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LINGUISTICA ITALIANA

IL LATINO VOLGARE
Il latino volgare è alla base del dialetto fiorentino trecentesco e di tutte le lingue romanze.
Il latino “classico”, invece, è oggi considerato il latino scritto dai poeti e dagli uomini colti del
periodo che va dalla fine della Repubblica romana e il principato augusteo. La scelta dell’aggettivo
“classico” viene attribuita ad Aulo Gellio (II sec. d.C).
Dare una definizione di latino volgare è un po’ più complesso. Tuttavia si tende a vedere nel latino
volgare, il latino parlato da tutti gli strati della popolazione nell’uso quotidiano.
Sicuramente esistono degli elementi di continuità tra il latino arcaico e quello tardo (-M cade, -
NS>S-), tuttavia diversi fenomeni tipici del primo, persero ogni traccia nel secondo:

LATINO ARCAICO LATINO TARDO


EI>I (DEICO>DICO Perdita della quantità vocalica;
AI>AE (CAISAR>CAESAR) Caduta delle consonanti finali diverse
OI>Ū (OINOS>ŪNUS) da -M;
Rotacismo: S intervocalica >R Perdita del neutro, delle declinazioni,
(MELIOSEM>MELIOREM del passivo organico, dei deponenti.

Variabile diacronica
Ogni lingua va analizzata secondo il suo sviluppo storico, cioè in base alla sua diacronia (dal gr. diá
“attraverso” e crónos “tempo”). Dunque la variabile diacronica è la variazione del latino nel corso del
tempo.
Es. latino>italiano

Variabile diatopica
Dal gr. diá “attraverso” e tópos “luogo”. Si intende la variazione linguistica nello spazio.
Es. dialetti (sardo, friuliano, romanesco)

Variabile diafasica
Comprende le diverse modalità d’uso di una lingua a seconda del contesto o dell’argomento di
comunicazione, e dunque il livello stilistico.
Es. registri formali o informali
Uso di diminuitivi al posto delle forme semplici:
AURIS “orecchia” >AURICULA
AGNUS>AGNELLUS
CULTER>CULTELLUS
EDERE “mangiare” >COMEDERE/MANDUCARE “masticare dimenando le mascelle”

Ritornando al discorso del latino volgare, essendo questa una lingua parlata, gli studiosi lo hanno
ricostruito attraverso fonti indirette:
• Iscrizioni di carattere privato, come quelle dei lapicidi e dei graffiti; fondamentali quelli di Pompei,
databili ai mesi precedenti l’eruzione del Vesuvio del 79 d.C; altro esempio importante è quello del
distico elegiaco graffito sul rotolo di papiro che recita “Viva chi ama, abbasso chi non sa amare”.
• Testimonianze di grammatici, incaricati di trasmettere la norma linguistica tradizionale; la più
importante testimonianza è la cosiddetta Appendix Probi, chiamata così perché trascritta da un
anonimo insegnante in appendice alle opere del grammatico Probo. Essa risale intorno al III sec.
d.C. e si tratta di un elenco di 227 parole secondo lo schema SPECULUM non SPECLUM, AURIS non
ORICLA (da un lato, e in particolare nel primo, si trova la forma corretta, mentre dall’altro, e quindi
nel secondo, quella giudicata da evitare. Notiamo la caduta della vocale postonica nel suffisso -
ULUM, -ULAM in SPECLUM e ORICLA e la monottongazione del dittongo latino AU in ORICLA; vi è
inoltre, sempre in ORICLA, una diffusione dei diminuitivi a preferenza delle forme semplici.
• Testimonianze di aneddoti, come quella raccontataci da Svetonio, secondo cui l’imperatore
Vespasiano fu ammonito dall’ex console Floro, per aver utilizzato la forma di plaustri anziché plostri
(il plaustrum era il “carro” tipico di Roma), segno che anche l’imperatore, nell’uso comune,
monottongava AU in O. Tuttavia il giorno dopo Vespasiano, infastidito da quel rimprovero, salutò
Floro chiamandolo Flaurus (inserì cioè il dittongo dove non era richiesto; inoltre utilizzò un gioco di
parole, perché phlâuros significava “sciocco”).
Inoltre sappiamo, grazie al grammatico Velio Longo, che Cicerone preferiva pronunciare foresia,
hortesia, Megalesia anziché forensia, hortensia, Megalensia. Dunque vi è una caduta della nasale
davanti alla sibilante nel gruppo intervocalico -NS-.

Inoltre, sempre attraverso le fonti che ci sono pervase, possiamo notare alcuni fenomeni notevoli
che contrassegnano la storia della latinità popolare nella fonetica del latino volgare:
I. Caduta della -M- fin da età repubblicana: se una parola terminante per vocale era seguita
da un’altra parola cominciante per vocale, le due si fondevano prosodicamente (sinalèfe).
Se la prima parola terminava per -M-, questa consonante finale non impedisce la sinalèfe,
segno che in poesia si faceva spazio a un tratto tipicamente parlato e “preromanzo”;
II. Tendenza alla monottongazione di AU, AE e del raro OE (ridottosi in Ē: POENAM>pena).
Es.con AU: AURUM>oro
CAUSAM>cosa
PAUCUM>poco
Es. con AE: MAESTUM>mesto
CAELUM>cielo
LAETUM>lieto
III. Caduta della nasale -NS-;
IV. Perdita della quantità vocalica in favore della qualità o timbro. Il latino distingueva le vocali
in base alla quantità breve o lunga
V. Es. VÊNIT “viene” e VĒNIT “venne”.
VI. Tuttavia, nel latino parlato, le vocali lunghe cominciarono ad essere pronunciate chiuse e le
vocali brevi aperte. Ciò porto ad una conseguente modifica del numero delle vocali toniche
latine, che da 10 passarono a 7:
Ī>i (VĪTAM>vita)
Î-Ē>e (NÎVEM>neve)
Ê>ε (PÊCTUS>petto)
Ā-Â>a (MÂRE>mare)
Ô> ɔ (ÔCTO>otto)
Ō-Û>o (SŌLEM>sole)
Ū>u (LŪNAM>luna)

Per quanto riguarda il vocalismo atono, viene meno l’opposizione tra vocali aperte e vocali chiuse. Il
risultato dà le 5 vocali che noi conosciamo:
Ī>i
Î-Ē-Ê>e
Ā>a
Ô-Ō-Û>o
Ū>u
L’evoluzione delle vocai riguarda solo le parole della tradizione popolare. Per quanto riguarda i latinismi e i
cultismi, invece, essi rappresentano la quota numericamente più rilevante, in quanto sono parole assunte
dai libri e adattate al sistema grammaticale italiano.
Noi possiamo avere a che fare con due parole distinte mosse da una stessa base latina, una per via
popolare e l’altra per via dotta. Questo fenomeno prende il nome di allotropia.
Es. DÎSCUM>desco-disco
VÎTIUM>vezzo-vizio
PLĒBEM>pieve-plebe
Possiamo notare come oggi, la forma di queste coppie più utilizzata è quella dotta, poiché più astratta e
generale, e dunque più propensa a designare, nel corso del tempo, un numero ben maggiore di realtà. Ad
esempio oggi, la parola disco, possiede numerosi significati: attrezzo usato in atletica, anello fibroso
interposto tra le vertebre, disco rigido o hard disk. La parola desco, invece, è specifica, concreta, destinata a
cadere nel disuso.
Sono generalmente di trafila dotta anche gli aggettivi di relazione, che indicano un semplice riferimento al
nome da cui derivano. Ad esempio MĒNSEM>mese-mensile, AURUM>oro-aureo, VÎTRUM>vetro-vitreo.

Innovazioni morfologiche del latino volgare


• Collasso delle declinazioni del sistema dei casi: la IV e la V declinazione scompaiono quasi del tutto;
viene meno il sistema delle desinenze, che comporta conseguenze topologiche, ovvero relative
all’ordine delle parole nella frase: l’ordine libero delle parole in latino, cede il posto a una sequenza
in cui la funzione sintattica è indicata dalla posizione del nome rispetto al verbo.
Es. PETRUS PAULAM AMAT
PAULAM PETRUS AMAT
PAULAM AMAT PETRUS
Il significato della frase, nonostante le varie combinazioni, rimane “Pietro amata Paola”.
Ciò non è possibile in italiano, in quanto PIETRO AMA PAOLA ha un altro significato rispetto a
PAOLA AMA PIETRO;
• Le parole italiane e romanze derivano quasi sempre dal caso accusativo, e lo possiamo stabilire
perché:
- i neutri della III declinazione ci consentono di accantonare l’ablativo (es. dagli ablativo
CÔRPORE e TÊMPORE in italiano avremmo avuto corpore e tempore;
- i cosiddetti imparisillabi ci fanno scartare il nominativo (es. da ORÂTOR in italiano avremmo
avuto orato);
• Perdita del neutro: nelle lingue romanze il neutro scompare (eccetto in Romanìa).
L’italiano mantiene, però, traccia del plurale neutro in alcuni plurali femminili (OSSA>ossa,
CORNUA>corna);
• Il verbo: delle quattro coniugazioni del latino classico (ĀRE, ĒRE, ÊRE, ÎRE) restano la I e la IV,
tuttavia anche la II è riuscita a sopravvivere (es. VOLERE, POTERE).
Nasce il condizionale, modo verbale totalmente estraneo al latino, formato da una perifrasi
costituita da infinito + un tempo storico di HABEO (imperfetto HABĒAM o perfetto HABUI/HÊBUI),
da qui il toscano CANTAR(E)+(H)ÊBUI(T)>canterebbe.
Esiste poi un secondo tipo di condizionale, caratteristico dei poeti siciliani (es. saria, avria, diria,
faria).
FENOMENI PIÙ NOTEVOLI

Dittongamento toscano
È uno dei fenomeni tipici dell’italiano letterario derivato dalla toscanità e consiste nel dittongamento di una
E o di una O breve latina tonica in sillaba libera in posizione incondizionata, cioè indipendentemente dalla
presenza di un fono successivo o di una vocale nella sillaba finale.

Oltre al dittongamento toscano vi è quello metafonetico, caratteristico dei dialetti meridionali, che consiste
nel dittongamento della Ê o della Ô, sia in sillaba aperta che in quella implicata, a condizione che, nella
sillaba finale della base latina, si trovi una Ī o una Ô (es. cognomi meridionali come Luongo da LÔNGUM,
Cappiello da CAPPÊLLUM).

Altre caratteristiche del dittongamento toscano sono:


- Ê>jε (DÊDIT>diede, FÊRUM>fiero, HÊRI>ieri)
- Ô>w ɔ (BÔNUM>buono, LÔCUM>luogo, NÔVUM>nuovo)

Il dittongamento non è sistematico nei proparossitoni, cioè nelle parole accentate nella terzultima sillaba.
Es. ÔPERAM>opera (invece di uopera)
PÊCORA>pecora (invece di piecora)

Da ÊRAT/ÊRANT, nel fiorentino del ‘200, vi era la forma iera/ierano; successivamente il dittongo è stato
eliminato per effetto della regola del dittongo mobile.
I dittonghi jε e w ɔ si dicono “dittonghi mobili” perché tendono a ridursi, fuori accento, alla sola vocale
(rispettivamente e e o). Tale fenomeno è evidente nei paradigmi verbali (es. siede/sediamo, vuole/volontà,
siede/sedile).

In tre parossitoni, cioè nelle parole accentate nella penultima sillaba, il dittongamento non si verifica.
Es. BÊNE -> si può pensare al meccanismo del dittongo mobile all’interno di frase (anticamente si utilizzava
“bene sta!” dove noi oggi diciamo “va bene!”;
NÔVEM -> si pensa all’influsso del latino
IL/LÊI -> è difficile dare una spiegazione

In due casi l’italiano antico aveva un dittongo che si è monottongato successivamente nell’italiano
moderno:
I. Dopo un gruppo di consonante + r: BRÊVEM>brieve, PRÊCAT>priega, PRÊMIT>prieme;
II. Dopo un fono palatale (λλ, ηη, j) si manifesta una tendenza alla riduzione, che tuttavia non ha eroso
completamente certe forme dittongate rimaste nell’uso scritto (es. FILÎOLUM>figliuolo,
HISPANIÔLUM>spagnuolo, IÔCAT>giuoca).

In alcuni paradigmi verbali, un antico dittongo è stato eliminato per effetto della regola del dittongo
mobile, cioè per la pressione delle forme rizoàtone (accentate sulla desinenza: am-àre) sulle forme
rizotòniche (accentate sulla radice: àm-o).
Es. LÊVAT>lieva>leva
NÊGAT>niega>nega
SÊQUIT>siegue>segue

Anafonesi
Si tratta di un fenome toscano e consiste nell’innalzamento delle due vocali chiuse toniche e e o davanti a
determinati foni consonantici. Ne distinguiamo due tipi:
- La e del latino volgare diventa i davanti a λλ e ηη, perché provenienti dal latino classico -LJ e -NJ
(es. GRAMÎNEAM>gramégna>gramigna, CONSÎLIUM>conséglio>consiglio,
FAMÎLIAM>faméglia>famiglia).
Tuttavia se ηη proviene da un nesso latino -GN, l’anafonesi non si produce (es. LÎGNUM>legno,
SÎGNUM>segno);
- La e del latino volgare diventa i tonica e la o diventa u quando segue una nasale velare, ossia
davanti a nessi -NG e -NK. Tuttavia nella formula onk la o si conserva (es.
LÎNGUAM>léngua>lingua, VÎNCO>vénco>vinco, FÛNGUM>fóngo>fungo);

Chiusura delle vocali toniche in iato


Le vocali toniche e, ε, o e ɔ seguite da un’altra vocale (che non sia i) tendono a chiudersi, fino ad arrivare
alle vocali estreme i e u. Nel caso che lo iato risalga già al latino classico, la vocale tonica era breve in base
alla forma prosodica <<vocalis ante vocalem brevis est>> (es. ÊGO>eo>io, MÊUM>meo>mio,
DÊUM>Deo>Dio), invece davanti a i si avrà il normale dittongamento di Ê e Ô (es. MÊI>miei, BÔ(V)ES>buoi).
Il fenomeno manca nei latinismi, tra i quali numerosi nomi propri (es. MATTHAEUS>Matteo,
BARTHOLOMAEUS>Bartolomeo, ANDRÊAS>Andrea).

Trattamento di e protonica
Una e protonica del latino volgare tende a chiudersi in i in un’area che, anticamente, era limitata alla
Toscana (es. DÊCEMBREM>Decembre>Dicembre, MÎNOREM>menore>minore,
MÊ(N)SURAM>mesura>misura).
Il fenomeno non avviene soltanto all’interno di parole ma anche all’interno di frasi, coinvolgendo i
monosillabi dotati di scarso corpo fonico che tendono ad appoggiarsi alla parola seguente (es. DĒ ROMA>di
Roma, MĒ LAVO>mi lavo, TĒ AMAT>ti ama. Tale fenomemo è chiamato protonia sintattica. Questa norma,
tuttavia, è soggetta a molti turbamenti:
- Molte parole che nell’italiano antico aveva la i protonica, hanno oggi la e per effetto della
rilatinizzazione di età rinascimentale (es. FĒLICEM>felice, DĒLICATUM>delicato,
AEQUALEM>eguale);
- Non è presente nei latinismi (es. NÊGOTIUM>negozio, SÊRENUM>sereno) e nei semilatinismi,
cioè forme in cui tratti popolari convivono con tratti colti (es. VÊNENUM>veleno,
SĒCRETUM>segreto);
- La e protonica può conservarsi nei derivati per influsso della parola base (es. TĒLARIUM>telaio
per influsso di tela, FÎDELEM>fedele per influsso di fede, PÊIOREM>peggiore per influsso di
peggio);
- Nelle forme verbali rizotoniche, cioè con accento sulla radice, e con desinenza atona (es.
CÎRCAT>cerca, VÎDET>vede, PĒ(N)SAT>pensa);
- Nelle parole di origine straniera (forestierismi), importate da lingue che conservano la e
protonica, la vocale può mantenersi anche in italiano (es. regalo in spagnolo, petardo e
dettaglio in francese);

Trattamento di Î postonico non finale


Nella stessa area in cui la e protonica tendeva a passare a i, vi era un altro fenomeno: la e postonica non
finale del latino volgare corrispondente alla Î del latino classico si chiudeva in i (es.
HOMÎNES>uomeni>ómeni in dialetti che conservano la e postonica>uomini, ANÎMAM>anema nel
napoletano>anima, FEMÎNAM>femmina).
Se la e postonica non finale del latino volgare rappresenta una Ê del latino classico, tende a mantenersi in
italiano, in particolare davanti a r (es. LÎTTERAM>lettera, DIXÊRUNT>dissero, LEGÊRE>leggere).

ar ed er intertonici e postonici
Nel fiorentino il gruppo -AR passa ad er in posizione intertonica, cioè tra accento principale e accento
secondario (es. MARGARITAM, accento principale sulla penultima e secondario sulla sillaba iniziale,
>Margherita), e in posizione postonica (es. LAZARUM>Lazzero).
È una tendenza prettamente del fiorentino, non condivisa nemmeno dai dialetti toscani antichi che
modificano ar solo nei futuri e nei condizionali della I coniugazione (es. CANTARE*AT>canterà,
CANTARE*ÊBUIT>canterebbe).
Altri esempi in cui il fenomeno è sistematico:
- Suffisso -ARÎA>erìa (es. calzoleria, frutteria, porcheria);
- Suffisso -ARELLO>erello (es. fatterello);
- Suffisso -ARECCIO>ereccio (es. villereccio);
- Suffisso -AROZZO>erozzo (es. bacherozzo).
Negli ultimi decenni si sono affermate forme suffissali di origine romana, meridionale o milanesi (es.
spogliarello, mozzarella, pennarello, casereccio, acquarello).

Labializzazione della vocale protonica


In alcuni casi un fono labiale successivo (le tre occlusive p, b, m e le due labiodentali f e v) ha determinato
l’alterazione della vocale palatale precedente, attirandola come o o u (es. DĒBERE>devere>dovere,
DĒMANDARE>dimandare>domandare, LĪMACA>lumaca).

Fenomeni generali: pròstesi, epèntesi, epìtesi


Pròstesi: consiste nell’aggiunta di un elemento in posizione iniziale. In italiano è tipica la pròstesi di i
davanti a parole comincianti per s + consonante, la cosiddetta s impura, quando la parola precedente
termina per consonante (es. la scuola>in iscuola, lo scritto>per iscritto);
Epèntesi: consiste nell’aggiunta di una vocale o di una consonante in posizione intermedia. Nel primo caso
ad esempio si inserisce una v per estirpare uno iato (es. IO(H)ANNES>Giovanni, MANTUAM>Mantova), nel
secondo caso si aggiunge una i per evitare il gruppo -SM che il latino aveva assunto in diverse parole per
influsso del greco (es. SPASMUM>spasimo accanto all’allotropo spasmo, PHANTASMA>fantasima,
BAPTÎSMUM>battesimo);
Epìtesi: consiste nello sviluppo della vocale d’appoggio e in monosillabi ossitoni, propria dei toscani (es.
piùe, virtùe) e dei dialetti moderni (es. sìe, nòe). In area centromeridionale si può avere l’epìtesi della
sillaba -ne (es. sìne, none, mene).

Fenomeni generali: afèresi, sìncope, apòcope


Afèresi: consiste nei processi per i quali si perde un fono o una sillaba in posizione iniziale. Un esempio di
afèresi sillabica è la soppressione della prima sillaba nell’aggettivo dimostratovo questo (es. <<come va ‘sta
faccenda?>>, <<come va stamattina?>>). Un altro caso di afèresi è la discrezione dell’articolo, frutto di
un’errata segmentazione della catena fonica (es. LABÊLLUM “bacino, vasca da bagno”>lavello>avello
“tomba, per una somiglianza degli oggetti”). Spesso, inoltre, la discrezione riguarda la a iniziale, sentita
come l’articolo femminile la (es. APÎC(U)LAM “l’apecchia” interpretato come “la pecchia”, (H)ARENAM
“l’arena” interpretato come “la rena”);
Sìncope: vi sono due casi di sìncope:
a) Sincope della vocale postonica del suffisso -ÛLUM, -ÛLAM (es. VÊT(U)LUM>vecchio,
SÎT(U)LAM>secchia, SPÊC(U)LUM>specchio);
b) Sincope della vocale intertonica (es. CER(E)BÊLLUM>cervello, BON(I)TATEM>bontade>bontà,
VER(E)CÛNDIAM>vergogna);
Apòcope: si distinguono due tipi di apòcopi:
a) Apòcope vocalica: la vocale finale, cadendo, ha determinato la riduzione d’intensità della laterale
precedente, dal momento che una consonante intensa può sussistere solo in posizione
intervocalica. L’apòcope vocalica può essere obbligatoria (es. buon giorno e non buono giorno,
professor Bianchi e non professore Bianchi) o facoltativa (es. amor mio/amore mio, un bicchier
d’acqua, un bicchiere d’acqua). L’apòcope facoltativa si trova più spesso in Toscana o nell’Italia
settentrionale. Le condizioni che consentono l’apòcope vocalica nell’italiano moderno sono:
- La parola non deve trovare in fine di frase. Nei versi della musica leggera o in poesia, era
possibile trovare l’apòcope in fin di verso (es. <<Né il sol più ti rallegra/Né ti risveglia amor>>
(Carducci));
- La vocale deve essere atona;
- La vocale delle essere preceduta da liquida (l e r) o da nasale (n e m) (es. fil di ferro, fin qui);
- La vocale non deve essere né a (in questo caso l’apòcope è possibile solo con l’avverbio ora e i
suoi composti: es. allora, ancora), né i ed e quando hanno valore morfologico (es. buon padre
ma non i buon padri);
b) Apòcope sillabica: è presente, nell’italiano moderno, solo in gran (es. gran giorno al posto di grande
giorno) e in san (es. san Giuseppe e non santo Giuseppe). L’italiano antico, invece, presentava
qualche altro caso di apòcope sillabica (es. ver “verso” e me “meglio”).

Raddoppiamento fonosintattico
Quando un meridionale deve dire “a casa” in realtà pronuncia [ak’kasa], con una velare sorda di grado
intenso. Per spiegare questo fenomeno bisogna partire dall’assimilazione consonantica, in quanto
nell’incontro di due consonanti non ammesse dal contesto linguistico, la reazione più frequente è
l’assimilazione di una consonante all’altra, per cui una delle consonanti rende simile a sé l’altra, col risultato
di una sola consonante di grado intenso. Possono esserci due possibilità:
1) Assimilazione progressiva: la prima consonante assimila la seconda, dunque si impone l’elemento
che sta davanti. Un esempio di assimilazione progressiva lo ritroviamo nei dialetti
centromeridionali, in cui il nesso -ND, per effetto del sostrato osco-umbro, passa a nn (es.
romanesco annà, quanno);
2) Assimilazione regressiva: la seconda consonante assimila la prima, dunque si impone l’elemento
che sta dietro. Si hanno assimilazioni regressive nel passaggio dal latino volgare al fiorentino (es.
FACTUM>fatto e non facco, RÛPTUM>rotto e non roppo).
Dunque noi pronunciamo [ak’kasa] perché il raddoppiamento fonosintattico è un’assimilazione regressiva
all’interno di frase (es. TRĒS CAPRAS>[trek’kapre]).

Univerbazione: due parole scritte unite e percepite come una sola (es. dappoco, eppure,
soprattutto). Tale fenomeno è sconosciuto nell’area settentrionale, nei cui dialetti le consonanti intense
tendono a diventare tenui (es. MAMMAM>mama, BELLUM>belo).

Il raddoppiamento fonosintattico, dal punto di vista descrittivo, si produce in tre casi fondamentali:
1) Dopo un monosillabo “forte”, ovvero di tutte le forme con accento grafico (es. è, dà, né) e di
diverse forme prive di accento (es. a, che, chi, da, do, e, fra).
Es. che fai? [kef’fai], tu parli [tup’parli];
2) Dopo un qualsiasi polisillabo ossitono (es. virtù somma [virtus’somma], partì subito [partis’subito],
caffè lungo [kaffεl’lungo]);
3) Dopo le parole barìtone, cioè non accentate sull’ultima sillaba (es. come me [komem’me], sopra,
dove);
Alcune forme derivanti da basi latine in vocale, non dovrebbero determinare il raddoppiamento della
consonante iniziale successiva, eppure ciò accade: in una prima fase si aveva concomitanza tra
raddoppiamento fonosintattico provocato dalla consonante finale e accento sulla vocale immediatamente
precedente. Una volta perdute le consonanti finali, l’accento finale diviene un naturale candidato al ruolo di
condizione fonologica per la determinazione del raddoppiamento: viene così estero il potere raddoppiante
a ogni altra parola terminante in vocale accentata, indipendentemente dalla presenza di consonanti finali
etimologiche (es. tu, chi, parlerò). Questo quadro descrittivo vale soprattutto per il fiorentino, ma è
estendibile anche nell’area dell’Italia centro-meridionale (a sud di una linea immaginaria che unisce La
Spezia-Rimini).

Labiovelare
È il nesso costituito da un elemento velare (k o g) e da un’appendice labiale (la semiconsonante wau). Si
distingue in:
- Labiovelare sonora: la labiovelare sonora in posizione iniziale è indizio di germanismo, in
quanto non esistono parole latine in GU+vocale (es. guerra, guasto, guardare). In posizione
interna, invece, una labiovelare sonora poteva aversi anche in latino (es. SANGUEN – neutro – >
sangue, LÎNGUAM>lingua);
- Labiovelare sorda: la labiovelare sorda, in posizione iniziale, si è conservata solo davanti ad a,
davanti alle altre vocali perso l’appendice labiale, riducendosi a k (es. QUANTUM>quanto,
QUATTOR>quattro, QUÎD>che, QUĪS>chi).

La labiovelare secondaria, che non esiste in latino ma che si è prodotta in età avanzata in seguito a vari
fenomeni fonetici, si mantiene sempre.

Spirantizzazione della labiale sonora intervocalica


Fin dai primi secoli dell’età volgare, la B latina si è trasformata da occlusiva in costrittiva. Questo fono si è
conservato nello spagnolo (es. SABER>sapere), mentre in italiano la costrittiva bilabiale del latino volgare ha
dato vita a una labiodentale sonora v, chiamata costrittiva o spirante (es. HABĒRE>avere, DEBĒRE>dovere,
FABULA>favola). I casi di conservazione di B sono cultismi (es. HABITARE>abitare, SÛBITO>subito,
NŌBILEM>nobile. La labiale sonora si conserva anche nei germanismi, entrati troppo tardi perché la B
potesse spirantizzarsi (es. roba, rubare, Roberta).

Sonorizzazione consonantica
Le consonanti sorde in posizione iniziali restano generalmente intatte. Un certo numero di sonorizzazioni si
ha solo nel caso della velare k. Tale fenomeno, spesso, risale al latino volgare e riguarda i grecismi (es.
GUBERNARE>governare dal gr. kybernân, CAMBA>gamba dal gr. kampé, CAMMARUM>gambero dal gr.
kámmaros). Vi sono, però, anche parole di origine latina (es. CATTUM>gatto, CAVEAM>gabbia,
QUIRITARE>gridare). Molto importante è la sonorizzazione delle consonanti in posizione intervocalica e
interconsonantica (cioè tra vocale e r), un fenomeno generale nella Romanìa occidentale e nei dialetti
dell’Italia settentrionale, in cui la consonante sonorizzata può successivamente spirantizzarsi e poi cadere
(es. AMĪCAM> fr. amie). Le consonanti in questione sono quattro, le tre occlusive e la sibilante:
- K>g (es. LACUM>lago, ACUM>ago, LÔCUM>luogo);
- T>d (es. HOSPITALEM>ospedale, SCŪTUM>scudo, STRATAM>strada);
- P>b>v (es. EPÎSCOPUM>vescovo, RECUPERARE>ricoverare, RĪPAM>riva);
- S>z
La sonorizzazione della sibilante interessa soprattutto la Toscana (la sorda resiste soltanto in casa, cosa,
così e nel suffisso -oso come noioso, legnoso). Tuttavia per la mancata registrazione grafica non è riuscita a
diffondersi nel resto d’Italia, dov’è sbituale s intervocalica in ogni posizione. Quanto alle occlusive, la
sonorizzazione è parziale.

Nessi di consonante (diverse da R o da S) + “iod”


Davanti a una “iod” del latino volgare (nella quale erano confluite sia la Î in iato sia la Ê in iato del latino
classico, come ad es. FILÎUS>filius>”filjus” e ARÊA>area>”arja”), gran parte delle consonanti precedenti si
rafforzando. Si ha il rafforzamento con le labiali PJ, BJ, VJ (es. SAPIAT>sappia, RABIAM>rabbia,
CAVEAM>gabbia).
Se la consonante è un’affricata prepalatale sorda o sonora, la “iod” viene assorbita da quella consonante
(es. FACIAT>faccia, ACIARIUM>acciaio, RĒGIAM>reggia).
Dopo una nasale dentale e una laterale, la “iod” produce una palatalizzazione, cioè fa arretrare
l’articolazione della consonante precedente, determinando una nasale palatale ηη e una laterale palatale
λλ (es. VĪNEAM >vigna, FĪLIUM >figlio, FŌLIUM>foglio).
Infine, dopo una dentale sorda o sonora (T e D), la “iod” intacca la consonante determinando la cosiddetta
assibilazione, cioè la trasforma in affricata alveolare sorda e sonora (es. PÛTEUM>pozzo, VÎTIUM>vezzo,
MÊDIUM>mezzo). Se il nesso non è in posizione intervocalica ma è preceduto da consonante, il risultato
non sarà una consonante intensa (es. FÔRTIA>forza, PRANDIUM>pranzo, HÔRDEUM>orzo). In posizione
intervocalica, invece, l’esito è duplice: accanto all’affricata alveolare si può anche avere un’affricata palatale
(es. RADIUM>raggio, HÔDIE>oggi, PÔDIUM>poggio).
Nesso di R + “iod”
In Toscana e nelle aree limitrofe, il nesso RJ ha perso la vibrante riducendosi a “iod” (es. AREAM>aia,
CÔRIUM>cuoio, GLAREAM>ghiaia). Per quanto riguarda gli altri dialetti, nella maggior parte di loro l’esito di
RJ è r, da qui la presenza di suffissi in -aro (es. paninaro, borgataro, palombaro). Nel caso di danaro-denaro,
non siamo di fronte a un esito antitoscano, benché nei primi secoli la forma spontanea era danaro, che
sopravvive oggi in salvadanaio. Infatti, il passaggio di RJ è possibile solo al singolare, nel plurale arrivare ad
ARII. È solo l’analogia che ha modellato gli originali plurali (es. pl. notari, fornari sing. notaio, fornaio).

Nesso si S + “iod”
L’esito del nesso SJ in Toscana è duplice:
- Sibilante palatale sorda di grado tenue, non esiste nella pronuncia ufficiale (es. BASIUM>bacio,
CAMĪSIAM>camicia, CASEUM>cacio);
- Sibilante palatale sonora (es. (OC)CASIONEM>cagione, PE(N)SIŌNEM>pigione,
PRE(H)E(N)SIŌNEM>prigione).

Nessi di consonante + L
Nei nessi di una consonante + L, la laterale si palatizza trasformandosi in “iod”. In posizione intervocalica si
ha una consonante intensa.
es. in posizione iniziale o postconsonantica: BLASIUM>Biagio, CLAMAT>chiama, FLÔREM>fiore;
es. in posizione intervocalica: ÔC(U)LUM>occhio, MAC(U)LAM>macchia, NÊB(U)LAM>nebbia.
Nel nesso SL, sconosciuto al latino e possibile soltanto in posizione iniziale e in posizione intervocalica in
seguito alla sincope di una vocale postonica, si ha l’epentesi di una velare sorda: SL>SKL (es. germ.
SLAHTA>schiatta, lat. mediev. SLAVUM>schiavo).
Il nesso secondario TL, successivo alla sincope della vocale postonica, viene sostituito da CL (es.
SÎT(U)LAM>secchia, VÊT(U)LAM>vecchio, FIST(U)LARE>fischiare).
Per quanto riguarda GL, nel fiorentino antico gli esiti erano quelli regolare (es. TĒG(U)LAM>tegghia,
VĪG(I)LARE>vegghiare). Le forme attuali teglia e vegliare si diffondono le fiorentino del ‘500 e costituiscono
un esempio di ipercorrettismo.

L’articolo
Il latino non possedeva articoli, ma già in Plauto e Cicerone si riscontrano attestazioni del numerale ordinale
UNUS degradato semanticamente a semplice articolo (es. “sicut unus pater familia” ovvero “come un padre
di famiglia).
Per quanto riguarda ILLE,
Per quanto riguardal’aggettivo dimostrativo ILLE, in età arcaica ci fu il confronto con il greco, dal quale
vennero tradotti i testi del vecchio e del nuovo testamento. ILLE non assume il significato di “quello” ma, in
quel momento, nemmeno di “il, lo”, questo fenomeno è chiamato articoloide. Inoltre ILLUM, per aferesi
iniziale, si è ridotto a l (es. fare lo pane>fare-l-pane).

Comparativo e superlativo
Il latino ricorreva a forme sintetiche per esprimere il comparativo e il superlativo. Ad esempio,
dall’aggettivo CLAR-US “illustre” si traevano il comparativo CLAR-IOR e il superlativo CLAR-ÎSSIMUS. Questo
processo non è più produttivo, se non in italiano e in spagnolo (es. chiarissimo, clarissimo), i quali hanno
ripreso il superlativo organico per via dotta.
Per il comparativo, restano alcune forme organiche latine (es. MAIŌREM>maggiore, MINŌREM>minore,
MELIŌREM>migliore).
Due avverbi si sono imposti nel latino volgare e, successivamente, nelle lingue romanze, e cioè magis e plus
(es. sp. más alto, rum. mai înalt, it. più alto, fr. plus. haut).
Pronome e aggettivo dimostrativo
Dei 6 dimostrativi del latino classico (ÎS, HÎC, ÎDEM, ÎSTE, ÎLLE, ÎPSE):
- ÎDEM già verso la fine del II secolo;
- HÎC e ÎS sopravvivono in forma neutra nell’italiano antico desso (>IPSUM) e in ciò e però (>ECCE
HOC, >PER HOC);
Nel latino volgare si stabilisce per un tempo un sistema tripartito: ÎSTE “questo”, ÎLLE “quello” e ÎPSE
“codesto”. Questo sistema si continua ad utilizzare, ad esempio, in spagnolo e in molti dialetti italiani
meridionali (es. chistë, chillë, chissë).
Il toscano ha abbandonato ÎPSE per “codesto”. Nell’italiano contemporaneo, codesto è limitato all’uso
toscano parlato quando ha funzione deittica, ovvero quando sta ad indicare una vicinanza al destinatario
(es. dammi codesti occhiali) o quando ha valore anaforico, ovvero solo scritto, in riferimento a qualcosa di
cui si è parlato in precedenza.

Le forme pronominali latine volgari appaiono rafforzate con elementi “espressivi” (per il toscano ÊCCUM):
(ÊC)CÛ(M) ÎSTU(M)>questo
(ÊC)CÛ(M) ÎLLU(M)>quello
(ÊC)CÛ(M) TÎBÎ ÎSTU(M)>codesto

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