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Romano A. (2018). “Vocabolario italo-salentino I (asca – scarda – (parquet –) bbrocca – mmile – culummu – lazzalora)”. In
Presenza Taurisanese, a. XXXVI, n. 302 – giugno 2018, Taurisano, 8-9.

Vocabolario italo-salentino I

Antonio Romano

Il parlante taurisanese, come il parlante salentino in generale, dispone di numerose voci d’uso quotidiano che
colpiscono a volte per la loro origine non immediatamente riconoscibile oppure spesso oscura perché non riconducibile
alle più note forme della lingua nazionale o delle altre lingue attraverso le quali una voce può essere giunta in un dato
momento storico.
In questa rubrica proporrò una selezione di brevi schede formulate in riferimento ad alcune fonti specialistiche di non
sempre facile consultazione e reperimento.

1. Tra le tante voci di origine latina, troviamo sal. asca (àschia) ‘pezzo di legno spaccato, grossa scheggia’ che
viene solitamente messo in relazione con lat. *ASCLA < ASSŬLA ‘piccola asse, scheggia’ < ASSE(M) [REW 736; SDL
197; VDS I 60; DEDI àsc(hi)a]. La derivazione da *ASTULA < ASTA è invece sfavorita dall’esistenza del griko àskla –
Come in molti altri casi, infatti, conservando forme che sono andate incontro a mutamenti recenziori nei dialetti
romanzi simbiotici, il griko offre valide conferme sui tempi e i modi del progresso delle voci romanze esclusive
dell’area (cfr. LEXROM).
Al contrario delle assi italiane che, come gli assi, tendono a essere sottili e allungate, le asche salentine, sempre al
femminile, possono essere grandi e piccole, ma conservano una forma variabile, una consistenza legnosa e l’insidia
delle schegge, le temibili scarde. In italiano non si confondono le assi strette e lunghe dell’assito con l’asse cilindrico
della ruota e con gli assi infinitamente stretti e lunghi del piano cartesiano. Anche le rotte di scambio e gli accordi tra
governi rientrano in questa categoria, offrendo assi presunti solidi e resistenti. In salentino invece l’axe(m) latino e
l’áksōn greco restano assu (m.sg.) e si distinguono diversamente dall’asu delle carte, parente dell’it. asso, che pure pare
derivare il suo nome da asse(m), l’antica moneta italica, omonimo dell’asse(m) da cui deriva l’aschia, ma stavolta
curiosamente continuato al maschile.

2. A proposito di schegge, mentre la scarda italiana pare ineluttabilmente collegata al cardo e alle sue pungenti
spigolosità, la voce dialettale è fatta risalire dalle fonti [REW 7979; VDS 595; SDL 254] al germ. skarda ‘spaccatura’.
Non manca però chi, conoscendone l’impiego al posto di squama (’i pupiḍḍi se mànciane cu’ ttutte ’e scarde?), la
riconduce per attrazione paronomastica a lat. SQUAMA(M), e per analogia, accosta il particolare distacco delle scarde di
legno al sollevamento lamellare che si presenta nel rivestimento superficiale del corpo dei pesci (e dei rettili). I
cambiamenti di significato delle parole avvengono infatti, notoriamente, per: 1) passaggio metaforico (analogia) - il
“figurato” della nostra tradizione grammaticale - o 2) per trasferimento metonimico (contatto) - il nostro “traslato”
tradizionale.

3. Quando due parole o due significati si somigliano troppo (e, addirittura, sono omonimi) la tentazione
dell’etimologia popolare può essere forte e portare a credere ad es. che un assito ben levigato si possa chiamare parquet
ed essere ricondotto, attraverso il palchetto paretimologico di certe regioni, a un piccolo palco (il cui nome
discenderebbe da longobardo *palk “trave”). La storia è diversa perché la voce parquet è invece, come evidente anche
dalla forma grafica più diffusa, una parola francese attestata in origine come denominazione di una parte di un salone di
giustizia pavimentata con piccole assi di legno e indicata come petit parc ‘piccolo parco’. Deriva proprio da un
diminutivo di parc, quindi, mantenendo la r di una forma oscura, conservata anche nell’it. parco e nel fr. parc, di
presunta origine prelatina.

4. Il salentino bbrocca, come l’it. brocca, ‘recipiente di terracotta con becco’ è voce di etimo incerto. Alcuni vi
vedono un legame con gr. tróchous ‘brocca, recipiente per versare l’acqua’ [Du Cange I 752 (vasis genus ad mensam
alios que)], ma la giustificazione immediata si trova nell’analogia con il ‘cavallo dai denti sporgenti’, il brocco < lat.
parl. *broccu(m) ‘dente sporgente’ che ancora sopravvive ad es. nel piem. broc. Diversa è invece la storia di it.
broccolo derivato anch’esso da brocco nel senso originario di ‘dente sporgente’ per via dell’analogia con l’estremità
residua sul tronco di un ramo (la raccolta scalare operata per diverse brassicacee lascia un brocco sulla pianta madre).

5. Quanto ai vasi di terracotta, che hanno una storia lunga e differenziata non immune da contaminazioni areali, in
Salento si trova in prima linea il più tradizionale mmile (mbile) ‘recipiente di terracotta, fiasco, a due anse per acqua da
bere’ [VDS 331; SDL 237]. Il VDS lo descrive anche come “orciolo di terracotta a due anse, panciuto e dal collo
stretto, usato come contenitore di acqua da bere” e ne pone l’origine nel gr. *bombylion (dim. di un’altra voce con
diversa accentazione) che spiegherebbe anche le varianti salentine che conservano una sillaba iniziale aggiuntiva
(vummile, cummile). Anche nelle Postille del REW la voce è trattata insieme ad altri esiti meridionali presunti giunti per
tramite bizantino. La perdita della prima sillaba si deve infatti al betacismo (attivo dal III sec. d.C.), che conserva b
dopo nasale, ma la fa perdere all’iniziale (prima di vocale chiusa in u). All’origine ci sarebbe, quindi, vumbile al quale
segue immediatamente umbile in quei dialetti che perdono v- (urpe < vurpe). A questa si può associare l’assimilazione
totale di nasalità tipica dei dialetti salentini delle fasce più a Nord e più a Sud (nella fascia Gallipoli-Otranto -mb- si
conserva). Si hanno dunque umbile e ummile che sono le forme scritte adottate da molti autori che avvicinano il
Romano A. (2018). “Vocabolario italo-salentino I (asca – scarda – (parquet –) bbrocca – mmile – culummu – lazzalora)”. In
Presenza Taurisanese, a. XXXVI, n. 302 – giugno 2018, Taurisano, 8-9.

salentino all’italiano. I nostri dialetti presentano tuttavia una struttura che lascia totalmente autonomi geminate e nessi
consonantici iniziali di parola che sarebbero impossibili in italiano (basti vedere la difficoltà di molti giornalisti centro-
settentrionali ad accettare di pronunciare – e scrivere! – parole come ndràngheta o nnamuratu senza aggiungere una
vocale iniziale spuria). Nei dialetti salentini, la discrezione dell’articolo (l)u di (l’)ummile/(l’)umbile ha condotto a (l)u
mmile/(l)u mbile e, quindi, ha favorito la lessicalizzazione del comune mmile con una geminata iniziale perfettamente
lecita (la stessa di numerosi altri lessemi: nnucu, ccatti, mmutatu, llattamu, etc.).

6. Interessante è il caso di sal. culúmmu (culúmbu) ‘fiorone, fico di prima fioritura (di colore violaceo o verde)’,
voce solitamente connessa con COLŪMBU(M) ‘colombo’ e sulla quale tacciono VDS, SDL e DDS (forse da una radice
indoeuropea col significato di ‘scuro’ [DELI I 254] che giustifica l’altra accezione della stessa voce in sal. ‘livido,
bernoccolo’). Per un’associazione semantica simile tra frutti del fico e uccelli si può vedere in generale DEDI
culúmmëru. Tuttavia, Manno (1955-1956) intuisce un’altra soluzione plausibile < lat. CORYMBUS < gr. kórymbos ‘cima,
infiorescenza’ (l’accentazione greca non collima, ma cfr. it. corimbo), “il fiorone viene, infatti, da un’infiorescenza
precoce”. Se così fosse, saremmo in presenza di un altro caso (come quello di murteddha) in cui il sal. conserva un esito
u per la y greca (andata incontro a iotacismo in gr. biz.); ovviamente anche in questo caso si avrebbe, comunque, una
mediazione del latino (confermata dallo spostamento d’accento). Varrà la pena sottolineare, infine, che in molte località
del Salento, il fiorone, il fico di San Giovanni, è culumbàra/culummàra, restando la voce di cui qui trattiamo in
corrispondenza della mera designazione di un cultivar.

7. A proposito di fitonimi, si è diffuso negli ultimi decenni in Italia il nome acerola. La parola è così recente da non
esser ancora inclusa nei più autorevoli dizionari cartacei (nemmeno il GRADIT, che attualmente è il più ricco e affidabile
dizionario dell’italiano dell’uso, né la sua versione online https://dizionario.internazionale.it). Si tratta di un ispanismo
introdotto per indicare un albero sudamericano (Malpighia glabra), altrimenti noto come ‘ciliegio delle Indie’,
designandolo col nome di una pianta simile già diffusa nel bacino mediterraneo al momento della scoperta delle
Americhe. Acerola infatti designa anche, più tradizionalmente, il Crataegus azarolus, descritto come oriundo europeo
già da Linneo nel 1753 (la voce che indica la specie è araba in origine e, in quel bacino linguistico, si può estendere dal
biancospino al nespolo germanico). Questa pianta è nota in Italia e diffusa in molti verzieri salentini col nome di
laẓẓalòra o laẓẓaròla (anche il nome dell’albero in sal. è quasi sempre al femminile) oppure con il toscanismo
lazzeruolo. Lessicalizzando la forma con l’articolo agglutinato (come già era accaduto dall’arabo alle lingue romanze)
si è determinata infatti un’attrazione paretimologica col nome Lazzaro. Quello che preme notare è, in questo caso, la
naturalezza nell’estensione d’uso delle parole del loro lessico da parte degli ispanici che, notando una somiglianza tra
queste due specie di Rosidae (di famiglie diverse) hanno riciclato una stessa designazione (nello stesso modo
osservabile in altri casi anche in italiano che ad es. chiama noccioline tanto le ‘nocciole’ quanto le ‘arachidi’).
L’autosufficienza di una lingua come lo spagnolo, pur parlato su territori vastissimi a contatto con molte altre lingue,
contrasta con la disposizione alla formazione di doppioni in un italiano sempre più incline all’accoglimento dei
forestierismi in campo commerciale (per ora l’acerola compare infatti soltanto come integratore in prodotti pseudo-
salutistici, naturopatici etc.).

DEDI – Dizionario etimologico dei dialetti italiani di M. CORTELAZZO, C.MARCATO, Torino: UTET, 1998.
Du Cange – Glossarium ad scriptores mediæ et infimæ latinitatis di CH. DU CANGE et alii, Niort: Favre, 8 voll., 1883-
1887 (1a ed. 1678).
GRADIT – Grande dizionario italiano dell’uso di T. DE MAURO (e coll.), Torino: UTET, 8 voll., 2002.
LEXROM – “Lessico romanzo nei dialetti greci del Salento” di G.B. MANCARELLA, in Studi Linguistici Salentini, 24,
2000, 53-76.
Manno (1955-1956) – Rubriche “Etimologie del dialetto leccese” (1) e “Etimologie del dialetto salentino” (2-24), di F.
MANNO, in La Voce del Sud (16 luglio 1955 - 1o settembre 1956).
REW – Romanisches Etymologisches Wörterbuch di W. MEYER-LÜBKE, Heidelberg: Winter, 19353.
SDL – Contributi vari di P. SALAMAC, In Salento. Monografia di G.B. MANCARELLA, Lecce: Del Grifo, 1998, 195-201,
202-208, 234-243, 243-250, 251-256.
VDS – Vocabolario dei dialetti salentini (Terra d’Otranto) di G. ROHLFS, München: Verlag der Bayerischen Akademie
der Wissenschafen, 1956-1961 (ed. it. 3 voll., Galatina: Congedo, 1976).
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Romano A. (2018). “Vocabolario italo-salentino II (caggia – scanare – scattune – scantare - scanta)”. In Presenza Taurisanese, a.
XXXVI, n. 303 – luglio/agosto 2018, Taurisano, 8-9.

Vocabolario italo-salentino II

Antonio Romano

Leggo diffusamente in opere di cultori locali spiegazioni etimologiche ingenue che attribuiscono a tale lingua o a tal
altra l'origine di voci dialettali salentine, senza adeguato riferimento ai trattamenti generali e alla presenza di voci simili
in dialetti di aree attigue.

8. Ad es. mi è capitato di leggere in una pubblicazione di una certa importanza che il francese sarebbe all'origine di una
voce dialettale come caggiola/caggiula 'gabbia' L'autore si precipitava a vederne la somiglianza col fr. cage a questa la
riconduceva frettolosamente. Cautela, oltre che preparazione generale, avvedutezza e metodo consiglierebbero invece di
limitarsi a dire che concorda (in buona misura) con (la forma grafica di) quella francese. Ma ciò molto spesso non è
neanche necessario, dato che può trattarsi di semplici concordanze, appunto. Infatti, nel nostro caso, messo da parte il
suffisso diminutivo (variabile nel vocalismo in funzione della località), l'affermarsi di un suono che trascriviamo con -
gg(i)- deriva da un trattamento regolare in sal. di -B/V-+yod: HABĔO > aggiu 'ho', GOBĬŌNE > cuggiune 'ghiozzo',
FŎVĔA > foggia... (e, in italiano, PLŬVĬA > pioggia). La voce è quindi regolarmente di procedenza latina: CAVĔA
'vuota' > *gabia e sal. caggia (Si noti per inciso che il c- iniziale è presente con oscillazioni anche in italiano che ha
cabina/gabina). Il fatto che il francese abbia una voce simile (che in una sua forma orale sia stata simile alla nostra
qualche secolo fa) è solo imputabile alla presenza di un trattamento dello stesso tipo in quello spazio linguistico e non
vuol certo dire che la voce sal. sia derivata da quella.

9. Lo stesso mi è accaduto anche con scanare 'lavorare, stendere l'impasto (del pane)' che non so più quale etimologo
della domenica aveva provato a ricondurre a un'improbabile voce araba (dietro la spiegazione che nel suo paese erano
passati i saraceni!). L'osservazione di voci simili di dialetti affini (in realtà in uno spazio ampio quanto tutto il
meridione), ci permette di raccogliere forme d'identico significato come šcanare o schianare che meglio lasciano
emergere la presenza di un regolarissimo esito palatale di PL-. E, d'altra parte, la stessa glossa italiana 'spianare' e
l'immagine di uno strato 'piano' di pasta avrebbero lasciato intuire la trasparentissima origine di questo verbo dal lat.
EXPLANARE. In tosc. PL- > pj-, mentre in sal. > kj- (piove vs. chiove, più vs. cchiù); cfr. gli esiti dei derivati di
PLANTA 'pianta' > chianta: chiantare 'piantare' e, in particolare, schiantare 'spiantare' (< EXPLANTARE). Ecco
dunque, come prima forma, schianare (e infatti diciamo chianu 'piano'). In alcuni dialetti, in modo etremamente
interessante, la palatalità di -kj- si trasferisce (si anticipa) sulla s-, dando šcanare (cfr. anche casi derivati da CL-, come
lat. EXCLAMARE > schiamare > šcamare). La perdita di questo tratto, cioè il passaggio šk- > sk-, è un fatto comune in
diverse aree (sk- è regolare in napoletano ma impossibile in marchigiano mer., che ha solo šk-, al contrario št- è tipico di
molte aree ma non è attestato a Napoli).

10. A proposito di šk(l)-, e riprendendo il caso delle voci legate ad *ascla discussi precentemente, propongo di riflettere
su alcune forme, anche italiane, liquidate frettolosamente da molti dizionari autorevoli come onomatopeiche. Tra queste
troviamo sal. šcattare 'schiattare' e šcattunare 'pollonare' (in alcuni dialetti ancora schiattare e schiattunare). Sull'origine
di queste voci e sui loro derivati (šcattu, šcattusu, šcattalora, šcattaḍḍare, šcattaris¢iare... v. dopo) tacciono anche
VDS, DDS e Manno. E in questo caso può essere utile invece dare un'occhiata allo spazio gallo-romanzo dove fr. éclat
'scheggia, getto' e éclater 'scheggiare, esplodere' possono illuminarci, anche sapendo che molti di questi é- derivano da
es- con precedente epitesi di e- (si pensi anche solo a SCHOLA > fr. école, sp. escuela). Le voci francesi sembrerebbero
quindi originarsi da un'ipotetica forma *esclatare che però non dà modo di ricostruire formazioni precedenti. Ecco però
che alcuni valenti etimologi (come J. Picoche) la spiegano come deformazione di *asclatare, derivato di *ascla/astula
(altra forma concorrente doveva essere astella da cui *astellare > atélier) attraverso un part. pass. *asclatu 'ridotto in
schegge'. *asclatare/*esclatare, diffusi in un territorio molto ampio (incluso il nostro che conosce e conserva meglio di
altri l'asca di cui al n. 1), si propongono come ottimi antenati del nostro šcattare e dell'it. schiattare (come pure
potrebbero esserlo un lat. tardo *exclappitare o un francone *slaitan). D'altra parte però fr. éclat, nel significato di
'getto', può aiutarci a riflettere anche sul sal. šcattune: il 'pollone', che - si noti - presenta suffisso analogo in italiano < -
ŌNE, è metaforicamente un piccolo raggio, un'asta che spunta dal tronco o alle radici, come se questo la gettasse
all'esterno (e lo stesso significato è nel verbo POLLUERE e nei suoi derivati romanzi e prestiti conseguenti in altre
lingue). Se non si può escludere una confusione con šcantare/schiantare (der. da EX- + PLANTA; v. 9), con
assimilazione totale -nt- > -tt-, sarà comunque rilevante far notare che anche l'it. ha schiatta, come 'discendenza', e
l'idea del pollonare mi pare insita in questo concetto. Tuttavia, in questo caso, alcuni dizionari ipotizzano un'origine
germanica (< slahta 'stirpe'). Anche il veneto scatón può riferirsi a giovani alberi ed è ricondotto a un'antica voce scat
dal significato di 'bastone, dardo', stavolta però di origine gotica, alla cui base sarebbe proprio uno *skafts dal
significato di 'asta' (DEDI). La soluzione più semplice è quella che tiene insieme più attestazioni, ma che rende
compatibile un legame storico più profondo, senza eslcudere l'ipotesi di una più ampia e antica circolazione di voci e
significati (come c'insegna Mario Alinei).

11. A legare le voci illustrate in 9 e 10 si propone anche šcantare/schiantare 'spiantare, sorprendere, spaventare', diffuso
in questa varietà di significati in tutto lo spazio italo-romanzo meridionale estremo. La voce simile dell'it. - col
Romano A. (2018). “Vocabolario italo-salentino II (caggia – scanare – scattune – scantare - scanta)”. In Presenza Taurisanese, a.
XXXVI, n. 303 – luglio/agosto 2018, Taurisano, 8-9.
significato di 'spezzarsi, scoppiare' e, metaforicamente, 'colpire, sorprendere per la bellezza' - è generalmente ritenuta un
incrocio tra schiattare e spiantare. Le sensibili differenze di significato tra sal. e it. emergono chiaramente dall'uso. Se
da un lato resta dappertutto intatto il significato primario e referenziale di 'spiantare', in alcune zone del Salento si dice
m'aggiu šcantatu 'mi sono schiantato' o ha' fattu (cu) mme šcantu 'mi hai fatto schiantare' per indicare un'emozione di
spavento (a Sava ad es., secondo VDS e DDS, e a Sogliano, per il VDS). In quest'accezione non si può escludere un
legame col pianto: chiantu < PLANCTU (da PLANGĔRE). Tuttavia, in altre aree, trascurate dalle principali opere
lessicografiche, prevale un uso che lascia pensare maggiormente a un'emozione di sorpresa positiva (o, persino, in
qualche modo, entusiasmo e soddisfazione), in esempi come lo stesso m'aggiu šcantatu 'mi sono stupito' o nnanzi ttuttu
ḍḍu bbene te Ddiu, m'aggiu šcantatu 'davanti a tutto quel ben di Dio, mi sono entusiasmato' oppure nel comune
proverbio occhiu nu bbite, core nu šcanta 'occhio non vede, cuore non sussulta' (DDS). Infine, dal significato più
referenziale, deriviamo šcanteḍḍare/schiantaḍḍare 'divellere, spavimentare, crepare (un vaso), schiodare/scollare (la
suola), bestemmiare (tirar via, schiodare, scollare l'immagine di un santo)', con possibile attrazione di schiancare
'spavimentare (rimuovere le chianche)' e schiattare 'rompere, crepare'. Dai significati metaforici si hanno, invece,
espressioni suggestive che fanno ricorso a forme come šcantaḍḍusu/schiantaḍḍusu 'vivido, sgargiante', in variazione
libera con šcattusu/schiattusu (v. n. 10), anche queste trascurate dalle principali fonti. Con questi riferimenti, la
soluzione sembra quindi maggiormente legata a un più immediato passaggio analogico: dallo schianto della pianta o
della lastra di pietra che cede allo svellimento, a un improvviso stupore, una sensazione o un gesto éclatant.

12. Trattando di šcantu, a qualcuno correrà immediato il pensiero alla celebre ricotta šcante/šcanta, la quale però non si
chiama così per la sorpresa (o l'orrore) che il suo gusto forte può produrre nei commensali. Notoriamente, infatti,
l'origine della voce, quand'anche oscurata dal metaplasmo (šcanta, per ricostruzione di un femminile in -a), si tramanda
in modo trasparente insieme al produttivo verbo ušcare/uschiare 'irritare, bruciare' di cui rappresenta il part. pres.
aferetico. La trafila evolutiva del verbo è tuttavia interessante, ricollegandosi a quella dell'it. ustione/ustionare.
All'origine ci sarebbe infatti il lat. ŪRĔRE 'bruciare' (REW 9097, SDL 201) che, attraverso il suo part. pass. ŪSTU(M)
e un suffisso frequentativo, ha prodotto ŪST(Ŭ)LARE. In virtù di una diffusissima disposizione alla sincope di Ŭ
intertonico e al trattamento regolare di TL > kj (come PL e CL) questo produce un uschiare che, per gli stessi motivi
visti in 9, dopo s-, sottostà a un'anticipazione del tratto palatale su questa, conducendo a ušcare.

DDS – Dizionario Dialettale del Salento di G.B. MANCARELLA, P. PARLANGELI, P. SALAMAC, Lecce: Grifo, 2011.
DEDI – Dizionario etimologico dei dialetti italiani di M. CORTELAZZO, C.MARCATO, Torino: UTET, 1998.
Manno (1955-1956) – Rubriche “Etimologie del dialetto leccese” (1) e “Etimologie del dialetto salentino” (2-24), di F.
MANNO, in La Voce del Sud (16 luglio 1955 - 1o settembre 1956).
REW – Romanisches Etymologisches Wörterbuch di W. MEYER-LÜBKE, Heidelberg: Winter, 19353.
SDL – Contributi vari di P. SALAMAC, In Salento. Monografia di G.B. MANCARELLA, Lecce: Del Grifo, 1998, 195-201,
202-208, 234-243, 243-250, 251-256.
VDS – Vocabolario dei dialetti salentini (Terra d’Otranto) di G. ROHLFS, München: Verlag der Bayerischen Akademie
der Wissenschafen, 1956-1961 (ed. it. 3 voll., Galatina: Congedo, 1976).
Romano A. (2018). “Vocabolario italo-salentino III ((šcattu –) friculare – (scotulare –) tuzzàre – uttis¢iàna – nustierzu – nuceḍḍa –
gnanna)”. In Presenza Taurisanese, a. XXXVI, n. 304 – sett. 2018, Taurisano, 10-11.

Vocabolario italo-salentino III (šcattu – friculare – scotulare – tuzzàre – ottis¢iàna – nustierzu – nuceḍḍa – gnanna)

Antonio Romano

13. A proposito di šcattu, šcattusu, šcattalora, šcattaḍḍare, šcattaris¢iare (voci introdotte per esemplificare i derivati di
šcattare al n. 10), aggiungiamo che i primi due significano in sal. rispettivamente dispetto e dispettoso. Il secondo però
può essere messo in relazione in certe varianti (forse solo idiolettali) con šcantaḍḍusu (da šcantu, v. n. 11) per indicare
le qualità sgargianti di un colore, ai limiti dell’eccesso (nel caso della colorazione degli abiti, dell’esibizionismo e della
volgarità). La šcattalora sappiamo cos’è (dal fiore del papavero al gioco di carta; cfr. DDS s.v), mentre šcattaḍḍare
corrisponde vagamente a ‘rivelare (spiattellare)’ e šcattaris¢iare a ‘saltare in padella, sfriggere’ (chi non conosce i
cummitori/pimmitori šcattaris¢iati?) e, sempre metaforicamente, a ‘scoppiettare, sfrigolare’ e simili. Sembra incredibile
che queste voci, attraverso sedimentazioni e riprese storiche, si ricolleghino tutte per mezzo di un originario *asclatare
(che ha dato il francese éclater), verbo dell’ašca, la scheggia di legno che risalta lontano.

14. I vocabolari di solito conservano nel loro allestimento lessicografico anche le voci obsolete, non più in uso, per
garantire all’utente il reperimento di queste qualora s’imbatta in loro attestazioni in testi scritti del passato o
nell’eventualità di un riciclo da parte di parlanti che le rivitalizzino intenzionalmente per scopi vari. Personalmente non
ho mai sentito né letto, a memoria cosciente, usi del verbo briciare che il GRADIT ad es,. dà come voce in uso in
italiano nel XIII sec. Il suo significato, di ‘rompere, spezzare’, riconducibile a un lat. *brisĭāre (da una voce di origine
gallica che ha dato il francese briser ‘rompere’) si ritrova però intatto e vivace nell’it. briciola e nell’ulteriore derivato
(parasintetico) sbriciolare. A questo corrisponde immediatamente sal. spriculare che, oltre a questo significato, può
assumerne altri operazionali: da ‘frammentare, sminuzzare, sgretolare’ (cfr. VDS) ai più metaforici ‘polverizzare’ e
‘sconfiggere’. All’origine di questo pare però non ci sia un equivalente di briciola: sembrerebbe invece che un prefisso
s-, di pari valore, si sia applicato in questo caso a un precedente friculare (con regolare trattamento di sfr- > spr- che
ritroviamo ad es. in sprìs¢ere/spris¢ire ‘soffriggere’). La voce friculare infatti esiste ed è vitale in sal., con il significato
primario di ‘strofinare’. Questa conserva l’aspetto di un derivato colto da lat. FRĬCĀRE con suffisso frequentativo -
ŬLĀRE, entrambi in ottimo stato di conservazione, sebbene il primo rappresenti già un derivato di FRIĀRE (così come lat.
tardo TRĪTĀRE rappresenta un intensificazione di TERĔRE). Diciamo che friculare è una forma colta perché altrimenti -
CŬL- avrebbe prodotto -(k)kj- (in associazione a sincope di Ŭ). Quanto a -ŬLĀRE, precisiamo che è quello che dà it. -
olàre (disconosciuto da molti morfologi che preferiscono pensare a +-°ol(o)+-àre) in voci come dondolare, spazzolare
e penzolare (vedremo poi anche screpolare, e stritolare) o, meglio, gocciolare, rotolare e sventolare. Ovviamente si
hanno in italiano molti derivati con +-°ol(o)+-àre (annuvolare o formicolare, rispettivamente da originari nube e
formica) e molti altri con +-àre, partendo da voci con un più antico suffisso -°ol(o) meno facilmente analizzabile
(capitolare < capitolo, snocciolare < nòcciolo... v. 20). Tuttavia, già nel caso di spazzolare e dondolare (DE-+ŬND(A)+-
ŬL(A)+-ĀRE) qualcuno potrebbe obiettare in merito a una derivazione dai nomi spazzola e dondolo (e penzolare da
penzolo?) – soprattutto se pensiamo che spazzola deriva già da un altro verbo (spazzare) e che dondolo ha più l’aspetto
di una retroformazione. È però dal caso di gocciolare che si percepisce maggiormente la ripetitività di un’azione che
non presuppone necessariamente una gocciola, ma più semplicemente un insieme di gocce coinvolte in un’attività
irregolare e sequenziale. Lo stesso vale per rotolare, che non prevede una ?rotola o un rotolo, ma una r(u)ota o
qualcosa di assimilabile coinvolto in una rotazione ripetuta e irregolare (r(u)otare esiste e indica un movimento più
controllato). Una prima più chiara conferma ci può venire da sventolare, che deriva sì da vento, ma non certo da
sventola, e indica un’azione ripetuta di esporre qualcosa al vento. Allo stesso modo screpolare serve a indicare un
particolare creparsi, da crepa, che avviene più finemente e fittamente, come stritolare che può essere associato a tritare
(v. sopra): la morfologia di annuvolare, snocciolare e screpolare non può quindi essere omologata (e quelle di questi
ultimi due non solo per il diverso valore dei due s- omonimi). In definitiva, esiste in it. un suffisso -olàre che altera i
verbi nello stesso modo di -icchiàre, -ucchiàre etc. (con l’eventuale concorso di un prefisso s-) dando ad es.
canticchiare e sbaciucchiare. La sua esistenza in una certa fase evolutiva del latino è testimoniata dal sal. friculare. E
questa non può essere messa in dubbio dall’esistenza in it. della fregola, che pure deriva dal verbo FRĬCĀRE, ma qui non
c’è; come in italiano non c’è un omologo di friculare. Le forme del latino FRĬĀRE/FRĬCĀRE hanno dato in it. fregare (e
sfregare con s- freq.) e in fr. frayer, entrambi legati a uno strofinamento e a una frizione. In conseguenza della fregola,
nei pesci si producono uova, così come al fregare corrispondono azioni diverse e correlabili negli umani. Infine, se a it.
sfrigolare, che corrisponde allo scoppiettare dei grassi soffritti (šcattaris¢iare, v. 13), si ricollega friggere (< lat.
FRĪGĔRE), è proprio grazie all’azione simultanea di s- e -olàre (a qualcuno vengono in mente le *frigole?). Se però
diciamo che qualcosa è friabile è perché si sgretola e produce briciole. Allo stesso modo il sal. spriculare produce
briciole, muddhiche, o frammenti, stozzi, ma mai *prìcule né *frìcule e, invece, spesso proprio fricciu ‘brecciame’ (che
qualcuno spiegherebbe invece con lo stesso etimo di breccia).

15. A proposito del suffisso it. -olàre e del suo valore frequentativo o iterativo, simile a quello di sal. -ulàre (rimasto
molto simile all’originario latino) ricordo che nell’italiano del Quattrocento esisteva il verbo scotolare, sopravvissuto in
qualche impiego più specialistico. Questo è oggi ricondotto a un lat. *excŭtŭlāre che si considera forma iterativa di
EXCUTĔRE ‘scuotere’ [GRADIT]. Il salentino scotulare è ancora là, nel popolare significato di ‘scuotere, scrollare’, a
testimoniare la voce nel suo uso quotidiano e gli effetti evidenti di questo suffisso (e forse del suo analogo italiano).
Romano A. (2018). “Vocabolario italo-salentino III ((šcattu –) friculare – (scotulare –) tuzzàre – uttis¢iàna – nustierzu – nuceḍḍa –
gnanna)”. In Presenza Taurisanese, a. XXXVI, n. 304 – sett. 2018, Taurisano, 10-11.

16. Più problematico è invece il comune tuzzàre ‘bussare, urtare’ che resta di etimologia incerta. MANNO (1955-56)
propone una forma semanticamente affine ma difficilmente compatibile sul piano fonetico: “tuditare intens. di tudo
‘batto’” (forse perché pensa a ottuso); altri autori preferiscono pensare a lat. parl. *t(r)usāre ‘urtare’ (cfr. sp. tozar
‘cozzare’) [LEXROM 73; DEDI tuzzà] oppure collegato a cozzare/cocciare ‘urtare (con la testa)’ (da coccia < lat.
CŎCHLĔA(M) ‘chiocciola’, dal gr. kochlías ‘guscio (di crostaceo)’), con sostituzione della consonante iniziale (come
accade, piuttosto eccezionalmente, anche in altri esempi salentini: cummitoru per pummitoru ‘pomodoro’ o ttumbare
‘piegarsi, accovacciarsi’ per ccumbare < INCUBARE [SDL 249]).

17. A proposito di voci latine che restano nell’uso quotidiano in Salento, una parola salentina che pone pochi dubbi agli
specialisti è ottis¢iàna/uttis¢iàna ‘giorno feriale’ che risale indubitabilmente a lat. (DIES) QUŎTĪDĬĂNA o CŎTTĪDĬANA
‘giorno qualunque’, der. da QUŎTĪDĬE ‘ogni giorno’ (sin da MANNO 1955-56, con conferme in VDS e SDL).

18. Un altro esempio interessante è quello di nustierzu ‘l’altro ieri’, per il quale le fonti attuali dànno lat. NUDIUS
TERTIUS (dall’espr. NUNC DIES TERTIUS ‘è ora il terzo giorno’) [REW 5987; SDL 199; cfr. DEDI nustièrzu]. In questo
caso MANNO (1955-1956), sulla scorta delle sue fonti, scende più in profondità, spiegando anche NUDIUS in riferimento
a una contrazione di NUNC con una forma regolarizzata (più antica?) di DIES.

19. Al no. 7 dicevamo che molti italiani chiamano noccioline tanto le ‘nocciole’ quanto le ‘arachidi’. A questo proposito
sarà interessante notare la naturale associazione per aspetto e forma di consumo, delle nocciole (anticamente anche
avellane, le ‘noci di Avella (AV)’, da cui dipendono le forme dello spazio ibero-romanzo) con le noci, dal cui nome
deriva, appunto, la designazione italo-romanza di nocciola (lat. NUX/NUCE(M) 'noce' + -ŎLA > nuceŏla, considerate le
minori dimensioni). Similmente, nello spazio gallo-romanzo, si mantiene riconoscibile il legame con noix ma con la
selezione di un altro suffisso diminutivo, + -ette > noisette. In Salento (come peraltro in altre accezioni italiane) il
suffisso che si è affermato è invece derivato da -ĔLLA: nucĕlla > nuceḍḍa, mentre in altre parti d’Italia per nocciòla si
ha ancora nòcchia, derivata con il suffisso atono -ŬLA e il regolare trattamento di -CL- in seguito a sincope. Non
sfuggirà che a questo si ricollegano anche le nòcchie, le nodosità di un ramo o della mano umana (come noci sporgenti
sottopelle), gli gnocchi (per metatesi di j; *nocchji > *njocchi) e, forse per influsso di questi, persino i canederli alto-
atesini (Knödeln, il cui nome si deve senz’altro a ted.m. Knode ‘nodo’).
Quello che vale per nocciòla vale in italiano anche per il nome dell’arbusto, il nocciòlo (NUCE +
-ŎLU > nuceŏlu), inspiegabilmente da molti parlanti italiani confuso, nella pronuncia, con la parola che individua il
seme o il nucleo di una drupa: il nòcciolo (< NŬCLEU + -ŬLU, con insolita apertura della Ŭ tonica). Questa apertura è
presente anche in sal., che ha nòzzulu, con uno sviluppo affricato dentale di -CL- e la conservazione delle Ŭ atone.
L’evoluzione -cl- > -zz-, per quanto non sistematico, è presente (come anticipato al n. 16) in CŎCHLĔA(M) > cozza e si
conguaglia con alcuni esiti di C+YOD di tipo FACĔO > sal. fazzu.

20. Anche in greco, la nocciola era stata messa in relazione con la noce (kàryon) ed era stata designata, in base alla sua
provenienza come ‘noce del Ponto’: kàryon póntikon. L’attributo si era generalizzato (come quando noi chiamiamo
abbaglianti i ‘fari abbaglianti’) e la nocciola, nell’uso turco, era diventata fındık, tornando in greco mod. come
phountoúki. Nel frattempo (o in altri posti), un’altra pianta era stata eletta a prototipo di frutti con seme in guscio, la
ghianda. Il frutto della quercia è designato in Salento con varianti di tipo gnanna/gnanda o gnànnara/gnàgnera (queste
ultime, non registrate nel VDS ma sporadicamente segnalate nel DDS, derivano da GLANDŬLA oppure conservano forse
una forma ricostruita da un pl. n. in -ORA > f. -ORÆ, cfr. ROHLFS II-372). È invece il gr. bàlanos che dà la voce grika
velàni ‘ghianda’, derivata però da un dim. con diàstole: balànion. Sempre in Grecia, in varie occasioni myrobàlanos è
servito per indicare una noce aromatica (la nostra noce moscata, frutto dell’orientale Myristica fragrans) o qualsiasi
drupa profumata, come appunto le (prugne) mirabelle che potrebbero trarre il loro nome proprio da questa forma greca
(così come il toponimo francese e i vari antroponimi collegati, senza necessità di ricorrere a ‘bello’ o ‘ammirevole’; cfr.
WALTER). Per inciso anche it. mirabolante ‘miracoloso’ potrebbe derivare dal nome di questi frutti profumati, in
seguito a estensione del suo significato per attrazione paronomastica di miracolo e simili.
DDS – Dizionario Dialettale del Salento di G.B. MANCARELLA, P. PARLANGELI, P. SALAMAC, Lecce: Grifo, 2011.
DEDI – Dizionario etimologico dei dialetti italiani di M. CORTELAZZO, C.MARCATO, Torino: UTET, 1998.
GRADIT – Grande dizionario italiano dell’uso di T. DE MAURO (e coll.), Torino: UTET, 8 voll., 2002.
LEXROM – “Lessico romanzo nei dialetti greci del Salento” di G.B. MANCARELLA, in Studi Linguistici Salentini, 24, 2000, 53-76.
REW – Romanisches Etymologisches Wörterbuch di W. MEYER-LÜBKE, Heidelberg: Winter, 19353.
SDL – Contributi vari di P. SALAMAC, In Salento. Monografia di G.B. MANCARELLA, Lecce: Del Grifo, 1998, 195-201, 202-208, 234-
243, 243-250, 251-256.
VDS – Vocabolario dei dialetti salentini (Terra d’Otranto) di G. ROHLFS, München: Verlag der Bayerischen Akademie der
Wissenschafen, 1956-1961 (ed. it. 3 voll., Galatina: Congedo, 1976).
MANNO (1955-1956) – F. Manno, Rubriche “Etimologie del dialetto leccese” (1) e “Etimologie del dialetto salentino” (2-24), in La
Voce del Sud (16 luglio 1955 - 1o settembre 1956).
ROHLFS I-III – G. Rohlfs, Historische Grammatik der Italienischen Sprache und ihrer Mundarten, Bern: A. Francke, 1949 (ed. it.
Grammatica storica dell'italiano e dei suoi dialetti. Vol. 1. Fonetica. Torino: Einaudi, 1966,Vol. II. Morfologia, 1967. Vol. III.
Sintassi, 1970).
WALTER – H. Walter, L’aventure des langues en occident, Paris: Laffont, 1994.
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Romano A. (2018). “Vocabolario italo-salentino IV (bbinchiare – pizzulis¢iare – picchiatello – ttummare
provided – precare)”.
by Institutional Research Information System University of Turin
In Presenza Taurisanese, a. XXXVI, n. 305 – ott. 2018, Taurisano, 9.

Vocabolario italo-salentino IV (bbinchiare - pizzulis¢iare - picchiatello – ttummare – precare)


21. A proposito di tuzzàre ‘bussare, urtare’, discusso al n. 16, qualcuno si sarà chiesto quali siano le sue relazioni con
sal. bbinchiare e it. picchiare. Sulla voce italiana, così come preferiscono fare diversi etimologi (BOLELLI, ZAMBALDI),
il GRADIT si limita a datare la prima attestazione della voce al sec. XIII, indicandone una probabile origine
onomatopeica, e rimandando alla voce picchio – a questa non banalmente ricollegabile – qualche indicazione in più. Del
nome di quest’uccello dal proverbiale comportamento si hanno attestazioni scritte almeno sin dal 1294. La voce si
riconduce a lat. *PICŬLU(M), dim. di PICUS, con le solite sincope di Ŭ e palatalizzazione di CL viste ai nn. 9 e 12 (stavolta
con esito lungo reso graficamente dalla doppia). È invece il PIANIGIANI che si sbilancia proponendo lat. *PICULARE,
iterativo di PICARE, che riconduce a basi germaniche con una certa circolazione in diverse lingue d’Europa. Ecco
dunque che possiamo ipotizzare un collegamento con ted. picken o bicken, riportandoci all’origine di becco, beccare
etc. che, col picchio, riconducono tutti a un’azione che riproduce l’idea di puntare e/o percuotere ripetutamente, con un
oggetto (o un organo) appuntito (si pensi anche solo ai derivati con p-, picchiata, di un velivolo, picchiettare, nel senso
di punteggiare etc., o con b-, beccare, beccheggiare, di un natante o di un velivolo, etc.).
Per il salentino, s’intravede una comune derivazione con bb- invece di p- e una probabile dissimilazione (-kkj- > -nkj-)
in significati analoghi. Questa potrebbe essere stata favorita, soprattutto per quelle forme forse metonimiche con
significato ‘saziare’, da un’interferenza di continuatori di lat. IMPLĒRE ‘riempire’ (che dà sal. nchire ‘riempire’), anche
se si ritiene comunemente che si tratti della resa di un popolare gesto di picchiarsi la pancia in segno di sazietà.
Tuttavia, sulla scorta di VDS [25], in BOVE-ROMANO, considerando la variante ddinchiare, diffusa in località del
Salento centro-settentrionale, abbiamo proposto un legame con lat. ad– + implēre ‘riempire’, > ‘riempire di botte’, con
cambiamento di coniugazione (e un eccezionale passaggio dd- > bb-)1.
22. Suggestivo a questo punto il legame tra l’inglese to pick e sal. pizzulis¢iare ‘spiluccare’, nonché con i nostri
comunissimi pizzu, pìzzulu, mpizzare, strapizzatu etc. che sappiamo rendere con difficoltà in italiano, che ha solo
‘punta’ e ricorre a perifrasi a questa apparentate [DEI pizzo ‘becco d’uccello’], e, nel caso di pizzulis¢iu, con il gr. mod.
πιτσουλίζω ‘muovo le mani come un rematore, schizzando’ [LEXROM 67]. Ovviamente non sono lontane da queste le
forme di altre lingue come sp. picar, fr. piquer, picoter etc., ma il sal. pizzu merita senz’altro un approfondimento a
venire.
23. Sondando questo campo ci s’imbatte anche con l’attualissimo ingl. pixel che i migliori dizionari etimologici inglesi
fanno risalire a un conio specialistico degli anni ’60 nel campo dell’informatica (che – ricordo per inciso – in inglese
può esser designata soltanto con Computer Science, l’*Informatics essendo solo il frutto delle interessanti fantasie
linguistiche di alcuni italofoni). Pixel deriva infatti da un accorciamento di picture > pic che al pl. o in forme genitivali
si lega all’accorciamento di element > el (attraverso espressioni come picture element o pic’s element, il pixel è infatti la
più piccola unità grafica delle immagini digitali). Tuttavia nessuno ricorda più il nostro picchiatello introdotto per
rendere l’hollywoodiano pixelated o pixilated sin dalla fine degli anni ’30. La sezione etimologica dell’Oxford
Dictionary, tenendo ben separate queste forme dal più recente pixel, menziona un possibile collegamento con pixie, il
nome di un folletto delle tradizioni anglo-sassoni caratterizzato da cappello e orecchie appuntiti. Si riavvicinano quindi
pericolosamente i concetti di picchiato, picchiettato e, soprattutto, appuntito, come i capelli delle originali acconciature
dei nostri giovani, omologati alla moda transitoria del pixie cut ‘capiddhi mpizzati’.
24. A proposito di ttumbare ‘piegarsi, accovacciarsi’, che avevamo richiamato al n. 16 trattando d’altro, dicevamo che
P. Salamac [SDL 249] riconduce la voce a ccumbare con cambiamento di consonante iniziale (e questo, a sua volta, da
INCUBARE) con metatesi. La voce è però di dubbia origine e può essere messa in relazione anche con fr. tomber
‘cadere’. Entrambe potrebbero infatti derivare da un originario lat. *tumbare, che ha prodotto forse anche it. tombola,
attraverso un frequentativo *tumbulare (v. –ulare ai nn. 15 e 17), da cui ad es. capitombolare. Al capitombolo
dell’italiano i salentini associano infatti altre voci di comune origine: come curcitùmmula/curcitùmbula/culitumba
‘capriola’ e scuṭṛummare/scuṭṛumbulare ‘ruzzolare, cadere rotolando’.
25. Tra le diverse voci di origine latina continuate nei dialetti salentini, troviamo anche precàre, che ingenuamente si
tende a collegare all’it. ‘pregare’ (e infatti MANNO 1955-56, glossandola ‘seppellire, inumare’, la riconduce a lat.
PRECARI “recitare preghiere all’atto del seppellimento”). Vedendo un uso generale più ampio nel senso di ‘sotterrare,
coprire di terra una pianta, un oggetto o un corpo’ (e ipotizzando che non derivi da un’estensione), alcuni autori oggi
preferiscono invece pensare a lat. *COOPRICARE ‘coprire’ per il class. COOPERĪRE ‘coprire’ con aferesi [VDS 498; DEDI
precare].
DDS – Dizionario Dialettale del Salento di G.B. MANCARELLA, P. PARLANGELI, P. SALAMAC, Lecce: Grifo, 2011.
DEDI – Dizionario etimologico dei dialetti italiani di M. CORTELAZZO, C.MARCATO, Torino: UTET, 1998.
DEI – Dizionario Etimologico Italiano di C. BATTISTI, G. ALESSIO, Firenze: Barbera, 1950-57, 5 voll.
BOLELLI –Dizionario etimologico della lingua italiana di T. BOLELLI, Milano: Editori Associati, 1989.
BOVE-ROMANO – R. Bove & A.Romano (2014). Vocabolario del dialetto di Galatone, Lecce, Grifo.
GRADIT – Grande dizionario italiano dell’uso di T. DE MAURO (e coll.), Torino: UTET, 8 voll., 2002.
LEXROM – “Lessico romanzo nei dialetti greci del Salento” di G.B. MANCARELLA, in Studi Linguistici Salentini, 24, 2000, 53-76.

1
In realtà è più plausibile il passaggio contrario. R. Bove credeva infatti che la vc. ddinchiare potesse anche essere apparentata con
it. avvinghiare < lat. tardo AD- + VINCULARE, per via di un’interpretazione che può avvenire attraverso il significato di ‘stringere’ e
quindi ‘sentirsi stretti (in vita)’.
MANNO (1955-1956) - F. Manno, Rubriche “Etimologie del dialetto leccese” (1) e “Etimologie del dialetto salentino” (2-24), in La Voce del Sud (16
luglio 1955 - 1o settembre 1956).
OXFORD DICTIONARY - versione online en.oxforddictionaries.com
PIANIGIANI – O. Pianigiani. Vocabolario etimologico della lingua italiana. Milano: Sonzogno, 1937 (v. online a cura di F. Bonomi, 2004-2008).
SDL – Contributi vari di P. SALAMAC, In Salento. Monografia di G.B. MANCARELLA, Lecce: Del Grifo, 1998, 195-201, 202-208, 234-243, 243-250,
251-256.
VDS – Vocabolario dei dialetti salentini (Terra d’Otranto) di G. ROHLFS, München: Verlag der Bayerischen Akademie der Wissenschafen, 1956-
1961 (ed. it. 3 voll., Galatina: Congedo, 1976).
ZAMBALDI - F. Zambaldi, Vocabolario etimologico italiano, Città-di-castello: Lapi, 1889.
Romano A. (2018). “Vocabolario italo-salentino V (spurchia – spocchia – [pizzu – piccinnu – picciotto] bbinchiare)”. In Presenza
Taurisanese, a. XXXVI, n. 306 – nov. 2018, Taurisano, 10.

Vocabolario italo-salentino V (spurchia – spocchia – [pizzu – piccinnu – picciotto] bbinchiare)

26. Spurchia è voce salentina che indica in origine un insieme di piante del genere Orobanche infestanti delle
piantagioni di legumi. Un’interessante estensione d’uso ne ha fatto anche un comune termine per indicare la sfortuna, la
jella o, come si sta diffondendo nella lingua nazionale da altri usi regionali, la sfiga. L’origine della voce è misteriosa.
Rohlfs (VDS) la ritrova diffusamente in testi (recenti) e ne verifica la vitalità in diverse località del Salento: “L 1, 3, 6,
8, 15, 17, ar, ces, cl, leu, pb, sp, sq, tr B 1, 8, e, or, sporchia (B 8 19, ce, T1), spórchiə (T 3, 8, mf) f. orobanche [cfr.
nap. spòrchia 'gemma germogliata', cal. spurchia 'ematuria', cal. purchiare 'germogliare' nap. sporchiare 'gemmare' <
lat *porculare 'produrre come una porca'”. Tuttavia l’etimo non è compatibile col vocalismo in -u- (possibile soltanto
per effetto di anafonesi o retroformazione: l’esito chiuso è infatti possibile in posizione pretonica e giustificabile
soltanto in caso di derivazione del nome dal verbo: EX-PŎRCULARE > *spurchiare > spurchia). Mentre riflettevo su una
possibile voce originaria con vocale tonica di tipo Ŭ/Ō che avrebbe potuto rendere conto del polimorfismo (e pensavo a
improbabili cultismi EX PULCHRA?, SEPULC(H)RA > S(E)PULC(H)RA?, perché – come altre piante infestanti – resta
sepolta, occulta e riemerge appena si diffondono le radici e i tubercoli dei legumi...) ho appreso del recente
rinvenimento, per merito di F. Giannachi, della più antica attestazione di una voce dialettale romanza in un testo greco
(un passo di una ricetta trasmessa da un manoscritto della Biblioteca Apostolica Vaticana, copiato in Terra d’Otranto
all’inizio del Trecento). La voce in questione è proprio il nostro spurchia («σπούρκιαν»), la cui origine era
accuratamente discussa dall’amico Marco Maggiore in una dottissima appendice nella quale, tuttavia, si concludeva
riproducendo soluzioni etimologiche che restavano – a detta dello stesso autore, che ringrazio per la comunicazione –
insoddisfacenti (GIANNACHI-MAGGIORE 247-252). Trovandomi a collaborare col collega Guido Borghi (dell’Università
di Genova) gli avevo chiesto un parere su un possibile ‘andirivieni’ (come quelli che sta segnalando F. Fanciullo in
diversi suoi preziosi scritti). Che la voce, cioè, potesse essere il risultato di un mutamento (improbabile qui) ma presente
nella restituzione di una voce passata al greco per tramite latino. Il diasistema greco presenta infatti due suggestive
varianti, σπoύριoς e σπόριoς, col significato di ‘bastardo’, che collimano con la varietà di esiti nel vocalismo tonico di
spurchia/sporchia. Il collega però, giustamente, mi faceva notare la maggiore economia nell’ipotizzare una
continuazione diretta dal lat. SPURCUS (forse a sua volta etruschismo) d’identico significato (che dà anche it. spurio).
Ecco allora che il nostro spurchia può derivare direttamente da questa forma latina attraverso un diminutivo del tipo
SPURCULA e il solito trattamento -C(U)L- > -kj- (visto ai nn. 9, 12 e 21). A questo punto, verificata anche la persistenza di
SPURCULUM in designazioni tecnico-specilistiche di specie di insetti e giustificati gli esiti aperti degli altri dialetti o –
più indietro – di altre varietà italiche, non ci sono neanche controindicazioni a interpretarlo come una formazione
derivante dalla radice indoeuropea √*sper- “germogliare”. Sebbene distinta, questa radice si lega a una simile
riconducibile al concetto di “disseminare”, dando origine a voci con significati originari nello stesso ambito semantico
come it. spora, spargere, spèrnere e sperone o in ingl. spur, sprout etc. Germoglia diffusamente la pur bellissima
spurchia e si diffonde riproducendosi come i suini, maledetta dal contadino salentino (Bbastarda! Cci spurchia!).

27. Quanto all’it. spocchia, anche questo solitamente dichiarato di etimo oscuro o incerto, non sarà da ricondurre a
SPORTULA (la regalia che rendeva tracotanti alcuni magistrati di qualche secolo fa), ma come mi fa acutamente
osservare lo stesso Guido Borghi (menzionato al n. 26) si tratta di un “lat. sommerso *spoccula < *spok-tlā <
indoeuropeo *spoḱ-tlahₐ ← √*speḱ- “guardare” (perché si guarda dall’alto in basso)”. A nessuno sfugge a questo punto
il legame tra la spocchia e lo specchio.

28. Trattando di bbinchiare (al n. 21) il discorso era passato ai legami con le voci italo-romanze (e di molte altre lingue)
che presentano l’evoluzione di un’antica base PIC-. Si era creata l’occasione per anticipare (al n. 22) un accenno a sal.
pizzu ‘punta, becco, estremità’, liquidato temporaneamente in riferimento al DEI [pizzo ‘becco d’uccello’], dato che
anche il VDS omette qualsiasi proposta etimologica. Sal. pizzu è voce di notevole interesse che sollecita una trattazione
ampia e ramificata che qui cercherò di contenere. Poco a che vedere, evidentemente, con il pizzo dell’it. che può valere,
effettivamente, anche ‘punta, estremità’, ma anche – meno genericamente, attraverso interessanti passaggi metaforici –,
‘barba appuntita’, ‘merletto’, ‘somma estorta’... Per fare qualche esempio d’uso di sal. pizzu basterà pensare a
espressioni corrispondenti a quelle dell’italiano in cui si ricorre a ‘punta’, ‘apice’, ‘capo’ etc. ‘È all’apice, in cima, in
punta, all’estremità’ si dice infatti sta’ allu pizzu; ‘mettilo, collocalo in punta, in cima’ equivale a mìntilu allu pizzu o ,
più sinteticamente, mpìzzalu; ‘lo prendo per le estremità’ si dirà (l)u zziccu pe’ lli pizzi, così come di un oggetto
appuntito si dirà pizzutu e di uno pieno di punte pizzi pizzi. In molti di questi casi, non si può non pensare a lat.
APĬCE(M) (che GRADIT considera di orig. incerta, forse etrusca), ma la questione è più articolata. Pizzu e pizzo
costituiscono voci per le quali – come anticipavo – le sedi più sintetiche rinunciano a ipotizzare un’origine (MANNO 17
si riferisce anche ai pizzi leccesi ‘panini di orzo’ e pensa, dubbioso, a pinctiare, collegandolo a mpezzare/mpizzare). Per
l’italiano il GRADIT si limita a riportare “ca. 1350; voce di orig. espressiva” (idem BOLELLI). Il DEI invece ricostruisce
un antico *pīts- ‘punta, pizzo’. Si può pensare infatti a una radice originaria di tipo PIT- (> pizzu per affricazione della -
t). Il fatto che questa possa essere parzialmente distinta da PIC- si può constatare per la sua parentela con lat. PUNCTAM
e per i riflessi in varie lingue di voci con esiti di -t: Spitz, (s)pit etc.). La fusione di diversi continuatori può nascere in
alcuni casi per via dello sviluppo di esiti palatalizzati (come quelli che portano alla coesistenza di continuatori diversi
con significati sovrapponibili: pizzicare vs. piccante, v. n. 32, o alla probabile confusione di forme forse
originariamente distinte: PICEA ‘di pece’ vs. PITYA ‘del pino (f.)’, v. n. 34). Ecco allora che piccino e piccinnu (così

1
Romano A. (2018). “Vocabolario italo-salentino V (spurchia – spocchia – [pizzu – piccinnu – picciotto] bbinchiare)”. In Presenza
Taurisanese, a. XXXVI, n. 306 – nov. 2018, Taurisano, 10.

come pitzinnu di altri dialetti romanzi) sembrano riconducibili alla prima (GRADIT e altri dànno la v. it. come prob. der.
del sec. XIV di una radice pik(k)-, fonosimbolica secondo BOLELLI, distinta da quella di origine addirittura
preindoeuropea che si pone per ‘picco, sommità’), mentre sal. pititu e fr. petit, pur nello stesso campo semantico,
discenderebbero dalla seconda (< *PĬT(T)ĪTTU(M); cfr. MANNO 20). Le attestazioni medievali greche dell’Italia
meridionale mostrano invece una perfetta sovrapposizione (v. CARACAUSI): ad es. nelle registrazioni antroponimiche
Píkkilos alterna con Piccholus e convive con Pitzēn(n)is (che sono gli odierni Piccolo e Piccinni/-o), mentre – con la
stessa soluzione grafica tz – Pitzoútos alterna con Picçutus (gli odierni Pizzuto e Pezzuto, quest’ultimo con un passaggio
in più). È in questi casi soprattutto la desinenza che ci induce a scegliere tra le dimensioni o la conformazione, perché
l’esito consonantico è incline a troppe oscillazioni. Lo stesso accade in vasti spazi del dominio provenzale in cui *petiot
– ‘piccolotto’ diremmo – ha dato voci che suonano pečot e che si pongono irresistibilmente alla base del sic. picciottu
che significa proprio ‘piccolo’ (in origine). D’altra parte sembra certo che il picciolo (delle foglie), con -čč-, derivi
proprio da PETIOLU(M), con -T- (ma dim. di PEDE(M), con -D-), come mostra il fr. pétiole (che nella pronuncia ha però
[sj]). Nulla a che vedere con piccione, si dirà, che discende notoriamente da PIPIONE(M) (PIPIO sarebbe voce
‘onomatopeica’, come il presunto PIPIARE ‘pigolare’, collegato a sua volta a *PIULARE, di nuovo di orig. onom., e non
ricondotto a sviluppi di PIC- e ai concetti di ‘pizzo’ e ‘becco’ o di ‘piccolo’). In realtà sono proprio i piccoli dell’uccello
che pigolano e fanno ‘piopio’ (mentre il verso più evidente del piccione è reso molto meglio dal sal. ruccu). Quanto alla
possibilità di arrivare a esiti come questi con lenizione/perdita di -c- si pensi ancora alle voci discusse con picchio, al n.
21, tra le quali avevamo trascurato di ricordare sal. pica ‘gazza’, da confrontare con fr. pie ‘ghiandaia’, appunto.

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Vocabolario italo-salentino VI (pìttula – pesto – pigiare - murtaru - pisaturu - cuntare – raccontare)

29. Lasciando da parte la ‘ripicca’, la ‘piccozza’ e il seme delle carte di ‘picche’ e dimenticando momentaneamente
picozzu ‘pugno’, ‘uomo calvo’, ‘monaco’ (gerg.), le cui intricate ma avvincenti vicende etimologiche meriterebbero
altri spazi, concentriamoci sul diffusissimo sal. picca ‘poco’ (e sulle voci simili diffuse in buona parte del meridione).
Per picca, o picchi, non si può non pensare a *pik(k)- ‘piccolo’ come fanno tanto BOVE-ROMANO quanto MANNO, che
affronta pizzu nel 17 e picca-picchi nel 20 (insieme a piccinnu-picciccu). I primi, anche in riferimento a DEDI [pìcca],
VDS 473 e 1033 e SDL 253 che spesso si perdono in una diffusa circolarità, ricordano anche lat. PĬSINNU(M) ‘piccolo,
figlioletto, bambino’ da un prelat. *PIKKUINNUS, ma in DEI 2899 era stata invece osservata la diffusione di voci simili
nei Balcani (già notata da MANNO 20), con valore simile a quello dei nostri ‘poco’ (con lo stesso consonantismo) o
‘goccia’. In quella sede era proposta una base PIC- distinta però da quella di ‘picco, picca’, sebbene il legame semantico
tra ‘punta’ e ‘presa (tra indice e pollice)’ (v. anche n. 31) sia antropologicamente molto suggestivo e non sia
incompatibile con l’immediata corrispondenza che possiamo trovare ancora oggi tra le dimensioni ridotte di una ‘punta’
e l’estremità di un ‘picco’ o tra la ‘ripicca’ e il ‘puntiglio’.

30. A queste stesse voci, molte fonti citate ricollegano anche sal. picciu ‘capriccio’ invece di riportarlo alle stesse
origini di it. capriccio, che qui infatti richiederebbero improbabili semplificazioni (cancellazione di r interna e aferesi).
Fonti come il GRADIT lo dànno invece proprio come di “etim. incerta, forse dall’ant. caporiccio”, di derivazione
medievale (da capra, o da CAPUT ‘testa’ + ERICIU(M) ‘riccio’, oppure da capora, da cui discenderebbe anche caporale).
Se proprio non vediamo un legame con i piccoli e pigolii, picciu si può comunque avvicinare a it. impiccio, risalente a
fr. empêcher e prov. ant. empachar ‘impedire’; tutti si fanno risalire a fr. ant. empedechier ‘impacciare’ < lat. tardo
IMPĔDĬCĀRE (< IN- con valore raff. + PEDICA ‘pastoia’, ma si vede bene anche il legame con PEDES, per via delle diffuse
pratiche di legare i ‘piedi’ per ‘impedire’). Alla ‘pece’ che ‘appiccica’ sarà necessario dedicare un altro paragrafo (n.
34).

31. Tornando a pungere e spingere, rispetto a tutti questi esempi, si nota la presenza di una nasale (a nessuno sarà
sfuggita la sua ricorrente alternanza nei paradigmi latini né certe regolarizzazioni sopravvenute come VICI > it. vinci
etc.). Entrambi presentano una -T- al participio, punto e spinto, ma mentre il primo discende diretto da lat. PŬNGĔRE, il
secondo ha un ascendente in lat. *EXPĬNGĔRE < EX- ‘fuori da’ + PANGĔRE ‘ficcare’ (in sal. reso da mpizzare che
significa tanto ‘conficcare’ quanto ‘collocare in punta’, v. n. 28) che si accompagnava con lat. *IMPĬNGĔRE ‘ficcare
dentro’ da cui deriva rimpinzare, con -z- (v. bbinchiare al n. 21). Ma anche per i derivati di pungere l’italiano presenta
forme con -t- > -z-: punzone, punzecchiare. I salentini invece si dividono tra quelli che ammettono le sonore postnasali
(pungimu, spingimu) e quelli che regolarizzano una sorda (puncimu, spincimu). Tutti, comunque, per ‘pungere’ e
‘prudere’ ricorrono, come accennavo, anche a pizzicare. Sebbene anche il verbo italiano corrispondente possa indicare
colloquialmente una sensazione di bruciore o prurito (dovuta alla puntura di un animale o a un’irritazione), in sal.
l’estensione d’uso attiva notoriamente tutto il comparto delle tradizioni del tarantismo. Se, infatti, la puntura dell’insetto
avviene con l’interessamento di una punta o un pungiglione, ciju/cigghiu, che si presume anche in organi urticanti di
altri organismi, quella dell’aracnide o del crostaceo è chiaramente risultante dall’azione di ‘pinze’. Ecco dunque che
ritorna il problema della nasale e di una sua presunta assimilazione (nz > zz) che compare in pinzare e pizzicare e si
ripresenterà anche al n. 33. Data l’assenza in sal. di continuatori tradizionali di pinza e pinzare, non sorprende
constatare che anche in italiano questi siano il risultato di un’introduzione relativamente recente dal francese (XIX sec.),
come prova anche la pronuncia innovativa dei salentini che infatti dicono pinẓa con la sonora dei vicini dialetti
altomeridionali. Allo stesso modo non sorprende trovare che anche in altri spazi linguistici ricorrano queste sostituzioni
a dispetto delle sfumature di senso ad esse associate. Oltre a to pick ‘prendere’ e to prick ‘pungere’, l’inglese ha to
pinch, etimologicamente ‘pinzare’, ma oggi ‘pizzicare’ (anche in esempi come a pinch of salt ‘un pizzico di sale’, non
una ‘presa’ né una ‘punta’). A questo risponde un originario fr. pincer in espressioni come une pincée de sel ‘una presa
di sale’, in alternanza con une pointe de sel ‘una punta di sale’.

32. Tuttavia, come si diceva, anche in italiano pizzicare (da una base etimologica PIT-) vale ‘pungere’. La fortuna di
questo pizzicare, forma intensiva di un presunto pizzare (v. sal. pizzu ‘punta’ al n. 28 e ‘becco’ ai nn. 21-22 [cfr. DLI
1719]), è nel lessico popolare che lo diffonde in impieghi vari. Si pensi anche a it. pizzicare ‘sorprendere’ e
pizzicagnolo ‘che vende prodotti piccanti’. Anche in questi usi i continuatori di PIT- si trovano ad alternare con voci
discendenti da PIC-, come appunto piccante, legato a piccare < lat. volg. *piccare ‘pungere, punzecchiare’ (ma anche
questo di tramite francese, XVI sec. [GRADIT]). Il salentino, individualmente ben connotato in questo campo
semantico, non sembra aver partecipato neanche a quest’innovazione e infatti il ‘piccante’ è tradizionalmente ancora
maru (lo stesso di mar’a bbui!), proprio come l’‘amaro’ di certe erbe o l’‘acre’ di certi frutti (ma non
l’àcidu/àcitu/àcetu, che si apparenta con lo spuntu del vino, anch’esso derivato da punta, v. n. 31).

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Vocabolario italo-salentino VII

33. Da alcuni anni si vede stabilita ormai comunemente l’equazione tra l’internazionalismo pizza e un suo presunto
antenato *apicia, cioè pietanza tipica del celebre M.G. Apicius (autore del De Re Coquinaria del I sec. d.C.). Le cose
non stanno però in modo così chiaro, come testimoniano i recenti contributi di F. Fanciullo (2002, in FANCIULLO),
M. Alinei (cfr., tra gli altri, Alinei & Nissan 2007) e J. Kramer (tra gli altri, Kramer 2015) che si dissociano da DEI
pizza e VDS 489, inclini ad accogliere l’ipotesi di una continuazione dall’antico PLACENTA PICEA ‘panetto di pece’. A
turbare le acque intervengono, infatti, da un lato il centrosettentrionale pinza e dall’altro il mer. pitta che indicano
focacce non del tutto dissimili. E questo senza disturbare le altre pizze salentine (pizza può designare gergalmente il
‘membro virile’ e, metaforicamente, l’oloturia, pizza de/te/ti mare). La soluzione accolta oggi più comunemente (cfr.
DELI) è quella di Princi Braccini 1979 che collega le varie forme a un’origine gotica *bĭt- per le forme con -t e
longobardo *bĭzz-/*pĭzz- per le forme con -z.; a.a.ted. ha infatti bĭzzo/pĭzzo per ‘morso, boccone, pezzo di pane,
focaccia’. Semplificando, anche il GRADIT propone “[1565; lat. mediev. pizza(m), 997, dal got. o lomb. *pizzo, ted. ant.
bizzo, pizzo ‘boccone, pezzo di pane’, der. di bizan ‘mordere’, passato nei dialetti italiani, spec. nel napol. pizza, da cui
si è diffuso in it. e in altre lingue moderne]”. Come osserva Johannes Kramer (v. ora Kramer 2015), questa soluzione
non spiega però la parentela con pitta, che potrebbe avere la stessa origine di voci germaniche legate al nutrimento – si
pensi a ingl. food/feed e ted. Futter – (con f- < p-), ma presenta una dispersione in aree poco o per niente germanizzate,
com’è infatti l’area essenzialmente mediterranea di diffusione attuale di queste voci. MANNO 16 riporta al greco
bizantino pitta ‘pizza, focaccia’ senza null’altro aggiungere e tratta pìttula senza nessuna proposta etimologica (v. n.
34). Per queste voci, una “etimologia senza etimo” può infatti condurci sicuramente a gr. mod. πίτα ‘focaccia’ e da lì al
gr. biz. [REW 6546; SDL 239], ma pitta e pizza sembrano trovare una buona corrispondenza nelle voci pítta e píssa che
in greco pare si alternassero liberamente per ‘pece’ (VDS 487 e NOCENTINI; cfr. Kramer 2015). Senza dimenticare grico
pizzo ‘panino ovale’ e leccese pizzu ‘focaccia con olive cipolle e pomodori, sciacciata cotta sotto la cenere’, FANCIULLO
(pp. 118-121) propone il rifiuto di tutte le soluzioni tradizionali (PLACENTA PICTA < PINGERE; ‘panetto di pece’ < gr.
pítta/píssa (v. sopra); gr. pēkté ‘latte cagliato’; gr. pētítēs pane di crusca < pétea ‘crusca’) e, così come fa M. Alinei nei
suoi scritti, prende parzialmente le distanze dal pur apprezzato contributo di Princi Braccini 1979: si tratterebbe sì di un
prestito germanico diretto in certe aree, ma di un germanismo mediato dal romanzo in altre, o un prestito di ritorno dal
greco in altre ancora (il nostro pitta). Come segnalano le fonti citate, voci simili, con -t-, compaiono in tutti i Balcani,
oltre che in turco e in ebraico. Si tratta di una diffusione così ampia che solo una lingua di prestigio come il latino può
aver garantito a un rusticismo di origine germanica (FANCIULLO, p. 121) che si dev’essere incontrato con un ebraismo
(o comunque semitismo), diffuso dal cristianesimo, che parte dalla radice p-t-t ‘sbriciolare, sminuzzare’, operazione
preliminare all’impasto, allo spianamento, alla cottura e alla consumazione cui si riferirebbero le potenziali forme
concorrenti. Ancora più decisi sembrano Alinei & Nissam (2007) che sostengono un’origine siriaca e aramaica (in una
regione da cui ancora oggi vengono diverse apprezzate qualità di pane). L’antica radice semitica patt-/pitt- testimonia
quindi un tipo di macinazione del grano che si sarebbe diffuso dalla “Mezzaluna fertile” già con la prima migrazione
neolitica.

34. Sal. spicciare ‘terminare’, come la voce omofona dell’italiano (seppure con significati diversi), si fa risalire
solitamente a voci introdotte dal francese in epoca angioina: dépêcher ‘sbrigare’ (It. spacciare, più vicino, al senso sal.
di spicciare, nel caso di ‘finire, terminare’, risalirebbe addirittura al prov. despachar ‘smerciare, spedire’ da cui deriva
anche dispaccio). Queste voci avrebbero come antenato comune la *PEDICA ‘impronta del piede o pastoia’ (v. n. 30). Il
termine designava, forse, anche un arnese che bloccava i piedi, per cui IMPEDICARE era ‘imprigionare i piedi’ (>
empêcher ‘impedire’ avrebbe originato l’antonimo dépêcher) e EXPEDICARE valeva ‘liberarli’, quindi metaforicamente
‘muoversi liberamente, partire’ e, nel caso sal., completare un lavoro e andarsene (liberandosene). Tuttavia mentre it.
impedire e spedire sembrano dipendere sicuramente da piede, queste voci potrebbero aver incrociato sul loro cammino
dei derivati di lat. PICE(M): spicciare ad es. può essere visto come antonimo di impicciare, che, come appicciare e
appiccicare, alluderebbe alle proprietà adesive della pece). La portata di simili ripensamenti può essere notevole e
ricondurci ad antiche pratiche che hanno avuto un ruolo determinante nelle prime fasi del progresso tecnologico
dell’umanità se pensiamo che il centroitaliano appicciare, come sal. mpizzacare, ricorre anche nell’accensione del
fuoco. Per l’Italia centrale GRADIT propone appicciare/appiccare ‘appendere, attaccare insieme’ [av. 1306; etim.
incerta] e appiccicare [1304; der. di appicciare con -icare] ‘attaccare con sostanze adesive’. In questo senso è molto
suggestiva la lettura di Benozzo (2010) che fa risalire al Mesolitico remoto la scoperta delle qualità del catrame e della
pece per tener unite le parti di legno d’imbarcazioni (usate per la pesca). Ancora una volta il riferimento di partenza è
M. Alinei, che in suoi articoli del 2003 e 2008, individua le radici di voci originarie di lingue germaniche come ingl.
tree e tar (o sv. tjor ‘materiale resinoso’) e voci semanticamente apparentate come trust e true ‘vero, affidabile’ (e la
stessa glossa ‘reliable’, vale ‘che si può legare, far combaciare’: il vero combacia!). Benozzo (2010, p. 27) rievoca
l’invenzione della pece, collegandola allo sfruttamento del fuoco e alla distillazione delle cortecce in piccoli forni
(fornaci) preneolitici (simili alle carbonaie, e diffusi ben prima dell’invenzione della ceramica). D’altra parte fonti
autorevoli come IEW 794 e REW 6479 accreditano l’origine di lat. PICE(M) in concomitanza con lo sviluppo di quella di
lat. PINU(M) e gr. pítys ‘pino’, dal momento che la prima si scopre come prodotto della macerazione o della combustione
del legno di aghifoglie (Benozzo 2010, p. 29), mentre pícea diviene anche in it. uno dei nomi dell’abete rosso e di
specie simili (il legame con il pythĭum, it. pizio, un fungo che parassita il fusto degli alberi causando la marciume del
colletto potrebbe passare attraverso il gr. púthō ‘marcisco’ a sua volta apparentabile con lat. putēre ‘puzzare’). Da
notare infine che a *piceare REW 6479, oltre ad appiccicare, collega numerose altre voci: da port. pegar ‘accendere un
fuoco, infiammare’ (ma in port. e sp. vale molti altri sensi: ‘incollare’, ‘affibbiare’, ‘colpire’ e ‘picchiare’) a it. pigliare
e impegolare. Il tosc. impegolare ‘spalmare di pece, impiastrare’ risale forse a un intermediario pegola (da un presunto
lat. tardo PICULA(M), dim. di PIX, PICIS ‘pece’) o a un composto AD+PICE(M)+COLARE, proposto da Benozzo (2010) per
queste basi. Se questo può spiegare anche le forme apparentate col più comune pigliare (attraverso aferesi e aplologia >
*piculare), più elaborati restano appiccicare e il nostro mpizzecare. Di sicuro a questo risalgono sal.
mpijare/mpigghiare ‘innescare, accendersi’ e l’uso di pigliare/prendere in espr. simili dell’it. pigliare/prendere fuoco.
Chi avrebbe mai pensato che la pece, una sostanza ormai quasi del tutto assente dal nostro orizzonte tecnologico, avesse
tante responsabilità nei confronti delle lingue che parliamo oggi?

35. Parliamo (di nuovo) di pìttula, pesto e pinsa. Di sal. pìttula potremmo dire varie cose note ai più e disponibili nella
maggior parte delle opere lessicografiche, dove la parola viene presentata come derivato di pitta per suffissazione (+ -
°ul-a; con trattamenti secondari nelle forme di tipo pèttula diffuse nei dialetti più settentrionali; cfr. MANNO 16).
Sebbene il consumo tradizionale di questo cibo si sia esteso ben oltre il suo originario confine spazio-temporale, sono
poche le sedi editoriali in cui si ricordi anche l’espansione linguistica del termine in espressioni metaforiche come
m’ha’ fattu a ppìttula ‘mi ha incartato, impapocchiato etc.’ oppure nu’ ssu’ ppìttule ‘non sono cose di poco conto’.
Quanto alla possibilità di retrodatare l’indagine sull’originaria radice, trattando di pizza e pitta era emersa la suggestiva
proposta di ricondurre a p-t-t ‘macinare, impastare’. Sarà da notare, in aggiunta, che nel vocabolario francese della
panificazione c’è pétrir per ‘impastare’ e pétrin per ‘recipiente (superficie) in cui s’impasta’ (che, negli usi metaforici,
oggi corrisponde a it. pasticcio!). Se il secondo è da PISTRINUM, che ha avuto meno fortuna in Italia, i numerosi
continuatori di un antico pestrir (< lat. vulg. *pistorire/pisturire) affiorano ancora oggi nel Nord (piem. pistrogner
‘impastare’) e, in particolare, nel Nord-Est (ven. pistor ‘panettiere’), nonché in Toscana, dato che anche in italiano si è
avuto pistura ‘impasto’ e voci simili sin dal XII s. (molte di queste voci sono disponibile nelle carte dell’AIS e
dell’ALI). Il GRADIT testimonia (av. 1589) pistrinàio ‘mugnaio, fornaio’ (< lat. tardo pistrinarĭu(m)). Queste voci sono
collegate a un originario PISTARE che deriva da PINSERE ‘pigiare’ (pigiare è a sua volta da *pinsiare ‘pestare’) che
dànno il nome tanto al pésto (genovese, v. 36) quanto alla pinsa/pinza (v. n. 33), la focaccia tipica che sta ritrovando
diritto di cittadinanza nelle diffuse pinserie del centro-nord. Queste si propongono oggi in molte città italiane per la
consumazione di pasti veloci in alternativa alle più note pizzerie diffusesi mondialmente nel corso del Novecento.

36. Sempre nel tema del ‘pestare’, ricordo le voci sall. murtaru e pisaturu. Al di là di usi metaforici osceni, si ricordano
anche questi come oggetti dell’arte culinaria domestica legata ad attività di pestamento. Il primo come continuatore di
lat. MORTARIU(M), come l’equivalente it. mortaio, e il secondo, forse rifatto su pisu ‘peso’, ma in origine legato a un
presunto pistaturu ‘pestello (o pestatoio)’ < PISTATORIU(M). Così come l’arte del ‘pensare’ e del ‘pesare’ (soppesare)
sono state profondamente vicine sul piano linguistico, anche quelle del ‘pestare’ e del ‘pigiare’ (*pinsiare) dovevano
indurre alla riflessione. D’altra parte il ‘rimuginare’ era un RE-MUGINARI: se non un ‘ruminare’, senz’altro un
‘rimacinare’.

Da questo numero, le voci sono corredate solo da una bibliografia ristretta ai nuovi titoli introdotti. Per le
abbreviazioni non sciolte volta per volta nei riferimenti s’invita a consultare quelle preesenti nelle note dei
numeri precedenti.
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Universität Zürich-Ringier, Zofingen 1928-1940 [trad. it. vol. I: AIS. Atlante linguistico ed etnografico
dell’Italia e della Svizzera meridionale, a cura di G. Sanga, Milano, Unicopli, 1987].
ALI – Atlante Linguistico Italiano – M. Bartoli, B. Terracini, G. Vidossi, C. Grassi, A. Genre & L.
Massobrio, Atlante Linguistico Italiano, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato (8 volumi
pubblicati dal 1995 + materiali inediti c/o Istituto dell’ALI, Università di Torino).
DUDEN – Duden-Online-Wörterbuch – www.duden.de
DWDS – Digitales Wörterbuch der deutschen Sprache – www.dwds.de
GRADIT – Grande dizionario italiano dell’uso di T. DE MAURO (e coll.), Torino: UTET, 8 voll., 2002.
IEW - J. Pokorny, Indogermanisches etymologisches Wörterbuch, Bern-München, A. Francke, 1959.
LIV - H. Rix (con la coll. di M. Kümmel, Th. Zehnder, R. Lipp, B. Schirmer), Lexikon der indogermanischen
Verben, Wiesbaden, Reichert, 2001 (2a ed. a cura di M. Kümmel & H. Rix).
MANNO (1955-1956) - F. Manno, Rubriche “Etimologie del dialetto leccese” (1) e “Etimologie del dialetto
salentino” (2-24), in La Voce del Sud (16 luglio 1955 - 1o settembre 1956).
ROMANO – Prefazione a Romano A., Rivoira M. & Meandri I. (a cura di), Aspetti prosodici e testuali del
raccontare: dalla letteratura orale al parlato dei media, Alessandria: Dell’Orso, 2015, pp. III-IX.
Romano A. (2019). “Vocabolario italo-salentino VIII (cuntare – pittaci – pizzarda)”. In Presenza Taurisanese, a.
XXXVII, n. 309 – mar. 2019, Taurisano, 8.

Vocabolario italo-salentino VIII

37. Se a nessuno sfugge la parentela lessicale tra sal. cuntare ‘parlare’ e it. contare, a molti può non risultare immediata
la relazione semantica che si stabilisce tra essi e che è assicurata efficacemente da it. raccontare. I legami possono
essere più chiari se si pensa al motivo del raccontare come ‘ridire’ e all’originario RE+AD+COMPUTARE, un ‘contare’
narrativo e apotropaico (tanto etimologicamente quanto metaforicamente: ‘intrattenersi’ per ‘ingannare la morte’) e
stadi più recenti in cui parlare era PARABOLARE ‘raccontare parabole’ (altrove ‘raccontare favole’, all’origine di port.
falar, sp. hablar e sardo faeddare; cfr. it. affabulare, favellare). Come scrivevo in un’occasione recente “I gesti
linguistici e le espressioni umane usate per comunicare sono collegate con momenti evolutivi precedenti l’emersione
delle lingue articolate e, come nei canti apotropaici, rispondono all’idea dell’imposizione della volontà umana ai cicli
della natura e alla creazione di matrici mitiche a supporto dell’identità del gruppo” (Romano 2015, p.VII). Il
collegamento è reso evidente dalla diffusione in altre lingue: infatti anche negli inglesi talk e tell (entrambi collegati a
tale) e nei consimili tedeschi zählen e erzählen emerge il motivo comune del ‘(rac)contare’. E il fatto che questi siano, a
loro volta, collegati a voci corrispondenti all’it. (an)noverare, dal lat. (AD)NUMERARE, ci porta a riflettere anche su
nòvero, inteso come ‘conteggio’, e alle famiglie semantiche di elencare e calcolare (it. annoverare corrisponde a ted.
rechnen, nl. rekenen e a. ingl. (ge)recenian che conduce all’attuale ingl. reckon). In italiano troviamo ancora discorrere,
legato a ‘correre’, orare (oratore e orazione) legato a ‘pregare’, predicare, da PRÆDICARE ‘(pre-)annunciare’ e,
ovviamente, dire, da DICERE ‘indicare, mostrare’ (dal Proto-IE *deik-e/-o ‘dire’, presente in numerose voci, da medico a
giudice, passando per vendicare e, per tramite greco, in didattico; chiudono quest’elenco: dittatore, edizione e dedica).
Quanto a narrare, collegato a voci che significano ‘avere esperienza, sapere’, si pensi ai continuatori sardi di tipo narai
affermatisi proprio per ‘dire’.

38. Descrivendo le bellezze architettoniche e urbanistiche di alcune città d’interesse turistico del Salento centro-
settentrionale (a Lecce, Nardò... fino a Taranto) diversi autori menzionano spesso un presunto it. pittagio (talvolta
addirittura pittaggio), inteso come ‘rione, isolato, quartiere’. Si tratta di un’italianizzazione di sal. pettaci o pittaci (es.
VDS, GARRISI). Se la voce ha attestazioni romanze legate a lat. PITTACIUM (cfr. Du Cange VI 338 e DEDI 331), la sua
diffusione sembra riconducibile a un’estensione di gr. pittákion ‘brandello di cuoio, pezza’. Il VDS, oltre a rintracciarne
un’attestazione salentina nel 1588 nei documenti notarili in possesso di Nicola Vacca, suggerisce un’estensione di
significato di tipo ‘cedola’ già in greco. L’ampliamento metaforico a indicare un rione sembra essersi verificato
attraverso usi amministrativi, ma la voce si è affermata per indicare la parte più antica dei centri storici (a questo avrà
contribuito anche “Lu pettaci”, un’importante raccolta di poesie dialettali leccesi di fine Ottocento).

39. Pizzarda è un regionalismo centro-italiano per indicare una beccaccia (becco + -àccia) dal caratteristico becco,
appunto (sempre il pizzo del n. 28; cfr. DEDI pizzàrda), o un croccolone (Gallinago media). La somiglianza delle punte
di un tipico cappello settecentesco indossato dai gendarmi hanno indotto a estendere l’uso della voce a indicare lo stesso
copricapo. Pizzardone è diventato dunque, ludicamente e gergalmente, il nome del tipico personaggio che indossava
questo cappello, un gendarme, e, successivamente, cambiando i tempi e gli ordinamenti, il vigile urbano romano. Non
so con quale ampiezza di circolazione, alcuni salentini ne estendono bonariamente l’uso a un individuo che non si vuole
designare con precisione, ma che s’incontra accidentalmente qua e là o s’intromette dappertutto (se mpizza). Altri
dialetti conoscono pizzardinu/a ‘moccioso/a vivace e impertinente’.

Da questo numero, le voci sono corredate solo da una bibliografia ristretta ai nuovi titoli introdotti. Per le
abbreviazioni non sciolte volta per volta nei riferimenti s’invita a consultare quelle preesenti nelle note dei
numeri precedenti.
AIS – Atlante Italo-Svizzero – K. Jaberg, J. Jud, Sprach- und Sachatlas Italiens und der Südschweiz,
Universität Zürich-Ringier, Zofingen 1928-1940 [trad. it. vol. I: AIS. Atlante linguistico ed etnografico
dell’Italia e della Svizzera meridionale, a cura di G. Sanga, Milano, Unicopli, 1987].
ALI – Atlante Linguistico Italiano – M. Bartoli, B. Terracini, G. Vidossi, C. Grassi, A. Genre & L.
Massobrio, Atlante Linguistico Italiano, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato (8 volumi
pubblicati dal 1995 + materiali inediti c/o Istituto dell’ALI, Università di Torino).
DUDEN – Duden-Online-Wörterbuch – www.duden.de
DWDS – Digitales Wörterbuch der deutschen Sprache – www.dwds.de
GRADIT – Grande dizionario italiano dell’uso di T. DE MAURO (e coll.), Torino: UTET, 8 voll., 2002.
IEW - J. Pokorny, Indogermanisches etymologisches Wörterbuch, Bern-München, A. Francke, 1959.
LIV - H. Rix (con la coll. di M. Kümmel, Th. Zehnder, R. Lipp, B. Schirmer), Lexikon der indogermanischen
Verben, Wiesbaden, Reichert, 2001 (2a ed. a cura di M. Kümmel & H. Rix).
MANNO (1955-1956) - F. Manno, Rubriche “Etimologie del dialetto leccese” (1) e “Etimologie del dialetto
salentino” (2-24), in La Voce del Sud (16 luglio 1955 - 1o settembre 1956).
ROMANO – Prefazione a Romano A., Rivoira M. & Meandri I. (a cura di), Aspetti prosodici e testuali del
raccontare: dalla letteratura orale al parlato dei media, Alessandria: Dell’Orso, 2015, pp. III-IX.
Romano A. (2019). “Vocabolario italo-salentino IX ((s)carpìa – carosello – scrofa – rrufare)”. In Presenza Taurisanese, a.
XXXVII, n. 310 – apr. 2019, Taurisano, 8.

Vocabolario italo-salentino IX

40. Sal. (s)carpìa/e ‘lanugine che si accumula sul pavimento, bioccolo di lana e polvere che si raccoglie sotto ai mobili’
trova riscontro in voci simili che sono attestate dal Veneto alla Toscana, col significato di ‘peluria in fondo alle tasche,
muschio, borraccina’ (DEDI scarpìa) oppure persino per ‘ragnatele’ secondo il DEI, che la riconduce senza dubbi a lat.
CARPIA ‘lana sudicia’. La voce si lega ad altre forme salentine significativamente diverse, come puma (‘pulviscolo’ o
‘lanuggine, peluria’), rimandato a pruma (‘piuma’ o ‘lolla, loppa’, che si insinua nel naso) e da questo a lat. PLUMA
(GARRISI), o con interessanti variazioni fonetiche, come per il galatonese caruppìa (BOVE-ROMANO) che forse
rappresenta una ricostruzione con l’innesto di caruppare (v. n. 41) o per il leccese scarfìa (pl. scarfèi) ‘pula,
pulviscolo’, con lo stesso prefisso s- di scarpa. L’origine greca, intravista da GARRISI per queste voci e dal VDS per
altre simili, rimanda a una parola dal significato di ‘pagliuzza’: κάρφος (< κάρφω ‘seccare’), ma le alternanze p/f(/b)
dopo s-/r- sono sorrette in questa regione da processi bidirezionali (come testimoniano sprittu per ‘sfritto’,
fòrfici/fuèrfeci per ‘forbici’ oppure griko sfekla per sal. specchia) e un legame con gr. ant. κάρπος ‘frutto’ (che si coglie)
e καρπόω ‘portare frutti, raccogliere’, sebbene sematicamente distanti, non si può escludere. È molto probabile infatti
che queste voci siano dipendenti dal cognato lat. CARPERE ‘cogliere, trattare la lana’ che dà anche it. carpìta (‘panno a
pelo lungo per coperte’, ma anche ‘mannello di grano’) e voci tratte dal senso più ampio di ‘cogliere’, come it. carpo (e
metacarpo), o persino scarso, attraverso EXCARPSUS (da EXCERPTUS, p. pass. di EXCERPERE ‘portare via’, GRADIT),
congiungendosi a voci della famiglia di scarpa (v. n. 43). Alcune di queste sarebbero collegate con fr. charpir (della
famiglia semantica di déchirer, effilocher) ‘sfilacciare’ (da cui écharpe ‘striscia di stoffa’ > it. sciarpa). Mentre restano
a parte carpa e carpione, derivati da una forma che ha prodotto esiti omonimi, dalla stessa radice si è avuto anche fr.
reg. carpette ‘lenzuolo per imballaggi’ all’origine di carpetta dell’it. reg. sic. ‘cartella per documenti’ e di una probabile
figura dell’it. carponi che, con l’ingl. carpet ‘tappeto’, che ci riporta sul pavimento da cui eravamo partiti.

41. Diffusa in tutta l’Italia meridionale, la voce che si presenta in sal. nella forma carùsu ‘ragazzo, giovanotto’ è
ricondotta a caruppare (MANNO), ma è più direttamente legata a carusare, lat. parl. CAROSARE ‘tosare le pecore’ [DEDI
carúsu]. Pur legata alla stessa radice, forse greca, di questa (kar-), la voce caruppare non è stata sufficientemente
chiarita (SDL 235). Tuttavia anche J. Picoche (Le Robert), trattando di carrousel, ipotizza una derivazione di carusu da
lat. CAROSIUS ‘carioso, tignoso’, per l’usanza di rasare a zero i crani dei bambini affetti da tigna. Il passaggio metaforico
dipende dalla somiglianza degli effetti di tigna e carie (< lat. CARIE(M) ‘corrosione’), dato che quest’ultima attacca
tessuti solitamente più duri. A carusare e caruppare si associano scarusare e scaruppare, documentati dal VDS, con
valore simile ma peggiorativo, per via di un presunto prefisso intensificativo s- che produrrebbe significati di tipo
‘tosare troppo e male’ (scaruppare ‘tosare incisivamente’ condivide però una porzione di spazio semantico con
scarugnare ‘tosare grossolanamente’). L’assonanza con scarufare richiede, inoltre, un approfondimento (v. n. 43).

42. Come scrivevo al n. 41 fr. carrousel dipende, secondo J. Picoche (Le Robert) e il TLF, dall’italo-romanzo mer.
carusu. Sembra incredibile la serie di passaggi che porta da una testa rapata alla tipica giostra dei moderni luna park, da
cui discende anche la designazione di una trasmissione televisiva che propone una serie di messaggi pubblicitari, il
celebre Carosello, e l’espressione usata per indicare il nastro trasportatore dei bagagli negli aeroporti internazionali.
Ancora più elaborato è l’approdo al tipico condimento della nostra gastronomia che, da forme dialettali di tipo
caruseddha, dà luogo al regionalismo carosella ‘corimbo, infiorescenza circolare di varie composite, in particolare del
finocchio selvatico’. Ne discuto in dettaglio soltanto alcuni passaggi partendo dagli esiti finali. Carosella deve
sicuramente il suo nome alla disposizione dei fiorellini su un piano dell’infiorescenza che li ricollega a raggiera a un
asse centrale, così come sono disposti i cavallini del tradizionale (e ormai lussuoso) divertimento infantile che si trova
nei pressi di monumenti più tradizionali del centro-Europa. Questa ‘giostra’ prende il nome da una tipica sfida tra
cavalieri rinascimentali che, lancia in resta, combattevano rincorrendosi attorno a un palo (la prima attestazione francese
è del 1559, TLF). Il nome carrousel risulta dall’estensione di un’altra modalità di allenamento tipica dei soldati (di
origine spagnola o morescai) della Napoli del XVI secolo (la prima attestazione italiana documentata è del 1547,
GraDIt). La sfida consisteva nel colpirsi con palle cave di terracotta (piccoli salvadanai) che ricordavano il cranio rasato
dei ragazzi (carusi) e il gioco era detto carusiellë. Partendo da esempi come questi, ai miei contemporanei inclini a
ricercare sempre nelle lingue di cultura europee (fino a qualche decennio fa il francese, ora spesso –
incomprensibilmente – l’inglese) l’origine delle nostre espressioni (anche di non recente diffusione), suggerisco di
documentarsi bene, dato che in molti casi la rapidità di circolazione delle voci porta a una contaminazione reciproca tra
varietà di lingua spesso difficile da ritracciare con sicurezza. Il prestigio di una lingua sorge e tramonta per ragioni
extra-linguistiche che fatichiamo a riconoscere, ma che sempre dipendono dalla vita politica di una società storicamente
dalle molteplici dimensioni. In questa nostra, oggi, si potrebbe persino affermare – chissà perché? – un it. reg. caroselli
per indicare i tipici cetrioli salentini noti con designazioni locali diverse: cucùmmeri, cumbarazzi, milunceddhe,
pupuneddhe, spureddhe etc. (“gloria dei coltivatori di San Donato”, secondo MANNO). Quest’eteronimia, scarsamente
documentata in VDS, ma relativamente più presente in DDS, così come il tentativo di un suo superamento con una
designazione super partes, forniscono utili indici per testimoniare interessanti dinamiche presenti nella formazione dei
dialetti.
43. Come anticipavo al n. 41, sal. scarufare ‘divorare’ si lega a voci diverse (scaruppare, scrofa...), ma evoca
inevitabilmente anche rrufare ‘sorbire’ che, pur essendo un limpido emissario del gr. ῥουφάω ‘sorbisco, deglutisco’ (e
infatti la forma è affine a una voce grika), presenta un’interessante geminata iniziale in alcuni dialetti (ignorata dal
VDS). Questa è forse il risultato dell’antico rho aspirato o, più probabilmente, il residuo di una derivazione da voci
prefissate con valore iterativo (come αναρῥοφάω ‘riassorbire’) sottoposto ad aferesi. In entrambi i casi rappresenta una
voce con interesanti possibilità di ‘scavo’.

Da questo numero, le voci sono corredate solo da una bibliografia ristretta ai nuovi titoli introdotti. Per le
abbreviazioni non sciolte volta per volta nei riferimenti s’invita a consultare quelle preesenti nelle note dei
numeri precedenti.

AIS – Atlante Italo-Svizzero – K. Jaberg, J. Jud, Sprach- und Sachatlas Italiens und der Südschweiz,
Universität Zürich-Ringier, Zofingen 1928-1940 [trad. it. vol. I: AIS. Atlante linguistico ed etnografico
dell’Italia e della Svizzera meridionale, a cura di G. Sanga, Milano, Unicopli, 1987].
ALI – Atlante Linguistico Italiano – M. Bartoli, B. Terracini, G. Vidossi, C. Grassi, A. Genre & L.
Massobrio, Atlante Linguistico Italiano, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato (8 volumi
pubblicati dal 1995 + materiali inediti c/o Istituto dell’ALI, Università di Torino).
BOVE-ROMANO – Bove R. / Romano A. (2014). Vocabolario del dialetto di Galatone. Lecce: Grifo.
DUDEN – Duden-Online-Wörterbuch – www.duden.de
DWDS – Digitales Wörterbuch der deutschen Sprache – www.dwds.de
GRADIT – Grande dizionario italiano dell’uso di T. DE MAURO (e coll.), Torino: UTET, 8 voll., 2002.
IEW - J. Pokorny, Indogermanisches etymologisches Wörterbuch, Bern-München, A. Francke, 1959.
LIV - H. Rix (con la coll. di M. Kümmel, Th. Zehnder, R. Lipp, B. Schirmer), Lexikon der indogermanischen
Verben, Wiesbaden, Reichert, 2001 (2a ed. a cura di M. Kümmel & H. Rix).
MANNO (1955-1956) - F. Manno, Rubriche “Etimologie del dialetto leccese” (1) e “Etimologie del dialetto
salentino” (2-24), in La Voce del Sud (16 luglio 1955 - 1o settembre 1956).
Romano A. (2019). “Vocabolario italo-salentino X 44-47 (scaranfare – scrivere – scarpa – pìritu – macchia)”. In Presenza
Taurisanese, a. XXXVII, n. 311 – mag. 2019, Taurisano, 12.

Vocabolario italo-salentino X

scaranfare – scrivere – scarpa – pìritu – macchia – ciola – tàccola – taccagno

44. Se resta incerta la derivazione da sal. scaruppare, l’atto di ‘tosare incisivamente’, del raro scaruppìa, da cui
potrebbe aver avuto origine scarpìa, per via di un significato di ‘ciuffo di peli’ (v. n. 40), il VDS suggerisce in modo
convincente di rapportare sal. scarufare ‘divorare’ a quel complesso di voci che le fonti (IEW, LIV) concordano nel
ricondurre alle stesse basi ie. di tipo *sker- ‘grattare’ o *skrbh- ‘scavare, incidere’ sotto le quali si aggregano tanto
scrofa quanto scrivere (!). Nel caso di scarufare l’atto si lega infatti suggestivamente all’immagine del suino che fa
sprofondare il suo grugno in un impasto di cibo e fango (VDS): si tratterebbe quindi di ‘grufolare’, ‘divorare scavando
nel cibo col muso’ (anche se non si possono scartare altri candidati come long. rauffen ‘agitarsi’, che ritroviamo nell’it.
arruffare non sembra totalmente estraneo, e gr. ῥουφάω ‘sorbisco’). Il legame con lat. SCRIBO e gr. γράφω, che
producono tante voci italiane (e di molte lingue occidentali), passa dall’originario significato di ‘incidere’ e quindi
‘scavare’ (con attrezzi acuminati). Una base apparentata (a.b. francone *graban) ha portato a fr. graver ‘incidere’ e altre
simili a ingl. grave e ted. Grabe e graben, legati ai concetti di ‘tomba’ e ‘seppellire’. Ma a queste si riconducono anche
le stesse voci it. grufolare e grifare, nonché – sebbene siano discutibili i loro incroci, rispettivamente, con le basi lat.
CARO ‘carne’ e gr. ῥάμφος ‘artiglio, becco’ – it. scarificare, che pure ha il sostegno congiunto di lat. tardo SCARIFICARE
e gr. σκαριφάομαι (GRADIT), e it. graffio che, pur derivando da lat. graphium ‘stilo’, si confronta con long. *hraffōn e
got. *hrapōn ‘afferrare’ e, attraverso lat. med. graffa(m) ‘uncino’ (GRADIT), a long. *krapfo ‘uncino’. È quest’ultima
che, insieme a gr. ῥάμφος, sembra responsabile tanto di sal. ranfa/rampa ‘artiglio’ e rranfare ‘afferrare’ quanto di
(s)caranfare ‘graffiare’.

45. Da ie. *sker- ‘grattare’ o *skrbh- ‘scavare, incidere’ si hanno diverse voci germaniche, come ingl. scrape ‘grattare’
o scratch ‘grattare incisivamente’ e sharp ‘appuntito’ (tutte corrispondenti a forme proto-germaniche di significato
compatibile, OED, DUDEN, DWDS). Attraverso queste si sarebbe avuto persino scarpa, anche se resta controverso se
all’origine vi siano germ. *skarpa ‘tasca di pelle’ (GRADIT) oppure voci simili ma legate al significato di ‘appuntito’ (le
scarpe sarebbero state distinte da calzature di altra foggia per il fatto di essere ‘a punta’, PIANIGIANI) o ‘brusco,
improvviso’ per il taglio deciso e spigoloso (d’altra parte ancora oggi fr. escarpé può indicare una discesa a precipizio,
LE ROBERT). Infine, sarà profittevole collegare a queste stesse origini anche it. scolpire e scalpello (e lat. SCULPERE
‘scolpire’ e SCALPERE ‘grattare’), che però presentano un lambacismo non banale, in ultima analisi.

46. Per it. peto, il GRADIT dà come origine lat. PEDITU(M) (der. di PEDERE ‘emettere peti’). Da questa discende
direttamente sal. pìditu/pìritu/pìratu, anche se con un insolito rotacismo di -d- tipico di altre regioni meridionali (VDS
476). La sincope di -i- intertonica è invece all’origine dell’assimilazione che produce la geminata di regioni più
settentrionali (tipo pétto) e le forme degeminate a più larga diffusione. Da queste forme, in particolare dal veneto,
deriverebbe anche, sempre secondo il GRADIT, l’it. pettegolo “con allusione al rumore sgradevole del chiacchierio”.
L’origine è compatibile con la voce sal. pittècula che si riferisce anche a un uccello, la ‘pettegola’ (Tringa sp.; cfr.
VDS).

47. L’it. macchia, oltre a indicare primariamente una traccia o una chiazza su una superficie, definisce un tipo di
vegetazione caratteristico del bioma mediterraneo. Tanto i principali riferimenti lessicografici italiani (DEI) quanto
quelli francesi (DAUZAT, LE ROBERT) riconducono questa seconda accezione a un’estensione della prima, dal lat.
MACULA(M), mentre quelli spagnoli (DRAE), che devono rendere conto di una nasale in più (mancha), introducono
alternative più o meno compatibili. Un territorio brullo punteggiato da macchie localizzate di piante arbustive e
sterpaglia si presta come luogo dove nascondersi e favorisce espressioni collegate come ‘darsi alla macchia’ o
denominazioni derivate come i celebri maquis francese, un’organizzazione partigiana della seconda guerra mondiale, o
nordafricano, originariamente punto di ritrovo in aree semi-desertiche. Anche la nota Mancha iberica, la regione di Don
Quijote/Chisciotte, presenta un paesaggio simile e uno stretto legame lessicale con la parola che designa una ‘macchia’.
Per le voci spagnole le fonti (cfr. COROMINAS) risalgono a un presunto arabismo (anche se non quello dei siti web
amatoriali secondo i quali al-manša sarebbe un ‘terreno secco e desertico’, laddove l’unico valore testimoniato oggi è
quello di ‘origine’). Curiosamente invece le voci francesi si fanno risalire, anche in opere autorevoli (come il DAUZAT o
il TLFI), al corso machja, che ha lo stesso valore della voce diffusa in tutt’Italia, ma indica un tipico rifugio del patriota
corso a partire dal XVIII sec. La diversa terminazione (-is) rispetto all’ipotetica forma originaria viene spiegata nel
Trésor de la langue française per un’analogia con taillis, luogo di taglio della boscaglia (ma potrebbe continuare lat.
MACULENSIS, come mi segnala l’amico Guido Borghi). Ora, la probabilità che la voce sia giunta in Italia dalla Corsica,
considerata anche la notevole diffusione che raggiunge l’estremo Salento, è molto bassa. E allora, ci viene il sospetto
che si tratti della continuazione di una stessa designazione che affiora in un territorio molto ampio che si estende forse
dal Sud della Spagna al Sud-Italia. Le nostre più antiche attestazioni e la varietà di usi della voce sal. macchia ce ne
dànno la conferma. Il suo grado di specializzazione è infatti, in alcuni casi, tale da lasciar pensare a un’antica origine.
Se in Toscana, l’uso sembra affermarsi nel Trecento (DEI), CARACAUSI documenta forme greche meridionali di tipo
màklia ‘vepretum, dumetum’ già nel XII sec. In Salento, oltre a indicare un ‘terreno macchioso di scarso valore
agricolo’ con designazioni specifiche del tipo macchie creste / macche reste, che presuppongono appunto l’esistenza di
terreni macchiosi meno selvatici, in alcune località sono attestati usi che si riferiscono genericamente a terreni aridi,
rocciosi e brulli o, più specificamente, a piante arbustive tipiche (lentisco, mirto, ligustro; in Toscana anche
biancospino). Con un interessante parallelismo fonologico, notiamo però che, se oggi in alcuni usi residuali macchia
può essere il lentisco (VDS 305, il ligustro o altre specie vegetali), mucchiu è sicuramente il cisto (diverse specie in
VDS 366, 1011). Infine, pur considerando lat. MACULA da ie. *măk-lā (o, ancora meglio, *măk + *-tlā, che
giustificherebbe gli esiti distinti di altre regioni mediterranee, come mi segnala sempre Borghi) non è affatto scontato
che questa passi attraverso le stesse tappe della voce che a noi oggi suggerisce un significato primario, dato che *măk-lā
/ *măkt-lā può essere un ‘luogo che trattiene umidità’ e una variante apofonica *mōhak-tlŏ-m ‘l’insieme di luoghi
prodotti dall’umidità’ spiegare regolarmente anche la forma sal. mucchiu. Entrambe potrebbero essersi specializzate a
indicare un tipo di macchia diverso, con dominanza di una specie e poi, occasionalmente, la specifica pianta o, al
contrario, il generico bioma.

48. Trattando dei continuatori di un’antica radice ie. pic-, avevamo menzionato sal. pica ‘gazza’. Comunemente si
confondono però diversi corvidi: pur essendo facilmente distinguibile per piumaggio, verso e comportamento, la gazza,
anche detta paccia, condivide alcune caratteristiche con la tàccola, che mostra una diversa distribuzione areale,
preferendo i centri abitati, le alture e i ripari nelle coperture degli edifici più alti. La tàccola, conosciuta in varie parti del
sud Italia come ciàula (alcuni ricorderanno il racconto di Pirandello), è chiamata in sal. ciola. L’origine di questa
designazione pare avere una base nella stessa radice di tipo kau- testimoniata ancora oggi in varie forme dialettali
mitteleuropee attribuite a diversi generi di uccello dal caratteristico verso. Anche nella ricostruzione della radice da cui
derivano in francese diversi nomi di uccelli, come choucas ‘tàccola’ e chouette ‘civetta’ il TLFI menziona a.b.frq.
*kawa ‘choucas’, neerl. couwe, norv. kaie e sv. kaja (sulla base di FEW 16 p. 304). Queste sono da avvicinare all’ingl.
chough (che designa uccelli del genere Pyrrhocorax) a sostegno del quale si propone un protogerm. *kahwō ‘taccola’,
da confrontarsi con gr. ant. κολοιός (OED). A nessuno sfuggirà, infine, che – curiosamente – entrambi i nomi salentini
di questi corvidi, quello della ciola urbana e quello della campagnola, ma più invasiva, pica, sopravvivono anche in
allusioni (talora tecniche e innocenti, talaltra oscene) all’organo sessuale maschile, trovandosi riunite in un più ludico
piciolla, forse per interferenza con voci riconducibili a ‘piccolo’ (v. n. 29).

49. A proposito della vc. it. tàccola, relativa al corvide (e non i baccelli dei legumi freschi, così designati nell’Italia
settentrionale), possiamo notare ancora la presenza nel nome di una terminazione assonante con le voci viste al n. 48,
ma la prossimità con diverse voci germaniche tra cui ingl. daw ‘taccola’ < ingl. ant. dawe e a.a.ted. tāhe / tāchele > ted.
Dohle (dial. Tach). La vc. è infatti di origine longobarda e risale a *tahala (GRADIT) o *tahhala (REW 8529). A questa
vc. PIANIGIANI ricollega anche it. taccagno ‘ostinato (come una gazza)’ che BOLELLI è incline a ricondurre alla vc. sp.
tacaño. Tuttavia il DRAE postula il contrario e, mentre altri autori ipotizzano legami col fr. taquin, l’ingl. take (v. n. 64)
e il m. neerl. *takehan (CNRTL), COROMINAS risale all’ebr. taqanah ‘regolamento’.

Le voci sono corredate da una bibliografia ristretta soltanto ai nuovi titoli introdotti. Per le abbreviazioni
non sciolte volta per volta nei riferimenti s’invita a consultare quelle presenti nelle note dei numeri
precedenti.

COROMINAS – J. Corominas, Diccionario crítico etimológico de la lengua castellana. Berna: Francke, 1954-1957.
CNRTL - Centre National de Ressources Textuelles et Lexicales - http://www.cnrtl.fr/
DWDS – Digitales Wörterbuch der deutschen Sprache – www.dwds.de
FEW - Walther von Wartburg, Französisches Etymologisches Wörterbuch, Basel: Zbinden, 1922-1967- versione online
https://apps.atilf.fr/lecteurFEW/
TLFI - Trésor de la Langue Française informatisé - http://www.atilf.fr/tlfi
Romano A. (2019). “Vocabolario italo-salentino XI 48-52 (pica – tàccola – sardizza – würstel – sèrvula – lazzu)”. In Presenza
Taurisanese, a. XXXVII, n. 312 – giu. 2019, Taurisano, 10.

Vocabolario italo-salentino XI

ciola – tàccola – taccagno – sardízza – würstel – sèrvula – lazzu – lacciu – sozzu – lizzu – traliccio – stutare – ddumare
– muttura – ssammuttare

Nell’introduzione al suo recentissimo saggio Le parole sono importanti, Marco Balzano si chiede come mai
l’etimologia non si insegni a scuola e riflette sull’altra sorprendente mancanza del sistema scolastico italiano relativa
all’inclusione organica dei saperi essenziali della linguistica. La spiegazione va cercata, da un lato nella difficoltà a
trovare formatori adeguati, visto che – come lui stesso osserva – il Paese sta scommettendo da decenni ormai su
competenze di tipo economico-industriale, disinvestendo nella cultura, e dall’altro, nella delicatezza delle ricostruzioni
che questa disciplina “empirica” induce a fare. Nelle voci di questa puntata si discutono alcune etimologie piuttosto
scontate e altre decisamente più nuove e innovative che, alla necessaria cautela, associano una visione storica dei
rapporti tra le lingue.

48. Trattando dei continuatori di un’antica radice ie. pic-, avevamo menzionato sal. pica ‘gazza’. Comunemente si
confondono però diversi corvidi: pur essendo facilmente distinguibile per piumaggio, verso e comportamento, la gazza,
anche detta paccia, condivide alcune caratteristiche con la tàccola, che mostra una diversa distribuzione areale,
preferendo i centri abitati, le alture e i ripari nelle coperture degli edifici più alti. La tàccola, conosciuta in varie parti del
sud Italia come ciàula (alcuni ricorderanno il racconto di Pirandello), è chiamata in sal. ciola. L’origine di questa
designazione pare avere una base nella stessa radice di tipo kau- testimoniata ancora oggi in varie forme dialettali
mitteleuropee attribuite a diversi generi di uccello dal caratteristico verso. Anche nella ricostruzione della radice da cui
derivano in francese diversi nomi di uccelli, come choucas ‘tàccola’ e chouette ‘civetta’ il TLFI menziona a.b.frq.
*kawa ‘choucas’, neerl. couwe, norv. kaie e sv. kaja (sulla base di FEW 16 p. 304). Queste sono da avvicinare all’ingl.
chough (che designa uccelli del genere Pyrrhocorax) a sostegno del quale si propone un protogerm. *kahwō ‘taccola’,
da confrontarsi con gr. ant. κολοιός (OED). A nessuno sfuggirà, infine, che – curiosamente – entrambi i nomi salentini
di questi corvidi, quello della ciola urbana e quello della campagnola, ma più invasiva, pica, sopravvivono anche in
allusioni (talora tecniche e innocenti, talaltra oscene) all’organo sessuale maschile, trovandosi riunite in un più ludico
piciolla, forse per interferenza con voci riconducibili a ‘piccolo’ (v. n. 29).

49. A proposito della vc. it. tàccola, relativa al corvide (e non i baccelli dei legumi freschi, così designati nell’Italia
settentrionale), possiamo notare ancora la presenza nel nome di una terminazione assonante con le voci viste al n. 48,
ma la prossimità con diverse voci germaniche tra cui ingl. daw ‘taccola’ < ingl. ant. dawe e a.a.ted. tāhe / tāchele > ted.
Dohle (dial. Tach). La vc. è infatti di origine longobarda e risale a *tahala (GRADIT) o *tahhala (REW 8529). A questa
vc. PIANIGIANI ricollega anche it. taccagno ‘ostinato (come una gazza)’ che BOLELLI è incline a ricondurre alla vc. sp.
tacaño. Tuttavia il DRAE postula il contrario e, mentre altri autori ipotizzano legami col fr. taquin, l’ingl. take e il m.
neerl. *takehan (CNRTL), COROMINAS risale all’ebr. taqanah ‘regolamento’.

50. L’etimo di it. salsiccia si riconduce tradizionalmente a lat. tardo SALSICIA, nt. pl., forse incrocio di SALSUS ‘salso’
con INSICIA ‘insaccati’ (al punto che ci si chiede se davvero insaccato derivi da sacco, v. nn. 63-66). Allo stesso modo
si ritiene che quello dell’it. pop. salciccia risenta di un’altra voce altrettanto popolare, ma anche infantile, che è ciccia
(attestata dal XV sec., secondo il GRADIT, che la considera voce di orig. espressiva, anche questa riconducibile a lat.
INSICIUM e lat. tardo insicia ‘polpetta’ [GRADIT VII 264]). Queste spiegazioni non soddisfano di fronte alle varianti
salentine satizza, sardízza etc. (e neanche nel caso di quelle centromeridionali). La seconda vc. dial. può infatti risentire
di un’attrazione paronomastica di sarda (v. anche BOVE-ROMANO), anche se non è chiaro se la paretimologia sia da
imputare alla credenza che questa pratica culinaria fosse d’origine isolana (< SARDUS) o assimilabile al trattamento di
salatura cui erano sottoposte le sarde, pesci il cui nome pare derivare, a sua volta, da una presunta pesca in mari sardi
(GRADIT). Tuttavia varianti come la seconda sembrano testimoniare un’antica oscillazione e un insieme complesso
d’interferenze che non escludono l’intervento di lat. SATUR ‘saturo’ (> SATULLU(M) > it. satollo) e SATIS ‘abbastanza’ (>
it. sazio), anche se non si può escludere che alla base ci sia comunque la presenza del sale per la conservazione delle
carni. Da questo si hanno infatti non solo il salame e i salumi (o, in certe regioni, il salato ‘prosciutto o insaccato’, v. n.
63), ma anche voci di altre lingue che testimoniano uno sviluppo da sal- con velarizzazione di l > u (fr. saucisse, ingl.
sausage; cfr. LE ROBERT e OED).

51. Pensando all’importanza che hanno i würstel nell’economia locale, si rende obbligatorio anche un tentativo di
descrizione/spiegazione di questa voce che i salentini, al pari di molti italiani, hanno adattato foneticamente in modo
vario: da vjùrstel/vjùster a jùster (con diversa selezione dell’articolo). Alla base della forma diffusa al di fuori dello
spazio germanico vi è un ted. dial. per ted. Wurst ‘salsiccia’ (GRADIT), la cui origine risale un verbo più antico che
valeva ‘confondere’ e ‘mischiare’ (le carni insaccate sono un miscuglio di qualità diverse) il quale dà anche germ.
*werra ‘mischia’ da cui it. guerra (e sal. querra). Molto più recenti le voci sal. di tipo sèrvula, sconosciute alla
tradizione locale, ma ormai diffuse in tutto il Meridione in conseguenza di suggestioni alimentari di origine transalpina
portate dagli emigranti di ritorno dalla Svizzera. Queste voci, per via del suono iniziale e dell’accento sistolico, non
possono che essere tributarie di un ted. regionale Cervelat ‘salsiccia di carne di cervello di maiale’, dal fr. cervelas
(cervelat nel 1552 TLFI), che è a sua volta ricondotto al nome di preparati originari dell’Italia settentrionale: le
cervellate (LE ROBERT, TLFI, DUDEN).

52. Sal. lazzu è legato a it. laccio. Entrambe le vc. sono di derivazione latina. Il dubbio è se da LAQUEUS o da LACERE (>
LACIO) ‘(at)tirare’ (cfr. sp. lazo, fr. laz ‘laccio’ > ingl. lace ‘merletto’, OED, ma forse × laize ‘maglia, distanza tra i fili
(l’aise)’ il quale è però da lat. pop. *latia ‘(le cose) larghe’, LE ROBERT, TLFI). La corrispondenza tra gli esiti sal. e it. è
la stessa che tra fazzu – faccio, (v)razzu – braccio, sitazzu – setaccio e molti altri nomi in -azzu (es. catinazzu –
catenaccio etc. Si noti ancora che, al contrario, si ha pacciu – pazzo, con lo stesso cambio di suoni di cittu – zitto).

Bibliografia

Per le abbreviazioni BOVE-ROMANO, DDS, DUDEN, GRADIT, IEW, LE ROBERT, MANNO, OED, REW, SDL,
TLFI e VDS v. puntate precedenti.

BALZANO - Balzano M. Le parole sono importanti. Torino: Einaudi, 2019.


Romano A. (2019). “Vocabolario italo-salentino XII 53-59 (lacciu – sozzu – lizzu – traliccio – stutare – ddumare – muttura)”. In
Presenza Taurisanese, a. XXXVII, n. 313 – lug. 2019, Taurisano, 10.

Vocabolario italo-salentino XII

53. Sal. lacciu ‘sedano’ deriva invece da lat. APIUM ‘id.’ con agglutinazione dell’articolo (VDS 28 282, DEI accio,
DEDI accë). La voce latina, oltre che nel nome scientifico del Genere, è conservata anche in sp. e port., ma non in it.
che ha preferito invece un continuatore della voce greca σέλινον, mediata da lat. volg. *sĕlĭnum (anche in petroselinum
> sal. petrusinu ‘prezzemolo’ e it. prezzemolo < *petrosemulum).

54. Anche sozzu (lecc. sezzu), rizzu e lizzu corrispondono a voci italiane la cui derivazione dal lat. presenta il risultato di
una patalizzazione (socio, riccio, liccio). Le voci discendono rispettivamente da lat. SOCIU(M), ERICIU(M) (cfr. n. 30) e
LICIU(M). MANNO 7 illustra bene la prima, dato che sozzu indica parità di livello, lo stesso a cui si trovano due soci (cfr.
it. lett. sozio, GRADIT, v. ora BALZANO 25), mentre MANNO 11 si spinge più indietro nel caso del primo, spiegando anche
la forma latina in rif. al verbo ERIGERE ‘rizzare’ (senza il richiamo di lat. *rēctĭāre) e crede di poter ricondurre l’ultima
a lat. ILICEU(M) ‘di quercia (ilex)’ per via del materiale di cui sono fatte le parti di legno contigue del telaio, laddove
lizzu è invece proprio lo stesso filo designato dall’it. liccio (< lat. LICIU(M)). Questo è all’origine di it. traliccio (<
*trilīcĭu(m) ‘formato da tre fili’ oppure < *translīcĭu(m) ‘tra i fili’) e può essere all’origine anche di ingl. leash
‘guinzaglio’ (ÖHRMAN) che però, secondo OED, più che con voci di tipo laccio s’incrocia di nuovo (cfr. n. 52),
antifrasticamente, con fr. laisse < lat. LAXA (perché il guinzaglio ‘lascia andare lontano’; cfr. LE ROBERT). È invece solo
la lizza, il ‘leccio’, che discende da ILICEA (VDS 297), dato che I > i in sal. e e in it.

55. Sal. stutare ‘spegnere’ è apparentato con altre voci meridionali (REW 3110, SDL 198). “Questo nostro verbo
rappresenta uno dei più mirabolanti itinerari semantici” (MANNO 9), derivando da lat. EX-TUTARI < TUERI ‘proteggere,
difendere’ (v. it. tutela, tutore in GRADIT, cfr. VDS 717). Infatti, in origine, l’operazione indicata da questo verbo
riguardava la copertura delle braci per ravvivarle al mattino dopo. Se, però, INTUERI valeva ‘coprire per proteggere’ la
brace che s’intravede sotto la cenere (da cui it. intuire), (EX)TUERI > (EX)TUTARI prevedeva l’estinzione certa della
fiamma (LE ROBERT). Questo percorso evolutivo (da ‘proteggere’ a ‘spegnere’) è proseguito quindi nell’odierno
francese che l’ha esteso a ‘uccidere’: tuer.

56. Sebbene la forma sal. ddumare abbia perso l’originaria retroflessione, quelle siciliane di tipo ḍḍumari (ma anche di
varie località sal., stando a VDS 202), per via del regolare passaggio -LL- > -ḍḍ-, serbano ancora un legame diretto con
lat. volg. *allūm(ĭn)āre, da cui anche il fr. allumer. La diffusione di una radice più conservativa di lat. LUMEN/-INIS,
osservabile in it. nei numerosi derivati cólti di tipo illuminazione, illuminismo etc. convive con voci che hanno seguito
quest’altra trafila (SDL 246). Il passaggio dei nomi usati per designare luci e fiaccole da LUMINARIA a *lūmāria, oltre
che dal sic., è ben testimoniato dal griko dove lumera è il fuoco, in una forma che precede quella di fr. lumière (e d’altra
parte lumera nelle navi medievali designava il locale in cui si custodiva il fuoco; cfr. GRADIT).

57. Sal. muttura ‘umidità, nebbia mattutina’ è riconducibile, come suggerisce l’amico G. Borghi, a IE. √*mĕu ̯ -t-
‘umido’ (ma anche ‘fango, sporcizia’; cfr. IEW 742-743). La stessa radice sarebbe all’origine di *mŭt-nắ·ha > *mŭt(t)ā
‘altura’ > it. mòtta ‘frana di materiale roccioso e terroso, isolotto affiorante (laguna veneta)’. VDS 376 ritiene invece che
la vc. possa essere legata a mmuttare ‘immergere’ e associa a questo it. imbottare ‘mettere in botte’, che non sembra
avere nessuna relazione. L’estensione della radice mut- in Italia mer. è infatti ben più ampia e indipendente: si ritrova ad
es. anche in sal. ssammuttare ‘immergere, tuffare’ (ssammutti sono il ‘tuffetto’ e lo ‘svasso’) e nella vc. napoletana da
cui deriva it. sommozzatore, benché molti siano dell’avviso che la vc. sia da ricondurre a pŭtĕu(m) ‘pozzo’ (DEI, DELI,
DEDI sammuzzari). Ugualmente senza legami con queste sono vcc. simili come sal. mmutu e muteḍḍu ‘imbuto’, dato
che in questi casi la nasale bilabiale deriva da assimilazione di un nesso -mb- conservato in altre parlate (< IMBUERE
‘imbevere’).

58. Sal. crianza (già in MANNO 22, ma sorprendentemente trascurato nella descrizione di VDS) identifica un insieme di
regole di comportamento, o anche – per traslato – l’atto individuale di chi le adotta. La vc. è sicuramente legata a it.
creanza, ma viene da sp. crianza ‘allevamento’ e port. criança ‘bambino’, derivate da criar ‘allevare, educare’, dal lat.
CREARE ‘creare’. I salentini, oltre a distinguere tra bbonacrianza e malecrianza (che lasciano trasparire una buona
corrispondenza della forma-base con it. educazione), in alcuni usi familiari (diffusi anche altre parti d’Italia), indicano
con questa parola anche l’ultimo boccone che si lascia(va) nel piatto (DDS 123). Quest’uso rimane oggi spesso,
regionalmente, col ricorso all’it. creanza (che però non conosce questo significato).

59. I prodotti alimentari indicati da it. budino sono piuttosto diversi da quelli corrispondenti a fr. boudin da cui,
attraverso usi regionali diversi, trae origine il loro nome. La vc. fr. deriva probabilmente da *botellinus (TLFI boyau in
rif. a EWfS2; LE ROBERT), a sua volta da botellum ‘cosa gonfia’ > it. budello, alternativa a botolum > it. botolo, vc.
limitata alla designazione scherzosa di un cagnetto stizzoso. Così come in italiano budino è passato a indicare
prevalentemente un dolce, anche l’affermazione in inglese di una forma con p- per il tipico pudding potrebbe derivare
da questa. Ad ogni modo non può essere esclusa una sua dipendenza diretta da pod ‘stomaco, pancia’ dato che
protogerm. *put/pud può valere ‘ingoiare’ (TLFI bod) e che pIE. ha *bew per indicare qualcosa di gonfio (sarà anche
questa la base dell’it. gergale bua?). Anche DEDI [botìn] menziona una base germanica bŭtt ‘gonfio’ (fr. botte ‘stivale’,
cfr. ingl. boot; forse anche it. botta ‘segno di colpo ricevuto, percossa’). Inoltre il francese conserva numerose voci
legate a bout ‘estremità’ tra le quali emboutir, che lascia pensare a un’originaria modalità di riempimento del budello da
un’estremità aperta (come insaccare discende da sacco che è un recipiente di tela aperto da un solo lato). Si stabilisce
quindi un’analogia con voci che rimandano all’atto dell’insaccare (v. n. 63 - ingoiare è un modo d’insaccare, in fondo)
e, infatti, anche it. imbottito, così come le vcc. iberiche del tipo embutido, sono prossime – su entrambi i piani del
significante e del significato – alla vc. francese cui spesso vengono ricondotte. Nonostante, quindi, GRADIT e DRAE
preferiscano pensare alla metafora suggerita da basi lessicali intralinguistiche come botte o boto ‘botte’, un salume o
una coperta “imbottiti” sembrano avere più legami con radici di tipo ‘gonfio’ o ‘estremità’ (come sostengono LE
ROBERT e MICHAELIS) che permette di rendere conto di altre interessanti analogie. Si hanno infatti fr. bouder e ingl. to
pout1 (it. fare il broncio) per la tipica espressione che si assume facendo sporgere le labbra (identico a sal. ppènde li
musi), disponendole in modo simile alla conformazione dell’imboccatura di un budello da riempire (Non è raro sentire
insultare una persona con espressioni che ricorrono in fr. all’uso di andouille e in it. a quello di salame).

BIBLIOGRAFIA

Per le abbreviazioni BOVE-ROMANO, DDS, DRAE, DUDEN, GRADIT, IEW, LE ROBERT, MANNO, OED, REW,
SDL, TLFI e VDS v. puntate precedenti.

EWfS2 – Gamillscheg, E. Etymologisches Wörterbuch der französischen Sprache, Heidelberg: Winter, 1926-
29 (2a ed. 1969).
LSJ – Liddell-Scott-Jones – H.G. Liddell, R. Scott, A Greek-English Lexicon (Revised and augmented
throughout by Sir H.S. Jones, con l’assistenza di R. McKenzie), Oxford, Clarendon Press, 1940 (cfr.
Liddell-Scott – H.G. Liddell, R. Scott, An Intermediate Greek-English Lexicon, 1889 [edizioni online
sul sito http://www.perseus.tufts.edu]).
MICHAELIS – Michaelis, H. & C. Dicionário etimológico das línguas hispânicas ora in Michaelis online (São
Paulo: Melhoramentos, 2019) – michaelis.uol.com.br.
ÖHRMAN - Öhrman M. Listening for licia: A Reconsideration of Latin licia as Heddle-leashes. In: S. Gaspa et
alii (eds.), Textile Terminologies from the Orient to the Mediterranean and Europe. Lincoln
(Nebraska): Zea books, 2017, 278-287.

1
Insieme a purse (< a.fr. bourse < BURSA), ingl. pudding e pout dimostrerebbero un passaggio b > p ritenuto piuttosto
raro.
Romano A. (2019). “Vocabolario italo-salentino XIII 60-66 (botola/bocciolo – bbuatta/bbùssula – scatola – sacco – zzaccare – ssaccu
– mboti)”. In Presenza Taurisanese, a. XXXVII, n. 314 – ago.-set. 2019, Taurisano, 10.

Vocabolario italo-salentino XIII

botola/bocciolo – bbuatta/bbùssula – scatola – sacco – zzaccare – ssaccu – mboti

60. Per la vc. it. botola, invece, che individua qualcosa che chiude, liquidate – con PIANIGIANI –
spiegazioni che risalgono a celt. bun/bud ‘fondo, basso’ o a fr. boîte ‘scatola’, si hanno comunque
tre diverse ipotesi. La prima è quella di un originario votula < voto ‘spazio vuoto’ (< *vŏcĭtu(m), da
VACITUS, p. pass. di *vacēre ‘vuotare’; cfr. GRADIT). La seconda si basa sull’esistenza di it. balta
‘ribaltamento’, che è però di origine incerta (> bàuta > bota > dim.). La terza è legata alla stessa
radice bod/bot ‘rotondo, turgido’ (per una presunta forma convessa della botola, cfr. it. imbotte
‘intradosso’); questa si può confondere con quella dal significato di ‘estremità’ (v. n. 59) in boccio,
bottone, per indicare un bocciolo vegetale (con la stessa origine di ingl. bud), ma anche in it.
boccio/a e sal. ozzu/a ‘recipiente’ e ‘bernoccolo’, attraverso un lat. *bŏttia(m) (GRADIT). A causa
del diverso vocalismo, infine, nessuno prende in considerazione un ipotetico legame con it. botte,
sal. (v)utte, ricondotti a lat. tardo bŭtte(m), ma di orig. incerta (l’associazione con gr. βοῦ(τ)τις, che
indica un ‘recipiente a forma di tronco di cono’ [LSJ, GRADIT], non pare particolarmente calzante
nel caso di botola, e spinge invece a dare maggior rilievo all’immagine del rigonfiamento che
caratterizza questi recipienti, cfr. nn. 58-59).

61. Fr. boîte, di cui si parlava al n. 60 è all’origine di sal. bbuatta ‘barattolo’ (liquidato
sommariamente da VDS in rif. a MANNO) e di it. busta (a. fr. < boiste; cfr. GRADIT). Alle sue spalle
ci sarebbe un lat. *buxida (*buxida, TLFI) che corrisponde a gr. πυξίς der. di πύξος ‘bosso’ (lat.
BUXUS) dal cui legno si ricavava una scatola ben precisa: la pìsside. Dalla stessa vc. derivano sal.
bbùssula (assente in VDS) e it. bussola (< buxula ‘scatola’, LEI VIII: 506-507) nel significato di
‘struttura lignea di protezione dell’ingresso di un’abitazione’ (che GRADIT ritiene in relazione
polisemica con bussola ‘strumento di orientamento’, senza proporre etimi).

62. It. scatola (da cui presumibilmente sal. scàtula) ha origini incerte, anche se pare imparentata
con ted. Schachtel ‘cassa, ripostiglio’ a sua volta legato a Schatz ‘tesoro’. Alla base di queste voci
potrebbe esserci una voce germanica collegata con una radice più antica cui risalirebbero anche ted.
Schatten e gr. σκότος ‘ombra’ forse attraverso voci dal significato di ‘coprire, nascondere’ (KLUGE).
GRADIT propone invece una metatesi di lat. mediev. castŭla(m) ‘cassa, cesta’, dal franc. *kasto, lo
stesso che dà it. castone (dell’anello), che è una cavità, appunto.

63. Il tema degli insaccati è ampio e ci riporta a un originario sacco, dal lat. SACCU(M), dal gr.
σάκκος (ebr. saq secondo LE ROBERT o, meglio, aram. ant. šaqq secondo GRADIT), e sacca, più
recente, verosimilmente dal primo. Anche sal. ha saccu che però distingue da ssaccu e zzaccu,
entrambi meritevoli di approfondimenti (v. n. 64-65). In maniera forse frettolosa it. sacco
‘saccheggio’ viene infatti ricondotto a sacco ‘recipiente di tela’, laddove è evidente che la base
sembra avere una diffusione più ampia che mantiene significati correlati. Lo spagnolo ha infatti un
verbo sacar con un solido significato di ‘prendere’ riconducibile forse a un got. sakan ‘fare causa’
(DRAE) o ‘ottenere per via giudiziaria’ per il quale LE ROBERT ipotizza lat. volg. *saccare (e invoca
formule rituali collegate a SACER). Da notare anche la vc. it. ant. sagire ‘prendere possesso’ che
GRADIT, ribadendo il tramite germanico, riconduce a lat. med. sacīre1. Tuttavia anche gr. mod. ha
τσακώνω ‘afferro’ (di epoca bizantina) a cui si associa immediatamente sal. zzaccare con le sue
presunte varianti (v. n. 64).

1
Al contrario riporta a sagīre ‘avere un fine odorato’ altre vcc. come sagace, presagio e presagire che suggeriscono
una radice IE. *sag ‘cercare, fiutare’ (cfr. LE ROBERT); la stessa che dà gr. heg- (cfr. it. egemonia, esegesi), ted. suchen e
ingl. seek che più difficilmente si collegano al concetto di ‘afferrare’.
64. Se in diverse località del Salento zzaccare convive con zziccare, il leccese ha solo zzeccare per
‘prendere’ e ‘afferrare’ (zziccu, zzeccamu ‘prendo, prendiamo’ cfr. GARRISI). Per questo MANNO 13
liquida zzicca ‘zecca’ con rinvio a zzeccare (MANNO 19), riconducendolo, per tutti i suoi significati,
a long. “zekka” da cui it. zecca “piccolo aracnide che s’apprende tenacemente alla pelle” (per questa
GRADIT dà “*zëkka, cfr. ted. mod. Zecke” a cui aggiungiamo il confronto con vcc. equivalenti come
fr. tique e ingl. tick ‘zecca’)2. Anche VDS 848 rimanda zzaccare a zziccare, benché sia possibile che
per uno stesso parlante salentino – soprattutto in quelle località dove la progressiva riduzione d’uso
di ncignare ha lasciato disponibile uno spazio semantico – quest’ultima si sia ritagliata, oltre a
quello più ampio di ‘prendere’, il significato distinto di ‘iniziare, cominciare’. È infatti solo la prima
che sembra condividere uno spazio semantico con it. azzeccare: una specializzazione sembra infatti
circoscrivere le due voci concorrenti confinando zziccare nello spazio di ‘prendere, cominciare’ e
zzaccare in quello di ‘afferrare’ (v. n. 63). It. azzeccare deriva però dall’alto ted. medio zecken
‘menare un colpo’ (GRADIT) e questo rimanda a got. tekan (all’origine di ingl. take, sempre
‘prendere’, e ingl. tick ‘segno di spunta’) a cui si ricollegano altre voci come tacca, staccare e
attaccare, forse dal got. taikn ‘segno’ (cfr. ingl. token, ted. Zeichen ‘(contras)segno’), e toccare (v.
n. 68).

65. Alla luce di queste riflessioni sal. zzaccare (zzaccu, zzaccamu) potrebbe dunque avere
un’origine diversa ed essersi confuso con zziccare/zzeccare (zziccu, zziccamu/zzeccamu, v. n. 64)
per le analogie fonetiche, le interferenze diasistematiche e alcune condizioni di compatibilità
semantica (la stessa di it. prendere ‘pigliare’ e ‘cominciare’). Il legame più stretto si stabilisce con
altre lingue mediterranee che hanno vcc. simili (v. n. 63) e passa attraverso vcc. imparentate. Se
infatti sp. sacar evoca zzaccare, sp. resaca, all’origine di it. risacca e di fr. ressac, appare in
relazione a uno degli usi di sal. ssaccu che è proprio l’azione ciclica dell’onda marina che
s’infrange sulla spiagga e si ritira: la risacca, appunto. Sal. ssaccu, così come il verbo ssaccare
‘rantolare, boccheggiare’, designa però il respiro affannoso, analogamente ciclico (cfr. cal.
assaccare e sic. assaccari, VDS 62, 688), oppure l’ultimo respiro, così come resaca indica anche il
ritirarsi dell’ultima onda, il riprendersi di quanto temporaneamente depositato sulla spiaggia,
nonché il reflusso o i postumi (di una sbornia) (ingl. hangover). Con la risacca, il mare si riprende
ciò che ha portato, così come la natura si riappropria della vita che esala nell’ultimo respiro.

66. La tentazione di ricondurre sal. mboti ‘involtini d’interiora di agnello’ (registrata isolatamente in
VDS 332, senza chiarimenti) a voci che presentino affinità semantica (come quelle al n. 59) con basi
di tipo bot-, indicanti i concetti di ‘gonfio’ e ‘imbottito’ (e riferite a vari preparati culinari di carni
varie), è esclusa dall’evidente legame con vcc. di tipo involti etc. presenti in varietà affini e dalla
coesistenza di vcc. simili legate a verbi come mbojacare/mbogghicare ‘avvolgere’ etc.
(riconducibili a forme frequentative del tipo *involgicare < INVŎLVĔRE, cfr. BOVE -ROMANO).

BIBLIOGRAFIA

Per le abbreviazioni BOVE-ROMANO, DRAE, GARRISI, GRADIT, LE ROBERT, MANNO, PIANIGIANI, TLFI e VDS
v. puntate precedenti.

KLUGE – Kluge, F. Etymologisches Wörterbuch der deutschen Sprache. Strasburgo: Trübner, 1899.
LEI – Lessico Etimologico Italiano, a cura di M. Pfister / W. Schweickard, Wiesbaden: Reichert (e altre
succ.), 1979 e segg.
LSJ – Liddell-Scott-Jones – H.G. Liddell, R. Scott, A Greek-English Lexicon (Revised and augmented
throughout by Sir H.S. Jones, con l’assistenza di R. McKenzie), Oxford, Clarendon Press, 1940 (cfr.
Liddell-Scott – H.G. Liddell, R. Scott, An Intermediate Greek-English Lexicon, 1889 [edizioni online
sul sito http://www.perseus.tufts.edu]).

2
Da queste si distingue la zecca che assicura la coniazione delle monete il cui nome discende dall’ar. dār as-sikka, lett.
‘casa della moneta’ (GRADIT).
Romano A. (2019). “Vocabolario italo-salentino XIV 67-70 (bot – ttocca – bbizzocu – pampas¢iune)”. In Presenza Taurisanese, a.
XXXVII, n. 315 – ott. 2019, Taurisano, 11-12.

Vocabolario italo-salentino XIV

bot – ttocca – bbiẓẓocu – pampas¢iune – s¢iotta

67. It. bot è storicamente la lessicalizzazione di un acronimo (B.O.T. = Buoni Ordinari del Tesoro, una forma
d’investimento finanziaria in titoli di Stato). Tuttavia negli ultimi tempi – talmente recenti da non aver dato occasione
neanche alla lessicografia tradizionale di registrarlo adeguatamente – si è affermato un altro bot, riferito a un dispositivo
automatico in grado di assolvere funzioni elaborate nell’accesso alle informazioni che affidiamo alle reti di
telecomunicazione. Si usa bot per indicare una app (un’app) talmente sofisticata da darci l’impressione di interagire con
un essere umano (Wikipedia). Inutile dire che neanche questa vc. ha nulla da spartire con le vcc. al n. 59, coi nostri
mboti e le nostre mbuttite. L’origine del nome va cercata in un accorciamento della porzione finale di un’altra parola:
robot. Robot è infatti dal ceco rabota ‘lavoro (forzato)’, dal nome proprio di alcuni operai-automi di un’opera di Karel
Čapek (1890-1938) (la parola conserva in ingl. due sillabe con accentazione residua sull’ultima che giustifica
parzialmente l’insolito accorciamento; cfr. ROMANO-MILETTO 227)1.

68. Sal. ttuccare presenta legami saldi con it. toccare (che alcune fonti liquidano come onomatopeica sol perché tac
ricorda il suono di un contatto, ma proprio questultima parola è da CONTACTUS e TACTUS è il part. pass. di lat. TANGERE
‘toccare’; cfr. GRADIT s.v. tatto). Vcc. correlate sono diffuse in tutto lo spazio romanzo è hanno ricevuto etimologie che
ne rintracciano la disseminazione storica, talvolta anche dal gotico (v. n. 64), ma sicuramente attraverso un lat. volg.
*toccare > sp. tocar, fr. toucher. Tornando al sal., osserviamo che fin qui abbiamo trattato solo di tuccare che è
omologo alle vcc. simili romanze. Negli usi più sofisticati di alcuni salentini si distinguono, però, anche alcune forme di
ttuccare nel senso di ‘spettare’ o di ‘dovere’ (con rilevanti sviluppi in qualità di modale). La vc. è registrata
occasionalmente dalle fonti, ma è raramente lemmatizzata. Anche se uno spazio più ampio le è dedicato da VDS [769,
751] e da ROMANO, la vc. manca in BOVE-ROMANO, per il galatonese, e in GARRISI, per il leccese (sebbene l’A. preveda
un lemma separato per tocca cu). Questi usi sono compatibili con quelli di forme pronominali dell’italiano in esempi
come “ti tocca” ‘spetta a te (= è tuo di diritto)’ o ‘spetta a te (= resta a tuo carico)”. Ecco quindi che, se dico ad es. me
ttocca / ttocca a mmie vuol dire ‘tocca a me (= mi tocca, mi spetta di diritto, è il mio turno)’, mentre se dico ttocca bbau
s’intende ‘mi tocca andare’. Da usi come quest’ultimo si è prodotta un’interessante perifrasi sostitutiva di aggiu scire
‘devo andare’, a sua volta derivante dalla risoluzione della perdita romanza del futuro latino (v. n. 72). Le ragioni per
cui molti salentini non notano l’autonomia di ttuccare rispetto a tuccare sono almeno due: da un lato la resistenza ad
ammettere vcc. con consonante doppia iniziale, dall’altro il gran numero di casi in cui, a causa del raddoppiamento
fonosintattico e delle assimilazioni a confine di parola, le due forme si confondono: lu tocca ‘lo tocca’, l’ha’ tuccatu
‘l’ha toccato’, ma no’/nu’ ttuccare ‘non toccare’, no’/nu’ ll’ha’ ttuccare ‘non devi toccarlo’ vs. no’/nu’ ttocca bbai ‘non
devi andare’, ha’ ttuccatu bbau ‘sono dovuto andare’, ma anche – e qui si vede l’autonomia particolare dell’uso
impersonale delle 3e pp.sgg.– ttocca bbai ‘ti tocca (devi) andare’, ttuccau sciamu ‘ci toccò (dovemmo) andare’. Se poi
in questi ultimi due esempi qualcuno dice davvero tocca bbai o tuccau sciamu (senza la doppia iniziale), la funzione è
preservata (benché le due forme verbali tocca e tuccau vadano incontro a perdita di opposizione con le concorrenti con
iniziale scempia e dal significato etimologico).

69. Sal. pizzocu / piẓẓocu / bbiẓẓocu sono forme corrispondenti a it. bizzoco e, più comunemente, pinzochero (con
attestazioni già nel sec. XIII, risp. 1211 e 1277, GRADIT). La forma pinzochero, più comune in italiano nell’ultimo
secolo fino agli anni ’80 (secondo Ngram Viewer), ha sviluppato il nesso nasale -nz- in luogo di -zz- (tramite pizzocco),
mantenendo una pronuncia sorda della z (come in pizza). Entrambe derivano da lat. mediev. bizochus che però è di
origine sconosciuta (GRADIT) e si collega forse a it. bizza, bizzarro e schiribizzo (ma non a bizzeffe, di provata origine
araba). Purtroppo la dominanza di z sonora (in queste voci) non si concilia con la ricorrenza apparentemente casuale
della z sorda (v. n. 103) nelle varianti italiane e salentine dovuta forse a influenze diverse (it. pinza e sal. pizzu).

70. Il GRADIT non registra lampagione che, oltre a essere ben attestato, sarebbe
anche la forma regolare discendente da un presumibile lat. LAMPADIO,
corrispondente a sal. pampas¢iune e simili, gk. lampaùne e pugl. lambascióunë. La
vc. è ben nota (VDS 284, 446) e indica una pianta erbacea del genere Muscari
(Muscari comosum) diffusa nelle regioni mediterranee2. Per designare la pianta e il

1
L’accorciamento dei nomi sul modello anglosassone si fa di solito mantenendo la parte iniziale delle parole (Di info,
mate, prof, polstrada etc. sono pieni i manuali di italianistica). Sulle alterne vicende degli ipocoristici in Italia v.
ROMANO-MILETTO 192 (in Salento ad es. per Antonio, nomi personali tradizionali come Ntoni, Toni, Ucciu etc., che si
affiancavano a forme tronche alto-meridionali di tipo Antò, stanno lasciando il posto a soluzioni recenti basate su un
troncamento grafico: Ànto. In questo modo ad es. Giovanni, che poteva essere Ninu o Giuvà, ha vissuto la parentesi di
Gianni (e Vanni), è ora accorciato in Giova, così come Caterina, Rina, è ormai quasi esclusivamente Cate).
2
Conformente a una tradizione lessicografica consolidata, considera invece bambagione, una graminacea diffusa in altri
spazi agricoli (Holcus mollis), il cui nome eserciterebbe richiami fonetici fortissimi con la vc. qui considerata, se non
sapessimo che in questo caso la derivazione parte da bambagia (<gr. βαμβάκιον ‘cotone’) che qui è fuori questione. È
suo bulbo commestibile “simile a una piccola cipolla, di sapore amarognolo, consumato spec. nell’Italia meridionale”,
GRADIT dà solo, con etimologia incerta, una forma pseudo-it. lampascióne. Questa grafia suggerisce una pronuncia
artefatta, dato che in sal. (e pugl.) la sc(i)- scempia (qui per comodità s¢-) è regolare evoluzione di -G- (o di -DJ-, es.
VIDEO > vis¢iu, QUOTIDIANA > ottis¢iana) e corrisponde sistematicamente a molte vcc. italiane con (-g)g(i)- (si pensi a
s¢incìe/s¢iangìe ‘gengive’, s¢ianucchìe ‘ginocchia’, s¢iocu ‘gioco’, bbus¢ìa ‘bugia’, curis¢ia ‘cintura (correggia)’,
fris¢imu ‘friggiamo’, os¢i ‘oggi’, pes¢iu ‘peggio’, maris¢iu e varr. ‘meriggio’ e tutti i verbi in -is¢iàre del tipo
pintis¢iare ‘tinteggiare’, sc(hi)affis¢iare ‘schiaffeggiare’ etc.). E, infatti, nei cartelli dei venditori di questo apprezzato
prodotto tipico, con una maggiore perspicacia linguistica, si legge lampagione. Sarà infine interessante notare che
LAMPADIO è il cognomen di vari personaggi della storia romana (ad es. Gaio Ottavio Lampadio) e attrae
irresistibilmente la voce gr. λαμπάδιον riferita a un’acconciatura femminile (spec. delle tebane), una grande ciocca di
capelli, raccolta sulla nuca con una serie di nastri, che suggerisce l’immagine di una fiaccola (< gr. λαμπάδιον dim. di
λαμπάς –άδος ‘torcia’, cfr. LSJ). L’estensione di significato di sal. pampas¢iune nel senso di ‘escrescenza’ e ‘bitorsolo’
(lasciando da parte quella gergale di ‘individuo goffo’ o ancora quella eufemistica del pl. usato per riferirsi ai testicoli),
può essere facilmente associata all’immagine di una crocchia o di un toupé e, senza risalire a ‘torcia’, indurre a valutare
una possibile analogia diretta.

71. Sal. s¢iotta ‘brodo’, secondo MANNO 19 (che la scrive sciotta, come VDS e altri; cfr. n. 83) “è la parte liquida,
brodosa di cibi cotti” e risale a lat. tardo gutta nel senso di gocciolare. Oltre al vocalismo incompatibile (ma v. dopo),
quest’etimo sembra inappropriato dato che la vc. presenta affinità con numerose altre diffuse in ambito romanzo ed è
testimoniata in forme simili già in lat. tardo (nel VI sec., cfr. TLFI; IEW I: 507, e in Rufo, V sec., cfr. BOVE-ROMANO).
Responsabile sembra essere fr. ant. jotte [SDL 247], fr. joute ‘bietola, ravanello’ [XII sec. TLFI] (con vocalismo simile
a quello di gutta) poi ‘stufato di verdure’ [XIII sec. TLFI]. La voce sal. è affine a cal. jòtta etc. (VDS 616) e friul. jòta
(DEDI jota) < ant. fr. jotte ‘stufato di verdure’, sp. jota ‘brodo di verdure’ < lat. tardo jŏtta/jŭtta ‘brodo’ d’orig. celt.
(cfr. tuttavia PELLEGRINI 353, che riporta il suggestivo ar. šatt/šawt ‘acqua stagnante, depressione salata’, nota nella
forma chott attraverso il francese, e GARRISI, che riferisce l’etimologia popolare da it. sciolta, incompatibile per via del
suono iniziale). Se, negli usi metaforici, s¢iotta può riferirsi all’acqua di mare quando presenti una temperatura
particolarmente confortevole, per molti salentini i legami tra i significati gastronomici delle diverse tradizioni romanze
potranno sembrare più stretti e l’ipotesi di un’origine celtica più calzante.

BIBLIOGRAFIA
Le voci sono corredate da una bibliografia ristretta soltanto ai nuovi titoli introdotti. Per le abbreviazioni non sciolte
volta per volta nei riferimenti s’invita a consultare quelle presenti nelle note dei numeri precedenti.

PELLEGRINI – Pellegrini, G.B. Gli arabismi nelle lingue neolatine, 2 voll., Brescia: Paideia, 1972.
ROMANO-MILETTO – Romano A. & Miletto A.M. Argomenti scelti di glottologia e linguistica (2a ed.).
Torino: Omega, 2017.

inoltre a questa che GRADIT collega il significato di ‘individuo grassoccio’, simile a quella che in salentino pare
motivata da altri passaggi (v. dopo).
Romano A. (2019). “Vocabolario italo-salentino XV 71-76 (s¢iotta– futuro sal. – bbiava – bblu – cinifessa – (giam)marrucu)”. In
Presenza Taurisanese, a. XXXVII, n. 316 – nov. 2019, Taurisano, 10-11.

Vocabolario italo-salentino XV
s¢iotta – futuro salentino – bbiava – bblu – cinifessa – (giam)marrucu

71. Sal. s¢iotta ‘brodo’, secondo MANNO 19 (che la scrive sciotta, come VDS e altri; cfr. n. 83) “è la parte liquida,
brodosa di cibi cotti” e risale a lat. tardo gutta nel senso di gocciolare. Oltre al vocalismo incompatibile (ma v. dopo),
quest’etimo sembra inappropriato dato che la vc. presenta affinità con numerose altre diffuse in ambito romanzo ed è
testimoniata in forme simili già in lat. tardo (nel VI sec., cfr. TLFI; IEW I: 507, e in Rufo, V sec., cfr. BOVE-ROMANO).
Responsabile sembra essere fr. ant. jotte [SDL 247], fr. joute ‘bietola, ravanello’ [XII sec. TLFI] (con vocalismo simile
a quello di gutta) poi ‘stufato di verdure’ [XIII sec. TLFI]. La voce sal. è affine a cal. jòtta etc. (VDS 616) e friul. jòta
(DEDI jota) < ant. fr. jotte ‘stufato di verdure’, sp. jota ‘brodo di verdure’ < lat. tardo jŏtta/jŭtta ‘brodo’ d’orig. celt.
(cfr. tuttavia PELLEGRINI 353, che riporta il suggestivo ar. šatt/šawt ‘acqua stagnante, depressione salata’, nota nella
forma chott attraverso il francese, e GARRISI, che riferisce l’etimologia popolare da it. sciolta, incompatibile per via del
suono iniziale). Se, negli usi metaforici, s¢iotta può riferirsi all’acqua di mare quando presenti una temperatura
particolarmente confortevole, per molti salentini i legami tra i significati gastronomici delle diverse tradizioni romanze
potranno sembrare più stretti e l’ipotesi di un’origine celtica più calzante.

72. Il futuro nei dialetti salentini. Recentemente alcuni salentini si sono confrontati, in diverse sedi social, sul tema
dell’assenza del tempo verbale futuro nei loro dialetti. La discussione era stata originata da un anonimo (e in buona
misura sprovveduto) blogger che aveva osservato il fenomeno e presentato una sua ‘teoria’ a riguardo. Il fatto (non
teoria) è molto noto (G. Rohlfs ne tratta, ben oltre il VDS, nel secondo dei suoi tre volumi di Grammatica storica della
lingua italiana e dei suoi dialetti, v. ROHLFS §§ 590-592) e non è sorprendente per chi abbia conoscenze della
variazione linguistica. Molte lingue balcaniche fanno a meno del futuro. I tempi/sistemi verbali sono molto diversi.
Basterà forse segnalare che anche il greco moderno non ha un tempo futuro sintetico. Agli entusiasti, spesso abbagliati
da una visione microscopica e iper-selettiva, questo farebbe accendere subito la lampadina del "siamo greci"! La
constatazione potrebbe invece indurre il riconoscimento di una maggiore vicinanza anche col romeno, l’albanese etc. e
avvalorare il principio di scambi plurisecolari tra le due sponde dell’Adriatico. La condivisione di una stessa
caratteristica linguistica legata alla prossimità geografica è infatti studiata dagli specialisti nell’ambito della cosiddetta
“tipologia areale”. Sebbene il fenomeno sia visibile maggiormente in certe aree, occorre inoltre tener conto del fatto che
in diversi spazi romanzi, compresa tutta l’Italia meridionale, il futuro latino si è perso. Anche in italiano abbiamo
riciclato una forma perifrastica del tipo cantar ho (< CANTARE HABEO), cioè ‘ho da cantare’ (così come cantar hai,
cantar ha, cantar (av)emo, cantar (av)ete, cantar hanno). In sostanza forme come aggiu ccantare (in sal. proprio da
HABEO AD CANTARE, con ordine invertito rispetto a CANTARE HABEO, § 591) hanno assolto ampiamente alla funzione,
sebbene si sia imposto storicamente un aspetto deontico. Nel nostro spazio linguistico, oggi, infatti, questa struttura ha
assunto un valore più simile a quello di ‘devo cantare’ affiancando altre soluzioni del tipo ‘mi tocca cantare’ (ttocca
ccantu, v. n. 68), ed è questo forse il fatto più notevole.

73. Il grano: dal verde-blu al giallo sbiadito. In francese per ‘grano, frumento’ si usa comunemente blé. Qualcuno avrà
avuto occasione di sentire anche alcuni salentini più anziani usare una fonetica simile per indicare invece il colore ‘blu’,
il cui nome deriva anche in it. da fr. bleu, con una vocale oggi ben distinta1. Il concetto di ‘blu’, cioè ‘(grado di) celeste,
colore del cielo in condizioni di diversa luminosità’, non si è affermato da molti secoli (il GRADIT riconosce la prima
attestazione scritta di blu solo nel 1863, mentre quella di celeste risale al XIII sec. insieme a quelle di azzurro e giallo,
entrambe del 1276, laddove quelle di verde e rosso risalgono rispettivamente al 1313 e al 1321)2. PIANIGIANI e altri
autori riportano blu a forme dell’a.fr. di tipo blawu, a prov. blau e ad a.a.ted. blâo. In particolare il TLFi riconosce un b.
lat. blavus ricondotto a voci germaniche (benché esistesse un lat. FLAVUS che si riferiva a tonalità di ‘giallo’3). Partendo
da queste si sarebbero diffuse le forme m. blef e f. blève (ca. 1150, TLFi), superate da bleu (1577). Un trattamento
regolare di bl- e modalità di rafforzamento dello iato tra a e o avrebbero prodotto forme di tipo biavo (di antica
attestazione) o biado (di tutt’altro uso...). A questo riguardo, pur considerando opinioni autorevoli che suggeriscono
un’origine da ABLATA ‘raccolta’, si pensa che it. biada, così come forme regionali (sal. biava, simile a piem. e lomb.),
possano derivare da voci gallo-romanze risalenti a blad/bled (gall. blawd = farina, DAUZAT) all’origine di blé. Il fatto
che frumento e avena (=biada) siano cereali diversi ci può portare a un momento storico (e forse in aree geografiche
distinte) in cui ancora la differenza non era così marcata e voci di tipo blad potevano essere usate per indicare
genericamente sementi e grani di varie colture cerealicole (blé può designare anche la segale, DAUZAT). A rafforzare il
legame c’è ancora, sorprendentemente, it. sbiadito che viene spiegato come ‘smorto’, ‘(celeste) schiarito’, ‘pallido’ (a sua
volta legato a FLAVUS). I campi di grano (o segale o avena, a volte anche quella selvatica) nella stagione delle piogge
possono essere verdi e assumere sfumature di blu. Poi però sbiadiscono e, al momento della mietitura, sono ormai
ingialliti.

74. Sal. cinifessa si usa per indicare un fastidioso pappataci (Phlebotomus molestus e, v. anche COSTA, Phlebotomus
papatasi) affine, per habitat e abitudini, a una zanzara, e corrisponde anche a genufressa diffuso nel leccese
(scherzosamente: genufessa; cfr. GARRISI: “Zanzara comune, distinguibile dall’anòfele per l’addome arcuato in su,
sicché l’insetto sembra stare inginocchiato” [sic]). Le rimotivazioni possono essere varie (l’immaginazione popolare
può ben vedervi una postura genuflessa o rianalizzare nel nome un formante fessa). Tuttavia, non solo sono ben note e
individuabili diverse specie dell’insetto così designato, ma anche la sua somiglianza con insetti imenotteri del gen.
Cynips. Per questi è anche trasparente la vera origine del nome: < lat. scient. Cynips “dal tardo ciniphes nom. pl., nome
di una specie di moscerino, var. di sciniphes” (GRADIT). Nessuna genuflessione originaria, quindi, nel nome di
quest’insetto. La vc. risale al gr. κνίψ, attestato in alcuni autori come σκνίψ, -πός cfr. σκνίπτω ‘pungo’ (LSJ). Notiamo per
inciso che, tecnicamente, pur essendo ditteri nematoceri (come le zanzare, fam. Culicidae)4, le cinifesse appartenengono
alla fam. Psychodidae e si distinguono dagli insetti della fam. Cynipidae che sono, invece, imenotteri (come vespe, api e
formiche). Aggiungiamo un altro fatto notevole: sulla base delle fonti antiche, LSJ descrive κνίψ come predatore di ψήν,
cioè il nostro agaonide impollinatore di fichi (Blastophaga psenes), anch’esso anticamente classificato come Cynips psenes
(Linneo 1758)5.

75. Ai nn. 64 e 68 abbiamo trattato di vcc. che (come it. toccare, contatto, tacca, staccare e attaccare e sal. ttuccare e
zzaccare) si possono ricondurre a radici latine e germaniche collegate ai tipi lat. TANGERE e got. taikn / *taikka ‘segno’
(DEDI tàcca ‘segno’ e ‘incisione’). Ci eravamo dimenticati di trattare di sal. tàccaru ‘ciocco di legno’ che invece,
secondo VDS [728], procederebbe da germ. tak ‘ramo’. Il legame tra le voci è reso evidente anche dalle estensioni
metaforiche: nu tàccaru è un individuo molesto ma insignificante, così come può esserlo il tanghero in italiano6, e tra
attaccare (o intaccare) e tangere il contatto è assicurato. Lo stesso vale per taccaris¢iare ‘riempire di legnate’ (cfr. sp.
pegar ‘picchiare’ e ‘attaccare’).

76. Sebbene oggi sia sconosciuta al parlante comune, la vc. it. giamberlucco “ampia veste con cappuccio anti-pioggia”
ha una prima attestazione documentata in italiano anteriore al 1698 (GRADIT). La sua origine risale al turco yağmurluk
(yağmur = pioggia). Il suo significato di ‘cappuccio’ e la sua associazione con la pioggia ci fa pensare a quella specie di
bellissime chiocciole (la sottospecie salentina di Cornu aspersum / Helix aspersa) che designiamo (giam)marrucu.
D’altra parte l’allusione al cappuccio è ben testimoniata anche dal nome di un’altra specie: i famosi moniceḍḍu e
moniceḍḍa (Cantareus apertus, cioè quello che COSTA individua come Helix naticoides), il cui nome è in chiara
analogia con l’aspetto dei monaci e con la foggia del loro cappuccio. A questo punto la forma marrucu potrebbe essere
risultata da una falsa segmentazione (forse suggerita dall’esistenza di altre voci: marra, marruggiu...).

NOTE
1
L’insolita pronuncia *blè per bleu è normale per molti italiani che hanno difficoltà a rendere questo suono vocalico e
lo sostituiscono spesso con “e” (come accade ad es. per le parole tailleur, pronunciata come se fosse *tajèr, e banlieue,
come se fosse *banliè o *banlié).
2
Ovviamente molte di queste erano presenti in latino.
3
In realtà F per B rappresenta in generale l’indice di un trattamento tipico dell’osco (rispetto al latino).
4
Si noti che le mosche sono ditteri brachiceri (al pari di alcuni moscerini domestici non ematofagi).
5
Per le informazioni relative alle classificazioni entomologiche sono grato a Martino Romano (www.mantismartis.cloud).
6
D’altra parte anche toccato per matto è di uso comune per il GRADIT.

BIBLIOGRAFIA
Le voci sono corredate da una bibliografia ristretta soltanto ai nuovi titoli introdotti. Per le abbreviazioni
non sciolte volta per volta nei riferimenti s’invita a consultare quelle presenti nelle note dei numeri
precedenti.
ROHLFS – Rohlfs G. Grammatica storica dell’italiano e dei suoi dialetti, II. Morfologia, Torino, Einaudi,
1967 (ed. it. di Historische Grammatik der Italienischen Sprache und ihrer Mundarten, Vol. II.
Formenlehre und Syntax, Bern, Francke, 1949).
COSTA – Costa O.G. Vocabolario zoologico comprendente le voci volgari con cui in Napoli ed in altre
contrade del Regno appellansi animali o parti di essi, con la sinonimia scientifica ed italiana di
Oronzio Gabriele Costa. Napoli: F. Azzolino, 1846.
Romano A. (2020). “Vocabolario italo-salentino XVI 77-82 (nazzicare - rus¢iu - pos¢ia - pus¢i••u - francata - s¢is¢eri)”. In Presenza
Taurisanese, a. XXXVIII, n. 317 - gen. 2020, Taurisano, 11

Vocabolario italo-salentino XVI

nazzicare – rus¢iu – pos¢ia – pus¢iḍḍu – francata – s¢is¢eri

77. La molteplicità di voci salentine legate al verbo nazzicare/nazzecare/nazzacare ‘cullare,


dondolare’ ne testimoniano un uso prolungato e diffuso. VDS e DDS ne registrano varianti di forme
e significati senza motivarne l’origine (SDL l’annovera ingiustificatamente tra i derivati di naca,
con cui è semanticamente solidale; si pensi al modo di dire mannaggia a ḍḍa naca ca te nazzecau).
La parola è comune nell’area di Roma in riferimento a una persona che presenta un’andatura
oscillante o a un mobile con una gamba più corta (molti romani sono convinti che si tratti di una
voce tipica ed esclusiva). Secondo PIANIGIANI, che la descrive come voce senese (= ‘cincischiare,
gingillare’), ha lo stesso etimo di azzicare ‘muoversi minimamente’ (< *ACTIICARE < AGERE)1. Una
soluzione più convincente viene da DEDI (sotto nazzëcà, attestato con numerose varianti in tutta
l’Italia centro-meridionale) in riferimento a REW. Alla base ci sarebbe un latino parlato *naticare
‘nuotare, ondeggiare’ < NATARE con un probabile influsso di NAVIS (cfr. annazzicare in DEI e AIS).
Più che un legame col vello ovino con cui si confezionavano le culle (gr. νακή > naca), la vc. sal.,
come quelle affini di altre regioni, sembra relazionarsi con l’inclinazione di un’imbarcazione e
un’oscillazione tipica della navigazione.

78. Grazie al suo impiego in titoli e nomi di gruppi musicali del revival della musica tradizionale,
sal. rus¢iu ha una circolazione più ampia, in questi anni, delle altre voci equipollenti (rùs¢itu/a,
rùs¢iutu etc.; cfr. VDS). Se è suggestivo il mutuo richiamo tra forme simili di altre tradizioni (sic.
scrus¢iu e it. scroscio2, it. brusio e fr. bruit...), le attrazioni etimologiche e le distinzioni formali su
diversi piani, che pure fanno presumere confluenze parziali, suggeriscono ramificazioni a partire da
una base probabilmente riconducibile a lat. RŪGĪTU(M) ‘ruggito’. Questo sarebbe a sua volta legato
a basi onomatopeiche che riproducono il verso di animali (cfr. BETTINI). Tuttavia ad es. fr. bruit
viene ricondotto a lat. volg. *brūgĕre, risultante da una crasi tra *bragĕre ‘ragliare’ e RŪGĪRE.
RŪGĪTU(M) è infatti ritenuto più direttamente all’origine di ant. fr. ruit, rut ‘ruggito’ (LEROBERT,
TLFi) e sp. ruído ‘rumore’ (DRAE). Diversamente da queste forme e dall’it. brusio (che, pur
nell’incertezza, le fonti fanno risalire a un verbo apparentato con *brūgĕre, GRADIT), la voce sal. ha
però l’accento sulla sillaba iniziale, corrispondente a quella accentata di it. scroscio (e croscio).
PIANIGIANI associa quest’ultimo a fr. crisser (a. cruissir TLFi), sp. crujir, ted. kreißen e ingl. crash
(oltre che crush e crunch, v. OED) che paiono maggiormente collegati allo ‘stridere dei denti’ (e
che alcuni riconducono a voci germaniche di tipo *kraustjan ‘crepitare, strepitare, scricchiolare’). A
questo punto le vcc. sall. potrebbero essere legate a quelle dell’it. e del sic., che avrebbero aggiunto
un prefisso s- a una base di tipo croscio. In sal. il nesso iniziale cr- si sarebbe ridotto, come avviene
(regolarmente) in alcuni dialetti (cr-/gr- > r-, rite ‘crede’, ranu ‘grano’, rossu ‘grosso’...), e poi
diffuso anche in località dove cr-/gr- si conservano. Resta però il problema della lunghezza
consonantica: nella più tipica forma salentina rus¢iu, -s¢(i)- è scempio, e distinto da -sc(i)-, e deriva
generalmente da -G(I)-/-DJ-/-J- (v. nn. 70-71). Questo trattamento consonantico interno non esclude
neanche una derivazione da *brūgĕre, dato che br- > r- è attestato nell’area (lat. BRACHIU(M) >
razzu ‘braccio’, gr. βροῦχος > rùculu ‘locusta’). Tuttavia l’assenza di casi di conservazione (vrazzu
e vrùculu esistono, mentre *vrus¢iu non ha attestazioni3) ci fa preferire una derivazione da RŪGĪRE
che, anche secondo MANNO (6), sarebbe andato incontro a un cambiamento di coniugazione, >
*rūgere (rizotonica), generando forme nominali deverbali (a questo punto le varianti con cr- o con
scr- potrebbero essere derivate per ipercorrettismo e prefissazione frequentativa, senza bisogno
d’invocare ulteriori onomatopee).

1
La n iniziale sarebbe un elemento non meglio precisato (che dà anche naspo da aspo etc., così come sal. naspru in
origine ‘crosta di zucchero e albume montato’ < gr. άσπρος ‘bianco’).
2
Anche l’attrazione di struscio e striscio andrebbe valutata nel caso di quelle varietà in cui convivono questi termini.
3
La forma frusciu data da DDS con rimando a rus¢iu pare registrare una ricostruzione generata per confusione con
frusciu ‘diarrea’ di tutt’altra origine (< FLŪXU(M)).
79. Al n. 45 avevamo visto come la parola scarpa sia ricondotta a una voce originaria che la
descriveva come ‘tasca di pelle’. Il concetto di ‘tasca’ è generalmente molto interessante, in termini
di evoluzione tecnologica e di modalità di designazione, come prova anche la varietà di usi e parole
presenti anche in salentino. Ci soffermiamo qui sulla forma pos¢ia che trova un’indiscussa origine
in voci legate a fr. poche ‘tasca’ (VDS 495), ricondotte a loro volta al francone pokko (REW 6631) o
pokka (LEROBERT, TLFi)4.

80. Sal. pus¢iḍḍu, pur inevitabilmente attratto da pos¢ia, ha una specializzazione semantica (prima
che ‘taschino’, significa ‘manciata’) tale da lasciar pensare a una base latina indipendente:
PUGILLU(M) ‘manciata’ (VDS 517), dalla stessa base di it. pugile e pugno.

81. A proposito di ‘manciata’, sal. francata dimostra che tra i trattamenti previsti per br- iniziale (v.
n. 78) si afferma diffusamente anche fr- (altri ess. fricciu ‘breccia’, fras¢era ‘braciere’, frùsculu
‘bruscolino, animaletto, pagliuzza’). Si tratta quindi di un *brancata originario < lat. tardo
branca(m) ‘zampa di animale, mano avida’, forse di orig. gall. (GRADIT). Non molti ricordano che a
questo concetto si ricollegano quello di un originario sal. s¢iummeḍḍa, ancora oggi attestato nel
brindisino e nel tarantino (VDS, DDS), e l’it. giumella ‘concavità ottenuta giungendo insieme le
palme delle mani’ (GRADIT). La loro origine risale a lat. med. jumĕlla(m) < gĕmĕlla(m) dim. di
GĔMĬNA(M) ‘doppia’ (notare che la labializzazione di ĕ davanti a m è la stessa che si conserva nel fr.
jumeau ‘gemello’).

82. La stessa sostituzione s¢i- > s¢iu- vista al n. 81 per sal. s¢iummeḍḍa (e it. giumella; cfr. fr.
jumeau) è presente nelle oscillazioni di sal. s¢ius¢eri/s¢is¢eri la cui origine è facilmente
riconoscibile e ben documentata (RIBEZZO 29, REW 3760, VDS 621, DDS 384, DEDI sciscèri) <
GIGĒRIU(M) ‘ventriglio (stomaco di pollo etc.)’ (cfr. lat. class. GIGĒRIA/GIZĒRIA ‘interiora di
uccelli’), lo stesso che dà fr. gésier ‘id.’ (LE ROBERT).

BIBLIOGRAFIA

Le voci sono corredate da una bibliografia ristretta soltanto ai nuovi titoli introdotti. Per le abbreviazioni
non sciolte volta per volta nei riferimenti s’invita a consultare quelle presenti nelle note dei numeri
precedenti.

BETTINI – Maurizio Bettini (2018). Voci. Antropologia sonora del mondo antico. Roma: Carocci.
CRUSCA – Lessicografia dell’Accademia della Crusca in rete (www.lessicografia.it).
GARRISI – A. Garrisi (1990). Dizionario leccese-italiano. Lecce: Capone [online edition
http://www.antoniogarrisiopere.it/31_000_DizioLecceItali_FrameSet.html].
RIBEZZO – F. Ribezzo (1912). Il dialetto apulo-salentino di Francavilla Fontana. Martina Franca: Apulia
(appendici ai nn. 2-4 della rivista).
ROMANO – A. Romano (2009). Vocabolario del dialetto di Parabita. Lecce: Del Grifo.

4
L’origine di sal. sett. pauta/pòta, più che in *pauta ‘zampa’ (DEDI pàuta) o in un *palta dal significato di ‘fango’
(cfr. it. pantano e pattume v. REW 6177), va cercato nel longob. palta ‘cencio, straccio’ (REW 6153, VDS 460). da
questa potrebbe derivare patta, il risvolto esterno che copre le tasche o la striscia di stoffa che copre la bottoniera o la
cerniera lampo (zip) anteriore dei pantaloni. Quanto a it. cerniera, approfitto per ricordare che l’origine da lat.
*cardinaria, der. di CARDO, -INIS ‘cardine’ non può che essere stata mediata da fr. charnière (per via della
palatalizzazione).
Romano A. (2020). “Vocabolario italo-salentino XVII 83-84 (s¢iu••ecare - fràs¢etu/fràcetu)”. In Presenza Taurisanese, a.
XXXVIII, n. 318 - feb. 2020, Taurisano, 11.

Vocabolario italo-salentino XVII

s¢iuḍḍecare – fràs¢etu/fràcetu

83. Sul tema delle parole in disuso, una voce salentina piuttosto intrigante potrebbe aiutare a
spiegare sic. sciḍḍecari ‘scivolare’, attraverso lo stesso trattamento visto ai nn. 81-82. Si tratta di
sal. s¢iuḍḍecare (sciuddhrecare in MANNO 23, sciuδδecare in GARRISI, s¢iuḍḍacare in ROMANO). I
significati attribuiti dagli informatori e dalle fonti sono tanto vari da lasciar pensare a una
convergenza di voci di origine diversa, oppure a una forma originaria talmente antica e marginale
da essersi conservata attraverso una distinta progressiva evoluzione nei diversi punti. Il tratto
semantico dello ‘scivolare’ persiste ad es. nel significato di ‘serpeggiare, agitarsi del pesce’ (VDS,
ROMANO) e da qui forse ‘agitarsi, muoversi nel sonno’ (DDS, ROMANO)1. In effetti GARRISI ricorda
anche la sfumatura che assume nella descrizione di quel comportamento dei rettili consistente
nell’“uscire dal torpore, scuotersi, destarsi”, ma privilegia il significato primario di it. solleticare (e
sollecitare2). Al terzo significato, corrispondente a quello di it. vermicolare, si riferisce anche DDS
nell’esempio lu sule s¢iùḍḍeca li jermi (adattato) ‘il sole stimola i vermi’ a cui metaforicamente
rimandano anche altre spiegazioni da me ricevute da informatori dell’area gallipolina relative al
comportamento dell’acqua prima dell’ebollizione (cfr. MANNO 23 per il leccese). Siamo ben lontani
dallo ‘scivolare’ a cui volevamo arrivare e, infatti, le uniche ricostruzioni etimologiche disponibili
convergono proprio su questo specifico uso < EX-BULLICARE (MANNO 23 e VDS). Tuttavia questa
soluzione, restando poco convincente perché non tiene conto degli altri significati (forse di altra
origine), non spiega la presenza di quell’EX- e non giustifica le ragioni della sua comparsa (tarda)
dopo la caduta di B- (non universale nell’esteso spazio di attestazione di queste voci). Sono invece
suggestive le varianti presentate da REW 8756 alla voce titillicare ‘solleticare’ che offrono forme
come cal. zillicare e nap. cillicare3. Quest’ultima sembra semanticamente compatibile con il campo
del ‘sollecitare’ e con la forma sciḍḍicari, prevedendo la regolare corrispondenza ll > ḍḍ, ma
richiedendo l’assunzione di una deaffricazione iniziale per la quale occorrerà trovare conforto in
altri esempi (cfr. n. 84). Per giustificare, infine, il motivo per cui lo stuzzicare provochi poi uno
scivolamento possiamo pensare alla mediazione del significato di ‘innescare un movimento’.
L’oscillazione, il chinarsi l’una verso l’altra di persone sedute vicine, così come lo scivolare sinuoso
dei rettili, pur apparentabili tra loro, restano comunque distanti.
84. Anche se storicamente i dialetti salentini hanno sviluppato e mantenuto un suono di tipo /tʃ/
(cioè graficamente -c(i,e)-) in seguito alla palatalizzaione di -C- davanti a vocali anteriori (come in
it.: cicala < CICĀDA(M), centu < CENTU(M), luce < LŪCE(M)), un occasionale passaggio a /ʃ/ (cioè
graficamente -s¢(i,e)- e diverse altre soluzioni) si verifica più diffusamente ad es. in fràs¢etu per
fràcetu (< FRACĬDU(M) ‘fradicio’, come nel romanesco fràcico) e forse anche in parole più rare (rese
dubbie nelle loro attestazioni scritte proprio per via dell’incertezza grafica) come s¢iniscu per
ciniscu < gr. χηνίσκος ‘chenopodio (lett. ochetta)’ (cfr. DEDI cinìscu e DEI cinisco, v. anche n.
74)4. Il fenomeno è diffuso anche a Firenze e a Roma, ma non è universale in salentino, dove non ha
una datazione neanche approssimativa (uno studio filologico dedicato potrebbero documentarlo
meglio). In Salento è oggi particolarmente diffuso in quei dialetti dell’area salentina centro-
settentrionale, come quella leccese, che presentano una latente neutralizzazione dell’opposizione tra
/tʃ/ di oce/uce ‘voce’ e /ʃ/ di os¢e ‘oggi’ o us¢e ‘acerbe’ (ROMANO). In questi dialetti, in contesto

1
Restano vaghi e mal descritti altri significati come ‘ondeggiare nel sonno’ e ‘chinarsi di lato (per consultarsi con i
vicini in assise)’.
2
Si noti la sorprendente prossimità tra queste due voci tanto sul piano del significato quanto su quello del significante.
A riprova valgano anche altre due voci che compila GARRISI per la stessa famiglia lessicale: sciuδδecamientu
‘Solleticamento’ e sciuδδecata ‘Sollecitazione’.
3
La voce nap. cillicare è trattata, come ‘stuzzicare, solleticare’, dalla CRUSCA (proprio sotto dileticare).
4
Anche il contrario è possibile, nella pronuncia forse ipercorretta di alcuni informatori, in un numero limitato di casi:
valice ‘valigia’, cammace ‘bambagia’, ciuvanna ‘nome di un recipiente (Giovanna)’ [per inciso anche la damigiana (sal.
tammiggiana) è una dame Jeanne ‘signora Giovanna’]. In un sistema che privilegi una grafia etimologica, in questi casi
dovremmo ripristinare -s¢(i,e)-: valis¢e, cammas¢e, s¢iuvanna.
intervocalico, il primo assume correntemente una pronuncia (deaffricata) che porta alcune parole a
confondersi con altre con [ʃ] originario (derivanti da lat. -G(I,E)- o -DJ-). Il fatto si estende anche a
parole italiane e l’impressione che ne deriva, per il parlante con una scolarizzazione elementare in
questo campo, a Lecce come a Roma, è che ad es. una parola come prosciutto (localmente con [ʃ]
breve) “si pronuncia come se fosse scritta *prociutto” (da qui l’ampio uso di -c(i,e)- da parte di
blogger e utenti social in parole che non sanno scrivere diversamente)5. La questione è realmente
imbarazzante per la grafia da riservare a parole di tradizione e parole nuove (di solito prestiti
dall’italiano): in questi casi, infatti, un autore accorto, distante dalle aree urbane che gravitano su
Lecce, scriverà con -c(i,e)- solo parole di tradizione diretta e indiscussa (e alcuni italianismi più
evidenti come amicízzia, bbicicletta, ufficiu etc.) e con la soluzione adottata per [ʃ] le voci
patrimoniali (ad es. da lat. -G(I,E)- o -DJ-: tís¢itu ‘dito’ < DĬGITU(M), ottis¢iana ‘giorno feriale’ <
QUŎTĪDĬĂNA e i numerosi verbi in –is¢iàre, v. n. 71, o di origine più incerta come sal. rus¢iu, v. n.
78; cfr. nota prec.).

BIBLIOGRAFIA

Le voci sono corredate da una bibliografia ristretta soltanto ai nuovi titoli introdotti. Per le abbreviazioni
non sciolte volta per volta nei riferimenti s’invita a consultare quelle presenti nelle note dei numeri
precedenti.

ROMANO – A. Romano (2016). “Scrivere il dialetto: lo stile e la tecnica esemplari di N.G. De Donno”. In:
L. Giannone (a cura di), La poesia dialettale di Nicola G. De Donno, Lecce: Milella, 175-203.

5
L’esistenza in internet (ma temo ormai anche in opere a stampa di cultori locali) di forme con grafia del tipo *ruciu
per sal. rus¢iu (così come delle forme registrate nella n. prec.) può essere indice di un tentativo di urbanizzazione della
parlata in conseguenza di una perdita di distinzione fonologica nell’italiano dello scrivente (-c(i,e)- in italiano standard
vale /tʃ/). In molti casi testimonia quindi della scarsa sensibilità del parlante a distinguere l’esito dialettale da quello
italiano in termini di pronuncia e distribuzione (oltre che in considerazione della complessità culturale e storico-
linguistica). Se, infatti, si trattasse solo di trascuratezza e/o di mancanza di soluzioni grafiche di sicura disponibilità, si
scriverebbe tranquillamente rusciu (Questa è la soluzione razionale del VDS, che l’adotta – seguito ancora oggi da
molti – avendo avuto cura d’introdurre -šc- per la lunga).
Romano A. (2020). “Vocabolario italo-salentino XVIII 85-88 (vu••icu - pitch - login - cialde e cialdelle)”. In Presenza Taurisanese,
a. XXXVIII, n. 319 - mar./apr. 2020, Taurisano, 8.

Vocabolario italo-salentino XVIII


vuḍḍicu – pitch – login – cialde e cialdelle

85. Trattando di s¢iuḍḍecare per indicare il movimento di persone sedute vicine che s’inclinano
l’una verso l’altra si sarebbe potuto risalire alla vc. lat. ĪLLICŌ il cui significato orig. risale all’espr.
IN LOCŌ ‘nel luogo’ (v. GRADIT in loco). Questa lascia pensare anche a bilico e a bilicare < lat.
*(um)bĭlīcāre che si fa risalire a UMBILĪCU(M) ‘ombelico’, il baricentro simbolico del corpo umano
e – metaforicamente – la parte centrale o il perno di altri sistemi organizzati concentricamente. È
più probabile che alla base di bìlico ci siano direttamente bellìco e *bellicare, senza um-, mentre
ombelico è la continuazione (forse meno pop.) di UMBILĪCU(M). L’aferesi sembra infatti di antica
tradizione dato che le vcc. dialettali italo-romanze per ‘ombelico’, così come accade per la forma it.
bellìco (attestata sin dal XIII sec.) o il rom. pop. buric, raramente conservano la prima sillaba (um-).
Questa non è mai presente in sal. dove, per indicare l’ideale pivot del corpo umano, sono diffuse
solo forme compatibili con bellico, con iniziale sempre ridotta: piḍḍicu (VDS Aradeo e San Pietro
V., DDS e FANCIULLO Aggiunte Squinzano), viḍḍicu (VDS Galatina, DDS Brindisi), vaḍḍicu (VDS
Gallipoli, Parabita, DDS Gagliano d. C.) o vuḍḍicu (VDS Alessano e sal. mer.), iḍḍicu (VDS
Galatone, Vernole e sal. sett.) o eḍḍicu (DDS Lecce). Inoltre, sebbene sia interessante sul piano
semantico l’idea che ombelico possa risalire a UMBO(NE(M)) ‘umbone’, la parte centrale e
prominente dello scudo (GRADIT), è più probabile che si tratti di forme corradicali. Il cammino
derivazionale comporterebbe infatti alcuni passaggi dubbi, dato che si partirebbe da UMBO
(nominativo), presupponendo una suffissazione insolita (-ILĪCU(M)?), oppure da un accusativo + -
ĪCU(M), riduzione di -O- pretonica e dissimilazione di nasale. Benché comunque caratterizzata da un
suffisso aggettivale, è più verosimile che la base di UMBILĪCU(M) includa la laterale, in relazione
diretta con continuatori d’identico significato, come gr. ομφαλός e voci germaniche di tipo ingl.
navel o ted. Nabel1. Osserviamo inoltre come la discussa presenza di una vocale prostetica alterni
con la conservazione di una prima sillaba ridotta a nasale pura in alcuni dialetti, ad es. cat. melic
convive con llombrígol (che, come nel fr. nombril, presenta addirittura una sillaba iniziale in più,
prob. per agglutinazione dell’art., cfr. TLFI, ma forse per interferenza di lat. LUMBRĪCU(M)
‘lombrico’, per analogia con la forma del cordone ombelicare).
86. Più volte, ai nn. 28, 30 e 33-34, era emerso il legame tra voci attuali e antiche pratiche di
sfruttamento dei prodotti della raccolta e dell’abbruciatura della legna. In italiano sono osservabili
oggi, in settori specialistici diversi, attestazioni multiple di anglicismi introdotti attraverso filiere
differenziabili e in parte riconducibili a parole originariamente legate a quest’ambito. Prendiamo ad
es. ingl. pitch. Nonostante oggi si abbiano distinti prestiti in italiano (quasi sempre pronunciati
come se fossero peach ‘pèsca’)2, non è facile trovarne uno riconducibile a pitch ‘pece’ (almeno non
immediatamente e isolatamente; si pensi però al pitch-pine, legname da costruzione ottenuto da una
specie di pino). Si tratta invece più spesso di significati diversi, assunti progressivamente in inglese
per la polisemia di una base verbale omonima in cui si ritrovano i tratti di ‘fissare, assicurare,
inclinare’ e quelli di ‘lanciare, tuffarsi a testa in giù’ (da una vc. dell’ingl. medio usata per
‘spingere’ < a. ingl. picung), da cui deriva il nome usato per un tipico lancio nel gioco del baseball
(OED)3. Il primo pitch (se ne hanno attestazioni soprattutto negli anni ’20 del Novecento) è una
misura del passo degli ingranaggi, mentre poi si è affermato nell’uso in ambito linguistico
(dall’inizio degli anni ’90) – come se potesse dare informazioni più tecniche e precise, mentre in
realtà le dà solo più generiche – per indicare il tono di voce e l’altezza melodica che caratterizza il
parlato (anche in applicazioni tecnologiche, nel campo dei dialoghi uomo-macchina). Il tramite, in
inglese, è la terminologia musicale, in cui pitch indica proprio la tonalità. L’ultimo, più recente, è
usato primariamente in campo pubblicitario dove si usa per indicare un tipo di promozione di un
1
Allo stesso modo di lat. UMBŌ e gr. ἄμβων (LSJ), tutte risalirebbero a IE √*h3nobh- (IEW 314-315 *nebh-).
2
Di sal. picci ‘capricci’ abbiamo già trattato al n. 30.
3
OED rimanda ora a www.lexico.com (2 luglio 2019).
prodotto o di un’azienda, un lancio (ripensando al baseball). Data l’importanza accordata oggi alla
visibilità (all’insegna della precedenza alla forma rispetto al contenuto), la parola si è diffusa anche
nel campo dell’economia, partendo dal suo impiego in espressioni del tipo pitch sale (vendita per
mezzo di una propaganda agile, rapida e mirata) o elevator pitch (breve presentazione di sé stessi e
delle proprie attività che si può fare a uno sconosciuto nella breve durata di una corsa in ascensore).
Inutile dire che gli italiani hanno accorciato subito in pitch, che usano ora anche per indicare un
breve slot temporale di presentazione di un video promozionale o il video stesso, quello che un
tempo – solo qualche anno fa – sarebbe stato designato come demo o promo (o lancio?).
87. Sempre nello stesso ambito tematico (v. anche la vc. trattata al n. 1) ingl. log designa
originariamente un tronchetto di legno (un ciocco, nu tàccaru, v. n. 75). La parola, di uso comune,
passa a designare anche una tavoletta su cui si registrano i dati fondamentali della navigazione e poi
la trascrizione dei dati nel ‘giornale di bordo’, da cui assume il significato di ‘registro’ e, più
recentemente, ‘sistema di registrazione degli accessi’ (OED). Ma questa è la base di (to) log in/out e
dei nostri quotidiani login e logout! Anche in questo caso gli ingegnosi italiani non si accontentano
di introdurre un nuovo prestito: cominciano invece a usare produttivamente verbi come log(g)are,
per ‘fare il login’, e slog(g)are, per ‘fare il logout’. Passino ancora le varianti con la consonante
doppia, ma l’uso settentrionale di derivare senza geminare la finale della base lessicale (*snobare
per snobbare, *forfetario per forfettario), nel caso di sloggare, porta a un doppione con lo slogare
tradizionale. Quando in gergo informatico si legge o sente dire slogare, non si tratta più della voce
nativa che indica il cambiamento di sede di un’articolazione ossea (luogo), una slogatura (as. del
polso o della caviglia). Si tratta, invece, di un derivato per prefissazione da una base lessicale
inglese di tutt’altro significato:
“Se lascio inattivo il Mac per qualche tempo [...], mi va in stop e mi sloga l’utente in automatico”;
“se la sera metto a scaricare qualcosa di grosso che richiede qualche ora [...], mi ritrovo la mattina
dopo con il download fermo a metà e l’utente slogato” (www.hwupgrade.it/forum, 22/11/2018).

Le caviglie possono anche essere di legno e somigliare a tronchetti, ma quelle che qui si ‘slogano’
sono le ‘credenziali’ degli utenti (dei blogger, non *bloger!).
88. In italiano cialda ‘dolce di farina in fogli larghi e sottili (ostie) cotti per mezzo di uno stampo
arroventato’ è attestato nello scritto la prima volta nel 1449 (GRADIT, che però lo dà con etimo
incerto). Con DEI e PIANIGIANI, invece, lo riteniamo senz’altro derivato da fr. chaude ‘calda’, < lat.
CALIDA (REW 1506), con palatalizzazione di CA-, riduzione (e poi cancellazione) della vocale finale
e velarizzadione di -l-. La vc. può essersi definita in italiano per tramite di una resa dialettale ciàuda
con ripristino -u- > -l- (cfr. DEI). L’impiego nell’ambito del recente mercato dei preparati per la
ristorazione veloce dipende dall’estensione al campo dei medicinali; l’ostia era infatti usata per
confezionare compresse simili a quelle oggi usate per racchiudere le polveri solubili per la
preparazione di bevande calde (caffè, orzo). E tuttavia una radice simile potrebbe essere presente
nel sal. cialdeddha (come suggerisce nel caso dell’abr. lo stesso DEI, s.v. cialda). Questa vc.
designa un tipico piatto povero della tradizione salentina (e meridionale), anche noto come
cialeddha / cialateddha / ciateddha, preparato a base di pane raffermo bagnato con olio e pomodoro
(VDS 144 non registra cialdeddha, ma v. ROMANO 2009). Il nesso -ld- è testimoniato ancora oggi
anche dalla var. pugl. e luc. cialdèllë, mentre resta difficile spiegare gli esiti in cui compare -t-. Le
altre forme meridionali di tipo cialledda presentano un esito regolare da -LL- originaria nel suffisso
che è mutata regolarmente in -ḍḍ- (o -dd-) mentre -ll- della base lessicale presenta un’assimilazione
tardiva da -ld- (in un momento in cui ormai non si aveva più -ll- > -ḍḍ-). Sebbene oggi sia diffusa
una variante fredda del piatto, è la versione calda che accredita l’origine del nome, pur camuffata
dall’insolito esito CA- > cia-, prezioso indizio della provenienza gallo-romanza della voce originaria
(cfr. fr. mer. chaudel in DEI), in un momento in cui il pomodoro non poteva ancora figurare tra gli
ingredienti.
Romano A. (2020). “Vocabolario italo-salentino XIX 89-91 (gofri - sacciu e canuscu - razza strappina)”. In Presenza Taurisanese,
a. XXXIX, n. 320 - mag. 2020, Taurisano, 11.

Vocabolario italo-salentino XIX


gofri – sacciu e canuscu – razza strappina

89. In ampi spazi urbani dell’Europa settentrionale sono molto diffusi alcuni prodotti di pasticceria
dalla forma e dal nome variabile, ma riconducibili alle tipiche cialde (v. n. 88) che in Italia sono
conosciute con vari nomi: piem. gofri, abr. ferratelle o sic. cancellate. Se queste ultime voci
veicolano in modo trasparente un motivo ‘a cancello’ che li caratterizza, all’origine di gofri
troviamo un gaufre, associato a walfre e attestato in francese dal 1185, un prodotto di pasticceria
cotto tra due piastre con motivo in rilievo (TFLI). Ancora nel 1559 la voce si riferisce però a un
‘rayon de miel’ cioè alla tipica disposizione esagonale (e non quadrata) delle celle di un favo
(alveare). In a.b.francone si deve aver avuto infatti *wafla (cfr. neerl. wafel, REW 9475),
apparentato con ted. dial. wafe (cfr. ted. Wabe) ‘favo, reparto del miele’. Il fr. gaufre presenta il
rafforzamento w > g (tramite gw), anticipazione di l (galfle), dissimilazione l-r (galfre), e la
regolare velarizzazione di -l di coda sillabica. La sostituzione l>r, con metatesi, è invece all’origine
di ingl. wafer che dà un prestito doppio in italiano: quello di un noto prodotto dolciario industriale,
ancora con motivi a quadretti (dal 1905, GRADIT), pronunciato vàfer, e quello, più recente, talvolta
con pronuncia variamente anglicizzante (wé(i)fer), che si riferisce in elettronica a un ‘supporto
stratificato per la realizzazione dei circuiti integrati’. Si noti ancora l’analogia di FAVU(S) con ted.
Wabe, tenendo conto della produttività ancora vitale delle radici presenti in lat. FABRICA (e FABER
‘fabbro’) e got. bauan ‘fabbricare’ (> ted. bauen ‘costruire’).
90. It. so e conosco non corrispondono esattamente a sal. sacciu e canuscu. Riflettendo sulle sottili
differenzi tra sal. e it. insieme al collega G. Borghi, è emerso che talvolta per noi sacciu sta anche
per conosco, mentre canuscu è, più autenticamente, riconosco. Per le ricerche semantiche si parte
da BUCK 1208-1210, dove si sottolinea come molte lingue IE abbiano conservato la distinzione tra
un ‘aver visto’, un ‘sapere’ e (nella ricostruzione attuale) un ‘riconoscere’ (così esplicitamente LIV²
168-170) > ‘conoscere una persona’ (cfr. Bibbia dei Settanta). Sal. canuscu conserva dunque
un’intensione preistorica, mentre – insieme alla maggior parte delle lingue romanze – sostituiamo
SCĬŌ (che a sua volta aveva assunto in latino le funzioni di conoscere) con continuatori di SĂPĬŌ.
Queste voci sono interessanti da discutere insieme alle corrispondenti gk. tsero ‘so’ (ngr. ξέρω) e
nnoridzo ‘(ri)conosco’ (ngr. γνωρίζω < γιγνώσκω) e diverse voci dal significato di ‘vedere’,
‘guardare’ e ‘mirare’ (gk. torò ‘vedo’ < θεωρώ ‘considero’, ma na dì ‘che veda’, v. sopra)1.
Altrettanto interessante è il confronto con alb. di ‘so’ e njoh ‘conosco’. Infatti, mentre ngr. ξέρω è la
forma popolare di gr. med. ἠξεύρω ‘id.’, di risalirebbe a protoalb. dījă da una radice ‘considerare’
(IEW 243, LIV² 141-142). Le diverse aree semantiche e le restrizioni d’uso ci confermano quindi che,
oltre a permetterci di ritrovare uno spirito latino e greco, le nostre espressioni conservano talvolta
distinzioni più antiche che condividiamo con altri gruppi IE. Ciò accade quando diciamo ad es. No’
sta’ tte canuscu / Nu’ tte sta’ ccanuscu ‘non ti sto riconoscendo’ oppure La sacciu bbona [ddha/quira
(c)ristiana] ‘la conosco bene [quella donna]’.
91. Numerose proposte autorevoli sono state avanzate per ricostruire l’affermazione di it. razza e di
voci simili in altre lingue europee. Per le fonti nazionali, in seguito a una scoperta filologica di G.
Contini (1959), sembrerebbe oggi accertato che l’etimo siano voci antiche del fr. (che si dànno per
derivate da una radice scandinava): haras o haraz ‘allevamento di cavalli’ (GRADIT, BOLELLI,
DELI). PARENTI 198 accredita l’esempio come un caso di “etimologia trovata”, dato che – come
riassume L. Leonardi – “Fino agli anni Cinquanta prevaleva l’ipotesi che derivasse dal latino
generatio (Salvioni, Meyer-Lübke), o dal latino ratio (Canello, Prati, Spitzer): termini astratti, che
evocavano il significato di ‘stirpe’ o addirittura di ‘ragione’” (v. “Le parole hanno un peso”, su
accademiadellacrusca.it). E però, ancora sulla scorta di Merk (1969), nessuna fonte francofona
(DAUZAT, LE ROBERT, TLFI) accredita *haraz nel caso di race. Scavando nelle attestazioni letterarie
anteriori al XV sec. citate da TLFI (e CNRTL) non si ritrova una voce simile (che sarebbe invece nei
Faits des Romains del XIII s.): per gli specialisti francofoni la procedenza è dall’italiano razza!
1
Si noti che ‘guardo’ è in gk. kanonò (che si confronta con bov. kanunào e κανονέω dei dialetti ngr. epiroti, VDS 908).
Anche le fonti spagnole (DRAE) e inglesi (OED), pur risalendo talvolta a un tramite francese,
menzionano sempre un’origine che non esclude un ruolo determinante dell’it. razza2. E tuttavia,
proprio sotto la vc. haras, TLFI registra fonti (attorno al 1160) in cui la voce indica allevamenti di
animali (ma arriva a menzionare perfino gli haras humains dei nazisti). L’origine è qui imputata
all’a. scand. hârr ‘dal pelo grigio’, ma non si fa menzione dei contributi di Sabatini (1962) e
Coluccia (1972) che hanno documentato ulteriormente quest’origine attraverso le traduzioni di
documenti che avevano haras e hanno in italiano arazzo, razzo e razza (o ancora aracie di
documenti latini in cui così si chiamano particolari allevamenti equini che gli angioini avevano
introdotto nel Regno di Sicilia). Resta tuttavia la possibilità che a queste voci si sia giunti con la
mediazione di altre lingue che continuavano forme apparentate con lat. RĂTĬŌ ‘categoria, specie’.
Come suggerisce Guido Borghi, questo si confronta infatti anche “nel celtico *rātiā” che può aver
dato gallese rhawd f. ‘grande numero di animali o di persone’. Il tramite francese race [ras] o prov.
rasso (f.) (che spiega il metaplasmo di genere) giustificherebbero infine l’affermazione nelle parlate
settentrionali di rassa e questo è compatibile con l’esito [ts] dell’italiano (dove [dz] resta nel nome
della razza, pesce, < RAJA o RADIA). Venendo a noi, sorprende la forma sic. razzina (REW 3732)
‘stirpe (reale)’ che risponde a fr. racine ‘radice’. Il suffisso di questa forma richiama quello di sal.
strappina di solito associato a razza in tipiche espressioni del tipo la razza, la strappina, la
strappinazza ‘tutta la parentela diretta e collaterale’ o a sal. strazza ‘parenti di parte materna’
(FANCIULLO Aggiunte 35; cfr. strappigna s.v. strippazzione). Per queste voci salentine siamo in
dubbio se ricercare un etimo da stirpe ‘discendenza’ (lat. STĬRPE(M) ‘radice’, GRADIT) o da basi
verbali del tipo ‘lasciare senza discendenza’ (lat. EXSTĬRPĀRE, cfr. DEDI stèrpa ‘sterile’, v. n. 125).
Nel primo caso dovrebbe esserci stato però un tramite di tipo *stirpina (stirpigna è testimoniato in
dialetti salentini settentrionali; cfr. VDS 703). L’ipotesi di un’alterazione aggettivale suggerisce,
infine, l’idea che polirematiche del tipo razza strappina possano aver rafforzato la specializzazione
semantica di *rātiā e dei suoi continuatori, ma l’ipotesi non è documentata dalla diffusione di voci
simili in altre parlate.

BIBLIOGRAFIA
Le voci sono corredate da una bibliografia ristretta soltanto ai nuovi titoli introdotti. Per le abbreviazioni
non sciolte volta per volta nei riferimenti s’invita a consultare quelle presenti nelle note dei numeri
precedenti.
BUCK – Buck C.D. (1949). A Dictionary of Selected Synonyms in the Principal Indo-European Languages. A
Contribution to the History of Ideas, Chicago: University of Chicago Press.
Coluccia R. (1972), L’etimologia di razza: questione aperta o chiusa?, Studi di Filologia Italiana, XXX, 325-
330.
Contini G. (1959). “I più antichi esempî di «razza»”, Studi di Filologia Italiana, 17, 319-327.
IEW – J. Pokorny (1959). Indogermanisches etymologisches Wörterbuch. Bern-München: Francke.
LIV² – Rix H., Kümmel M., Zehnder Th., Lipp R. & Schirmer B. (2001). Lexikon der indogermanischen
Verben (LIV: Die Wurzeln und ihre Primärstammbildungen. Unter Leitung von H. Rix und der Mitarbeit
vieler anderer bearbeitet von M. Kümmel). Wiesbaden: Reichert (2a ed.).
Merk G. (1969), L’étymologie de race. Rapports entre generatio, ratio et natio, Travaux de linguistique et de
littérature, VII (1), 177-188.
PARENTI – Alessandro Parenti (2016). “Percorsi dell’etimologia”. Atti del Sodalizio Glottologico Milanese,
vol. IX, n.s. 2014 [2016], Alessandria: Dell’Orso, 197-203.
Sabatini F. (1962), Conferme per l’etimologia di razza dall’antico francese haraz, Studi di Filologia Italiana,
XX, 365-382.

2
Questo era sostenuto da REW 3732 che, pur menzionando anche ar. ras o râs ‘capo, origine’ (cfr. PIANIGIANI) e
un’intermediazione dello sp. raza, considerava primaria l’ipotesi di un’aferesi di GENERATIO (> (gene)ratio).
Romano A. (2020). “Vocabolario italo-salentino XXI 97-100 (mmattulatu - maccarruni - murga - nnargiare - zzumpare)”. In
Presenza Taurisanese, a. XXXVIII, n. 322 - ago.-sett. 2020, Taurisano, 9

Vocabolario italo-salentino XXI


mmattulatu – maccarruni – murga – nnargiare – zzumpare

96. Sal. mmattulatu sta per ‘affranto, depresso...’ (cfr. mattulatu in DDS 225) e, escludendo legami
con mmàttere ‘introdurre’ (v. n. 121), si può supporre legato a màttulu “grosso batuffolo;
pennecchio di lana o di cotone da filare a mano” (GARRISI). Per questa vc. VDS 327 dà soltanto
attestazioni letterarie (nel senso di ‘batuffolo di lana da filare’), ma è possibile che rientri, come il
sic. màttulu ‘manipolo’, tra i derivati di lat. tardo matta(m) ‘stuoia’ (> ‘mazzo, schiera’ REW 5424),
in un senso più ampio ‘riunione di fibre’ (che spiegherebbe anche srd. màttulu ‘mazzo di fiori’)1.
Compatibilmente con l’introduzione storica della coltivazione del cotone e con la sua procedenza
dall’Oriente, è suggestiva la possibilità di ritrovare ant. ind. mahát-tūlam ‘cotone grosso, spesso’,
con dileguo (neo)latino di -h-, e mātulī ‘canapa’. Tuttavia, il reconstrutto IE, come spiega G. Borghi
(com. pers.), potrebbe essere una formulazione riassuntiva del tipo *m(ă)hₐk-tĕ-lŏ-s, con elementi
che ritroviamo in lettone màkt ‘tormentare, opprimere, tribolare, incalzare, assalire (di sorpresa),
dominare’ (la stessa radice si ritrova forse in lat. MĀCĔRŌ [ma anche da ¹√*măhₐk- ‘bagnare,
inumidire’, IEW 698] e nell’it. ammaccare, < *macca, GRADIT) < IE *măhₐk-tĭ ← ²√*măhₐk-
‘premere, spremere, impastare, ammaccare’ (IEW 698), quindi màttulu < *mactŭlŭ < *măhₐk-te-lo-s
‘un po’ oppresso’. Vedremo che maccare per ‘impastare’ tornerà alla vc. n. 97, ma qui ci serve per
ritrovare in sal. mmattulatu un senso originario di ‘battuto’, per indicare la condizione in cui si trova
un individuo: un passato che ci aveva tramandato fino a tempi non lontani antiche pratiche di
trattamento di fibre vegetali ci trasmette ancora metaforicamente il loro nome.

97. Sal. maccarruni si distingue da it. maccheroni per piccole variazioni fonologiche. Per la vc. it.
DELI III 694 propone un’origine da maccare ‘impastare’ (v. n. 96). LEROBERT, per la voce fr.
macaroni che entra in francese come prestito dall’italiano, ma anche per quella più tradizionale,
macaron, che designa un tipico dolciume simile al nostro amaretto, risale invece a un impasto a
base di farina di fave, un presunto macco, che ritroviamo in una minestra di fave dell’Italia centro-
mer. (GRADIT).

98. Succede che alcuni venditori (o prestatori di servizi) ambulanti salentini credano di migliorare la
propria immagine riciclando registrazioni dei loro annunci da altre regioni (un noto tormentone
mediatico è nato dal politically incorrect “donne! è arrivato l’arrotino...” che ha sostituito il
tradizionale mmulafòrbici/mbulafòrfici). Nell’estate 2019 ho potuto sentire un raccoglitore di olii
usati circolare con un annuncio che ricorreva a una non meglio identificata ?mòrica. Data l’assenza
di menzioni di questa forma nelle fonti dialettali locali, ho dedotto che dovesse trattarsi di una vc.
esotica, forse iperarticolata, non italiana, per sal. murga ‘morchia’. Di questa voce si è occupato
D’ELIA che riporta amorga ‘feccia dell’olio’ < lat. AMURGA < gr. ἀμόργη cfr. sal. (galatinese)
murga, simile a bovese, calabrese, siciliano e a nap. mòrva (in riferimento a DEI IV 2507, REW 433
e VDS 371; per la foma greca cfr. LSJ s.v.). Alle pp. 316-317, distingue le due forme latine AMURCA
e AMURGA ascrivendo solo quest’ultima all’Italia centro-meridionale (è invece GRADIT che spiega
it. morchia < *amŭrcŭla(m), dalla forma AMURCA attraverso l’etrusco). Quanto alle forme con o in
Salento, VDS 371 menziona soltanto attestazioni letterarie di mòrga e mòrja nel brindisino e nel
tarantino, mentre DDS 248 le testimonia anche per Manduria, Sava e Oria. La parola presente in
quest’annuncio è forse una corruzione di una di queste. È, quindi, solo grazie al contesto e alla
precisazione ‘olio forte’, che l’ambulante in questione può chiarire i suoi intenti annunciati
ricorrendo a una registrazione così poco comprensibile nel Salento centromeridionale, dove avrebbe
fatto meglio a dire morchia, rivolgendosi all’italiano, oppure continuare a dire murga.

99. Sal. nnargiare (nn- in VDS 414, DDS 271 e MANNO 23) è un verbo verosimilmente in uso da
molti secoli. Da ben prima, quindi, che venisse impiegato in quell’ambito scolastico (più che
lavorativo) in cui oggi sembra dominare secondo le fonti (la vc. nargiare, italianizzata con n-,
risulta anche tra le risposte date da salentini all’it. marinare la scuola nel recente sondaggio
ALIQUOT). Nei secoli, dev’essere stato un modo usato per indicare l’assentarsi dal lavoro e infatti
MANNO 23 lo spiega per mezzo di un’evoluzione (irregolare) da un lat. *inertiare (< INERTIA), cioè,
in origine, restare inerti (con gli arti inoperosi)2. Di un altro potenziale candidato, il lat. *naricare
‘prendersi gioco, deridere, prendere per il naso’ (< narīce < NARIS ‘narice’, che è alla base di fr.
narguer e interferisce con l’etimo di narquois ‘soldato, disertore’, cfr. LEROBERT, TLFI) si potrebbe
tener conto solo in considerazione di una palatalizzazione di C (e della sincope di I) che può aver
avuto luogo in dialetti gallo-romanzi (e poi portata qui successivamente, con un’ulteriore rara
sonorizzazione -rc(i)- > -rg(i)-, necessaria tuttavia anche nel caso della prima ipotesi).

100. Per i salentini zzumpare ‘saltare’ ha una z sorda iniziale (lunga, naturalmente) (VDS 846, DDS
513) e infatti MANNO 19 la riconduce a un ipotetico tombare ‘cadere’ (cfr. lat. volg. *tumbare per fr.
tomber ‘cadere’, LE ROBERT). Per via della sua più ampia diffusione sovraregionale una vc. di tipo
zompare è presente anche nei dizionari italiani (GRADIT, Garzanti, Treccani, Bolelli) ed è
inspiegabilmente data come onomatopeica sebbene abbia una sorprendente corrispondenza con voci
molto simili di altre lingue. Soprattutto nella sua forma alto-meridionale, con una z sonora, la vc. è
compatibile con gli esiti sonori di ingl. jump, benché anche questo sia dato oggi occasionalmente
come onomatopeico (OED, LEXICO). In opere dell’Ottocento era stato invece individuato un insieme
di voci germaniche congruenti che vanno da sv. gumpa a ted. gumpeln (SKEAT) e che avrebbe potuto
essere messo in relazione con sardo giampu ‘salto’ e camp. giumpai ‘saltare’ per i quali si
proponeva lat. *iumpare (a cui rimandano alcuni autori; v. Carnoy 1917, che menziona anche nap.
dzumba [sic], una voce recentemente riciclata, con significati specialistici, da scuole di ballo
“latino”). Infine, le forme invocate per spiegare l’origine di sp. zopo, zompo e di cat. sompo
‘claudicante’ (DRAE zopo ‘tonto’, DeChile s.v. zopenco) ci mettono sulla stessa pista di it. zoppo,
anche questo di etimo incerto, sebbene le consonanti sorde iniziali ci riavvicinino alle forme
salentine, verosimilmente più antiche, che riassestano i presunti etimi di cui sopra, relegandone i
diversi continuatori tutt’al più al rango di varianti interferite.
1
Per inciso, questa vc. latina – ancor più la sua versione al maschile, qui più interessante – è la stessa che si
ritiene all’origine di vcc. iberiche del tipo mato ‘bosco’ (si pensi al brasiliano Mato Grosso).
2
It. inerte, così come imberbe, inerme, inetto etc. (ma ricordo anche dodicenne, millennio etc.), presenta una
e al posto di A originario a testimonianza di un processo di apofonesi già presente in latino per queste voci
(ma anche nella coniugazione di alcuni verbi CAPIO/CEPI, FACIO/FECI). La a di nnargiare dipende invece
dalla tipica alternanza -er-/-ar-, all’origine di numerose distinzioni tra fiorentino e altri dialetti toscani e
romanzi (si pensi a margherita < MARGARITA e a oscillazioni sincroniche del tipo sternuto/starnuto o
panzerotto/panzarotto, per le quali il salentino risponde sempre preferendo -ar-, v. n. 200).

BIBLIOGRAFIA
Le voci sono corredate da una bibliografia ristretta soltanto ai nuovi titoli introdotti. Per le abbreviazioni non sciolte
volta per volta nei riferimenti s’invita a consultare quelle presenti nelle note dei numeri precedenti.

ALIQUOT – Atlante della lingua italiana quotidiana – I 2014 (a cura di Fabio Tosques e Michele
Castellarin) [www.atlante-aliquot.de].
Carnoy A.J. (1917). “Apophony and Rhyme Words in Vulgar Latin Onomatopoeias”. The American Journal
of Philology, 38(3), 265-284.
DeChile – Diccionario etimológico español en linea (etimologias.dechile.net).
D’ELIA – D’Elia M. (1959). “Cenni sul problema del bilinguismo greco-romanzo nel territorio galatinese
(Terra d’Otranto) nel Quattrocento”. Studi Salentini, VIII, 316-317.
SKEAT – Skeat W.W. (1888). An etymological dictionary of the English language, Oxford: Clarendon Press.
Romano A. (2020). “Vocabolario italo-salentino XXII 101-105 (pistola e fucile - smommulare - scuttare - distinzione tra [ts] e [dz]
- zziu e zzangune - brezza e frizzante)”. In Presenza Taurisanese, a. XXXVIII, n. 323 - ott. 2020, Taurisano, 9.

Vocabolario italo-salentino XXII


pistola e fucile – smommulare – scuttare – distinzione tra [ts] e [dz] – zziu e zzangune – brezza e frizzante

101. La vc. it. (e sal.) pistola risale indubitabilmente al ceco píšt’ala ‘canna, tubo’, ma è interesante
notare come fosse già presente nell’it. del XVI sec. col significato di pugnale (GRADIT, 1574,
attraverso fr. ant. pistole e ted. Pistole). Nella stessa famiglia semantica, troviamo poi it. pop. sal.
fuggile il quale altro non è che l’it. fucile. La vc. deriva da un’espressione che sarebbe stata in lat.
(PETRA(M)) FOCĪLE(M) ‘(pietra) da fuoco’ (< di FOCUS ‘fuoco’), ma che si è affermata in epoca
moderna dapprima nel sintema archibugio a fucile e che poi si è ridotto a fucile, per quella nostra
abitudine di ridurre le espressioni complesse in altre più ‘economiche’. Si pensi a quando oggi la
vittima di un incidente o di un torto “chiede i danni” (non chiede evidentemente un ‘danno’, ma un
‘risarcimento di danni’) o ancora quando un giornalista in uno studio radio-televisivo ‘riceve
un’agenzia’ (dicendo in questo modo, il parlante dà per scontato che l’ascoltatore non immagini
l’arrivo di un’intera ‘agenzia’, fatta di persone, scrivanie, PC etc., ma soltanto di un
‘comunicato/dispaccio d’agenzia’). Ecco quindi perché semplicemente fucile. Tornando, invece, agli
usi salentini, pensiamo a fuggile, in cui si può forse vedere un malapropismo suggerito dell’attrazione
di it. fuggire: la proiezione del parlante (con la deaffricazione descritta al n. 85) potrebbe dipendere
dalla considerazione: “se dial. fus¢ire corrisponde a it. fuggire, fus¢ile corrisponde a fuggile?”.
102. Sal. smommulare/mmommulare ‘scervellarsi’ sono voci ignorate dalla maggior parte dei
vocabolari dialettali (mancano persino in VDS e DDS). L’unica analogia utile pare quella con sic.
smummuriari ‘parlottare, sparlare’ forse legato a it. mormorare (<lat. MŬRMŬRĀRE, der. di MURMUR
‘mormorio’, forse onomatopeico, GRADIT). L’origine potrebbe essere l’impressione di mormorio
sordo della mente pensante, ma la -l- e il vocalismo delle varianti salentine lasciano pensare ad
altro. In diversi dialetti, infatti, l’infinito e i verbi con desinenza accentogena conservano la vocale
media delle forme delle persone singolari (smòmmulu, -i, -a) perché l’accento secondario determina
due piedi giambici, dandoci elementi per credere che si tratti di una parasintesi e che la base da cui
partire sia *mòmmulu. Questa, a sua volta, come m’invita a considerare il collega Giovanni Ronco,
pare conservare una forma sistolica (cioè con accento ritratto) del gr. βομβύλη ‘recipiente di
terracotta dalla bocca stretta’ alla base tanto nel sal. (u) mmile/mbile (v. n. 5) quanto dell’it. bombola
che presenta appunto un’anticipazione dell’accento (cfr. sal. sett. mùmmulu e sic. bbùmmulu, v. AIS
969). Non dimentichiamo il contributo che potrebbe aver dato, nel nostro caso, l’interferenza di un
lat. BŎMBU ‘rombo, ronzio’ (GRADIT). La motivazione sarebbe, alla fine, anche in questo caso una
sinestesia tra l’attività mentale e il rimbombo dei liquidi contenuti nel recipiente mezzo vuoto.
103. Sal. scuttare ‘svuotare da depositi liquidi, raccogliere liquidi dal fondo di un recipiente (o di
un’imbarcazione), bere fino all’ultima goccia’ si collega inevitabilmente a it. sgottare e aggottare.
All’origine delle vcc. sall. VDS 639 suggerisce *exguttare, senza precisare quale sia la base
originaria. Seguendo i principali dizionari etimologici, GRADIT risale invece a lat. GŬTTU(M) ‘vaso
molto stretto’ (“forse dal gr. kōthōn”(?)1). Soprattutto nell’ultima accezione, insieme a PARLANGELI
99, noi pensiamo invece che all’origine ci sia lat. GŬTTA ‘goccia’ e che nella derivazione possa
essersi definito un significato simile a quello di it. sgocciolare. E d’altra parte aggottare presenta
una forma che può essere stata influenzata da fr. égoutter, corrispondente a sgottare. Le fonti
(LE ROBERT, TLFI) in questo caso non hanno dubbi: si tratta di derivati da fr. goutte che vale proprio
‘goccia’ e questo procede senz’altro da lat. GŬTTA.
104. L’ultimo secolo ha portato una certa confusione nella distribuzione dei suoni [ts] e [dz], la cui
distinzione è stata opacizzata dall’ortografia italiana (spazi, pazzi, con [ts], e azoto, azzurro, con
[dz]): le voci dialettali ne hanno risentito meno (proprio perché solitamente non scritte), ma
qualcosa ha cominciato a confondersi anche nel salentino. Alcuni dialetti possono distinguere
agevolmente numerose coppie (che sarebbero pericolosamente omografe adottando la
sottospecificazione italiana) puzzu ‘pozzo’ e puẓẓu ‘polso’ (pusu), fazza ‘faccia (cong. pres.)’ e
faẓẓa ‘falsa’ (fàusa etc.) o cazzi ‘schiacci’ (o ‘membri virili’) e caẓẓi ‘calzoni (pantaloni)’ (càusi,
càvusi, cosi)2. In italiano – in pratica – si ha generalmente [dz] nei grecismi (ζήλος > zelo), in molti
esotismi (es. azzardo < ar. az-zahr ‘il dado’, azzurro < pers. lāžūrd ‘id.’, belzebù < ebr. ba`al zəbūb
‘signore delle mosche’ etc.) e parole di altre lingue che prevedevano [z] (cioè lo stesso suono
presente in parole come it. asma, slego, sbaglio) e hanno ricevuto una resa rafforzata (si pensi ad es.
a Gaza (top.) pronunciato come it. gazza ‘pica’). Più regolarmente si ha [dz] dal latino D(+J) (orzo <
HORDEU(M), pranzo < PRANDEU(M) o verziere < VIRIDARIU(M), attraverso fr. ant. vergier). Si ha
invece [ts] in continuazione di suoni sordi di altre lingue (es. zanna < long. *zan ‘dente’, cfr. sal.
sanni, o zuppa < got. *suppa ‘pane inzuppato’ etc.) o, più spesso, di sorde latine: da -T(+J)- (si pensi
a terzo, < TĔRTĬU(M), o stanza, < *stantia) o da -S- (si pensi a zolfo, < SULPHUR, o danza, che si fa
risalire al fr. danser3). Sal. zziu (o, talvolta, zzu, nella sua forma proclitica), allo stesso modo di it.
zio, deriva da lat. tardo thīu(m) ‘id.’ cfr. gr. θῇος ‘divino’ e ha quindi [ts] (come tradizionalmente in
it.). Allo stesso modo, sal. zzangune, < lat. SONCHU(S) ‘sonco’ (citato da Plinio), risale a gr. σόγχος
(citato da Teofrasto, cfr. anche ven. zonco), e mantiene la sorda in molti dialetti (VDS 836, LEXROM
72). I dialetti in cui si dice invece ẓẓangune / ẓẓangone mostrano la stessa sorprendente oscillazione
presente sull’iniziale nelle varianti dialettali elleniche moderne (v. Δημητράκης 2001) che – spesso
con accentazione compatibile con le forme salentine – prevedono infatti τσόχος e σφογκός, insieme
al più comune ζοχός.
105. Tra gli altri esiti più intriganti con [ts] e [dz], ne ricordo due in particolare. Il primo è quello di
it. brezza, che trova riscontro nel fr. brise e nell’ingl. breeze, entrambi con [z] sonora, e conserva,
quindi, una pronuncia tradizionale con [dz]4. Il secondo è quello di frizzante, comunemente fatto
risalire a lat. *frĭctīāre (intens. di FRIGĔRE “friggere”, GRADIT), che non spiega la diffusione di una
pronuncia di tipo [dz], compatibile con quella del più recente verbo frizzare, calco dall’inglese,
diffuso tecnicismo nel campo cinematografico (to freeze ‘congelare (un’immagine), fermarsi su un
fotogramma’)5. Come in altre occasione, mi viene in soccorso l’amico G. Borghi che mi suggerisce
due distinte soluzioni: “frizzante, detto dell’acqua è dal lat. *frictiantem ‘sfregolante’” (con [ʦ]),
mentre, riferito all’aria frescolina, dipenderebbe da lat. *frigidiantem (con [ʣ]).

NOTE:
1
Si ritiene comunemente che il κώθων sia una borraccia da viaggio, ma non è affatto sicuro che sia esistito
veramente un vaso greco con questo nome (Lazzarini 1974-75: 365-366).
2
Buona parte del Salento meridionale ha però innovato ad es. adottando menzu, menza etc. ‘mezzo/a etc.’ (anche
in composti come menzatìa ‘mezzodì’) vs. i più etimologici menẓu, menẓa ottenuti per dissimilazione (v. anche n.
69) da MEDIU(M).
3
Quest’ultimo, secondo TLFI e DAUZAT, risale a un francone *dintjan (> glr. *dintjare).
4
It. brezza si riconduce a cat. brisa, con l’influsso di olezzo, entrambi con sonore (olezzare < lat. *olĭdĭāre,
var. di OLIDĀRE, da. OLIDUS “che ha odore”, GRADIT).
5
OED (→ LEXICO) stabilisce una procedenza dalla stessa radice IE. di lat. PRUĪNA ‘id., sottile strato di cera
che riveste alcuni frutti (o verdure)’ cioè *preus (IEW 846). Cosciente delle difficoltà che pone lo “zz sonoro
di questa anzi che sordo”, PIANIGIANI esclude numerose voci proposte dai linguisti dell’epoca e si orienta
verso un FRIXUS, p.p. di FRIXARE. Anche GDLI, come altri dizionari (GARZANTI o BOLELLI), dà solo voci con
z sonora ma le riconduce a lat. *frictiare che darebbe una sorda (v. sopra).

BIBLIOGRAFIA
Le voci sono corredate da una bibliografia ristretta soltanto ai nuovi titoli introdotti. Per le abbreviazioni non sciolte
volta per volta nei riferimenti s’invita a consultare quelle presenti nelle note dei numeri precedenti.
GDLI – Battaglia S. (& Barberi Squarotti G.) (a cura di) (1963-2001). Grande dizionario della lingua
italiana, Torino: Utet (versione online www.gdli.it).
Δημητράκης Κ. (2001). Άγρια φαγώσιμα χόρτα, Αθήνα: Καλλιεργητής.
Lazzarini M.L. (1974-75). “I nomi dei vasi greci nelle iscrizioni dei vasi stessi”, Arch. Class., 25-26, 341-375.
Romano A. (2020). “Vocabolario italo-salentino XXIII 106-112 (sanu - nzìpitu - pòsima - ssaddare - scoprire - (ca) poc(c)a /
men••u - cucuzza)”. In Presenza Taurisanese, a. XXXVIII, n. 324 - nov.-dic. 2020, Taurisano, 9.

Vocabolario italo-salentino XXIII


sanu – nzìpitu – pòsima – ssaddare – scoprire – (ca) poc(c)a / menṭṛu – cucuzza

106. It. sano e intero trovano entrambi una corrispondenza nell’unica vc. sal. sanu dato che i due
concetti non hanno necessità di distinguersi in questo sistema. La spiegazione passa anche da it.
integro ‘completo in ogni sua parte’ che rappresenta un allotropo colto di it. int(i)ero, da lat.
INTĔGRU(M), il quale conserva usi maggiormente gravitanti sul significato di ‘indiviso’. All’origine
di questo si trova però il tema di TANGĔRE ‘toccare’ (v. n. 68) nel suo valore originario di ‘intatto’
che si è esteso a tutti i casi di corruzione (causata da malattie, aggressioni etc.). Dal polo opposto,
sal. sanu, derivando come it. sano da lat. SANU(M) ‘esente da malattie’ e collegandosi
originariamente al concetto di ‘sanità’, estende invece i suoi usi a includere condizioni di assenza di
qualsiasi minaccia all’integrità corporale (non solo le malattie, ma anche le molteplici possibilità di
guastarsi in conseguenza di traumi, contusioni, tagli etc.). L’estensione, registrata da GRADIT anche
in it. reg. mer., riguarda poi anche corpi di esseri inanimati, per cui in sal. si ha ad es.: se l’ha’
gnuttuta sana ‘l’ha ingoiata intera’ (it. reg./pop. se l’è ingoiata sana), s’ha’ mmantenutu sanu ‘si è
conservato integro’ (it. reg. si è conservato sano), nde voi/nd’oi nu stozzu o lu voi/l’oi sanu? ‘ne
vuoi un pezzo o lo vuoi intero?’ (it. reg. ne vuoi un pezzo o lo vuoi sano?), mmantenìtibbe sani!
‘mantenetevi sani!’.
107. Sal. nzìpitu/nsìpitu sostituisce in molti casi un precedente ddissapitu (VDS 948, per il Salento
ionico da Sava a Galatone) ed è l’it. insipido che procede da lat. INSĬPĬDU(M) < IN- (privativo) +
SAPĬDU(M) ‘saporito’ (GRADIT). Quest’ultimo si lega a SAPĔRE (rizotonico) ‘avere sapore’ (ma
anche sapìre/sapére – come noto – risalgono a questo concetto; il disporre di conoscenze è infatti
posto in analogia con l’essere sapidi, avere “sale in zucca”). Anche la forma in disuso ha la stessa
procedenza: ddissapitu sarebbe forma prefissata con DE- di lat.*exsĭpĭdu(m) con cambio di prefisso
da INSĬPĬDU(M) e spostamento d’accento (per analogia con forme in -ito). In altre aree d’Italia e in
certa letteratura dei secoli scorsi, il senso di ‘non (o poco) salato, insalato’ è reso anche da sciapo,
prob. accorciamento di sciàpido apparentata con scìpido (<*exsĭpĭdu(m) con lo stesso cambio di
prefisso di cui sopra). A questa si riconduce anche scipito (part. pass. in -ito < prob. ricostruzione di
scipire). A queste forme sorelle, si aggiunge però la forma toscana sciòcco (che originariamente
vale proprio ‘non salato, insulso’) di etim. incerta secondo GRADIT, ma risalente a *ex-sūccu(m)
– con insolito maggior grado di apertura vocalica – per PIANIGIANI e DEDI, che allargano l’origine
di queste voci al concetto di condimento (mancanza di sale, sapore, succo, facilità d’ingestione)1. A
un concetto simile si riconduce anche insulso (lat. INSŬLSU(M) < IN- privat. + SALSU(M) ‘salato,
spiritoso’, con cambiamento di vocale, ma comunque riconducibile a un’altra forma rizotonica:
SALLĔRE ‘salare’). L’omonimo prefisso in- dei verbi parasintetici che indicano cambiamento di stato
(invecchiato, insaccato, inamidato...) fa confondere poi, per antifrasi, insalato ‘condito con sale’ (e
insalata, sal. nzalata/nsalata) con l’insalato che corrisponde a tutte le voci viste sopra.
108. Sal. pòsima ‘liquido addensato, amido (per la stiratura)’ si colloca probabilmente su un
percorso parallelo a quello che va dal lat. APŎZĔMA(M) (dal gr. απόζεμα ‘decotto’) all’it. bòzzima
(con discrezione dell’art. e z > [ddz]), che indica una poltiglia usata per inamidare. Nonostante la
prossimità con gr. πόσιμος ‘potabile’ (f. πόσιμα!), la vc. salentina, che conserva p e presenta anche
una s proprio come in greco, se ne allontana però antifrasticamente: la pòsima non si beve!2.
109. Diverse vcc. sall. esprimono il concetto di ‘impressionarsi’. Alcune sono registrate dal VDS
come sal. ssaddare (VDS Lpb 690) e ssardare (VDS Lar 690), mentre nzatare (v. MANNO 17
‘trasalire, sobbalzare’) è riferito solo a fonti letterarie (VDS 431 ‘insaltare’). A queste, inoltre, VDS
non riferisce né satare (che invece DDS 360 ritrova a Lecce, Vernole e Squinzano col significato di
‘sobbalzare’) né ssaddare, attestato in gallipolino e parabitano secondo DDS 429. L’ipotesi di

1
Il rif. a un presunto verbo scioccare ‘scuotere’ di DEDI non è confortato da attestazioni antiche (OVI, TLIO).
2
Malgrado l’obsolescenza della pratica e della voce, alcuni derivati hanno (avuto) un’importante circolazione in tutta
l’Italia meridionale: la forma imposimato, attestata in vari dizionari (PUOTI, VOLPE, MARZANO...), vale appunto
‘inamidato’ e si ritrovano ancora oggi in un comune antroponimo (CAFFARELLI-MARCATO II 926). Tuttu mposamatu in
sal. vale come giudizio sull’abbigliamento o su un atteggiamento personale ‘ingessati’.
derivazione da *assaltare è rafforzata da FANCIULLO Aggiunte, che riporta ssautare ‘trasalire per
subitaneo spavento’, trovando un sostegno nelle forme sic. arrisotari e cal. sautare (in riferimento a
TRAINA e a Rohlfs, Dizionario Dial. delle tre Calabrie). Se le forme con la scempia iniziale
risalgono a lat. SALTĀRE, intens. da SALĪRE (< IE. *sal ‘saltare’, LE ROBERT), quelle con la geminata
iniziale si devono però a derivati aferetici di *assalire > assaltare alla base di it. assalto e fr. assaut
(sic. assustari si deve invece a sp. asustarse < lat. (AD)SUSCITARE).
110. Nel sal. scoprire ‘vedere bene’ si rintraccia certamente una continuazione di lat. EX-COOPERIRE
che dà it. scoprire ‘svelare’ la cui polisemia ha portato poi ai significati che conosciamo di tipo
‘(r)invenire’ o ‘rivelare’ o ancora ‘rendere visibile’. Tuttavia negli usi più patrimoniali, intransitivi
(in espr. del tipo nu’ scopru bbonu ‘non ci vedo bene, non riesco a mettere a fuoco’) si rintraccia
certamente un influsso del gr. σκοπέω ‘(io) guardo’. Che guardi un microcosmo infinitesimo o un
orizzonte infinito, un salentino d’antan vi scopre sempre gli elementi di una rivelazione.
111. Sal. (ca) poc(c)a rappresenta espressioni davvero molto tipiche e intraducibili. In realtà si
tratta di espressioni diverse, variamente interpretabili in funzione del contesto d’uso e della loro
intonazione. Ne distinguiamo almeno due, più prototipiche (senza notare la variazione dialettale
nella lunghezza della k intervocalica o in altre sfumature): 1) con tono discendente (e voce grave),
ca pocca. = ‘non ci credo. ma che stai dicendo?’ 2) con tono ascendente (e maggiore attivazione),
(ca) pocca! = ‘e già! confermo, è proprio così’. La loro persistenza dipende spesso da usi locali e
dalla spontaneità del “portatore” (sono ormai rari quelli autentici). L’origine parrebbe non potersi
allontanare molto da POST QUAM ‘dopo che’, simile a quella di it. poiché, dato che anche in it. ant.
pocca ha avuto una certa circolazione come congiunzione (cfr. cal. pocca ‘dunque’, MARZANO).
Resta però l’enigma irrisolto dell’impiego così sviluppato di una congiunzione che non congiunge.
Ne conosciamo un’altra però, un tempo diffusa nell’area gallipolina, menṭṛu, che – usata con tono di
sfida o incredulità – vale molto più di mentre o fino a: nna’ menṭṛu!, quasi come quel “fino a questo
segno!” ripetuto da Lucia, all’apprendere delle nefandezze di Rodrigo3.
112. Cocuzza e cucuzza sono indicati in italiano come varianti di un regionalismo polisemico, ma
riconducibile a ‘zucca’, in molti casi per il tramite di un’estensione che include il concetto di ‘testa’.
Sal. cucuzza vale anche per questi e indica generalmente un ortaggio dalle grosse dimensioni e dalla
tipica forma tondeggiante e globosa o bitorzoluta, una zucca (Cucurbita maxima), nonché varie
altre cucurbitacee. Il campo semantico di queste e la sua organizzazione storica e geografica nei
diversi domini romanzi (a cui REW dedica otto diverse entrate: 2363-2370) è molto interessante da
studiare, ma pone difficoltà che richiedono la consultazione di testi tecnici di ambito agrario,
botanico, merceologico e gastronomico ed estensioni varie a utensili e oggetti designati in analogia.
Per le voci meridionali penetrate nell’it. reg., GRADIT propone una soluzione basata su lat. tardo
cucūtĭa(m), di orig. incerta, tanto quanto quella di cucūtĭu(m) che dà cocuzzolo ‘cima, sommità (del
capo o del copricapo), cappuccio (di un’altura)’. Da questi etimi, con aplologia, o da forme più
antiche senza ripetizione della prima sillaba, deriverebbero coccia (v. però n. 167) e le forme sett. di
tipo cóssa da cui per metatesi si sarebbe ottenuto sócca e quindi zucca. L’evoluzione cucūtĭa(m) >
cucuzza non richiede invece nessun passaggio particolarmente impegnativo, ma sul piano
dell’estensione, gli usi salentini sono particolarmente indicativi, dato che la voce si presta per
designare comunemente anche la ‘zucchina’ (Cucurbita pepo italica), un altro ortaggio simile, ma
con forma, dimensione e usi piuttosto ben differenziati (anche da quelli della Cucurbita pepo
oblunga, di forma allungata, ma di grosse dimensioni, localmente individuata come ‘genovese’, sal.
cucuzza ggenuisa, probabilmente corrispondente allo zuccotto di Albenga). Si tratta di casi di
prototipizzazione, risolvibili, appunto, con una maggiore qualificazione: la ‘zucchina’ può dunque
essere cucuzza piccinna.

3
Per gli usi di questa occorre una documentazione che finora nessuno mi pare abbia fornito adeguatamente. VDS (338
mentre) si limita infatti a ricordare forme come menṭṛu mmoi o menṭṛu cquai che rileva soltanto negli scritti di Giuseppe
Marzo (1905-1906). Di queste espressioni, ricordate ormai confusamente da pochi, sono stato testimone anch’io alla
fine del XX sec.
BIBLIOGRAFIA
Le voci sono corredate da una bibliografia ristretta soltanto ai nuovi titoli introdotti. Per le abbreviazioni non sciolte
volta per volta nei riferimenti s’invita a consultare quelle presenti nelle note dei numeri precedenti.
CAFFARELLI-MARCATO – Caffarelli E., Marcato C. (2008). Cognomi d’Italia: dizionario storico ed
etimologico, Torino: UTET, 2 voll.
MARZANO – Marzano G.B. (1928). Dizionario Etimologico del Dialetto Calabrese. Laureana di Borrello
(RC): Il progresso (rist. Bologna: Forni, 2006).
PUOTI – Puoti B. (1850). Vocabolario domestico napoletano e toscano, Napoli: Vaglio (1a ed. Simoniana, 1841).
TRAINA – Traina A. (1868). Nuovo vocabolario siciliano-italiano. Palermo: G. Pedon Lauriel.
VOLPE – Volpe P.P. (1869). Vocabolario napoletano-italiano, Napoli: Sarracino.

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