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(DSA)
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1. COSA SONO I DISTURBI SPECIFICI DI APPRENDIMENTO
I Disturbi evolutivi Specifici di Apprendimento (da qui in avanti indicati con l’acronimo,
generalmente in uso, di DSA), ovvero la dislessia, la disgrafia, la disortografia, la discalculia,
si manifestano con difficoltà circoscritte in specifici domini di abilità (lettura, scrittura e
calcolo) in soggetti che presentano uno sviluppo cognitivo “nella norma” e in assenza di
sfavorevoli condizioni ambientali, di disabilità sensoriali o di disturbi emotivo-affettivi.
Si tratta di disturbi evolutivi in quanto caratteristici dell’età evolutiva, a differenza di altre
condizioni, evidenti in soggetti adulti, sopravvenute in conseguenza a traumatismi o altre
condizioni patologiche (circolatorie o neurologiche, come ad es. ictus) che hanno comportato la
perdita di abilità prima normalmente possedute, generando condizioni in buona parte simili a
quelle presentate, fin dalla nascita, dai bambini con DSA.
Il termine “Disturbi evolutivi” fa riferimento, inoltre, al fatto che tali condizioni sono suscettibili di
evoluzione in conseguenza di adeguati interventi: questo è l’aspetto più rilevante che interroga la
scuola in primo luogo, oltre a tutti i soggetti che, a diverso titolo, concorrono all’educazione e alla
riabilitazione.
Ai più noti disturbi della lettura, della scrittura e del calcolo, si aggiungono altri disturbi, meno
conosciuti, ma che determinano effetti rilevanti sull’apprendimento, quali la disprassia e
disnomia.
I DSA rappresentano, infatti, una “famiglia di disturbi” di origine neurobiologica e su questa
definizione esiste un ampio consenso tra gli studiosi a livello internazionale.
Anche se la ricerca non ha trovato cause neurobiologiche univoche – perché probabilmente vi
sono differenti meccanismi implicati – vi è un accordo nel riconoscere un’origine genetico-
costituzionale, che determina un diverso funzionamento nelle sedi cerebrali coinvolte
nell’organizzazione delle funzioni linguistico-cognitive della lettura e di altre abilità “scolastiche”,
quali la scrittura o il calcolo. Tali condizioni accompagnano l’individuo nel suo sviluppo, ma le
conseguenze funzionali possono essere fortemente condizionate dalle determinanti ambientali,
quali l’efficacia degli interventi di prevenzione e potenziamento nei primi anni e successivamente
la qualità delle metodologie didattiche applicate (strumenti compensativi e misure dispensative).
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I DSA coinvolgono diffusamente altre aree funzionali come la motricità, la percezione, la memoria,
il linguaggio, il pensiero, nelle loro manifestazioni sequenziali (soprattutto nella direzione sinistra-
destra) o simultanee e coordinate (sinestesiche). Tali funzioni costituiscono i sintomi secondari
dei DSA, ovvero le difficoltà trasversali.
Se da un lato i diversi casi di DSA hanno caratteristiche comuni, non c’è tuttavia un caso uguale
all’altro: sia per intensità (disturbo lieve, medio, grave, severo), sia per diversa combinazione
(presenza di comorbilità con altri disturbi). Si tratta di un “fenomeno a macchia di leopardo”: le
aree oscure e gli aspetti problematici di ogni singola disciplina si evidenziano in modo a volte del
tutto soggettivo nei nostri allievi e interessano vari ambiti del sapere.
Questa condizione crea notevoli problemi agli insegnanti. Prima di tutto, non è facile accettare che
un bambino o un ragazzo intelligente non riesca ad automatizzare funzioni “strumentali” come la
scrittura, i calcoli mnemonici, le regole ortografiche basilari, che non richiedono apparentemente
altro che l’esercizio. Per questo motivo i DSA sono tuttora molto spesso sottodiagnosticati. Inoltre,
nella galassia dei disturbi specifici dell’apprendimento, è difficile riuscire a collocare con precisione
ogni singolo caso e definirne le specifiche caratteristiche. Per questa ragione, anche le misure
educative e didattiche, per essere efficaci, devono essere strettamente individualizzate e
personalizzate.
Nelle nostre classi sono presenti molti alunni e studenti con difficoltà di apprendimento. Nella
scuola primaria il 10-15% degli alunni mediamente faticano a tenere il ritmo collettivo
nell’apprendimento della lettura, scrittura e calcolo; nella scuola secondaria di primo grado
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salgono al 25% e oltre gli studenti che presentano una qualche difficoltà in questi ambiti. Se un
bambino fatica ad imparare a leggere non è necessariamente dislessico, se fatica nei calcoli non è
necessariamente discalculico… Certamente i DSA rappresentano una piccola parte all’interno
della galassia delle “difficoltà”, quantificabile all’incirca nel 5% dei casi. Quindi, su quattro alunni
che presentano una difficoltà, solo uno presenta un vero e proprio disturbo. I progressi delle
neuroscienze e l’elaborazione di specifici test di indagine, sulla base dell’identificazione dei
meccanismi coinvolti, hanno portato in questi dieci/quindici anni a reinterpretare in chiave nuova
difficoltà di apprendimento che in precedenza erano state imputate a ritardi cognitivi o peggio allo
scarso impegno, con pesanti conseguenze sul successo scolastico e sull’autostima di tanti
ragazzi. Nel 1954, ultimo anno in cui erano in vigore i programmi che prevedevano l’esame al
termine della prima classe elementare, circa il 27% degli alunni vennero bocciati perché non
sapevano ancora leggere e scrivere. Tra loro certamente ci saranno stati molti alunni con DSA.
Tuttora i DSA sono sottodiagnosticati: a fronte di una percentuale stimata nel 5% della
popolazione scolastica italiana, ci si attesta intorno all’1,8% di casi riconosciuti.
D’altra parte la diagnosi di DSA rischia di essere ora indebitamente estesa, sulla scia di una più
diffusa popolarità: occorre guardarsi da errate diagnosi (falsi positivi), non meno pericolose delle
diagnosi mancate. Dunque, molti bambini che presentano un apprendimento deficitario del
calcolo, della lettura o della scrittura non sono portatori di DSA, anche se alcune manifestazioni
possono essere simili. Le differenze tra il disturbo vero e proprio e la più frequente difficoltà di
apprendimento possono essere così sintetizzate:
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4. I DISTURBI DELLA LETTURA
La dislessia
La dislessia è un disturbo specifico dell’apprendimento caratterizzato dalla difficoltà ad effettuare
una lettura accurata e/o fluente (minore rapidità e correttezza).
E’ spesso associata a difficoltà nella codifica scritta (disortografia), dovuta a un deficit nella
componente fonologica del linguaggio. Pur con diverse configurazioni individuali, risultano
deficitarie la lettura di lettere, parole, non parole, brani.
Conseguenze secondarie includono molto frequentemente problemi di comprensione nella lettura,
riduzione dell’estensione del vocabolario e della conoscenza generale, nella misura in cui questi
elementi sono dipendenti dalla pratica della lettura. Particolarmente nella scuola secondaria, la
lettura non viene più esercitata dal punto di vista strumentale, ma diventa veicolo di accesso ai
contenuti di altre discipline (lettura per la comprensione), quindi il deficit di lettura si traduce in
ritardo nell’acquisizione delle conoscenze.
Per questi soggetti la lettura non diventa, come accade invece per i normo-lettori, un processo
automatico, ma richiede continuo sforzo e concentrazione per decodificare le lettere (grafemi) e
leggere le singole parole. Questo impegno attentivo lascia poche energie disponibili per i processi
di comprensione e di memoria. Inoltre l’attenzione, così sollecitata, tende ad esaurirsi presto, con
conseguente peggioramento della prestazione. A ciò consegue un apprendimento disturbato in
maniera più o meno grave, con ricadute negative sull'autostima e possibili reazioni psicologiche
secondarie al disagio. Il bambino dislessico, infatti, può leggere e scrivere, ma riesce a farlo solo
impegnando al massimo le sue capacità e le sue energie, poiché non può farlo in maniera
automatica, commette errori, non riesce a tenere il ritmo della classe e quindi non impara.
Le strategie di lettura
Due sono le principali strategie di lettura che utilizziamo tutti: la via fonologica (conversione
grafema-fonema e ricombinazione) e la via lessicale (lettura “a vista” di parole brevi ad alta
frequenza d’uso e di gruppi di lettere, ad esempio quelle che costituiscono difficoltà ortografiche
tipo GLI, SCI, CHE…).
Questi due diversi processi di lettura (che in realtà procedono in parallelo) si possono vedere
all’opera separatamente:
lettura fonologica: quando leggiamo parole nuove o non parole oppure nelle prime fasi di
apprendimento della lettura;
lettura lessicale o visiva: quando leggiamo parole note oppure un brano che ci permette di
desumere molte parole dal contesto senza neanche decifrare gli stimoli o limitandoci a piccole
parti di essi.
Il primo tipo di lettura è lento e macchinoso, espone ad errori di diverso tipo. Per questo, appena
diventa più esperto, il lettore lo abbandona e vi ricorre solo come “controllo parallelo”, pronto a
farlo scattare quando serve. Naturalmente ogni parola percepita deve trovare un corrispondente
nel magazzino della memoria dei significati, sia percettivi che semantici. Il dislessico non riesce
ad operare questa coordinazione tra funzioni: egli ha difficoltà nella corrispondenza grafema-
fonema (primo tipo di lettura) e più ancora ha difficoltà a vista a discriminare il pattern sensoriale
della forma intera della parola per poterla individuare. Ha poi difficoltà di accesso ai magazzini di
memoria e non è detto che attivi i significati giusti.
Esempio n. 1
Esempio di accesso fonologico:
lettura delle seguenti parole:
lapido murdo bacuto miotra
notolo ecchine quadre amizio
socolo nesitro….
Per poter leggere queste parole occorre fare una conversione “lettera per lettera”, poi sintetizzare
il suono. Per chi usa prevalentemente questo tipo di lettura, sono prevedibili grosse difficoltà,
particolarmente con lingue non trasparenti come l’inglese. I tempi sono lunghi, si genera presto
stanchezza e si rischiano molti errori.
Questa, è in effetti la modalità di lettura più frequente nei dislessici.
Esempio n. 2
Esempio di accesso lessicale:
lettura del seguente brano:
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LA TIGRE
Pare che un estroso pittore ….. sia
divertito a tracciare strane linee
sul ….. mantello.
A vista leggiamo senza fare molta attenzione alle parole note ad alta frequenza d’uso. Riusciamo
anche a leggere le parole che non sono scritte per niente. In questo caso non utilizziamo la
conversione grafema-fonema, ma una lettura visiva che dal contesto evince anche le parole
mancanti.
Esempio n. 3
Il nostro cervello è in grado di riconoscere visivamente molte parole, anche se sono scritte
nell’ordine sbagliato, ricombinarle e accedere ugualmente al significato:
Socdno una riccrea dlel’Unvrsetiià di Carbmdgie l’oidrne dlele lertete all’iternno diuna
praloa non ha imprtzaoana a ptato che la pimra e l’ulimta saino nllea gusita psoizoine.
Anchce se le ltteere snoo msese a csao una peonrsa può leggere l’inetra fasre sneza
poblremi. Ciò è dovuto al ftato che il nstoro celverlo non lgege ongi sigonla leterta ma tiene
in cosinaderzione la prolaa nel suo inesime.
Icnrebidile he?
Anche questo processo, automatico per il nostro cervello, che dopo una breve esitazione, subito si
adatta, non lo è affatto per un dislessico. Se avessimo applicato la prima strategia di lettura, quella
che prevede la corrispondenza grafema-fonema, non avremmo potuto leggere questo testo.
Esempio n. 4
Proviamo a leggere questo messaggio:
QU3570 M3554GG10 53RV3 4 PR0V4R3 CH3 L3 N057R3 M3N71 P0550N0 F4R3 GR4ND1
C053! C053 1MPR35510N4N71! 4LL'1N1Z10 3R4 D1FF1C1L3, M4 G14' 1N QU3574 R1G4, L4
7U4 M3N73 574 L3GG3ND0 4U70M471C4M3N73 53NZ4 P3N54RC1 5U, 511 0RG0GL1050!
50L0 4LCUN3 P3R50N3 R135C0N0 4 L3GG3R3 QU3570 M3554GG10. 53 531 1N GR4D0 D1
L3GG3RL0, C0ND1V1D1L0!
Questo testo dimostra come il nostro cervello riesca a trasformare anche segni numerici in segni
alfabetici, attraverso la facilitazione del contesto e l’anticipazione dei significati.
A tutti questi complessi processi implicati nella lettura dobbiamo aggiungerne un altro, che attiene
ai movimenti oculari che si effettuano sul rigo quando leggendo si scorre il testo. Tali movimenti,
“a saltelli” interessano una successione di fissazioni oculari che abbracciano un certo numero di
caratteri e decifrano nelle pause (circa 240 millisecondi) i significati. Lo scorrimento è da sinistra a
destra, con qualche retrocessione in caso il significato non si colga subito. Arrivati in fondo alla
riga, c’è lo spostamento verso destra per tornare a caporiga.
Tutti questi complessi processi lasciano intendere quanto altrettanto complessi possano essere i
meccanismi compromessi e quindi a quante diverse tipologie di disturbo di lettura possiamo
trovarci davanti.
Le difficoltà di scrittura
Imparare a leggere e a scrivere nella nostra società è fondamentale per avere una chiave di
lettura del mondo. L’interesse per la letto-scrittura inizia molto presto, sollecita l’immaginario del
bambino prima ancora dell’ingresso a scuola. L’osservazione di quegli strani segni, sbirciati nei
quaderni dei fratelli maggiori o nei libri dei genitori, quei caratteri piccoli, esteticamente poco
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attraenti ma metaforicamente appartenenti al mondo “dei grandi” sono in grado di alimentare
l’interesse dei bambini fin da piccoli.
Anche la multimedialità si nutre di scrittura e lettura, quindi un disturbo che interessi queste abilità,
che in una società non alfabetizzata passerebbe del tutto inosservato, finisce per generare
potenzialmente un rilevante svantaggio nei confronti delle richieste della scuola prima e della
società poi.
Fin da piccolo il bambino imita la scrittura dei grandi e formula ipotesi sulla sua composizione, a
partire dalla scrittura del suo nome. La scrittura spontanea esprime importanti caratteristiche del
pensiero infantile, più o meno corrispondenti alle regole convenzionali di codifica, cui
progressivamente finiranno per coincidere man mano che il bambino scoprirà, in parte da solo e in
misura rilevante grazie alla scuola, il “funzionamento” del codice scritto.
La scrittura coinvolge diverse componenti, ciascuna delle quali può presentare particolari disturbi.
L’aspetto esecutivo chiama in causa competenze di tipo grafo-motorio e visuo-spaziale, mentre la
compitazione delle parole richiede l’applicazione di competenze fonologiche, ortografiche e
linguistiche. E’ possibile un interessamento selettivo di tali componenti, anche se nella maggior
parte dei casi troviamo forme miste di disturbo, all’interno delle quali riconosciamo più tratti
compresenti.
La disgrafia
La disgrafia è un disturbo del linguaggio scritto che interessa il segno grafico. E’ collegata
all’aspetto esecutivo e della programmazione motoria della scrittura manuale.
La scrittura costituisce un apprendimento complesso che dipende dall’integrazione di numerose
competenze appartenenti ad ambiti funzionali distinti. I processi centrali che governano
l’apprendimento della scrittura possono presentare difficoltà sia perché risulta difficile pianificare o
recuperare gli schemi motori necessari all’esecuzione grafica, sia perché risulta difficoltosa
l’organizzazione visuo-spaziale.
Ne risultano problemi ad orientare e collocare i grafemi nello spazio, nel rispettare gli spazi tra le
lettere e tra le parole, nella direzione e nella dimensione dei caratteri e in generale a rispettare le
convenzioni riguardanti la disposizione del testo scritto all’interno di spazi delimitati:
• scrittura fluttuante;
• grafemi troppo grandi o troppo piccoli;
• incoerente inclinazione di lettere ascendenti/discendenti;
• legature irregolari tra le lettere;
• collassamento delle righe di scrittura una sull’altra;
• mancato rispetto dei margini del foglio.
Il tratto grafico può essere irregolare anche dal punto di vista della pressione sul foglio, instabile e
tremolante, con cerchi ed occhielli non chiusi, parti di segni mancanti o segni ripassati più volte,
esecuzione delle lettere non ergonomica, con composizione delle lettere per singoli tratti piuttosto
che con tratto continuo.
La corretta esecuzione grafica della scrittura esige competenze che la moderna neuropsicologia
definisce prattognostiche. Questo termine descrive la conoscenza (gnosia) di movimenti
coordinati (prassie) pragmatici e rivolti all’ottenimento di uno scopo preciso. Si tratta di movimenti
sia globali che fini, come quelli della mano e delle dita, che però implicano un continuo
coordinamento oculo-manuale capace di recuperare gli scarti anche minimi attraverso un feed-
back percettivo e motorio. Si tratta, quindi, di atti finemente regolati e finalizzati, che si possono
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osservare in particolare nella scrittura ma anche nella riproduzione grafica di disegni, tratti, segni,
rispettando dimensioni, proporzioni e rapporti spaziali. E’ evidente, quindi, la stretta correlazione
esistente tra le abilità prassiche e quelle di scrittura, ma potremmo chiamarle in causa anche
pensando ai movimenti oculari interessati nei processi di lettura di cui si è parlato nella lezione
precedente.
Le difficoltà prassiche possono essere evidenziate molto presto, fin dal periodo prescolastico. E’,
quindi, possibile stimolare e potenziare molto precocemente abilità che poi saranno fortemente
implicate anche nei processi di apprendimento scolastici.
Viste le caratteristiche delle diverse tipologie di scrittura, è evidente che per l’alunno disgrafico
risulta più facile il carattere stampato maiuscolo, che compone ogni possibile parola a partire da 4
soli segni grafici: orizzontale, verticale, obliquo, semicerchio. Inoltre, si tratta di una scrittura
monobanda, ovvero utilizza una sola banda spaziale.
Molto difficile risulta il carattere corsivo, visto che non si distingue facilmente dove finisce una
lettera e ne comincia un’altra, i segni richiedono una fine articolazione della pinza pollice-indice e
dell’articolazione del polso, utilizza tre bande spaziali di estensione diversa.
La disortografia
La disortografia è un disturbo che riguarda l’utilizzo, in fase di scrittura, del codice linguistico con
le sue regole di correttezza nella corrispondenza grafema/fonema (ortografia), anche in relazione
agli aspetti semantici delle parole. Questo disordine nella codifica del testo scritto è originata da
un deficit nelle funzioni centrali del processo di scrittura ed è frequentemente associato alla
dislessia, anzi, potremmo dire che lo scritto fa emergere le difficoltà ancora di più: se nella lettura
si legge una parola male, si può capire che c’è qualcosa che non va e il contesto può aiutare a
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capire quale sia la parola giusta. Invece, quando si scrive, è tutto più difficile e queste inferenze
non sono possibili.
Molte delle osservazioni riportate parlando della dislessia sono applicabili anche alla disortografia,
che interessa i processi centrali dell’organizzazione della scrittura, negli aspetti della
corrispondenza tra suono e grafema, ortografia, composizione, accesso ai significati. Dislessia e
disortografia sono molto spesso due facce della stessa medaglia.
Nei bambini disortografici permangono a lungo, ben oltre il limite naturale, errori tipici delle prime
fasi dell’apprendimento della scrittura:
• Difficoltà fonologiche nell’acquisizione del codice scritto: scambio di grafemi, omissioni,
inversioni, scrittura di grafemi inesatti;
• Difficoltà di composizione delle parole: separazioni illegali all’interno di una parola, fusioni illegali,
scambi di fonemi omofoni, mancata automatizzazione dell’uso dell’H, degli accenti, delle
maiuscole e delle doppie, elisioni e troncamenti;
• Difficoltà a copiare dalla lavagna;
• Povertà del testo scritto.
La componente ortografica va valutata, separandola da altre variabili, attraverso il dettato, tenendo
presente che il processo di ortografizzazione termina nella classe terza della scuola primaria,
momento questo in cui si può porre la diagnosi di disortografia.
L’intelligenza numerica
Fin dalla preistoria l’uomo ha interpretato il mondo attraverso i numeri, lo testimoniano reperti
risalenti ad oltre trentamila anni fa. Gli antichi romani insegnavano ai loro figli a contare utilizzando
i sassolini, i “calculi” e da allora il termine “calcolo” indica l’insieme dei processi che ci consentono
di operare con i numeri. Eppure, le difficoltà in matematica nei nostri alunni sono molto frequenti e
vanno crescendo man mano che si avanza nella scolarità.
Butterworth (1999) sostiene la tesi della presenza di facoltà innate che permettono al nostro
cervello di leggere le piccole quantità a colpo d’occhio e senza contare (effetto subitizing) fin
dalla più tenera infanzia. Fino a quattro oggetti, la quantità può essere riconosciuta
indipendentemente dal possesso del concetto di numero e di quantità, anche se l’intelligenza è
ancora in fase preverbale ed è incapace di rappresentare mentalmente la quantità. Si è dimostrato
come anche alcuni animali dispongano di tali capacità di riconoscimento numerico intuitivo delle
piccole quantità (primati, ma anche uccelli). Su tale capacità innata, si innesta poi l’apprendimento
del contare, come primo collegamento tra natura e cultura. In questo passaggio, essenziale è il
ruolo delle dita delle mani, che con la cinquina offre un aggancio percettivo che supera il limite
del quattro - entro cui opera l’effetto subitizing - per consentire un’elaborazione numerica visiva
che arriva fino al dieci, attraverso il raddoppiamento della cinquina. L’importanza delle dita come
strumento di calcolo è confermata anche dalle caratteristiche del cervello, che vede l’area del
controllo motorio della digitazione contigua a quella deputata all’elaborazione numerica.
Imparare a contare richiede lo sviluppo di competenze cognitive complesse: quantificazione,
corrispondenza biunivoca, ordine stabile, cardinalità. Se un bambino, ad esempio, deve contare
cinque cioccolatini:
• deve conoscere le etichette verbali dei numeri da “uno” a “cinque” nel loro ordine stabile;
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• deve associare ciascuna di queste parole ad uno e un solo cioccolatino (corrispondenza
biunivoca);
• alla fine deve essere capace di indicare la numerosità associandola all’ultima parola-numero
pronunciata (principio della cardinalità).
Sono le competenze innate prenumeriche e preverbali a dare impulso allo sviluppo di tutte queste
successive competenze, alla base del conteggio verbale. A partire dalla strategia della conta, si
conquista quella dell’addizione. Ad esempio, dovendo contare 3 + 5:
• il bambino conta prima uno-due-tre; poi: uno-due-tre-quattro-cinque; poi conta tutto insieme;
• il bambino conta in avanti a partire dal primo addendo (es. usa le dita, parte da tre e poi va avanti
quattro-cinque-sei…);
• il bambino conta in avanti partendo dall’addendo più grande (scelta più economica).
Il nostro sistema educativo comincia a porre attenzione allo sviluppo della cognizione numerica a
partire dai 6 anni, mentre i meccanismi cognitivi innati matematici sono attivi e hanno bisogno di
attenzione fin dal primo anno di vita, scambia l’intelligenza numerica con l’addestramento alla
prestazione scritta e trascura il calcolo mentale a vantaggio della memorizzazione di algoritmi
scritti.
Per queste ragioni le difficoltà in matematica nella nostra scuola sono molto frequenti (a 8 anni si
segnalano il 20% di alunni con difficoltà nell’elaborazione numerica), mentre la discalculia
evolutiva ha una frequenza di comparsa fortunatamente molto più rara: esiste, quindi, un alto
rischio di diagnosticare profili di falsi positivi.
A partire dalla pubblicazione dei risultati della rilevazione effettuata dall’OCSE PISA 2006, è
evidente che l’Italia versa in una situazione di “emergenza matematica”. Dati scientifici e
istituzionali convergono nel segnalare un allarme che richiama ricercatori ed insegnanti ad una
riflessione comune più ampia.
La discalculia
Con il termine discalculia ci riferiamo ad un disturbo delle abilità numeriche e aritmetiche che si
manifesta in bambini di intelligenza normale. Mediamente la loro prestazione è pari più o meno a
quella di soggetti di 2 anni più giovani, rispetto alle competenze numeriche e alle abilità esecutive:
hanno difficoltà molto specifiche nella quantificazione, nell’eseguire calcoli a mente, nell’utilizzare
l’algoritmo delle operazioni in colonna, nel saper apprezzare la numerosità di un insieme, nel
saper leggere e scrivere i numeri, nel comporre e nello scomporre i numeri, nel recuperare i fatti
numerici.
La discalculia presenta forte comorbilità con la dislessia, intorno al 60%, e ciò ha provocato un
rallentamento degli studi specifici su questo disturbo, perché per lungo tempo lo si è considerato
solo uno dei “sintomi” della dislessia. Come nella dislessia, le due componenti interessate sono la
rapidità e la correttezza, in questo caso ci si riferisce al processamento numerico. Nel tempo la
correttezza si può migliorare, l’aspetto della rapidità invece permane carente: dobbiamo accettare
che i discalculici abbiano bisogno di molto più tempo.
La Consensus Conference (2009), sulla base delle più recenti ricerche, individua due profili di
discalculia:
• determinata da debolezza delle componenti numeriche (aspetti di base: subitizing,
quantificazione, seriazione, comparazione, strategie di calcolo mentale);
• determinata da compromissioni a livello procedurale e di calcolo (aspetto lessicale e sintattico
relativo alla composizione del numero, incolonnamento ed algoritmi del calcolo scritto, recupero
dei fatti numerici).
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Il primo tipo di discalculia è determinato da una sorta di “cecità per i numeri” che rende impossibile
la manipolazione delle quantità. Questo potrebbe dipendere da un non perfetto funzionamento di
quel dispositivo innato di categorizzazione delle numerosità o modulo numerico innato descritto da
Butterworh, proprio come capita ai daltonici, costituzionalmente privi della capacità di distinguere
alcuni colori.
Il secondo tipo si riferisce, invece, in modo specifico alle difficoltà nell’acquisizione delle procedure
e degli algoritmi di calcolo.
Nella descrizione dei diversi profili di discalculia riveste molta importanza l’analisi degli errori
commessi dal soggetto. La raccomandazione di tutti gli esperti è, infatti, quella di partire dal tipo di
errori commessi per individuare l’intervento più efficace, in modo da personalizzarlo e
commisurarlo alle specifiche difficoltà del bambino o ragazzo.
Gli errori di calcolo si possono classificare in quattro categorie:
1. errori nel recupero di fatti aritmetici (tabelline, numeri in coppia come 15+15,…);
2. errori nel mantenimento e nel recupero delle procedure (es. algoritmo della sottrazione in
colonna);
3. errori nell’applicazione delle procedure (es. applicazione della procedura dell’addizione alla
sottrazione, inversione di minuendo e sottraendo,…);
4. difficoltà visuospaziali (che conducono, ad es. ad inesatti incolonnamenti).
L’intervento sui disturbi del calcolo si qualifica come riabilitativo o di potenziamento. Nel primo
caso si tratta di promuovere lo sviluppo di una competenza non ancora comparsa o atipica, di
reperire forme facilitanti o alternative. Nel secondo caso di favorire lo sviluppo di una funzione che
sta emergendo, fornendo opportunità di apprendimento maggiori rispetto a quanto il bambino
potrebbe imparare se agisse per proprio conto. Il concetto di potenziamento rimanda a quello di
sviluppo prossimale proposto da Vigostkij. Secondo questo studioso, la zona di sviluppo
prossimale corrisponde allo spazio tra il livello attuale e quello che il bambino potrebbe
raggiungere grazie alla mediazione di un adulto o la collaborazione con altri soggetti più capaci.
A partire da un’accurata valutazione iniziale, è possibile progettare un percorso di avanzamento
efficace, ma occorre tener conto del fatto che il disturbo discalculico si distingue dalla difficoltà in
matematica perché più resistente al trattamento.
La legge 170/2010
La legge 170/2010 “Nuove norme in materia di disturbi specifici di apprendimento in ambito
scolastico”, accompagnata dal Decreto attuativo, licenziato il 12 luglio 2011, n. 5669, unitamente
alle Linee Guida per il diritto allo studio degli alunni e degli studenti con Disturbi Specifici
di Apprendimento, rappresenta indubbiamente un riferimento fondamentale per le azioni da
porre in essere in ambito scolastico. La legge, che stabilisce il riconoscimento e la definizione di
dislessia, disgrafia, disortografia e discalculia come Disturbi Specifici di Apprendimento (DSA)
«che si manifestano in presenza di capacità cognitive adeguate, in assenza di patologie
neurologiche e di deficit sensoriali, ma possono costituire una limitazione importante per alcune
attività della vita quotidiana», riporta le definizioni scientifiche dei disturbi richiamati (v. cap.1,
pag.2). Con questo provvedimento, il legislatore intende garantire il diritto alla formazione in
ambito scolastico, specificando i settori in cui agire per rispondere coerentemente alle finalità
sottese al testo legislativo. Viene, infatti, richiamato come la buona riuscita possa trovare supporto
anche attraverso misure didattiche (dispensative o compensative e di valutazione) che possono
contribuire, non solo a gestire efficacemente la dimensione degli apprendimenti, ma anche agire
sotto il profilo relazionale-emotivo, aspetto essenziale per un processo di interazione nel contesto
sociale di appartenenza.
La legge intende anche porre l’accento sulla formazione degli insegnanti, come sulla
sensibilizzazione nei confronti dei genitori rispetto alle problematiche connesse ai disturbi. Non
poteva non essere richiamata una fattiva alleanza fra le agenzie coinvolte nel percorso di
istruzione e di formazione (famiglia, scuola e servizi sanitari), come l’esigenza di “favorire la
diagnosi precoce”. La legge individua precisi doveri per la scuola, che è investita di una forte
responsabilità di gestione a partire dall’individuazione precoce dei Disturbi Specifici di
Apprendimento, per quanto la decisione di rivolgersi ai servizi sanitari per ottenere una
valutazione diagnostica sia interamente affidata alla famiglia, la quale ne comunica poi,
eventualmente, l’esito alla scuola.
La lingua straniera
Secondo la L. 170/2010, gli interventi didattici devono tener conto di condizioni specifiche quali il
bilinguismo e prevedere la possibilità di esonero dallo studio della lingua straniera. Quest’ultimo
punto appare di dubbia interpretazione in quanto, se l’esonero viene esteso all’intera materia e
non unicamente alla “forma scritta” (in questo caso si tratterebbe di “dispensa”), si ha quale
conseguenza l’incompatibilità con il raggiungimento del titolo di studio.
Il Decreto legislativo 5669/2011 e le allegate Linee Guida per il diritto allo studio degli alunni
e degli studenti con Disturbi Specifici di Apprendimento
La legge 170/2010 riconosce la necessità di un percorso didattico specifico per l’alunno con DSA
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(art. 5), in virtù del quale vengano concordati e definiti gli obiettivi di apprendimento, le strategie, la
dispensa da alcune “prestazioni non essenziali”, gli strumenti compensativi, le modalità e i criteri di
verifica.
Le Linee Guida, allegate al Decreto Applicativo della L.170/2010, articolano e definiscono nel
dettaglio indicazioni e direzioni di intervento, offrendo spunti interessanti e concreti per la
realizzazione del percorso di apprendimento dell’alunno e dello studente con DSA.
Le Linee Guida demandano ad un Piano Didattico Personalizzato, come sintesi di raccolta della
documentazione (art. 3.1, Documentazione dei percorsi didattici) e come la definizione e la
progettazione del percorso, da condividersi all’interno del team docente/consiglio di classe.
Il Piano Didattico Personalizzato (PDP), elaborato dalla scuola, è condiviso con la famiglia in
collaborazione con gli specialisti. Il diritto ad un ”trattamento diversificato” riguarda anche forme di
verifica e di valutazione, per tutto il corso della scolarità, anche se le determinazioni specifiche
sono demandate a successivi decreti attuativi. Un’assoluta novità della legge è l’estensione del
diritto a fruire di tali adeguamenti didattici e di particolari forme di valutazione anche nei percorsi
universitari, compresi i test di ammissione e gli esami dei corsi di laurea (Linee Guida, art. 6.7,
Gli Atenei).
L’art. 7 delle Linee Guida richiama la necessità della formazione del personale docente e dei
Dirigenti Scolastici, impegnando in questa direzione tanto gli Uffici Scolastici Regionali, chiamati
ad operare in sinergia con i servizi sanitari territoriali, le università, gli enti, gli istituti di ricerca e le
agenzie di formazione, sulla base delle esigenze formative specifiche, differenziate anche per
ordini e gradi di scuola, quanto le singole istituzioni scolastiche, eventualmente collegate in rete.
Anche la figura del Referente di Istituto per i DSA (art. 6.3 delle Linee Guida) può svolgere un
ruolo importante di raccordo e di continuità riguardo all’aggiornamento professionale per i colleghi.
Il Referente per i DSA è un docente competente, che assolve una serie di compiti legati non solo
alla formazione, ma anche all’aggiornamento e alla consulenza nei confronti dei colleghi.
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adattamento del livello di performance atteso, sono modalità che vanno attentamente specificate
ed applicate con rigore e coerenza da tutti gli insegnanti. La valutazione del percorso svolto e
degli esiti conseguiti è finalizzata alla riprogettazione (valutazione formativa) e all’accertamento
dei livelli raggiunti in relazione agli obiettivi programmati (valutazione sommativa). E’ il caso di
sottolineare l’aspetto preminente dell’accezione formativa della valutazione, in quanto capace di
fornire un feed-back sull’apprendimento realizzato e sulla qualità degli esiti conseguiti dagli
insegnanti attraverso gli adattamenti metodologici.
I momenti valutativi sono indicati in intermedio e finale, ma il percorso si giova certamente di un
monitoraggio più assiduo, che accompagni costantemente il percorso di apprendimento.
Il “funzionamento mentale”
E’ pregiudizio comune pensare che il “funzionamento mentale” sia qualcosa di unitario: ci si
aspetta che un soggetto presenti capacità omogenee, è strano che riesca a fare bene qualcosa e
sia poco capace, o addirittura incapace, di fare qualcos’altro. Contrariamente alle convinzioni,
comuni anche a molti insegnanti, facoltà cognitive brillanti possono coesistere con difficoltà
insuperabili. Ma non è facile accettare che un ragazzino intelligente non riesca ad automatizzare
funzioni “strumentali” come la scrittura, i calcoli mnemonici, le regole ortografiche basilari, che non
richiedono apparentemente altro che l’esercizio. Invece, se esiste un disturbo, non è la semplice
volontà che può risolverlo né l’esercizio puro e semplice che può farlo scomparire del tutto, proprio
come accade ad una persona che presenti una disabilità motoria: non potrà camminare
normalmente solo volendolo e la fisioterapia potrà migliorare la sua condizione ma non
cancellarla.
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Il ruolo dell’esercizio
Un secondo pregiudizio comune a molti insegnanti è che l’allenamento sviluppi sempre e
comunque le abilità. Non è così se un soggetto è privo dei prerequisiti. A prezzo di grandi sforzi
di attenzione, un soggetto disortografico può scrivere giusta una parola complessa in un dettato.
Ma l’attenzione si “consuma” velocemente e sbaglierà altre cose: la ripetizione da sola non riesce
a creare in lui l’automatismo che gli altri acquisiscono quando diventano scrittori “abili”. Dire al
bambino: “Vedi che quando stai attento ci riesci!” è un’ulteriore frustrazione.
I DSA, diversamente dalle disabilità, sono disturbi invisibili, perché non presentano marcatori
biologici esterni e non hanno identità evidente fuori dalla scuola. I bambini con DSA giocano ed
interagiscono normalmente con i compagni e in un contesto sociale non rivelano differenze,
mentre altri tipi di disturbo (pensiamo, ad esempio, all’autismo) manifestano “anomalie”
riconoscibili anche in contesti non scolastici.
I DSA sono disabilità nascoste, per questo sono poco accettate, soprattutto nei gradi “alti” della
scolarità. Non chiederemmo mai ad un soggetto con tetraparesi spastica di correre come gli altri.
Potrà muoversi, ma secondo la sua andatura. Così un soggetto disortografico potrà svolgere il suo
compito, ma a suo modo, con molti errori di ortografia e questo per un insegnante non è facile da
tollerare. Occorre adeguare le aspettative, perché attendendosi un livello standard di prestazioni
da tutti gli alunni, gli insegnanti rischiano di rimanere delusi e di frustrare fatalmente l’alunno.
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• E’ necessario verificare che il livello del materiale didattico sia appropriato (ad esempio, per la
lettura, sia adeguato nel lessico, nella struttura sintattica e nell’aspetto grafico). Lo stesso dicasi
per il livello e la tipologia delle verifiche.
• Nelle consegne verbali bisogna considerare che alcune indicazioni (“scrivete in alto a destra”,
“riportate questa parola nella colonna di sinistra”,…) possono risultare difficoltose e che anche
copiare dalla lavagna può risultare difficile.
• Gli alunni con DSA hanno bisogno di sentire un’attenzione individuale da parte dell’insegnante.
• L’alunno con DSA necessita di più tempo per organizzare i pensieri e completare il lavoro, la
fretta non lo aiuta.
• Il contenuto e l’ortografia vanno valutati separatamente.
• Occorre ridurre il carico dei compiti a casa.
• Va individuata l’attività nella quale l’alunno è più capace, per sostenerlo e sfruttare i suoi punti di
forza.
• Non va richiesta la lettura ad alta voce in classe, a meno che non sia l’alunno stesso a chiederlo.
• Le abilità dell’alunno con DSA dovrebbero essere giudicate più sulla base delle sue prestazioni
orali che scritte.
• Si consideri la possibilità dell’uso del software didattico compensativo, come la sintesi vocale, i
libri digitali, gli audiolibri, i libri di lettura in CD ( testi narrativi) disponibili nelle librerie e presso le
biblioteche pubbliche, dizionari digitali, software specifici. Tutti i testi scolastici in adozione hanno
una versione digitale che può essere richiesta alla casa editrice.
L’osservazione
Per individuare un alunno con potenziale DSA, di qualsiasi tipo di disturbo specifico si tratti, come
sottolineato dalle Linee Guida, in una prima fase può bastare un’attenta osservazione da parte
degli insegnanti nei vari ambiti di apprendimento – lettura, scrittura, calcolo – che possono rivelare
il disturbo. Si è detto che la diagnosi di dislessia può esser posta solo alla fine della seconda
classe della scuola primaria, ma molto prima possono essere evidenziati indicatori attendibili che
l’insegnante deve saper riconoscere al fine di attivare precocemente efficaci interventi
compensativi ed eventualmente disporre un invio diagnostico mirato. Per questo motivo, nell’arco
di tutto il ciclo della scuola primaria – e anche prima – occorre porre attenzione al bambino e
allertarsi in presenza di specifici segnali. Non è insolito che indicatori precoci quali impacci motori,
difficoltà spaziali, di lateralizzazione, di linguaggio, passino completamente inosservati.
Un’attenta osservazione può rivelare difficoltà nella consapevolezza del tempo e nella sua
gestione, problemi di memoria di lavoro, a breve termine e di memoria sequenziale, un pensiero
principalmente per immagini con scarso ricorso al dialogo interno. La lateralizzazione è talvolta
incerta, non c’è una dominanza coerente mano-piede-occhio-orecchio. Il bambino confonde
spesso destra-sinistra e/o anche sopra-sotto, sono presenti difficoltà nella coordinazione motoria
durante le attività sportive e nella motricità fine.
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di lettura, scrittura e calcolo e in cui precocemente possono evidenziarsi difficoltà, ritardi o disturbi
che, se non riconosciuti e non compensati, successivamente possono creare difficoltà più serie.
La Federazione Italiana di Neurologia evidenzia i seguenti segnali predittori:
• La persistenza di disturbi del linguaggio in età prescolare: se un bambino presenta alterazioni
della capacità espressiva dopo i 4 anni di età, il rischio che successivamente presenti disturbi di
apprendimento è elevato; se, invece, prima dei 4 anni si osserva una remissione spontanea di
queste difficoltà, la probabilità di DSA si riduce di 2/3. La soglia dei 4 anni rappresenta, quindi, un
indicatore importante. Nella scuola dell’infanzia occorre osservare i comportamenti linguistici
spontanei che i bambini manifestano e la risposta ai giochi linguistici fonologici proposti dalle
insegnanti (i giochi delle rime, assonanze, comincia per…, ritmo sillabico, ecc.).
• La familiarità: c’è una correlazione tra la presenza in famiglia di casi di DSA e la presenza del
disturbo nel bambino. Tale correlazione è stata studiata ancora poco in Italia, mentre vi sono molti
studi importanti europei e americani, secondo cui l’incidenza del rischio DSA, quando c’è
familiarità, è intorno al 40%. Conoscere questo dato può rappresentare per l’insegnante un
“campanello d’allarme”.
• I disturbi nelle prassie, nella programmazione e nell’organizzazione motoria: la programmazione
motoria è componente essenziale della lettura, scrittura e calcolo. Bambini con incerta
lateralizzazione o visibilmente molto “impacciati” nella motricità globale e fine (prassie quotidiane
dell’abbigliamento, allacciature, percorsi, andature, ecc.) possono poi incontrare difficoltà nel
programmare i movimenti oculari richiesti dalla lettura oppure quelli oculo-manuali richiesti dalla
scrittura e dal calcolo.
• Le manifestazioni psicologiche e relazionali disturbate (disturbi della condotta). Un tempo
venivano erroneamente interpretate come cause dei DSA, ora si tende a considerarle come
conseguenze dell’ansia da prestazione, ovvero derivanti dall’impressione di non riuscire a
padroneggiare adeguatamente l’ambiente. In effetti, spesso i DSA sono associati a disturbi
dell’attenzione e all’iperattività.
Sono ora disponibili strumenti per effettuare un primo screening globale fin dall’ultimo anno della
scuola dell’infanzia, mirato a rilevare la presenza di precursori dei DSA, ed in particolare della
dislessia, in modo da cominciare precocemente ad intervenire con stimolazioni compensative,
massimamente efficaci a questo livello di scuola.
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Il dislessico non riesce ad operare questa coordinazione tra diverse funzioni parallele, ha difficoltà
nella corrispondenza grafema-fonema (primo tipo di lettura) e più ancora ha difficoltà a vista a
discriminare il pattern sensoriale della forma intera della parola per poterla individuare. Ha poi
difficoltà di accesso ai magazzini di memoria e non è detto che attivi i significati giusti.
A prevalenti difficoltà nell’attivare le diverse vie di lettura, corrispondono altrettante tipologie di
disturbo dislessico.
Parliamo di dislessia superficiale quando il soggetto ha difficoltà ad usare la via visiva e predilige
la lettura “lettera per lettera” (errori nella lettura a voce alta, lentezza, comprensione difficoltosa a
causa della macchinosità della decodifica). Con le lingue non trasparenti, come l’inglese, i
problemi sono ancora più rilevanti, perché a scritture diverse a volte corrisponde uguale pronuncia
e viceversa a scritture uguali può corrispondere diversa pronuncia. Si tratta della forma di dislessia
più frequente, per questo è utile privilegiare l’utilizzo dei metodi fonico-sillabici per l’insegnamento
della lettura, secondo la progressione: fonemi, fusione sillabica, parola, frase.
La dislessia fonologica è quella del lettore “visivo”, che riconosce dalla forma complessiva la
parola, quindi riesce a leggere solo le parole, non troppo lunghe, che ha imparato a memoria e
non riesce a leggere le non parole.
La dislessia profonda comporta, oltre al deficit fonologico, anche problemi di identificazione
semantica, quindi difficoltà di accesso diretto al magazzino della memoria lessicale.
La lettura, se lenta e scorretta, influenza fatalmente la comprensione del testo che è spesso
ridotta e nel tempo diventa più faticosa poiché aumentano le difficoltà contenutistiche, strutturali e
lessicali dei testi affrontati.
Per riconoscere una situazione di sospetto disturbo dislessico, fin dalla prima classe della scuola
primaria, si possono osservare alcuni specifici indicatori di difficoltà:
• L’alunno è lento nel ricordare le lettere e nella corrispondenza fonema/grafema (la lentezza è
l’indicatore principale).
• Quando legge fa molti errori (non fa bene l’analisi fonemica).
• Non riesce a passare alla seconda fase del processo di lettura, ovvero non riconosce a vista le
parole note.
In un momento successivo, i principali problemi che si possono riscontrare sono:
• Scarsa discriminazione di grafemi diversamente orientati nello spazio: confusione p-b, p-q, u-n,
a-e, b-d…
• Scarsa discriminazione di grafemi che differiscono per piccoli particolari: m-n,c-e,f-t...
• Scarsa discriminazione di grafemi che corrispondono a fonemi sordi e fonemi sonori
(somiglianze percettivo – uditive).
• Difficoltà di decodifica sequenziale: leggere richiede al lettore di procedere con lo sguardo in
direzione sinistra - destra e dall'alto in basso. Nel soggetto dislessico possono verificarsi difficoltà
di decodifica sequenziale, per cui si manifestano con elevata frequenza errori quali l’omissione di
grafemi e di sillabe (“fote” anziché “fonte”; oppure “capo” anziché “campo”...) oppure di vocali
(“fume” anziché “fiume”), di sillabe (“talo” anziché “tavolo”; “paro” anziché “papavero”). Si
evidenziano difficoltà a procedere sul rigo e ad andare a capo, con “salti” di parole o di intere righe
di lettura, inversioni di sillabe o della sequenza dei grafemi.
• Difficoltà a procedere con lo sguardo nella direzione sinistra – destra, con l'aggiunta o ripetizione
di un grafema o di una sillaba ( ad esempio “tavovolo” al posto di “tavolo”...).
• Errori di anticipazione: il soggetto esegue la decodifica della prima parte della parola, talvolta
anche solo del primo grafema o della prima sillaba, e procede “inventando” l’altra parte. La parola
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contenuta nel testo viene così ad essere spesso trasformata in un’altra di significato affine o
completamente diverso.
• Problemi psicologici: fin dalla scuola primaria il bambino può evidenziare demotivazione e scarsa
autostima, ma queste sono una conseguenza dell’insuccesso scolastico, non la causa della
dislessia. Il bambino è disordinato, disturba in classe e fa il buffone, è emotivo ed ansioso.
L’incostanza dell'errore e grande sensibilità al contesto in cui viene svolto il compito (rumore,
tarda mattinata, ansia, ecc., possono peggiorare notevolmente le prestazioni) rendono discontinuo
il rendimento.
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• Difficoltà posturali e motorie: il bambino non mantiene una postura corretta, non tiene
correttamente la mano che non scrive, i cui movimenti interferiscono con il controllo della mano
che scrive, ha tremori e difficoltà nel modulare la pressione del segno, impugna l’attrezzo grafico
in modo scorretto, con la mano troppo rigida o il pollice instabile, è eccessivamente lento o troppo
impulsivo.
• Difficoltà nell’autocontrollo del segno grafico nella copiatura, nelle attività di pregrafismo e nelle
coloriture: il bambino non riesce a riprodurre figure semplici rispettandone le caratteristiche
spaziali, fatica a seguire un “binario” o una linea tratteggiata, esce vistosamente dai margini nelle
coloriture.
Sono state elaborate prove di screening di tipo visuo-spaziale che aiutano l’insegnante a valutare
l’entità delle difficoltà grafiche dell’alunno, ascrivendole prevalentemente all’area del controllo
grafo-motorio piuttosto che visuo-spaziale. L’individuazione precoce di difficoltà permette di
progettare interventi di potenziamento delle abilità (pregrafismo, esercizi defatiganti, modifica della
prensione, scelta di adeguate tipologie di matite, uso di gommini facilitanti,…).
L’intervento sulla postura e l’impugnatura è quello che più ha efficacia preventiva, in questo senso
è da sconsigliare l’utilizzo di pennarelli grossi e pesanti che abituano il bambino ad una prensione
scorretta per essere sorretti verticalmente, costringendolo ad utilizzare più dita anziché la pinza
pollice-indice.
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12. LA DISCALCULIA: PREDITTORI, INDICATORI E MANIFESTAZIONI
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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Decreto legislativo 5669/2011 e allegate Linee Guida per il diritto allo studio degli alunni e degli
studenti con Disturbi Specifici di Apprendimento
Associazione Italiana Dislessia, “Il mago delle formiche giganti. La dislessia a scuola: tutti uguali,
tutti diversi”, Ed. Libri Liberi, Firenze, 2002
Biancardi A., Mariani E., Pieretti M., “La Discalculia Evolutiva. Dai modelli neuropsicologici alla
riabilitazione”, Ed. Franco Angeli, Milano, 2003
Stella G., “Storie di dislessia. Bambini di oggi e di ieri raccontano la loro battaglia quotidiana”, Ed.
Libri Liberi, Firenze, 2002
Stella G., Blasi, Savelli E., Giorgetti, “La valutazione della dislessia”, Ed. Città Aperta, 2003
Ianes D., Tortello M., “La qualità dell’integrazione scolastica. Disabilità, disturbi dell’apprendimento
e differenze individuali”, Centro Studi Erickson, Trento, 1999
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