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Cause e fattori aggravanti

Le cause della disabilità intellettiva sono estremamente varie.

 cause genetiche più o meno conosciute, come la s. di Down, s. Angelman, X fragile, sclerosi tuberosa
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e anche condizioni che non sono ancora geneticamente determinate, ma che supponiamo lo possano
essere (ora abbiamo varie metodiche di genetica che ci permettono di arrivare ad esplorazioni
genetiche molto importanti fino ad esoma e genoma).
 fattori ambientali predisponenti sono l’esposizione prenatale ad alcool, la ridotta crescita fetale in
ambiente uterino, l’asfissia perinatale, la malnutrizione materna (anemia da carenza di ferro),
alterazioni metaboliche, della tiroide, infezioni di tutti i tipi, in particolare il complesso TORCH, la
malaria nelle zone endemiche, le sostante tossiche (Pb), i traumi. Sono molte delle cause condivise
anche dalle paralisi cerebrali infantili.
 Poi ci sono fattori aggravanti, da considerare in quanto nel mondo esistono condizioni di vita
assolutamente differenti: povertà, mancanza di assistenza, fame, disastri naturali, depressione
materna, abbandono, abuso, guerra. Tutti questi influenzano la ricorrenza dei problemi.
N.B  ricordare anche la variabilità della distribuzione geografica delle varie cause!

Diagnosi

La diagnosi di disabilità intellettiva si fa tramite una valutazione individualizzata. Questa richiede che ci sia un
linguaggio-metodologia che garantisca una comprensione e una valutazione del retroterra etnico e culturale
del soggetto. Se il soggetto infatti ha una cultura diversa o non comprende la lingua, la somministrazione di
un test di valutazione può dare risultati non corretti. Spesso si usano i mediatori.
Oggigiorno non ci si limita alla valutazione del QI, ma si fanno anche altri esami di laboratorio e strumentali.
Spesso ci sono situazioni facilmente diagnosticabili: nei casi di ritardi gravi o in presenza di altra malattia
neurologica o dismorfismi che ci orientano verso una diagnosi.
Ma a volte c’è una disabilità lieve con un fenotipo non particolare e la diagnosi può essere fatta più
tardivamente.
Quello proposto è uno schema utile perché pratico e rapido:
- Si parte da un’anamnesi approfondita familiare, fisiologica, patologica recente e remota.
- Si fa un accurato esame obiettivo neurologico.
- Si prova quindi a fare un’ipotesi diagnostica, un tentativo di diagnosi, e se si ha una idea di quello
che può essere il problema si può scegliere un test genetico specifico. Se si riesce a fare diagnosi
si richiede la consulenza genetica e si segue il paziente con un follow-up. Se invece non si riesce a
fare diagnosi si fa un test di può ampio respiro come il test CGH array, che è un test che viene fatto
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regolarmente e che sostituisce il cariotipo, e nei maschi anche un esame molecolare per la fragilità
del cromosoma X.
- Se le cose non vanno si passa alla RMN encefalo. La TC cerebrale non ha senso farla.

Passando alla parte sinistra dello schema:


- se non si riesce ad avere un sospetto diagnostico preciso si fa direttamente CGH array e X fragile.
Se non si fa diagnosi si fa la RMN. La consulenza genetica è molto importante perché i genetisti
conoscono molto bene le sindromi.

In generale: il ritardo mentale grave soprattutto se associato a dismorfismi viene riconosciuto più
precocemente, quelli lieve di origine sconosciuta è generalmente individuato più tardivamente.
Decorso

Epidemiologia e comorbidità
La disabilità intellettiva ricorre nell’1% della popolazione generale e varia a seconda dell’età. La forma severa
è quella meno frequente (6‰).
La disabilità intellettiva è spesso associata a comorbilità neurologiche e psichiatriche:
- neurologiche: epilessia, paralisi cerebrali infantili, autismo e altre malattie genetiche.
- problematiche psichiatriche: il 30-40% dei pazienti con disabilità intellettiva possono avere
problematiche psichiatriche rispetto al 5-7% della popolazione normale, soprattutto in età
evolutiva. Anche se non ci sono manifestazioni psichiatriche eclatanti, spesso i soggetti possono
avere problematiche psicopatologiche tipo frustrazione, difficoltà di adattamento, depressione,
dipendenza, mancanza o difficoltà di identificazione secondaria e di introiezione delle norme del
gruppo (soprattutto in adolescenza), regressione. Molto spesso l’ambiente circostante non agisce
in maniera produttiva rispetto allo sviluppo delle autonomie. Spesso i genitori sono preoccupati e
hanno atteggiamenti che non facilitano l’autonomia del soggetto, ma al contrario portano a
dipendenza e regressione e depressione (il soggetto percepisce di essere diverso dagli altri).
Queste, anche se non si strutturano in una vera e propria psicopatologia grave, dove magari è
necessario utilizzare dei farmaci per gestire la situazione contingente, l’individuo può essere in
qualche modo in difficoltà nella sua gestione e, oltre ad avere il problema di disabilità, avere anche
qualche problema di tipo emotivo, affettivo, ansioso, qualcosa che limita addirittura la sua
dipendenza.

In un individuo che, oltre alla disabilità intellettiva presenta un disturbo motorio, l’associazione peggiora
nettamente l’autonomia dello stesso e ciò si ripercuote sulla famiglia. Il neuropsichiatra infantile infatti, oltre
al soggetto, prende in carico la sua famiglia. Invece, nel caso di disabilità motorie meno compromesse e con
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disabilità intellettiva non troppo imponente, si ha una maggiore consapevolezza dei difetti e quindi il paziente
può avere un maggior senso di inadeguatezza e sofferenza. In questo secondo caso si ha più un vissuto del
paziente piuttosto che della famiglia, come nel primo caso; a volte, proprio per questo motivo, possono
emergere comportamenti anche di aggressività, rifiuto, isolamento o passività per eccessiva dipendenza,
legati a questa sofferenza e bassa autostima, che incidono sulle autonomie del paziente.

L’aggressività è più frequente in un soggetto con livello intellettivo più basso in quanto questo non è in grado
di esprimere diversamente i propri problemi.
Il soggetto in età evolutiva affetto da disabilità intellettiva richiede un efficiente lavoro di équipe, per la sua
integrazione nel contesto sociale, ossia a casa, a scuola e nell’ambiente ludico. Naturalmente, poi con l’età il
contesto sociale cambierà, con altre forme di collocamento sociale.
I genitori non “nascono” coscienti e a conoscenza di quello che deve essere fatto, per cui è sempre bene
pensare ad un sostegno psicoeducativo familiare: non possiamo prenderete dai genitori che abbiano la
capacità di comprendere da soli. Altro discorso importante è quello dell’integrazione scolastica: nella nostra
realtà italiana l’inserimento nelle classi normali prevede la presenza di un insegnante di sostegno e un lavoro
di integrazione, nel quale anche l’insegnante curriculare è coinvolto e consapevole della presenza del
soggetto con le sue problematiche.

Adolescenza, disabilità intellettiva e problematiche comportamentali


Un momento abbastanza difficile in questi pazienti è rappresentato dalla fase puberale e prepuberale. I
cambiamenti in questi soggetti, soprattutto in coloro che hanno una disabilità di grado importante, possono
determinare comportamenti impropri. Ma anche i soggetti con disabilità di grado lieve e moderato possono
presentare un certo grado sofferenza, in quanto sono consapevoli della propria condizione, con possibile
manifestazione di condizioni psicopatologiche sussidiarie e comorbidità importanti.
È un momento della vita molto delicato dove l’individuo va mantenuto sotto controllo. Spesso proprio in
questo momento arriva infatti la richiesta da parte degli operatori di intervenire con una terapia
farmacologica per arginare le situazioni più complesse  sono soggetti psichicamente vulnerabili.
Una delle problematiche più importanti è sicuramente l’aggressività, auto-o eterodiretta. Nel tempo
l’individuo cresce, anche dal punto di vista corporeo, diventando un adulto, con l’acquisizione di una
maggiore forza: ci sono quindi dei comportamenti che possono essere pericolosi per il soggetto stesso e per
gli altri. In generale, la prima cosa che deve fare lo specialista è domandarsi se queste problematiche sono
facilitate da condizioni organiche o un disagio fisico che disturbano il soggetto. Ad esempio, un individuo che
non ha delle competenze verbali o che ha un ritardo per cui non è in grado di esprimersi, potrebbe avere una
patologia organica che gli causa dolore (es. problema odontoiatrico, cefalea, problema articolare, dolore
addominale, ecc.) e manifestare questo suo disagio attraverso un comportamento disfunzionale. Quindi, la
prima cosa da fare è sincerarsi che il paziente non abbia una condizione di questo genere.
La prof racconta il caso di un bambino affetto da sindrome di Down che sbatteva sempre la testa contro il
muro e i genitori non ne comprendevano il motivo, che alla fine si capì essere un’otite: aveva mal d’orecchie
e quindi sbatteva la testa contro il muro.

Un'altra cosa pratica da tenere in considerazione è che un soggetto con disabilità intellettiva, ma vale anche
per il disturbo di spettro autistico, può vivere un disagio legato ad un cambiamento: soprattutto laddove non
ci sia una capacità verbale e di comunicazione strutturata, anche un cambiamento ambientale, di un
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insegnante di sostegno, delle abitudini, un trasloco potrebbero creare un disfunzionamento e dare
problematiche comportamentali. Le abitudini sono importanti sia nei soggetti con disturbo di spettro, sia in
quelli con disabilità intellettiva, perché fanno sentire i pazienti più sicuri.
Quindi è possibile vedere un cambiamento repentino, come irritabilità, instabilità emotiva od
opposizionismo, che può essere legato a questi tipi di esperienze, senza giungere necessariamente ad un
comportamento aggressivo. Quindi, è importante indagare queste eventualità: non si deve prescrivere subito
il farmaco, senza prima sapere perché c’è stato il cambiamento di comportamento.

Trattamento

Il trattamento è di tipo riabilitativo ed è un trattamento integrato, di tipo educativo o psicoeducativo (di tipo
cognitivo-comportamentale). (“All’esame non ditemi la psicoterapia perché non è questo”). La psicoterapia
potrebbe essere utile, anche se negata in base alle nuove indicazioni, per coloro che hanno una disabilità
intellettiva molto lieve o un quoziente intellettivo limite, in quanto magari sono persone che hanno più
possibilità di comprendere. Tuttavia, in generale, per essere utile una psicoterapia, è necessario che vi sia
una consapevolezza da parte dell’individuo, per cui non faremo mai una psicoterapia ad un soggetto con una
disabilità intellettiva moderata, severa o grave. Altre terapie possono essere terapie di rilassamento,
cercando di eliminare il più possibile le situazioni ambientali stressanti.

La terapia farmacologica è importante perché può essere necessaria. Non è la prima cosa a cui pensare e da
utilizzare però in certe condizioni va utilizzata, come quando il soggetto sviluppa una psicosi da innesto, una
sintomatologia ansiosa depressiva o tratti caratteriali ingestibili. Il farmaco poi va utilizzato se, associato al
problema intellettivo, c’è un altro problema neurologico come un’epilessia o un disturbo motorio. La terapia
farmacologica è una terapia sintomatica e risulta inutile senza un’adeguata presa in carico del soggetto e
dell’ambiente familiare. Questi ultimi aspetti infatti permettono all’individuo di avere buoni risultati.
L’ambiente familiare è importante in quanto, se equilibrato, giova allo sviluppo del ragazzo, anche se come
risultato è difficile da quantificare. Come farmaci vengono utilizzati gli antipsicotici. Il più utilizzato è il
Risperidone che ha indicazione in particolare per il comportamento dirompente in età evolutiva. Vengono
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utilizzati anche Aripiprazolo, Quetiapina. Anche gli antidepressivi si utilizzano, soprattutto nei pazienti
depressi. Si parte sempre con basse dosi e si titola lentamente. Questi pazienti infatti sono molto sensibili e
spesso si hanno reazioni paradosse legate ai farmaci. Le benzodiazepine hanno un effetto paradosso e per
questo sono sconsigliate. Per il sonno si può utilizzare la melatonina ad alto dosaggio: almeno dai 2 ai 5 mg.
Per le epilessie anche i farmaci antiepilettici, alcuni dei quali hanno una doppia azione con efficacia sia
antiepilettica ma anche a livello comportamentale: Carbamazepina, Acido Valproico, Lamotrigina. In ogni
caso la terapia farmacologica va gestita con molta attenzione per cercare di non avere degli effetti paradossi.
È bene sottolineare il fatto che quindi se il ritardo mentale è una condizione associata ad una patologia di
base, la terapia deve essere somministrata primariamente per la patologia di base stessa.

Domanda: Il QI rimane costante per tutta la vita? O ci sono accorgimenti particolari nel fare il test alle diverse
età?
Risposta: I test sono modulati a seconda dell’età. Il QI può subire delle piccole variazioni, dipende in parte
dalla stimolazione esterna e dalle condizioni ambientali; però, solitamente, con la crescita, visto che le
capacità dell’individuo si fermano ad un certo punto, vediamo un certo grado di riduzione numerica:
partendo da un certo livello in età evolutiva, essendo con il procedere dell’età [del bambino] maggiormente
richiestivi dal punto di vista dei test, è possibile che vi sia un leggero calo di punteggio.
Ci sono delle condizioni neurologiche nelle quali si possono avere degli shift del quoziente intellettivo, legati
a problematiche che possono verificarsi anche transitoriamente, dopo le quali il paziente si riprende. Questo
verrà affrontato meglio nelle prossime lezioni, quando parleremo delle encefalopatie epilettiche, nelle quali,
in età evolutiva, ci possono essere delle perdite numeriche di QI a cui succedono delle riprese.

Domanda: c’è un’età ottimale alla quale fare i test?


Risposta: No, tutte le età sono valutabili. Prima dei 4 anni ci sono dei test che danno un’idea del quoziente di
sviluppo psicomotorio, dopo i 4-5 anni ci sono dei test che valutano il livello intellettivo. Quest’ultimi sono
tarati per età, quindi avremo dei test diversi per il fanciullo, per il bambino più grande e per l’adolescente,
che sono tarati sulla base dei risultati della popolazione generale.

Domanda: Per quanto riguarda la psicofarmacologia, si sa qualcosa in merito ad un eventuale utilizzo di


nootropi e integratori? Ovviamente, nei casi lievi e moderati.
Risposta: Molto tempo fa, circa negli anni ‘90, ho partecipato ad uno studio (che poi pubblicai su una rivista
italiana di neuropsichiatria infantile) sull’utilizzo della niaprazina nella disabilità intellettiva. Al tempo feci
anche uno studio, sempre sullo stesso farmaco, applicato all’induzione del sonno nei soggetti con disturbo di
spettro autistico, pubblicato invece su una rivista recensita.
La niaprazina è un antistaminico, dotato di un effetto sedativo o comunque tranquillizzante sul soggetto con
problematiche comportamentali: è un farmaco che abbiamo utilizzato bene, sia in acuzie (cioè per i momenti
di aggressività in acuto) sia per il monitorare l’umore a lungo termine.
Questo farmaco è poi uscito dal commercio ed è recentemente rientrato, ma risulta un po’ difficile
procurarselo. Però è un ottimo farmaco, come detto è un antistaminico con effetto comportamentale ed è
anche un ipnoinducente, utilizzato anche nei soggetti con disturbo di spettro autistico, qualora non riescano
a dormire. L’unico dato da considerare, come effetto collaterale, è l’allungamento del QTc.
Altre cose che possono essere utili sono l’utilizzo di magnesio oppure l’impiego di altri nutraceutici. Non
abbiamo degli studi veri e propri, di tipo randomizzato, ma ci sono tanti prodotti che si possono trovare, che
possono anche essere utilizzati.
In passato, per il disturbo di spettro autistico si utilizzava un’associazione di vitB6 e magnesio, riguardo cui
noi in passato avremmo voluto fare uno studio randomizzato in doppio cieco, ma non è stato approvato dal
comitato etico per problematiche di fondi e soprattutto per un problema nell’attivare delle assicurazioni per
i pazienti che entravano nello studio. Per cui ci sono dei dati in letteratura, in particolar modo sull’autismo,
ma non ancora certi.

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DISTURBO DELLO SPETTRO AUTISTICO
Il disturbo dello spettro autistico o autismo è una patologia del bambino, ad esordio precoce caratterizzata
da un deficit dello sviluppo dei processi cognitivi che permettono all’individuo di orientarsi socialmentee di
strutturare relazioni intersoggettive. Quindi, rispetto alla disabilità intellettiva, alla quale l’autismo di associa
frequentemente, la problematica psicopatologica è legata all’interazione sociale e alla comunicazione.

La sintomatologia si presenta precocemente, di solito entro i 3 anni di vita, interessando in maniera pervasiva
tutto lo sviluppo del bambino oppure i sintomi, se più lievi, sono riconoscibili più tardivamente in occasione
del sempre maggiore inserimento sociale.
Questo vuol dire che l’individuo nasce affetto dalla patologia, la quale non è determinata da fattori culturali
o sociali e può manifestarsi molto precocemente perché pervade lo sviluppo psicomotorio del bambino, ma
che potrebbe anche evidenziarsi più tardivamente (non perché compaia dopo) ma perché durante la crescita
l’individuo si trova in condizioni di maggior socializzazione, rapporto ed interazione con il mondo esterno.
Capita, infatti, di vedere anche dei ragazzi adolescenti o dei bambini più grandi, a cui non è stato diagnosticato
l’autismo, ma che, ad un certo punto, proprio per questa loro problematica comunicativa e interazionale,
devono avere una diagnosi di questo tipo.

Le prime segnalazioni della patologia risalgono agli anni Quaranta ad opera di due diversi medici, che non si
conoscevano, lo statunitense Kanner e l’austriaco Asperger. Nel 1943, Kanner descriveva 11 soggetti, dei
quali “la cosa che impressionava di più era l’inaccessibilità … il distacco”.
In realtà, già ai tempi della descrizione della schizofrenia si parlava di autismo schizofrenico. C’è chi pensa
che le due patologie facciano parte di una stessa linea di psicopatologie, che ci sia quindi una base comune.
La definizione della patologia è cambiata nel corso del tempo: inizialmente si è parlato di autismo, poi si è
passati alla definizione di disturbi pervasivi dello sviluppo (valida fino al DSM4), sostituita nel 2013 con il DSM5
con la definizione di disturbi dello spettro autistico. Nel DSM IV si parlava di Disturbi pervasivi di sviluppo
dove il termine “pervasivo” identificava la gravità del problema che pervade, appunto, lo sviluppo del
bambino. Successivamente si parla di disturbo di spettro autistico. Nel DSM IV ci sono ancora le
sottocategorie di: disturbo autistico, disturbo disintegrativo della fanciullezza, disturbo pervasivo non
altrimenti specificato, disturbo di Rett (che poi è stato eliminato perché è una patologia genetica), il disturbo
di asperger. L’ultima classificazione, invece, analizza il carattere dimensionale della condizione, mentre nel
DSM4 si parlava di categorie, eliminate poi con il DSM5. Tutti i vari disturbi (il disturbo autistico, la sindrome
di Asperger, il disturbo disintegrativo dell’infanzia, la sindrome di Rett, e il disturbo pervasivo dello sviluppo
non altrimenti specificato) sono stati tutti raccolti nella definizione del DSM5 “disturbi dello spettro autistico”.
È più corretto parlare di spettro perché abbiamo nello stesso contesto diversi livelli di gravità-severità. [C’è
stata qualche polemica con l’Asperger, ma alla fine questa condizione rappresenta semplicemente la forma
più lieve di disturbo dello spettro autistico]. Della vecchia definizione, risulta importante il significato del
termine “pervasivo”. La definizione inglese era “pervasive development disorder”, tradotto in italiano come
“disturbi generalizzati dello sviluppo”: il concetto è che il problema è talmente ampio e grave che pervade
lo sviluppo del bambino.

[Specificazione presa da internet: Nel DSM IV, la definizione di un termine diagnostico era basata su un elenco
di criteri e, in quasi tutti i casi, era semplicemente il numero di sintomi in varie categorie che definiva se il
tipo di diagnosi dovesse essere usato o meno per descrivere la condizione clinica del soggetto. Questo
approccio è chiamato diagnosi “categoriale”: per fare diagnosi ciò che conta è la presenza del corretto
numero di sintomi in una determinata categoria. Un esempio che evidenzia uno dei principali problemi con
questo tipo di sistema diagnostico è che se qualcuno che presenta quattro sintomi, tutti a malapena
abbastanza gravi o rilevanti da poter essere validi come criterio, può soddisfare i criteri per una diagnosi,
mentre qualcuno con solo tre sintomi, anche se molto gravi, potrebbe non farlo. In buona sostanza, si
considera la sola presenza dei sintomi e non viene “pesata” e presa adeguatamente in considerazione la
gravità dei sintomi che, “in primis”, può contribuire al disagio e alla compromissione di funzionamento legati
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ad una condizione clinica (due aspetti chiave per la significatività clinica di una combinazione di sintomi o
caratteristiche). Ecco, quindi, quale problema diagnostico si è potuto superare introducendo il concetto di
diagnosi dimensionale: il livello di gravità dei sintomi, o del problema clinico generale, diventa l’aspetto
centrale nel processo diagnostico di inquadramento delle varie caratteristiche e sintomi presenti.
Ogni caratteristica, sintomo o deficit viene quindi definito come lungo un continuum dimensionale all’interno
del quale bisogna collocarne intensità e gravità. Invece di pensare a una diagnosi come una lista di sintomi
da contare, si concepisce una certa condizione clinica come un insieme di “dimensioni” di misurare in termini
di intensità. Proprio come la larghezza, la lunghezza e l’altezza sono dimensioni dello spazio in fisica, allora
umore, ansia, disturbi del sonno, sintomi somatici o introversione sono tutte dimensioni da misurare e
valutare per il loro grado di gravità nell’ambito di una diagnosi dimensionale.

L’evoluzione e la progressiva diffusione di strumenti dimensionali di valutazione di sintomi e abilità nella


ricerca e nella pratica clinica, hanno spinto ulteriormente verso un approccio di questo tipo anche nei criteri
diagnostici di base che viene raggiunto, per l’appunto, con il DSM 5 e il concetto di spettro autistico.]

Disturbo dello spettro dell’autismo (DSM 5)


(NB: sul libro questo non è riportato perché all’epoca c’era ancora il DSM4). Nella nuova definizione di autismo
del DSM 5 è meglio pensarlo come un singolo disturbo su un ampio spettro, con la diagnosi di disturbo dello
spettro autistico che va a rappresentare un termine “ombrello” al di sotto del quale vengono raggruppate
molteplici ed eterogenee manifestazioni della condizione clinica.

- Si definisce disturbo dello spettro dell’autismo una compromissione persistente della comunicazione
sociale reciproca e dell’interazione sociale.
Questo significa sostanzialmente che la comunicazione attraverso il linguaggio, l’aggancio visivo, la
mimica facciale, la gestualità, la postura, il contenuto del linguaggio e, addirittura, la comprensione
dello stato d’animo altrui è deficitaria. Quando parliamo di comunicazione, quindi, non parliamo solo e
semplicemente di comunicazione verbale, anche se questa è molto inficiata in questi soggetti.

- Presenza di pattern di comportamento, interessi o attività ristretti e ripetitivi:


sono soggetti che hanno delle stereotipie motorie, verbali e anche di interesse, cioè tendono a ripetere
sempre la stessa cosa, ad essere interessati sempre allo stesso oggetto, non amano i cambiamenti. Sono
dei bambini che hanno bisogno della ripetitività, non sono avvezzi a cambiare il loro stile di vita e, nel
caso si debba cambiare la loro routine, vanno preparati. Sono bambini routinari e che hanno anche delle
problematiche a livello sensoriale.

- I sintomi sono presenti nel periodo precoce dello sviluppo e causano una compromissione clinicamente
significativa del funzionamento in ambito sociale, lavorativo (naturalmente nel soggetto adulto) o in altre
aree importanti.

- Le alterazioni non sono meglio spiegate da disabilità intellettiva o da ritardo globale dello sviluppo.
Questo è importante perché c’è una comorbidità del disturbo di spettro autistico con la disabilità
intellettiva in circa il 40% dei casi, quindi in una percentuale piuttosto alta (un tempo si diceva che questa
percentuale era più alta, oggi la stima è calata intorno a questa percentuale).

Specificatori:
1. Con o senza compromissione intellettiva concomitante;
2. Con o senza compromissione del linguaggio;
3. Associata a una condizione medica o genetica nota o fattore ambientale;
4. Associata a un altro problema del neurosviluppo, mentale o di comportamento.

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Ulteriore fondamentale criterio di valutazione che viene proposto dal DSM 5 per l’autismo è il livello di gravità
e di supporto richiesto suddiviso sui 3 livelli che descrivono il livello di compromissione tramite la descrizione
delle due dimensioni principali (criteri A e B) sui 3 gradi di gravità:
 Livello 1 – Necessario un supporto
 Livello 2 – Necessario un supporto significativo
 Livello 3 – Necessario un supporto molto significativo.

L’incidenza della patologia è aumentata, se si guardano gli studi epidemiologici nel corso del tempo: i dati del
2014 riportano 1 caso su 68 nati negli USA. Perché questo aumento di frequenza? Sicuramente, in parte
perché conosciamomeglio il problema e c’è quindi un’aumentata capacità diagnostica.
La prof racconta che quando frequentava l’università, nel corso di neuropsichiatria infantile, che all’epoca era
un elettivo, nel libro di testo fornito non si faceva menzione di questo tipo di problema, si parlava di psicosi,
ma non si parlava di autismo né tanto meno di disturbo di spettro autistico. Sicuramente, nel corso del tempo,
anche grazie all’importante lavoro fatto dalle associazioni familiari, è aumentata la conoscenza del problema
e la sensibilizzazione nei confronti del problema, ci sono stati cambiamenti per quanto riguarda la diagnosi
precoce, la corretta presa in carico dei pazienti e anche per la contestualizzazione del problema in età adulta,
cosa che purtroppo per la disabilità intellettiva non c’è.
Inoltre, probabilmente ci sono fattori che in qualche modo facilitano la comparsa del problema: nessuno sa
di preciso quali siano, probabilmente sono fattori ambientali, come situazioni che si verificano durante la
gravidanza, problematiche immunitarie, problematiche tiroidee, inquinamento, ecc. (sicuramente non i
vaccini, come spesso si sente dire).

Eziopatogenesi
L’eziopatogenesi è multifattoriale. Un consorzio internazionale ha fatto degli studi genetici in cui si andava
a studiare la ricorrenza della patologia in famiglie con più di un membro affetto, ma non si è identificato, di
fatto, un gene responsabile: ci sono ancora tanti geni candidati, sono sempre di più soprattutto adesso che
si è in grado di studiare le copy number variant, l’esoma e il genoma, però in questo caso si tratta di una
patologia ad eziologia multifattoriale dove c’è sì un impatto genetico importante ma dove ci possono essere
altri fattori.

È importante la differenza fra autismo “sindromico” (circa il 5%) e l’autismo idiopatico, presente nella grande
maggioranza dei casi. Nell’autismo idiopatico non vi è nessuna malattia rara, o alterazione a livello encefalico
tali da determinare autismo. In passato, nel DSM IV ma non nel DSM V, fra i disturbi pervasivi dello sviluppo
vi era la Sindrome di Rett, di cui sono stati individuati i geni. Bisogna porre attenzione anche a tutti quei
bambini con tratti dismorfici. Alla base di questo disturbo vi è l’interazione tra fattori genetici e ambientali.
Molto recentemente si è iniziato a parlare di inter-connettività e disequilibrio sinaptico, tanto da poter
valorizzare la comorbidità frequente fra autismo, disabilità intellettiva ed epilessia.

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The genetic of autism, Muhle et al., 2004

In questa review del 2004 si fa menzione ad alcune condizioni geneticamente definite, come la sclerosi
tuberosa, la sindrome del X fragile, la sindrome di Angelmann, la Sindrome di Prader-Willi, la distrofia di
Duchenne, la neurofibromatosi, ecc…, che possono essere associate all’autismo.
Sicuramente non è presente una correlazione con i vaccini. C’è una frequente comorbidità con disabilità
intellettiva edepilessia. La concordanza fra gemelli dizigoti è bassa (tra lo 0-10%), sovrapponibile con quella
fra fratelli, mentre quella fra gemelli monozigoti è molto alta, ma non arriva al 100 %, cosa che indica
quanto la genetica sia importante, ma chenon sia sufficiente, è necessaria anche dell’interazione con i fattori
ambientali. Il rapporto fra maschi e femmine è di 3-4:1, anche se articoli recenti lo abbassano a 2:1: in passato
si diceva che le femmine affette fossero di meno, ma che fossero maggiormente compromesse dal punto di
vista della disabilità intellettiva; oggi si ipotizza invece che le femmine affette siano di più rispetto a quanto
detto in passato, solo che sono difficili da diagnosticare in quanto possono avere un fenotipo più sfumato,
con una normale o scarsa rappresentazione dei sintomi.
Ultimamente stanno uscendo articoli riguardanti il ruolo dei neuromediatori: sono state descritte alterazioni
a carico del genere della Relina (RELN) e di FOXP2. Per questo motivo molto spesso si valuta il genoma di
questi pazienti, per poter capire le cause.

Manifestazioni cliniche
[Ripasso fasi dello sviluppo psicomotorio Capacità visiva (1-2 anni); capacità uditiva (14 mesi); linguaggio
(3-4anni)]

Manifestazioni relazionali
Per quanto concerne il disturbo di spettro autistico, è importante focalizzarsi sull’aspetto comunicativo-
relazionale.
1. La prima manifestazione relazionale è il pianto.
2. La seconda manifestazione relazionale è il sorriso al volto che rappresenta la relazione diadica: il
bambino guarda il volto ad un mese di vita, poi sorride.
3. Poi l’attenzione congiunta che inizia a comparire intorno ai 6 mesi di vita per raggiungere la piena
specificità a 14 mesi, è un prerequisito importante per l’acquisizione del linguaggio
4. Poi lo Sguardo referenziale (8 mesi), il bambino guarda ciò che l’altro sta guardando oppure fa uso
della direzione del proprio sguardo per dirigere attenzione dell’altro sull’oggetto
5. Angoscia per l’estraneo a 8 mesi
6. Indicare protoimperativo per chiedere un oggetto
7. Indicare protodichiarativo (indicare all’adulto un oggetto di condivisione, 9-12 mesi)
8. Gioco simbolico (2 anni) che poi nel corso del tempo si perfezionerà.
Queste sono tappe importanti, insieme allo sviluppo del linguaggio, che vanno tenute a mente perché in un

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bambino con un disturbo di spettro possiamo avere un’alterazione di queste: la mancanza di un sorriso, di
uno sguardo referenziale, dell’attenzione congiunta, del pointing o del gioco simbolico sono frequentemente
presenti in un bambino affetto da disturbo di spettro autistico

Primi segnali
Per poter effettuare una diagnosi precoce, una delle cose più importanti da considerare è individuare i
cosiddetti “primi segnali” si evidenziano nei primi 3 anni di vita, in genere dopo il sesto mese.
- I genitori riferiscono qualche problematica di tipo sensoriale uditiva, un sospetto di sordità, perché il
bambino quando viene chiamato non risponde.
- Inoltre, vi è anche un ritardo del linguaggio: recentemente la prof ha pubblicato un lavoro sui segni
precoci dell’autismo sull’Italian Journal of Pediatrics, dove ha individuato che le manifestazioni di
linguaggio sono sincrone alle problematiche relazionali; quindi, oltre al problema di linguaggio vi è
anche un problema relazionale, che esordisce contemporaneamente, ma i genitori – soprattutto
quando non hanno esperienza – vengono particolarmente colpiti dalla problematica del linguaggio.
The auditory brainstem response (ABR) test tells us how the inner ear,
called the cochlea, and the brain pathways for hearing are working
Spesso in questi bambini è utile eseguire un esame audiometrico e le ABR, i quali vengono ripetuti anche se
sono normalmente parte di un programma di screening alla nascita. L’esordio può manifestarsi con un ritardo
psicomotorio oppure con una regressione delle acquisizioni fatte.

Teorie
Vi sono tante teorie ed ipotesi per spiegare l’insorgenza dell’autismo, fra queste – ad esempio – la
teoria della coerenza centrale della mente o la teoria delle funzioni esecutive.
Fra le altre ipotesi, si cita la teoria della modulazione sensoriale, secondo la quale i bambini affetti da autismo
hanno degli organi di senso funzionali e funzionanti, senza problematiche particolari; quello che sembra
essere disfunzionale è l’elaborazione degli input sensoriali a livello del SNC, per cui la percezione degli
stimoli esterni viene rimodulata, venendo percepita dall’individuo in maniera diversa. Si ipotizza, in questo
modo, che il diverso comportamento degli individui affetti sia correlato alla tipologia di stimolo che
percepisce, che sarà diversa fra bambini tranquilli e bambini iperattivi.
Questo è possibile vederlo anche nell’ambito alimentare: una delle caratteristiche più interessanti è, infatti,
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un disturbo dell’alimentazione, sotto forma di selettività alimentare, probabilmente determinata dalla
consistenza, colore, impacchettamento e gusto di alcuni cibi. Questa selettività è molto precoce, esordisce
nei primi mesi di vita e può essere parte della sintomatologia d’esordio, per poi potersi modificare nel tempo.
Questo comportamento sembra essere determinato dalla diversa modulazione degli stimoli.

Video 1
In questo video il protagonista è un bambino di 2 anni, un bambino che non ha un fenotipo particolare.
Tendenzialmente è iperattivo, ha un’importante esplorazione degli oggetti a livello orale, non ha un
linguaggio strutturato, ma una sorta di ecolalia, non pronuncia sillabe, è più una sorta di vocalizzo; inoltre,
quando viene chiamato non si volta, non ha un gioco strutturato, non fa caso ai genitori. Ha un
comportamento stereotipato, infatti oltre alla ripetitività della vocalizzazione, si possono notare anche
stereotipie gestuali, come il battere le mani, il mettersi gli oggetti in bocca. C’è solo un momento, cioè quando
il padre lo prende in braccio e lo fa girare, in cui guarda il papà ed accenna un sorriso.

Video 2
In questo secondo video il bambino ha la stessa età del precedente, ma ha un comportamento
completamente diverso. È un bambino – oggi ormai adolescente – tranquillo, non iperattivo, che gioca, non
guarda la mamma che è lì vicino, ma piuttosto guarda l’oggetto che la madre, in maniera corretta, pone
davanti ai suoi occhi, permettendogli un aggancio visivo; inoltre, chiamato non risponde. Al contrario del
bambino precedente, non ha stereotipie motorie e vocali, ma comunque non ha un linguaggio strutturato ed
ha delle stereotipie comportamentali, come svuotare e riempire il contenitore con degli oggetti; quando
viene modificato l’oggetto di interesse continua a mantenere un comportamento stereotipato, continuando,
in questo caso, a suonare la pianola, a battere le mani e ad emettere qualche vocalizzo. In definitiva, ha un
comportamento ripetitivo, per certi versi iperattivo, ma tranquillo.

Caso clinico
In riferimento alla possibilità di diagnosi tardive rispetto ai tempi normali, si parla ora di un ragazzino di
8 anni e mezzo, iscritto in terza elementare ed inviato all’osservazione della neuropsichiatria infantile dagli
insegnanti, perché facevano fatica a gestirlo durante le lezioni, in quanto particolarmente brillante, tanto da
terminare i compiti rapidamente e da non capire perché gli altri bambini avessero bisogno di più tempo e,
annoiandosi, disturbava gli altri alunni.
Dal punto di vista dell’anamnesi non c’era nulla di particolare, se non una zia, sorella del padre, che – seppur
sposata econ famiglia – veniva descritta come una persona un po’ chiusa, rigida, poco comunicativa e laureata
in matematica.
Il ragazzino ha imparato a mettere le lettere in ordine alfabetico a 18 mesi, a leggere a 4 anni, ha capacità
mnemoniche molto sviluppate ed interessi ripetitivi e ristretti per il corpo umano e le carte geografiche,
goffaggine motoria, scarsa empatia e affettuosità, anche nei confronti dei familiari, difficoltà di relazione
con i pari e ottimeabilità cognitive.
Alla valutazione psicodiagnostica risulta avere un QI di 150, secondo la scala WISC IV, è quindi un bambino
ad altissimo livello intellettivo, extra-norma; alla valutazione per il disturbo di spettro autistico, invece, risulta
avere un quadro compatibile, come dimostrato, ad esempio, dall’incapacità di rappresentare graficamente
un momento felice ed un momento triste, se non con degli scarabocchi e senza saperli spiegare, nonostante
il QI di 150.

Video caso clinico


Nel video proiettato a lezione è stato possibile vedere la somministrazione di alcune prove del modulo ADOS,
la batteria di test per l’autismo. In particolare, in un primo momento viene chiesto al bambino di ricostruire
un puzzle, nascondendo però una parte dei pezzi: il bambino, dopo aver completato il puzzle non si chiede
perché siano assenti dei pezzi, ma inizia a dondolare sulla sedia.
Una seconda prova consiste nel chiedere al bambino di dire cosa vede in un’immagine mostratagli: il bambino
non risponde in riferimento all’immagine generale, ma cerca un piccolissimo particolare di un particolare.
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Questo tipo di comportamento combacia con la teoria della coerenza centrale debole, secondo cui i bambini
sono particolarmente adesi al particolare. Successivamente viene chiesto al bambino quale sia la differenza
fra un amico ed un compagno di classe, così come fra l’essere triste e l’essere felice, senza ricevere una
risposta. Infine, si chiede al bambino di creare una storia immaginaria a partire da degli oggetti, senza riuscire
ad avere dei risultati soddisfacenti.

In questo video è stato possibile, quindi, vedere un bambino più grande, verbale, collaborante, un po’
iperattivo – visibile a livello delle gambe –con aggancio visivo deficitario, incapace di rispondere a domande
relative all’aspetto piùempatico, emotivo e di creare storie con l’immaginazione. Si tratta di un ragazzo con
disturbo dello spettro autistico ad altissimo funzionamento intellettivo, in cui non ci si sarebbe aspettati di
ottenere simili risposte con un livello intellettivo simile. Ben diverso è il disturbo di Asperger, dove si ha un
funzionamento cognitivo da normale a brillante, ma c’è maggiore contatto visivo, un linguaggio strutturato
e maggiori capacità mimiche-comunicative, da cui deriva una maggior sofferenza rispetto alla patologia.
Questo bambino, rivisto a distanza, è stato aiutato con un progetto di inserimento scolastico, per cercare di
lavorare sulla sua comunicazione, soprattutto con i pari, che risultava difficile.

Deficit sociale e linguaggio nei ASD


Per quanto riguarda il deficit sociale del disturbo di spettro autistico, questo è determinato da:
- mancato riconoscimento delle emozioni dalle espressioni del volto
- deficit di empatia: incapacità di condividere un’emozione con un'altra persona, riproducendola –
infatti fra le varie teorie da prendere in considerazione vi è anche quella dei neuroni a specchio
- incapacità di comprendere una situazione alla base di un evento emotivo dell’altro e di rispondere
appropriatamente, un mancato processo di mentalizzazione.
Si ipotizza che lo stimolo elaborato dal punto di vista della rappresentazione emotiva, non passi attraverso
strutture importanti come l’amigdala, ma direttamente dal lobo occipitale, venendo così percepite come
immagini, ma non rielaborate con qualcosa di effettivamente percepito dall’individuo. Si parla, in questo
senso, di possibile coinvolgimento di aree sociali del cervello, come il solco temporale superiore posteriore,
il giro temporale medio, il giro fusiforme, l’amigdala, la corteccia mesiale prefrontale ed il giro frontale
inferiore.
Si parla, inoltre, soprattutto di alterazioni della connettività: le nuove teorie sostengono la presenza di aree
cerebrali sotto-connesse (soprattutto a lunga distanza) e altre, invece, iper-connesse.
In riferimento al linguaggio, ciò che viene ad essere inficiato, nel caso in cui il linguaggio sia sviluppato, è
soprattutto la prosodia (l’intonazione che può essere meccanicao bizzarra), ma anche la pragmatica, ovvero
il contenuto, ciò che viene espresso ed eventualmente condiviso con l’ascoltatore.

Manifestazioni e disturbi associati


- Disabilità intellettiva: associata intorno al 40% (da CLUEB 70%)
- Disarmonie nello sviluppo delle capacità cognitive: le capacità cognitive sono disarmoniche, sono
evidenti funzioni deficitarie, altre possono essere persino di ordine superiore. Per esempio vi sono
bambini che seppur non presentino un linguaggio sviluppato sono in grado di leggere in eta
precoce, altri hanno spiccato talento musicale o per la matematica.
- Disturbi gastrointestinali: la prof in merito a ciò ha scritto un capitolo per la Elsevier; oggi si parla
molto del ruolo del microbiota nello sviluppo cerebrale, attraverso meccanismi complessi, che
prendono in considerazione la permeabilità intestinale e le alterazioni immunitarie. Ricorrono dal 9
al 70% dei casi con DSA, i pin frequenti sono la stipsi cronica, i dolori addominali, la diarrea,
l'encopresi, il reflusso gastro-esofageo, il meteorismo, il deficit di disaccaridasi, il colon irritabile, la
gastrite, l'esofagite, la celiachia e il morbo di Crohn. Tali disturbi possono determinare variazioni del
comportamento (per es. irritabilità, auto ed etero aggressività, aumento stereotipie), del sonno e del
comportamento alimentare.
- Disturbi del sonno: quasi tutti i bambini hanno risvegli notturni, o addormentamento tardivo, o
risvegli precoci al mattino. In questo caso, oltre alla precedentemente citata Niaprazina,
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sembrerebbe essere utile anche la melatonina ad elevati dosaggi (“non certo da 1mg”), venduta oggi
a lento rilascio come farmaco di classe C, quindi molto costoso.
- Disturbi dell’umore e dell’affettività: sono presenti alcune anomalie comportamentali, che possono
essere trattate anche farmacologicamente, come l’aggressività (auto o eterodiretta); per spiegare un
comportamento aggressivo è sempre indicato escludere di prima intenzione un disagio fisico; infatti,
spesso il paziente non è in grado di comunicare la sintomatologia dolorosa che ad esempio può
derivare da patologie odontostomatologiche, addominali, osteoarticolari. Un cambiamento di
abitudini, per esempio, a scuola o nel centro educativo, la stessa sostituzione di un insegnante di
sostegno o di un educatore possono essere vissuti negativamente dal paziente. Senza giungere ad un
comportamento aggressivo è possibile osservare irritabilità emotiva, opposizionismo, disagio;
- Epilessia: anche su questo argomento la prof ha condotto numerose ricerche; si è notato come ci sia
un’incidenza maggiore di epilessia fra i soggetti affetti da autismo, rispetto alla popolazione generale.
In letteratura si parla di una ricorrenza fra il 5% ed il 46%, in concordanza con i rilievi degli studi della
prof. Molto spesso questi pazienti hanno delle anomalie epilettiformi, senza avere delle vere e
proprie sindromi epilettiche;
- Disturbi del movimento: ad esempio, tic e Sd. di Tourette.
- Anomalie dell'alimentazione: la selettività alimentare è il disturbo di alimentazione più
frequentemente rilevato nei DSA (70%), è descritta un'alimentazione difficoltosa, con rifiuto
frequente del cibo, oppure un'alimentazione con ristrette categorie di cibo, o l'utilizzo di un limitato
repertorio di cibo. La selettività alimentare si manifesta di solito già nei primi mesi di vita.

Evoluzione

Problemi comportamentali
Sono molto spesso legati alla comorbilità con la disabilità intellettiva. Le problematiche comportamentali più
sentite dalla famiglia, dagli educatori e dagli insegnanti sono quando emerge un atteggiamento di aggressività
auto o etero diretta. Quando troviamo un cambiamento di un comportamento in un soggetto con questa
patologia o in un soggetto non verbale, dobbiamo sempre chiederci se c’è qualche disfunzionamento o
disagio fisico che condiziona questo atteggiamento. Mai sottovalutare un disagio fisico. Essendo bimbi molto
adesi alla ripetitività qualsiasi cambiamento di abitudine potrebbe sconvolgerli e lo vivrebbero
negativamente e quindi si crea un problema comportamentale. Le modificazioni comportamentali possono
verificarsi spesso durante il periodo prepuberale o puberale e talvolta richiedono l’utilizzo di un farmaco.
Senza giungere ad un comportamento aggressivo è possibile osservare irritabilità, instabilità emotiva,
opposizionismo, disagio.

Disturbo di Asperger (N.B non più presente nella definizione del DSM5)
nel CLUEB sono riportate tutte le vecchie sotto-categorie del in quanto si basa sul DSMIV. Le riporto comunque
per completezza.

Viene ben descritto da Van Krevelen nel 1971: mentre soggetti con disturbo autistico sembrano vivere in un
“loro proprio mondo”, coloro che sono affetti da disturbo Aspeger sembrano vivere “nel nostro mondo a

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modo loro”.
La diagnosi di disturbo di A. era caratterizzata da compromissione e atipia dell’interazione sociale,
unitamente ad interesse e comportamento ristretti, in assenza di ritardo significativo nello sviluppo del
linguaggio o nello sviluppo psicomotorio. Sono soggetti che spesso hanno un linguaggio strutturato e un QI
normale  Hans Asperger all’inizio descrisse una sindrome che definì psicopatia autistica: soggetti con
intelligenza normale, che manifestavano una compromissione qualitativa dell’interazione sociale reciproca e
bizzarrie comportamentali, in assenza di ritardi nello sviluppo del linguaggio.
Potrebbero essere diagnosticati tardivamente, però nella storia clinica spesso si può notare che c’è stato, ad
esempio, un ritardo nello sviluppo motorio. Infatti, un altro aspetto importante è la presenza di goffaggine
motoria, che può essere visibile precocemente, già nei primi momenti dello sviluppo psicomotorio, ma anche
in seguito; sono, infatti, ragazzini spesso non avvezzi ad essere brillanti nelle attività sportive. Di solito
diagnosticati in età più avanzata, quando nel contesto scolastico si evidenziano problemi di empatia e di
interazione sociale.

Diagnosi e clinica
Le caratteristiche cliniche comprendono almeno 2 delle seguenti indicazioni di compromissione sociale
qualitativa: gestualità comunicative non verbali marcatamente anomale e mancanza di sviluppo delle
relazioni con i coetanei al livello atteso. Sono presenti interessi e pattern comportamentali ristretti ma, se
impercettibili, possono non essere immediatamente identificati o distinti come diversi da quelli di altri
bambini. Secondo il DSM-IV non manifestano ritardo di linguaggio, ritardo cognitivo clinicamente marcato o
compromissione adattiva (possono presentare però lentezza nell’acquisizione del linguaggio e una qualche
compromissione della comunicazione verbale). Attualmente, il fenotipo clinico del disturbo di Asperger
classificato all'interno della diagnosi del DSM-5 di disturbo è dello spettro dell'autismo.
A differenza di quello che prima era diagnosticato come disturbo autistico, i pz con A. cercano maggiormente
l’interazione sociale e. per consapevolezza della propria compromissione, si impegnano attivamente nel
cercare amicizie.

Trattamento
Il trattamento dei soggetti che soddisfano i criteri per la diagnosi del disturbo di Asperger ha Io scopo di
promuovere la comunicazione sociale e le relazioni tra coetanei. Gli interventi sono iniziati con l'obiettivo di
plasmare le interazioni in modo da renderle maggiormente adattabili a quelle dei pari. Molto spesso i bambini
con disturbo di Asperger si esprimono bene verbalmente e raggiungono livelli eccellenti di rendimento
scolastico. La tendenza di bambini e adolescenti affetti da questo disturbo di appoggiarsi a regole e abitudini
rigide può diventare una fonte di difficoltà ed essere un'area che richiede un intervento terapeutico. Tuttavia,
trovarsi a proprio agio con la routine può anche essere utile per incoraggiare abitudini positive che possono
rinforzare la vita sociale di un soggetto con disturbo di Asperger. Le tecniche basate sulle autonomie e sul
problem solving risultano spesso utili per questi soggetti in situazioni sociali e ambienti lavorativi. Alcune
delle stesse modalità utilizzate per il disturbo autistico possono apportare beneficio ai pazienti affetti da
disturbo di Asperger con grave compromissione sociale.

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Sindrome di Ret

Diagnosi

Linee guida per la diagnosi precoce  È stato istituito un programma regionale per la diagnosi precoce
dell’autismo. I pediatri, con libera scelta, hanno il mandato di svolgere fra i 19 mesi e i 2 anni la scala CHAT,
un test di orientamento per capire se il bambino potrebbe avere qualche segno precoce di questa patologia,
per poi decidere se rivederlo o se inviarlo al neuropsichiatra infantile. Questo test si basa sull’osservazione
del bambino e su domande da porre ai genitori.
Utile prevenire malessere familiare in base ai comportamenti anomali del bambino: è caldamente consigliato
di evitare un atteggiamento di attesa (come “ah sì, il bambino non parla? Parlerà da grande”, perché farebbe
perdere solo tempo), così come avere atteggiamenti “pseudo-rassicuranti” o colpevolizzanti; chiedere,
invece, l’aiuto del neuropsichiatra infantile.

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Sempre più importante è diventato, oggi, seguire dei protocolli diagnostici: non basta, infatti, fare una
diagnosi clinica di autismo, ma bisogna eseguire anche esami genetici, RM cerebrale, EEG nel sonno (per il
frequente riscontro di anomalie che portano ad epilessia). Vi sono numerose ipotesi di protocollo di screening
regionale, quello proposto dal team della prof (immagine sottostante) è iniziato nel 2006/2008 e prevede
anche l’uso del CGH-array.
Bisogna considerare, inoltre, che un quadro sindromico avrà dei metodi di approccio e prevenzione diversi
da quelli dell’autismo idiopatico dove si fa riferimento alla popolazione generale.

La diagnosi differenziale viene posta con: ipoacusia, ritardo mentale, disturbi del linguaggio, mutismo
selettivo, disturbi di personalità, disturbo reattivo dell’attaccamento, psicosi, DOC, sndr. di Landau-Kleffner

Trattamento
Il trattamento deve essere individualizzato, flessibile, continuativo, globale, deve coinvolgere oltre gli
operatori anche i familiari e gli insegnanti, deve tenere conto dell'età, della sintomatologia, delle abilità, delle
capacità di comunicazione, del contesto ambientale e delle comorbilità. Solitamente si utilizzano trattamenti
integrati. I trattamenti educativi sono di tipo cognitivo-comportamentale.
Le finalità a lungo termine del progetto terapeutico riabilitativo sono quelle di correggere i comportamenti
disadattivi, facilitare le competenze comunicativo-linguistiche e cognitive che serviranno per il futuro
adattamento all'ambiente, favorire lo sviluppo dell'adattamento emozionale.
Può essere utile anche una psico-motricità e una terapia logopedica per aiutare il bambino a comunicare
verbalmente e non, anche attraverso le immagini, laddove il linguaggio non sia strutturato. Il trattamento
farmacologico è sintomatico e deve essere preceduto da un'analisi funzionale del disturbo. È indicato, per

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esempio, in caso di iperattività, inattenzione, aggressività, compulsioni, rituali, alterazioni dell'umore,
irritabilità, disturbi del sonno, crisi epilettiche. La scelta del farmaco deve essere effettuata sulla base del
sintomo da trattare. Un buon trattamento farmacologico può avere effetto sul comportamento e sulla
patologia in comorbilità ma nello stesso tempo può migliorare la qualità della vita e facilitare l'effettuazione
del trattamento riabilitativo.

Nelle linee guida 2011 – riviste nel 2015 – si parla di:


 Interventi mediati dai genitori
 CAA (comunicazione aumentativa alternativa)
 Interventi a supporto della comunicazione sociale
 TEACCH
 Programmi intensivi comportamentali (ABA)
 Interventi comportamentali focali
 Terapia cognitivo comportamentale (CBT) (ansia di asperger o autismo ad alto funzionamento)
N.B.: non si parla di psicoterapia, ma di trattamenti comportamentali! L’obiettivo più importante è la
comunicazione, da ottenere nel più breve tempo possibile. Il logopedista non interviene a 4 anni, come nei
ritardi del linguaggio, ma prima. Si cercano anche modalità di comunicazione alternativa, come quella con i
gesti e le immagini.

Studente: Qual è il margine di miglioramento di questi pazienti, quando la presa in carico è precoce?
Prof: Alcuni di questi bambini migliorano anche spontaneamente, ma questo non deve essere un blocco
all’agire precocemente. Spesso ci sono buoni andamenti, dettati da fattori prognostici favorevoli, come la
presenza del linguaggio, di un aggancio visivo, di una modalità comunicativa (via segni, immagini, se parla
anche meglio). È difficile, però, che ci sia una guarigione, perché il nucleo della patologia permane.
La prof ha avuto il piacere di rimanere in contatto con un paziente Asperger che ha avuto diagnosi molto
precoce, che è stato in grado di laurearsi con 110L e di vivere fuori di casa con un coinquilino, rimanendo
solitario e con qualche stereotipia, ma che purtroppo ha avuto problemi nel momento dell’inserimento nel
mondo del lavoro. Ci sono situazioni con buona ripresa ed altre più gravi, dove comunque bisogna intervenire
precocemente, per la plasticità cerebrale, importante per la riuscita del trattamento.
Ultimamente sono usciti articoli interessanti riguardo la modalità di presa in carico di pazienti affetti da
epilessia e altri sintomi dell’autismo; ci sono delle encefalopatie epilettiche che hanno sintomi comuni
all’autismo, che sembrerebbero beneficiare di terapie riabilitative per l’autismo.

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EPILESSIE
(N.B. nel libro della prof è utilizzata ancora la vecchia terminologia, ad oggi è usata la classificazione del 2017,
vedi dopo)

L’epilessia è un argomento già in parte trattato nel corso di neurologia, ma che oggi svolgeremo in maniera
un po’ diversa, concentrandoci sugli aspetti più pratici e soprattutto relativi all’età evolutiva.
Innanzitutto, una cosa importante è la definizione corretta di epilessia e di crisi epilettica e conoscere il
perché del verificarsi di queste situazioni; la crisi epilettica è, infatti, sintomo dell’epilessia mentre l’epilessia
è una sindrome.

Patogenesi
Dal punto di vista patogenetico si tratta di un disturbo acquisito o costituzionale dell’eccitabilità neuronale.
Bisogna quindi introdurre due termini:
 Ipereccitabilità: tendenza del neurone a generare scariche ripetute in risposta ad uno stimolo che
normalmente darebbe solo un potenziale d’azione.
 Ipersincronismo: capacità di un gruppo di neuroni a generare in maniera sincrona una serie di
potenziali d’azione.

La crisi epilettica si verifica per una scarica epilettica che è caratterizzata da una condizione di ipereccitabilità
neuronale, vale a dire una sorta di depolarizzazione permanente di un gruppo di neuroni ipersincroni (in
quanto la depolarizzazione di un solo neurone non riuscirebbe a determinare una scarica epilettica e una crisi
epilettica).
Questa condizione è dovuta a diversi possibili fattori eziologici, quali:
- Anomalie del passaggio degli ioni a livello dei canali ionici voltaggio dipendenti importanti per la
depolarizzazione e la iperpolarizzazione che sono il sodio, il potassio e il calcio (mutazioni dei canali
ionici sono state scoperte solo in tempi relativamente recenti)
- deficit di ATPasi di membrana che possono condizionare un’alterazione nel trasporto ionico;
- squilibri tra i neuromediatori inibitori come il GABA (la funzione inibitoria del GABA non è presente
in epoca neonatale, ma nel corso della maturazione cerebrale poi si definisce come tale) e
neuromediatori eccitatori come l’aspartato e il glutammato.
Queste sono le condizioni che facilitano la comparsa delle crisi epilettiche.

Da neuro  Le crisi epilettiche, in rapporto all’intervallo temporale tra crisi ed eventuale patologia
predisponente o scatenante le crisi, si distinguono in:
 crisi epilettiche sintomatiche acute o provocate, quando insorgono in stretto rapporto temporale con
condizioni patologiche cerebrali strutturali o tossico/metaboliche;
 crisi epilettiche sintomatiche remote o non provocate, che si manifestano in assenza di fattori
precipitanti e che possono occorrere anche in presenza di un danno non recente del SNC.

Per la definizione di epilessia, che si basa su una persistente “alterazione epilettogenica” del cervello, che lo
rende capace di produrre spontaneamente attività parossistica (crisi non provocate), occorre almeno una
delle seguenti condizioni:
 occorrenza di due o più crisi epilettiche non provocate o sintomatiche remote, separate da un
intervallo di tempo di almeno 24 ore;
 una crisi non provocata (o riflessa) e una probabilità (almeno 60%) di ulteriori crisi nei successivi 10
anni (percentuale simile al rischio generale di recidiva dopo due crisi non provocate);
 diagnosi di sindrome epilettica.
Crisi multiple che insorgono in un intervallo di 24 ore o un episodio di SE sono da considerarsi come un singolo
evento. Non si pone diagnosi di Epilessia in soggetti che abbiano presentato un solo episodio critico non
provocato o crisi sintomatiche acute; anche le crisi febbrili e le convulsioni neonatali (insorte entro i primi 30
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giorni di vita) sono escluse dalla diagnosi di Epilessia. L’epilessia è considerata risolta nei soggetti che avevano
una sindrome epilettica età-dipendente, ma che hanno poi superato il limite di età applicabile o in quelli che
sono rimasti liberi da crisi per almeno 10 anni, in assenza di terapia antiepilettica negli ultimi 5 anni.

Quindi  Crisi epilettica ed epilessia non sono sinonimi:


- La crisi epilettica è un evento parossistico; per parossistico si intende un qualcosa che modifica lo
stato del paziente in quel momento (stato di coscienza, motorio, posturale).
- L’epilessia è invece una malattia cronica, vale a dire caratterizzata dalla ricorrenza di crisi epilettiche.
Solitamente per fare una diagnosi di epilessia non basta un’unica crisi ma è necessario avere almeno
due crisi ravvicinate o distanziate ma non provocate da situazioni particolari.
L’epilessia è una malattia ma può essere anche una sindrome.
 La malattia è un’alterazione biologica, morfologica e funzionale prodotta da una causa
eziologica;
 la sindrome invece è un insieme di sintomi e segni che configurano un quadro specifico con
possibili eziologie differenti.

Eziologia
Il più delle volte la malattia ha in realtà una base multifattoriale in cui sono distinguibili fattori lesionali o
genetici più o meno noti:
 Fattori lesionali prenatali (1-2%): si tratta di embrio-fetopatie infettive o malformazioni quali la
sclerosi tuberosa, la sindrome di von Recklinghausen, la Sturge-Weber e l’Aicardi.
 Fattori lesionali perinatali (15%): anossia, traumi da parto, meningiti o disordini metabolici.
 Fattori lesionali postnatali:
- Infiammazioni (5%);
- Stati di male epilettici: (5%) conseguono a convulsioni febbrili infantili (latenza 2-3 anni);
- Traumi (5%): rischio massimo (40%) nel caso di traumi con lacerazione durale aperta (nel
70% dei casi con una latenza meno di 2 anni);
- Tumori (5-10%): i sopratentoriali sono piu epilettogeni;
- Angiomi;
- Ictus: rappresentano il 10% delle forme ad esordio sopra i 50 anni.
 Fattori genetici: i genitori possono trasmettere la predisposizione all’epilessia, in termini di
mutazioni dei canali ionici, o la malattia epilettogena, come la sindrome di Ramsay-Hunt, la sclerosi
tuberosa o la malattia di Tay-Sachs.

Epidemiologia
I dati epidemiologici vedono la prevalenza dell’epilessia nel mondo variabile dallo 0.5 allo 0.8% nella
popolazione. È importante trattare questa patologia da parte del neuropsichiatra infantile perché l’epilessia
è una patologia estremamente frequente nell’età evolutiva.
L’incidenza è massima nel primo anno di vita, rimane elevata fino ai 10 anni per poi ripresentarsi con
una certa importanza dopo i 75 anni. Questo avviene a causa di tutti gli accidenti vascolari cerebrali che
colpiscono le persone di una certa età per cui è normale che alcuni insulti cerebrali successivi possano dare
origine a una condizione di questo genere. Questo però non esclude che anche la persona anziana possa
avere delle forme di epilessia su base genetica.
Un concetto importante è rappresentato dalla farmacoresistenza: le forme farmacoresistenti rappresentano
circa il 30% delle epilessie, ci sono degli autori che dicono che il 25-40% delle epilessie di nuova diagnosi
possono essere farmaco resistenti, in virtù di questo è importante considerare anche il suo nesso con le così
dette encefalopatie epilettiche (entrambi questi concetti verranno meglio definiti in seguito).

Classificazione delle crisi e sindromi epilettiche: concetti base


Come per altre patologie che abbiamo visto nel corso delle lezioni anche per l’epilessia abbiamo varie
classificazioni. Ci sono classificazioni per le crisi e classificazioni per le epilessie. Quando la prof era
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studentessa e specializzanda veniva utilizzata la classificazione dell’81 e quella dell’89. Nel 2001 c’è stata una
revisione globale della task force della ILAE (International League Against Epilepsies) ma ci sono articoli
ancora più recenti a riguardo in quanto è molto discussa in letteratura l’evoluzione di questa classificazione.
Ad oggi abbiamo classificazioni sia per le epilessie come quella di Scheffer e collaboratori (ILAE) del 2017, sia
classificazioni per le crisi epilettiche.
Queste classificazioni sono importanti perché nel corso del tempo sono state fatte molte scoperte sia in
campo genetico che in campo neuroscientifico e abbiamo delle strumentazioni molto più avanzate rispetto
al passato, come, per esempio, le RM di ultima generazione che sono in grado di visualizzare anche delle
lesioni cerebrali che un tempo attraverso la TAC cerebrale non era possibile evidenziare.

Classificazione delle CRISI (ILAE 2017)


(Riporto la classificazione presa da neuro + position paper ILAE)

Si specificano prima alcuni termini:


 crisi epilettica: un’occorrenza transitoria di segni e/o sintomi dovuta ad una attività neuronale
cerebrale anomala, eccessiva o sincrona
 crisi focale: sostituisce il termine parziale della vecchia classificazione  enfatizzare il fatto che la
crisi origina dalla scarica di un gruppo di neuroni che si trova in un punto preciso del cervello, cioè
“originante entro network limitati a un emisfero”. Possono poi coinvolgere network bilaterali.
 crisi generalizzata: costituite da fenomeni clinici ed EEG che indicano un coinvolgimento dei due
emisferi fin dall’inizio.
 La lesione può anche essere focale, in realtà, ma immediatamente coinvolge un circuito generalizzato

La nuova classificazione le divide in tre gruppi (o meglio quattro se si considerano anche quelle “non
classificate”: vedi immagine con note per maggiore completezza e chiarezza):
1. Crisi ad esordio focale:
 con o senza consapevolezza mantenuta;
 con o senza esordio motorio;
 con evoluzione in tonico-cloniche bilaterali (prima era secondariamente generalizzato)
La coscienza può essere alterata dall’inizio della crisi con entità variabile, accompagnata o no da
automatismi; tuttavia, la compromissione dello stato di coscienza (“impaired awareness”) non ha un

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valore localizzatorio dipendendo dall’estensione della scarica critica.

2. crisi ad esordio generalizzato:


 motorie;
 non motorie.
La coscienza è di solito perturbata ed i fenomeni motori sono sempre bilaterali sincroni e simmetrici,
come le scariche epilettiche sull’EEG critico ed intercritico. In realtà c’è anche chi dice che le crisi
generalizzate di fatto non esitano perché esiste sempre un punto di insorgenza ipereccitabile con
una importantissima generalizzazione per cui non si riesce mai a cogliere l’inizio del quadro epilettico.
Il termine generalizzato è rimasto tale nel corso degli anni, quello che è cambiato invece è che si parla
oggi di epilessie focali, mentre una volta si parlava di epilessie parziali.

3. crisi ad esordio sconosciuto (l’esordio potrebbe essere focale ma non se ne conosce la localizzazione):
 motorie;
 non motorie.

La Task Force raccomanda di classificare una crisi come ad esordio focale o generalizzato quando c’è un grado
elevato di confidenza (ad esempio, ≥ 80%, scelto arbitrariamente come sovrapponibile all’errore beta
usualmente consentito) nell’accuratezza della determinazione; altrimenti, la crisi dovrebbe rimanere non
classificata fino alla disponibilità di maggiori informazioni.

Specificazione sul livello di consapevolezza  Per le crisi focali, il livello di consapevolezza può essere
opzionalmente indicato nel tipo di crisi. La consapevolezza è solo una delle caratteristiche potenzialmente
importanti di una crisi, ma la sua importanza pratica è sufficiente a giustificarne l’uso come elemento di
classificazione.
Mantenimento della consapevolezza significa che la persona è consapevole di sé e dell’ambiente circostante
durante la crisi, anche se essa rimane immobile. Una crisi focale con consapevolezza integra (con o senza altri
successivi elementi di classificazione) corrisponde alla precedente terminologia “crisi parziale semplice”. Una
crisi focale con compromissione della consapevolezza (con o senza altri successivi elementi di classificazione)
corrisponde alla precedente terminologia “crisi parziale complessa”. La compromissione della
consapevolezza nel corso di una qualunque parte della crisi la rende una crisi focale con compromissione
della consapevolezza. In aggiunta, le crisi focali sono suddivise in base alla presenza all’esordio di segni e
sintomi motori e non motori, in base al primo segno o sintomo di rilievo

Specificazione sulla sostituzione consapevolezza-coscienza  La ILAE ha scelto di mantenere la


compromissione della coscienza come un concetto chiave nella suddivisione delle crisi focali. Tuttavia, la
coscienza è un fenomeno complesso, con componenti sia soggettive che oggettive. Molteplici tipi differenti
di coscienza sono stati descritti per le crisi. Gli indicatori di un’eventuale compromissione della coscienza si
ottengono usualmente testando consapevolezza, responsività, memoria, e senso di sé come distinto dagli
altri e la determinazione retrospettiva dello stato di coscienza può essere molto difficoltosa.
La Task Force ha adottato lo stato di consapevolezza come parametro sostitutivo relativamente semplice
della coscienza (utilizzata nelle classificazioni precedenti). L’espressione “mantenuta consapevolezza” è
considerata un’abbreviazione per “crisi senza alterazione della coscienza durante l’evento”. Noi impieghiamo
una definizione operativa di consapevolezza come cognizione di sé e dell’ambiente. In questo contesto, il
termine consapevolezza fa riferimento alla percezione o alla cognizione degli eventi occorrenti durante una
crisi, non al sapere se una crisi sia avvenuta o meno. In molte lingue, la parola inglese “unaware” (N.d.T: trad.
“inconsapevole”).
Come problema pratico, il mantenimento della consapevolezza usualmente include la supposizione che la
persona che ha la crisi sia successivamente in grado di rievocare gli eventi e convalidare così il fatto di avere
mantenuto la consapevolezza; in caso diverso, si può presumere una compromissione della consapevolezza

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Specificazione sul termine ‘focale con evoluzione in bilaterale’  Il tipo di crisi “focale con evoluzione in
tonico-clonica bilaterale” rappresenta uno specifico tipo di crisi, corrispondente alla dizione del 1981 “esordio
parziale con secondaria generalizzazione”. La denominazione “focale con evoluzione in tonico-clonica
bilaterale” rispecchia una modalità di propagazione della crisi, piuttosto che uno specifico tipo di crisi, ma
rappresenta un’evenienza così comune ed importante da giustificare il mantenimento di una
categorizzazione separata. Il termine “con evoluzione in bilaterale” piuttosto che quello “secondariamente
generalizzata” è stato utilizzato per mantenere la distinzione tra questo tipo di crisi focale ed una crisi ad
esordio generalizzato. Il termine “bilaterale” è utilizzato per definire
modalità di propagazione e quello “generalizzata” per denominare crisi che comportano fin dall’esordio il
coinvolgimento di network bilaterali.

Responsività vs consapevolezza-coscienza  La responsività può essere compromessa o meno nel corso di


una crisi focale. La responsività non equivale alla consapevolezza o alla coscienza, dal momento che alcune
persone sono immobilizzate e conseguentemente non responsive durante una crisi, ma ciononostante in
grado di osservare e richiamare successivamente alla mente l’ambiente circostante. In più, la responsività
spesso non viene esaminata durante le crisi. Per queste ragioni, la responsività non è stata scelta come
caratteristica primaria per la classificazione delle crisi, quantunque la responsività possa essere utile nella
classificazione della crisi quando è possibile testarla, ed il grado di responsività possa essere rilevante per
l’impatto di una crisi.

Classificazione delle Sindromi (ILAE 2017)


(riporto classificazione neuro + position paper ILAE, del quale ho riportato una buona parte per maggior
precisione)

La classificazione è organizzata in tre livelli: a partire dal tipo di crisi, il passo successivo è la diagnosi del tipo
di epilessia. Il terzo livello è quello della sindrome epilettica, in cui è possibile effettuare una diagnosi
sindromica specifica. La nuova classificazione include l'eziologia in ogni suo livello ed enfatizza la necessità di
considerare l'eziologia a ogni passaggio diagnostico, poiché questo spesso può avere delle implicazioni
significative per il trattamento. Dal punto di vista della terminologia È stata introdotto il nuovo termine di
encefalopatia epilettica e dello sviluppo”. Il termine benigno è sostituito dai termini auto-limitante e
farmacoresponsivo, da usare dove è appropriato.

Per quanto riguarda l’eziologia in passato si utilizzavano come termini idiopatico, sintomatico, criptogenico;
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quest’ultimo è stato oggi rimpiazzato da un termine nuovo: verosimilmente sintomatico.
 Idiopatiche  Non sono precedute o causate da altre malattie, anomalie cerebrali o condizioni
patologiche, non hanno un substrato lesionale, ma sono sostenute da alterazioni funzionali. Sono
epilessie legate all’età, con frequente predisposizione genetica, caratteri EEG-clinici ben definiti,
assenza di difetti neuro-psichici e di alterazioni neuro-radiologiche, evoluzione di regola benigna.
 sintomatiche o secondarie  Sono sostenuta da lesioni del cervello, la cui causa è nota o
sospettabile, in base all’anamnesi e agli esami neuroradiologici. Non sono legate all’età, si possono
associare a difetti neuropsichici (espressione della stessa lesione, che causa l’epilessia), non hanno
caratteri elettroclinici ben definiti, hanno un’evoluzione non omogenea: accanto a casi che
guariscono, ve ne sono altri che resistono alle terapie e altri che migliorano più o meno
sostanzialmente.
 Criptogenetiche  Sono meglio definite come “probabilmente sintomatiche”, ovvero sostenute da
possibili lesioni cerebrali, di cui non è nota la causa. Se presente un deficit motorio e/o un ritardo
mentale anche se non è evidente una lesione cerebrale il bambino avrà una epilessia
“verosimilmente sintomatica”.

Adesso le cose sono un po’ cambiate ma di base questa era una terminologia corretta perché ci dava un’idea
delle diverse forme. Nel processo di classificazione, il clinico inizia classificando il tipo di crisi. In un secondo
tempo può essere classificato il tipo di epilessia e, in molti casi, la specifica sindrome epilettica. La ricerca
della eziologia è un processo altrettanto importante, che deve essere compiuto in ogni fase del processo
diagnostico. Sia la classificazione del tipo di crisi epilettiche che la classificazione del tipo di epilessia tengono
conto dei risultati delle indagini elettroencefalografiche (EEG), degli studi di neuroimmagine e degli altri
esami che esplorano l'eziologia sottostante.

Tipo di crisi
Il punto di partenza della struttura della classificazione è il tipo di crisi. La classificazione del tipo di crisi è in
accordo con la nuova nomenclatura ILAE 2017. Sulla base delle caratteristiche di esordio, le crisi vengono
classificate in focali, generalizzate e ad esordio sconosciuto. In alcune situazioni, in mancanza di EEG, video e
studi di immagine, la classificazione basata sul Tipo di Crisi è il livello più elevato possibile per la diagnosi.

Tipo di epilessia
Il secondo livello di diagnosi è quello del Tipo di Epilessia, e dà per assunto che il paziente abbia una diagnosi
di epilessia. Oltre alle ben definite Epilessie Generalizzate e Focali, vengono inserite due nuove categorie:
- Epilessia Combinata Generalizzata
- Focale ed Epilessia di Tipo Sconosciuto.
Molte epilessie includono diversi tipi di crisi, ad esempio:
- le persone con epilessie generalizzate possono avere vari tipi di crisi, tra cui assenze, crisi
miocloniche, crisi atoniche, crisi toniche e crisi tonicocloniche.
- Le Epilessie Focali comprendono crisi focali o multifocali, così come crisi che interessano un emisfero.
Si possono riconoscere vari tipi di crisi focali, tra le quali crisi focali con o senza compromissione del
contatto, crisi focali motorie e non motorie, e crisi focali che evolvono in crisi tonico-cloniche
bilaterali.

Esiste un nuovo gruppo di epilessie, definite come “Epilessie Combinate Generalizzate e Focali”, dal momento
che alcuni pazienti presentano sia crisi generalizzate che focali. Anche in questo caso, la diagnosi si basa sulle
caratteristiche cliniche, supportata dai reperti EEG.
Il termine “Epilessia di Tipo Sconosciuto” è usato per descrivere pazienti che hanno una Epilessia ma il clinico
non è in grado di definire se il Tipo di Epilessia è focale o generalizzato per mancanza di sufficienti
informazioni. Questo potrebbe essere dovuto a motivi diversi: EEG non disponibile o EEG non informativo
(per esempio perché normale). Se il Tipo-Tipi di Crisi sono sconosciuti, allora anche il Tipo di Epilessia può
essere sconosciuto per analoghe ragioni, sebbene tipo di crisi e tipo di epilessia possano non essere sempre
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concordanti. Quindi l’esordio delle crisi è sconosciuto e il paziente ha un’epilessia di tipo sconosciuto.
La diagnosi del tipo di Epilessia può anche essere il livello diagnostico più elevato raggiungibile dal clinico
quando non è possibile diagnosticare una Sindrome Epilettica specifica.

Sindrome epilettica
Il terzo livello è la diagnosi di Sindrome Epilettica. Una sindrome epilettica è definita dalla associazione di
specifiche caratteristiche che comprendono tipi di crisi e di reperti dell’EEG e delle neuroimmagini. Spesso le
sindromi hanno caratteristiche età-dipendenti: età di esordio ed eventualmente di remissione, fattori
scatenanti le crisi, le variazioni circadiane e talora la prognosi. Essa può anche essere connotata da co-
morbidità specifiche, quali la presenza di disabilità intellettiva e disturbi psichiatrici, nonché peculiari
caratteristiche EEG e di neuroimmagine. La definizione di una sindrome può anche comportare implicazioni
eziologiche, prognostiche e di trattamento. È importante notare che non vi è necessariamente una
correlazione univoca tra una sindrome epilettica e una diagnosi eziologica, e che la definizione di una
sindrome epilettica può essere utile per migliorare la gestione del paziente a diversi livelli. Esistono molte
sindromi ben riconosciute, come l'Epilessia con Assenze dell'Infanzia, la sindrome di West e la sindrome di
Dravet; va tuttavia notato che non è mai stata prodotta una classificazione ufficiale delle sindromi da parte
dell'ILAE. È stato recentemente sviluppato dall’ILAE un sito web formativo (epilepsydiagnosis.org), concepito
proprio come strumento didattico, che costituisce un'ottima risorsa per comprendere i criteri per la diagnosi,
rivedere i video dei tipi di crisi e le caratteristiche EEG di molte sindromi consolidate.

Epilessie Generalizzate Idiopatiche


All’interno delle Epilessie Generalizzate il sottogruppo comune e ben noto è rappresentato dalle Epilessie
Generalizzate Idiopatiche (EGI). Le EGI comprendono quattro sindromi epilettiche ben riconosciute:
- Epilessia con Assenze dell’Infanzia,
- Epilessia con Assenze Giovanili,
- Epilessia Mioclonica Giovanile
- Epilessia Generalizzata con sole Crisi Generalizzate Tonico-Cloniche (la precedente denominazione di
Epilessia con Crisi Generalizzate Tonico-Cloniche al Risveglio, è stata modificata dal momento che le
crisi possono verificarsi in qualsiasi momento della giornata).
- (NB: la prof mette in questa classificazione anche l’Epilessia mioclonica benigna dell’infanzia, forma
in cui se non avviene un controllo rapido delle crisi vi può essere qualche piccolo reliquato cognitivo
dopo la scomparsa di quest’ultime. Ma di questa nel position paper non viene fatto cenno).
Era stato suggerito di rimuovere il termine “idiopatico” dalla nomenclatura della Classificazione dell'Epilessia
poiché la sua definizione era "nessuna eziologia nota o sospetta a parte la possibile predisposizione
ereditaria". Il termine greco "idios" si riferisce al sé, al proprio e personale, e quindi riflette un’eziologia
genetica, pur senza esplicitarla. Il termine idiopatico è da considerare quindi come un termine impreciso,
data la crescente identificazione di geni coinvolti in molte epilessie, comprese quelle a ereditarietà
monogenica (di varianti ereditate o de novo) o complessa (ereditarietà poligenica con o senza il
coinvolgimento di fattori ambientali). Inoltre, il termine "genetico" può a volte essere erroneamente
interpretato come sinonimo di “ereditato”. Pertanto, per questo tipo di sindromi la definizione di Epilessie
Generalizzate Genetiche (EGG) sembra essere la più appropriata nel caso in cui il clinico ritenga ci siano
sufficienti evidenze per questo tipo di classificazione. La ereditarietà di queste sindromi è stata documentata
da meticolosi studi clinici su gemelli e famiglie, anche in assenza di mutazioni identificate di specifici geni. In
realtà, attualmente solo di rado si riscontrano mutazioni geniche in questi pazienti, ad eccezione forse dei
casi di encefalopatie di sviluppo ed epilettiche a esordio infantile, per le quali in molti pazienti è stata
dimostrata la presenza di una variante patogenetica de novo. C'è stato, tuttavia, un notevole desiderio di
mantenere il termine EGI.
 La Task Force ha quindi stabilito che il termine EGI sarà accettabile specificatamente per le seguenti
quattro sindromi: Epilessia con Assenze dell’Infanzia, Epilessia con Assenze Giovanili, Epilessia
Mioclonica Giovanile e Epilessia Generalizzata con sole Crisi Tonico- Cloniche
In specifici casi, il termine Epilessia Generalizzata Genetica può essere usato quando il clinico sia
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sicuro di una eziologia genetica.

Epilessie focali auto-limitantisi


Esistono diverse epilessie focali auto-limitantisi, che tipicamente iniziano nell'infanzia.
- La più comune è l'epilessia auto-limitantesi con punte centro-temporali, precedentemente
denominata “epilessia benigna con punte centro-temporali”
- Altre epilessie incluse in questo gruppo sono le epilessie occipitali auto-limitantisi dell'infanzia, con
la forma ad esordio precoce descritta da Panayiotopoulos e quella a esordio tardivo descritta da
Gastaut. La forma precoce di Panayitopoulos va molto bene; la forma Gastaut, è meno brillante ma
in generale sono forme con un andamento buono.
- Sono state descritte altre forme di epilessia autolimitantesi del lobo frontale, del lobo temporale e
del lobo parietale con possibile esordio nell’adolescenza e anche in età adulta. Sono forme con un
decorso di solito buono anche se ci sono forme che vanno meglio e forme che vanno peggio; ad
esempio, l’epilessia focale con punte centro temporali guarisce; in questo caso, infatti, le crisi
scompaiono anche senza trattamento anti epilettico.

Eziologia
Fin dal momento in cui il paziente presenta una prima crisi epilettica, il medico deve cercare di determinarne
l'eziologia. È stata riconosciuta una serie di gruppi eziologici, con particolare attenzione a quelli che hanno
implicazioni per il trattamento. Spesso la prima indagine condotta è uno studio di neuroimmagine,
idealmente la Risonanza Magnetica ove disponibile. Ciò consente al medico di verificare se esiste una
eziologia strutturale.
Complessivamente, i gruppi eziologici aggiuntivi sono strutturale, genetico, infettivo, metabolico e
immunitario, nonché il gruppo “sconosciuto”.

 Strutturale  Una eziologia strutturale si riferisce alla presenza di anomalie morfologiche visibili alle
neuroimmagini laddove lo studio elettroclinico ed il reperto alle neuroimmagini siano congruenti nel
sostenere che le anomalie riscontrate siano la probabile causa delle crisi. Le eziologie strutturali
comprendono cause acquisite come ictus, traumi e infezioni, o genetiche come molte malformazioni
dello sviluppo corticale.

 Genetica  Il concetto di epilessia genetica si riferisce a una condizione in cui le crisi sono il sintomo
principale del disturbo, come risultato diretto di una mutazione genetica nota o presunta. Le epilessie
per le quali è stata ammessa un’eziologia genetica sono varie e, nella maggior parte dei casi, i geni
sottostanti non sono ancora noti. In primo luogo, l’ipotesi di un'eziologia genetica può basarsi
esclusivamente su una storia familiare di una malattia autosomica dominante. Ad esempio, nella
sindrome dell'Epilessia Famigliare Neonatale Benigna, la maggior parte delle famiglie presenta
mutazioni di uno dei geni del canale del potassio, KCNQ2 o KCNQ3. Al contrario, nella sindrome
dell'Epilessia Frontale Notturna Autosomica Dominante, la mutazione sottostante è attualmente
nota solo in piccola percentuale di individui (correlata a geni per la sintesi del recettore Ach). In
secondo luogo, un'eziologia genetica può essere suggerita dalla ricerca clinica in popolazioni con la
stessa sindrome come l'Epilessia con Assenze dell’Infanzia o l'Epilessia Mioclonica Giovanile, nelle
quali le evidenze per una base genetica provengono dagli eleganti studi sui gemelli di Lennox negli
anni '50 e dagli studi di aggregazione familiare. In terzo luogo, una base molecolare può essere stata
identificata per la presenza mutazioni di singoli geni o per la presenza di una variante del numero di
copie (CNV). In un numero crescente di pazienti vengono riconosciute anomalie genetiche che
causano sia epilessie gravi che lievi. Gli studi di genetica molecolare hanno portato all'identificazione
di mutazioni causative in un ampio numero di geni-epilessia, più frequentemente mutazioni de novo,
che interessano il 30-50% dei bambini con grave encefalopatia di sviluppo ed epilettica. L'esempio
più noto è la sindrome di Dravet in cui oltre l'80% dei pazienti ha una variante patogena del gene
SCN1A. È da notare che un'eziologia monogenica può causare uno spettro di epilessie di diversa
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gravità con conseguenti diverse implicazioni per il trattamento: per esempio le mutazioni di SCN1A
possono essere associate sia alla sindrome di Dravet che all'Epilessia Genetica con Crisi Febbrili Plus
(GEFS +: caratterizzata da convulsioni febbrili nella prima infanzia, persistenza di esse dopo i 6 aa o
comparsa di convulsioni non febbrili, evoluzione verso una epilessia generalizzata, con crisi di vario
tipo: assenze, GM, miocloniche, toniche o atoniche). La comprensione dello spettro fenotipico
associato alle mutazioni di un gene specifico è cruciale, in quanto la identificazione di una mutazione
in un gene specifico non consente, di per sé, di predire l’evoluzione. L’interpretazione del significato
della mutazione deve essere considerata nel contesto della presentazione elettroclinica. In sintesi,
ad oggi, la maggior parte dei geni ha una espressione fenotipica eterogenea e, d’altra arte, la maggior
parte delle sindromi è sottesa da eterogeneità genetica. Quando l'epilessia segue una ereditarietà
complessa, che implica più geni e la presenza o meno di un contributo ambientale, possono essere
identificate varianti di suscettibilità, ossia varianti che contribuiscono alla eziologia ma che da sole
non sono sufficienti a causare l'epilessia. In questo contesto, potrebbe non esserci una storia
familiare di crisi perché altri membri della famiglia non hanno abbastanza varianti genetiche per
essere sintomatici. È importante notare che “genetico” non equivale a “ereditario”. Infatti, un
numero crescente di mutazioni de novo sono frequentemente identificate sia in epilessie severe che
lievi. Ciò significa che il paziente ha una nuova mutazione che è insorta per la prima volta in lui o lei,
e che non ha ereditato tale mutazione ed è pertanto improbabile che ci sia una storia familiare di
crisi. Tuttavia, questo paziente potrebbe da ora in poi avere una forma ereditaria di epilessia. Per
esempio, se l'individuo ha una mutazione dominante de novo, la sua progenie avrà il 50% di rischio
di ereditare la mutazione. Ciò non significa necessariamente che i figli avranno l'epilessia, poiché
l’espressione dipenderà dalla penetranza della mutazione. Scendendo in ulteriori dettagli, bisogna
considerare la presenza di una mutazione a mosaico. Ciò significa che ci sono due popolazioni di
cellule, una con la mutazione e l'altra con l’allele normale. Il mosaicismo può influenzare la gravità
della epilessia: bassi livelli di mosaicismo si traducono in una epilessia meno severa, come dimostrato
negli studi sul gene SCN1A. Un'eziologia genetica non esclude il ruolo dell’ambiente. È noto che i
fattori ambientali contribuiscono alla comparsa delle crisi; per esempio, molte persone con epilessia
hanno più probabilità di avere crisi dopo privazione del sonno o in concomitanza con stress o malattie
intercorrenti. Un'eziologia genetica si riferisce a una variante patogenica (mutazione) che ha un
effetto significativo nel causare l'epilessia.

 Infettiva  L'eziologia infettiva è la causa più comune di epilessia a livello mondiale. Il concetto di
eziologia infettiva implica però che le crisi siano un sintomo principale di un disturbo derivato
direttamente da un'infezione nota. Il termine eziologia infettiva si riferisce a un paziente con
epilessia, piuttosto che a un paziente con crisi che si verificano nel contesto di infezione acuta come
la meningite o l'encefalite. Esempi comuni in specifiche regioni del mondo comprendono
neurocisticercosi, tubercolosi, HIV, malaria cerebrale, panencefalite sclerosante subacuta,
toxoplasmosi cerebrale e infezioni congenite come il virus Zika e il citomegalovirus.

 Metabolica  Una serie di disturbi metabolici è associata all'epilessia. Questa area è in espansione
e sta emergendo una maggiore comprensione di tali disturbi e dello spettro di fenotipi. Il concetto di
epilessia metabolica è quello di un disturbo in cui le crisi sono un sintomo principale, che consegue
direttamente a un disturbo metabolico noto o presunto. Le cause metaboliche si riferiscono a un
difetto metabolico ben delineato con manifestazioni o alterazioni biochimiche sistemiche come
porfiria, uremia, amminoacidopatie o crisi piridossino-dipendenti. In molti casi, i disordini metabolici
hanno una causa genetica.

 Autoimmune  Il concetto di un'epilessia autoimmune è quello di una situazione in cui le crisi sono
il sintomo principale, che risulta direttamente da un disturbo immunitario. Un'eziologia autoimmune
può essere presa in considerazione quando vi è evidenza di infiammazione del sistema nervoso
centrale autoimmunemediata. Le diagnosi sono in rapido aumento, in particolare grazie alla
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maggiore disponibilità di test immunologici. Esempi includono l'encefalite anti-NMDA (N-metil-D-
aspartato) e l'encefalite anti-LGI1.

 Sconosciuta  Eziologia sconosciuta significa che la causa dell'epilessia non è ancora nota.
Rimangono molti pazienti con epilessia per i quali la causa non è nota. In questa categoria non è
possibile fare una diagnosi specifica, che vada oltre la semiologia elettroclinica di base

L'epilessia di un paziente può essere classificata in più di una categoria eziologica; le eziologie non hanno un
ordine gerarchico e l'importanza attribuita al gruppo eziologico in cui il paziente è inquadrabile può dipendere
dalla circostanza. Ad esempio, un paziente con sclerosi tuberosa (mutazione dei geni TSC1-2 che codificano
rispettivamente per amartina e tuberina) ha un'eziologia sia strutturale che genetica; l'eziologia strutturale
è fondamentale per la chirurgia dell'epilessia, mentre l'eziologia genetica è fondamentale per la consulenza
genetica e per considerare nuove terapie.
La vecchia classificazione non è sbagliata, può rimanere una terminologia utilizzata ma dobbiamo pensare
che nell’ambito della eziologia esistono forme che hanno sia una base genetica che una base lesionale, come
ad esempio nel caso di una sclerosi tuberosa,

Epilessie ed età
La tabella è uno schema delle varie forme di epilessia nelle varie epoche della vita; non le tratteremo tutte,
questo è uno schema per vedere quali sono. Nonostante ci siano anche delle forme che non sono definite
dall’età di insorgenza, è utile ricordare che in generale l’epilessia in età evolutiva è molto età dipendente;
infatti, abbiamo delle forme di epilessia che vediamo in certe epoche della vita ma che non sono presenti in
altre. La sindrome di West, ad esempio, è una tipica condizione di encefalopatia epilettica del lattante; anche
la sindrome di Dravet ha esordio in età evolutiva attorno ai 4 o 5 mesi di vita ed è tipica di questa epoca della
vita.

Epilessie età neonatale E. neonatale familiare benigna


Encefalopatia mioclonica precoce
Sndr di Ohtahara

Epilessie età infanzia E. con crisi focali migranti


S di West
E. mioclonica dell’infanzia
E. benigna dell’infanzia
E. benigna familiare dell’infanzia
S. di Dravet
Encef. Mioclonica con disturbo progressivo

Epilessie della fanciullezza Crisi febbrili plus


S. di Panayotopoulos
E. con crisi mioclono-astatiche
E. benigna con punte C-T
E. frontale notturna autosomica dominante
E. occipitale tardiva (S. di Gastaut)
E. con assenze miocloniche
S. di Lennox-Gastaut
Encefalopatia Epilettica con PO continue durante il sonno
S. di Landau e Kleffner
E. con assenza dell’infanzia

Epilessie dell’adolescenza/età adulta E. con assenze giovanile


E. mioclonica giovanile
E. con crisi generalizzate tonico-cloniche
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E. miocloniche progressive
E. autosomica dominante con sintomi uditivi
Altre E. familiari del lobo temporale

Epilessie meno definite per età di insorgenza E. focale familiare con foci variabili
E. riflesse

Nel neonato di solito le crisi sono legate a cause metaboliche.


Nel lattante frequenti le convulsioni febbrili (D.D. con crisi febbrili ed altre situazioni legate a patologie
del SNC – malformazioni, encefaliti, etc.)
Le crisi parziali sono spesso difficili da riconoscere nel lattante:
 Disturbo di coscienza (arresto motorio, arresto del pianto)
 Pallore, rossore, cianosi lieve
 Fenomeni motori minimi e unilaterali
 Automatismi di suzione e deglutizione
 Dolori addominali che simulano una colica
Nel bambino ci sono vari tipi di epilessia: bisogna Individuare se è sintomatica o idiopatica e attuare una
Valutazione neuropsicologica
Nell’adolescente
 Continuano le epilessie del bambino
 Guariscono le forme idiopatiche (EPR)
 Crisi parziali benigne dell’adolescente: crisi isolate che non rappresentano una epilessia, scompaiono
nel giro di qualche giorno (EEG normale)

Encefalopatie epilettiche
Il termine “encefalopatia epilettica” è stato ridefinito come la condizione in cui l'attività epilettica di per sé
contribuisce a deficit cognitivi e comportamentali severi ed in misura superiore a quanto ci si potrebbe
attendere dalla sola patologia di base (ad es. malformazione corticale). I deficit globali o selettivi possono
peggiorare nel tempo. Questi deficit possono avere uno spettro di severità, accompagnare tutti i tipi di
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epilessia e verificarsi ad ogni età. Il concetto di encefalopatia epilettica può essere applicato alle epilessie a
tutte le età e dovrebbe essere più ampiamente utilizzato e non solo per le epilessie severe con esordio
nell'infanzia. Un tempo venivano definite come epilessie che proprio per la gravità del quadro epilettico,
causavano una disfunzione neurologica (rallentamento motorio, disabilità intellettiva, deficit di
apprendimento...). La frequenza delle crisi, il loro polimorfismo, la farmaco resistenza, il tracciato
elettroencefalografico particolarmente compromesso (attività di fondo anomalie parossistiche), potevano in
qualche modo essere responsabili di una evoluzione negativa dal punto di vista psicomotorio del bambino,
oppure dal punto di vista della obiettività neurologica.
Con l’avvento della nuova classificazione delle epilessie sono state definite delle forme di encefalopatia
epilettica che non necessariamente sono legate alla ricorrenza delle crisi epilettiche frequenti, polimorfe, e
farmacoresistenti, ma potevano essere associate invece, ad un’alterazione molto importante del tracciato
elettroencefalografico, come succedeva nelle forme di epilessia con punte-onda continue nel sonno
(evidenziabili a livello del tracciato EEG) nella sindrome di Landau-Kleffer.
Quindi nella nuova classificazione l’encefalopatia epilettica è definita come una condizione nella quale le
anomalie epilettiformi stesse si pensa che contribuiscano a un progressivo disturbo delle funzioni cerebrali.
Abbiamo quindi dei bambini con un ritardo motorio, intellettivo, con problematiche relazionali, sociali e
del linguaggio non tanto perché c’è una ricorrenza importante delle crisi ma perché abbiamo un tracciato
elettroencefalografico particolarmente compromesso.

Dopo il 2001 le encefalopatie epilettiche riportate nella classificazione sono le seguenti:


 encefalopatia mioclonica precoce
 s. di Ohtahara
 s. di West
 s. di Dravet
 stato mioclonico in encefalopatia non progressiva
 s. di Lennox-Gastaut
 s. di Landau-Kleffner
 epilessia con PO continue nel sonno REM
Le ultime due sono le forme legate non tanto alla ricorrenza delle crisi epilettiche quanto all’alterazione
importante del tracciato elettroencefalografico, soprattutto durante il sonno.

In una encefalopatia epilettica, l'abbondante attività epilettiforme interferisce con lo sviluppo, con
conseguente rallentamento o regressione dello sviluppo cognitivo; talora si associano anche disturbi
psichiatrici e comportamentali. L'attività epilettiforme può causare regressione in un individuo con sviluppo
normale o con preesistente ritardo di sviluppo, con conseguente arresto o regressione. Un elemento chiave
del concetto è che il miglioramento dell'attività epilettiforme potrebbe potenzialmente migliorare lo
sviluppo. In molti di questi disturbi genetici severi il disturbo dello sviluppo è dovuto all’effetto diretto della

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mutazione genetica, oltre che a quello della frequente attività epilettica. Ci sono diversi modi in cui ciò può
manifestarsi.
 Ci può essere un ritardo di sviluppo preesistente, che viene complicato da arresto o regressione
quando compaiono le crisi o se si verificano crisi prolungate.
 In altri casi, il rallentamento dello sviluppo può verificarsi in un bambino con sviluppo normale, nel
quale il rallentamento dello sviluppo emerge prima della comparsa della frequente attività epilettica
all'EEG. Un esempio ben noto è l'encefalopatia della sindrome di Dravet, in cui il rallentamento o la
regressione dello sviluppo si verificano tra 1 e 2 anni di età, in un momento in cui l'attività
epilettiforme sull’EEG tipicamente non è ancora abbondante. Ciò suggerisce che sia il deficit di
sviluppo che l’epilessia sono secondarie alla mutazione del gene della subunità del canale del sodio
(SCN1A) che si riscontra inoltre l’80% dei casi.
 In un terzo gruppo, l'epilessia può spegnersi relativamente presto nella storia del bambino, ma le
conseguenze sullo sviluppo possono rimanere severe come osservato in alcuni pazienti con
encefalopatia KCNQ2 o con encefalopatia STXBP1.

Queste osservazioni, che si applicano a molte delle encefalopatie genetiche, suggeriscono la necessità di
ampliare, dove appropriato, la terminologia e di includere il termine "di sviluppo", in modo da riconoscere
che entrambi gli aspetti (causa genetica ed epilessia) possono giocare un ruolo nella presentazione clinica.
Si suggerisce pertanto, quando appropriato ed in individui di qualsiasi età, di utilizzare il termine
"encefalopatia di sviluppo ed epilettica”. E’ possibile quindi l’impiego di uno o entrambi i termini: si utilizzerà
il termine “encefalopatia di sviluppo” quando vi è solo una compromissione dello sviluppo senza che vi sia
una frequente attività epilettica associata alla regressione o all’ulteriore rallentamento dello sviluppo;
“encefalopatia epilettica” quando non vi è alcun ritardo di sviluppo preesistente e non si ritiene che la
mutazione genetica sia causa del rallentamento; infine si utilizzerà "encefalopatia di sviluppo ed epilettica”
quando entrambi i fattori svolgono un ruolo. Spesso potrebbe non essere possibile discriminare quale delle
due componenti sia più importante nel contribuire al quadro clinico di un paziente. Molti pazienti con questi
disturbi sono stati classificati in precedenza come affetti da “epilessie generalizzate sintomatiche”; tuttavia,
questo termine è stato applicato a un gruppo molto eterogeneo di pazienti e non sarà pertanto più utilizzato.

Auto-limitantesi e farmacoresponsiva
Con il crescente riconoscimento dell'impatto delle comorbidità sulla vita di un individuo, vi è stata una
considerevole preoccupazione che il termine "benigno" potesse condurre ad una sottostima di questo carico,
in particolare nelle sindromi con epilessia più lieve, come l'epilessia benigna con punte centro-temporali
(Benign Epilepsy with Centrotemporal Spikes, BECTS) e l'epilessia con assenze dell'infanzia (Childhood
Absence Epilepsy, CAE). Nonostante l’aspetto di sindrome benigna, la BECTS può essere associata a disturbi
cognitivi transitori o di lunga durata e i pazienti con CAE possono avere conseguenze psicosociali importanti
come un aumentato rischio di gravidanza precoce. Vengono usati quindi nuovi termini per descrivere
correttamente i molteplici significati implicati nel termine "benigno". Così "benigno", come attributo per
l'epilessia, viene sostituito dai termini "auto-limitante" e "farmacoresponsiva", ognuno dei quali sostituisce
le differenti componenti del significato del termine “benigno”.
 "Auto-limitante" si riferisce alla probabile risoluzione spontanea di una sindrome.
 "Farmacoresponsiva" significa che la sindrome epilettica sarà probabilmente controllata da
un'appropriata terapia antiepilettica.
È importante ricordare, tuttavia, che ci saranno individui con le stesse sindromi nei quali le crisi possono non
essere farmacoresponsive.

Farmacoresistenza
Anche la definizione di farmacoresistenza si è evoluta nel tempo: prima si diceva che la farmacoresistenza
dipendesse dalla non risposta a tre farmaci antiepilettici; mentre adesso si parla di tentativo fallito con due
farmaci adeguatamente scelti, tollerati e utilizzati a dosaggio corretto, non necessariamente singolarmente
ma anche associati.
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Bisogna però considerare la possibilità che nella storia del paziente ci possa essere anche una falsa farmaco
resistenza o pseudo-farmacoresistenza. Questa può essere dovuta al fatto che:
 lo specialista abbia sbagliato il tipo di trattamento da utilizzare (ci sono infatti farmaci che hanno un
effetto paradosso sulle crisi), quindi può essere dovuta ad un errore diagnostico o terapeutico,
 oppure ad inosservanza verso lo schema del trattamento da parte del paziente o, come spesso
avviene in ambito pediatrico, è la famiglia che sbaglia nella somministrazione del farmaco,
 oppure all’utilizzo di un farmaco con un dosaggio non corretto; Il dosaggio plasmatico farmacologico,
che oggigiorno si inizia a fare anche sulla saliva, è infatti molto importante (c’è un articolo recente
in cui si cerca di comprendere qual è il dosaggio a livello plasmatico in un tale paziente per avere
un’efficacia terapeutica con controllo delle crisi parziale o definito).

Percorso diagnostico
Dal punto di vista del percorso diagnostico sicuramente è importante l’anamnesi generale:
 gli antecedenti familiari per l’epilessia ed altre patologie neuropsichiatriche,
 gli antecedenti personali,
 lo sviluppo psico-motorio,
 il ritmo sonno-veglia; perché ci sono alcuni tipi di epilessie che mostrano crisi solo o prevalentemente
durante il sonno, sappiamo inoltre che la deprivazione di sonno può facilitare la ricorrenza delle crisi
epilettiche.
 In età evolutiva è importante considerare anche l’inserimento scolastico, perché l’aspetto cognitivo
nel bambino è importante (la prof afferma che approfondirà maggiormente questo aspetto nel suo
corso elettivo): molti bambini possono presentare problematiche cognitive e nel caso
dell’encefalopatia con punte- onda continue nel sonno, ad esempio, mostrare anche delle vere e
proprie regressioni, nonché problematiche relazionali.
 Importante considerare anche le patologie concomitanti, come ad esempio la celiachia oppure una
patologia psichiatrica concomitante: il soggetto affetto da celiachia può mostrare delle crisi
epilettiche o delle emicranie, quindi problematiche di tipo neurologico associate alla malattia celiaca.
(L’associazione con la celiachia è dovuta ad una verosimile alterazione a carico della
microstrutturazione a livello cerebrale, per cui si era dimostrato che questi soggetti potevano avere
anche delle calcificazioni cerebrali e delle lesioni a carico del parenchima cerebrale che facilitavano
la comparsa delle crisi epilettiche. La celiachia è una malattia complessa su base immunitaria, non
tutti i soggetti con celiachia hanno l’epilessia, alcuni soggetti sono predisposti ad averla).

Molto importanti nell’epilessia, dal punto di vista dell’anamnesi patologica per poterci orientare:
 l’età di esordio: ci sono forme neonatali, dell’infanzia, della fanciullezza, dell’età adolescenziale;
 conoscere la semeiologia delle crisi poi ci aiuta nella caratterizzazione delle varie tipologie per
pensare a una crisi focale, generalizzata;
 frequenza e ricorrenza;
 fattori di facilitazione come luce, stimoli sonori, toccamento, immersione in acqua, utilizzo di
bevande alcoliche, deprivazione di sonno, ciclo mestruale,
 la risposta terapeutica,
 gli esami precedentemente eseguiti, perché bisogna sempre tener in conto il pregresso e la presenza
di un’eventuale storia clinica precedente di epilessia nel paziente, è inutile ripetere in un paziente
terapie che non sono già andate a buon fine.

Altro punto importante è l’esame obiettivo neurologico e la valutazione neuropsicologica durante l’infanzia
(cose molto importanti da considerare nel bambino affetto da epilessia)
 QI
 Linguaggio
 Abilità visuo-spaziali
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 Attenzione
 Memoria
 Funzioni esecutive
 Prassie
 apprendimento

Altrettanto importante è la valutazione psicodiagnostica:


 comportamento
 relazione
 affettività
 emotività
 tono dell’umore

Per quanto riguarda gli esami strumentali:


 Sicuramente l’EEG, sia in veglia che durante il sonno, quest’ultimo utilissimo nel bambino: dobbiamo
avere un sonno spontaneo, non indotto da farmaci perché questi potrebbero alterare il tracciato. È
sempre utile avere il video (video-EEG). Nelle registrazioni prolungate (24-48-72 h), utilizziamo degli
elettrodi con una particolare colla, in modo che possano resistere per questo tempo per potere
registrare le crisi: quindi abbiamo delle registrazioni sia in momenti di veglia, sia in momenti di sonno,
anche per più giorni.

 Altro esame importantissimo è l’RM cerebrale. Mentre la TC è un esame che si utilizza soprattutto in
urgenza, la risonanza si dimostra molto più importante ed in età evolutiva chiaramente deve essere
effettuata utilizzando una narcosi. Nel bambino molto piccolo si può utilizzare l’eco-cerebrale
 SPECT, PET e potenziali evocati sono esami molto più di nicchia e potrebbero essere utili laddove si
sospetta un focolaio particolare, una lesione cerebrale o altre cose: non sono quindi esami di routine,
ma deve essere preso in considerazione il contesto ospedaliero in cui ci si trova e possono essere utili
per la ricerca.
 L’esame de fundus oculi (FO), se si dovesse pensare a una condizione di ipertensione endocranica.

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