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PSICOPATOLOGIA DELLO SVILUPPO

DISTURBI DEL NEUROSVILUPPO

Disabilità intellettiva

(lieve, moderata, grave)

Funzionamento intellettivo borderline

(in realtà contenuto in Altre condizioni che possono essere oggetto di attenzione clinica)

Disturbo dello spettro dell’autismo

compresi

Disturbo di Rett

Disturbo disintegrativo dell’infanzia

Disturbo di Asperger

Disturbo pervasivo dello sviluppo NAS

Disturbo specifico dell’apprendimento

con specificazione di

Compromissione della lettura

Compromissione dell’espressione scritta

Compromissione del calcolo

Disturbo da defici di attenzione / iperattività


DISABILITÀ INTELLETTIVA LIEVE

- Carenza intellettiva
- Coartazione (riduzione del tono dei sentimenti esternati)
- Difficoltà scolastiche
- Deficit nelle abilità adattive (comunicazione, cura di sé, capacità sociali, ecc.)

I criteri diagnostici dell’ICD-10 suddividono i livelli della disabilità intellettiva in modo netto attraverso il QI,
mentre il DSM-5 li valuta primariamente sulla base del funzionamento adattivo:

- fino a 70: nessun ritardo


- da 50 a 69: ritardo lieve
- da 35 a 49: ritardo moderato
- da 20 a 43: ritardo grave
- sotto a 20: ritardo gravissimo

Nonostante il DSM-5 ridimensioni l’importanza del QI a favore delle difficoltà adattive, nella disabilità
intellettiva lieve può essere utile usare un test del QI per ottenere informazioni più affidabili sul reale
funzionamento intellettivo del soggetto.

La disabilità intellettiva lieve (o Ritardo mentale lieve nell’ICD-10) viene scoperta in genere solo all’ingresso
della scuola primaria. È più frequente nelle famiglie con basso livello economico e culturale.

Accettare la diagnosi può diventare difficile quando non vi siano cause organiche chiare, aspetto spesso
frequente. A volte la diagnosi tuttavia può essere utile per dare un nome a una sensazione diffusa che però
veniva continuamente evitata.

Il quadro non appare particolarmente grave; è come se tutto (intelligenza, autonomia, socialità, abilità
specifiche) si sviluppasse con lentezza ma con la sensazione che con calma le tappe fondamentali verranno
raggiunte. Infatti, se la disabilità è live il recupero è notevole e possono restare esclusi sono i livelli più alti
di astrazione e di autonomia.

In caso di disabilità intellettiva a volte il massimo che si può fare è insegnare meccanicamente delle abilità
utili alla vita, oppure anche solo a saper dire di sì o di no oppure a comunicare bisogni fondamentali (“ho
fame”).

A volte è tuttavia possibile insegnare anche abilità metacognitive che favoriscono il miglioramento di molte
prestazioni (più si ha consapevolezza dei meccanismi di funzionamento e di regolazione delle attività
cognitive – “più studio questo brano e meglio lo saprò” – e più si diventerà capaci).
Inoltre è possibile lavorare sul problem solving, sugli stili di attribuzione e sull’autostima. In tal senso è
possibile lavorare per ridurre l’ansia quando il bambino si deve confrontare con compiti difficili attraverso il
rinforzamento e il modellaggio che evitano fare insorgere frustrazione (come avviene quando questi
bambini vengono costantemente ripresi su ciò che non va, comportamento purtroppo molto frequente).

Si deve dunque imparare a capire quali sono le aspettative ragionevoli e quali quelle irragionevoli
attraverso un opportuno parent training.

Tra le autonomie sociali è importante l’apprendimento dell’uso del denaro, consegnando delle somme
esigue per fare piccoli acquisti quotidiani.

L’integrazione e l’apprendimento cooperativo è fondamentale: l’integrazione del bambino con disabilità


intellettiva migliora l’apprendimento – scolastico e sociale – e diminuisce il rischio di condotte patologiche.

Nella disabilità intellettiva, soprattutto se lieve, ci sono importanti relazioni con la depressione,
l’aggressività e l’autolesionismo.
DISABILITÀ INTELLETTIVA MEDIA

Nella disabilità media è quasi sempre possibile trovare una causa organica (per esempio la sindrome di
Down).

In questo caso la disabilità è già nota anche prima dell’ingresso nel sistema scolastico, ma anche in questo
caso la diagnosi permette di dare un nome al problema, di gestire meglio le condotte evitanti e di capire
quello che si potrà fare.

In questo senso è importante il parent training perché prima i genitori sono coinvolti nell’intervento e
prima abbandoneranno un atteggiamento rinunciatario nei confronti del figlio, trasformando il clima
relazionale tenitori-bambino.

Dunque è fondamentale che le abilità che vengono acquisite siano poi calate nella vita di tutti i giorni.

Si può anche lavorare sulla lettura e sulla scrittura partendo da parole semplici accompagnate da disegni,
sia per sia per dargli maggiore autonomia (lettura funzionale, ovvero mirata al riconoscimento di parole utili
nella vita di tutti i giorni) sia perché comunque dovrà passare molto tempo a scuola.

Fondamentale è il lavoro di rinforzamento, di apprendimento senza errori e di generalizzazione.


DISABILITÀ INTELLETTIVA GRAVE

In questo caso la disabilità è evidente e la diagnosi è possibile sin dalla nascita, tanto che è inutile
somministrare un test del QI.

Le cause sono organiche: anomalie genetiche, alterazioni dello sviluppo embrionale, fattori teratogeni o
tossici, grave prematurità, infezioni o traumi postnatali.

Il lavoro è ti tipo comportamentista per acquisire abilità specifiche come mangiare, andare in bagno, vestirsi
da soli.

Per fare questo si parte dalle abilità già possedute per costruirne di nuove attraverso il modellaggio; gli
obiettivi devono essere espliciti e ben programmati.

Ogni successo deve essere rinforzato; in genere funzionano solo rinforzi concreti come quelli alimentari ma
è bene associarli sempre a quelli sociali (lode verbale) per cercare a lungo termine di spostare il tipo di
rinforzo e di attenuarlo cercando di favorire una attenuazione.

È possibile inoltre ridurre agggressività e stereotipie evitando di rinforzarle e gratificando invece le reazioni
più appropriate. A volte infatti i comportamenti inappropriati hanno una funzione comunicativa e dunque è
necessario lavorare anche sull’insegnare forme più adeguate di comunicazione, tanto che più migliora la
comunicazione e più si riducono i comportamenti problematici.
FUNZIONAMENTO INTELLETTIVO BORDERLINE

Nel DSM-5 il “Funzionamento intellettivo borderline” è inserito nelle “Altre condizioni che possono essere
oggetto di attenzione clinica”; nell’ICD-10 non è presente, dunque si ricorre ai codici R in cui è presente la
diagnosi di “Altri e non specificati sintomi e segni che coinvolgono le funzioni cognitive e la
consapevolezza”.

Quando un bambino ha uno sviluppo intellettivo borderline sono spesso più i genitori a presentarsi
raccontando i loro dubbi e i loro problemi più che il bambino ad essere in una situazione di disagio o di
reale compromissione funzionale.

Anzi, spesso sono proprio le critiche dei genitori o degli insegnanti a creare disagio nel bambino, che
altrimenti magari sperimenterebbe tanti piccoli problemi (per esempio nella scrittura, nell’attenzione, nel
comportamento oppositivo, nell’autostima, ecc.) tali da non avere significatività clinica ma al tempo stesso
da avere margine di miglioramento.

Nelle scuole se un bambino

- ha una disabilità intellettiva è protetto dalla legge 104/92, ha diritto ha un insegnante di sostengo e
a un “piano educativo individualizzato” (PEI).
- se ha un disturbo specifico dell’apprendimento è protetto dalla legge 170/10, ha diritto a strumenti
compensativi, a misure dispensative e a un piano didattico personalizzato;
- se ha un funzionamento intellettivo borderline (per esempio ha un QI basso, legge male ma non è
dislessico, ecc.) può essere certificato come alunno con “bisogni educativi speciali” (BES).
AUTISMO – DISTURBI DELLO SPETTRO AUTISTICO

La caratteristica fondamentale del Disturbo dello spettro autistico è un’incapacità di stabilire un adeguato
sistema di comunicazione con l’ambiente che porta il bambino a una grave compromissione
dell’interazione sociale, a comportamenti e interessi ristretti, ripetitivi e sterotipati.

Nel ICD-10 l’autismo è inserito nelle “Sindromi da alterazione globale dello sviluppo”: autismo, sindrome di
Rett (colpisce prevalentemente le femmine e causa disabilità cognitiva grave), sindrome di Asperger,
sindrome disintegrativa, ecc.

Nel DSM i vari tipi di autismo erano separati fino al DSM-5 che li ha riuniti in una sola categoria con
specificazioni relative alla gravità e alla presenza di altri disturbi (compromissione intellettiva o del
linguaggio, condizioni mediche, ecc.).

Criteri

Le caratteristiche dei disturbi dello spettro autistico sono

- grave compromissione dell’interazione sociale (non guardare negli occhi, non interagire, non
condivide sentimenti, ecc.),
- scarsa “teoria della mente” (con conseguente incapacità di interpretare il linguaggio simbolico,
astratto, l’umorismo o i doppi sensi),
- scarsa “teoria di coerenza centrale” (ovvero di cogliere gli aspetti salienti di una situazione senza
fermarsi ai dettagli),
- deficit nell’attenzione condivisa,
- compromissione del linguaggio verbale (esordio tardivo e espressione limitata),
- incapacità di giocare (soprattutto riguardo ai giochi simbolici e di simulazione),
- esordio precoce (spesso l’autismo infantile viene diagnosticato sin dai primi mesi di vita).

Il profilo cognitivo può essere molto irregolare e presentare contemporaneamente gravi limiti nelle abilità
verbali a fronte di elevate capacità logiche e di problem solving.

Le gravi anomalie dello sviluppo nei casi più gravi sono evidenziabili sin dai primi mesi di vita, mentre in
quelli più lievi si notano solo più tardivamente.

Ad ogni modo in genere i sintomi dell’autismo sono più marcati nella prima infanzia e tendono a migliorare
negli anni, soprattutto per quanto riguarda le relazioni sociali.
Eziologia

I disturbi dello spettro dell’autismo non sono causati da relazioni madre-bambino distorte (quelle che erano
chiamate “madri frigorifero”). Tra l’altro raramente si trovano famiglie con due figli autistici, mentre è
molto probabile che gemelli monozigoti lo siano entrambi.

L’origine è biologica anche se non sono ancora chiare le cause: i diversi studi le identificiano in bassi livelli di
serotonina, anomalie neurobiologiche, condizioni negative neonatali, rosolia materna, associazioni con
patologie specifiche, sindrome dell’X fragile.

Il 70% di individui con Disturbo dello spettro dell’autismo è affetto anche da un altro disturbo, in particolare
da ADHD, disturbi depressivi e disturbi d’ansia; in particolare, dato che oltre il 50% dei bambini autistici
soddisfa anche i criteri diagnostici per un disturbo d’ansia, si ritiene che l’ansia possa amplificare i sintomi
autistici e innescare difficoltà comportamentali, come aggressività e autolesionismo.

Intervento

La terapia – che può durare anche molti anni - mira a fare acquisire alcune abilità di linguaggio verbale e di
comunicazione e nell’aumentare i tempi di attenzione e di concentrazione. In particolare si cercherà di
migliorare la comunicazione spontanea, ovvero la capacità di esprimere non solo verbalmente i propri
bisogni e di scambiare informazioni con gli altri.

Si cercherà inoltre di migliorare la “teoria della mente”, per esempio iniziando a fare riconoscere le
emozioni in foto con espressioni del viso, quindi in disegni schematici e infine in situazioni generiche (si
possono usare al proposito le Social stories, brevi racconti che favoriscono l’interpretazione di situazioni
sociali impegnative o ambigue).

Inoltre si lavorerà sui comportamenti distruttivi a scopo comunicativo; in genere il miglioramento delle
capacità di comunicazione va di pari passo con una diminuzione dei comportamenti problematici come le
stereotipie, l’aggressività e l’autolesionismo, migliorando anche la qualità della vita.

Per fare questo è necessario sia estinguere i comportamenti inadeguati sia rinforzare quelli che si
avvicinano alla meta (modellaggio e rafforzamento differenziale).

È fondamentale che il lavoro continui nei vari contesti in cui si trova il paziente per favorire la
generalizzazione.

Per quanto riguarda le abilità sociale si possono fare dei role play e utilizzare delle videoregistrazioni; in
questi casi paziente e terapeuta si possono scambiare (in modo da lavorare anche sulla teoria della mente)
e il paziente può essere a volte se stesso e altre un’altra persona.

A volte, quando le capacità relazionali sono molto limitate, all’inizio il massimo che si può fare nei primi
incontri è dire il nome del bambino e vedere se risponde con un breve contatto oculare. Successivamente si
può porgere una matita per fare un disegno o fare giochi tipo dire una cosa da prendere e attendere che
venga presa.
ALTRI DISTURBI DELLO SPETTRO AUTISTICO

Quando i sintomi dell’autismo si manifestano in forma attenuata (tanto da diventare evidenti solo dopo
alcuni anni, per esempio con l’ingresso nel mondo scolastico) sono state proposte varie denominazioni:

- sindrome non specificata da alterazione globale dello sviluppo psicologico (ICD-10),


- autismo atipico (il disturbo presenta i sintomi dell’autismo ma non in forma completa),
- disarmonia evolutiva.

Il rischio è che queste etichette possano avere effetti negativi sul bambino e sul suo ambiente.

Le seguenti diagnosi non sono più presenti nel DSM-5 che le fa rientrare tutte nel Disturbo dello spettro
dell’autismo.

SINDROME DI ASPERGER (O AUTISMO AD ALTO FUNZIONAMENTO)

I bambini con questa sindrome spesso hanno un’intelligenza superiore alla media ma possono avere
difficoltà nei compiti scolastici che richiedono capacità organizzativa e problem solving e nella scrittura a
mano (spesso al proposito si consiglia di usare un computer).

I bambini con questa sindrome hanno buone capacità verbali ma difficoltà di comunicazione e
introversione, non hanno amici perché preferiscono stare da soli, non vogliono essere toccati, la confusione
dà loro fastidio, mangiano solo pochi alimenti.

Altri sintomi riguardano sempre le capacità di interazione sociale come carenza di sguardo diretto, postura
rigida, difficoltà a condividere emozioni, sottomissione a abitudini inutili o a rituali specifici.

Possono parlare di sé in modo meccanico e trasmettendo un’immagine positiva e di perfezione che loro
stessi non condividono.

DISTURBO DISINTEGRATIVO DELL’INFANZIA

Si caratterizza da un esordio tardivo rispetto all’autismo – diagnosticabile sin dai primi mesi di vita – e da un
progressivo deterioramento delle capacità relazionali, verbali e cognitive.

Il bambino diventa difficilmente distinguibile da un soggetto autistico grave ed è caratterizzato da

- stereotipie,
- autostimolazioni (tra cui masturbazione compulsiva),
- esplosioni improvvise di aggressività auto ed eterodiretta,
- scarsa autonomia tanto da non poter essere lasciato solo in situazioni sociali a causa
dell’imprevedibilità dei suoi comportamenti.
DISTURBO DI RETT

Disturbo neuroevolutivo che colpisce solo le femmine e che insorge dopo il primo anno di vita dopo un
apparente normalità nello sviluppo; presenta rallentamento nella crescita del cranio, ipotonia e
diminuzione della motilità, stereotipie, arresto nello sviluppo psicomotorio e gravi difficoltà
nell’espressione verbale.

Il decorso è di un autismo con ritardo mentale e la prognosi è spesso peggiore per l’insorgenza di
complicanze neurologiche.

Criteri

- Stereotipie (per esempio eloquio interrotto da frasi prese da altri contesti, per esempio della
pubblicità),
- egocentrismo,
- bizzarrie nel comportamento.

Tali sintomi tendono a presentarsi soprattutto in situazioni ansiogene e a ridursi quando il paziente è calmo.

Intervento

Si può lavorare su compiti cognitivi con difficoltà crescente (comprensione di semplici testi), compiti
metacognitivi (mettersi nei panni dell’altro) e soprattutto compiti comportamentali (da fare a casa, come
invitare un compagno a giocare con lui).

Questi ultimi sono molto importanti perché vengono svolti con la collaborazione dei genitori che possono
così rendersi conto delle possibilità di miglioramento del figlio.

Si può infine lavorare sul rilassamento per ridurre i sintomi di agorafobia, di somatizzazione, aggressivi, ecc.

DISTURBO SPECIFICO DELL’APPRENDIMENTO CON COMPROMISSIONE DELLA LETTURA


o DISTURBO DELLA LETTURA

Nel DSM-5 il “Disturbo della lettura” è una specificazione (fino al DSM-IV-TR era un disturbo autonomo) del
“Disturbo specifico dell’apprendimento” che a sua volta è inserito nei “Disturbi del neurosviluppo” (insieme
alla Disabilità intellettiva e al Disturbo dello spettro dell’autismo).

Nel DSM-5 viene specificato che con “dislessia” e “discalculia” di fa riferimento alle difficoltà di velocità e
accuratezza, non di comprensione.

Nell’ICD-10 il “Disturbo specifico della lettura” rientra nei “Disturbi evolutivi specifici delle abilità
scolastiche” a sua volta compreso nelle “Sindromi e disturbi da alterato sviluppo psicologico”. Nel ICD-10 il
Disturbo della lettura ha precedenza su quello del calcolo.

Qualora un bambino venga diagnosticato con un DSA può usufruire dei BES (Bisogni educativi speciali,
tutelati dalla legge 170/210) che prevedono misure dispensative (l’alunno può essere esonerato dal leggere
ad alta voce, dall’imparare le tabelline a memoria o dalla scrittura sotto dettatura) e strumenti
compensativi (gli argomenti possono essere schematizzati, le lezioni possono essere registrate in modo che
il bambino apprenda dal loro riascolto piuttosto che dalla lettura di un libro).

I DSA colpiscono più i maschi che le femmine.

Originariamente si attribuiva importanza a fattori emozionali o a una cattiva relazione tra il bambino e le
figure di accudimento; oggi si riconosce l’influenza di fattori diversi.

Tra essi troviamo fattori genetici predisponenti, prematurità e sofferenze prenatali, familiarità, bassa
qualità nell’accudimento, problemi psicologici e sociali nei genitori.

Inoltre questi disturbi sono spesso in comorbilità con i disturbi del comportamento (in particolare ADHD e il
Disturbo provocatorio o della condotta), i disturbi depressivi e quelli di ansia. Non a caso a volte è difficile
capire se si tratti di un disturbo specifico o se questi problemi siano secondari ai disturbi della sfera
emozionale.

A volte la diagnosi di DSA può avere problemi di diagnosi differenziale con i Disturbi dello spettro
dell’autismo per via delle analogie per quanto riguarda i deficit cognitivi , di comunicazione e sociali.

Riguardo alla diagnosi differenziale con l’ADHD quest’ultimo è più legato alla difficoltà a mettere in pratica
le abilità piuttosto che a specifiche difficoltà di apprendimento.

Il Disturbo della lettura copre l’80% dei casi di DSA e colpisce il 10% della popolazione scolastica.

Dislessia P e dislessia L
Il modello di acquisizione della lettura è detto “a due vie” perché si compone di

- una via fonologica o percettiva (P) tipica dell’emisfero destro che parte con l’associazione grafema-
fonema continua con la fusione dei grafemi-fonemi e arriva alla decodifica; il bambino in genere
utilizza questa via per prima nel suo sviluppo;
- una via “diretta” o lessicale (L) e tipica dell’emisfero sinistro in cui si parte direttamente da
un’analisi visiva globale della parola; il bambino utilizza questa via solo successivamente;
- una via mista (M).

Avremo quindi diverse dislessie:

- nella dislessia P i bambini hanno difficoltà nelle parole irregolari o omofone;


- nella dislessia L i bambini tendono a indovinare, fanno tanti errori e hanno una difficoltà specifica
con le non-parole.

Criteri

- Capacità di lettura inferiore rispetto a quanto previsto per l’età, il livello di intelligenza e l’istruzione
ricevuta; il problema può riguardare sia la velocità sia la correttezza sia la comprensione (criterio di
discrepanza).
- Tali difficoltà interferiscono significativamente con l’apprendimento e le attività di vita quotidiana.
- Tali difficoltà non devono essere causate da problemi medici o psicologici più gravi (per esempio
deficit sensoriali o disabilità intellettiva) (fattori di esclusione)

I bambini con DSA tendono inoltre ad avere bassa autostima, bassa motivazione nelle attività scolastiche e
uno stile di attribuzione inadeguato.

Intervento

Innanzitutto bisogna chiarire al bambino, ai genitori e agli insegnanti che il bambino non è svogliato e
colpevole delle sue difficoltà, che non deve essere rimproverato, ma che ha delle specificità
nell’apprendimento che meritano attenzioni e incoraggiamenti.

Per questo è importante che, attraverso un apposito parent training, i genitori siano informati sulle
necessità del figlio e dell’importanza del loro aiuto sia nel miglioramento sia dei risultati sia del clima
familiare.

I programmi riabilitativi sono molto incentrati sugli aspetti tecnici della decodifica tanto che il bambino
finisce col pensare che la lettura è un’attività difficile e meccanica che bisogna svolgere il più velocemente
possibile e senza errori.

Al contrario bisogna lavorare sul rinforzamento e farlo in collaborazione con la famiglia e con gli insegnanti;
la lettura condivisa è infatti utile sia nell’apprendimento che nel migliorare le relazioni.
Questi aspetti emozionali – come l’acquisizione di un atteggiamento positivo nei confronti di una certa
attività scolastica – sono utili per superare le idee stereotipate sulle proprie difficoltà specifiche, sul fatto
che molte persone provano ansia al riguardo (per esempio in particolare verso la matematica) e anche di
saper accettare l’insuccesso utilizzando l’errore in modo positivo e non solo come un giudizio negativo su se
stessi.

Si possono fare leggere dei testi, segnare il tempo impiegato e gli errori commessi e poi osservare i risultati.

Si possono fare giochi adattati in senso linguistico come il memory, la tombola o il domino.

Esistono anche appositi software didattici che facilitano la progressività dei compiti e che in genere sono
visti come piacevoli.

È invece importante non tralasciano lo sviluppo della metacognizione nel bambino, utile per capire che non
è importante leggere ma capire quello che si sta leggendo. Allo scopo si può lavorare contemporaneamente
sulla costruzione di storie di senso compiuto.

Per questo è molto importante è molto importante leggere ai bambini prima ancora che imparino a farlo
perché così sviluppano una sensibilità metacognitiva riguardo all’importanza della lettura.

Sempre riguardo alla metacognizione si può insegnare al bambino ad autovalutare e autorinforzare la


propria prestazione.

Un tempo si tendeva a credere che i DSA passassero con l’età, mentre, nonostante sia generalmente
riscontrabile un miglioramento, si è visto che se non trattati perdurano anche in età adulta.

Un intervento precoce è un fattore prognostico positivo sia per il miglioramento del disturbo sia per evitare
che evolva in altri disturbi, come il disturbo depressivo o quello antisociale.
DISTURBO SPECIFICO DELL’APPRENDIMENTO CON COMPROMISSIONE DELLA SCRITTURA

o DISTURBO DELL’ESPRESSIONE SCRITTA

Il Disturbo dell’espressione scritta è nel DSM-5 una specificazione del Disturbo specifico
dell’apprendimento e può riguardare unicamente la scrittura (“disgrafia”) oppure la correttezza
(“disortografia”).

Criteri

- Deve essere compromessa la velocità e la fluidità del gesto ovvero la leggibilità del testo prodotto.
- Tali difficoltà non devono essere causate da problemi medici o psicologici più gravi (per esempio
deficit sensoriali o disabilità intellettiva.

Intervento

Si possono usare quaderni con righe in rilievo, matite con impugnatura speciale, percorsi guidati di
recupero grafico, ortografico e di composizione del testo.

Fondamentale è rinforzare le capacità di autonomia, autostima e autoefficacia attraverso


l’autoosservazione e l’autorafforzamento.

L’intervento sulla scrittura non dovrà infatti riguardare solo l’ortografia ma in generale la scrittura di un
testo, la capacità di progettarlo e anche di revisionarlo. Molto utile anche la preparazione di cartelloni o di
ipertesti.

Esistono programmi per computer che garantiscono un’ottima progressività e che vengono in genere
accettati positivamente.
DISTURBO SPECIFICO DELL’APPRENDIMENTO CON COMPROMISSIONE DEL CALCOLO

o DISTURBO DEL CALCOLO

Il DSA con compromissione del calcolo comprende avere difficoltà con il concetto di numero, col
memorizzare i fatti aritmetici e col ragionamento logico-matematico.

Le capacità di calcolo possono essere misurate attraverso test standardizzati.

Criteri

- Le capacità di calcolo risultano essere inferiori a quelle che ci si aspetterebbe in base all’età e alle
potenzialità intellettive.
- Tali difficoltà interferiscono significativamente con l’apprendimento o con le attività quotidiane che
richiedano abilità di calcolo.
- Tali difficoltà non devono essere causate da problemi medici o psicologici più gravi (per esempio
deficit sensoriali o disabilità intellettiva.

Intervento

In genere è preferibile partire con l’insegnare al bambino problemi che possano essere utilizzati nella vita di
tutti i giorni, per esempio la lettura dell’orologio, l’uso del denaro, ecc.

Si possono dare compiti di conteggio e di ordinamento di sistemi ordinati o disordinati.

Fondamentale è rinforzare le capacità di autonomia, autostima e autoefficacia attraverso


l’autoosservazione e l’autorafforzamento.

Esistono programmi per computer che garantiscono un’ottima progressività e che vengono in genere
accettati positivamente.

DISTURBI DELLA COMUNICAZIONE - DISTURBO DEL LINGUAGGIO

Il disturbo del linguaggio è uno dei Disturbi della comunicazione nel DSM-5 e si caratterizza per una
difficoltà nella comprensione o nella produzione linguistica.

Sono presenti lessico ridotto, difficoltà nella strutturazione delle frasi e una generale compromissione delle
abilità discorsive.

Si può verificare una concomitanza con un Disturbo fonetico-fonologico se sono presenti anomalie nella
produzione dei suoni.
DISTURBO DA DEFICIT DI ATTENZIONE E IPERATTIVITÀ (DDAI o ADHD)

I bambini con Disturbo da deficit di attenzione e iperattività sono bambini con un’intelligenza normale ma
che hanno tempi di attenzione brevissimi indipendentemente dal compito (basta un rumore o un pensiero
interno per distrarli), difficoltà a rispettare le regole, pessime relazioni con i compagni anche a causa della
loro aggressività, facile eccitabilità (un piccolo inconveniente può portare a urlare, sbattere oggetti o
mettersi a piangere), oppositività e mutacismo.

Nel ICD-10 è detto “Disturbo dell’attività e dell’attenzione” e rientra nelle “Sindromi ipercinetiche” di cui fa
parte anche il “Disturbo ipercinetico della condotta” che include i criteri sia della “Sindrome ipercinetica”
che del “Disturbo della condotta”.

Eziologia

L’orientamento psicodinamico critica questa categoria diagnostica in quanto il deficit non


rappresenterebbe un deficit, ma un’organizzazione disarmonica della personalità di tipo prepsicotico, con
angoscia e aggressività; tale strutturazione deriverebbe dalla relazione tra il bambino e i caregiver.

Esiste probabilmente un fattore genetico di familiarità, anche se nei genitori di bambini con ADHD si
riscontrano frequentemente modalità educative e relazionali inadeguate, improntate a lassismo o durezza
eccessivi o più ancora a un passaggio inaspettato e repentino tra le due modalità, con ambiguità e
incoerenza educativa. Tuttavia va anche detto che un bambino iperattivo tenderà a elicitare un’interazione
inadeguata con i genitori; il disturbo finisce così con l’essere causa ed effetto della patologia.

Effettivamente nei bambini con questo disturbo, oltre alla carenza attentiva e all’iperattività, sono in genere
presenti anche una scarsa tolleranza alla frustrazione, bassa autostima, ansia, fobie, isolamento e
iperdipendenza, tanto che l’ADHD è spesso in comorbilità con i distrubi depressivo, bipolare, d’ansia e
oppositivo, fino a disturbi che appaiono in adolescenza, come i disturbi correlati a sostanze.

Alcuni sintomi neurologici minori tuttavia fanno ipotizzare una causa organica, probabilmente a carico delle
aree prefrontali la cui origine potrebbe rintracciarsi in sofferenze fetali o postnatali come traumi o
convulsioni. Altri studi ipotizzano invece un coinvolgimento della memoria di lavoro.

Sicuramente esistono anche cause genetiche, tanto che questo disturbo è dieci volte più frequente nei
maschi che nelle femmine.

La prevalenza del disturbo è del 3-4% della popolazione e tale stima appare in aumento.
Criteri

- Disattenzione: non riuscire a prestare attenzione in modo continuato, commettere errori di


distrazione, dare l’idea di non ascoltare quando gli altri parlano, non riuscire a seguire un set di
istruzioni, perdere frequentemente oggetti, essere facilmente distratti da stimoli esterni o da
pensieri interni, essere sbadati.
- Iperattività: muovere con irrequietezza mani e piedi o dimenarsi sulla sedia, alzarsi continuamente,
muoversi in modo eccessivo, avere difficoltà in giochi tranquilli, parlare troppo.
- Impulsività: sensazione di agire senza pensare, rispondere prima ancora che le risposte siano
concluse, non riuscire a rispettare l’alternanza nella conversazione interrompendo gli altri.
- Età di esordio inferiore ai dodici anni.
- Presenza dei sintomi in almeno due contesti di vita (per esempio scuola e casa).
- Compromissione significativa del funzionamento sociale o scolastico.

Può essere fatta la specificazione di “Manifestazione con disattenzione predominante”, “Manifestazione


con iperattività/impulsività predominanti” o “Manifestazione combinata”.

Spesso è presente un’ansia generalizzata che può sfociare in forme di panico oppure manifestarsi con
sintomi di tipo ossessivo-compulsivo.

I sintomi del ADHD sono simili a quelli del Disturbo bipolare e anche a quelli del Disturbo dello spettro
dell’autismo.

C’è spesso comorbilità dunque con i disturbi di ansia, dell’umore, col disturbo ossessivo-compulsivo e con
quello oppositivo provocatorio; molti adolescenti che commettono reati soffrono infatti di ADHD.

I disegni di un bambino con ADHD sono in genere tirati via, spesso rappresentano temi aggressivi (con
sangue, mostri, esplosioni, ecc).

Esistono prove standardizzate per l’ADHD per i bambini, i genitori e gli insegnanti; a volte i bambini sono
così distratti che le prove non possono essere somministrate.
Intervento

In genere i genitori di fronte a un figlio che ha dei problemi tendono da una parte a negare il problema o a
dire che riguarda unicamente la scuola ma dall’altra riconoscono che delle difficoltà ci sono sempre state
(per esempio un bambino iperattivo può avere avuto da sempre problemi col sonno).

In questi casi può essere utile che gli insegnanti, invece di spingere direttamente i genitori a portare il
bambino da uno specialista, esprimano le loro difficoltà rispetto alle quali hanno parlato con uno
specialista, ma che quest’ultimo, anche per dare un consiglio, aveva bisogno di vedere il bambino.

L’intervento deve basarsi sia su aspetti comportamentali attraverso una token economy che riguardi
determinate abitudini (per esempio non alzarsi continuamente) sia su aspetti cognitivi come
l’automonitoraggio.

I successi pratici non si limitano infatti a modificare comportamenti, ma incidono anche sull’autostima,
sull’autoefficacia e sugli stili di attribuzione.

Un bambino con ADHD è infatti abituato a essere rimproverato, tanto da credere che anche se si danno da
fare saranno comunque criticati. Sentirsi dire che si è stati bravi insegna invece che il miglioramento non è
dovuto a fattori esterni ma all’impegno che si è messo e che tale miglioramento è quantificabile (per
esempio il tempo passato senza alzarsi dalla sedia).

Molto efficaci sono gli interventi che prevedono l’uso di mindfullness.

Farmaci stimolanti (amfetamina e metifenidato, il Ritalin) hanno dimostrato un’efficacia notevole nella
riduzione dei sintomi dell’iperattività. Tali farmaci tendono a creare dipendenza e in generale il loro uso
deve essere ben valutato e inserito all’interno di una psicoterapia.

Con la crescita i sintomi legati all’iperattività tendono a scomparire mentre il deficit attentivo e l’impulsività
si mantengono anche se a livelli più bassi in un quarto dei bambini con ADHD.

La prognosi è più sfavorevole quanto più è precoce; nei casi più difficili o non trattati durante l’adolescenza
si può avere un’evoluzione in Disturbo della condottafino al Disturbo antisociale e Disturbo da uso di
sostanze oppure in Disturbo borderline o Schizofrenia.
ALTRI DISTURBI DEL COMPORTAMENTO

Disturbo della regolazione

I “Disturbi della regolazione” non compaiono nel DSM-5 ma hanno acquisito negli anni un’importanza
sempre crescente.

Possono essere definiti come difficoltà, tipiche del bambino nei primi anni di vita, nella regolazione del
comportamento, dei processi fisiologici (come il sonno o l’alimentazione), attentivi, affettivi o motori.

Sono spesso dei precursori del ADHD e dei Disturbi del comportamento.

Esistono diversi tipi di disturbo della regolazione: ipersensibile, iporeattivo, aggressivo e disorganizzato.
DISTURBI DA COMPORTAMENTO DIROMPENTE, DEL CONTROLLO DEGLI IMPULSI E DELLA CONDOTTA

Disturbo della condotta

Disturbo oppositivo provocatorio

Disturbo dell’adattamento con alterazione della condotta

(contenuto in Disturbi correlati a eventi traumatici e stressanti)


DISTURBO DELLA CONDOTTA

Il disturbo della condotta è il disturbo del comportamento più frequente (2-10% con prevalenza di soggetti
maschi) e l’esordio può avvenire nell’adolescenza o nella fanciullezza (è un criterio di specificazione) e in
quest’ultimo caso la prognosi è peggiore.

In età adulta nei casi più lievi tende ad avere una remissione quasi completa (a volte con la propensione per
una vita un po’ sregolata) mentre in quelli più gravi può diventare cronico o sfociare nel Disturbo
antisociale di personalità o più raramente nel Disturbo borderline di personalità.

Spesso è in comorbilità col ADHD, i disturbi delal comunicazione, la disabilità intellettiva, i disturbi correlati
a sostanze, il disturbo depressivo e bipolare.

Spesso i disturbi del comportamento sono associali a problemi ambientali, familiari e sociali.

I bambini con disturbo della condotta presentano una sistematica e persistente violazioni dei diritti altrui o
delle norme sociali, come

- minacciare gli altri e fare bullismo,


- dare inizio a colluttazioni fisiche anche con l’utilizzo di armi bianche,
- crudeltà verso persone o animali,
- furti,
- attività sessuali non consensuali,
- incendi dolosi
- distruzione di proprietà,
- fuggire di casa o dormire fuori casa,
- assenteismo scolastico.

Criteri

- Persistente violazione dei diritti fondamentali degli altri o delle regole della società (aggressività,
distruzione della proprietà, frode, menzogna).
- I comportamenti devono durare per più di sei mesi e determinare una compromissione del
funzionamento sociale, scolastico o lavorativo.

Può essere aggiunta la specificazione “con emozioni prosociali limitate”.


Intervento

Questi bambini hanno difficoltà a tirare fuori i propri lati negativi, sia perché tendono a giustificarsi (“Non
sono cattivo”) sia perché essi sono comunque per loro fonte di ansia; per questo motivo può essere più
utile partire dal far parlare di quali siano invece i lati positivi.

I disegni dei bambini con disturbo della condotta sono spesso eseguiti frettolosamente e spesso
rappresentano scene mostruose o grandiose, catastrofi, ecc.

Nella prima seduta, per creare una buona relazione sin da subito, invece di far parlare degli aspetti negativi
(“Che cosa succede quando ti comporti male?”) è meglio far parlare di quelli positivi (“Che cosa ti piace
fare?” “Quando sei felice?”), aspetti che tra l’altro difficilmente emergono perché un bambino con un
disturbo della condotta tenderà a essere etichettato come “cattivo”.

Per l’acquisizione di condotte positive si può sfruttare l’osservazione sistematica, magari associata a una
token economy.

L’osservazione sarà utile ai genitori – e al bambino stesso - per staccarsi da un’immagine e da una
narrazione del figlio ormai cristallizzata in negativo e la token economy fornirà uno stimolo al bambino per
cambiare.

È inoltre utile fare esercizi di problem solving e lavorare anche sulla prevenzione della risposta in modo da
evitare che certi comportamenti siano stimolati da particolari condizioni ambientali.
ALTRI DISTURBI DEL COMPORTAMENTO

Disturbo dell’adattamento con alterazione della condotta

Consiste in una reazione di disadattamento che si manifesta entro tre mesi da un evento stressante (come
la separazione dei genitori o una malattia) a cui il bambino reagisce con condotte simili a quelle del disturbo
della condotta, ma la durata tende ad essere più breve e la prognosi è migliore perché l’effetto dell’evento
stressante poi si attenua nel tempo.

Disturbo oppositivo provocatorio

La diagnosi di Disturbo oppositivo provocatorio si applica a bambini che hanno frequentemente


atteggiamenti di rabbia, irritabilità, comportamenti provocatori e oppositività. Tali comportamenti devono
causare un disagio nel funzionamento personale e sociale e devono durare da almeno sei mesi.

Tali comportamenti possono essere

- scatti improvvisi di aggressività,


- rifiuto delle regole stabilite,
- atteggiamento irritabile e irritante,
- temperamento rancoroso, dispettoso e irascibile,
- modalità di espressione grandiosa, esagerata e dirompente.

Questi bambini possono sentirsi pentiti dopo aver commesso qualcosa di negativo ma poi non riescono a
controllare i propri impulsi. Possono inoltre avere difficoltà a vestirsi o a svolgere le normali attività
quotidiane in linea con l’età.

l Disturbo oppositivo provocatorio emerge solitamente prima (intorno ai sei anni) rispetto al Disturbo della
condotta (intorno ai nove anno), ma questo disturbo può essere diagnosticato anche in età adolescenziale.
DISTURBI D’ANSIA

Disturbo d’ansia

Disturbo d’ansia da separazione

Mutismo selettivo

Fobia specifica

Disturbo d’ansia sociale

Disturbo di panico

Agorafobia

Disturbo d’ansia generalizzata

Disturbo dell’adattamento con ansia

(contenuto in Disturbi correlati a eventi traumatici e stressanti)


DISTUBO D’ANSIA

L’ansia è un’esperienza umana universale ed è un comportamento adattivo utile.

Una reazione ansiosa ragionevole può servire infatti a evitare una situazione negativa o ad essere
comunque più vigili e attenti (per esempio in occasione di un esame); parimenti è normale aver
sperimentato esperienze di ansia esagerata – soprattutto in situazioni di reale pericolo - senza che però vi
sia un vero e proprio disturbo.

I criteri che non permettono di considerare un episodio d’ansia come patologico sono dunque che

- lo stimolo non sia oggettivamente pericoloso,


- l’ansia non produca una compromissione significativa nella vita di chi la prova.

Gli eventi che possono fare insorgere un disturbo d’ansia – sia nella forma di un Disturbo dell’adattamento
che di un Disturbo d’ansia – possono essere la nascita di un fratello, la morte di un parente,
un’ospedalizzazione, insuccessi scolastici, la separazione dei genitori.

I disturbi d’ansia rappresentano la psicopatologia più diagnosticata in età evolutiva (10% della
popolazione); nell’infanzia i maschi sono in numero doppio rispetto alle femmine mentre dall’adolescenza
in poi la proporzione si inverte.

Risposte o sintomi

Sintomi fisici

Aumento della frequenza cardiaca, della pressione arteriosa, tensione muscolare, sensazione di
soffocamento, nausea e vomito, ecc.

Spesso l’ansia è legata a meccanismi di condizionamento classico: per esempio un bambino può essersi
trovato senza i genitori in una situazione in cui ha sentito uno stimolo negativo (per esempio vomitare)
finendo per correlare i due stimoli tanto che ora basta essere senza genitori per avere comunque tale
stimolo. In tal caso andrà attuata una desensibilizzazione sistematica, esposizione in immaginazione e un
controcondizionamento.

L’ansia inoltre alimenta se stessa (il cuore batte forte, si genera un pensiero negativo, il cuore batte più
forte). In tal caso è importante interrompere questo circolo vizioso attraverso strategie di ristrutturazione
cognitiva e di desensibilizzazione.

Per ridurre gli stimoli fisici sono inoltre utili tutte le forme di respirazione profonda e di meditazione.
Sintomi comportamentali

Le risposte comportamentali sono essenzialmente la fuga e l’evitamento, che però rispetto all’ansia
fungono da rinforzatori negativi - riducono l’ansia – che positivi attraverso i “vantaggi secondari” – per
esempio per un bambino restare a casa e avere attenzioni.

Nei bambini più grandi l’ansia si può manifestare anche attraverso un’aggressività verbale verso i genitori o
in comportamenti oppositivi, la cui origine però è ansiosa e non relativa a un Disturbo oppositivo o della
condotta.

Sintomi cognitivi

Pensieri negativi irrealistici o esagerati, anticipatori o connessi alle “catastrofi a bassa probabilità” nei
confronti delle situazioni temute.

Ci possono essere interpretazioni o anticipazioni distorte dei dati di realtà (una banale attivazione
fisiologica scambiata per un segno di malessere grave), esagerazioni sull’importanza di certi eventi (una
brutta figura), ma anche paura di perdere il controllo o di impazzire.

Anche in questo caso si innesca un circolo vizioso: proprio nel momento in cui il soggetto di fronte a un
problema avrebbe bisogno di tutte le sue abilità per affrontare un problema, queste vengono meno,
rendendo il problema ancor più difficile da affrontare.

In questo caso può essere utile ricorrere alla terapia razionale emotiva.

I soggetti ansiosi possono anche manifestare sintomi ossessivi (per esempio nell’essere perfezionista e
collaborativo nella terapia) che, se non eccessivi, possono essere anche di aiuto nella compliance
terapeutica.

Eziologia

Sicuramente c’è una predisposizione genetica, ma il fattore più importante è quello ambientale che può
influire sia per eventuali condizioni di vita stressanti e ansiogene (un insegnante particolarmente severo
oppure svalutante) sia per eventi traumatici significativi (anche se non così gravi come nel PTSD) .

Poi ci sono gli aspetti emotivi e di personalità del bambino, come l’immaturità, l’eccessiva dipendenza, un
desiderio esagerato di piacere, modalità educative troppo morbide (“le cose devono andare sempre come
dico io”). Non a caso il Disturbo d’ansia è in comorbilità col Disturbo d’ansia di separazione e con la Fobia
sociale.

Infine sono rilevanti gli aspetti del contesto familiare: traumi – come il neglect, la violenza, la perdita dei
genitori -, ma anche l’ansia appresa per modellamento rispetto ad alcuni comportamenti di evitamento
sempre dei genitori o in modo vicario da genitori a loro volta ansiosi o iperprotettivi; questo rende difficile
al bambino un’esposizione corretta alle condizioni stressanti in un corretto sviluppo.
Intervento

L’intervengo è generalmente basato su una esposizione progressiva alle situazioni ansiogene tramite
desensibilizzazione sistematica e poi esposizione.

Molto utili sono le tecniche di mindfulness e di respirazione diaframmatica.

I pazienti hanno buone probabilità di remissione dei sintomi, ma c’è un alto rischio di ricadute, tanto che i
bambini con Disturbo d’ansia possono sviluppare questo disturbo in età adulta.
DISTUBO D’ANSIA DI SEPARAZIONE

Nelle passate edizioni del DSM il disturbo d’ansia da separazione era inserito in una sezione dedicata ai
“Disturbi solitamente diagnosticati per la prima volta nell’infanzia, nella fanciullezza e nell’adolescenza”,
mentre oggi sono stati riuniti in un’unica sezione che li ordina secondo l’età tipica di esordio: Disturbo
d’ansia di separazione, Mutismo selettivo, Fobia specifica, Disturbo d’ansia sociale.

I bambini con Disturbo d’ansia di separazione tendono a voler stare sempre vicini ai genitori, a voler
dormire con loro nonostante l’età. La paura più frequente è quella di essere abbandonati a scuola.

A volte i genitori esasperati provano a imporre alcune regole di distacco con la forza che però peggiorano
solo la situazione.

Criteri

- Ansia eccessiva e malessere per la separazione dalle figure di attaccamento, reale o immaginaria.
- Preoccupazione persistente e irrealistica di perdita o paura che possa succedere qualcosa di brutto
alle figure di attaccamento.
- Difficoltà a stare da soli nei luoghi in cui questo è richiesto (per esempio a scuola, feste da amici o a
casa da soli).
- Incubi connessi alla separazione.
- Lamentele di sintomi somatici nel periodo di anticipazione cognitiva della separazione.
- Il disturbo deve durare da almeno un mese nei bambini o negli adolescenti (da sei mesi per gli
adulti) e causare forte disagio e compromissione.

In genere il Disturbo d’ansia di separazione tende a presentarsi in età prepubere.

Intervento

In genere in questi casi il bambino è esitante sia a venire in seduta sia poi a rimanere da solo; allora è
preferibile fare un allontanamento progressivo in cui il genitore per esempio prima sta nell’anticamera, poi
in macchina di fronte allo studio, ecc.
ALTRI DISTURBI D’ANSIA

Disturbo di panico

Paura forte e improvvisa con intensa attivazione fisiologica che si sviluppa nell’arco di pochi minuti.

L’esordio è in genere tra la tarda adolescenza e la prima età adulta, quindi non si è concordi sul fatto che il
disturbo si possa trovare anche nei bambini.

Agorafobia

Disturbo legato alla paura di trovarsi lontani da un luogo sicuro o in luoghi da cui potrebbe essere difficile
allontanarsi.

È una fobia rara nei bambini.

Disturbo d’ansia generalizzata

L’ansia generalizzata si esplica in un senso di preoccupazione continua in assenza di stimoli specifici.

Il paziente vive con l’angoscia che stia per accadere qualcosa di terribile che però non è possibile definire
esattamente o che è comunque irrealistico; il fatto stesso di non riuscire a spiegare di che cosa si tratti
contribuisce ulteriormente ad aumentare il senso di disagio.

L’ansia generalizzata si può diagnosticare anche in età evolutiva, ma raramente come un disturbo isolato,
ma in genere in comorbilità con altri disturbi d’ansia, soprattutto il Disturbo d’ansia di separazione, oppure
nei bambini con ADHD.

Si manifesta spesso con attacchi di ansia anticipatoria nelle situazioni che richiedono un giudizio con
irrequietezza, tensione, ricerca di perfezionismo e bisogno continuo di rassicurazione e gratificazione.

Spesso sono presenti sintomi somatici come mal di testa, mal di stomaco, difficoltà ad addormentarsi,
umore flesso.

È più frequente nei figli che appartengono a famiglie di livello socioeconomico alto dove le richieste
prestazionali tendono ad essere più alte.
MUTISMO SELETTIVO

Disturbo che si caratterizza per l’incapacità di parlare in una o più situazioni sociali (spesso a scuola, tanto
che l’esordio è in genere nell’età dell’inizio della scuola dell’infanzia).

Di fronte a una situazione stressogena il bambino utilizza il mutismo per abbassare il proprio livello di
attivazione, tanto che più gli interlocutori – i genitori o gli insegnanti – cercano di spingere il bambino a
parlare esortandolo oppure minacciandolo e più l’attivazione salirà innescando un circolo vizioso.

L’incapacità può derivare dall’ansia dovuta a situazioni specifiche e spesso i bambini presentano una
timidezza patologica e una tendenza alla chiusura e al ritiro.

Spesso i genitori fungono da modello per tali comportamenti oppure sono iperprotettivi e ipercontrollanti;
spesso la madre ha tratti ansiosi o depressivi.

Nei bambini il disturbo è spesso associato ad alterazioni del comportamento, come scoppi di rabbia oppure
eccessivo attaccamento nei confronti dei caregiver.

Criteri

L’incapacità di parlare non deve essere semplicemente determinata da timidezza, dall’imbarazzo (per
esempio parlare in pubblico) o dal disagio dovuto a balbuzie o a scarse competenze linguistiche (per
esempio un bambino straniero appena arrivato in Italia). Tuttavia spesso sono presenti piccoli disturbi del
linguaggio e dell’articolazione, tanto che il mutismo – oltre che come strategia per abbassare l’arousal della
situazione ansiogena – può configurarsi anche come una forma di evitamento rispetto a tali difetti.

Il disturbo deve persistere da almeno un mese e deve influire significativamente con la vita scolastica o
lavorativa e con la comunicazione sociale.

Il mutismo non deve dipendere da un disturbo del neurosviluppo (per esempio il Disturbo della
comunicazione) o da altri disturbi.

Intervento

Se il bambino è muto alla seduta si può iniziare con dei disegni o con delle domande a cui può rispondere con dei
cenni oppure sfruttando un intermediario, per esempio la madre, con cui magari riesce a parlare bisbigliando.

Tra i fattori prognostici positivi c’è la capacità da parte dei genitori di comprendere le difficoltà del bambino
e di non arrabbiarsi con lui.

Attraverso l’analisi funzionale si possono trovare alcune situazioni in cui il paziente si sente sufficentemente
tranquillo per parlare e lavorare su di esse rinforzando i tentativi di uscire dal silenzio. È ovviamente
necessario anche un lavoro sul contesto sociale e familiare affinché gli interlocutori non diventino pressanti
(anche con le migliori intenzioni).
FOBIA SPECIFICA

Nella Fobia specifica uno stimolo fobico specifico provoca una marcata risposta che interferisce
significativamente nei vari ambiti della vita.

A differenza del Disturbo d’ansia generalizzata l’ansia si presenta in situazioni specifiche, a differenza della
fobia sociale l’ansia non deriva dall’essere in un certo luogo (un palco o una scuola) ma dalle implicazioni
sociali e relazionali ad esso collegato. Rispetto al DOC, nonostante una certa situazione possa determinare
simili risposte ansiose, nella Fobia specifica mancano i comportamenti ripetitivi e ritualistici per tenere
l’ansia sotto controllo.

La differenza infine tra fobia e paura è che una paura è transitoria – alcune paure sono frequenti nelle fasi
dello sviluppo (paura del buio, di piccoli animali, di essere lasciati soli) - e meno intenso di una fobia che
invece è persistente, disadattiva ed eccessiva.

Il DSM-5 distingue cinque specificazioni di Fobia specifica:

- animale (frequente in età evolutiva),


- ambiente naturale (per es. temporali o altezze)
- sangue, iniezioni e ferite,
- situazionale (una paura che si manifesta in situazioni specifiche, come l’essere su un viadotto o in
ascensore, o, per i bambini piccoli, l’avere paura di addormentarsi).

Tra i fattori eziologici ci sono la familiarità, gli atteggiamenti educativi (soprattutto riguardo ai meccanismi di
trasmissione di una certa paura dai genitori ai figli), eventi traumatici solo apparentemente non significativi.

La terapia è la stessa che per i disturbi di ansia (desensibilizzazione, esposizione, rilassamento, ecc.) ma
centrata sull’aspetto specifico della fobia, anche se è comunque fondamentale lavorare anche
sull’autoefficacia, sull’autostima, ecc.

DISTURBO D’ANSIA SOCIALE o FOBIA SOCIALE


Nel Disturbo d’ansia sociale lo stimolo ansiogeno è di natura interpersonale e legato alle situazioni sociali o
prestazionali in cui si è sottoposti – o si pensa di essere sottoposti – al giudizio degli altri: avere paura di fare
brutta figura davanti agli altri, non essere all’altezza degli altri, arrossire, ecc.

Le paure maggiori riguardano parlare in pubblico, andare alle feste, avere relazioni col sesso per il quale si
ha un’attrazione, servirsi dei bagni pubblici, mangiare di fronte ad altre persone, leggere ad alta voce o
scrivere alla lavagna, parlare di fronte a sconosciuti o anche a persone che si conoscono.

Chi soffre di ansia sociale teme i segni della propria ansia e del presupposto giudizio negativo che ne
seguirebbe; tutto questo esaspera la propria autocritica e crea il tipico circolo vizioso dell’ansia per cui si è
in ansia per qualcosa, si ha la sensazione di essere giudicati e di fare una brutta figura e questo aumenta a
sua volta l’ansia e così via.

Paradossalmente chi soffre di ansia sociale allo stesso tempo vorrebbe piacere agli altri ed essere perfetto e
adeguato ma più vuole questo e più non riuscirà a mettere in atto i comportamenti desiderati facendolo
sentire ancor più lontano dal modello ideale.

Prima dell’ingresso nella scuola episodi di pianto o di collera immotivati possono essere il segno di una
fobia sociale, anche se possono essere scambiati per Disturbo oppositivo provocatorio, anche perché i
comportamenti sono simili: dire che si sentono male al risveglio, supplicare di non essere portati a scuola,
ecc. I genitori in genere reagiscono inizialmente non insistendo ma così facendo rinforzano
involontariamente il comportamento del figlio.

I primi segni della fobia sociale si presentano al momento dell’ingresso nella scuola primaria e in questo
caso la prognosi è buona; altrimenti si può avere un esordio nell’adolescenza e in questo caso la prognosi è
peggiore, probabilmente perché lo scarto tra le aspettative reali e ideali è maggiore e c’è anche maggiore
consapevolezza.

Spesso comportamenti eccessivamente intrusivi, iperprotettivi o esigenti dei genitori possono favorire
pensieri che poi possono determinare ansia sociale (per esempio “devo andare sempre bene a scuola”).

Inoltre, come per ogni disturbo d’ansia, la famiglia può essere responsabile di un apprendimento vicario
dell’ansia più o meno connesso a carenze nelle attività sociali.

Infine possono essere successi piccoli traumi nella vita del bambino che hanno fatto scatenare ansie nel
bambino e la paura di essere giudicato a causa di esse.

Il trattamento si baserà, come per ogni tipo di fobia, sulla desensibilizzazione sistematica e sull’esposizione.
I vari scenari possono essere discussi (ristrutturazione cognitiva), immaginati (desensibilizzazione), ma
anche provati con un role playing prima di passare all’esposizione; gli obiettivi in genere sono quelli di
salutare un compagno, iniziare una conversazione, unirsi a un gruppo, fare un invito, invitare un compagno
a casa.
Visto che spesso il contesto interessato è quello scolastico, è importante prendere accordi con gli
insegnanti, ma anche preparare la classe a un’accoglienza appropriata.

Si dovrà inoltre lavorare sull’autostima e a modificare il locus of control (“se una persona mi ha detto che
non sono coraggioso questo non significa che davvero lo sia”).

È importante infine imparare a riconoscere i segnali fisiologici anticipatori dell’ansia e a contrastarli con
tecniche di rilassamento, meditazione, mindfulness, ecc.

DISTURBO OSSESSIVO COMPULSIVO E DISTURBI CORRELATI


Disturbo ossessivo compulsivo

DISTUBO OSSESSIVO-COMPULSIVO
Dal DSM-5 il Disturbo ossessivo-compulsivo non rientra più nei disturbi d’ansia, ma è una categoria a sé
stante.

Il meccanismo alla base del Disturbo ossessivo-compulsivo è basato sul rinforzo negativo: il soggetto ha
ansia per qualcosa, le idee ossessive aumentano, la compulsione le dissolve ma non toglie l’ansia di base.

Tre sono dunque le caratteristiche principali del disturbo ossessivo-compulsivo:

- l'ansia (che a differenza delle fobie non produce solo comportamenti di evitamento e fuga, ma un
malessere generale che genera pensieri negativi e ossessioni),
- le ossessioni, ovvero pensieri irragionevoli, persistenti e intrusivi (il paziente per esempio non ha
paura di sporcarsi quando l’ambiente è sporco, ma è ossessionato da questo aspetto),
- le compulsioni, ovvero comportamenti o pensieri che il paziente si sente obbligato a mettere in atto
in risposta a un’ossessione che non è più controllabile. Secondo il DSM-5 le compulsioni possono
essere anche ideative, mentre in questo caso l’ICD-10 le fa rientrare comunque nelle ossessioni.

I tempi più ricorrenti dei pensieri ossessivi sono la contaminazione, l’aggressività (intesa come paura di fare
male a qualcuno), la sessualità vissuta come sporca o proibita, la religiosità eccessiva (caratterizzata per
esempio dall’idea di commettere continuamente peccati e dal doversi perciò confessare), l’ossessione per
la simmetria.

Le compulsioni sono centrate sul lavare o sul controllare, il ripetere, il toccare, il contare, l’ordinare,
l’accumulare, il pregare.

Nei bambini il disturbo è spesso centrato sui rituali dell’addormentamento e associato a pensieri di morte.

Il DOC è spesso associato a sintomi depressivi, fobie specifiche, fobia sociale, altri disturbi d’ansia, ADHD,
DSA, Disturbo di Tourette. È dimostrata una significativa familiarità del disturbo.

Nei casi molto gravi può evolvere in disturbi psicotici.

Criteri

I sintomi devono provocare disagio e interferire nella vita quotidiana; in questo senso un piccolo rituale
compulsivo che non è accompagnato da problemi significativi non costituisce un disturbo mentale.

Nella diagnosi è necessario specificare il livello di insight dell’individuo, ovvero la consapevolezza che le
ossessioni siano irragionevoli e che le compulsioni non servano a risolvere il problema. Un buon insight è
correlato con una prognosi migliore.

Intervento
Innanzitutto per il paziente è necessario lavorare sulla presa di consapevolezza dei comportamenti che
possono creare l’ansia e di conseguenza i pensieri ossessivi e le compulsioni.

Per fare questo si può utilizzare l’autoosservazione e tenere un diario, tecniche che già da sole tendono a
ridurre i sintomi, perché il paziente può misurare la reale pervasività dei sintomi e rendersi anche conto che
non sono del tutto indipendenti dal suo controllo.

Inoltre si possono utilizzare metodologie di arresto del pensiero che bloccano il rimuginio mentale, tipico
del DOC e dei disturbi d’ansia, che occupa la mente con pensiero di tenere tutto sotto controllo o che possa
accadere qualcosa di irreparabile. Questo è fondamentale perché i pensieri si autoalimentano fino a che
non è necessario mettere in atto la compulsione per ridurli.

Per controllare le situazioni ansiogene si possono fare role playing e poi un’esposizione graduale, ma anche
lavorare sul modella mento (il terapeuta reagisce alla fobia del paziente mostrando che è possibile gestirla).

È importante inoltre lavorare sulle convinzioni errate o irrealistiche (per esempio anche con l’ACT,
Acceptance and Commitment Therapy), come quella che si possano interrompere da un momento all’altro
le compulsioni o che se si attuano allora tutto il lavoro sarà stato inutile.

Nel 50% dei casi è possibile una remissione quasi completa dei sintomi.

DISTURBI CORRELATI A EVENTI TRAUMATICI O STRESSANTI


Disturbo da stress post-traumatico

Disturbo da stress acuto

DISTUBO DA STRESS POST-TRAUMATICO (PTSD)


In questo caso l’ansia e le sue conseguenze patologiche si presentano a seguito dell’esposizione a uno
stress particolarmente significativo e intenso, come per esempio rischiare di morire, assistere all’uccisione
di un genitore, minacce di morte, aggressione da parte di animali, interventi medici particolarmente
invasivi, rapimenti, maltrattamenti e violenze, incidenti, disastri naturali e guerre.

Tali eventi possono fare insorgere il PTSD, soprattutto quando vi sono fattori predisponenti personali o
familiari, ma esistono sicuramente anche fattori protettivi che possono evitare l’insorgere del disturbo
anche di fronte a stressor significativi.

Nella metà dei casi c’è una remissione dopo tre mesi, ma nei casi più gravi i sintomi possono durare anche
anni.

I sintomi del PTSD sono

- ripetizione persistente dell’esperienza stressogena (nei giochi, nei disegni, nei sogni) (sintomo
specifico del PTSD),
- evitamento degli stimoli in qualche modo legati al trauma,
- attenuazione della reattività generale e difficoltà di concentrazione,
- eccessiva attivazione e aggressività,
- sentimenti di paura, orrore e impotenza,
- comportamento disorganizzato, agitato e ipervigile,
- ritiro sociale,
- perdita di alcune abilità già acquisite (come il linguaggio e il controllo sfinterico),
- terrori notturni e anomalie del sonno.

DISTURBO DA STRESS ACUTO


Simile al PTSD, ma con presenza di sintomi dissociativi ma soprattutto per l’esordio a breve distanza e la
risoluzione entro un tempo relativamente breve dallo stressor (tre – trenta giorni per il DSM, una –
quarantotto ore per l’ICD).

DISTURBO DELL’ADATTAMENTO CON ANSIA

Disturbo d’ansia legato a uno stressor situazionale nella vita di una persona (per esempio la separazione dei
genitori, un cambio di scuola, ecc.).

I sintomi di questo disturbo sono molto più lievi e sfumati di quelli del PTSD e soprattutto manca la
ripetizione continua del trauma, sintomo specifico del PTSD, tanto che a volte è difficile fare una diagnosi
specifica, anche se si tratta di un tipo di reazione molto diffusa a una situazione stressogena che trarrebbe
giovamento da una terapia psicologica.

Se i sintomi esordiscono a più di tre mesi dall’evento stressante o perdurano per più di sei mesi la diagnosi
diventa di “Disturbo d’ansia”, anche se si può a volte mantenere quella di “Disturbo dell’adattamento” nei
casi di stressor cronici, come la separazione dei genitori, per cui il disturbo può avere una durata più lunga.

I disturbi dell’adattamento – anche per la natura situazionale dello stressor – tendono a risolversi da soli.

DISTURBI DELL’UMORE
DISTURBI DEPRESSIVI

Episodio depressivo maggiore

Disturbo depressivo maggiore

Disturbo depressivo persistente (Distimia)

Disturbo da disregolazione dell’umore dirompente

Disturbo dell’adattamento con umore depresso

(contenuto in Disturbi correlati a eventi traumatici e stressanti)

DISTURBO BIPOLARE E DISTURBI CORRELATI

Disturbo bipolare

Disturbo ciclotimico

DISTURBI DELL’UMORE
Secondo il DSM-5, l’umore è un’emozione pervasiva e prolungata che colora la percezione del mondo.

Fino al DSM-IV-TR i disturbi dell’umore erano raccolti in un’unica categoria, ma dal DSM-5 sono distinti in
“Disturbi depressivi” e “Disturbo bipolare e disturbi correlati”.

Nel DSM-5 inoltre tra i Disturbi depressivi è stato aggiunto il “Disturbo da disregolazione dell’umore
dirompente”.

Infine nel DSM-5 compare il Disturbo depressivo persistente, come fusione del Disturbo distimico e del
Disturbo depressivo maggiore cronico.

I disturbi dell’umore sono caratterizzati dalla presenza di umore triste, vuoto o irritabile, accompagnato da
modificazioni somatiche e cognitive.

Nei bambini i disturbi più frequenti sono quelli depressivi anche se sembra esserci un interesse crescente
per il Disturbo bipolare, più difficile da diagnosticare rispetto all’età adulta in cui le variazioni del tono
dell’umore sono più evidenti.

Tuttavia in generale anche la depressione è difficile da diagnosticare nei bambini perché il sintomi nell’età
evolutiva sono multiformi, ovvero possono riferirsi a più quadri clinici, tanto da essere chiamati “equivalenti
depressivi”.

Inoltre spesso non sono in grado di esprimere a parole le loro emozioni oppure possono reagire con
comportamenti aggressivi, tanto da rendere difficile una diagnosi differenziale con l’ADHD o con il Disturbo
della condotta (l’ICD-10 ha una categoria apposita proprio per questi cari: il Disturbo della condotta
depressivo).

Spesso il Disturbo depressivo è spesso in comorbilità con ADHD, DSA, Disabilità intellettiva, ma soprattutto
con i Disturbi d’ansia.

La ricerca ha dimostrato una continuità tra la depressione infantile e quella in età adulta, mentre non è
vero che è più frequente nei maschi piuttosto che nelle femmine; si osserva una maggior frequenza nei
maschi fino ai 12 anni, mentre dopo questa età la tendenza si inverte a favore delle femmine.

Molti bambini e adolescenti che soffrono di depressione sono ospedalizzati oppure vivono in comunità.

Eziologia
Non esiste una causa unica che possa spiegare l’insorgere di un disturbo dell’umore, ma i fattori sono tanti:

- fattori biochimici (diminuzione delle catecolammine - ovvero dopamina e noradrenalina – o della


serotonina),
- fattori familiari (genitori con disturbi d’ansia e di conseguenza con atteggiamenti iperprotettivi nei
confronti del figlio, anche se è difficile capire se vi sia una familiarità biologica oppure se sia
connessa con lo stile educativo dei genitori),
- storia personale del paziente (modelli educativi troppo rigidi e normativi, genitori troppo severi o
soprattutto poco empatici – anche a causa di una depressione nei genitori stessi -, lutti, malattie
(che tra l’altro portano a lunghe assenze, a perdita delle relazioni amicali e paura della morte),
separazioni, violenze o altri eventi significativi); in particolare è emersa l’influenza di una scarsa
empatia da parte dei genitori, incapaci di porsi in sintonia con gli stati emotivi del bambino o di
notare progressi e cambiamenti, e di stili di attaccamento insicuro o disorganizzato,
- fattori psicologici (eccessiva reattività agli stressor e incapacità nel gestirli, bassa autostima
evitamento di situazioni problematiche ma anche positive (“è inutile che inviti un mio amico a casa,
tanto non verrà e, anche se venisse, non ci divertiremo sicuramente”), stile di attribuzione esterno
(“sono fatto così”, “non c’è nulla che io possa fare”).

EPISODIO DEPRESSIVO MAGGIORE


L’episodio depressivo maggiore non è un disturbo ma una serie di sintomi che caratterizzano una situazione
psicologica caratterizzata da umore depresso per la maggior parte del giorno, quasi tutti i giorni, per
almeno due settimane.

Un solo episodio depressivo non aumenta l’insorgenza di sviluppare depressione in età adulta.

Criteri

I sintomi riportati dai bambini sono di tristezza, negatività e impotenza (“non ce la faccio più”), mentre
quelli osservabili sono l’eloquio lamentoso, irritabilità, riduzione degli interessi e piacere per quasi tutte le
attività, sentirsi senza energia, sentimenti di autosvalutazione e di colpa, difficoltà a concentrarsi e a
portare a termine un compito, visione pessimistica del futuro, ideazione suicidaria., insonnia, ipersonnia,
perdita o aumento dell’appetito.

Per la diagnosi di Episodio depressivo maggiore i sintomi non devono essere attribuibili a un disturbo
schizoaffettivo, a schizofrenia, a disturbo schizofreniforme o disturbo delirante.

Inoltre non deve essere presente un episodio maniacale.

Un episodio depressivo può considerarsi concluso quando non sono presenti sintomi per almeno due mesi
(e dunque questo può anche non consentire la diagnosi di Disturbo depressivo maggiore).

DISTURBO DEPRESSIVO MAGGIORE


Non è sempre semplice diagnosticare un Disturbo depressivo in un bambino perché spesso i sintomi sono
mascherati:

- può essere presente aggressività (e dunque è necessario fare diagnosi differenziale con i Disturbi
della condotta),
- il bambino può apparire fin troppo maturo (nascondendo però una grande sofferenza inespressa),
- può avere un calo del rendimento scolastico dovuto a difficoltà di ragionamento e di
concentrazione (e qui la diagnosi differenziale è con l’ADHD o con un DSA)
- ritiro sociale (come nei disturbi d’ansia e in particolare nella fobia sociale, anche se nei disturbi
d’ansia la componente principale è quella ansiosa e non quella depressiva e sono presenti
comportamenti di evitamento).

I sintomi della depressione possono essere divisi in

- emozionali (umore irritabile, anedonia, incubi, tendenza al pianto, iperdipendenza dalle figure di
attaccamento, non sentirsi mai amati, ecc.),
- cognitivi (negatività, senso di colpa, insicurezza, difficoltà di concentrazione, ecc.),
- motivazionali (chiusura sociale),
- fisici (stanchezza, cambiamento dell’appetito, dolori, disturbi del sonno, agitazione o rallentamento
generale).

Dato che a volte è difficile cogliere i sintomi per fare una diagnosi di Disturbo depressivo maggiore, si può
ricorrere alla diagnosi di Disturbo depressivo persistente (Distimia).

Di fronte invece a un calo dell’umore non particolarmente grave e contestuale a un evento scatenante
facile da individuare, può essere più adeguata la diagnosi di Disturbo dell’adattamento con umore depresso
o addirittura di condizioni non patologiche.

Un disturbo depressivo durante l’infanzia aumenta significativamente la possibilità di una depressione in


età adulta.

Intervento

Nei bambini più piccoli e con disturbi dell’umore o d’ansia spesso è difficile tirare fuori certe emozioni,
riuscire a verbalizzarle, non avere paura del giudizio altrui e quindi il primo passo è quello di creare uno
spazio empatico, di fiducia, sicuro in cui il bambino possa tirare fuori il suo mondo interiore e solo
successivamente iniziare il cambiamento.

È importante dunque lavorare per riuscire a verbalizzare le proprie rabbie e le proprie frustrazioni – magari
anche attraverso l’uso di pupazzi – e per migliorare le capacità assertive e di comunicazione per riuscire a
dire per esempio ai genitori quello che prova o quello che non va.
Al proposito, nei pazienti depressi è fondamentale il rinforzamento che sostiene l’autostima e
l’autoefficacia.

Poi si possono creare delle prescrizioni comportamentali graduate che il bambino deve mettere in atto tra
una seduta e l’altra.

È importante fissare degli obiettivi (per esempio chiamare un amico o addirittura invitarlo a casa per
giocare) perché nei bambini depressi è proprio quello che manca visto che tendono ad abbandonare ogni
esperienza al primo momento di noia o di difficoltà (“Te lo dicevo che era noioso / troppo difficile”) o che
spesso evitano sia le esperienze negative (“Tanto non verrà”) ma anche quelle positive (“Tanto non mi
divertirò comunque”).

Inoltre è importante attuare una ristrutturazione cognitiva e una terapia razionale emotiva insinuando il
dubbio nelle convinzioni negative del paziente (“Sei davvero così antipatico a tutti i tuoi compagni?”, “Sei
davvero certo che nessuno verrà a casa tua? E se non venisse, sarebbe così catastrofico? Non potrebbe
venire un altro giorno?”).

Questi aspetti di modellaggio sono importanti perché insegnano un equilibrio più corretto tra aspettative e
risultati, andando a migliorare l’autostima e lo stile di attribuzione.

Si può infine lavorare anche con tecniche di rilassamento e di immaginazione positiva, facendo immaginare
al bambino situazioni gratificanti che potrebbero essere raggiunte grazie all’impegno.
DISTURBO DEPRESSIVO PERSISTENTE (DISTIMIA)

Questo disturbo nel DSM-5 rappresenta l’unione del Disturbo depressivo maggiore cronico e del Disturbo
distimico; secondo l’ICD-10 possono essere presenti isolati Episodi depressivi e il Disturbo distimico può
seguire un Episodio depressivo senza un periodo di remissione completa.

In passato questo disturbo era stato definito “nevrosi reattiva” – e dunque una depressione meno grave di
quella psicotica – oppure “depressione reattiva” – in quanto determinato dalla reazione a eventi negativi
esterni.

La distimia è una forma attenuata e meno grave di depressione ma nemmeno del tutto spiegabile come una
reazione a un evento stressogeno (altrimenti potremmo parlare di Disturbo dell’adattamento con umore
depresso).

L’umore depresso deve essere presente per la maggior parte del giorno e quasi tutti i giorni per almeno un
anno (due anni per gli adulti).

Altri sintomi possono essere agitazione psicomotoria (soprattutto nei più piccoli), aggressività, lamentele
somatiche, alterazioni dell’appetito e del sonno, scarsa energia, basta autostima, difficoltà di
concentrazione e sentimenti di disperazione.

DISTURBO DA DISREGOLAZIONE DELL’UMORE DIROMPENTE

Quadro clinico caratterizzato da continua irritabilità che sfocia in gravi e periodiche crisi di rabbia.
ALTRE CONDIZIONI CHE POSSONO OGGETTO DI ATTENZIONE CLINICA

Funzionamento intellettivo borderline

Problema relazionale

Lutto non complicato

Problema relativo all’istruzione


ALTRE CONDIZIONI CHE POSSONO OGGETTO DI ATTENZIONE CLINICA

Molti bambini possono presentare difficoltà che però non raggiungono la diagnosi di un disturbo specifico;
un esempio tipico è il Funzionamento intellettivo borderline, fonte di tanta angoscia perché a volte non
viene diagnosticato – come può accadere per una Disabilità intellettiva – e si finisce per richiedere al
bambino prestazioni uguali agli altri.

Queste condizioni rientrano nei cosiddetti “Codici V” del DSM-5, ovvero le “altre condizioni che possono
oggetto di attenzione clinica”, proprio perché, pur non essendo gravi, riguardano persone che possono
avere bisogno di aiuto.

Tra essi troviamo:

- il Funzionamento intellettivo borderline (QI poco superiore a 70),


- il Problema relazionale (situazione non positiva nei confronti di una relazione),
- il Lutto non complicato (vissuti relativi a un lutto – di colpa, di tristezza, di rabbia – ma con durata
inferiore all’anno),
- il Problema relativo all’istruzione (difficoltà scolastiche in assenza di DSA o altri disturbi).

In questi casi può essere utile un lavoro psicologico di counseling basato sullo stare vicino, sull’aiutare a
superare certe paure (senza che sia presente una vera e propria fobia), sul superare certe tristezze e sul
trovare qualche motivo di gioia.
TECNICHE

Primo colloquio

Il primo colloquio è condotto alla presenza dei soli genitori, in modo da poter parlare liberamente dei
problemi e da preparare il futuro colloquio col bambino evitando comunicazioni sbagliate sul significato
degli incontri.

Spesso i genitori parlano delle loro difficoltà e, soprattutto quando i casi sono meno gravi, è difficile capire
quanto il bisogno sia del genitore e quanto del bambino; per questo motivo è più utile parlare invece di
iniziare a raccogliere dati.

Quando emergono mole paure, dolori e vissuti emotivi da parte dei genitori è meglio ricordare che nel
primo colloquio non dobbiamo andare troppo lontano ma che tali aspetti significativi potranno essere
ripresi in seguito, per non metacomunicare ai genitori che siamo interessati ai loro problemi più che a quelli
del bambino.

Il colloquio si svolge in varie fasi:

- manovre di apertura e ascolto libero del problema: si mettono i genitori a proprio agio facendoli
parlare di ciò che vogliono e poi si chiede quali motivi li abbiano spinti a venire in consultazione
(“Com’è nata l’idea di chiedere questa consulenza?”);
- focalizzazione del problema: si inizia a mettere ordine sul problema del figlio, ascoltando quello che
dicono i genitori e facendo luce su aspetti che possono essere trascurati;
- anamnesi (o storia): gravidanza, parto, alimentazione e sonno, tappe dello sviluppo, malattie, storia
familiare;
- aspetti della vita del bambino:
o scuola,
o famiglia,
o attività extrascolastiche,
o socialità e amicizie;
- riassunto: si fa una veloce restituzione grazie alla quale il clinico può verificare di aver ben capito e i
genitori possono sentire di essere stati ascoltati;
- ascolto libero conclusivo: si chiede se c’è altro che si vuole aggiungere;
- accordi: si spiega come si vuole vedere il bambino, si chiarisce che non è necessario che questo
resti subito da solo durante la seduta e soprattutto si invitano i genitori a non dire bugie al figlio
riguardo al tipo di lavoro che andrà a svolgere (non dire per esempio che andrà da un amico di
famiglia).

Durante il primo colloquio ad ogni modo non ci si deve concentrare solo sugli aspetti negativi, ma
dobbiamo fare emergere anche quelli positivi.

La cosa più importante nel primo colloquio è che il paziente torni per una seconda volta!
Primo incontro col bambino

Il bambino entra col genitore e poi, rivolgendosi direttamente a lui, si deve cercare di metterlo a suo agio,
coinvolgendolo in un gioco o in un’attività di suo interesse che lo decentrino rispetto al problema della
visita e lo distraggano dal disagio relazionale e dall’ansia generata dalla situazione nuova.

Tale disegno o attività dovrà essere rinforzata.

È importante chiarire inoltre che non ci si aspetta nessun risultato specifico ma che si è qui solo per
conoscersi. Il tempo perso perché il bambino si abitui alla situazione è spesso guadagnato per la creazione
di una relazione tranquilla e di fiducia.

Ci possono essere vari tipi di bambini:

- il bambino “facile” sa già perché è lì e può immaginare che cosa accadrà;


- il bambino “esternalizzato” è fin troppo vivace: tocca tutto, parla un sacco e lo scopo è riuscire a
contenerlo e a focalizzarlo in un’attività costruttiva;
- il bambino “timoroso” è invece bisognoso di rassicurazioni; il terapeuta deve cercare di non
allarmarlo e di non chiedere nulla che possa metterlo in difficoltà, le domande dovranno essere per
lo più a risposta chiusa in modo che il bambino possa rispondere anche solo col cenno del capo.

Colloquio di restituzione

La restituzione è il momento in cui lo psicologo restituisce al paziente quello che ha capito da quanto ha
raccolto fino a quel momento.

Può essere fatta alla fine del primo colloquio con i genitori, dopo aver visto il bambino o anche alla fine del
rapporto terapeutico.

Nella restituzione iniziale è giusto non mentire ma nemmeno dire cose che potrebbero produrre reazioni di
sconforto; per questo motivo è possibile anche diluire la restituzione stessa in più colloqui.
Rinforzamento

Un rinforzo è la conseguenza positiva di una risposta che ha l’effetto di rendere tale risposta più probabile
in futuro.

I rinforzatori sono di vario tipo:

- positivi – quando la conseguenza è un aggiunta di un elemento positivo (una caramella) – o negativi


– quando la conseguenza è la sottrazione di un elemento negativo (per esempio togliere un dolore);
- primari – quelli legati alla sopravvivenza (per esempio il cibo) – o secondari – quelli sono appresi
nella vita (per esempio l’interesse per un certo gioco);
- simbolici - quelli che rappresentano simbolicamente un valore (denaro, token economy) – o sociali -
sorrisi, complimenti - o informativi – l’informazione del risultato di un’azione, ovvero un feedback;
- estrinseci – quando non riguardano l’azione che viene rinforzata – o intrinseci – quando il rinforzo è
connesso con l’azione da rinforzare, per esempio il piacere di giocare con un amico se si vuole
rinforzare l’azione di telefonare a un amico (quando un comportamento è intrinsecamente
motivante non ha bisogno di rinforzi perché li produrrà autonomamente);
- concreti (un cioccolatino) o astratti (i gettoni di una token economy, la soddisfazione, un
complimento).

Progressivamente si dovrà poi passare da un rinforzo continuo a uno intermittente per favorire il
mantenimento e la generalizzazione delle abilità acquisite.

Modellaggio

Quando un bambino emette una risposta corretta deve essere rinforzato, ma quando non la emette si
rinforzano i comportamenti che più si avvicinano all’obiettivo. Se per esempio un bambino ha difficoltà a
entrare in classe può essere rinforzato se quanto meno entra nella scuola.

Questo fa sì che la relazione ne esca rinforzata senza essere bloccata da aspettative irrealistiche, obiettivi
irrealistici e tanta frustrazione.

È molto utile in caso di disabilità intellettiva.

Rinforzamento differenziale

Dato che l’estinzione (ovvero il non rafforzamento dei comportamenti inadeguati) non è efficace da sola (in
quanto di per sé priverebbe il soggetto di ogni tipo di rinforzo, essa va associata al rinforzamento
differenziale in cui si rinforzano selettivamente i comportamenti adeguati, ma anche quando non effettua
comportamenti inadeguati o quando emette comportamenti che gli impediscono di comportarsi male.

Rinforzamento incondizionato
Gratificazione che viene data a prescindere dal comportamento corretto. Si usa nelle prime fasi
dell’intervento terapeutico (per esempio lodare il disegno che il bambino può fare nella prima seduta).

Un altro esempio di rinforzamento incondizionato è quello per cui le maestre il primo giorno di scuola
fanno trovare una caramella sul banco di ogni bambino.

Estinzione

Un comportamento che non viene rinforzato tende ad estinguersi: un bambino che non viene interrogato
perché la maestra dice che non è capace oppure che non viene mai premiato per i suoi sforzi smetterà di
studiare.

Per estinguere dunque un comportamento negativo dobbiamo dunque cercare di non rinforzarlo, sia
evitando di premiarlo (per esempio dicendo a un bambino maleducato che è simpatico quando fa così) o di
premiare il bambino qualsiasi cosa faccia.

L’estinzione tramite mancanza di rinforzo deve essere usata insieme al rafforzamento differenziale in cui
vengono invece premiati i comportamenti positivi. Per fare questo è bene ignorare i comportamenti
negativi e rinforzare quelli adeguati o quanto meno diversi da quelli che si vogliono estinguere (se si vuole
evitare che il bambino si alzi continuamente dalla sedia, si può iniziare rinforzando un comportamento che
almeno non lo faccia girovagare per ogni dove).

Le gratificazioni sono infatti più efficaci delle punizioni.

Generalizzazione

È bene che il rafforzamento dei comportamenti desiderati sia sostenuto anche da un lavoro di
generalizzazione, ovvero di esecuzione di tali comportamenti anche i contesti diversi.

La generalizzazione può riguardare anche il fatto di trasportare il riuscire a stare in seduta da soli senza i
genitori anche nella vita di tutti i giorni, favorendo dunque una maggiore indipendenza. Ovviamente anche
se il bambino riesce a stare solo per pochi minuti questo deve essere subito rinforzato.

Nei bambini sani la generalizzazione è automatica: un bambino impara a farsi la doccia a casa e poi sarà in
grado di farsi la doccia anche in circostanze diverse.

Per ottenere questo è importante che il lavoro svolto nello studio del terapeuta continui anche a casa; è
dunque fondamentale un appropriato parent training.

Inoltre non ci si deve fermare a un approccio strettamente comportamentale, ma si deve lavorare sulle
capacità metacognitive e sull’apprendimento incidentale.

Analisi del compito


Il compito viene scomposto in tanti sotto-obiettivi alla portata del bambino.

Tali obiettivi possono essere rappresentati graficamente in dei cartoncini da attaccare su un cartellone in
modo che il bambino possa innanzitutto imparare a metterli in ordine prima di passare all’azione. I vari
passi devono essere rinforzati così come il raggiungimento del compito finale.

Il vantaggio di suddividere il compito in più azioni è anche quello di ottenere subito risultati positivi anche
con bambini difficili, potendo così lavorare sul rinforzamento e aumentare la motivazione.

È utile anche l’uso di filmati o di videoregistrazioni.

Compiti comportamentali (graduati)

Nell’approccio comportamentale il terapeuta assegna dei compiti al paziente (tenere un diario, esercitarsi
nel rilassamento, invitare un amico a casa, ecc.) che servono per imparare a generalizzare l’apprendimento.

Tali compiti sono graduati in modo da aumentare la probabilità id successo e favorire il rinforzo.

Possono anche coinvolgere i genitori che così possono rendersi anche conto dei miglioramenti del figlio.

Apprendimento senza errori

Tecnica in cui nella situazione didattica viene inserito uno stimolo con funzione di aiuto (detto “prompt”) in
modo che il soggetto non sbagli; successivamente questo aiuto viene eliminato i modo graduale via via che
il soggetto apprende.

Questa tecnica può essere utilizzata anche nell’apprendimento di abilità personali (riconoscere il rubinetto
dell’acqua calda) o sociali (raggiungere una meta con i mezzi pubblici).

Risposta riflessa

Quando il terapeuta risponde riformulando ciò che il paziente ha detto per mostrare comprensione e
tenere aperto un canale comunicativo. È una tecnica centrale nell’approccio rogersiano o della “terapia
centrata sul cliente”.

A volte per esempio se il paziente afferma di non sapere perché ha deciso di andare da uno psicologo è più
utile riformulare con “Ha paura di essere venuto qui per niente” rispetto che rischiare di fare insorgere
imbarazzo dicendo “Cominci pure da dove vuole”.

Autoistruzione, autocontrollo, autosservazione o automonitoraggio e autorinforzamento


L’autoistruzione è una metodologia che supera il problema dell’analisi del compito e del rinforzamento
tramite una persona esterna e che mira a insegnare al bambino a fornirsi da solo, attraverso il dialogo
interno, le istruzioni necessarie per raggiungere un obiettivo.

Quando questo si attua sui comportamenti allora si parla di autocontrollo, per esempio usando il dialogo
interno per ridurre i comportamenti impulsivi.

Nell’autoistruzione e nell’autocontrollo è importante che il bambino possa osservare l’esempio del


terapeuta per poi copiarlo; i può iniziare infatti dandosi istruzioni a voce alta, poi a bassa voce, quindi solo
pensandole.

L’autosservazione prevede che il bambino monitori da solo i progressi fatti. Sono strumenti di
autosservazione anche il termometro della paura e il diario.

Infine l’autorinforzamento prevede che il bambino riesca a gratificarsi per i successi ottenuti, migliorando
dunque lo stile di attribuzione e evitando di assumere comportamenti autocommiseratori.

Abituazione

L’ansia tende a decrescere più rimaniamo nella situazione ansiogena.

Questo può essere sfruttato sia nell’offrire al paziente esperienze che mettano progressivamente a contatto
con le situazioni ansiogene, sia per ridurre la tensione emotiva nelle prime sedute perdendo tempo
inizialmente perché si crei una relazione tranquilla e di fiducia tra paziente e terapeuta.

Role playing

Nel role playing il paziente prova alcuni comportamenti in un contesto sicuro per poi metterli in atto più
efficacemente quando si troverà in una situazione reale.

Si possono simulare situazioni positive per apprendere nuove capacità (per esempio imparare a chiedere
qualcosa a un compagno) oppure si possono rappresentare situazioni negative per imparare a gestirle.

Il paziente può interpretare se stesso oppure un’altra persona (e in questo caso sarà il terapeuta a
interpretare il paziente) oppure si possono fare role play di gruppo.

Parent training (o Teacher training, se viene effettuato su insegnanti)


Il parent training è un’azione educativa che coinvolge i genitori del bambino, utile a migliorare sia i risultati
del figlio sia il clima familiare.

Gli obiettivi fondamentali del parent training sono cinque:

- imparare a comprendere e a circoscrivere il problema del figlio,


- imparare che il problema può essere affrontato,
- imparare che ci sono strategie più adeguate e altre meno efficaci,
- modificare l’atteggiamento verso il problema del figlio (comprendendo che le cose possono essere
cambiate),
- trasformare il senso di colpa in consapevolezza che gli errori del passato possono servire per
comportarsi in modo più corretto in futuro.

Il parent training può riguardare diversi aspetti:

- comprensione del problema: delimita e spiega il problema e i comportamenti del figlio;


- scelta degli obiettivi: orienta i genitori verso obiettivi realistici e circoscritti e riduce eventuali
aspettative eccessive;
- sostegno: aiuta i genitori a non farsi prendere dal senso di colpa;
- coinvolgimento: condivide il metodo di lavoro tra terapeuta e famiglia (in modo che le proposte del
terapeuta non appaiano come un’imposizione dall’alto ma come qualcosa che risponde anche ai
bisogni dei genitori);
- azione educativa: insegna ai genitori a non rinforzare i comportamenti negativi e ribadisce
l’importanza di rinforzare sempre quelli positivi (atteggiamento che i genitori possono non avere) e
in generale a favorire la gratificazione rispetto alla punizione, fa sì che i genitori abbiano una
maggiore omogeneità di comportamento, insegna che è importante favorire l’autonomia e non la
protettività verso il figlio, cambia la narrazione da una visione tutto o niente (“non dorme mai”) a
una più oggettiva (“dorme poco”);
- lavoro sui genitori stessi: a volte i genitori rinforzano il comportamento del figlio con un proprio
comportamento simile (per esempio un figlio molto timido che deve essere aiutato a trovare il
coraggio di invitare a casa i compagni di scuola sarà sostenuto in questo se per esempio una madre
altrettanto timida troverà il coraggio per parlare con un’amica);
- miglioramento del clima familiare: spinge i genitori a parlare col figlio.

Non si deve mai colpevolizzare un genitore perché il focus di un intervento terapeutico non è il passato (ciò
che si è fatto di sbagliato) ma il presente (ovvero quello che può essere fatto).

È importante anche gestire gli entusiasmi iniziali dei genitori di fronte ai primi successi che potrebbero
portare a sospendere o rallentare il trattamento oppure a sfiducia quando appariranno le prime flessioni
dei risultati o i primi cali di motivazione del bambino.

Contratto educativo
Un vero e proprio contratto, possibilmente scritto al computer, e firmato da tutte le parti (genitori,
terapeuta, bambino) in cui il bambino si impegna a fare qualcosa e il genitore a premiarlo in qualche modo.

L’impegno del bambino deve essere specifico (“andare a letto a una certa ora”) e non generico
(“comportarsi meglio”, “andare a letto presto”).

La gratificazione da parte dei genitori deve essere altrettanto specifica e non differibile (un eventuale regalo
deve essere dato subito dopo il compito); in questo senso il contratto educativo è un utile strumento
educativo per il bambino ma anche una forma di parent training.

Fare un contratto educativo non significa che il bambino ricatta i genitori per qualcosa che dovrebbe fare a
prescindere per suo dovere; significa collaborare per trovare una utile motivazione per eseguire un compito.

Ristrutturazione cognitiva

Metodologia terapeutica che cerca di modificare i pensieri negativi, ovvero quelli che non favoriscono il
cambiamento, che generano demotivazione o ansia o che non aiutano la collaborazione col terapeuta.

Per fare questo tali pensieri devono essere riconosciuti dal paziente come pensieri che fanno stare male e
poi rielaborati vedendo quali sono gli errori che sono alla base di questo tipo di ragionamenti e come sia più
utile pensare in modo diverso.

I pensieri negativi hanno infatti spesso caratteristiche simili: sono esagerati (“tanto non mi divertirò”),
dicotomici e assoluti (“tutto quello che faccio è sbagliato”) e basati su induzioni arbitrarie (“Se non mi ha
salutato vuol dire che mi detesta”).

Per esempio, di fronte a una convinzione distorta (“Sono tutti più bravi di me”, “Se faccio questo starò
malissimo”) si può chiedere al paziente come possa dire quello che ha appena affermato, in modo che
possa rendersi conto che aveva generalizzato eccessivamente.

I pensieri negativi poi potranno così essere sostituiti da equivalenti positivi (“Se mi impegno, posso
migliorare”, “Posso essere aiutato senza che questo significhi che non sono capace”).

Terapia razionale emotiva

Nella ristrutturazione cognitiva l’accento è posto sui pensieri; nella terapia razionale emotiva oltre ai
pensieri si considerano anche le emozioni che da essi possono scaturire.

I pensieri sono divisi tra razionali e irrazionali: i primi sono dimostrabili e portano con sé emozioni positive,
mentre un pensiero irrazionale è falso o comunque indimostrabile e contribuisce a farci stare male. Sono
pensieri falsi tuelli esagerati (“Devo essere un genitore perfetto”, “Non devo mai sbagliare”), quelli del tipo
tutto o nulla (“O dico tutto giusto o sarà una interrogazione pessima”).

La terapia razionale emotiva insegna dunque al paziente a distinguere tra pensieri razionali e irrazionali, a
rendersi conto degli effetti negativi di questi ultimi e a sostituirli dunque, per quanto possibile, con pensieri
razionali.

Osservazione sistematica
Osservazione di un aspetto del comportamento del bambino attraverso delle schede preposte che
dovranno essere compilate dai genitori o dal bambino stesso.

Tali schede devono essere create in collaborazione con chi le dovrà compilare in modo che siano
comprensibili, oggettive e veloci da riempire.

Misurare il comportamento è utile sia per quantificarlo che per vedere eventuali miglioramenti; in questo
modo i genitori potranno staccarsi da un’immagine e da una narrazione del figlio ormai cristallizzata in
negativo.

Token economy

La token economy inizia col definire, d’accordo coi genitori, un obiettivo raggiungibile, quindi viene stabilito
il rinforzatore finale, ovvero il premio che deve essere scelto dal bambino; infine viene stabilito il sistema di
punti che andranno poi segnati su un tabellone o quantificati con dei gettoni o un pezzo di un puzzle. Ogni
comportamento positivo andrà comunque rinforzato verbalmente ed emozionalmente.

Con un bambino con ADHD si può cronometrare il tempo in cui è rimasto seduto e dare un punto per ogni
minuto, segnare tali punti su un foglio fino a quando non se ne avranno abbastanza per poter ottenere una
certa gratificazione.

La token economy è basata sul rinforzamento informativo in quanto i “punti” forniscono un feedback
immediato al bambino.

Costo della risposta

Le token economy possono prevedere un cosiddetto “costo della risposta” per cui vengono tolti token a
fronte di comportamenti inadeguati. È lo stesso principio del “Hai commesso questo reato; ora paghi
questa multa”.

Questo può essere fatto solo se il bambino è stato informato ed è consapevole del funzionamento del
gioco, anche se sono sempre rischiosi perché un “costo” potrebbe scatenare proprio il comportamento
negativo che non vogliamo stimolare o rinforzare.

Per evitare questo è importante utilizzare questa tecnica solo con bambini che possano capirne il senso e in
un modo che sia esplicito e privo di giudizi sul bambino stesso; deve essere chiaro che la punizione viene
data senza cattiveria e per punire il comportamento e non il bambino in sé, in modo da non stimolare
correlati emozionali negativi. La punizione inoltre non deve essere un vantaggio per il genitore (per
esempio per evitare di comprare qualcosa).

Un buon sistema è di costruire sin dall’inizio il sistema a punti in modo che quelli guadagnati siano sempre
superiori a quelli persi.

Terapia razionale emotiva (RET) (Ellis, 1955)


In questa prospettiva i problemi emotivi sono visti come il risultato della loro interpretazione distorta da
pensieri irrazionali di un certo evento attivante e non come invece direttamente dipendenti da esso.

L’approccio razionale emotivo è centrato soprattutto sulla ristrutturazione delle aspettative non realistiche
e dei pensieri irrazionali, quali il credere di dover essere perfetti e di non poter mai commettere errori
(pensiero tipico dei genitori che pensano che un solo errore potrebbe compromettere l’intera vita futura
del figlio oppure che cercano di evitare ogni frustrazione al figlio).

Questo tipo di terapia mira dunque a riconoscere questo tipo di pensieri, a favorire l’accettazione di se stessi, ad
aumentare la tolleranza alla frustrazione, a saper esprimere in modo costruttivo i propri stati d’animo

Analisi funzionale

Metodo di osservazione che non si limita a osservare il comportamento (“Lorenzo tira dei calci”), ma cerca
di capirne le cause, quanto meno quelle ambientali, analizzando gli stimoli antecedenti e le conseguenze
che potrebbero favorire il ripetersi del comportamento.

È utile con i bambini che utilizzano un certo comportamento come sostituto di una comunicazione verbale.

Un bambino che si arrabbia per comunicare che è stanco e ha bisogno di distrarsi può infatti ottenere la
punizione di essere buttato fuori dalla classe che funziona come rinforzatore negativo; questo bambino
continuerà dunque a emettere tale comportamento perché funzionale.

Se le maestre impareranno ad analizzare meglio gli antecedenti – e il bambino imparerà a esprimere meglio
i suoi bisogni – si creerà un circolo virtuoso in cui risposte più appropriate porteranno a un miglioramento
della comunicazione che a sua volta otterrà risposte più appropriate.

Una forma particolare di analisi funzionale è l’ABC cognitivo in cui però ci si focalizza sui pensieri e sulle
emozioni e non solo sui comportamenti.

Modellamento

Il modellamento consiste nell’apprendere abilità nuove attraverso l’osservazione di un modello e la


riproduzione dei suoi comportamenti.

È un principio base dell’apprendimento sia in famiglia che a scuola dove, soprattutto con i bambini più
piccoli, si può semplicemente mostrare un’azione corretta e aspettare che i bambini la ripetano. I bambini
normodotati spesso apprendono inconsapevolmente tante abilità proprio attraverso il modellamento,
come per esempio vestirsi, lavarsi, ecc.

In terapia si può sfruttare il modellamento per esempio parlando con una voce calma a un bambino che
tende a urlare, mostrando che è possibile toccare qualcosa che fa paura a un bambino che ha una fobia
specifica, rimanendo calmi di fronte a un bambino aggressivo.

Spesso purtroppo le famiglie sono un modello negativo (per esempio un genitore ansioso con un figlio
ansioso) che il bambino imita rinforzando i sintomi del suo stesso disturbo.

Problem solving
Il problem solving è uno strumento cognitivo in cui le difficoltà vengono viste come problemi per i quali si
possono cercare delle soluzioni; in questo modo si possono analizzare i tentativi finora svolti come soluzioni
in genere disfunzionali e valutare invece soluzioni nuove.

Il problem solving si compone di quattro fasi:

- definire il problema – in modo da uscire da una vaghezza che è quasi sempre fonte di ansia – e
capire i bisogni che ne sono alla base,
- cercare possibili soluzioni alternative,
- scegliere una soluzione,
- mettere alla prova la soluzione scelta e valutare i risultati.

Prevenzione della risposta

Le strategie di prevenzione della risposta sono quelle che cercano di preparare l’ambiente o in generale gli
stimoli che potrebbero innescare un certo comportamento.

Tali strategie possono essere consigliate dal terapeuta ma anche escogitate dal bambino attraverso un
problem solving in cui vengono analizzate le modalità finora attuate e cercate invece nuove soluzioni più
funzionali.

Desensibilizzazione sistematica

La desensibilizzazione sistematica è una procedura di controcondizionamento che associa allo stimolo


fobico – a cui si è sempre risposto con l’ansia - uno stimolo antagonista dell’ansia stessa (in genere il
rilassamento).

La desensibilizzazione sistematica si svolge attraverso cinque passaggi:

- definire lo stimolo fobico,


- insegnare al paziente una tecnica di rilassamento,
- costruire col paziente una gerarchia degli stimoli ansiogeni,
- fare immaginare al paziente le situazioni ansiogene mentre è rilassato partendo dalle prime della
gerarchia (desensibilizzazione sistematica in immaginazione),
- aumentare gradualmente la difficoltà delle sitauzioni.

Il principio su cui si basa la desensibilizzazione sistematica è quello del controcondizionamento: lo stimolo


ansiogeno viene finalmente associato a una situazione rilassante perdendo così il suo potere ansiogeno.

Esposizione
Tecnica simile alla desensibilizzazione sistematica in cui il paziente viene esposto a situazioni ansiogene
progressive.

Il meccanismo non è più quello del controcondizionamento, ma dell’estinzione, in quanto l’esposizione alla
situazione ansiogena – che dunque non viene più evitata – fa sì che non vengano più rinforzate le risposte
di fuga e di evitamento.

Durante l’esposizione vanno evitati i rinforzi negativi (come l’evitamento, che è un rinforzo negativo perché
toglie l’ansia evitando la situazione ansiogena) ma vanno anche rinforzati i comportamenti positivi.

Se la gerarchia degli stimoli ansiogeni è studiata bene e le situazioni sono ben preparate, l’ansia tende a
cadere grazie ai rinforzatori intrinseci, ovvero che il bambino è contento di sé e di quello che sta facendo.

Per l’esposizione si può usare anche la realtà virtuale.

Acceptance and Commitment Therapu – ACT

Forma di terapia che non si basa sulla riduzione dei sintomi ma che mira a modificare la relazione con i
pensieri e le emozioni negative (e, di conseguenza, con i nostri sintomi).

L’ACT, attraverso le abilità di mindfulness, vuole insegnare un modo nuovo di entrare in contatto con i
sintomi, in quanto non sono essi di per sé negativi, ma lo è il tentativo costante di controllarli e combatterli.

A bloccare le persone secondo l’ACT sono due processi:

- la fusione, per cui tendiamo a stare così dentro ai nostri pensieri da dimenticarci che noi non siamo
i nostri pensieri,
- l’evitamento, per cui più scappiamo e più i nostri pensieri si faranno sentire.

I principi fondamentali su cui si basa l’ACT sono sei:

- la defusione (distacco dai pensieri e dalle convinzioni dolorose),


- l’accettazione (accettare anziché reprimere le emozioni che si sperimentano),
- il contatto col momento presente (e quindi non rimuginare sul passato e non preoccuparsi per il
futuro),
- il Sé osservante (essere attenti a quello che si sente si pensa e si fa in ogni momento),
- i valori personali (con cui si deve entrare in contatto),
- l’azione impegnata (ovvero carica di impegno al fine di perseguire un obiettivo).

L’ACT trova largo impiego nei disturbi d’ansia e in quelli dell’umore

ABC cognitivo
Quando il sintomo viene presentato dai genitori o dal bambino completamente slegato da una situazione
precisa è importante che queste persone riescano a contestualizzarlo per cambiare lo stile di attribuzione e
poterci lavorare.

L’acronimo sta per

- Antecedenti: il contesto in cui il sintomo si presenta,


- Beliefs (credenze): i pensieri e le emozioni che accompagnano il presentarsi del sintomo,
- Conseguenze: che cosa è successo dopo (il comportamento del paziente e di chi gli sta vicino).

Tutti questi aspetti vanno indagati attraverso una sorta di analisi funzionale, ma mentre in quest’ultima ci si
focalizza sui comportamenti, nell’ABC cognitivo l’enfasi è posta nel mondo interno del paziente (la B di
“beliefs”).

Durante l’analisi il paziente è invitato a far caso ai minimi particolari, a tutte le rappresentazioni e le
emozioni che salgono alla mente.

TERMINI VARI
Abilità adattive

Abilità che permettono a una persona di adattarsi alle richieste dell’ambiente (per esempio saper
comunicare i propri bisogni, socializzare con i coetanei, saper svolgere alcune attività quotidiane, ecc.).

Autonomie personali e sociali

Le autonomie sociali riguardano l’autoaccudimento (lavarsi, usare il bagno, alimentarsi, ecc.) mentre quelle
sociali riguardano abilità utili nella relazione con gli altri (saper usare il telefono e il denaro, saper leggere
l’orologio, ecc.).

Autostima e autoefficacia

Autostima: immagine di sé. L’autostima è influenzata dai risultati che riusciamo a ottenere (se non ottengo
mai davvero dei risultati, la mia autostima sarà ovviamente influenzata) e dalle nostre aspettative
(l’autostima dipende dai nostri desideri e dalle nostre speranze). Una bassa autostima è in relazione con
l’insorgenza di disturbi depressivi e quindi è importante promuovere un’autostima positiva durante lo
sviluppo e in particolare durante l’adolescenza per evitare lo sviluppo di una depressione in età adulta.

Autoefficacia: la percezione che abbiamo delle nostre capacità, ovvero la fiducia nella possibilità di
influenzare e modificare eventi che ci riguardano. La sensazione di avere le capacità per fronteggiare le
situazioni minacciose ci rende appunto più autoefficaci.

Autostima e autoefficacia sono legate anche agli stili di attribuzione.

Metodi comportamentali e cognitivi

Quando lo psicologo cerca di ottenere particolari risposte manipolando gli stimoli o le conseguenze in modo
da ottenere dei rinforzi quando la risposta è quella desiderata, si stanno usando metodi comportamentali.

Quando il paziente modifica i suoi comportamenti perché ha modificato il suo punto di vista interno, le sue
convinzioni, aspettative, emozioni, allora sta subentrando un approccio cognitivo.

Istruzionismo / costruttivismo
Quando viene messa in atto la programmazione di un percorso di cambiamento terapeutico si parla di
istruzionismo perché è necessario istruire il paziente perché modifichi il suo comportamento.

Il costruttivismo è invece quando un certo comportamento viene appreso in modo spontaneo, per esempio
quando un paziente trova da solo la soluzione o fornisce ipotesi di lavoro per un suo problema, diventando
ancor più protagonista del suo processo di cambiamento.

Istruzionismo e costruttivismo possono essere due modi di intendere la psicoterapia o momenti diversi
all’interno di una terapia; per esempio all’inizio pazienti particolarmente fragili o in momenti difficili della
loro storia possono aver bisogno di una guida.

Stile di attribuzione

Lo stile di attribuzione è un costrutto metacognitivo che rappresenta il modo in cui attribuiamo il merito o
la colpa di ciò che ci accade.

Gli stili di attribuzioni possono essere divisi in

- stile di attribuzione interno, quando attribuiamo la responsabilità dell’accaduto a noi stesso o a


fattori che noi possiamo influenzare (“Il compito è andato male perché ho studiato poco”, “Se mi
impegno, posso migliorare”);
- stile di attribuzione esterno, quando si attribuiscono le cause a fattori esterni o sui quali si pensa
che non sia possibile intervenire (“È stata sfortuna”, “Non sono portato per questa materia”, “Era il
compito ad essere facile”, “Sono fatto così”, “È tutta colpa mia”, “Non c’è niente che possa fare”).

Si può inoltre fare una distinzione tra

- stile di attribuzioni stabili, quando si pensa che riguardino caratteristiche che abbiamo da sempre
(“Sono nato sfortunato”, “Non sono portato per la matematica”),
- stile di attribuzione instabile, quando sono contestuali (“Non era la mia giornata”).

Relazione di aiuto (o approccio rogersiano o terapia centrata sul cliente)


Una relazione di aiuto è “una relazione in cui almeno uno dei due protagonisti ha lo scopo di promuovere
nell’altro la crescita, lo sviluppo, la maturità ed il raggiungimento di un modo di agire più adeguato e
integrato.” (Rogers, 1951)

La relazione d’aiuto si fonda dunque sull’approccio rogersiano basato sull’ascolto e sulla comprensione
empatica, anche se questo non impedisce l’uso di strategie cognitivo-comportamentali (utili soprattutto con
i bambini con i quali è più difficile ottenere risultati significativi esclusivamente attraverso il parlare).

Viene data la precedenza agli aspetti relazionali di un rapporto di cui il terapeuta è inevitabilmente l’altro
estremo. Lo psicologo infatti non deve dare consigli, ma ascoltare.

L’approccio sulla comprensione empatica rimanda al paziente l’emozione che sta emettendo e non ingiunge
un compito; per esempio, di fronte a un bambino con comportamenti negativi o aggressivi, non consiglia di
rilassarsi o chiede subito quale sia il problema, ma fa capire che vediamo il suo malessere e che siamo lì per
ascoltarlo.ù

I metodi che lo psicoterapeuta può mettere in atto sono quattro:

- prestare attenzione al paziente,


- rispondere a ciò che il paziente dice e alle emozioni sottostanti,
- emettere risposte che producano una comprensione empatica,
- avviare il paziente al suo percorso di cambiamento.

La relazione d’aiuto si basa dunque su un approccio non istruzionistico ma sul prestare attenzione, sul
rispondere al contenuto e alle emozioni che l’altro ci offre, sul facilitare nell’altro la comprensione di quello
che gli succede in modo da spingerlo gradatamente verso una consapevolezza che gli permetta di agire in
modo indipendente.

Gli obiettivi principali di una relazione di aiuto sono tre. Il paziente

- deve imparare a guardarsi dentro,


- deve imparare a comprendersi,
- deve partire dalla comprensione di sé per agire in modo migliore.

Per quanto riguarda i bambini innanzitutto va detto che a certe età non è facile raccontare certi sentimenti
e forse non è facile nemmeno rendersi conto di averli; poi c’è la paura di sentirsi giudicati – o, in fondo, di
giudicarsi -, l’incertezza sulla durata e sull’efficacia della terapia, quindi innanzitutto è bene creare una
relazione empatica e uno spazio sicuro e non giudicante in cui fare emergere certe emozioni.

TEST
PM – Matrici progressive

Test che consente di valutare l’intelligenza – intesa come fattore G di Sperman - attraverso figure legate
insieme con logiche sempre più difficili.

La risposta può essere data anche solo indicando la figura.

Dai 5 agli 11 anni esiste la versione colorata per bambini, in genere sempre gradita.

WAIS – WISC - WPPSI

WAIS: test per la misurazione del QI negli adulti tramite la scala Wechsler.

WISC (ora WISC-R): versione per l’età evolutiva (6-16 anni)

WPPSI: versione per i bambini di età prescolare.

Fornisce punteggi parziali che possono essere cofrontati per fornire utili indicazioni diagnostiche e un
risultato finale (il QI).

Il DSM-5 ha attenuato il valore del QI per la diagnosi a favore di una valutazione generale del
funzionamento adattivo (comunicazione, cura di sé, capacità sociali, ecc.).

Prove MT

Prove standardizzate per la valutazione dell’abilità di lettura dalla scuola primari alla secondaria superiore.

Sono di tre livelli a difficoltà crescente che vengono somministrati all’inizio, a metà e alla fine dell’anno
scolastico.

Possono essere somministrate anche da insegnanti.

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