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Disturbi specifici dell'apprendimento e differenziazione

didattica

1. I disturbi specifici dell'apprendimento.

Definizione: verso un'evoluzione dei termini.


Nelle raccomandazioni del 2011, la dislessia, la disortografia e la discalculia
vengono definite come delle caratteristiche dell'individuo, fondate su una base
neurologica.
In generale, è importante sottolineare che quando si parla di DSA non si parla di
difficoltà ma di disturbi perché le prime fanno riferimento a un qualsiasi
generico problema incontrato dall'individuo nell'apprendimento; invece, il
termine "disturbo" fa riferimento all'alterazione di una particolare funzione.
Inoltre, il disturbo è indagato e diagnosticato attraverso un procedimento clinico
definito; al contrario, le difficoltà scolastiche assumono diverse forme e sono
influenzate dal contesto o dalle esperienze dell'alunno. Infine, ciò che
differenzia i disturbi dalle difficoltà di apprendimento è il loro carattere
evolutivo: i DSA possono presentare patterns, caratteristiche variabili e
modificabili nel tempo.

Epistemologia: DSA, un fenomeno in reale aumento?


E' di fondamentale importanza chiarire la distinzione tra disturbo e difficoltà di
apprendimento, partendo dalla constatazione che è altamente probabile che un
alunno incontri una serie di difficoltà scolastiche; così come è meno frequente
che uno studente presenti un disturbo specifico dell'apprendimento.
Al giorno d'oggi, si è acceso un dibattito riguardo al cosiddetto "boom delle
diagnosi": si stanno medicalizzando attraverso una certificazione etichettante un
alto numero di bambini/ragazzi con DSA o c'è semplicemente una maggior
sensibilizzazione sul tema dopo la promulgazione della legge 170? Una risposta
è fornita dagli esperti dell'associazione italiana dislessia (AID), secondo cui gli
studenti con DSA non sono sovrastimati ma, anzi, ci sono regioni in cui questo
fenomeno è quasi ignorato. Inoltre, un alto numero di richieste per diagnosticare
DSA è dovuto dal fatto che i docenti, se adeguatamente formati, possono
indirizzare tutti quegli studenti verso le strutture deputate al rilascio di
certificazioni. Attraverso invii mirati, si evita anche il rischio di diagnosi di
"falsi positivi" (alunni con semplici difficoltà di apprendimento che vengono

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riconosciuti come DSA) e di "falsi negativi" (alunni con DSA che non vengono
riconosciuti come tali).
Poi, due importanti associazioni come la LEDHA (lega per i diritti delle persone
con disabilità) e la SINPIA (società italiana di neuropsichiatria dell'infanzia e
dell'adolescenza) ribadiscono che per attestare l'esistenza del disturbo è
necessario sottoporre lo studente a una serie di test validati scientificamente.

Eziologia.
Diversi professionisti si sono da sempre interrogati su come sia possibile che un
diverso funzionamento neurologico, cioè quello delle persone con DSA, possa
compromettere solo alcune abilità riguardanti la lettura, la scrittura e/o il
calcolo.
In passato, si è fatto riferimento alla teoria dell'architettura modulare di Fodor
che sosteneva che il cervello fosse composto da un sistema cognitivo centrale,
dai trasduttori (componenti specializzate alla trasformazione degli stimoli
ambientali) e da moduli che analizzano le informazione provenienti dall'esterno.
Questi ultimi erano da considerarsi autonomi e geneticamente predisposti ad
elaborare certi input e la compromissione di questi moduli specifici causava lo
sviluppo dei DSA. Poi, però, con la pubblicazione dell'ICF (International
classification of functioning, disability and health) si è passati da una
concezione monofattoriale a una multicausale secondo cui i DSA dipendono da
fattori genetici, biologici e ambientali.
Ad esempio, l'approccio neo-costruttivista concentra l'attenzione sull'interazione
dinamica esistente tra la componente genetica e i fattori ambientali, i quali
esercitano un ruolo rilevante sulla plasticità cerebrale del soggetto.

DISLESSIA E DISORTOGRAFIA
Nel campo della dislessia, si è ritenuto per molto tempo che la causa principale
di tale disturbo fosse identificabile nel processo fonologico. Secondo questo
modello monocausale, un deficit nell'elaborazione fonologica avrebbe portato
ad una difficoltà di rielaborazione fonemica delle parole e a una non corretta
elaborazione, consapevolezza e manipolazione dei suoni che compongono una
lingua. Gli autori Wolf e Bowers hanno cercato di modificare la concezione del
deficit fonologico, formulando la teoria del doppio deficit. Essi hanno ipotizzato
un malfunzionamento delle abilità metafonologiche ma anche dei sistemi di
recupero veloce delle informazioni verbali (quelli che permettono una
denominazione rapida delle parole da parte del soggetto).

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In seguito, sono state formulate delle ipotesi rispetto a cause multifattoriali: ad
esempio, si è scoperto che i meccanismi visuo-percettivi rivestono un ruolo
fondamentale nella lettura e una teoria ha affermato come la dislessia possa
essere causata da una difficoltà di controllo visuo-spaziale che renderebbe
difficile la lettura da parte del soggetto poiché le lettere gli apparirebbero in
movimento e confuse. A tal proposito, si possono richiamare gli studi del
neurofisiologo John Stein, secondo cui la letteratura è da considerarsi un
processo visivo e nelle persone dislessiche c’è una scarsa sensibilità visiva che
compromette l’acquisizione di abilità visivo-ortografiche. Da ciò, derivano
alcune indicazioni operative, come il dover mantenere una spaziatura sufficiente
tra i grafemi che la persona dislessica deve leggere per evitare l’effetto
dell’affollamento percettivo (crowding) e prestare attenzione al font di scrittura
che deve essere preferibilmente senza grazie.
In relazione alla dislessia, si deve indagare anche l’attenzione spaziale poiché il
soggetto deve concentrarsi e orientare la propria attenzione verso la sequenza di
lettere (shifting attentivo) per poter trasformare i grafemi in fonemi.
Nella ricerca delle cause della dislessia, sono state prese in considerazione
anche difficoltà riguardanti la memoria di lavoro e le funzioni esecutive: un
malfunzionamento della memoria di lavoro e il fatto di non aver automatizzato
certe abilità, come l’immediato riconoscimento di certi grafemi in
corrispondenti fonemi, obbliga il soggetto con dislessia a mettere in atto
strategie consapevoli per portare a termini anche i compiti più semplici.
Il modello a due vie è quello utilizzato maggiormente per spiegare la dislessia e
la disortografia: secondo questo modello esiste una via fonologica-sublessicale
(che riguarda l’applicazione delle regole di codifica fonema-grafema) e una via
diretta-lessicale (che riguarda il riconoscimento visivo della parola intera e del
suo significato). La prima via permette un’accurata decodifica di ogni grafema e
solitamente viene utilizzata per leggere parole nuove; invece, la seconda
favorisce un veloce riconoscimento automatico di parole già note ed
immagazzinate. (Nel caso di bambini bilingui o figli di migranti, essi
ricorreranno più frequentemente alla via fonologica per la lettura perché avendo
immagazzinato meno parole, ciò che leggeranno sarà per loro pressoché nuovo).
Il passaggio dalla via fonologica a quella lessicale avviene in maniera graduale
e naturale, nel lettore esperto, velocizzando in tal modo la lettura e mantenendo
allo stesso tempo un buon grado di accuratezza. Dall’applicazione di questo
modello, ne deriva la distinzione tra dislessia fonologica e dislessia superficiale:
nel primo caso, il soggetto fatica a leggere parole nuove o inesistenti; mentre nel

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secondo caso, la difficoltà consiste nel risalire immediatamente al suono globale
di una parola scritta. Invece, per quanto riguarda la disortografia una
compromissione dei processi di analisi fonologica e di conversione grafema-
fonema può causare errori di scambio, omissioni, aggiunte e inversioni di
grafemi o sillabe; una fragilità nella via lessicale comporta frequenti errori nella
rappresentazione ortografica delle parole anche se è corretta la corrispondenza
grafema-fonema.
Dal punto di vista del processo di apprendimento della lettura, si può dire che
l’uso della via fonologica precede quello della via diretta perché, per impare a
riconoscere le parole in modo automatico e diretto, prima di tutto il soggetto
deve leggere più volte le parole da immagazzinare ricorrendo alla via
fonologica.

Assessment clinico e intervento.


Nel 2007, è stato pubblicato un documento “Le raccomandazioni per la pratica
clinica” in cui sono elencati ufficialmente i criteri diagnostici relativi ai DSA e
fanno riferimento ai concetti di discrepanza e specificità. Questi termini
indicano come i soggetti con DSA presentino un buon funzionamento cognitivo
generale che, però, è discordante nell’andamento di alcune abilità specifiche
riguardanti la lettura, la scrittura e il calcolo.
I DSA, inoltre, sono definiti tali solo in assenza di anomalie sensoriali o
neurologiche, disturbi significativi della sfera emotiva e situazioni ambientali di
svantaggio socio-culturale.
Nella fase di assessment, si osserva l’individuo e si somministrano test relativi
alle abilità di letto-scrittura e calcolo che si vogliono approfondire per
tratteggiare una diagnosi funzionale che tenga conto della complessità e
dell’unicità dell’individuo. Infatti, le raccomandazioni cliniche sui DSA
affermano l’importanza di usare test che non forniscono come output un solo
indicatore del QI ma anche permettano di raggiungere punteggi diversificati.
La visione multifattoriale nell’analisi dei DSA riguarda il processo di
certificazione ma anche la scelta del trattamento riabilitativo da attuare che può
prevedere anche il coinvolgimento delle famiglie. In una cornice multifattoriale,
gli elementi clinici sono da considerare in relazione a quelli culturali,
ambientali, sociali e personali poiché occorre tener conto dei tempi evolutivi di
ognuno.

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Il processo di letto-scrittura.
La lettura è un processo complesso che richiede al soggetto la capacità di saper
integrare informazioni provenienti da aree visive, uditive, intellettuali e
concettuali. Pertanto, l'abilità di scrittura e di lettura devono essere insegnate
esplicitamente, cioè si deve insegnare all'individuo come compiere queste
attività. Si può far riferimento al modello di Uta Frith, il quale si sviluppa lungo
4 stadi cronologicamente sequenziali:
1. Fase logografica → il bambino è capace di scrivere parole come se
fossero degli ideogrammi poiché esse sono lette attraverso le
caratteristiche grafiche.
2. Fase alfabetica → il bambino attua la conversione fonema/grafema,
scomponendo lettera per lettera, poi associa consonanti e vocali per
formare le sillabe e poi l'intera parola.
3. Fase ortografica → il bambino è in grado di formare alcune parole
senza ricorrere all'analisi segmentale ma basandosi sulle regole
ortografiche, rendendo la scrittura e la lettura molto più rapide.
4. Fase lessicale → la parola è letta tutta insieme e scritta in maniera
diretta e globale recuperando direttamente la forma ortografica
memorizzata precedentemente.
Tale modello può essere ritenuto una buona guida per l'insegnante al fine di
conoscere in modo dettagliato le tappe di sviluppo della letto-scrittura per
osservare e analizzare le difficoltà dimostrate dall'alunno e programmare così un
intervento didattico più efficace.
Maryanne Wolf ha individuato 5 tappe di sviluppo attraverso cui descrive il
percorso di apprendimento della lettura di un individuo:
1. Pre-lettore emergente.
2. Lettore neofita che coincide con l'inizio dell'apprendimento alfabetico.
3. Lettore decodificante, cioè colui che legge con padronanza.
4. Lettore fluido.
5. Lettore esperto, cioè colui che riesce a leggere ogni parola in mezzo
secondo.
Ferreiro e Teberosky hanno proposto un modello per quanto riguarda
l'acquisizione dell'abilità di scrittura, individuando 4 livelli di sviluppo:
1. Livello preconvenzionale → le lettere non sono rappresentare secondo
una reale corrispondenza.

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2. Livello convenzionale sillabico →si rappresenta una lettere che vale per
ogni sillaba.
3. Livello convenzionale sillabico-alfabetico → le sillabe vengono
rappresentate con più segni grafici.
4. Livello convenzionale alfabetico → un grafema riguarda la vocale e
uno la consonante.
Cornoldi ha proposto un modello di apprendimento della letto-scrittura
attraverso cui individua delle capacità fondamentali per leggere e scrivere, quali
l'analisi visiva dei segni grafici, la loro memorizzazione e l'analisi uditiva.
Invece, Cacopardo, Cannici, Raffi e Marotta hanno individuato e suddiviso i
prerequisiti dell'acquisizione della letto-scrittura in 4 macro-competenze
specifiche:
1. Abilità linguistiche (fonetica, fonologia, morfologia, sintassi, semantica,
pragmatica).
2. Abilità visuo-motorie.
3. Abilità attentive.
4. Funzioni esecutive.
Più in generale, per quanto riguardo la letto-scrittura, è importante che prima
vengano poste delle solide basi riguardo al linguaggio parlato piuttosto che a
quello scritto perché per poter leggere o scrivere è essenziale che siano
sviluppate nel bambino le abilità metalinguistiche e la consapevolezza
fonologica. Inoltre, l'esposizione al linguaggio parlato fin in tenera età favorisce
l'arricchimento del linguaggio.
Un precursore dell'abilità di letto-scrittura può essere quello della
denominazione automatica rapida di figure che integra abilità visuo-percettive
con quelle linguistiche e consiste nella rapidità e accuratezza con cui un
soggetto riesce a "ripescare" nella memoria a lungo termine l'etichetta lessicale
corrispondente alla parola momentaneamente vista.
Questa automatizzazione, però, non viene raggiunta da tutti i bambini e qui ci si
deve chiedere se si tratta di una difficoltà di letto-scrittura o di un disturbo. Per
verificare quale sia l'opzione che riguarda un determinato bambino, si può
ricorrere all'intervento precoce che è particolarmente importante per mettere in
atto interventi educativi tempestivi e mirati fin dalla scuola dell'infanzia.
L'osservazione da parte dell'insegnante deve essere sistematica e intenzionale
ma anche dinamica e flessibile ed essa può dimostrarsi, in una prima base, un
buon strumento per individuare un alunno con un potenziale DSA. Il docente

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può avvalersi di diversi supporti per condurre un'osservazione efficace come ad
esempio i questionari osservativi o le prove somministrate direttamente ai
bambini. Un questionario osservativo molto utilizzato è quello IPDA
(questionario osservativo per l'Identificazione Precoce delle Difficoltà di
Apprendimento) che presenta item a risposta su scala Likert a quattro livelli:
attraverso di esso, si indagano per una prima parte le abilità generali del
soggetto (aspetti comportamentali, motricità, comprensione linguistica,
espressione orale, metacognizione) e, per una seconda sezione, le abilità
specifiche come la pre-alfabetizzazione e la pre-matematica. A ciò, segue una
batteria di approfondimento sui prerequisiti dell'apprendimento da
somministrate per poter poi predisporre degli interventi di potenziamento ad
hoc. L'IPDA, infatti, si conclude con una rivalutazione dei soggetti.

Il lavoro di rete nei DSA.


E' possibile favorire un intervento e un'identificazione precoce dei DSA non
solo nella scuola dell'infanzia, ma anche con l'ingresso alla scuola primaria
attraverso delle azioni di screening preventivi. Inoltre, gli insegnanti, durante le
finestre evolutive (inizio del secondo quadrimestre della classe prima o durante
la terza), sono chiamati a osservare e monitorare la situazione e possono
somministrare prove collettive per verificare le competenze acquisite dagli
allievi e identificare eventuali difficoltà.
L'identificazione precoce dei DSA permette di evitare che si creino per il
bambino situazioni di malessere, con negative ripercussioni psicologiche: una
forte collaborazione tra scuola e famiglia, in una logica di intervento, può
favorire un percorso di apprendimento più sereno possibile per l'individuo.
Tuttavia, al giorno d'oggi, si deve riaffermare l'importanza del patto educativo
globale e si deve ricostruire la corresponsabilità educative poiché la relazione
fra scuola e famiglia è diventata particolarmente problematica. Un primo passo
potrebbe delinearsi con la stesura del PDP (piano didattico personalizzato), cioè
uno strumento di pianificazione e progettazione che ha lo scopo di definire,
monitorare e documentare le strategie di intervento più idonee e i criteri di
valutazione degli apprendimenti secondo un'elaborazione collegiale partecipata.
Esso ha permesso di introdurre il concetto di BES (bisogni educativi speciali)
nel panorama scolastico italiano, affermando la possibilità di concordare diversi
tempi e di individuare strumenti compensativi idonei per ogni studente con DSA
per aiutarlo a portare a termine le attività previste dalla progettazione
dell'insegnante. Inoltre, il PDP è un documento di estrema importanza perché

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sancisce concretamente l'alleanza educativa tra genitori e insegnanti, i quali
dichiarano un'unitarietà d'intenti volta a favorire il benessere dell'alunno con
DSA.
Quando si parla di una presa in carico globale dello studente si includono anche
i professionisti esterni al mondo della scuola, creando un intervento di rete
attraverso l'azione congiunta di famiglia, scuola e specialisti in una logica di co-
educazione.
In conclusione, si può dire che è fondamentale che la scuola e gli insegnanti non
facciano sentire e non considerino gli studenti con DSA "diversi" ma devono
valorizzare i loro punti di forza e le loro potenzialità come ad esempio il
ragionamento dinamico, un'elaborazione cognitiva globale, un pensiero
divergente che consente di vedere gli avvenimenti da diverse prospettive, un
buon problem solving, la tendenza a ricordare maggiormente i fatti non in modo
astratto ma sottoforma di esperienze, un pensiero ed una memorizzazione per
immagini.

2. Bilinguismo e DSA in alunni di figli di migranti.


La scuola italiana adotta una prospettiva interculturale, cioè la promozione del
confronto e del dialogo fra le culture, assumendo la diversità come paradigma
dell'identità stessa della scuola.

Alunni figli di migranti: chi sono?


Secondo Granata, tutti gli alunni "nati qui o nati altrove" (quindi sia quelli
italiani sia gli "immigrati di seconda generazione o minori di origine
immigrata") sono da considerarsi "italiani di fatto".
Secondo la classificazione di Rumbaut, si parla di generazione 1,5 per riferirsi a
coloro che hanno cominciato il percorso di scolarizzazione nel Paese d'origine e
successivamente sono migrati; si parla di generazione 1,25 per riferirsi a quegli
alunni che hanno lasciato il loro Paese tra i 13 e i 17 anni; si parla di
generazione 1,75 per riferirsi a tutti quei bambini che hanno cambiato paese tra
gli 0 e i 5 anni. Inoltre, si usa l'espressione "seconde generazioni" per riferirsi ai
nati in Italia da genitori migranti.
Negli anni, anche nella scuola, sono stati pubblicati molti documenti ministeriali
a tutela degli alunni con background migratorio: nel settembre 1989 fu
pubblicata la circolare ministeriale n.301 intitolata "Inserimento degli alunni
stranieri nella scuola dell'obbligo. Promozione e coordinamento delle iniziative
per l'esercizio del diritto allo studio" a cui seguì, nel 1990, la circolare

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ministeriale n.205 dal titolo "La scuola dell'obbligo e gli alunni stranieri.
L'educazione interculturale". Da questo momento, si è iniziato a delineare la via
italiana per l'integrazione, tramite cui si è sancita l'adesione alla prospettiva
interculturale da parte della scuola italiana e le pari opportunità per alunni con o
senza cittadinanza italiana.
Il diritto all'istruzione "per tutti e di tutti"è da sempre considerato uno dei
capisaldi del sistema scolastico italiano, declamato anche dall'articolo 34 della
Costituzione italiana. Seguendo quest'ottica e in base al decreto legislativo
268/1998, si dichiara che i minori di origine straniera che vivono sul territorio
nazionale sono soggetti all'obbligo scolastico, come ribadito anche dal
Regolamento sull'immigrazione in cui si sancisce il diritto all'istruzione
indipendentemente dalla propria posizione.

Il bilinguismo.
Le classi multietniche devono essere considerate una risorsa per il sistema
scolastico italiano poiché sollecitano il dinamismo fatto di idee e azioni che
stimolano la scuola al continuo innovamento, partendo dalla varietà linguistica
con cui hanno a che fare ogni giorno i docenti.
Infatti, il bilinguismo caratterizza ormai la popolazione nazionale, ma anche
mondiale grazie al processo di globalizzazione che ha favorito lo spostamento e
migrazioni di persone in ogni parte del globo. Addirittura, il plurilinguismo
viene tutelato da molti autorevoli documenti europei volti a promuovere la
diversità linguistica. In ambito italiano, le Indicazioni Nazionali del 2012
costituiscono un traguardo importante per la valorizzazione del plurilinguismo
in quanto esse riconoscono il fatto che saper parlare più lingue sia
un'opportunità di arricchimento per l'individuo, sia dal punto di vista cognitiva
sia da quello linguistico, per sé e per gli altri. Inoltre, l'educazione plurilingue e
interculturale è stata definita come una "risorsa funzionale alla valorizzazione
della diversità".
Entrando nel merito del bilinguismo, la definizione più usata è quella di
Grosjean, il quale sostiene che una persona bilingue è colei che utilizza due o
più lingue nella vita quotidiana. Altri studiosi hanno offerto una loro definizione
di bilinguismo:
● Marini considera il bilinguismo come una competenza che caratterizza
l'insieme di conoscenze sia implicite e automatiche, sia esplicite e
consapevoli, usate dall'individuo per comunicare in due o più lingue.

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● Fabbro offre una definizione particolarmente interessante perché estende
la descrizione di competenze bilingue a chi conosce, comprende e parla
due lingue, due dialetti o una lingua e un dialetto.
● Luise definisce il bilinguismo come un termine"ombrello" che presenta
molteplici sfaccettature. Infatti egli individua diversi tipi di bilinguismo.
1. Bilinguismo simultaneo → l'acquisizione delle due o più lingue
avviene in contemporanea fin dalla nascita.
2. Bilinguismo consecutivo/sequenziale → l'acquisizione delle due
o più lingue avviene in tempi diversi.
3. Bilinguismo precoce →l'acquisizione (entro i 3 anni di età) delle
due lingue implica che il soggetto possegga competenze
paragonabili ai monolingui. Solitamente, però, c'è una certa
dominanza a carico di una delle due lingue (bilinguismo
dominante) poiché un bilinguismo bilanciato (situazione di pari
competenza nelle due lingue) è una condizione irrealistica.
4. Bilinguismo tardivo →la seconda lingua è appresa dopo la prima
infanzia.
L'età di esposizione alle due lingue gioca un ruolo fondamentale e, in questo
caso, si deve far riferimento al "periodo critico" teorizzato da Lennenberg, il
quale ha definito una serie di periodi temporali particolarmente importanti per
l'apprendimento della seconda lingua. E' tuttavia necessario sottolineare come,
passati questi periodi sensibili, non è vero che l'individuo non possa più
definirsi bilingue, poiché la plasticità cerebrale caratterizza tutto l'arco di vita
del soggetto: ciò che diventa difficile da acquisire è la pronuncia corretta.
Si deve fare un'ulteriore precisazione che riguarda la distinzione tra lingua
maggioritaria e lingua minoritaria e quindi tra bilinguismo additivo e sottrattivo,
derivante dal fatto che si dà più importanza a delle lingue piuttosto che ad altre.
In alcuni casi, ciò causa la svalutazione della lingua madre fino ad arrivare ad
una graduale perdita della stessa nei contesti migratori. E' quindi importante che
il figlio di migranti, di lingua minoritaria, abbia l'opportunità di mantenere viva
la sua lingua madre al fine di sviluppare un bilinguismo adattivo attraverso cui
si riconosce un valore positivo ad entrambe le lingue.
Il contesto entro cui si impara la seconda lingua connota un'ulteriore
specificazione riguardo al bilinguismo che può essere familiare o scolastico.
Infine, si distingue il bilinguismo composito (i due sistemi linguistici,

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solitamente acquisiti simultaneamente, sono ricondotti ad un unico sistema di
significati) da quello coordinato (il soggetto ha appreso due schemi linguistici
indipendenti e separati tra loro).
Nel processo di acquisizione della seconda lingua, può verificarsi una fase
silenziosa di lunghezza variabile in un primo momento di contatto con essa.
Diventa, quindi, fondamentale sapere attendere e rispettare questa fase in cui il
bambino sta assimilando ed elaborando informazioni preziose. Si devono anche
valorizzare quelli che sono gli sforzi adattivi dell'individuo, come gli errori di
"transfer", ovvero trasferimenti nella seconda lingua di parole e/o regole già
conosciute nella lingua madre. Può, infatti, capitare che all'interno di uno stesso
enunciato l'individuo utilizzi espressioni appartenenti ad entrambe le lingue:
questo è un segnale che sta mettendo in atto una serie di adattamenti al contesto
comunicativo e all'interlocutore che si trova davanti, dando prova di flessibilità
mentale e di assunzione do un ruolo attivo nel processo di apprendimento.
Secondo Cummins, per l'acquisizione efficace di una seconda lingua, è
necessario che il soggetto possegga una competenza cognitiva e linguistica
sufficiente anche nella propria lingua madre per favorire un interscambio tra le
due lingue. Egli rappresenta questo concetto con l'immagine del doppio iceberg:
le due punte del blocco di ghiaccio corrispondono alla lingua 1 e alla lingua 2
ed esse sono diverse tra loro, ma al di sotto del livello del mare la base è
comune.
Il bilinguismo può comportare dei benefici per lo sviluppo della persona, la
quale riesce a potenziare le proprie funzioni esecutive attraverso l'inibizione e
l'attenzione selettiva poiché deve elaborare due codici linguistici
contemporaneamente. Inoltre, la persona bilingue possiede una solida teoria
della mente che gli permette di comprendere maggiormente l'altro, di sviluppare
una buona capacità di problem solving e di possedere una spiccata creatività e
una forte capacità di decentramento. Parlare, leggere e scrivere in diverse lingue
permette anche di allenare continuamente la complessità di pensiero che aiuta a
contrastare il processo di invecchiamento cerebrale e il verificarsi di forme di
demenza senile. Per riscontrare tutti questi benefici, è fondamentale che
l'individuo sia messo nelle condizioni di sviluppare un bilinguismo additivo,
mantenendo viva anche la lingua madre.
Si può approfondire cosa succede a livello cerebrale in una persona bilingue: il
legame tra cervello e linguaggio è stato studiato da più prospettive di ricerca che
hanno permesso di evidenziare in che modo l'acquisizione di una seconda lingua
necessiti di un adattamento e di una maggior attivazione cerebrale. E' stato

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dimostrato come l'acquisizione di una seconda lingua avvenga grazie alla
plasticità cerebrale e ad un uso più flessibile delle reti neurali.
Inoltre, si può dire che come per tutte le forme di apprendimento, anche per
quando riguarda il bilinguismo l'esperienza assuma un ruolo fondamentale.

ALCUNE DISTINZIONI FONDAMENTALI


La prima distinzione fondamentale riguarda i termini di lingua madre e lingua
seconda.
Tullio De Mauro intende la prima lingua a cui è esposto il bambino, quindi la
lingua madre, come la lingua del cuore e degli affetti. Inoltre, Freddi ha
denominato madrelingua quel codice linguistico che il bambino parla
inconsciamente, in modo spontaneo, all'interno del proprio gruppo familiare. La
lingua d'origine (heritage language) è stata anche definita come la lingua
appresa nell'infanzia, a casa; invece la lingua seconda è quella che viene appresa
dopo quella nativa.
Una seconda distinzione riguarda la lingua italiana usata per scopi
comunicativi/colloquiali oppure per motivi di studio/scolastici: la lingua di
scolarità, cognitivo-accademica richiede tra i 5 e i 7 anni di esposizione per
essere appresa; invece, l'abilità comunicativa interpersonale tra i 2 e i 3 anni.
Quest'ultima competenza di base, necessaria per la comunicazione quotidiana,
prevede delle fasi: quella del silenzio, la fase pre-basica (acquisizione di un
vocabolario minimo), la fase basica/del racconto e quella della letto-scrittura.
Invece, coloro che ricorrono all'uso della L2 per lo studio, incontrano diverse
difficoltà perché devono prestare attenzione contemporaneamente sia alla forma
sia al contenuto del testo, facendo così uno sforzo doppio poiché imparano ad
esempio l'italiano mentre studiano in italiano.
In ambito scolastico, si deve distinguere tra la lingua nazionale, spesso
considerata la L2 per lo studente bilingue o per il figlio di migrante in quanto
acquisita in un Paese in cui è parlata abitualmente, e lingua straniera che è
solitamente appresa nelle ore scolastiche designate allo studio di questa
disciplina (es: lingua inglese nelle scuole italiane).
Un'ulteriore distinzione riguarda la differenza tra lingue trasparenti o
superficiali e lingue opache o profonde, con riferimento al criterio della
complessità ortografica. Nelle lingue trasparenti, l'individuo ricorre più
frequentemente alla via fonologica (riconoscimento della parola avviene
attraverso la decodifica grafema-fonema); mentre nelle lingue opache,
l'individuo ricorre maggiormente alla via lessicale (si accede direttamente al

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lessico mentale già acquisito). Ad esempio, l'inglese è una lingua opaca perché
le parole si leggono diversamente da come si scrivono quindi chi legge deve
usare aree corticali collegate al riconoscimento di forme visive; invece, l'italiano
è una lingua trasparente in cui è una corrispondenza perfetta tra grafema e
fonema. Di conseguenza, in una lingua trasparente, le prestazioni di lettura di un
bambino dislessico saranno probabilmente lente ma con pochi errori, al
contrario di un alunno di paesi anglofoni, il quale presenterà una scarsa
accuratezza di lettura oltre che a una marcata lentezza.

Bilinguismo e DSA.
Nei confronti di un bambino con background migratorio, è importante
l'osservazione da parte del docente, il quale può individuare difficoltà di letto-
scrittura e se ritiene necessario lo può indirizzare ai servizi di neuropsichiatria.
Nel momento in cui un docente si approccia ad un alunno bilingue, figlio di
migranti con un possibile DSA, deve rilevare e tenere in considerazione più
elementi contemporaneamente: è fondamentale che sappia discernere un
disturbo da una difficoltà di apprendimento per evitare fraintendimenti che
vadano attestare la presenza di un DSA in un alunno bilingue che
semplicemente ha delle difficoltà nel processo di letto-scrittura della nuova
lingua.
In merito alla scrittura strumentale, secondo le Raccomandazioni in PARCC, in
riferimento ad un bambino di origine immigrata con sospetto DSA, è utile
analizzare gli errori da un punto di vista qualitativo, e non solo quantitativo, per
porre una diagnosi differenziale tra disturbo specifico e difficoltà di
apprendimento. Solo nel momento in cui gli errori (sono deviazioni
sistematiche; invece, gli sbagli sono deviazioni momentanee, supposizioni da
parte dell'alunno bilingue o con un background migratorio che con il tempo
andrà ad autocorreggere) continuano a manifestarsi nonostante un intervento
mirato e a fronte di una buona esposizione reiterata alla lingua italiana, essi
possono essere ritenuti elementi importanti per presupporre la presenza di un
DSA di natura neurobiologica.
Altri elementi di discrepanza nel profilo funzionale dell'individuo che possono
essere associati ad un DSA sono le difficoltà nella memoria di lavoro,
nell'attenzione e nelle funzioni esecutive. In caso di bambini bilingui, la
consapevolezza fonologica riveste un ruolo fondamentale.

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DSA o difficoltà di letto-scrittura in alunni bilingui figli di migranti, quali
procedure?
Per approcciarsi ad un alunno con background migratorio, di madrelingua non
italiana che dimostra di incontrare delle difficoltà nella lettura e/o scrittura, è
bene procedere secondo una valutazione clinica multidimensionale e dinamica
poiché non è sufficiente basarsi su un singolo test somministrato in un momento
specifico.
L'attestare la presenza di uno o più DSA nelle tante lingue presenti in Italia
risulta essere una problematica rilevante perché non sempre i Servizi sanitari
italiani hanno a disposizione dei professionisti bi-pluri-lingue o mediatori
culturali in grado di affiancare il clinico. Per risolvere il problema del tradurre
una serie di test diagnostici in alcune lingue più diffuse in Italia, Duca,
Murineddu e Cornoldi hanno sperimentato una soluzione, predisponendo delle
tracce audio in arabo e in rumeno con lo scopo di ovviare alla mancanza di
mediatori culturale e personale sanitario multilingue. I ricercatori hanno
somministrato i seguenti test nelle due lingue:
● Per la sfera degli apprendimenti, PRCR-2; AC-MT; comprensione del
testo MT; comprensione di frasi.
● Per la sfera delle abilità cognitive, test delle campanelle; PP-VT-R; VMI;
ricordo di matrici.
Da questo studio, gli autori hanno desunto che, qualora il bambino di origine
migratoria, bilingue, dimostrasse di avere delle difficoltà unicamente nelle
prove relative alle abilità non verbali, si potrebbe ipotizzare la presenza di una
fragilità cognitiva; al contrario, se le performances fragili fossero riconducibili
alle sole prove di apprendimento della lettura e ripetizione di non-parole, ricerca
di lettera scritta in diversi modi e calcolo scritto congiuntamente al giudizio di
numerosità, sarebbe presumibile supporre uno o più DSA.
Un altro strumento che pone il focus sui DSA nei bambini bilingui e che è
somministrabile direttamente dai docenti è compreso nelle prove BaBIL: esso
permette di avere a disposizione dei campioni di riferimento bilingui e prevede
8 prove (4 in italiano e 4 in L1) disponibili in più lingue (albanese, marocchino,
cinese, egiziano, rumeno). Queste prove permettono di indagare tutti quegli
aspetti che possono essere correlati ad un DSA nell'alunno bilingue come la
competenza lessicale, che viene analizzata attraverso una prova di
comprensione e di riconoscimento di parole; la componente morfosintattica,
testata grazie ai compiti di localizzazione spaziale e di riconoscimento di

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quantità; la comprensione di frasi semplici, complesse e di giudizi pragmatici; la
lateralizzazione e la conoscenza delle parti del corpo e dei colori.
In ambito internazionale, si fa riferimento ad un innovativo test, cioè il CIDT
(copenhagen international dyslexia test), il quale è uno strumento dinamico,
focalizzato sull'analisi delle abilità di lettura, attraverso cui si richiede al
soggetto di apprendere un nuovo codice di corrispondenze tra grafemi e fonemi
per procedere alla lettura delle varie combinazioni.
Folgheraiter e Tressoldi hanno delineato, invece, una serie di variabili da
considerare quando si osservano difficoltà di letto-scrittura in bambini di origine
migratoria, dividendole in:
● Variabili linguistiche →comprendono lo sviluppo del vocabolario e la
lingua utilizzata in ambito familiare/extrafamiliare.
● Variabili scolastiche → fanno riferimento agli anni di frequenza nel
sistema scolastico italiano.
● Variabili sociali → si riferiscono agli anni di permanenza in Italia.
● Età cronologica.
● Sviluppo dell'intelligenza non verbale.
In generale, per rendere più agevole la raccolta di informazioni riguardo alle
difficoltà di letto-scrittura in bambini bilingui o con background migratorio, è
utile ricorrere all'uso di biografie linguistiche o interviste linguistiche, cioè
strumenti che permettono di tracciare un profilo linguistico dell'individuo da
accostare a considerazioni più approfondite riguardo le difficoltà di
apprendimento osservate. In Italia, ad esempio, si fa uso del QuBIL
(questionario sulla storia linguistica degli alunni bilingui), il quale è uno
strumento utile per indagare tutta una serie di aspetti quali la storia linguistica
del soggetto, i punti di contatto tra le lingue conosciute, le competenze
possedute (sia in L1 che in italiano): essi vengono misurati su una scala Likert a
5 punti rispetto alle capacità di parlare, capire, leggere e scrivere nelle due
lingue.
Un altro strumento è l'UBILEC che è molto dettagliato e permette di calcolare
l'indice cumulativo, cioè la quantità e la lunghezza di esposizione del bambino
alle due lingue.
In Italia, oltre alle biografie linguistiche, si usano la carta d'identità linguistica e
la mappa linguistica intrafamiliare attraverso cui si può indicare su frecce
bidirezionali la lingua parlata dal bambino con la madre, il padre, ed eventuali
fratelli, sorelle o altri caregiver. Sono anche molto utilizzate le autobiografie

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linguistiche che vengono proposte sotto forma di sagome che delineano la
corporatura stilizzata di una persona, dentro cui l'alunno può dar sfogo alla
propria creatività, associando una parte del corpo ad ogni lingua conosciuta
mediante un disegno, una scritta o una simbologia per lui significativa.

3. Una via italiana per l'inclusione: la differenziazione didattica.


La differenziazione didattica è una prospettiva metodologica di base capace di
promuovere processi di apprendimento significativi per tutti gli allievi presenti
in una classe. Essa, infatti, è volta a porre attività didattiche mirate e progettate
per soddisfare le esigenze dei singoli. L'importanza di conoscere a fondo ogni
alunno, indagando interessi, attitudini, punti di forza e di fragilità. è un
imperativo pedagogico imprescindibile che il docente deve seguire se vuole
promuovere un apprendimento significativi per tutti gli alunni della classe,
anche in relazione a caratteristiche come i DSA e il bilinguismo. Quindi, la
differenziazione didattica pone quelle condizioni indispensabili per favorire una
didattica inclusiva, una svolta epistemologica in cui le caratteristiche di ogni
alunno sono conosciute e valorizzate dall'insegnante, il quale lo considera nella
sua totalità. Attraverso un approccio differenziato della didattica si può
consentire alla persona di sviluppare le sue potenzialità e di raggiungere il suo
benessere.
Si deve far riferimento anche a due concetti importanti che fanno da cornice alla
differenziazione didattica:
● Neurodiversità → questo concetto si rifà all'idea che le variazioni dello
sviluppo cerebrale e delle sue funzioni dovrebbero essere apprezzate e
accettate come le altre forme di variabilità fisica interindividuale.
Perciò, i DSA sono differenze degli individui ed esse devono essere
conosciute nella loro specificità per poter progettare attività capaci di
far leva sui punti di forza dell'alunno e favorire un suo processo di
apprendimento.
● Neuropedagogia → fa riferimento al dialogo tra neuroscienze e
pedagogia che permette di sviluppare una migliore conoscenza di
come funziona il nostro cervello e delle caratteristiche del suo sviluppo
cosicché la pedagogia possa agganciarsi a nuove conoscenze concrete.
Ad esempio, sul versante didattico le neuroscienze forniscono preziose

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informazioni riguardo ai processi che si innescano a livello cerebrale
quando l'individuo è nelle condizione di apprendimento; dalle
neuroscienze, si possono anche utili informazioni rispetto alla
strutturazione degli ambienti di apprendimento, del curricolo e
ricavare indicazioni riguardo ai DSA, al processo di letto-scrittura e al
bilinguismo.

Alle origini della differenziazione didattica: Carol Ann Tomlinson.


Carol Ann Tomlinson è una figura portante della differenziazione didattica: lei
afferma che la complessità e l'eterogeneità delle classi non devono lasciare
imperturbata la didattica tradizionale; anzi, è necessario che l'insegnante abbia
ben chiaro, nella sua ottica pedagogico-educativa, il fatto che tutti gli alunni
possono apprendere e raggiungere il successo formativo seguendo diverse strade
(different pathways lead to common goals - C.A. Tomlinson).
Il legame tra neuroscienze e differenziazione didattica è stato esplicitato più
volte dalla Tomlinson, sostenendo che ogni persona ha un proprio ritmo di
apprendimento e quindi anche una traiettoria evolutiva unica nel suo genere:
inevitabilmente, ne consegue che in classe l'insegnante debba interfacciarsi con
molteplici profili di apprendimento. Questo concetto è di fondamentale
importanza perché tiene in considerazione tutte le caratteristiche che delineano
il profilo di un alunno, ovvero i suoi punti di forza e di debolezza, le sue
modalità relazionali, gli aspetti motivazionali, il profilo di intelligenze, gli stili
di apprendimento, le caratteristiche temperamentali (culture di appartenenza e
repertorio linguistico).
Un altro aspetto a cui è importante attribuire il giusto rilievo riguarda
l'interazione dell'individuo con l'insegnante e con i compagni all'interno di una
visione learned centred, focalizzata sull'alunno e sulle sue caratteristiche.
Inoltre, attuando la differenziazione didattica, il docente è chiamato ad assumere
una logica proattiva, volta al coinvolgimento degli studenti nel processo di
apprendimento, attraverso attività laboratoriali, sia di gruppo sia individuali, per
alimentare la loro motivazione intrinseca. Se poi l'insegnante vuole anche
promuovere un apprendimento significativo, è necessario che si concentri non
sulla quantità ma sulla qualità delle conoscenze che costruisce con l'alunno,
selezionandole accuratamente in fase di progettazione. E', infatti,

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pedagogicamente importante che gli studenti capiscano e diano un senso a ciò
che imparano, essi devono interiorizzare il sapere per favorire lo sviluppo di una
testa ben fatta e non di una testa "ben piena" di cose memorizzate.
In fase di progettazione, di pre-assessment, il docente deve rilevare i livelli di
prontezza e gli interessi degli alunni per capire cosa deve approfondire, calando
l'insegnamento sulle reali esigenze dei singoli. Di conseguenza, tutte le attività
didattiche saranno progettate sulla base delle informazioni raccolte in questa
fase di pre-assessment per poi decidere se differenziare:
1. Il contenuto che gli studenti apprendono.
2. Il processo che l'insegnante predispone per far sì che gli alunni possano
costruire i propri saperi.
3. Il prodotto stesso.
4. L'ambiente della classe.
Carol Ann Tomlinson ha poi individuato delle strategie didattiche ma lei stessa
afferma che l'insegnante ne può inventare sempre di nuove in base alla sua
creatività. Queste strategie mirano ad attivare la motivazione intrinseca del
singolo, sollecitando gli interessi degli alunni per favorire percorsi di
apprendimento significativi.
Nel contesto italiano, D'Alonzo ha proposto un suo modello di differenziazione
didattica, la quale viene vista come la risposta dell'insegnante ai bisogni dello
studente guidata dai principi generali di:
● Gruppi flessibili.
● Monitoraggio e revisioni continue.
● Attività rispettose delle esigenze degli allievi.
Egli afferma che gli insegnanti possono differenziare il contenuto, il processo o
il prodotto in accordo con la prontezza, gli interessi e il profilo di
apprendimento dello studente.

Le ricerche e gli studi di CeDisMa sulla differenziazione.


Negli ultimi anni, il Centro studi e ricerche sulla Disabilità e la Marginalità
(CeDisMa), diretto dal prof. D'Alonzo, ha dedicato le proprie ricerche
all'approccio metodologico della differenziazione didattica seguito nel contesto
italiano.
Il centro ha intrapreso un percorso di attuazione della differenziazione nelle
scuole di ogni ordine e grado per trovare, formare e motivare quegli insegnanti
flessibili e aperti al cambiamento, disposti a sperimentare una didattica
differenziata per trasformarli in facilitatori di apprendimento. In particolare, il

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gruppo CeDisMa ha chiesto alle scuola coinvolte nei vari progetti di ricerca di
provare ad utilizzare gli strumenti pensati orientati alla differenziazione ed essi
sono:
● Una scheda di osservazione.
● Una scheda di progettazione.
● Una scheda di valutazione.
La cornice entro cui CeDisMa ha rivisitato il modello della Tomlinson in
ambito italiano è rimasta ancorata al paradigma dell'inclusione con lo scopo di
promuovere un apprendimento di tutti e per tutti. Il gruppo di CeDisMa ha
mostrato ai docenti quelli che sono i pilastri della differenziazione didattica;
infatti, è importante che i docenti sappiano fin dall'inizio della loro azione
didattico-educativa quali contenuti proporre agli alunni, in che modo, attraverso
quali strategie e come impostare la valutazione. Oltre a ciò, è fondamentale che
gli insegnanti conoscano bene i propri alunni per entrare in sintonia e creare un
ambiente di lavoro piacevole. Dagli insegnanti che si sono basati su questi
pilastri, è emerso come l'aspetto organizzativo sia cruciale per il corretto
funzionamento della differenziazione; più in generale, l'approccio differenziato
è stato percepito da alcuni consigli di classe come un elemento di novità nello
stile routinario di alcuni di docenti, i quali sono stati stimolati a mettersi in
discussione e a rivedere il proprio approccio all'insegnamento. Tra alcuni
insegnanti, è emersa anche la consapevolezza che il consolidarsi di competenze
legate alla differenziazione didattica contribuisca a favorire nel tempo una
maggior autonomia da parte dei ragazzi e, contemporaneamente, a ridurre la
fatica e la stanchezza nella gestione della classe. Inoltre, gli insegnanti sono stati
concordi nel sostenere che attraverso questo approccio sia possibile scardinare
la didattica tradizionale ponendo i singoli alunni e i loro bisogni al centro del
percorso di apprendimento. Ciò ha permesso di migliorare il clima della classe
in termini di relazioni più significative, di empatia, di attuazione di
comportamenti di aiuto, supporto e vicinanza.

La differenziazione didattica e gli alunni di origine migratoria, bilingui, con


difficoltà di letto-scrittura o possibili DSA.
La differenziazione didattica permette di conoscere l'alunno di origine
migratoria, bilingue o con DSA per monitorarne l'andamento ed eventualmente
compiere degli invii mirati ai servizi sanitari o enti accreditati.
Attraverso la differenziazione, si sollecita l'insegnante a sviluppare un
atteggiamento di apertura verso l'altro, che non consiste solo nell'osservare ma

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anche nell'agire concretamente in classe, potenziando tutti quegli aspetti che
risultano carenti in un alunno: è, quindi, uno strumento che consente di
valorizzare e considerare sia i punti di forza ma anche le fragilità. Infatti,
l'obiettivo della differenziazione didattica è quello di garantire un equo accesso
ad un'istruzione di qualità a tutti attraverso una molteplicità di approcci,
strategie, materiali e input a livello di contenuto, processo e prodotto.
Un esempio di strategia usata a scuola è quello delle stazioni attraverso cui si
possono scomporre le consegne e ciò risulta essere un'ottima occasione per
l'insegnante per osservare in maniera sistematica e attenta i processi di
apprendimento degli alunni al fine di poter intervenire in maniera mirata sulle
loro difficoltà, linguistiche per quanto riguarda bambini bilingui o con
background migratorio oppure cognitive nel caso di alunni con DSA (i quali
sono disturbi di origine neurobiologica). Inoltre, nelle stazioni, l'allievo è
obbligato ad impegnarsi in ognuna delle attività previste, dato che tutte
concorrono a delineare la globalità delle attività di apprendimento pensata e
progettata dal docente. La stessa strategia viene anche sfruttata nei centri
d'interesse o di apprendimento, dove però non viene impostata una certa
sequenzialità obbligatoria. Infatti, i centri di apprendimento sono pensati per
offrire al singolo la possibilità di approfondire determinati aspetti
dell'argomento affrontato in classe secondo modalità diverse; invece, i centri
d'interesse hanno lo scopo di sostenere e favorire gli interessi e le passioni degli
studenti collegandoli a precisi apprendimenti.

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