; a capire ad esempio che uno può
non essere rifiuto chiusura, bensì desiderio di indipendenza; ad avere maggiore
fiducia nei loro figli e in se stessi; a scoprire nuovi spazi di autonomia nella vita
di tutti i giorni.

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Gli incontri con i genitori possono essere: di grande e piccolo gruppo, colloqui
individuali, contatti telefonici oppure lettere. Ci sono scambi costanti di poche
parole al termine del pomeriggio e viene usata la comunicazione epistolare per
comunicare, ad esempio, un appuntamento per raccontare un’attività, inoltre al
termine dell’anno di corso i genitori ricevono una lettera dove si relaziona sulle
conquiste sui cambiamenti ottenuti per rendere conto del cammino fatto dal
ragazzo.

Alcuni esempi che possono aiutarci a riflettere.


1) Da “mi aiuti” all’incarico: il genitore deve evitare di chiedere aiuto al figlio
perché questo lo fa sentire bambino, al contrario deve affidargli un compito che
può fare da solo.
2) Da “ecco i soldi” alla paga settimanale: i genitori non devono fungere da
“bancomat” a cui il ragazzo chiede soldi quando ne ha bisogno, ma devono
fornire al figlio una paga settimanale che tiene conto delle spese che è abituato a
fare, con anche un margine in più che il ragazzo può gestire come vuole.
3) Da “ecco i vestiti” a prepariamoli, scegliamoli, compriamoli insieme:
spesso, per la fretta, il genitore prepare i vestiti al figlio, ma dovrebbe
coinvolgerlo nella scelta degli abiti da indossare perchè questo lo porta a
riflettere sugli abbinamenti di colori, su quali vestiti sono meglio in base alle
condizioni climatiche ecc.
4) La gestione degli spazi in casa: i ragazzi devono imparare a condividere
spazi, orari e la routine della famiglia.
5) Le opportunità per uscire e fare acquisti da soli: i genitori devono trovare
nella quotidianità delle occasioni per far fare compere in autonomia ai ragazzi,
come l’acquisto della merenda a scuola, del giornalino preferito in edicola o
altre piccole commissioni sotto casa.
6) “Non è mamma il mio orologio”: spesso la vita di questi ragazzi è scandita
da qualcuno che gli dice quando prepararsi, quando uscire ecc, ma devono
imparare a capire il tempo grazie agli orologi e all’esperienza. Ad esempio, il
genitore può dire “alle 16:00 devi essere pronto per andare al cinema” senza poi
ricordargli di prepararsi.
7) Il cellulare per comunicare, non per giocare: quando i ragazzi iniziano ad
uscire da soli bisogna fargli capire l’importanza del cellulare come mezzo per
comunicare, coinvolgendoli anche nelle azioni di ricarica della batteria e del
credito.

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8) Le “buone abitudini” prima di uscire (documenti, portafoglio, chiavi): è
bene iniziare ad esempio con “mentre io parcheggio tu vai in casa che hai le
chiavi” fino a far diventare l’avere questi oggetti un’abitudine.

Lo svolgimento del corso


Ogni ragazzo frequenta il corso una volta settimana da ottobre a giugno e il
corso è impostato su un periodo di tre anni: il primo anno è quello delle prime
scoperte, il secondo anno quello delle conquiste e il terzo anno è quello del
consolidamento.
I gruppi sono verticali, vale a dire che prevedono la partecipazione dei ragazzi
delle tre annualità.
Per la formazione del gruppo si tiene conto della disponibilità dei ragazzi per il
giorno indicato e si cerca di mischiare i due sessi. Invece, per la formazione dei
sottogruppi si tiene conto più delle caratteristiche caratteriali dei ragazzi. Ad
esempio, è più opportuno inserire un ragazzo con gravi difficoltà in un
sottogruppo con altri due ragazzi molto più competenti cosicché questi ultimi
due possano fungere da modello positivo per il primo. In questo modo, il
ragazzo con gravi difficoltà sarà più tollerato dai compagni e i compagni più
competenti cresceranno maggiormente grazie all’assunzione di responsabilità
nei confronti del compagno bisognoso.
Le attività iniziano con una festa di sera. L’anno e poi diviso in due fasi: nei
primi tre mesi si respira un clima di autonomia, dove si fanno cose da grandi e
ci si diverte insieme, viene elaborato un regolamento da parte dei ragazzi e gli
operatori conducono un’osservazione più mirata; mentre nella seconda parte
dell’anno tutte le attività ruotano attorno agli obiettivi individuati per ogni
ragazzo, si fanno visite a casa e nei quartieri dei ragazzi, si realizza almeno un
weekend fuori città quel gruppo e una giornata lunga da passare interamente
insieme. Inoltre, nella seconda parte dell’anno viene anche offerta ai ragazzi la
possibilità di partecipare ad alcuni incontri di educazione affettiva-sessuale (il
tema dell’affettività e della sessualità è strettamente connesso con quello
relativo alla consapevolezza della propria identità. Gli educatori devono
accogliere i gesti e le domande dei ragazzi rispondendo sinceramente le
domande sul sesso. I ragazzi sono liberi, quindi possono esprimere la propria
affettività con tranquillità, sempre che ci sia un’adesione reciproca e che i gesti
siano adeguati alle situazioni. Almeno due volte l’anno si organizzano incontri
specifici dedicati al tema).

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I percorsi che si realizzano sono due: il percorso del gruppo e il percorso
individuale. Questi si intrecciano perché il miglioramento del singolo porta
anche ad un miglioramento del gruppo in cui è inserito e viceversa.
Il corso deve finire, altrimenti non si riconosce mai esplicitamente ai ragazzi di
essere grandi e si restituisce un messaggio di perenne inadeguatezza.
Al termine dei tre anni si arriva a sperimentare il “tornare da un posto
sconosciuto” che è l’occasione per verificare la capacità di mettere insieme le
varie abilità acquisite al corso.
Nel lavoro degli operatori la documentazione è importante per imparare a
rileggere la propria esperienza e per renderla trasferibile. È indispensabile tenere
un verbale delle riunioni di staff, organizzare e aggiornare le cartelle individuali
dei ragazzi e talvolta usare riprese video per le attività.

Le attività
Ogni attività nasce dall’incrocio degli obiettivi educativi con le opportunità
offerte dal territorio, dal calendario, dalla storia e dagli interessi dei ragazzi. Il
lavoro di progettazione svolto dagli operatori parte dall’individuazione delle
opportunità utilizzabili per poi poterle usare ogni qualvolta è necessario
decidere che cosa fare nel pomeriggio. Se, ad esempio, è il compleanno di
Alessandro, si può sfruttare quest'occasione per preparare una festa chiedendo
ad alcuni ragazzi di fare le proprie proposte per l’organizzazione
(comunicazione), ad altri di andare a comprare il regalo (uso dei servizi del
denaro), ad altri ancora di cercare una gelateria una pasticceria chiedendo
informazioni e indicazioni stradali ad altre persone (comunicazione,
orientamento, uso dei servizi) ecc.

Gli strumenti di osservazione


Per poter programmare nel modo più adeguato il percorso educativo che si
vuole proporre sono stati messi a punto alcuni strumenti per la raccolta dati e
l’osservazione dei cambiamenti nei ragazzi a uso degli educatori. Tali strumenti
consentono di documentare la storia e i progressi dei ragazzi e offrono agli
operatori un’analisi della situazione, indispensabile per una corretta
programmazione individualizzata. Vediamo gli strumenti.
1) Scheda d’ingresso: contiene alcuni dati iniziali sulla storia sociale scolastica
e le abilità di autonomia, che vengono raccolti durante un colloquio con i
genitori del ragazzo. Essa fornisce una prima conoscenza.

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2) Traccia di osservazione iniziale: è una traccia aperta di osservazione che
viene compilata dagli operatori dopo il primo incontro di conoscenza con i
ragazzi nuovi.
I dati raccolti con questi due strumenti vengono analizzati insieme dallo Stato
per la costruzione di un profilo iniziale dei ragazzi e anche per orientare la
composizione dei gruppi di lavoro e la scelta delle prime attività da proporre.
3) Scheda di osservazione: viene compilata dagli educatori almeno due volte
nel corso dell’anno e serve a valutare i cambiamenti (analisi) e a indirizzare
l’azione dell’educatore (programmazione).
Infine, la raccolta dati tramite questi strumenti consente il passaggio di
conoscenze sui ragazzi da un operatore all’altro.

I risultati possibili
Anche se con delle diversità, tutti i ragazzi che hanno terminato il corso hanno
acquisito la capacità di spostarsi in modo più autonomo, di entrare da soli e fare
acquisti nei negozi, di farsi aiutare dagli altri avendo imparato a esprimere i
propri bisogni, ma soprattutto tutti hanno acquisito maggiore fiducia in se stessi
nella propria capacità di fare le cose da soli, nella consapevolezza di non essere
degli eterni bambini, ma di essere invece diventati grandi.

Verso una vita indipendente


Sì è vero che il corso di autonomia deve finire perché non ha senso far vivere ai
ragazzi una sensazione di per un inadeguatezza, è altresì vero che il club
risponde anche al bisogno di avere un gruppo di amici con cui condividere
esperienze da grandi e confrontarsi alla pari. Sono pochi ragazzi in grado di
organizzare in modo totalmente autonomo una serata con gli amici. Per questo
nel 1992 nasce a Roma l’idea di organizzare un’agenzia del tempo libero
(ATL) con i seguenti obiettivi: dare i ragazzi un luogo di incontro da grandi,
imparare a gestire il proprio tempo, imparare a scegliere e vivere autenticamente
l’esperienza del gruppo dei pari. Per fare questo si propone di incontrarci una
volta settimana il pomeriggio, ma almeno una volta al mese di sera. Ogni
gruppo ha due educatori e un numero variabile di volontari. Si fa quello che
fanno gli amici quando si incontrano. I ragazzi intervengono nella gestione nella
scelta dell’attività. Almeno una volta all’anno si fa un weekend lungo in un’altra
città e si organizzano settimane bianche e vacanze estive. Nascono storie
d’amore e di amicizia, qualcuno inizia ad organizzarsi da solo. Questo modello
si è sempre più diffuso col passare degli anni e così sono nate Agenziapiù

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(Ag+) e i Circoli: La prima raccoglie persone la cui età supera i 35-40 anni che
spesso hanno limitato autonomie ma bisogni sempre più adulti; mentre i circoli
nascono dai ragazzi molto più autonomi che dopo aver frequentato l’agenzia del
tempo libero sentono il bisogno di esperienze nuove e di staccarsi dalla figura
degli educatori, infatti questi ragazzi condividono un appartamento di cui
ognuno ha le chiavi e dove possono recarsi quando vogliono in autonomia e
senza un diretto controllo.
Per i ragazzi che vogliono fare vacanze estive senza genitori e per i genitori che
necessitano di un momento di pausa dai figli vengono organizzate vacanze
estive, ossia occasioni per divertirsi e sperimentare la propria indipendenza. In
questo tipo di vacanza avere una casa a disposizione è preferibile rispetto ad un
albergo o ad un villaggio con animazione perché offre più occasioni di gestione
diretta da parte dei ragazzi che devono così occuparsi della spesa, delle pulizie,
della cucina, ma anche decidere a che ora mangiare o quando andare al mare.
Inoltre, i ragazzi vengono coinvolti anche nell’organizzazione della vacanza,
con la ricerca degli orari dei mezzi, l’acquisto dei relativi biglietti e la
preparazione della valigia. La vacanza è l’occasione perfetta per sperimentare in
modo sereno la separazione dei propri genitori.
Alcuni ragazzi sentono l’esigenza di andare a vivere fuori casa. Per questo, è
nata l’idea di una casa famiglia del weekend in città, dove cominciare a
sperimentare la gestione di una casa e, al tempo stesso, la separazione dalla
propria famiglia con la consapevolezza che siamo nella stessa città, ma
facciamo cose diverse e dormiamo in case diverse. Nasce così nel 1995
Casapiù, ossia un appartamento a Roma dove ogni weekend, da sabato mattina
la domenica sera, quattro adulti con sindrome di Down, un operatore due
volontari si incontrano per trascorrere insieme il fine settimana, con la
possibilità di gestirlo e organizzarlo in piena autonomia con il coinvolgimento
di tutti nelle scelte nelle attività. urante il weekend si fanno le cose che
normalmente si fanno in una casa: preparare le stanze, rifare i letti, fare la lista
della spesa, uscire per fare acquisti, cucinare e divertirsi insieme.

Conclusioni
Oggi, più di ieri, possiamo incontrare persone disabili che girano da sole, che
fanno la spesa, che lavorano o che più semplicemente sono in grado di
occuparsi della propria persona o di aiutare in casa. Per fare questo è stato
necessario insegnare loro queste cose, ma soprattutto è stato necessario credere
che fosse possibile e dare loro fiducia.

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Comune a tutti gli educatori e l’obiettivo di farsi che i ragazzi con sindrome di
Down si percepiscono siano percepiti sempre più grandi, sempre più autonomi,
sempre più persone.
Anche chi non ha la sindrome di Down ha imparato qualcosa di più e di diverso:
ho scoperto che i ragazzi possono cambiare il nostro modo di comunicare, che
possono cambiare il quartiere, obbligando le persone a guardare negli occhi a
trovare un modo per capirli e farsi capire e rendere così il quartiere più vivibile
per tutti.
La condivisione tra operatori, volontari, ragazzi e genitori è la vera forza di tutto
questo percorso verso l’autonomia.

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