Sei sulla pagina 1di 85

NEUROPSICHIATRIA INFANTILE.

La neuropsichiatria infantile è una disciplina medica che si occupa dei quadri


neurologici e psichiatrici che si verificano in età evolutiva. Con l’espressione “età
evolutiva” ci riferiamo a quella fascia di età compresa fra i 0 e i 18 anni. In particolare,
distinguiamo cinque tappe:

- prima infanzia, dai 0 ai 2 anni;

- seconda infanzia, dai 2 ai 6 anni;

- fanciullezza, dai 6 ai 10 anni;

- preadolescenza, dai 10 ai 14 anni;

- adolescenza, dai 14 anni in poi.

Sia nell’ambito delle malattie neurologiche che in quello delle malattie psichiatriche,
uno stesso quadro clinico può verificarsi nell’adulto e nel bambino. Tuttavia, siccome il
sistema nervoso in età evolutiva è in fase di maturazione, il bambino può presentare
caratteristiche differenti a quelle dell’adulto in merito alle peculiarità dell’età evolutiva.
Dobbiamo, inoltre, ricordare che il bambino non è un adulto in miniatura e che, quindi,
un approccio terapeutico valido per un adulto può non esserlo per un bambino e/o
viceversa.

Capitolo 1: IL PROCESSO DIAGNOSTICO.

Nei confronti di un bambino che presenta disturbi neurologici e/o psichiatrici o che
venga condotto ad osservazione in quanto presente difficoltà che investono una e/o più
aree dello sviluppo (linguistico, motorio, apprendimento, interazione sociale), bisogna
porsi una serie di domande dalla cui risposta dipende l’organizzazione di quel processo
che prende il nome di diagnosi. Il processo diagnostico in età evolutiva è finalizzato non
solo ad attribuire un significato clinico ai sintomi presentati dal bambino, ma deve
prevedere una diagnosi di sviluppo che può essere realizzata soltanto mediante la
conoscenza del bambino e dei suoi comportamenti al di fuori del contesto osservativo.
Risultano di fondamentale importanza: l’anamnesi, interviste semi-strutturate ai genitori
e la presa di visione della documentazione disponibile (cartella clinica del bambino,
giudizi degli insegnanti). Il processo diagnostico in età evolutiva viene definito anche
“presa in carico”, poiché è costituito da interventi finalizzati alla conoscenza del
disturbo, alla conoscenza del soggetto portatore del disturbo, alla conoscenza del
significato del disturbo, alla conoscenza delle relazioni che il bambino stabilisce con le
figure del suo ambiente significativo ed, infine, alla conoscenza dei genitori. Questo
processo di conoscenza deve tener conto di alcune caratteristiche legate, come già
accennato, al processo di maturazione del sistema nervoso, che sono:
1
- la variabilità, che si riferisce al cambiamento che un segno neurologico o un
comportamento atipico possono subire nel corso del tempo. Possono, infatti, verificarsi
una serie di eventualità. Ad esempio, dei segni inizialmente riconducibili ad un ritardo
dello sviluppo possono poi configurare una Disabilità intellettiva di grado lieve. Oppure,
segni che ad una prima osservazione sembrano configurare un serio problema di
sviluppo, possono poi “risolversi” dimostrando di essere stati una difficoltà di
adattamento evolutivo. O ancora, segni che inizialmente sembrano indirizzare verso una
determinata categoria nosografica (es. difficoltà nel linguaggio all’età di 2-3 anni
potrebbero configurare il Disturbo dello spettro autistico), successivamente si
modificano e indirizzano verso un’altra categoria nosografica (Disturbo del Linguaggio).
Infine, all’interno di una stessa categoria nosografica, il quadro clinico può assumere
caratteristiche differenti. Nell’ambito delle Paralisi Cerebrali, ad esempio, delle forme
inizialmente ipotoniche possono complicarsi con componenti atassiche e, così, un profilo
comportamentale improntato alla passività può lasciare spazio ad un profilo
completamente diverso, improntato all’iperattività.

- Gli adattamenti evolutivi. La crescita di un individuo, sia in termini somatici che


neurologici e psichiatrici, comporta la maturazione di alcune funzioni. Talvolta, i ritmi
dello sviluppo di queste funzioni possono essere asincroni e determinare dei
comportamenti atipici transitori e privi di significato, come: segni neurologici lievi
(segno di Babinski, forme di strabismo, ipercinesie del lattante); particolari paure in
periodi in cui le richieste dell’ambiente sono maggiori rispetto alle capacità di
metabolizzazione del bambino; episodi di disfluenza verbale; ritualizzazione di alcune
attività quotidiane; difficoltà nei processi di lettura e scrittura con l’ingresso nella scuola
primaria.

- La scarsa collaborazione del paziente. Il bambino, a differenza dell’adulto, non è


cosciente della malattia. Si tratta di una variabile che ha un peso tanto maggiore quanto
più piccolo è il bambino e che, spesso, costituisce un vero e proprio ostacolo per il
raggiungimento di una diagnosi.

- La complessità dei fattori concorrenti. Esistono eventi esterni ed interni al soggetto


che possono determinare il disturbo.

A causa di queste variabili, spesso, in età evolutiva, si ricorre ad una “diagnosi di


lavoro”, una diagnosi, cioè, che parte dai genitori per valutare nel tempo i sintomi
presentati dal bambino.

Le fasi fondamentali del processo diagnostico sono:

a) l’anamnesi;

b) l’esame neurologico;
2
c) l’esame psichico;

d) le indagini di laboratorio, scelte in relazioni ai dati che emergono dalle fasi


precedenti.

L’anamnesi rappresenta un momento fondamentale in qualsiasi disciplina medica. In


Neuropsichiatria Infantile, in particolare, permette di raccogliere informazioni relative
alla famiglia, al livello socio-culturale, alle dinamiche familiari, al decorso della
gravidanza, all’eventuale presenza di eventi stressanti con potenziale significato
patogeno (incidenti, ospedalizzazioni, morte di un genitore), alla presenza di eventuali
malattie, all’evoluzione dello sviluppo. Per quanto concerne lo sviluppo, particolare
attenzione deve essere rivolta a: epoca e modalità di acquisizione dello sviluppo psico-
motorio, caratteristiche dell’accrescimento somatico, organizzazione di alcune funzioni
biologiche (ritmo sonno-veglia, alimentazione, controllo sfinterico), reazioni ad alcune
esperienze cruciali dello sviluppo (nascita di un fratellino, inserimento nel gruppo, vita
scolastica).

La ricostruzione dello sviluppo del bambino è un processo molto complesso, poiché


spesso i genitori, preoccupati dal disturbo attuale, fanno difficoltà a ricordare le tappe
dello sviluppo. Possono confondersi, ad esempio, con altri figli o possono riferire
ritardate tappe che sono comparse nel momento giusto o, al contrario, enfatizzare la
normalità di alcune tappe che sono comparse in ritardo. L’anamnesi deve poi centrarsi
sul disturbo, sulle modalità d’insorgenza, sulla frequenza, sulle caratteristiche, sulle
circostanze di comparsa/accentuazione, sugli atteggiamenti dei genitori nei confronti del
disturbo. Tuttavia, va tenuto sempre in considerazione il fatto che, quando i genitori
giungono ad osservazione, la loro attenzione è completamente focalizzata sul disturbo
presentato dal bambino. Spesso, infatti, succede che i genitori possano definire inutili
alcune domande poste dall’esaminatore relative ad aspetti di ordine generale e non
direttamente al “disturbo”; in questo caso, sarà compito dell’esaminatore dosare le
domande. Il momento dell’anamnesi è anche un’occasione che permette di conoscere i
genitori, il loro carattere, il loro modo di comportarsi e di porsi nei confronti del
bambino e del suo disturbo. Un aspetto estremamente importante del processo
diagnostico è la valutazione della richiesta, occorre, cioè, capire il perché della visita (se
avvenuta su richiesta del pediatra, degli insegnanti o di altri parenti). Nelle situazioni in
cui il problema riferito è di tipo psicopatologico è fondamentale capire la natura del
problema, se quest’ultimo è legato ad una causa interna al bambino o a situazioni
esterne. Spesso, infatti, capita che la mancata comparsa di alcune competenze è legata a
condizioni ambientali sfavorevoli (è il caso di bambini che presentano un ritardo del
linguaggio in quanto vivono in una situazione ambientale in cui la comunicazione è
scarsa). Bisogna sempre considerare la possibilità che, nell’ambito delle relazioni
familiari, il bambino possa essere assunto come candidato alla cura, ovvero come l’unico

3
“malato da curare”, quando, invece, si tratta di un problema che investe l’intero nucleo
familiare.

La finalità del processo diagnostico è quella di giungere ad una diagnosi che può essere
di due tipi: la diagnosi nosografica e la diagnosi funzionale.

La diagnosi nosografica. I dati che emergono dal processo diagnostico devono essere
“inquadrati”, ossia ricondotti ad un quadro clinico che li contenga. Il “quadro” che il
Clinico sceglie rappresenta la diagnosi nosografica, la quale parte dall’analisi dei sintomi
per giungere alla classificazione del disturbo (sistema descrittivo).

Per esempio, dati i seguenti sintomi: difficoltà nella deambulazione, ipertono spastico
agli arti inferiori, storia di sofferenza perinatale e leucomalacia periventricolare,
l’etichetta che meglio descrive il quadro è la diplegia spastica (Paralisi Cerebrali
Infantili).

Il sistema di classificazione utilizzato deve essere condiviso a livello nazionale ed


internazionale; uno di quelli maggiormente utilizzati è l’International Classification os
Diseases, elaborato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e giunto ormai alla X
edizione (ICD-10). All’interno di questo sistema di classificazione, ogni quadro morboso
è indicato da un codice alfanumerico.

Per esempio, per indicare una situazione di Epilessia idiopatica generalizzata, verrà
utilizzato il codice alfanumerico G40.3, dove la lettera G rappresenta il capitolo
“Malattie del Sistema Nervoso”, il numero 40 indica il quadro morboso in oggetto (40=
Epilessia), il numero 3, dopo il punto, indica il tipo di Epilessia (3= idiopatica
generalizzata).

In aggiunta all’ICD-10, c’è il DSM-5 (Diagnostic and Statistic Manual of Mental


Diseases). Ricorrere a questi sistemi di classificazione significa ricorrere ad un
approccio categoriale. Questo tipo di approccio, in età evolutiva, è un sistema fragile
per quanto riguarda l’attendibilità e la variabilità, poiché si limita a descrivere i
comportamenti che definiscono la categoria, senza porsi il problema della natura di tali
comportamenti. L’altro approccio è quello dimensionale, che fa riferimento a
dimensioni intese come caratteristiche con diversi gradi di espressività. Uno stato
emotivo o un certo modo di relazionarsi possono essere considerate come dimensioni e
vanno valutate basandosi su una quantificazione degli attributi. Utilizzando, ad esempio,
l’ansia come dimensione scelta, un soggetto potrà essere: lievemente ansioso, per nulla
ansioso, moderatamente ansioso, molto ansioso.

La diagnosi funzionale. Rappresenta un bilancio delle competenze del bambino,


finalizzato a definire il suo livello di sviluppo in tutte le aree funzionali (motoria,
linguistica, comunicativa, sociale). Risulta essere, quindi, un completamento della
4
diagnosi nosografica: fornendo, infatti, indicazioni sulle aree di forza e quelle di
debolezza di un soggetto, permette di formulare un progetto terapeutico personalizzato.
Quest’ultimo ha come obiettivo non solo quello di curare il disturbo, ma di garantire
un’adeguata crescita del soggetto. In questa prospettiva, diventa necessaria la
conoscenza dell’ambiente in cui il bambino vive. Per tradurre in maniera descrittiva
questo tipo di conoscenze (attività del bambino, grado di partecipazione, conoscenza
dell’ambiente), l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha elaborato un sistema
conosciuto come Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e
della Salute (ICF-CY).

L’ICF prevede diverse “componenti” che sono: Funzioni e Disabilità; Fattori


Contestuali. Ogni componente comprende diversi “domini”: (f) Funzioni; (s) Strutture
Corporee; (d) Attività e Partecipazione; (e) Fattori Ambientali. Ciascun “dominio”,
infine, prende in considerazione una gamma di categorie specifiche, tale da ricoprire
tutte le possibili eventualità che possono presentarsi nella valutazione di un soggetto. Gli
aspetti negativi nell’ambito delle Funzione e delle Strutture Corporee vengono definiti
“menomazioni”; nell’ambito dell’Attività e Partecipazione vengono definiti
“limitazioni”. Per quanto riguarda i Fattori Ambientali, i fattori condizionanti possono
avere effetti positivi, e quindi definiti “facilitatori”, ed effetti negativi, e quindi definiti
“ostacoli”. Il sistema ICF, inoltre, prevede un qualificatore, ossia un indicatore
numerico, variabile da 0 a 4, che traduce il grado di menomazione o limitazione. Anche
l’ICF utilizza il sistema alfanumerico.

Per esempio, per descrivere una limitazione di un soggetto nella capacità di


deambulare, utilizzeremo il codice alfanumerico d450.2, dove (d) rappresenta la
componente “Attività e Partecipazione”, il numero 4 indica il capitolo (Mobilità), il
numero 50 indica il tipo di attività (Camminare), il numero 2, dopo il punto, indica il
qualificatore (difficoltà media).

Capitolo 5: L’ESAME PSICHICO.

L’esame psichico è finalizzato a raccogliere quelle informazioni che permettono di


definire le caratteristiche del disturbo presentato dal bambino. Prevede alcuni momenti
particolarmente importanti, quali: l’osservazione, il colloquio, l’utilizzo di specifici
strumenti di valutazione.

L’Osservazione. Permette di raccogliere la maggioranza delle informazioni utili per il


“processo di conoscenza”. Risultano particolarmente importanti alcuni aspetti, quali:

• Il modo in cui il bambino entra nella stanza (rifiuto, inibizione o disinibizione);


• Il modo in cui il bambino investe lo spazio (ricerca di uno spazio privilegiato in
cui resta “confinato” o spaziare per l’intera stanza);

5
• Il modo in cui il bambino esplora gli oggetti presenti nella stanza (completa
indifferenza, esplorazione sistematica o manipolazione caotica);
• Il modo in cui il bambino reagisce alla presenza dell’altro (completa indifferenza,
eccessiva diffidenza o buona disponibilità);
• Il modo in cui il bambino risponde alle richieste dell’esaminatore (disponibilità ad
interagire, aderenza passiva o completo rifiuto).

Una seduta di osservazione si configura come una situazione il bambino è libero di agire
e di interagire, tuttavia le variabili esterne sono controllate attraverso una sorta di
standardizzazione che si traduce in un’organizzazione predefinita dello spazio, del
materiale messo a disposizione e delle sequenze con cui devono essere poste le attività.
Per alcuni bambini (molto piccoli o soggetti portatori di disabilità sociali),
l’osservazione diviene la modalità esclusiva per conoscere il bambino. L’attività
esplorativa e il gioco vengono considerati fenomeni simili, in quanto entrambi motivati
intrinsecamente; tuttavia, il gioco, non è prevalentemente associato con l’acquisizione di
informazioni circa il contesto dello stimolo.

Il Gioco. È in grado di offrire all’esaminatore una serie di conoscenze relative a diversi


aspetti, quali: l’attitudine con cui il bambino si rapporta al gioco e il modo in cui li usa;
la capacità di organizzare il gioco; la tematica del gioco, importante per il suo significato
proiettivo; la verbalizzazione che accompagna il gioco; l’abilità psicomotoria; la
tolleranza alle frustrazioni, che si può rilevare nel momento di interrompere il gioco.
Quest’ultimo, quindi, rappresenta una modalità privilegiata per valutare il livello di
sviluppo del bambino; vanno sottolineati due aspetti, quali: (1) il gioco come strumento
per conoscere il livello di sviluppo; (2) il gioco come strumento per capire dinamiche
relative al mondo interno del bambino.

(1) Fino all’età di 7-8 mesi il rapporto con l’oggetto, si limita ad un gioco
“manipolativo”, mediante il quale il lattante estrae i dati rilevanti dallo stimolo. A
partire dagli 8 mesi, comincia ad impegnarsi in giochi pre-simbolici, divertendosi ad
agire sull’oggetto (batterlo su un piano, farlo cadere, lanciarlo-raccoglierlo, riempire-
svuotare). All’età di 10 mesi compare il gioco funzionale, legato alla capacità del
bambino di riconoscere l’oggetto secondo l’uso (fa finta di bere da una tazza vuota o di
mangiare con un cucchiaio una pappa inesistente). Questo tipo di gioco subisce un
cambiamento, in quanto il destinatario del “far finta di” diventa un’altra persona o un
giocattolo, come le bambole. Soltanto a partire dai 2 anni, con la comparsa della
funzione rappresentativa, gli oggetti adoperati nel gioco rappresentano cose
completamente diverse (utilizzare una scopa facendo finta che sia un cavallo o utilizzare
un cubo di legno facendo finta che sia un gatto). Verso i 4-5 anni compare il gioco socio-
drammatico, nell’ambito dei quali il bambino comincia ad interpretare delle parti o ad
assumere ruoli definiti (giocare a “mamma, papà e figlio” o “maestra e alunni”). Questo
6
tipo di gioco testimonia la capacità del bambino di comprendere i ruoli sociali e le regole
che caratterizzano i rapporti interpersonali. A partire dai 7 anni, poi, il bambino
comincia ad impegnarsi in giochi con regole: calcio, birilli e giochi simili.

(2) Il significato del gioco infantile è stato sviluppato ed approfondito da Melanie Klein
che indicò, nel gioco, la tecnica più adatta che permette di conoscere i disturbi affettivi
del bambino, anche nell’età che precede la comparsa del linguaggio verbale. In tale
prospettiva, il gioco viene considerato l’equivalente delle libere associazioni dell’adulto.
L’indagine può essere condotta osservando il bambino giocare liberamente o fornendogli
del materiale prestabilito (utile è, ad esempio, il “metodo dei burattini” della Rambert, in
cui il bambino deve rappresentare scene con i burattini). L’osservazione delle modalità
in cui il bambino si muove con i giocattoli, l’analisi delle sequenze ludiche e
dell’organizzazione del mondo rappresentativo, può fornire indicazioni valide
sull’organizzazione psichica e sulla presenza di eventuali nuclei conflittuali, sulla
struttura dell’Io e sui meccanismi di difesa. Un aspetto particolarmente importante è
l’atteggiamento che deve assumere l’osservatore che, abitualmente, partecipa
all’osservazione incoraggiando l’azione e l’interazione del bambino. Si tratta, tuttavia, di
una partecipazione che non è mai invadente, poiché l’osservatore si limita a favorire
l’attività del bambino, lasciando spazio alla sua libera iniziativa. Quanto più
l’osservazione è apparentemente libera (nulla è lasciato al caso o all’improvvisazione),
maggiori saranno le possibilità espressive del soggetto. In ambito psicoanalitico, il ruolo
dell’osservatore è concepito in maniera differente, in quanto egli è presente nella
situazione osservata, ma non interviene attivamente nell’azione o nella verbalizzazione.

Il Colloquio. Viene considerato la tecnica clinica per eccellenza, poiché comporta un


rapporto diretto con il bambino ed il suo mondo interiore. Molto importante è la
preparazione del bambino all’esame da parte della famiglia e le modalità con le quali
egli viene accolto dall’esaminatore e dall’ambiente, che deve essere accogliente e dotato
di materiale necessario per facilitare l’espressione verbale e fisica del bambino
(materiale che permette attività creative: fogli di carta, plastilina; materiale che consente
condotte proiettive: pupazzi, marionette). È sempre interessante, inoltre, affrontare
alcune tematiche quali: motivi della consultazione, per comprendere il livello di
conoscenza del bambino in merito ai problemi; interessi del bambino; tipo di rapporto
con i coetanei; qualità delle relazioni all’interno della famiglia; partecipazione all’attività
scolastica; caratteristiche degli eventi spiacevoli; progetti per il futuro. È necessario
favorire la libera espressione del bambino, favorendo una situazione in cui egli non si
senta esaminato e/o giudicato. Oltre al colloquio con il bambino, anche quello con i
genitori assume un’importanza fondamentale, poiché consente di valutare
l’atteggiamento affettivo del genitore nei confronti del bambino e il ruolo che occupa
quest’ultimo nella relazione di coppia (per questo è opportuno esaminare i genitori
insieme). Il colloquio con i genitori assume un significato differente dall’indagine
7
anamnestica, in quanto, in quest’ultima, sono previste domande tipo dirette ai genitori
dall’esaminatore; durante il colloquio, invece, l’esaminatore limita i suoi interventi per
lasciare spazio al discorso spontaneo dei genitori.

Gli “Strumenti” di Valutazione. Comprendono una serie di procedure che si utilizzano


per integrare l’esame neuropsichiatrico infantile. Si differenziano in base alla modalità di
somministrazione e alle finalità che si propongono.

Modalità di somministrazione. Possono essere individuati le seguenti tipologie: (1)


questionari; (2) interviste semi-strutturate; (3) osservazioni strutturate.

(1) Elenchi di domande che possono riguardare il comportamento del soggetto e


particolari reazioni a situazioni ambientali. La risposta può essere binaria (esempio:
SI/NO) o espressa su scala ordinale da 3 a 10 punti (esempio: 1=spesso; 2=talvolta;
3=mai).

(2) Comprendono una serie di domande-chiave che vengono poste al soggetto, o ai


genitori, in una forma colloquiale. L’ordine può essere variato e le risposte possono
essere binarie o ordinali.

(3) Si riferiscono a procedure di valutazione altamente standardizzate attraverso la


preparazione delle prove da somministrare, le modalità con cui devono essere presentate
ed il materiale da utilizzare.

Finalità. Possono essere suddivisi in: strumenti per lo screening, abitualmente


rappresentati da questionari utilizzati per l’individuazione di situazioni sospette come i
comportamenti autistici; strumenti per la diagnosi, forniscono elementi utili alla
formulazione della diagnosi nosografica e sono rappresentati da questionari di auto
somministrazione, da interviste semistrutturate e da reattivi mentali*; strumenti per la
diagnosi funzionale, si riferiscono a delle procedure di valutazione che descrivono il
soggetto sul piano del funzionamento adattivo generale e relativamente ad aree
specifiche prestazionali. Sono rappresentati da questionari di auto somministrazione,
interviste semi-strutturate ed osservazioni strutturate.

Reattivi mentali*: si dividono in reattivi di livello e reattivi proiettivi. I reattivi di livello


sono finalizzati a valutare il livello di sviluppo del bambino in definite aree prestazionali
(scale di valutazione dell’intelligenza, scale di valutazione delle competenze di lettura e
scrittura, scale di valutazione dello sviluppo psicomotorio). I reattivi proiettivi si
basano sulla tendenza di ogni individuo a strutturare materiale non organizzato,
rivelando i propri bisogni e conflitti. Rientrano in questa categoria il test di Rorschach e
le favole della Duss (piccole favole o storie nelle quali un protagonista si trova in una
determinata situazione che rimanda ad uno dei diversi stadi dello sviluppo psicosessuale
come lo stadio anale, orale, edipico, ecc.).
8
Il Disegno. Nell’ambito dell’esame psichico del bambino, il disegno assume una
particolare importanza in quanto, essendo un’attività gradita al bambino, rappresenta uno
strumento particolarmente utile per la definizione della diagnosi. Può porsi come reattivo
di livello (1) e come reattivo proiettivo (2).

(1) Traduce l’evoluzione di alcune funzioni di base come il controllo del tratto,
l’organizzazione spaziale, lo schema corporeo e l’organizzazione del pensiero.
L’evoluzione del grafismo segue delle tappe maturative ben precise. La prima attività
grafica è caratterizzata da tracciati e segni disordinati che il bambino produce con gesti
non direzionati. Intorno ai 18-20 mesi, il bambino scopre che esiste un rapporto di causa-
effetto tra i propri gesti ed i segni ottenuti e comincia, così, a variare il movimento per
ottenere tracce diverse. Verso i 3 anni il bambino comincia ad attribuire un significato ai
segni prodotti e lo scarabocchio può rappresentare oggetti diversi. Dai 3-4 anni in poi, ha
inizio la fase figurativa, nella quale i disegni strutturati rappresentano oggetti
corrispondenti ad immagini mentali. Prima dei 5 anni sono scarse le differenze tra le
forme grafiche dei maschi e delle femmine; soltanto successivamente, le influenze
culturali determinano la scelta di soggetti diversi.

(2) A partire dai 5-6 anni l’attività grafica assume una finalità narrativa e
rappresentativa, in quanto il bambino è spinto dal desiderio di raccontare le esperienze
vissute. Per questo motivo, il disegno si pone anche come reattivo proiettivo. Gli aspetti
formali del disegno (tipo di linea, intensità del tratto, scelta dei colori) hanno una forte
carica espressiva (ad esempio l’aggressività si può manifestare con dei segni verso l’alto
o l’insicurezza attraverso la scelta di utilizzare colori tenui). Anche il contenuto riveste
una grande importanza, sia nel disegno libero che nella rappresentazione a tema indicato
come il disegno della figura umana e quello della famiglia.

Disegno della figura umana. La prima rappresentazione grafica, verso i 3 anni, è molto
schematica, costituita da un cerchio rappresentante la testa e dei tratti che sono gli arti.
Verso i 5 anni si osserva un aumento dei dettagli: compaiono gli occhi, il naso, la bocca
e, progressivamente, vengono aggiunti altri elementi fino a completare la
rappresentazione intorno ai 10 anni. Il disegno della figura umana può fornire elementi
circa lo sviluppo intellettivo del bambino e, per questo, alcuni autori lo utilizzano come
test intellettivo assegnando un punto ad ogni dettaglio. Tuttavia è stato dimostrato che il
punteggio finale è soggetto a variazioni dovute ad alcuni fattori come l’ansia o la
motivazione. La figura umana rappresentata può fornire indicazioni circa l’immagine
che il bambino ha di se stesso o del proprio corpo. Per questo, Machover propose
un’utilizzazione proiettiva del disegno della figura umana, in cui chiedeva al bambino di
disegnare due personaggi di sesso opposto, interpretando, poi, quelli che sono gli aspetti
formali e quelli relativi al contenuto.

9
Disegno della famiglia. Risulta essere valido in quanto fornisce indicazioni sulla
collocazione del bambino all’interno della famiglia e sui rapporti che stabilisce con i
genitori e con i fratelli. L’analisi del contenuto, in particolare, si articola prendendo in
considerazione tre principali aspetti: disposizione e composizione globale della
famiglia, fornisce indicazioni sul modo in cui il bambino vive i rapporti tra i membri (ad
esempio, se disegna i genitori molto distanti fra loro, si tratta di un’espressione di
contrasto tra i coniugi); posto in cui il soggetto stesso si colloca, fornisce indicazioni
sulle modalità in cui il bambino vive il suo adattamento al nucleo familiare (ad esempio,
la stretta vicinanza ai genitori può esprimere dipendenza e bisogno di protezione, mentre
l’autoeliminazione può essere indicativa di sentimenti di esclusione o isolamento.
Possono verificarsi, inoltre, casi in cui il bambino disegni un personaggio, come un
animale, con il quale egli si identifica portando alla luce impulsi che il soggetto non
accetta consapevolmente); grado di enfatizzazione dei componenti della famiglia,
dove il personaggio enfatizzato rappresenta il membro a cui il soggetto è più legato sul
piano affettivo (viene disegnato, ad esempio, per primo e di dimensioni maggiori rispetto
agli altri) e quello svalorizzato rappresenta ilo membro verso il quale il bambino nutre
ostilità e rifiuto (viene disegnato, ad esempio, per ultimo e di dimensioni minori o viene
eliminato). Quest’ultimo caso si presenta spesso nei confronti dei fratelli minori verso i
quali il bambino nutre forti sentimenti di gelosia.

Capitolo 6: PSICOPATOLOGIA DELL’ETÀ EVOLUTIVA.

La psicopatologia dello sviluppo studia le disorganizzazioni delle funzioni emergenti di


natura affettivo-relazionale. Le informazioni ricavate attraverso l’esame psichico, il
disegno, il colloquio e/o gli strumenti di valutazione, sono finalizzate a chiarire tre
aspetti fondamentali del processo di maturazione psicologica della persona: se le
funzioni emergenti di natura affettivo-relazionale si stanno organizzando in maniera
regolare o se stanno mettendo in evidenza segni di deviazione; nel caso i cui mostrino
segni di deviazione, cercare di capire quali sono le cause che li sottendono; come si può
intervenire sulla “riorganizzazione” di queste funzioni.

Le funzioni emergenti di natura affettivo-relazionale e le modifiche evolutive. Sono


dimensioni che interessano la persona e, se pur presenti in tutte le persone, esse
assumono un’espressività differente in ciascuno di noi determinando e caratterizzando
quel modo unico ed originale che ogni persona mette in atto nell’agire ed interagire
all’interno del gruppo sociale. Sono rappresentate da: reciprocità sociale, sicurezza,
controllo degli impulsi, autostima.

La reciprocità sociale. Si riferisce alla naturale tendenza ad entrare in contatto con una
o più figure del gruppo sociale di appartenenza. Questa tendenza è presente fin dalla

10
nascita e si configura come un bisogno primario non “causato” dalle esperienze, ma
come un’innata spinta sociativa che porta l’individuo ad agire ed interagire con gli altri.

Prime settimane di vita. Durante le prime settimane di vita il neonato è attratto da suoni
e melodie, ma “preferisce” la voce umana. Anche per quanto riguarda il canale visivo, è
attratto da colori ed oggetti in movimento, ma “preferisce” il volto umano. In altri
termini, il neonato presenta la capacità di discriminare tra stimoli sociali e non-sociali.
Riesce, inoltre, ad imitare le espressioni facciali dell’altro, attivando uno scambio
interattivo.

Primi due anni di vita. A partire dal terzo mese di vita, il bambino, grazie alla percezione
sociale, diventa in grado di cogliere indizi visivi ed uditivi che provengono
dall’osservazione dell’Altro. Egli associa progressivamente i comportamenti osservati
agli scopi che hanno stimolato l’agire dell’Altro e, successivamente, comincia a
comprendere le regole dei rapporti interpersonali, prevedendo il comportamento proprio
ed altrui (il bambino si protende verso l’altro quando capisce che l’altro sta per prenderlo
in braccio). La capacità da parte del bambino di assumere la prospettiva dell’altro viene
definita attenzione congiunta.

Età prescolare. Con l’inizio del terzo anno di vita si assiste ad una vera e propria
esplosione di acquisizioni come l’autoriconoscimento, ossia la consapevolezza di sé. Il
bambino completa, inoltre, il processo di riconoscimento dell’Altro non solo come
Agente causale (persona in grado di causare determinati eventi), ma anche come Agente
mentale (persona che pensa, con propri desideri ed emozioni). Il bambino accede, in
questo modo, alla Teoria della Mente e risulta essere in grado di prevedere il
comportamento dell’altro, non in base a ciò che lui sente o desidera, ma in base a quello
che lui pensa che gli altri sentono o desiderano.

Scuola primaria. Con l’ingresso nella scuola primaria il bambino comprende le regole
che definiscono il rapporto interpersonale tra pari; tende a contenere risposte
“impulsive” e a privilegiare risposte che sembrano garantire una migliore riuscita
sociale. Compare la coscienza morale con regole di comportamento che derivano da
norme interiorizzate.

Adolescenza. A partire dai 12 anni ha inizio l’adolescenza, definita come età del
cambiamento vi sono nuove richieste da parte dell’Ambiente che il soggetto deve
risolvere per potersi considerare ben adattato. Si tratta dei compiti di sviluppo che sono:
accettazione del proprio corpo ed integrazione dei cambiamenti somatici; sviluppo di
un’identità sociale; costruzione di un proprio sistema di valori; costruzione di rapporti
affettivi; integrazione della sessualità nell’immagine di sé; avvio di relazionali
sentimentali.

11
La sicurezza. Si riferisce a quel sentimento di stabilità emotiva derivante dalla
maturazione di alcune certezze interne che permettono al bambino di affrontare
situazioni nuove. La sicurezza è estremamente connessa all’attaccamento e ai processi di
identificazione. L’attaccamento rappresenta un bisogno primario, espresso dal desiderio
di un rapporto di vicinanza con la figura di accadimento, cioè la madre. Il bambino e la
madre imparano ad alternare i propri turni e a leggere i segnali l’uno dell’altro relativi
all’inizio e alla fine dei turni. Man mano che la loro interazione continua, nelle
successive sedute di allattamento, madre e lattante imparano a leggere le intenzioni
reciproche. Queste esperienza emozionali e relazionali si traducono in strutture interne
che diventano la base per costruire i rapporti futuri. Il regolare fluire dei rapporti
permette la realizzazione di un attaccamento sicuro: una situazione in cui il bambino ha
fiducia che la madre sarà disponibile e presente nel caso in cui il bambino dovesse
incontrare situazioni pericolose. In altre situazioni, può realizzarsi un attaccamento
ansioso, in cui manca nel bambino la certezza che il genitore sarà disponibile in caso di
bisogno. A partire dal terzo anno di vita si realizzano i processi di identificazione con
uno dei due genitori (di solito con il genitore dello stesso sesso, anche se ogni bambino
si identifica in una certa misura con entrambi i genitori), in cui il bambino percepisce di
essere simile al modello per aspetti fisici e/o psicologici. Con l’ingresso nella scuola
primaria, il bambino individua nuovi modelli di identificazione, scegliendo i compagni
più “rassicuranti”. Con l’adolescenza, la dimensione della sicurezza va incontro a forti
attacchi, in quanto il periodo di cambiamento genera nell’individuo elementi di
preoccupazione.

Il controllo degli impulsi. Si riferisce alla capacità di “modulare” il proprio


comportamento (self-control), cioè la capacità di rinunciare ad una ricompensa
immediata in previsione di una ricompensa “ritardata”, ma più gratificante (Freud nel
teorizzare il passaggio dal “principio del piacere” al “principio della realtà”, aveva fatto
un esplicito riferimento allo sviluppo della capacità di controllare il proprio
comportamento). Le Scienze Cognitive fanno rientrare il controllo degli impulsi nei più
generali processi di controllo nell’elaborazione dell’informazione, che riguardano le
modalità con cui il sistema nervoso pianifica il flusso, lo smistamento e l’analisi dei dati.
Per questo motivo, sono associati alle Funzioni Esecutive che vedono implicate le
strutture del lobo frontale. Il controllo degli impulsi, quindi, si configura come una
modalità caratteristica di un individuo di essere e reagire negli abituali contesti di vita.
Questa modalità subisce delle variazioni nel corso dello sviluppo in seguito
all’interazione tra i fattori neurobiologici e fattori ambientali.

L’autostima. La progressiva acquisizione della coscienza di sé induce il bambino a


modificare le modalità relazionali con l’ambiente circostante, adottando comportamenti
che traducono il bisogno di porsi, proporsi e imporsi. Attraverso il confronto con gli
altri, inoltri, il bambino diviene in grado di riconoscere le proprie abilità e caratteristiche
12
e di “misurarle”. All’età di 5 anni il bambino è in grado di fornire una descrizione di sé,
limitandosi tuttavia ad un elenco di attributi generici (età, statura, sesso). A partire dai 7
anni, il bambino comincia a fornire dettagli relativi alle proprie qualità interiori fino a
quando, all’età di 11 anni, riuscirà a delineare un ritratto di Sé di tipo psicologico.
Durante questo periodo, inoltre, il bambino si descriverà in modo comparativo (ad
esempio, non dirà “sono bravo a scuola”, ma “sono più bravo di..”). È solo con
l’adolescenza che il soggetto riesce a ragionare in termini “astratti”, riflettendo sul
proprio aspetto fisico, sui tratti temperamentali e sugli stati emotivi. In questo processo
si inserisce l’autostima, cioè la valutazione delle qualità che l’individuo percepisce come
proprie.

Quelle appena descritte, sono dimensioni che possono andare incontro a disordini neuro
evolutivi che, sul piano comportamentale, si traducono in sintomi psicopatologici ad
espressività variabile in rapporto all’età, al livello di sviluppo e alla presenza di disordini
che interessano le altre funzioni emergenti.

L’esame psichico si configura come un esame finalizzato a valutare le funzioni


emergenti. Risulta determinante prendere in considerazione separatamente tre periodi:
(1) il bambino in età prescolare, 0-5 anni; (2) il bambino in età scolare, 6-12 anni; (3)
l’adolescente.

(1) Alcuni dei segni che possono essere riscontrati, nella comune pratica, clinica durante
questo periodo sono:

• Irregolarità del ritmo sonno-veglia. Rappresentate da difficoltà


nell’addormentamento, risvegli notturni o riduzione della quantità di sonno.
Queste irregolarità possono essere dovute: condizioni mediche generali; disturbi
precoci di alcuni quadri morbosi che solo successivamente saranno manifesti
(disturbi dello spettro autistico); disturbi delle relazioni di attaccamento; ansia;
quadri depressivi ad insorgenza precoce. Nell’ambito delle irregolarità si inserisce
anche l’ipersonnia, ossia il dormire molto. Vanno considerate, infine, le
parasonnie, che includono:
- il pavor nocturnus, episodi di terrore che si manifestano nel sonno non REM,
con agitazione e sudorazione, seguiti dal risveglio in cui il bambino non ricorda
nulla. Si tratta, solitamente, di disturbi legati all’ansia;
- l’incubo notturno, risvegli improvvisi in cui il bambino ricorda il sogno che lo
ha turbato;
- il sonnambulismo, comportamenti psicomotori complessi che si verificano
mentre il bambino continua a dormire. Si tratta di una disorganizzazione del
sonno e si esclude la possibilità che possa trattarsi di un episodio legato
all’Epilessia;

13
- il sonniloquio, letteralmente “parlare nel sonno”. Anche qui si esclude la
possibilità che possa trattarsi di Epilessia;
- il bruxismo, digrignamento dei denti che può essere osservato in soggetti
“normali” o in alcune forme di Paralisi Cerebrali.
• Disturbi dell’alimentazione. Oltre alle anomalie del senso di fame (anoressia e
bulimia), comprendono una serie di comportamenti atipici legati al momento del
pasto dovuti a: condizioni mediche associate come malattie metaboliche; sindromi
neuropsichiatriche complesse come la Disabilità intellettiva; disturbi della
motricità oro-glosso-faringea, dove non viene alterato il senso della fame, ma le
condotte atipiche sono legate a contenuti ansiogeni; disordini della sfera affettiva.
• Disturbi dell’Interazione sociale. Si tratta di una serie di comportamenti indicativi
di una scarsa possibilità del bambino alle interazioni con l’altro. Ciò può essere
dovuto a: disturbi dello spettro autistico; disturbo da deficit dell’attenzione con
iperattività; disturbo reattivo dell’attaccamento; quadri depressivi ad insorgenza
precoce; disturbi d’ansia; ritardo globale dello sviluppo. Quando vengono escluse
le cause appena elencate, il disturbo può essere ricondotto all’immaturità di quella
dimensione definita “reciprocità sociale”.
• Disturbi della comunicazione e del linguaggio. Possono essere dovuti a: disturbo
del linguaggio, riguarda, cioè, l’organizzazione delle competenze linguistiche e
non compromette la comunicazione; disabilità intellettiva, il disturbo linguistico
deriva da un deficit cognitivo; disturbo dello spettro autistico, deriva dal disturbo
della comunicazione; disturbo da deficit di attenzione con iperattività; deficit
dell’udito; deficit di sviluppo della coordinazione con particolare interessamento
della muscolatura oro-bucco-fonatoria.
• Disubbidienza. Si tratta di un sintomo che si inserisce in un profilo
comportamentale caratterizzato da scarsa aderenza alle richieste dell’altro, scarso
rispetto delle regole, op positività, crisi di collera. Il sintomo della disubbidienza
può essere legato a disordini più complessi come: disturbo dello spettro autistico;
disabilità intellettiva; disturbo da deficit di attenzione con iperattività; disturbo
reattivo dell’attaccamento; disturbo oppositivo-provocatorio. Oltre ai casi appena
elencati, la disubbidienza può essere riconducibile a scarso auto-controllo e/o
inadeguatezza degli atteggiamenti pedagogici.

(2) In quest’età possono presentarsi sintomi che vanno a sommarsi a quelli


precedentemente esposti. Di fondamentale importanza è la valutazione del contesto
osservativo, del contesto familiare e del contesto scolastico, poiché, soltanto se il
sintomo è presente in più contesti, può essere considerato caratterizzante del profilo
comportamentale del bambino.

14
• Difficoltà di apprendimento. Si tratta dell’incapacità da parte del bambino di
fornire prestazioni scolastiche rispondenti a quelle che l’età e la classe frequentata
prevedono. Le cause possono essere molteplici e riconducibili a: disturbi
neuropsicologici complessi come dislessia, discalculia, disortografia; disabilità
intellettiva di grado lieve; disturbi d’ansia; disturbi dell’umore; disturbo dello
spettro autistico; disturbo da deficit di attenzione con iperattività; deficit
sensoriali; carenze socio-culturali.
• Difficoltà di socializzazione. Incapacità da parte del bambino di stabilire
un’adeguata relazione con l’Altro e possono esprimersi con inibizione (il
bambino non prende iniziativa nello scambio e si limita a rispondere alle domande
che gli vengono poste) o con disinibizione (il bambino presenta elevati livelli di
attività motoria, risponde alle domande che gli vengono poste arricchendo il
discorso con elementi poco aderente al contesto). Le difficoltà di socializzazione
si ritrovano tipicamente nei Disturbi dello spettro autistico e ne rappresentano un
sintomo patognomonico, cioè caratteristico al punto di permettere una diagnosi
certa. Nel caso di un bambino inibito le cause possono essere riconducibili a:
fobia sociale; disturbi dell’umore di qualità depressiva; mutismo selettivo;
disturbo oppositivo-provocatorio; carenze socio-culturali. Nel caso di un bambino
disinibito le cause possono essere riconducibili a: disturbi dell’umore di tipo
maniacale; disturbi della condotta; disturbo da deficit di attenzione con
iperattività.
• Condotte regressive. Comparsa o meglio ricomparsa di comportamenti propri di
epoche precedenti come succhiarsi il pollice, parlare bè-bè o piangere per motivi
futili. Possono essere dovuti a: disturbo dello spettro autistico; schizofrenia ad
esordio molto precoce; processi espansivi endocranici.
• Paure. Rappresentano l’aspetto caratterizzante le Fobie, Specifiche e Sociale, ma
possono ritrovarsi in altre situazioni quali: disturbi d’ansia; disturbo post-
traumatico da stress; disturbi dello spettro autistico; disturbi dell’umore. Possono,
però, esprimere anche bisogni regressive; rappresentare uno “strumento” per
manipolare le figure dell’ambiente significativo; essere condotte apprese per
imitazione di un modello significativo come la madre.
• Rifiuto scolastico. Un’evenienza di questo genere disorienta maggiormente i
genitori quando insorge in un momento in cui il bambino sembrava di aver
accettato volentieri la comunità scolastica. Può essere dovuto a: fobia sociale;
disturbi d’ansia o depressivi; disturbi della condotta; disturbi dell’apprendimento.

(3) Nell’adolescenza, ma già a partire dai 10 anni, i sintomi di un disturbo si avvicinano


sempre di più a quelli degli adulti.

15
• Anomalie della coscienza. La coscienza può essere definita come lo stato di
consapevolezza di sé e dell’ambiente. Quando una persona ha piena
consapevolezza di sé e del suo ambiente si dice che la sua coscienza è lucida o
integra, quando, invece, questo stato di consapevolezza risulta essere
compromesso, si parla di disturbi della coscienza. Questi ultimi possono essere di
tipo quantitativo o di tipo qualitativo.

Disturbi di tipo quantitativo:

- Torpore o ottundimento, si tratta di un abbassamento dello stato di coscienza con


interessamento di tutte le funzioni psichiche. La percezione degli stimoli richiede un
notevole sforzo che non può essere mantenuto a lungo. Possono essere individuati due
sottostadi che sono: la sonnolenza, forma più leggera, poiché il soggetto può essere
richiamato alla lucidità con stimoli intensi; il sopore, forma più accentuata, poiché lo
stato di vigilanza può essere raggiunto con stimoli molto intensi ed i risvegli sono molto
brevi. Significato: condizioni mediche generali, abuso di sostanze, azioni di farmaci,
epilessia, manifestazioni parossistiche non epilettiche, lesioni traumatiche.

- Coma, stato di completa perdita della coscienza, dal quale il soggetto non può essere
richiamato mediante stimoli. Possono coesistere depressione, ipotensione, areflessia e
perdita del controllo degli sfinteri. Significato: compromissione della sostanza reticolare
ascendente (ARAS e RAS: complesso di neuroni del sistema nervoso centrale
specializzati nel controllo dello stato di veglia).

- Stato vegetativo persistente, stato di perdita completa della coscienza al quale si


associano apertura spontanea degli occhi, regolare ritmo sonno-veglia, autonomia
respiratoria e cardiocircolatoria.

Disturbi di tipo qualitativo:

- Stato confusionale, si tratta di una condizione di disordine nell’unità e nella coesione


della vita psichica che compromette la capacità di rapportarsi al mondo circostante. Gli
elementi caratterizzanti sono: disorientamento, diminuzione della memoria, illusioni ed
allucinazioni. Significato: sofferenza organizza di origine cerebrale o extra-cerebrale,
psicosi, epilessia.

- Stato crepuscolare, caratterizzato da un restringimento del campo della coscienza. Il


mondo del soggetto appare ridursi e circoscriversi ad un numero ristretto di idee, fantasie
e sentimenti che vengono ritenuti gli unici esistenti. Significato: epilessia, isteria.

- Stato onirico, caratterizzato da una “oscillazione” tra una percezione corretta della
realtà e l’intrusione periodica di esperienze simili a contenuti del sogno. Significato: stati
tossici ed infettivi, epilessia, psicosi atipiche.

16
Anomalie della percezione. La percezione è il processo attraverso il quale viene
attribuito un significato all’esperienza sensoriale; le più frequenti sono le illusioni e le
allucinazioni.

Illusioni. Le illusioni sono un disturbo della percezione in cui uno stimolo sensoriale
viene interpretato in maniera anomala (es. un albero in penombra può essere preso per
una figura umana). L’errore può essere corretto ad una successiva verifica. Le illusioni,
infatti, possono verificarsi in persone assolutamente normali, anche se hanno maggiore
frequenza nelle patologie psichiatriche come i disturbi d’ansia.

Allucinazioni. Si tratta di percezioni vissute e descritte dal soggetto come reali, malgrado
l’assenza di stimoli in quanto manca l’oggetto capace di provocarle (per questo definite
anche “percezioni senza oggetto”). Vengono abitualmente suddivise in base all’organo
di senso interessato:

- Allucinazioni uditive, sono le più tipiche e frequenti. Nella forma più tipica
l’allucinazione uditiva è rappresentata dall’udire voci collocate nello spazio esterno che
possono assumere il tono di comando (allucinazioni imperative) a cui il soggetto può
obbedire ciecamente. Altre volte le allucinazioni dicono ad alta voce tutto quello che il
soggetto pensa o sta per fare (eco del pensiero). Altre volte ancora si tratta di udire voci
antagoniste che incoraggiano o criticano il soggetto (allucinazioni antagoniste
dialoganti).

- Allucinazioni visive, si tratta della visione di persone, cose o animali che possono
presentarsi in maniera vaga o realistica.

- Allucinazioni gustative ed olfattive, percezioni di gusti e odori particolari, piacevoli o


spiacevoli.

- Allucinazioni somatiche, possono riguardare la sensibilità superficiale (scosse


elettriche), sensibilità viscerale (impressione di essere violentati) o propriocettiva
(sensazione di essere mosso).

Significato: schizofrenia, alterazioni dello stato di coscienza, epilessia.

Le ricerche hanno messo in evidenza che le allucinazioni in età evolutiva sono molto più
frequenti di quanto ritenuto in passato; ciò sarebbe riconducibile al fatto che i bambini
tendono a non riferirle spontaneamente in quanto non sempre riconoscono il carattere
“atipico” di una manifestazione di questo genere.

Disturbi del Pensiero. Possono essere distinti i disturbi formali del pensiero e i disturbi
del contenuto.

Disturbi formali del pensiero:

17
- Rallentamento del pensiero. Povertà del pensiero, i contenuti scorrono lentamente e,
di conseguenza, anche l’eloquio è povero. Significato: depressione, stati confusionali,
schizofrenia.

- Accelerazione del pensiero. Il ritmo dei pensieri è vivace e si associa ad un eloquio


fluente. Si verifica spesso in episodi maniacali e viene definito “fuga delle idee”.
Frequentemente vengono meno i legami associativi fra i contenuti delle idee:
deragliamento, le idee vanno in direzioni non collegate a quelle di partenza;
tangenzialità, risposte scarsamente aderenti alle domande; incoerenza, eloquio confuso e
disordinati. Significato: stati maniacali, schizofrenie, stati confusionali.

- Perseverazione, rappresenta la tendenza a rimanere ancorato ad un contenuto ideico


anche quando cambia il contesto che lo ha innescato come fornire sempre la stessa
risposta, anche quando le domande cambiano. Significato: disturbi pervasivi dello
sviluppo, stati confusionali, schizofrenie, sindromi psicorganiche.

- Circostanzialità, rappresenta una forma di pensiero caratterizzata dal risalto di dati


irrilevanti che si interpongono nel tema principale. Significato: ritardo mentale, sindromi
psicorganiche.

Disturbi del Contenuto del Pensiero:

- Delirio. Viene definito come un’idea derivante da un falso giudizio della realtà. I tre
elementi tipici del delirio sono: certezza dell’idea e la straordinaria convinzione con cui
viene sostenuta; incorreggibilità; impossibilità del contenuto. Alcune forme tipiche sono:

1. Delirio bizzarro, il contenuto è insolito;

2. Delirio di controllo, il soggetto è convinto che i suoi sentimenti, pensieri ed azioni


sfuggono al controllo della sua volontà;

3. Delirio erotico, il soggetto è convinto di essere in possesso di attrattive sessuali


particolari, rivolge numerose proposte a sfondo sessuale, crede di effettuare con grande
capacità conquiste sessuali e sentimentali;

4. Delirio di grandezza, il soggetto è convinto di possedere attributi speciali che


riguardano il sapere il saper fare o l’avere potere fuori dal comune;

5. Delirio di persecuzione, il soggetto è convinto che vengano ordite trame contro di lui;

6. Delirio di riferimento, il soggetto attribuisce un significato particolare agli oggetti,


persone o eventi del suo ambiente;

7. Delirio ipocondriaco, il soggetto è convinto di soffrire di una malattia fisica o di una


particolare condizione patologica.

18
Significato: schizofrenie.

Disturbi dell’umore. L’umore può essere definito come una tonalità emotiva di fondo
che ha una certa durata nel tempo, nasce in maniera spontanea e determina l’attitudine e
le modalità del soggetto di rapportarsi alla realtà. I disturbi dell’umore possono subire
variazioni “in difetto” o “in eccesso”.

- Flessione del tono dell’umore (depressione). Senso di tristezza, disperazione e dolore


morale.

- Elevazione del tono dell’umore (euforia, mania). Eccessivo senso di benessere e di


gioia accompagnata da un eccitamento psicomotorio.

- Labilità affettiva (disturbi dello spettro bipolare, sindrome borderline, disturbi


d’ansia). Instabilità del tono dell’umore, che può passare da uno stato di tristezza ad uno
stato opposto.

Capitolo 7: IL PROGETTO TERAPEUTICO.

Il concetto di Progetto Terapeutico Personalizzato (PTP) racchiude alcuni aspetti


caratterizzanti: tiene conto degli aspetti biologici, psicologici e sociali della Persona a
cui si rivolge (1); è dinamico (2); è interdisciplinare (3); prevede il coinvolgimento dei
genitori (4).

(1) La scelta degli obiettivi terapeutici tiene conto dei bisogni del singolo bambino, delle
sue aree di forza e di debolezza, della particolare fase evolutiva che sta attraversando.

(2) Il profilo risulta essere dinamico poiché il trattamento e le periodiche verifiche che
esso comporta aggiungono nuovi elementi in merito alla conoscenza del bambino e dei
suoi bisogni.

(3) Il PTP è interdisciplinare poiché coinvolge molteplici figure professionali:


neuropsichiatra infantile, pediatra, foniatra, psicologo, terapista, logopedista, insegnante,
assistente sociale, ecc.

(4) I genitori vengono individuati come interlocutori privilegiati per la realizzazione


delle fasi previste dal Progetto.

Gli interventi terapeutici. Possono essere:

- Farmacologici. La terapia farmacologica va inserita in un globale Progetto


Terapeutico, va iniziata con dosi basse privilegiando medicinali in forma liquida. In casi
di trattamenti protratti, la terapia va interrotta periodicamente, ad eccezione
dell’epilessia. Bisogna prestare particolare attenzione ai sintomi-bersaglio, cioè scegliere

19
i medicinali in base ai sintomi chiaramente individuabili, programmando periodici
controlli clinici ed evitando l’associazione di più farmaci.

- Psico-educativi. Si tratta di misure che mirano ad individuare le strategie da applicare


per il conseguimento degli obiettivi educativi tenendo conto dell’originalità di ciascuna
situazione.

- Riabilitativi. Vengono messi in atto quando si determinano disabilità che possono


investire le diverse aree funzionali: area delle abilità grosso-motorie (cammino, salto,
corsa); area delle abilità fini-motorie (prensione e manipolazione); area delle abilità
comunicativo-linguistiche (linguaggio nelle sue molteplici forme); area delle abilità
cognitive (programmazione dei movimenti, strategie di problem-solving, scelta di
comportamenti); area delle autonomie (lavarsi, vestirsi, provvedere ai propri bisogni).
Ciascun intervento è mirato alla riorganizzazione funzionale delle competenze che
sottendono la competenza da riabilitare e l’organizzazione adattiva della competenza
appresa. Ad esempio, un bambino che presenta difficoltà nel cammino per la presenza di
una spasticità agli arti inferiori verrà sottoposto ad un intervento riabilitativo mirato a
lavorare sulla spasticità (riorganizzazione funzionale) e sulle strategie che il soggetto
può trovare per “spostarsi” secondo le sue attuali possibilità (organizzazione adattiva).
Le figure professionali abitualmente coinvolte sono: i fisioterapisti, che si occupano dei
disordini motori; i terapisti nella neuro e psicomotricità dell’età evolutiva, che si
occupano dei disordini neuromotori e psicomotori; i logopedisti, che si occupano dei
disordini della voce e del linguaggio; gli educatori professionali, che favoriscono
comportamenti adattivi; gli ortottisti, che si occupano della motricità oculare. Prima di
stabilire chi deve intervenire, occorre prima individuare su cosa intervenire e scegliere,
poi, quale figura può realizzare il programma.

- Psicoterapeutici. Sono interventi definiti come trattamenti che utilizzano strumenti


psicologici per incidere su disturbi emotivi e comportamentali. Le psicoterapie possono
assumere forme diverse in relazioni ai costrutti teorici cui fanno riferimento o alle
finalità.

1. Psicoterapia a orientamento psicoanalitico: si rifà alle teorie di Freud. I sintomi


presentati dal paziente derivano da situazioni conflittuali, non risolte, risalenti all’epoca
infantile. La terapia è finalizzata a riportare a livello conscio questi conflitti, cercando di
favorire l’insight, ossia capire i significati inconsci dei propri sintomi e dei propri
comportamenti. In età evolutiva le tecniche di analisi si basano essenzialmente sul gioco,
poiché il bambino traduce in maniera simbolica le sue fantasie, desideri ed esperienze
passate, consentendo al terapeuta di entrare nel suo mondo interiore e di interpretare
conflitti e difese. Le terapie ad orientamento analitico richiedono tempi molto lunghi con
sedute che si svolgono con frequenza plurisettimanale. Possiamo distinguere: la

20
psicoterapia breve, caratterizzata da un numero definito di sedute, solitamente 10-20
nell’arco di 2-6 mesi; la psicoterapia di sostegno, finalizzata a rinforzare le difese del
soggetto per aiutarlo ad affrontare le difficoltà della vita quotidiana. In età evolutiva è
molto importante associare il trattamento dei bambino con quello dei suoi genitori
attraverso la terapia di coppia.

2. Psicoterapia familiare: è un trattamento rivolto all’intero gruppo familiare teso a


risolvere conflitti all’interno delle relazioni familiari.

3. Terapia cognitivo-comportamentale: include due aree di intervento diversificate, cioè


la terapia comportamentale e la terapia cognitiva.

TERAPIA COMPORTAMENTALE. Si rivolge al comportamento osservabile e ha


come obiettivo la modificazione di un comportamento, cercando di favorire una condotta
desiderabile. È indicata nel trattamento di: bambini con quadri nosografici complessi
come i Disturbi dello spettro autistico o le Disabilità intellettive; specifici disturbi come
le fobie, le compulsioni o i comportamenti aggressivi. Le tecniche maggiormente
utilizzate sono:

v la desensibilizzazione sistematica, è stata sviluppata per il trattamento delle


fobie. Prevede tre fasi: 1. Insegnare al soggetto esercizi finalizzati al rilassamento
della muscolatura; 2. Definire in un ordine gerarchico gli stimoli in grado di
suscitare una reazione fobica; 3. Invitare il soggetto ad immaginare gli stimoli
scatenanti mettendo in pratica il punto 1.
v Il flooding, rivolta al trattamento dei comportamenti fobici. Consiste nell’esporre
il soggetto ad uno stimolo ansiogeno, prevenendo la reazione di fuga. La
sistematica esposizione del soggetto allo stimolo condizionato senza che a questo
faccia seguito quello incondizionato, determina l’estinzione del comportamento.
v Il condizionamento operante, si basa sul principio che il comportamento è
influenzato dalle conseguenze che produce. Vengono individuate quattro
situazioni: rinforzo positivo, ossia una ricompensa piacevole; rinforzo negativo,
cessazione dello stimolo avversativo; punizione, applicazione di uno stimolo
avversativo; assenza del rinforzo, nessuna conseguenza.
v L’addestramento delle abilità sociali, si tratta di una tecnica che include aspetti
dell’apprendimento per imitazione, secondo cui l’osservazione di un modello
favorisce l’assunzione del comportamento in questione.
v Il biofeedback, si riferisce al processo con cui un organismo può regolare una
funzione sulla base di informazioni derivanti dalla funzione stessa. La
pianificazione del trattamento prevede: l’identificazione del comportamento da
incrementare o diminuire; l’identificazione dei fattori ambientali che estinguono o
rinforzano tale comportamento; l’identificazione dei fattori che possono essere

21
manipolati per modificare il comportamento; registrare la frequenza e l’intensità
del comportamento; scegliere i tipi di rinforzi che possono influenzare il
comportamento.

TERAPIA COGNITIVA: si focalizza sui pensieri, le attitudini e le credenze per


comprendere un certo comportamento. Ad esempio, un bambino che abbia sentito dire
ripetutamente dai genitori “tutti i cani sono pericolosi”, assume tale opinione che
informerà il suo comportamento nel rapporto con gli animali. Appare evidente, pertanto,
che la conoscenza di un’opinione verbalizzata da persone importanti per il bambino, può
essere responsabile di tale comportamento. L’obiettivo fondamentale della terapia
cognitiva è quello, quindi, di definire i rapporti tra i processi conoscitivi, emozionali e
comportamentali espliciti.

Capitolo 8: I DISTURBI D’ANSIA.

L’ansia rappresenta quello stato emozionale sollecitato da situazioni nuove e/o


potenzialmente pericolose che può assumere caratteristiche abnormi per quantità o
qualità. In questi casi, si parla di ansia patologica. L’ansia normale si differenzia da
quella patologica poiché, oltre ad essere legata ad esperienze presenti, non è ancorata a
situazioni immaginative, ma a fatti reali. In altre parole, non fa parte delle abituali
modalità di comportamento a differenza delle forme patologiche in cui l’ansia si
caratterizza come uno stato d’animo abituale che si manifesta con nausea, secchezza
delle fauci, tachicardia, sudorazione e minzione imperiosa. I disturbi inclusi in questa
categoria nosografica caratterizzavano, in passato il quadro delle Nevrosi.

Il termine “nevrosi” è stato utilizzato per la prima volta da Cullen, nel 1769, per
indicare alcuni disturbi della motricità e della sensibilità. Successivamente, nel 1894,
Freud fornì una classificazione nosografica dei disturbi nevrotici che, per molti aspetti,
è ancora attuale. Le principali forme di nevrosi erano: nevrosi d’ansia, nevrosi isterica,
nevrosi fobica, nevrosi ossessivo-compulsiva. Le caratteristiche della nevrosi, invece,
sono: disturbi del comportamento, coscienza della patologicità dei disturbi,
mantenimento del contatto con la realtà esterna e presenza di sofferenza psichica
(angoscia). Freud, inoltre, dei modelli interpretativi che fanno riferimento a tre aspetti
fondamentali della psicoanalisi: l’ipotesi strutturale, il conflitto e i meccanismi di difesa.
L’ipotesi strutturale descrive l’apparato psichico costituito da tre istanze: Es (polo
pulsionale); Io (svolge una funzione di verifica e di controllo); Super-Io (insieme di
divieti, norme e valori). Il conflitto rappresenta lo scontro tra due istanze contrapposte
come l’Es e il Super-io, in quanto l’Es tende all’appagamento immediato delle pulsioni e
il Super-Io al loro contenimento. I meccanismi di difesa sono processi dinamici
utilizzati dall’Io per reagire alla contrapposizione tra Es e Super-Io. Sono processi

22
presenti in tutti gli individui, ma, in ciascuno di noi, prevale un meccanismo (rimozione,
negazione, proiezione, regressione) che determina la formazione di tratti del carattere.
Nella nevrosi isterica il meccanismo predominante è la rimozione; in quella ossessiva
predomina la formazione reattiva e l’intellettualizzazione; in quella fobica predomina lo
spostamento; nella nevrosi d’ansia, invece, i meccanismi di difesa non sono ben definiti.

I Disturbi d’ansia rappresentano un’evenienza molto frequente; la loro prevalenza, su


bambini di età compresa fra i 7 e gli 11 anni, è del 16%.

Le cause si rifanno principalmente a tre orientamenti interpretativi:

• Ipotesi costituzionalista. Sostiene una disposizione di base caratterizzata da


un’instabilità dei sistemi di controllo dell’ansia e da iperemotività, ipereccitabilità
neuro-muscolare, astenia (sensazione di esaurimento fisico simile a quella provata
dopo una fatica eccessiva) e tremori. Sulla base di questa disposizione
costituzionale si verrebbe a definire il quadro clinico conclamato.
• Ipotesi psicoanalitica. Secondo questa teoria, l’ansia e i disturbi ad essi correlati,
configurano un gruppo definito come nevrosi.
• Ipotesi cognitivo-comportamentale. La teoria comportamentale si rifà alle
concezioni di Pavlov sulle nevrosi sperimentali, indotte in animali sottoposti a
frustrazioni ripetute con conseguenze di insonnia, anoressia , ipereccitabilità.
L’approccio cognitivista ai disturbi d’ansia parte, invece, dal presupposto che
tutte le persone tendono ad interpretare gli eventi che quotidianamente si
verificano. Ci sarebbero tre livelli di “consapevolezze”: 1. Le convinzioni
profonde, strutture interpretative di base con cui la persona organizza il suo
pensiero; 2. Le convinzioni intermedie, sono meno radicate rispetto a quelle
profonde e rispondono all’esigenza di prendere decisioni in tempi brevi; 3. I
pensieri automatici, sono idee riguardanti se stessi, gli altri o le relazioni e
derivano dalle emozioni provate dalla persona. Secondo il modello cognitivo, le
convinzioni profonde influenzano quelle intermedie che, a loro volta, influenzano
i pensieri automatici. In questa prospettiva, i disturbi d’ansia deriverebbero da un
pensiero distorto e disfunzionale responsabile del protrarsi delle emozioni.

Il Disturbo d’Ansia di Separazione. Sindrome comportamentale caratterizzata da


un’ansia eccessiva legata alla separazione da casa o da coloro a cui il soggetto è
attaccato. Il prototipo di questo disturbo è rappresentato dalle reazioni che il bambino ha
durante l’ottavo mese di vita quando, in seguito all’allontanamento della madre, piange,
mostrando così di aver acquisito la capacità di discriminare fra le figure dell’ambiente
significativo e definire quella privilegiata come figura di accadimento dalla quale
dipende. Normalmente, il periodico alternarsi di allontanamenti e ritorni permette al
bambino di elaborare questa esperienza in maniera positiva, mentre, in altri casi, questo

23
disturbo persiste condizionando lo sviluppo del bambino. I fattori che possono
contribuire a mantenere, intensificare o far ricomparire l’ansia di separazione sono
molteplici: familiarità, presenza di disordini psicopatologici all’interno della famiglia;
fattori biologici, possibile associazione tra questo disturbo e labilità di alcuni sistemi
endocrini e neurotrasmettitoriali; fattori temperamentali, alcuni aspetti del
comportamento come la timidezza o l’evitamento di situazioni nuove, sarebbero tratti
temperamentali predisponenti all’insorgenza di disturbi d’ansia di separazione; fattori
psicodinamici, alcune interferenze durante il processo di attaccamento (separazioni
prolungate, ospedalizzazioni, inadeguatezza delle figure di attaccamento) possono
determinare una fragilità emotiva del bambino con incapacità di fronteggiare le
esperienze di separazione; fattori cognitivi, alcune disfunzioni collegate, ad esempio, alla
stabilità della permanenza dell’oggetto (percezione della figura materna come persona
dotata di un’esistenza autonoma) possono favorire l’ansia di separazione; fattori socio-
culturali, l’ansia viene favorita da modelli educativi propri del gruppo di appartenenza
del bambino; fattori situazionali, situazioni di stress psicologico come un lutto in
famiglia, il divorzio dei genitori, un abuso o bruschi cambiamenti di ambiente.

Sintomatologia. I bambini possono presentare un comportamento “appiccicoso” nei


confronti della madre, pretendere che la madre si addormenti accanto a loro o spostarsi
nel letto dei genitori durante la notte, avvertire il bisogno di sentire i genitori quando si
allontanano da casa (gite, feste) e/o inventare scuse per ritornare a casa. Questi bambini
sono continuamente assaliti da ansie relative a: smarrirsi e non ritrovare più i genitori;
eventi catastrofici che possono investire la famiglia; gravi malattie che possono colpire i
genitori o la morte dei genitori. L’ansia si traduce in sintomi somatici come dolori di
stomaco, cefalea, nausea, vomito, palpitazioni, vertigini, i quali compaiono anche
quando la separazione è solo temuta. Nell’ambito di questo disturbo va inserito un
quadro clinico molto particolare: la fobia scolare.

La fobia scolare o “rifiuto ansioso della scuola”. Si manifesta comunemente fra i 5 e i


10 anni. I bambini affetti da fobia scolare presentano marcati segni d’ansia al momento
di andare a scuola che si manifestano attraverso sintomi somatici come nausea, conati di
vomito, diarrea, cefalea. Questi sintomi allarmano i genitori che li ritengono espressione
di una malattia organica, ma che, nella maggioranza dei casi, esprimono, invece, un
Disturbo d’Ansia di Separazione, poiché l’oggetto fobogeno non è la scuola di per sé,
ma la separazione dalla famiglia. In altri casi, invece, la fobia scolare è sottesa da
dinamiche diverse come: esperienze traumatizzanti vissute nel contesto scolastico; ansia
prestazionale legata alla paura di un insuccesso; la scuola attiva nel soggetti sentimenti
di angoscia e condotte di evitamento.

Il Disturbo d’Ansia Generalizzato. È caratterizzato dalla presenza di ansia e


preoccupazioni eccessive che si associano ad irrequietezza, irritabilità, tensione

24
muscolare, difficoltà nella concentrazione o disturbi del sonno. L’oggetto dell’ansia non
è legato ad un elemento specifico o ad una determinata situazione, ma si tratta di
un’esperienza di malessere generale.

Sintomatologia: sono i bambini che “hanno paura di tutto”, mostrando ansia e


preoccupazione eccessiva in molte situazioni come quando vengono lasciati soli, quando
devono effettuare esperienze nuove o quando vengono chiamati a svolgere un compito.
Le ansie spesso riguardano la qualità delle loro prestazioni, anche se non devono essere
valutate da altri. Sul piano comportamentale presentano una tendenza a rifare le cose e
richiedono spesso l’approvazione e/o la rassicurazione di altre persone circa le loro
prestazioni.

Le Fobie. Paure ingiustificate di un oggetto o un evento, nei cui confronti il bambino ha


reazioni di angoscia. Gli elementi caratterizzanti sono: condotte di evitamento; angoscia
nei confronti dell’oggetto o dell’evento fobogeno; ansia anticipatoria. Il DMS-5
distingue due categorie: la fobia sociale (1) e la fobia specifica (2).

(1) Timore di situazioni che possono comportare sentimenti di umiliazione derivanti dal
giudizio dell’altro.

(2) Paure nei confronti di specifici oggetti o eventi.

Sintomatologia. Reazioni di angoscia che si traducono, sul piano comportamentale, in


pianto, ira e irrigidimento che comportano l’esigenza di stare vicino ad una persona
familiare. Nella Fobia Sociale, il bambino evita quelle situazioni che implicano il
giudizio di altre persone; in quella specifica, la reazione varia a seconda del grado di
vicinanza allo stimolo fobico che può essere un animale, un ambiente naturale,
sangue/infezioni/ferite, particolari situazioni come tunnel, ponti o ascensori.

DIAGNOSI. Si basa fondamentale sull’anamnesi, il colloquio con i genitori e


sull’osservazione del soggetto. Il processo diagnostico è finalizzato a: chiarire se i
comportamenti riferiti sono da considerare patologici; individuare gli elementi che
caratterizzano il disturbo; definire il profilo emotivo del soggetto. Se si tratta di un
disturbo patologico, bisogna valutare le caratteristiche, le modalità di esordio e le
circostanze che lo accentuano o attenuano. I dati che emergono rappresentano gli
elementi indispensabili per la formulazione del PTP.

TERAPIA. Fra gli interventi da prendere in considerazione, vengono indicati:

- Interventi Farmacologici. Ansiolitici come idrossizina, alcune benzodiazepine ed il


buspirone.

- Interventi Psicoterapeutici. Dipendono dall’orientamento a cui fanno riferimento. Ad


esempio, la terapia psicoanalitica cerca di condurre il soggetto all’elaborazione del
25
materiale inconscio rimosso; quella cognitivo-comportamentale cerca di modificare il
comportamento osservabile.

- Interventi psico-educativi.Prevedono una serie di incontri che rappresentano uno spazio


di ascolto e di parola, inserendo il soggetto in attività come la pratica di uno sport,
l’apprendimento di uno strumento musicale o esperienze di gruppo.

PROGNOSI. Nella maggioranza dei casi, i disturbi d’Ansia tendono a scomparire


nell’età adulta anche se, in alcuni casi, il disturbo persiste con fluttuazioni nel decorso.

Capitolo 10: I DISTURBI DEPRESSIVI.

I disturbi depressivi includono una serie di quadri clinici, il cui elemento caratterizzante
è rappresentato da un disturbo del tono dell’umore: l’umore depresso. I sottotipi di
maggiore interesse per l’età evolutiva sono:

- il disturbo depressivo maggiore, ricorrenza di uno o più episodi depressivi, intesi


come periodi di almeno due settimane;

- il disturbo depressivo persistente, in cui l’umore è cronicamente depresso. Nei


bambini, a differenza degli adulti in cui una condizione depressiva ha la durata di
almeno due anni, l’umore può essere irritabile e la durata minima per la formulazione
della diagnosi è solo di un anno.

CAUSE. Le cause della depressione non sono ben definite. I principali dati emersi dalle
indagini possono essere suddivisi in: fattori di rischio e modelli interpretativi della
clinica.

Fattori di rischio. Rientrano in questa categoria tutte quelle evenienze che risultano
frequentemente associate all’insorgenza di un disturbo depressivo.

Familiarità. I figli con uno dei genitori affetti da depressione presentano un rischio tre
volte superiore di manifestare un episodio depressivo rispetto al resto della popolazione.
I figli dei genitori depressi, inoltre, sono ad alto rischio anche per altri disturbi
psicopatologici come i Disturbi dello spettro autistico, i Disturbi d’ansia e i Disturbi
della personalità.

Disordini Neuroendocrinologici. Fra le alterazioni segnalate vi è una ridotta increzione


(funzione delle ghiandole endocrine: elaborazione o eliminazione di particolari sostanze
che vengono direttamente immesse nel sangue) di ormone della crescita, GH, dopo
stimolo.

26
Situazioni Familiari Inadeguate. Studi dell’ambiente familiare di pazienti depressi
hanno permesso di rilevare una maggiore frequenza di conflitti intrafamiliari, situazioni
di abuso, rifiuto o problemi di comunicazione.

Presenza di eventi stressanti. In circa il 70% dei casi l’esordio della depressione è
dovuto ad eventi come: separazioni prolungate dai genitori; divorzio dei genitori; morte
di uno dei genitori o di una persona significativa per il bambino; malattie dei genitori;
malattie del bambino con ospedalizzazioni.

Modelli interpretativi della clinica. In base alla modalità con le quali i fattori causali
possono determinare un disturbo depressivo, sono state formulate ipotesi differenti.

• Ipotesi Psicodinamiche. Freud nel 1915 elaborò una distinzione tra il lutto, ossia
la reale perdita di una persona significativa, e la melanconia, perdita fantasmatica
dell’oggetto d’amore. La depressione deriverebbe dai sentimenti di
autosvalutazione legati ad una rabbia intensa verso se stessi, per
un’identificazione dell’Io von l’oggetto amato perduto. Melanie Klein, invece,
ricondusse la depressione ad una fase dello sviluppo affettivo: la posizione
depressiva, ossia la fase in cui il bambino accede alla consapevolezza di aver
perso, a causa della sua avidità, gli oggetti buoni, sentendosi perseguitato da quelli
cattivi*. Entrambe le esperienze sottolineano l’importanza di esperienze precoci
che, quando sono frustranti, impediscono i normali processi di elaborazione.

*Melanie Klein ha identificato due fasi critiche nello sviluppo del bambino (primi due
anni di vita): la posizione schizo-paranoide e la posizione depressiva. Inizialmente il
bambino, per l’incapacità di percepire gli oggetti della loro interezza, opera una
scissione fra gli oggetti parziali buoni, che interiorizza, e quelli cattivi, che proietta
nell’ambiente esterno. Successivamente, nel corso dello sviluppo, il bambino
ricostruisce l’oggetto nella sua interezza, constatando che lo stesso oggetto può essere
sia buono che cattivo. Ciò comporta l’insorgenza di angoscia depressiva e di sensi di
colpa per i sentimenti ambivalenti di amore e di odio che prova verso lo stesso oggetto.

• Ipotesi Cognitivista. Secondo quest’ipotesi l’umore depresso si identifica con lo


stile cognitivo negativo, in rapporto al quale il bambino tende ad elaborare in
maniera atipica le esperienze per la sistematica attribuzione a se stesso di
caratteristiche negative e per la tendenza a ritenere che nessuno possa aiutarlo.
• Ipotesi Neurobiologica. Quest’ipotesi nasce dall’osservazione che alcuni farmaci
erano in grado di incidere sul tono dell’umore. In particolare, la reserpina, un
farmaco utilizzato contro l’ipertensione arteriosa, determinava in circa i 15% dei
pazienti una depressione, ricondotta all’effetto che tale farmaco svolge sulle
amine biogene (diminuzione della serotonina, l’ormone del buon umore). Al
contrario, i triciclici, farmaci in grado di aumentare la disponibilità delle amino
27
biogene, mostravano effetti antidepressivi. Tali osservazioni indussero ad
elaborare “la teoria aminergica della depressione”. Va, però, sottolineato che si è
ancora in attesa che la ricerca fornisca dati “certi”.

CLINICA. L’elemento caratterizzante la sintomatologia depressiva è l’alterazione del


tono dell’umore. Nei soggetti in grado di verbalizzare il loro stato, verranno fornite
descrizioni del tipo “mi sento depresso”, “mi sento triste”, “mi sento scoraggiato”, “mi
sento senza speranza”; nelle situazioni in cui il soggetto non è in grado di verbalizzare il
suo stato d’animo, la flessione del tono dell’umore si manifesta attraverso
un’espressione di tristezza, rarità del sorriso, pianto per motivi futili. Questo stato,
inoltre, si manifesta con la perdita di interessi da parte del soggetto che risulta incapace
di provare piacere, anche per le attività che lo avevano coinvolto in precedenza. Questi
disturbi si ripercuotono sulla qualità dell’interazione sociale e si presentano anche a
scuola, dove il bambino non mostra interesse a condividere esperienze e se ne sta seduto
da solo nel banco. Di conseguenza, anche il rendimento scolastico risulta inadeguato. Un
altro elemento caratteristico del disturbo depressivo è l’abbassamento dell’autostima,
che può essere: verbalizzata, cioè il bambino afferma di essere stupido o incapace di
eseguire compiti elementari; espressa attraverso determinati comportamenti come il
rifiuto di svolgere determinati compiti che, in altre occasioni, hanno dimostrato di saper
fare; tradotta nei reattivi mentali proiettivi. Associato all’abbassamento dell’autostima è
il senso di colpa. I disturbi somatici possono essere rappresentati da: eccessiva
faticabilità verbalizzata come mancanza di energia; alterazioni del ritmo sonno-veglia;
disturbi del comportamento alimentare; dolori vaghi alla testa, allo stomaco o alle
gambe.

ASPETTI EVOLUTIVI. La sintomatologia depressiva assume differenti modalità


espressive in rapporto all’età e al livello di maturazione del bambino. Nei primi due anni
di vita le manifestazioni depressive vengono espresse essenzialmente a livello
comportamentale attraverso il pianto frequente, la riduzione dei livelli di attività, uno
scarso interesse all’ambiente. A partire dai 3-4 anni le manifestazioni depressive, in
seguito all’evoluzione delle capacità di elaborazione degli affetti, vengono espresse
anche a livello fantasmatico (sogni, giochi, test proiettivi). Con l’inizio dell’adolescenza,
per l’ulteriore maturazione dell’apparato psichico, le manifestazioni depressive vengono
espresse sul piano della verbalizzazione.

DIAGNOSI. La diagnosi di depressione in età evolutiva non è sempre agevole, sia per le
caratteristiche della sintomatologia, sia per l’incapacità del bambino di verbalizzare i
propri stati d’animo. Il processo diagnostico è finalizzato a ricostruire le caratteristiche
dei sintomi, le caratteristiche dell’ambiente significativo, l’eventuale presenza di eventi
stressanti, il profilo di sviluppo del bambino nelle diverse aree funzionali. L’anamnesi va
poi integrata con l’osservazione diretta del bambino, con particolare attenzione rivolta al

28
gioco e al disegno che permettono di cogliere aspetti relativi al mondo interiore del
bambino.

TERAPIA. L’approccio terapeutico non può limitarsi alla cura del sintomo. Gli
interventi sono rappresentati essenzialmente da:

• Interventi psico-educativi. Interventi e provvedimenti di carattere generale che


cercano di assicurare condizioni di vita che consentano lo strutturarsi di nuovi
rapporti positivi, favorendo lo sviluppo di sentimenti di fiducia negli altri.
• Interventi psicoterapeutici. Rientrano in questo gruppo gli interventi ad
orientamento psicodinamico, che fanno riferimento al vissuto esperienziale del
soggetto, e le terapie cognitivo-comportamentali, che cercano di aiutare il
bambino a prendere coscienza dei pensieri negativi, apprendere strategie che gli
permettono di fronteggiare l’ansia e lo stress, valutare le situazioni in maniera più
“obiettiva”.
• Interventi farmacologici. Alcune categorie di farmaci utilizzati sono:
- gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina, per valutarne l’effetto
bisogna attendere circa due mesi e la durata del trattamento varia da 6 a 9 mesi.
Alcuni di questi sono il Citalopram e la Paroxetina;
- gli antidepressivi triciclici, la loro azione è legata al potenziamento del sistema
serotoninergico. Alcuni di questi sono l’imipramina e l’amitriptilina;
- gli stabilizzanti dell’umore, si tratta di farmaci anticonvulsivanti che hanno la
capacità di agire come stabilizzanti dell’umore come il Valproato.

PROGNOSI. Nella maggioranza dei casi l’episodio depressivo maggiore tende a


risolversi nel giro di qualche mese e resta un episodio unico nella vita del soggetto. In
altri casi, dal 6% al 10%, si possono verificare recidive più o meno frequenti.

DISTURBI CORRELATI ALLA DEPRESSIONE.

Il disturbo bipolare. In alcuni casi clinici la depressione lascia spazio al suo quadro
opposto, la mania, ossia l’elevazione del tono dell’umore che si esprime con un
eccitamento psicomotorio e con un senso di benessere e di gioia. Durante l’episodio i
sintomi caratterizzanti sono: autostima ipertrofica o grandiosità; diminuito bisogno di
sonno; spinta continua a parlare; fuga delle idee; distraibilità; agitazione psicomotoria.
L’episodio può presentarsi come episodio singolo, di intensità marcata e associate ad
episodi depressivi. Il DSM-5 include le diverse forme in un gruppo definito come
“Disturbi bipolari”.

29
CAUSE. Le cause non sono ben definite, anche se, fra i fattori di maggiore interesse,
assume particolare rilevanza la familiarità.

CLINICA. Nelle forme tipiche il quadro clinico è caratterizzato da episodi di


un’elevazione dell’umore, che si presenta euforico e particolarmente attivo. Il rapporto al
livello di sviluppo, il soggetto può presentare una verbalizzazione dei contenuti
improntata ad un egocentrismo esasperato e ad elevati livelli di autostima. Sono, inoltre,
presenti disturbi del sonno ed accentuata distraibilità. Spesso, il quadro clinico mette in
evidenza sintomi riferibili ad altri quadri psicopatologici come il Disturbo da deficit di
attenzione con Iperattività, Disturbo oppositivo-provocatorio o disturbi d’ansia.

DIAGNOSI. Nelle forme tipiche, le caratteristiche dell’episodio risultano fortemente


suggestive per un inquadramento diagnostico. Risulta importante accertare se, oltre i
sintomi maniacali il bambino presenti manifestazioni depressive.

TERAPIA. È sempre necessario prevedere un PTP, che permette di definire nel tempo le
caratteristiche di decorso. In aggiunta agli interventi educativi e psicoterapeutici, vanno
inclusi gli interventi farmacologici; possono essere utilizzati alcuni farmaci
anticonvulsivanti come il Valproato o neurolettici atipici come il Risperidone o
l’Olanzepina, mentre il carbonato di litio viene utilizzato a partire dall’età di 12 anni,
quando le forme cominciano a manifestarsi.

Il Disturbo da disregolazione dell’umore dirompente. Presenza di una situazione di


irritabilità permanente che incide sul funzionamento adattivo del soggetto (differenza
con il disturbo bipolare in cui lo stato di irritabilità è episodico). Il bambino sembra
costantemente arrabbiato per tutto e contro tutti e mostra esplosioni di ira. Le cause
scatenanti sono difficilmente riconoscibili. A causa dell’irritabilità, il soggetto viene
spesso evitato o avvicinato con modalità relazionali tese a non irritarlo che, di fatto,
alimentano una spirale in negativo in cui il bambino percepisce una sorta di non
accettazione da parte dell’altro con conseguenti vissuti di inadeguatezza. La diagnosi
può essere posta fra i 6 e i 10 anni, anche se l’esordio della sintomatologia può essere
collocato in epoche più precoci. I provvedimenti terapeutici sono di natura psico-
educativa.

Capitolo 11: I DISTURBI DELLO SPETTRO DELLA SCHIZOFRENIA.

La Schizofrenia è tra le malattie mentali dell’adulto più devastanti, sia per la precocità
del suo esordio che per la gravità della sintomatologia. Si tratta di un quadro clinico
complesso, caratterizzato da sintomi quali le allucinazioni, i deliri, i disturbi del
pensiero, i disturbi dell’affettività. Ciascuno di questi sintomi, però, può essere
considerato “schizofrenico” solo in presenza di altri sintomi.

30
Cenni storici. All’inizio del secolo scorso, grazie ai lavori di Potter, fu accettata l’idea
di una Schizofrenia Infantile che, tuttavia, presentava una sintomatologia condizionata
dal particolare periodo evolutivo. Successivamente, la diffusione delle teorie
psicoanalitiche influenzò l’approccio clinico e diagnostico ai quadri precedentemente
inclusi sotto l’etichetta di “Schizofrenia”. In particolare, la metodologia psicoanalitica,
interessata alla comprensione dell’esperienza soggettiva dell’individuo, portò alla
sostituzione del termine di “Schizofrenia” con quello di “Psicosi”. Nell’ambito delle
Psicosi Infantili, l’orientamento psicoanalitico individuò le Psicosi Precoci, oggi
classificate come Disturbi dello spettro autistico. Successivamente, il termine psicosi è
stato utilizzato per indicare i sintomi “psicotici”, indicativi di un disordine del
funzionamento mentale: allucinazioni, deliri e disorganizzazioni del pensiero. I sintomi
psicotici caratterizzano due quadri clinici: il primo in cui sono necessari e caratterizzanti,
ossia i Disturbi dello spettro schizofrenico e altri disturbi psicotici; il secondo in cui sono
frequenti ma non caratterizzanti come i Disturbi depressivi con sintomi psicotici e il
Disturbo bipolare.

La schizofrenia ad insorgenza in età evolutiva.

Definizione. Con il termine di Schizofrenia vengono indicati diversi quadri clinici


caratterizzati da un deterioramento della personalità e dalla presenza dei sintomi
psicotici come le allucinazioni, i deliri, la catatonia (persistere in un atteggiamento
corporeo), disorganizzazione ideativa. L’inizio della Schizofrenia si colloca tra i 18 e i
25 anni per i maschi e qualche anno più tardi per le femmine. Anche se raramente, la
Schizofrenia può insorgere anche durante l’infanzia e l’adolescenza. Viene operata,
inoltre, una distinzione tra la Schizofrenia ad insorgenza precoce, con esordio prima dei
18 anni, e la Schizofrenia ad insorgenza precocissima, con esordio prima dei 13 anni.

Cause. Le forme precoci di Schizofrenia, pur differenziandosi dalle forme dell’adulto,


condividono con esse la natura e le problematiche. Le cause della schizofrenia non
risultano ancora ben definite; tra le ipotesi più accreditate:

• Ipotesi genetiche. Le evidenze a favore di questa ipotesi sono: la frequente


familiarità per Schizofrenia e sindromi correlate; significativi valori di
concordanza nei fratelli, nei gemelli dizigoti ed ancor di più nei monozigoti, con
una percentuale del 50%. Abbandonato il modello monogenetico (gene della
Schizofrenia), viene attualmente privilegiato quello poligenetico, in cui la
Schizofrenia sarebbe il risultato della combinazione di più geni. La componente
genetica, tuttavia, sarebbe soltanto una predisposizione ad ammalarsi, poiché la
malattia dipenderebbe anche dai fattori ambientali.
• Ipotesi neurotrasmettitoriali. Particolare attenzione è stata rivolta allo studio del
profilo neurotrasmettitoriale dei soggetti affetti da schizofrenia, con particolare

31
coinvolgimento del sistema dopoaminergico. I circuiti dopoaminergici sono
principalmente quattro: nigro-striatale; mesolimbico; mesocorticale; tubero-
infundibolare. Di questi circuiti quelli maggiormente coinvolti nella patologia
sembrano essere il mesolimbico, in cui si avrebbe un incremento dei livelli di
dopamina (DA), ed il mesocorticale, in cui si verificherebbe un deficit di DA.
Oltre a quello dopoaminergico, sono stati chiamati in causa altri sistemi
neurotrasmettitoriali. Le vie serotoninergiche, ad esempio, sono coinvolte nella
modulazione degli impulsi; si ritiene, infatti, che un’iperattività serotoninergica
possa provocare una disfunzione responsabile dell’impulsività esasperata degli
schizofrenici, che può, talvolta, tradursi in comportamenti estremi come il
suicidio.
• Ipotesi neuroendocrinologiche. Strettamente connessa all’ipotesi
neurotrasmettitoriale è la ricerca di specifiche alterazioni neuroendocrine. Si
dovrebbe, infatti, verificare un’ipersecrezione del GH ed una riduzione dei livelli
di prolattina come conseguenza all’iperattività dopaminergica.
• Ipotesi neuropatologiche. Le ricerche effettuate in questo senso hanno messo in
evidenza alterazioni dei lobi frontali e temporali, del cervelletto e del sistema
mesolimbico. Resta da definire se esse abbiano un ruolo primario, ossia come
causa della Schizofrenia, o se abbiano un ruolo secondario, ossia come
conseguenza della Schizofrenia.
• Ipotesi psicogenetiche. Secondo queste ipotesi la Schizofrenia sarebbe una
conseguenza di una globale incapacità di dominare pulsioni libidiche e/o
distruttive molto potenti. L’approccio psicoanalitico, in particolare, ha sempre
posto la figura materna quale elemento critico nella genesi del disturbo
schizofrenico. Attualmente, però, la responsabilità materna è stata attenuta con il
ricorso al modello della corrispondenza “madre-bambino”. Secondo tale modello,
infatti, il fallimento delle prime relazioni non è imputabile alla mamma, poiché
potrebbe essere dovuto ad un bambino con una barriera agli stimoli danneggiata
per fattori genetico-costituzionali. Ricerche recenti hanno spostato l’attenzione
dalla madre all’organizzazione familiare e sulla comunicazione all’interno del
gruppo sociale del bambino, mettendo in evidenza che l’assenza di una
comunicazione reale induce ne bambino un bisogno di ottenere risposte, espresso
da reazioni abnormi. Un’altra forma di comportamento distorto è il cosiddetto
“doppio legame” che si verifica quando il bambino riceve da un genitore,
generalmente la madre, un messaggio e contemporaneamente un messaggio di
contenuto opposto da un altro componente della famiglia. Nell’impossibilità di
uscire da questa situazione il bambino adotterebbe una doppia risposta e il
disorientamento continuo darebbe origine alle psicosi. Le ipotesi psicodinamiche
e relazionali, attualmente, assumono una rilevanza decisamente inferiore rispetto

32
al passato, ma restano comunque importanti per l’influenza del decorso e della
prognosi della malattia.
• Ipotesi della vulnerabilità allo stress. Attualmente l’orientamento prevalente è
quello di considerare la Schizofrenia come un disturbo su base neurobiologica a
genesi multifattoriale, riconducibile alla complessa interazione fra i fattori
genetici e i fattori ambientali. Si tratterebbe di una serie di squilibri
neurotrasmettitoriali, alterazioni recettoriali e disordini nei collegamenti
funzionali tra le varie strutture encefaliche. Nel loro insieme queste anomalie
costituiscono l’endofenotipo che corrisponde alla “predisposizione” e l’azione
dell’ambiente sull’endofenotipo può favorire la comparsa della Schizofrenia
(esofenotipo). Il fattore ambiente, invece, viene denominato ecotipo ed include:
contesto relazionale del bambino, fattori emozionali, fattori organici (igiene, stato
nutrizionale, abitudini di vita). Tra i fattori ambientali, in particolare, vi sono
quelli di protezione, che impediscono l’attualizzazione dello stato di malattia, e
quelli di rischio che, invece, ne determinerebbero l’attuazione.

Sintomi caratteristici. Sono rappresentati da due raggruppamenti sintomatologici:

- I sintomi positivi, riflettono un’alterazione quantitativa, in eccesso, di una serie di


funzioni mentali. Includono: distorsioni o esagerazioni del pensiero deduttivo, della
percezione, del linguaggio e della comunicazione, del controllo dei comportamenti.
Distinguiamo la dimensione psicotica (deliri ed allucinazioni) e la dimensione
disorganizzativa (eloquio e comportamenti disorganizzati).

- I sintomi negativi, riflettono un’alterazione qualitativa, in difetto, di una serie di


funzioni mentali. Riguardano: limitazione nell’intensità delle espressioni emotive, nella
fluidità del pensiero e dell’eloquio.

Decorso. Il quadro schizofrenico riconosce, tipicamente, una storia naturale


caratterizzata da 3 fasi: 1. La fase prodromica; 2. La fase attiva; 3.La fase residua.

1. La fase prodromica: è caratterizzata da un progressivo cambiamento del modo di


essere e di comportarsi del soggetto. Gli aspetti che maggiormente “segnalano” questo
cambiamento sono: impoverimento degli interessi sociali, con comparsa di condotte di
evitamento, e calo del rendimento scolastico o lavorativo. Il sintomo prevalente è l’ansia
che può assumere un’intensità crescente fino a divenire un profondo stato di angoscia.
Viene segnalata, talvolta, la comparsa di interessi bizzarri (scienze occulte) cui il
ragazzo si dedica con molta dedizione a scapito delle relazioni sociali. Un altro sintomo
di questa fase è la comparsa di preoccupazioni somatiche immotivate, che variano da
dolori vaghi ad insistenti dismorfofobie (fobia che nasce da una visione distorta che si ha
del proprio aspetto esteriore). Possono, inoltre, comparire esperienze di
depersonalizzazione nelle sue diverse forme (auto psichica: sensazione di perdere la
33
propria identità; allo psichica: la realtà esterna sembra trasformata e minacciosa;
somatica: sentire il proprio corpo come estraneo). L’esordio di questa fase può essere
acuto o lento; la durata può variare da pochi giorni ad alcune settimane (esordio acuto) o
da mesi ad anni (esordio lento).

2. La fase attiva: ha inizio con la comparsa dei sintomi psicotici propriamente detti
come allucinazioni, deliri e disorganizzazione del pensiero. La durata della fase è
variabile, in rapporto anche alla risposta alla terapia.

3. La fase residua: è caratterizzata da un’attenuazione dei sintomi psicotici. Ad


esempio, i soggetti possono presentare convinzioni bizzarre o in abituali, ma che non
hanno un’intensità tale da essere considerate deliranti. I sintomi che maggiormente
caratterizzano questa fase sono quelli legati alla sfera relazionale e al rendimento
scolastico/lavorativo.

Caratteristiche cliniche delle forme precoci. Le forme precoci sembrano mostrare una
prevalenza per il sesso maschile. Inoltre, il soggetto sembrerebbe presentare un profilo di
sviluppo premorboso, caratterizzato, cioè, da disordini dello sviluppo relativo a diverse
aree funzionali: difficoltà di apprendimento, compromissione del comportamento
sociale, ritardi del linguaggio, disordini dello sviluppo motorio. L’esordio delle forme
precoci è mal definito, con una fase prodromica lenta e di lunga durata; spesso, inoltre, il
“cambiamento” si esprime con un’accentuazione di disordini pre-esistenti, il che può
portare alla formulazioni di diagnosi fuorvianti come il Disturbo da deficit di attenzione
con iperattività, Disturbo di ansia generalizzata, Fobia Sociale. I sintomi caratteristici,
anche se simili alle forme dell’adulto, sono differenti in relazione alle caratteristiche del
funzionamento mentale legato all’età.

v Allucinazioni, prevalgono quelle uditive sottoforma “di comando” rispetto a


quelle adulte in cui sono “di commento”.
v Deliri, caratterizzati da tematiche riguardanti mostri ed animali. Variano con
l’età: ad esempio, un bambino di 12 anni affetto da Schizofrenia rifiutava di uscire
dalla sua stanza, perché convinto che gli spigoli si allungassero per impedirgli gli
spostamenti.
v Eloquio disorganizzato, si tratta di uno dei sintomi più difficili da valutare a
causa della fisiologica incompetenza linguistica del bambino.
v Comportamento grossolanamente disorganizzato e catatonico, caratterizzato
dalla presenza di crisi di agitazione imprevedibili ed inspiegabili.
v Sintomi negativi, caratterizzati da un rallentamento ideomotorio, povertà delle
espressioni mimiche e scarsa disponibilità alle interazioni sociali.

Diagnosi. La diagnosi è particolarmente difficile, in quanto i sintomi psicotici si


ritrovano in diverse situazioni psichiatriche non schizofreniche. Il processo diagnostico

34
deve prevedere: un’attenta anamnesi, finalizzata a valutare le modalità di esordio delle
manifestazioni psicotiche, eventuale presenza di eventi psicotici pregressi, l’eventuale
presenza di fattori “scatenanti”; un esame medico generale, per valutare l’eventuale
presenza di condizioni morbose predisponenti o favorenti la sintomatologia attuale; un
esame neuropsichiatrico esaustivo, volto a definire il profilo funzionale del soggetto in
tutte le aree funzionali.

Terapia. La terapia si configura come un progetto terapeutico articolato, caratterizzato


dai seguenti interventi:

- Farmacologici. I neurolettici tipici, come l’aloperidolo, hanno una buona efficacia,


tuttavia presentano alcuni effetti collaterali come sedazione, discinesie, sintomi
extrapiramidali; quelli atipici sembrerebbero, invece, avere una minore capacità di
provocare effetti collaterali.

- Psico-educativi, comprendono la presa in carico delle figure dell’ambiente


significativo.

- Psicoterapeutici, vanno definiti in base alle caratteristiche del soggetto.

Le manifestazioni psicotiche in età evolutiva. Rappresentano un disordine del


funzionamento mentale che si esprime con allucinazioni,deliri e disturbi del pensiero.
Tuttavia, questi sintomi, sono legati a molti quadri clinici quali: i Disturbi dell’Umore
(depressione: deliri ed allucinazioni denigranti; disturbo bipolare: deliri di grandezza); il
Disturbo Post-traumatico da Stress (durata inferiore ad un mese con completa
risoluzione); i Disturbi dello spettro autistico (compromissione dell’interazione sociale
ed episodi di allucinazioni e deliri che non sfociano in un decorso di tipo schizofrenico);
condizioni mediche generali (epilessie: annebbiamento, ansia e vissuti di
depersonalizzazione; encefalopatie metaboliche ed eredo-degenerative: malattia di
Wilson e leucodistrofia metacromatica); abuso di sostanze (allucinogeni, cannabis)*; la
“Bouffée Delirante Acuta” (episodio psicotico acuto e particolare alterazione dello stato
di coscienza: stato onirico; durata breve e completa risoluzione); Sindrome Borderline.

*Diverse sostanze stupefacenti possono indurre la comparsa di manifestazioni psicotiche


che presentano, tuttavia, solo una relazione causale con l’assunzione della sostanza, sono
di breve durata e si risolvono con l’eliminazione della sostanza dall’organismo.

SINDROME BORDERLINE.

Il termine borderline significa letteralmente “stato di confine” e sta ad indicare differenti


situazioni caratterizzate da manifestazioni psicotiche. Secondo la prospettiva
psicoanalitica, i quadri “borderline” rappresentano uno stato di confine tra la nevrosi e le
psicosi. Secondo la prospettiva clinico-descrittiva, tale termine viene utilizzato per

35
indicare un quadro che assomiglia: al Disturbo di Personalità Borderline dell’adulto; alla
Schizofrenia, ma non ne condivide le caratteristiche di stato e di decorso; assomiglia ai
Disturbi dello Spettro Autistico, ma la compromissione comunicativa e sociale non
assume mai l’intensità tipica di tali quadri; assomiglia ai Disturbi d’ansia e ai Disturbi
depressivi.

Quadro clinico. Il sintomo prevalente è l’ansia, diffusa e non controllata che si


configura come paura dell’ambiente ed induce fantasie persecutorie. I contatti sociali
sono evitati e vi è una disarmonia dello sviluppo “strumentale”.

Criteri diagnostici. Viene classificato in una categoria nosografica autonoma


denominata DISTURBO MULTIPLO E COMPLESSO DELO SVILUPPO.

Approccio diagnostico-terapeutico. È necessario mettere in atto un processo


finalizzato a definire: natura psicotica delle manifestazioni, la presenza di eventi
particolarmente stressanti, le abitudini di vita del soggetto, le caratteristiche del contesto
ambientale.

Capitolo 14: LE PARALISI CEREBRALI INFANTILI.

Le Paralisi Cerebrali Infantili vengono definite come disordini della postura e del
movimento, permanenti ma non invariabili dovuti ad una encefalopatia non evolutiva
(encefalopatia fissa). Questa definizione comprende un gruppo eterogeneo di differenti
quadri patologici che presentano come elemento comune il disturbo della postura e del
movimento che accompagna il soggetto nel corso della sua vita. Si tratta di un danno
encefalico che si verifica in epoca precoce. Un altro aspetto caratterizzante dei differenti
quadri clinici è una serie di limitazioni delle attività del soggetto, che riguarda
l’impossibilità di svolgere in maniera adeguata determinati compiti previsti dall’età e dal
livello di sviluppo. Tale limitazioni non riguardano soltanto le abilità motorie, ma anche
altri campi del funzionamento come l’apprendimento, il comportamento, le competenze
comunicativo-linguistiche o l’adattamento emozionale. La classificazione delle Paralisi
Cerebrali Infantili è sempre stato un argomento moto dibattuto. Attualmente si fa
riferimento a due criteri classificatori: quello clinico e quello topografico.

Classificazione clinica. Fa riferimento alla natura dei sintomi neurologici che


caratterizzano il quadro clinico. Questa classificazione tiene conto del fatto che, nella
realizzazione dell’azione motoria, il Sistema Nervoso Centrale assume il doppio compito
di pensare e pianificare il movimento, per mandarlo poi in esecuzione attraverso stimoli
che giungono ai muscoli. Nell’esecuzione del movimento ci sono tre strutture
particolarmente coinvolte:

- le aree motorie della corteccia: sono rappresentate dalla corteccia premotoria, dalla
corteccia motoria primaria, dall’area motoria supplementare e dall’area motoria parietale
36
posteriore. I cilindrassi (assoni) dei neuroni di tali aree, ossia i motoneuroni, discendono
verso il midollo come tratto corticospinale. L’80% di tali fibre discende nel midollo
come tratto corticospinale laterale, mentre l’altro 20% discende come tratto
corticospinale anteriore. Le fibre dei tratti corticospinali prendono contatto con i
motoneuroni spinali direttamente o indirettamente, attraverso un interneurone. il
cilindrasse di questo secondo motoneurone, unitamente ai cilindrassi di altri
motoneuroni, fuoriesce dal midollo come nervo per raggiungere i muscoli. Le aree
motorie della corteccia prendono connessione fra loro ed inviano fibre dirette ai nuclei
della base, al tronco dell’encefalo e al cervelletto. Particolare importanza riveste il tratto
corticoreticolare. Tali fibre entrano in giunzione sinaptica con i nuclei della formazione
reticolare pontina e bulbare, da cui partono fibre dirette al midollo (tratto
reticolospinale). Si viene, per tanto, a formare il sistema corticoreticolospinale che
svolge un ruolo molto importante nella definizione dei movimenti e nella loro
armonizzazione. Le alterazioni che investono questo sistema determinano l’insorgenza
sul piano clinico di una sintomatologia definita piramidale, caratterizzata da una
compromissione funzionale (paralisi), cui si associano: ipertono spastico, iperrflessia
profonda e riflessi patologici come il segno di Babinski.

- il cervelletto: insieme ai sistemi di fibre ad esso collegate (vie nervose afferenti ed


efferenti), viene indicato come sistema cerebellare. Il cervelletto riceve afferenze dalla
periferia e dalle altre strutture dell’encefalo. Dai nuclei cerebellari partono poi le fibre
dirette alla corteccia. Per questa sua posizione centrale, il cervelletto risulta determinante
in tre funzioni: l’inizio e la pianificazione del movimento; la coordinazione del
movimento; l’aggiustamento della postura nell’esecuzione del movimento ed il
mantenimento dell’equilibrio. Le alterazioni del cervelletto si traducono in un quadro
sindromico in cui prevalgono alcuni sintomi caratteristici come l’ipotonia, l’atassia e la
dismetria.

- i nuclei della base: sono: il nucleo caudato, il globus pallidus e il putamen. Il nucleo
caudato e il putamen formano, nel loro insieme, il nucleo striato che rappresenta la
maggiore stazione di arrivo delle fibre, mentre il globus pallidus rappresenta la maggiore
stazione di partenza delle fibre. Le lesioni dei nuclei della base possono assumere due
forme espressive tra loro opposte: la prima è caratterizzata da acinesia (assenza di
movimenti) ed ipertonia muscolare; la seconda forma è caratterizzate da discinesia
(presenza di movimenti involontari abnormi) e da ipotonia muscolare.

Una prima classificazione può essere effettuata in base alla struttura anatomica
interessata dal danno: le lesioni del sistema piramidale causano le forme spastiche; le
lesioni del sistema cerebellare causano forme atassiche; le lesioni dei nuclei della base
causano forme discinetiche; le lesioni di più sistemi causano forme miste.

37
La forma spastica è caratterizzata da: presenza di schemi patologici di postura e di
movimento, aumento del tono muscolare, anomalie dei riflessi. Può essere bilaterale, se
sono coinvolti gli arti di entrambi i lati del corpo, o unilaterale, se sono coinvolti gli arti
di un solo lato del corpo.

La forma atassica è caratterizzata da: presenza di schemi patologici di postura e di


movimento e disturbo della coordinazione dinamica.

La forma discinetica è caratterizzata da: presenza di schemi patologici di postura e di


movimento; presenza di movimenti involontari e stereotipati. Può essere distonica,
caratterizzata da ipocinesia e ipertonia, o coreo-atetosica, caratterizzata da ipercinesia e
ipotonia.

Classificazione topografica. Si basa sulla distribuzione prevalente della


compromissione motoria, cioè se interessa tutto il corpo o se è localizzata in determinati
segmenti corporei. Distinguiamo:

- Tetraplegia, compromissione dei quattro arti;

- Emiplegia, compromissione di un emilato;

- Diplegia, compromissione dei quattro arti con prevalenza di quelli inferiori;

- Triplegia, compromissione di tre arti;

- Paraplegia, compromissione degli arti inferiori;

- Monoplegia, compromissione di un solo arto.

Distribuzione delle PC. Le Forme Spastiche sono le più frequenti rappresentando circa
l’84% dei casi, mentre nell’ambito delle forme spastiche l’emiplegia e la diplegia sono le
forme più rappresentate. Un fattore che sembra incidere in maniera determinante è
rappresentato dalla prematurità e/o dal basso peso alla nascita.

Cause, neuropatologia e fattori predisponenti. Con il termine cause vengono indicati i


fattori capaci di determinare il danno anatomico; con il termine neuropatologia vengono
indicate le caratteristiche del danno anatomico; con il termine fattori predisponenti
vengono indicate quelle situazioni che si ritiene che possano favorire l’insorgenza di una
PC. I rapporti fra cause, neuropatologia e fattori predisponenti non sono ancora ben
definiti, per tanto bisognerebbe evitare la tendenza ad attribuire il significato di causa a
fattori che sono soltanto occasionalmente associati. Tenendo conto di tali limitazioni, i
tre aspetti possono essere descritti nel modo seguente:

• Cause: sono di diversa natura e possono agire in diverse epoche dello sviluppo.
Le cause prenatali si riferiscono ai fattori che possono incidere prima o durante la

38
gravidanza, come i fattori genetici, le infezioni (rosolia e toxoplasmosi),
intossicazioni (farmaci, fumo, alcool o sostanze stupefacenti. Le cause perinatali
si riferiscono ai fattori che possono incidere durante il parto o durante la prima
settimana di vita, come tutte le situazioni che possono determinare una distocia
del parto (difficoltà che ostacola il normale svolgimento del parto) e tutte le
situazioni che possono incidere nell’immediato adattamento del neonato. Le cause
postnatali si riferiscono alle condizioni patologiche che si verificano dopo la
prima settimana di vita come le infezioni o le intossicazioni.
• Neuropatologia: sono le alterazioni che si riscontrano a carico del sistema
nervoso e sono rappresentate da malformazioni, lesioni ipossico-ischemiche
(alterazioni che rappresentano gli esiti di una sofferenza del sistema nervo
centrale dovuta ad una ridotta disponibilità di ossigeno) ed emorragie
endocraniche (vengono suddivise in: subdurali, subaracnoidee, intracerebellari,
intraparenchimali, intraventricolari).

Leucomalacia: significa letteralmente rammollimento della sostanza bianca ed è


una lesione dell’encefalo immaturo che assume aspetti diversi in rapporto al grado
di maturazione dell’encefalo. Essa può: essere limitata all’area adiacente al corno
posteriore del ventricolo laterale; interessare le aree adiacenti ai corni anteriore e
posteriore del ventricolo laterale; estendersi a tutta la parete dei ventricoli laterali;
investire la sostanza bianca sottocorticale.

• Fattori Predisponenti: sono rappresentati da quelle situazioni che si trovano


frequentemente associate alle PC. Tra i fattori predisponenti particolare
importanza assumono il ridotto accrescimento intrauterino e la nascita pretermine,
prima della trentasettesima settimana di gestazione. Per i neonati di peso inferiore
a 1500 gr il tasso di prevalenza e stimati intorno al 65%, per quelli di peso fra i
1500 gr e i 2500 gr è del 10%, per i neonati di peso superiore ai 2500 gr è di
1,2%. Nel cercare di interpretare le cause della maggiore incidenza delle PC nei
nati pretermine e/o di basso peso, sono possibili in via teorica due modelli.
Secondo il primo modello il danno encefalico è antecedente la nascita, mentre in
accordo al secondo modello il danno encefalico si determinerebbe in epoca
perinatale.

Quadri clinici. I fattori che contribuiscono a conferire eterogeneità al gruppo


possono essere inclusi in due raggruppamenti: fattori legati all’espressività del
disturbo della postura e del movimento (natura del sistema motorio prevalentemente
interessato, estensione dei distretti corporei interessati dal disturbi, severità della

39
compromissione motoria) e fattori legati alla presenza di altri disturbi, cioè i disturbi
associati (disturbi dell’alimentazione, disabilità intellettiva, disturbi del linguaggio,
manifestazioni parossistiche epilettiche).

L’EMIPLEGIA CONGENITA.

È una forma di paralisi cerebrale in cui il deficit motorio interessa un emilato, in circa
il 75% dei casi si sospetta una causa prenatale e nel 25% dei pazienti si registra una
nascita pretermine. Dipende da lesioni dell’arteria cerebrale media, in particolare
un’ostruzione vascolare. Un altro aspetto frequente è la dilatazione di uno dei due
ventricoli laterali. Sul piano clinico i sintomi caratterizzanti emiplegia sono la paresi
e la spasticità a carico dell’emilato interessato con prevalenza degli arti superiori.
L’atteggiamento dell’arto superiore è molto caratteristico: si presenta flesso, con
avambraccio supinato, polso flesso, dita ipertese e pollice addotto. Sul piano
neurologico, si rilevano i segni tipici della lesione piramidale come l’ipertonia
spastica e l’aumento dei riflessi. I primi segni del deficit comincino a presentarsi tra i
3 e i 6 mesi; lo sviluppo psicomotorio è caratterizzato da un ritardo delle principali
acquisizioni motorie, ma la deambulazione autonoma viene raggiunta dal 100% dei
pazienti. L’entità della compromissione funzionale è molto variabile: si passa da casi
molto gravi in cui non vi è alcun uso dell’arto paretico, a casi lievi in cui la
compromissione si riduce soltanto ad un uso preferenziale dell’arto sano. Tra i
disturbi associati, l’epilessia rappresenta una delle evenienze più frequenti; spesso è
accompagnata dalla disabilità intellettiva da cui derivano i disturbi del linguaggio.

LA DIPLEGIA CONGENITA.

È una forma di PC in cui sono interessati entrambi gli emilati, con prevalenza degli
arti inferiori rispetto a quelli superiori. La compromissione degli arti superiori è
evidente solo nelle prime fasi di sviluppo, progressivamente si attenua nel tempo, per
cui il quadro risulta essere dominato dal deficit motorio agli arti inferiori. È molto più
frequente che in passato, e rappresenta circa il 45% dei casi di PC. Vengono
individuate due forme:

- la diplegia spastica: è frequentemente associata ad una nascita pretermine ed ha una


frequenza del 75%. La lesione caratteristica è la leucomalacia periventricolare, cioè
una lesione delle aree adiacenti i ventricoli laterali. L’elemento caratterizzante è
l’ipertonia spastica a carico degli arti inferiori. L’entità della compromissione
funzionale è variabile e va da forme gravi, in cui non viene raggiunta la capacità di
deambulazione autonoma, a forme lievi, in cui viene raggiunta la capacità di
deambulare autonomamente. La patologia si manifesta fra i 3 e i 6 mesi di vita, lo
sviluppo psicomotorio risulta ritardato; l’epilessia rappresenta un’evenienza rara.

40
- la diplegia atassica: si differenzia dalla forma spastica per la presenza, sul piano
neurologico, di una componente cerebellare, cioè l’atassia (perdita della ordinazione
muscolare).

LA TETRAPLEGIA.

È la forma più grave di PC. Le cause prenatali, perinatali e postnatali agiscono nello
stesso modo. Dominano i segni di natura piramidale e vi è una marcata
compromissione funzionale che investe le capacità motorie, il linguaggio,
l’alimentazione e la respirazione. L’epilessia rappresenta una complicanza
relativamente frequente, mentre la Disabilità Intellettiva è abituale.

LE PARALISI CEREBRALI DISCINETICHE.

Si tratta di una disabilità nell’organizzare ed eseguire in maniera corretta movimenti


intenzionali, nel coordinare quelle reazioni automatiche alla base del movimento e
nel mantenere stabilmente una postura. Si tratta di disturbi legati ad una lesione delle
strutture extrapiramidali. Distinguiamo due forme:

- le forme atetoidi, caratterizzate dalla presenza di ipercinesie involontarie degli arti e


della muscolatura facciale;

- le forme distoniche, caratterizzate dalla presenza di brusche modificazioni del tono


a carico della muscolatura del tronco.

La causa è riferibile ad una sofferenza perinatale. Si manifestano a partire da 2/3 mesi


per poi presentarsi nella sua completezza intorno ai 2 anni. Spesso, il primo sintomo
d’allarme di una forma discinetica è l’eccessiva frequenza con cui il bambino tiene la
bocca aperta; un altro sintomo costante è la scialorrea (eccessiva produzione di
saliva) l’intelligenza è normale in circa l’85% dei pazienti.

LE PARALISI CEREBRALI ATASSICHE.

Le PC di tipo atassico costituiscono circa il 10-15% di tutte le forme di PC e i fattori


ritenuti responsabili sono quelli prenatali. Le prime, manifestazioni cliniche sono
rappresentate dall’ipotonia, oscillazioni del tronco nel mantenimento della posizione
seduta, atassia e tremori nei movimenti di afferra mento dell’oggetto. Si manifesta
intorno ai 2/3 anni ed è compatibile con l’acquisizione della deambulazione
autonoma; il 50% dei bambini presenta un deficit intellettivo di grado lieve. In alcuni
casi, l’atassia assume una particolare severità che investe il controllo del tono
posturale (i bambini, posti in stazione eretta, tendono a cadere).

Diagnosi. Le PC sono riscontrabili nella loro completezza solo dopo i primi anni di
vita. Va posta particolare attenzione alle cosiddette “età-chiave” dello sviluppo

41
psicomotorio, in quanto risultano idonee per la formulazione della diagnosi. Tali età-
chiave sono:

- 1° mese di vita (età del sospetto): le alterazioni riguardano anomalie del pianto,
disturbi del ritmo sonno-veglia e posture obbligate; queste alterazioni suggeriscono di
dedicare attenzione al caso.

- 4° mese di vita (età di orientamento): i segni rilevati forniscono indicazioni che


vanno al di là di un semplice sospetto. Sono: inadeguato controllo del capo, tremori e
indifferenza per l’oggetto.

- 9° mese di vita (età della certezza): i sintomi rilevati sono indicativi di un danno
funzionale che non configura tuttavia un definito quadro clinico.

- 12° mese di vita (età della diagnosi): viene definito il tipo di paralisi cerebrale.

- 18° mese di vita (età della prognosi): viene definita la compromissione e


formulata una previsione sul grado di incidenza della patologia sulle capacità del
soggetto.

Terapia. Le PC rappresentano condizione che, pur modificandosi nel tempo,


accompagnano il soggetto nel suo sviluppo; pertanto il PTP deve essere riformulato
periodicamente in rapporto alle esigenze che il soggetto presenta nel corso dello
sviluppo. I principali interventi possono essere diretti sul bambino o sull’ambiente.

INTERVENTI DIRETTI SUL BAMBINO.

Trattamenti riabilitativi: l’organizzazione del programma degli interventi va


organizzato per aree funzionali.

Area delle Abilità Motorie. Tale area risulta quella maggiormente compromessa. Gli
interventi sono finalizzati a favorire la comparsa delle competenze posturali e
motorie. Il metodo più utilizzato è quello Bobath che prevede l’inibizione dell’attività
posturale riflessa abnorme e la facilitazione degli schemi motori e posturali normali.
Particolare spazio viene riservato alle problematica relazionali legate a queste
situazioni (vengono suggeriti esercizi che devono essere effettuati tra madre e
bambino). L’intervento sulle competenze posturali e motorie segue il soggetto nel
suo sviluppo prevedendo stimolazioni nuove basate sulle acquisizioni già raggiunte.
Gli obiettivi devono essere possibili, cioè alla portata delle capacità del bambino, ed
utili, mirare cioè all’acquisizione di competenze motorie.

Risultano compromesse anche altre funzioni: muscolatura oro-glosso-faringea,


coordinazione visuo-motoria, meccanica respiratoria.

42
Area delle abilità Comunicativo-Linguistiche. Tali interventi mirano a
padroneggiare alcuni disturbi tipici delle PC come la disartria (disturbo
dell’articolazione della parola). Vengono indicati esercizi di respirazione, di
imitazione e di produzione sonora; in alcuni casi vengono considerati programmi di
comunicazione alternativa.

Area delle abilità Cognitive. In alcuni casi il disturbo motorio si associa a deficit
delle funzioni cognitive. Gli interventi si diversificano in rapporto all’entità della
compromissione e all’età del soggetto. Nel primi anni di vita gli esercizi sono volti a
favorire i processi di classificazione e discriminazione percettiva; negli anni
successivi, mirano a facilitare l’apprendimento ed il padroneggiamento di nuovi
sistemi di conoscenza come la lettura, la scrittura ed il calcolo.

Trattamento farmacologico. Le possibilità di trattamento farmacologico sono molto


basse. Spesso vengono utilizzati miorilassanti, rivolti alla riduzione della spasticità.

Interventi ortopedici. Sono rivolti a correggere posizioni non ancora fissate, a


favorire un corretto atteggiamento posturale ed a permettere il mantenimento della
stazione eretta o della deambulazione.

Interventi chirurgici. Va citata la rizotomia selettiva dorsale. L’intervento consiste


nella sezione di fibre delle radici posteriori lombari e sacrali; riduce in maniera
sensibile la spasticità.

INTERVENTI DIRETTI SULL’AMBIENTE.

Interventi sulla famiglia. Deve essere messa in condizione di garantire continuità al


trattamento abilitativo e di favorire un soddisfacente adattamento emozionale del
paziente. Uno degli obiettivi fondamentali è quello di favorire la partecipazione del
soggetto all’ambiente, tenendo conto delle sue difficoltà. Un problema molto
frequente è legato alle difficoltà alimentari (masticazione, deglutizione e reflusso).
Esse vanno affrontate dal terapista, ma devono essere gestite dai genitori che devono
essere informati e guidati.

Interventi sulla scuola. Bisogna prevedere interventi organici, articolati in periodici


incontri con gli insegnanti, dove devono essere affrontati aspetti tecnici ed emotivi.

Prognosi. Il disturbo neuromotorio che caratterizza le PC è permanente, ma


variabile; sono possibili miglioramenti in termini di autonomia ed inserimento
sociale. Un altro fattore che incide in maniera determinante sulla prognosi è il livello
intellettivo che, se risulta essere adeguato permette una soddisfacente integrazione
sociale del soggetto.

Capitolo 16: LE MANIFESTAZIONI PAROSSISTICHE.


43
Le manifestazioni parossistiche indicano crisi di breve durata , caratterizzate da
fenomeni di diversa natura che possono associarsi a disturbi della coscienza. Derivano
da una disorganizzazione dell’attività cerebrale e sono particolarmente frequenti in età
evolutiva, in relazione all’immaturità del sistema nervoso. Le manifestazioni
parossistiche vengono suddivise in due gruppi:

A. Le manifestazioni parossistiche epilettiche;


B. Le manifestazioni parossistiche non epilettiche.

A. LE MANIFESTAZIONI PAROSSISTICHE EPILETTICHE.

Le epilessie

L’epilessia è la più frequente delle malattie croniche dopo il Ritardo Mentale. Esordisce
nell’infanzia e nell’adolescenza nell’80% dei casi, con conseguenze psicologiche e
sociali devastanti. Occorre, però, precisare che, quando parliamo di convulsioni, non
possiamo associarle all’epilessia. In età evolutiva, infatti, sono frequenti crisi occasionali
come le convulsioni febbrili. La crisi convulsiva deriva da una scarica improvvisa di
neuroni situati in una determinata area cerebrale. Una singola crisi non significa
epilessia. Esistono molti tipi di crisi epilettiche, con caratteristiche differenti; in Italia
vivono oltre 500.000 persone colpite da questa malattia e ogni anno di verificano circa
25.000 nuovi casi.

Cause. Le epilessie sono classificate come: idiopatiche, causate dai fattori genetici;
criptogeniche, si suppone una causa lesionale tuttavia non dimostrabile; lesionali, dovute
a causa nota.

Fisiopatologia delle crisi epilettiche. I fattori genetici e i fattori lesionali agiscono sul
neurone alterandone la soglia di eccitabilità: i neuroni raggiungono una eccitabilità
abnorme quando la membrana neuronale non può iperpolarizzarsi e, così, producono la
scarica. La scarica epilettica tende a diffondersi ad altre aree cerebrali secondo due
modalità: (1) la scarica origina dalle strutture reticolari centroencefaliche e, in questo
caso, si parla di crisi primitivamente generalizzate; (2) la scarica origina nella corteccia
cerebrale potendo rimanere limitata ad un’area corticale specifica (crisi focali) o
diffondere a strutture più profonde come i nuclei talamici e l’ippocampo
(secondariamente generalizzata).

Iter diagnostico. Per formulare una diagnosi di epilessia sono necessari due elementi: il
riscontro di una crisi di sicura natura epilettica e la tendenza delle crisi a ripetersi. Nei
confronti di un bambino che abbia presentato una crisi, è necessario intraprendere un iter
diagnostico volto a comprenderne la natura. Il primo compito del medico è quello di
effettuare un’indagine anamnestica che permetterà di capire se, all’interno della famiglia
44
vi è una predisposizione a convulsivare o se vi sono fattori di rischio come la prematurità
o il basso peso alla nascita. Si inviteranno, poi, i genitori a descrivere dettagliatamente
l’intero svolgimento della crisi, eventuali sintomi che l’hanno preceduto e la fase
postcritica. Un altro momento fondamentale dell’indagine clinica è l’esame obiettivo,
cioè la valutazione delle condizioni dei singoli organi ed apparati. È, inoltre, importante
non trascurare la cronologia dell’evento, se cioè si sia verificato in veglia e/o sonno,
poiché alcuni tipi di crisi si presentano preferenzialmente in una di queste fasi. Bisogna
valutare anche l’eventuale presenza di fattori scatenanti o facilitanti le crisi, come le
stimolazioni visive intense, la privazione del sonno, stress e fattori emotivi. Si passerà,
infine, ad effettuare l’indagine strumentale attraverso l’elettroencefalogramma che può
mostrare anomalie circoscritte ad una determinata area cerebrale o presenti su tutte le
aree di registrazione. In caso di normalità del tracciato, si metteranno in atto metodiche
di attivazione (particolari stimolazioni), con lo scopo di far emergere eventuali anomalie.
Quelle maggiormente utilizzate sono: l’iperventilazione, consiste nel far respirare
profondamente il soggetto per alcuni minuti; la fotostimolazione luminosa intermittente,
consiste nel somministrare flash di luce mediante lampada stroboscopica; il sonno
spontaneo e la privazione di sonno sono di largo impiego, poiché il sonno è un attivatore
delle anomalia epilettiformi e, inoltre, durante il sonno, sono possibili registrazioni di
buona qualità, prive di artefatti da movimento, in bambini piccoli o poco collaborativi.
Di grande utilità è poi l’EEG dinamico che si basa su un principio simile a quello dell’
Holter: consente la registrazione dell’attività cerebrale durante la normale la normale
attività del soggetto per periodi prolungati (anche più giorni), consentendo di verificare
l’eventuale presenza di crisi e l’entità. La diagnostica trova il suo completamento negli
esami neuroradiologici (TAC, RMN), indispensabili nei casi in cui vi è il sospetto di
lesioni.

Clinica. Una volta orientati per una diagnosi di epilessia, è necessario comprendere
quale possa essere il tipo di epilessia. A tale scopo si fa riferimento alla classificazione
internazionale delle epilessie e sindromi epilettiche, in cui le epilessie vengono
suddivise in idiopatiche, criptogeniche e sintomatiche, ad esordio focale o generalizzato,
elencandole in rapporto all’età dell’esordio. Il primo gruppo è quello delle epilessie
parziali o focali; il secondo è quello delle epilessie generalizzate; il terzo è quello delle
epilessie per le quali non è possibile determinare un’origine focale o generalizzata; il
quarto è quello delle sindromi speciali che comprendono crisi occasionali e convulsioni
febbrili. Vi è, inoltre, la classificazione internazionale delle crisi epilettiche che
distingue le crisi epilettiche in parziali o focali, e generalizzate. Quelle parziali vengono
distinte, poi, in elementari (assenza della compromissione della coscienza), complesse
(restringimento o perdita della coscienza) e secondariamente generalizzate (precedute da
un esordio focale).

45
Le crisi parziali elementari o semplici, senza compromissione della coscienza, possono
presentarsi con segni motori (scosse del volto o di un arto, rotazione degli occhi),
sensoriali (sensazioni di formicolio) e psichici (dismnesico: deja vu). Il soggetto è
cosciente ed assiste alla propria crisi.

Le crisi parziali complesse, con compromissione dello stato di coscienza, vengono


distinte in crisi: con inizio parziale semplice seguito da disturbo della coscienza; con
disturbi di coscienza all’inizio. Le crisi parziali che evolvono in crisi secondariamente
generalizzate vengono distinte in: crisi parziali semplici che evolvono in crisi
generalizzate; crisi parziali complesse che evolvono in crisi generalizzate; crisi parziali
semplici che evolvono in parziali complesse e poi in crisi generalizzate.

Le crisi generalizzate vengono, inoltre, distinte in convulsive e non convulsive, in base


alla presenza o meno di fenomeni motori. Le crisi convulsive comprendono: la crisi
tonico-clonica, caratterizzata da una prima fase tonica con un grido seguito da
irrigidimento degli arti della durata di 20-30 secondi, associato a rossore e/o cianosi al
volto, scosse violente e ritmiche del capo e degli arti che, gradualmente, diminuiscono
per poi cessare del tutto. Durante la fase tonica il soggetto spesso cade a terra, si morde
la lingua, con emissioni di bava mista a sangue, associata ad emissione di urine e/o feci.
Al termine della crisi segue il sonno postcritico; la crisi tonica, caratterizzata dalla
presenza di un irrigidimento contemporaneo dei muscoli assiali e degli arti associato a
rossore e/o cianosi del volto, di durata variabile; la crisi mioclonica, caratterizzata da
scosse particolarmente brevi a carico del capo, del tronco e degli arti; la crisi clonica,
caratterizzata da contrazioni ripetute a carico di tutto il corpo, associate a perdita di
coscienza. Le crisi non convulsive comprendono le assenze tipiche, caratterizzate da
una sospensione della coscienza di breve durata (da 5 a 10 secondi). Possono essere
anche presenti fenomeni motori come l’anteropulsione del capo e fenomeni di pallore o
rossore del volto; le assenze atipiche, caratterizzate da una diminuzione del livello di
coscienza; la crisi atonica, caratterizzata da una caduta del capo o del corpo a terra, tanto
che il paziente riporta contusioni o ferite cranio-facciali.

LE EPILESSIE E SINDROMI GENERALIZZATE (EPILESSIE IDIOPATICHE).

• Le convulsioni familiari neonatali benigne (BFNS), si manifestano nell’80%


nel 2° e 3° giorno di vita. Le crisi sono di tipo apnoico di durata media di 1-3
minuti, si presentano isolate e persistono fino a 7-8 giorni di vita. Le crisi sono
facilmente controllabili dalla terapia e lo sviluppo psicomotorio avviene nella
norma.
• Le convulsioni neonatali benigne, si presentano in genere nella prima settimana
di vita e vengono definite convulsioni del 5° giorno. Le crisi configurano un vero
stato di male, caratterizzato da crisi epilettiche molto prolungate. I neonati

46
tendono a recuperare del tutto una condizione di normalità e, spesso, le crisi si
risolvono spontaneamente.
• L’epilessia mioclonica benigna dell’infanzia, con lieve prevalenza nei maschi, è
una forma piuttosto rara che si manifesta tra i 6 mesi e i 2 anni di vita. Si
caratterizza per la presenza di mioclonie brevi (spasmi involontari che interessano
una piccola parte di muscolatura), interessanti il capo, le braccia ed il tronco,
senza apparente perdita di coscienza. Le scosse miocloniche si associano spesso a
cadute improvvise del capo e/o del tronco.
• L’epilessia assenza, esordisce nel bambino dopo i 3 anni di età e rappresenta la
forma più frequente di epilessia generalizzata idiopatica dell’età evolutiva con
prevalenza nel sesso femminile. Le crisi sono caratterizzate da sospensione della
coscienza e sono più frequenti al mattino, variabili in numero da un giorno
all’altro talora si accompagnano a perdita di urina e a fenomeni come pallore o
rossore del volto. Il livello intellettivo dei bambini affetti da questa forma di
epilessia è normale, ma nel 25-35% dei casi è presente un livello intellettivo
inferiore rispetto alla norma. La prognosi è favorevole con pronta risposta a
farmaci come il Valproato. Si distinguono una forma ad esordio in età prescolare
ed una forma ad esordio nella preadolescenza.
• L’epilessia mioclonica giovanile, o piccolo male impulsivo o sindrome di Janz,
rappresenta il 20% delle forme idiopatiche generalizzate. Esordisce tra i 12 e i 18
anni con crisi caratterizzate da scosse miocloniche bilaterali interessanti il capo e
gli arti superiori e più frequenti al risveglio, in soggetti normali sul piano
neurologico ed intellettivo. La prognosi è abitualmente favorevole, anche se va
sottolineato l’alto tasso di recidive dopo la sospensione dei farmaci.
• Il grande male idiopatico al risveglio, esordisce in età adolescenziale tra i 10 e i
20 anni con crisi associate a perdita di coscienza preceduta da un urlo,
caratterizzate da un irrigidimento degli arti e possibile morsicatura della lingua.
Segue una fase clonica, caratterizzata da scosse ritmiche; al termine della crisi il
paziente presenta un coma che varia da pochi minuti ad alcune ore. Fenomeni
associati sono: cianosi del volto, emissione di bava dalla bocca, perdita di urine,
tachicardia. Fattori scatenanti sono: l’eccessivo affaticamento, l’abuso di alcolici,
stimolazioni luminose sia naturali che artificiali.

EPILESSIE GENERALIZZATE CON CRISI PRECIPITATE DA MODI


SPECIFICI DI ATTIVAZIONE (RIFLESSE).

Questo gruppo di epilessie comprende le epilessie fotosensibili e quelle scatenate da


processi psichici superiori.

1. Le epilessie generalizzate fotosensibili sono forme idiopatiche, in cui le crisi


sono scatenate da stimolazioni visive, naturali o artificiali. Gli stimoli naturali
47
sono rappresentati da intensi riflessi di luce, mentre gli stimoli artificiali sono
rappresentati dalla TV, video-games, luci psichedeliche. Sono state distinte da
Jeavons diverse forme di epilessie fotosensibili: epilessia fotosensibile pura,
caratterizzata da crisi presenti solo in relazione a stimoli naturali o artificiali;
epilessie cono fotosensibilità, caratterizzate da crisi sia spontanee che provocate
da stimoli; crisi indotte solo da pattern geometrici e crisi indotte esclusivamente
dalla stimolazione luminosa intermittente in laboratorio.
2. Le epilessie generalizzate provocate da processi psichici superiori. Tra queste
va menzionata la epilepsia arithmetices, caratterizzata da crisi scatenate
dall’esecuzione di attività mentale complessa di tipo matematico (anche gioco
degli scacchi, delle carte, letture).

EPILESSIE GENERALIZZATE CRIPTOGENICHE O SINTOMATICHE.

Nell’ambito di tali forme è inserita la sindrome di West o sindrome degli spasmi


infantili. Rappresenta il 50% dei casi delle epilessie durante il primo anno di vita;
prevale nel sesso maschile ed esordisce tra i 3-8 mesi di vita. È caratterizzata da tre
sintomi: spasmi, arresto o ritardo dello sviluppo psicomotorio, ipsaritmia. Durante gli
spasmi o tic di Salaam, il lattante flette bruscamente il capo e gli arti sul tronco per
alcuni secondi. Si manifestano scosse improvvise soprattutto al risveglio o
all’addormentamento. Con il passare dei giorni le crisi diventano pluriquotidiane e si
assiste, così, alla comparsa del secondo sintomo, cioè il rallentamento o la regressione
delle acquisizioni psicomotorie del bambino. Il terzo sintomo, invece, è riscontrabile
attraverso il tracciato dell’EEG, che evidenzia la successione anarchica e caotica di onde
lente di grande ampiezza miste ad onde a fronte ripido e punte di ampiezza variabile.
L’evoluzione degli spasmi infantili e sfavorevole; un ritardo intellettivo grave o medio-
grave è presente in oltre la metà dei casi e una normalizzazione più o meno complete, si
verifica solo nel 10% dei soggetti.

La sindrome di Lennox-Gastaut, è la seconda forma di questo gruppo ed è costituita da


tre sintomi: crisi epilettiche frequenti di tipo diverso, deficit mentale, scariche EEG
intercritiche. Prevale nei maschi e rappresenta l’1% delle epilessie del bambino.
L’esordio è tra i 2 ed i 7 anni e si sviluppa in soggetti affetti da una encefalopatia
epilettica; solo in una minoranza dei casi si manifesta in soggetti sani. L’evoluzione
della sindrome è sfavorevole nella maggior parte dei casi, in quanto le crisi si mostrano
farmacoresistenti.

L’epilessia con assenze miocloniche, è la terza forma di questo gruppo. Esordisce tra i
2 e i 12 anni ed è caratterizzata da crisi di assenza con inizio e fine improvvisi. Le
assenze si accompagnano a mioclonie ritmiche, interessanti i muscoli delle spalle e delle
braccia.

48
L’epilessia mioclono-astatica di Doose, prevale nei maschi in assenza di lesioni
cerebrali evidenti. Esordisce tra i 2 e i 5 anni con crisi caratterizzate da caduta brusca del
capo e/o del tronco. L’evoluzione, nella metà dei casi, mostra la scomparsa delle crisi
dopo due anni dall’esordio.

EPILESSIE PARZIALI IDIOPARICHE.

Comprendono tre forme: l’epilessia a parossismi rolandici, l’epilessia benigna a punte-


onda occipitali e l’epilessia da lettura.

L’epilessia a parossismi rolandici (EPR), anche conosciuta come epilessia di


Beaussart-Loiseau, rappresenta il 15% percento delle epilessie della seconda infanzia.
Esordisce tra i 2 ed i 13 anni con crisi di tipo parziale motorio, con clonie interessanti un
emivolto e frequente estensione all’arto superiore o all’intero emilato. Sono associati:
emissione di bava, cianosi del volto, respiro stertoroso (respiro russante) e perdita della
coscienza. La durata delle crisi è breve e, nella maggior parte dei casi si presentano
soltanto nel sonno. Le crisi tendono a scomparire durante la pubertà.

L’epilessia parziale benigna con punte-onda occipitali (EPO), con prevalenza nel
sesso femminile, esordisce all’età di circa 6 anni. È caratterizzata da crisi parziali
semplici e/o complesse a predominante contenuto visivo, con sintomi negativi (perdita
transitoria della vista) e positivi (allucinazioni visive di colori o figure geometriche).
Seguono cefalea, nausea e vomito in circa 1/3 dei casi.

EPILESSIE PARZIALI CRIPTOGENICHE O SINTOMATICHE.

Derivano da lesioni e si caratterizzano per la presenza di crisi focali, con attivazione di


un sistema di neuroni in una zona circoscritta del cervello. Si differenziano sul piano
sintomatologico, in base all’area cerebrale di partenza delle crisi.

1. Le epilessie del lobo frontale si caratterizzano per la presenza di crisi parziali con
manifestazioni motorie, toniche o posturali; frequenti sono le crisi di caduta.
2. Le epilessie del lobo parietale si esprimono con crisi costituite da fenomeni
positivi (sensazioni di dolore ed allucinazioni visive) e fenomeni negativi
(vertigini e disturbi del linguaggio).
3. Le epilessie del lobo occipitale si caratterizzano per manifestazioni visive e
motorie.
4. Le epilessie del lobo temporale si esprimono con crisi costituite da sintomi
vegetativi e/o psichici, olfattivi e uditivi o da sensazioni di brucione epigastrico.

EPILESSIE E SINDROMI NON BEN DEFINITE, SIA PARZIALI CHE


GENERALIZZATE.

49
Fanno parte di questo gruppo tre quadri sindromici: l’epilessia mioclonica grave
dell’infanzia o sindrome di Dravet, l’epilessia con punte-onda continue durante il sonno
lento e la sindrome di Landau- Kleffner.

L’epilessia mioclonica grave dell’infanzia è caratterizzata da una familiarità frequente


per le convulsioni febbrili che tendono a ripresentarsi come crisi generalizzate associate
alla comparsa di mioclonie. Nell’80% dei casi si riscontra una mutazione del gene
SCN1A (cromosoma 2q).

L’epilessia con punte-onda continue durante il sonno è costituita dalla presenza di


crisi parziali e generalizzate. Prevale nei maschi e compare tra i 4 ed i 12 anni. La
caratteristica peculiare è il tracciato dell’EEG che mostra punte-onda continue durante il
sonno lento.

La sindrome di Landau-Kleffner prevale nei maschi con esordio intorno ai 4 anni e


mezzo. I bambini presentano una regressione del linguaggio verbale, sia di
comprensione che di espressione. Si associano turbe comportamentali come l’instabilità
motoria.

TERAPIA DELLE EPILESSIE.

In caso di diagnosi di epilessia è opportuno procedere con un trattamento farmacologico


mirato. Quest’ultimo si basa sull’impiego di un solo farmaco, iniziando con basse dosi,
onde evitare effetti collaterali spiacevoli che potrebbero indurre un rifiuto del
trattamento nei pazienti e nei genitori. La somministrazione del farmaco è consigliata
nelle ore serali prima di andare a letto; la dose va gradualmente aumentata, fino al
raggiungimento della dose ottimale. Ciascun farmaco richiede un certo tempo per
raggiungere nel sangue le concentrazioni stabili ovvero lo steady state, che rappresenta il
tempo impiegato dalla quantità di farmaco indicata ad equilibrarsi rispetto alla quantità
che viene eliminata dall’organismo attraverso urine e sudore. Tutti i farmaci
antiepilettici possono indurre effetti collaterali; è di fondamentale importanza
sensibilizzare i genitori dei piccoli pazienti a questo proposito, invitandoli a segnalarne
la presenza tempestivamente al medico curante. Si possono avere: reazioni di
ipersensibilità (il farmaco va sospeso immediatamente); effetti dose dipendenti come
vertigini, sonnolenza e vomito (sarà sufficiente ridurre la dose quotidiana per farli
regredire); effetti non dose dipendenti come iperplasia gengivale o irsutismo (è
necessario modificare la terapia). Tra i farmaci meno utilizzati in età evolutiva
ritroviamo il Fenobarbital e la Fenitoina, poiché possono favorire l’insorgenza di effetti
collaterali dose indipendenti come agitazione psicomotoria e disturbi della memoria;
mentre tra quelli più utilizzati ritroviamo l’acido valproico ed il levetiracetam. La durata

50
della terapia varia in base al tipo di epilessia o sindrome epilettica. Un accenno va fatto
al concetto di “farmacoresistenza” che si distingue in vera e falsa. La prima si verifica
quando non si ottiene il controllo della sintomatologia nonostante una terapia condotta in
maniera corretta; quella falsa può derivare da errori di inquadramento sindromico o nella
scelta del farmaco. In circa il 10% dei pazienti con farmacoresistenza vera è possibile
valutare un intervento neurochirurgico. Tra i trattamenti alternativi farmacologici vanno
considerati la radioterapia, lo stimolatore vagale e la dieta chetogena.

Convulsioni febbrili.

Si definiscono convulsioni febbrili le crisi convulsive che si presentano in bambini tra i 6


mesi ed i 5 anni, associate a febbre superiore a 38.5°C, senza evidenza di una sofferenza
cerebrale acuta da causa nota. Si manifestano nel 3-5% della popolazione infantile e
sono più frequenti nei maschi. Le CF vengono distinte in semplici e complesse. Quelle
semplici sono caratterizzate da clonie, perdita di coscienza e cianosi al volto. Durano
meno di 5 minuti e si manifestano con febbre maggiore di 39°C. Le convulsioni febbrili
complesse, invece, durano più di 15 minuti. Si definiscono stati epilettici febbrili, le crisi
di durata superiore a 30 minuti. In quest’ambito può realizzarsi una sindrome particolare
chiamata “Sindrome Hémiconvulsion-Hémiplégie-épilepsie”, caratterizzata da uno stato
epilettico della durata superiore a 30 minuti interessante tutto un emicorpo o un
emivolto; al termine della crisi si osserva un’emiparesi flaccida degli arti interessati che
può regredire dopo minuti, giorni o settimane. La diagnosi si basa su un’anamnesi
accurata e sull’esame obiettivo. Per quanto riguarda la terapia, non si ricorre ad alcun
trattamento continuativo.

B. LE MANIFESTAZIONI PAROSSISTICHE NON EPILETTICHE.

Una manifestazione molto frequente è la sincope, che si distingue in: lipotimia, consiste
in obnubilamento della coscienza accompagnato da pallore, vertigini e nausea; sincope,
dura circa 10 secondi ed evolve in una totale perdita della coscienza con abolizione del
tono muscolare, che determina la caduta del soggetto; sincope convulsiva, dura più di 10
secondi ed inizia come sincope semplice. Il soggetto caduto a terra, presenta uno spasmo
tonico seguito da morsicatura della lingua e perdita di urine. Sul piano etiopatogenetico è
possibile distinguere tre varietà di sincopi: cardiache, bulbari e riflesse. Una
manifestazione parossistica non epilettica che può porre problemi particolari di diagnosi
differenziale con l’epilessia di tipo parziale è la vertigine parossistica benigna
dell’infanzia: il bambino, all’improvviso, sente girare tutto in torno, è spaventato e tenta
di afferrarsi alle gambe della madre o di rimanere in braccio ad essa. Tutto dura alcuni
minuti con il completo ritorno alle normali attività. Si presenta tra i 2 ed i 5 anni per poi
scomparire.

51
Capitolo 18: LA DISABILITA’ INTELLETTIVA.

Con “Disabilità Intellettiva” (DI) vengono indicati quadri clinici caratterizzati da


limitazioni che investono sia il funzionamento intellettivo che il comportamento
adattivo, con compromissione delle competenze sociali.

Limitazioni del funzionamento intellettivo. L’elemento caratterizzante è rappresentato


da una “intelligenza” che risulta inferiore rispetto alla norma, ossia quando il QI assume
un valore inferiore a 70, che esprime due deviazioni standard al di sotto della media. Il
QI viene valutato attraverso dei test in cui il soggetto viene sottoposto ad una serie di
prove: il numero di prove superate perette la valutazione.

Limitazioni del funzionamento adattivo. Con il termine di comportamento adattivo


vengono indicati quei comportamenti che permettono all’individuo di adattarsi
all’ambiente in cui vive. La limitazione riguarda due o più delle seguenti aree di abilità
adattive: comunicazione, cura di se stessi, abilità domestiche, abilità sociali, autonomia,
abilità nel provvedere alla propria salute e sicurezza, abilità lavorative, abilità relative
alla gestione del proprio tempo libero. In presenza di una situazione di DI, vi è una
lentezza nell’elaborazione delle informazioni che si traduce con una compromissione
delle capacità intellettive, ma anche delle competenze di ordine pratico.

Esordio della disabilità intellettiva nelle prime fasi dello sviluppo. L’esordio,
abitualmente avviene prima dei 18 anni. Ciò significa che le condizioni cliniche
caratterizzate da limitazioni del funzionamento intellettivo e del comportamento adattivo
che insorgano “da adulto” non possono essere indicate con la denominazione di DI, ma
vanno indicate con quella di Demenze. Inoltre, datare l’esordio prima dei 18 anni
significa conferire a tale disabilità le caratteristiche che sono proprie dei Disturbi del
Neurosviluppo. Quando si manifesta una DI, si presenta una situazione in cui, durante lo
sviluppo del soggetto, aumentano le richieste ambientali, ma non aumenta di pari passo
l’organizzazione neurobiologica e funzionale a fronteggiare tali richieste.

Incidenza e cause. La DI è uno dei quadri clinici più frequenti in età infantile ed è
dovuta a cause molto diverse fra loro. Generalmente vengono distinti i Fattori Genetici,
alterazioni geniche e aberrazioni cromosomiche (possono interessare il numero o la
struttura, la più frequente è la trisomia 21, cioè la sindrome di Down), e Fattori
Acquisiti, danni che agiscono dall’esterno sul sistema nervoso centrale.

Quadro clinico. Si differenzia in base ad alcuni fattori, tra cui vanno menzionati:

A. Il livello di gravità della compromissione;


B. L’età in cui viene effettuata la valutazione clinica del soggetto;

52
C. La natura dell’affezione di base da cui dipende la Disabilità Intellettiva;
D. La presenza di eventuali disabilità.

A. IL LIVELLO DI GRAVITA’ DELLA COMPROMISSIONE.

Possono essere individuati quattro livelli di gravità di compromissione del


funzionamento adattivo: lieve, moderato, grave, estremo. Per definire le caratteristiche
clinico-comportamentali in rapporto al livello di gravità, si fa riferimento a tre ambiti del
funzionamento adattivo: ambito concettuale, riguarda il ragionare, il pensare e il
decidere; ambito sociale, riguarda la comprensione delle regole che definiscono i
rapporti interpersonali ed il saper assumere la prospettiva dell’altro; ambito pratico,
riguarda il saper risolvere problemi di ordine pratico.

B. L’ETA’ IN CUI VIENE EFFETTUATA LA VALUTAZIONE CLINICA DEL


SOGGETTO.

L’età rappresenta un elemento fondamentale nel conferire una variabilità al quadro


clinico. Pertanto il quadro clinico della DI varia, non solo, da soggetto a soggetto, ma in
uno stesso soggetto assume un’espressività diversa in rapporto all’età. Le difficoltà del
bambino iniziano molto precocemente: nel 1° anno vi è un ritardo nell’acquisizione delle
tappe dello sviluppo psicomotorio; nel 2°-3° anno vi è un ritardi del linguaggio; nel 3°-
4° anno vi è un ritardo nell’acquisizione di adeguati comportamenti di interazione
sociale; negli anni scolastici sono abituali le difficoltà di apprendimento.

Il ritardo globale dello sviluppo. Questa condizione clinica viene a definirsi nei primi 5
anni di vita, in cui è presente la mancata acquisizione delle competenze motorio-
prassiche, comunicative, linguistiche e cognitive nei tempi abitualmente previsti da uno
sviluppo tipico.

C. LA NATURA DELL’AFFEZIONE DI BASE DA CUI DIPENDE LA


DISABILITA’ INTELLETTIVA.

La DI è riconducibile alla disorganizzazione delle funzioni che sono determinanti per la


realizzazione delle competenze intellettive del soggetto. La sindrome di Down, ad
esempio, deriva da un’aberrazione cromosomica e la disabilità intellettiva che si presenta
in tale sindrome, costituisce solo un “sintomo” del quadro clinico.

D. LA PRESENZA DI EVENTUALI DISABILITA’.

Il concetto di comorbidità esprime la situazione in cui due diverse condizioni cliniche


vengono a trovarsi contemporaneamente in uno stesso soggetto. Spesso, la DI si ritrova
associata ad altre condizioni patologiche, in particolare: Disturbi dello spettro autistico,
Disturbo da deficit di attenzione/iperattività, Disturbi di sviluppo della coordinazione,

53
Disturbi del linguaggio, Disturbi d’ansia, Disturbi dell’umore, Disturbi da
comportamento dirompente.

Fattori psicopatologici reattivi. Il funzionamento intellettivo è uno dei fattori più


importanti nel condizionare il funzionamento adattivo di un soggetto. L’adattamento del
soggetto all’ambiente in cui vive, tuttavia, dipende anche da altri fattori tra cui quelli
emozionali. Alcuni aspetti, come la tolleranza alle frustrazioni, la sicurezza emotiva ed il
piacere di partecipare, sono fondamentali nel determinare la qualità dell’adattamento.
Molti di questi aspetti dipendono dalla qualità delle relazioni precoci e, purtroppo, nelle
condizioni di DI, la qualità di queste relazioni è compromessa. Spesso, infatti, accade
che i genitori si sentano in colpa e inadeguati e ciò li conduce ad assumere atteggiamenti
affettivo-pedagogici poco produttivi al benessere psichico del bambino.

Diagnosi. Nei confronti di un bambino con prestazioni inadeguate rispetto a quelle che
l’età cronologica prevede, l’osservazione neuropsichica e i reattivi mentali permettono di
formulare la diagnosi di Disabilità Intellettiva.

L’anamnesi. E’ finalizzata a valutare l’eventuale presenza di consanguineità e/o


l’esistenza di altri casi fra ascendenti e collaterali. L’anamnesi permette, inoltre, di
valutare l’eventuale presenza di situazioni potenzialmente patogene per il sistema
nervoso in via di sviluppo, come le infezioni prenatali o il ridotto accrescimento
intrauterino. Infine l’anamnesi prevede la ricostruzione dello sviluppo del bambino,
importante per valutare l’evoluzione generale dello sviluppo e la presenza di problemi
particolari come il vomito, disturbi del sonno o manifestazioni parossistiche.

Esame obiettivo generale. È volto a ricercare elementi che possano indirizzare la


diagnosi verso quadri sindromici specifici.

Esame neurologico. Oltre a fornire gli elementi utili per la formulazione della diagnosi,
può mettere in evidenza segni neurologici lievi.

Esame psichico. La presenza di particolari stili comportamentali o di specifici disturbi


può indirizzare verso alcune sindromi definite. È il caso di alcuni sintomi come:
iperfagia e PICA (ingestione di qualsiasi cibo o materiale non commestibile), possono
essere indicativi della sindrome Prader-Willi; manifestazioni autoaggressive fino
all’automutilazione, tipiche della sindrome di Lesch-Nyhan; presenza di un’apparente
disponibilità relazionale con facile tendenza al riso, tipica della sindrome di Angelman.

Terapia. Non esiste la terapia della Disabilità Intellettiva. Tuttavia, devono essere presi
in considerazione una serie di interventi con l’obiettivo di garantire l’adattamento del
soggetto al contesto sociale. All’interno del PTP vengono presi in considerazione gli
interventi: riabilitativi, psico-educativi, psicoterapeutici e farmacologici.

54
Gli interventi riabilitativi. Si tratta di interventi rivolti a facilitare la realizzazione delle
competenze neuromotorie, comunicativo-linguistiche ed affettivo-relazionali. La terapia
della neuro e psicomotricità dell’età evolutiva prevede interventi con carattere
riabilitativo ed abilitativo. Gli interventi con carattere riabilitativo sono rivolti alle
menomazioni che riguardano le funzioni cognitive, mentre gli interventi con carattere
abilitativo si rivolgono alla facilitazione delle attività del soggetto. La logopedia è un
trattamento che si rivolge all’organizzazione ed alla riorganizzazione delle funzioni
linguistiche che risultano abitualmente compromesse nel soggetto con disabilità
intellettiva. La terapia occupazionale prevede interventi organizzati in laboratori
strutturati come, ad esempio, i laboratori artigianali.

Gli interventi psico-educativi. Sono rappresentati da attività volte a facilitare


l’apprendimenti dei comportamenti adattivi che permettono l’inserimento e
l’integrazione sociale del soggetto, ad esempio: igiene e cura del proprio corpo,
alimentazione e altre routine della vita domestica, aderenza alle regole.

Gli interventi psicoterapeutici. Si tratta di interventi di sostegno rivolti al bambino e alla


famiglia.

Gli interventi farmacologici. Non esiste un farmaco per l’intelligenza. In passato è stata
data importanza ad alcuni farmaci psicotropi capaci di attivare le funzioni mentali.
Tuttavia, possedendo queste sostanze una generica azione stimolante l’attività della
cellula nervosa, possono essere utilizzate soltanto nei casi in cui vi è un particolare stato
di torpore.

LA SINDROME DI DOWN.

La sindrome di Down, denominata anche trisomia 21 o mongolismo, è una sindrome


polimalformativa dovuta ad un’aberrazione cromosomica di tipo numerico.
L’aberrazione cromosomica è rappresentata dalla presenza di un cromosoma 21
soprannumerario, che può ritrovarsi in forma libera (trisomia libera, rappresenta il 95%
dei casi) o sovrapposto ad un altro cromosoma (trisomia con traslocazione). In merito
alle cause dell’alterazione cromosomica, sono stati considerati i seguenti fattori: età
materna avanzata, predisposizione genetica, fattori ambientali.

Età materna. È stata dimostrata una correlazione positiva tra l’età materna all’epoca del
concepimento e l’incidenza di nascite di bambini affetti dalla sindrome di Down: con
l’aumentare dell’età della madre, aumenta proporzionalmente il numero di nascite di
soggetti affetti dalla sindrome di Down.

Predisposizione genetica. L’analisi degli alberi genealogici di pazienti affetti dalla


sindrome di Down ha permesso di rilevare la presenza di altri casi di sindrome di Down

55
e/o altre sindromi da aberrazione cromosomica. Ciò ha indotto diversi ricercatori a
prendere in considerazione l’ipotesi dell’esistenza di una predisposizione genetica.

Fattori ambientali. La capacità di interferire sull’aberrazione cromosomica dipende da


molteplici agenti di natura differente. Ogni individuo, trovandosi esposto all’azione di
vari agenti patogeni, sarebbe portatore di un certo numero di gameti alterati. Uno dei
meccanismi di “interferenza” è l’aborto: lo zigote viene riconosciuto, in qualche modo,
dall’organismo e rigettato.

Clinica. La sindrome di Down è una delle più frequenti aberrazioni cromosomiche e la


più importante causa genetica della DI. Il quadro clinico è abbastanza tipico da
consentire una diagnosi già nei primi giorni di vita. La gravidanza è generalmente
normocondotta, il peno alla nascita è basso, il viso risulta piatto e slargato, la radice del
naso è appiattita, la bocca è piccola e semiaperta, la lingua, di dimensioni aumentate,
tende a fuoriuscire dalla bocca e, dopo il 3°-4° anno di vita appare fissurata. Il collo e gli
arti sono tozzi; a carico delle mani si rileva spesso l’incurvamento del mignolo o del
pollice; la cute è ruvida e tendente alla desquamazione. A carico degli organi interni,
invece, appaiono le cardiopatie congenite o altre malformazioni come il rene policistico
o l’ano imperforato. La DI è costante, anche se di entità variabile: si passa da un QI
inferiori a 25 fino a 70.

Diagnosi. La diagnosi viene formulata in base all’esame del cariotipo, che oltre a
confermare la presenza del cromosoma soprannumerario, permette di definire l’assetto
cromosomico.

Terapia e prevenzione. Non esiste una terapia specifica per la sindrome di Down, ma
vari interventi che cercano di rispondere ai diversi bisogni che il bambino può
presentare. La prevenzione è limitata ai casi di trisomia della traslocazione, in cui
l’esame del cariotipo dei genitori permette di calcolare il rischio genetico. La diagnosi
prenatale viene effettuata attraverso l’esame del cariotipo condotto sui villi coriali (a
partire dalla sesta settimana di gestazione) o su cellule del liquido amniotico
(amniocentesi), effettuabile a partire dalla quattordicesima settimana di gestazione.

LA SINDOME DELL’X FRAGILE.

Viene anche definita sindrome di Martin-Bell. L’elemento caratterizzante il quadro


clinico è rappresentato dalla DI. La sindrome è legata ad un’aberrazione cromosomica di
tipo strutturale, localizzata nella parte distale del braccio lungo del cromosoma X. La
sindrome ha una leggera prevalenza nei maschi ed è responsabile di circa 8% di tutti i
pazienti affetti da disabilità intellettiva.

Clinica. La sindrome presenta tratti somatici particolari e manifestazioni patologiche. I


tratti somatici sono rappresentati da faccia allungata, padiglioni auricolari prominenti,
56
macroorchidia e piede piatto. Le manifestazioni psicopatologiche sono rappresentate da
deficit del funzionamento intellettivo, disturbi del linguaggio e disturbi comportamentali
come l’iperattività, l’impulsività e tratti autistici. La diagnosi viene effettuata mediante
l’esame del cariotipo. La terapia riguarda la presa in carico dei soggetti affetti da DI.

LA FENILCHETONURIA.

Definita in passato “idiozia enilpiruvica”, è una forma di Disabilità Intellettiva dovuta ad


un’alterazione genica a trasmissione autosomica recessiva. È causata da un deficit di un
enzima, la fenilalaninaidrossilasi, che converte la fenilalanina in tirosina. In seguito alla
carenza dell’enzima, la fenilalanina non viene metabolizzata ed, essendo tossica,
interferisce nel metabolismo di vari tessuti.

Clinica. Nella maggioranza dei casi alla nascita non si rileva alcun sintomo specifico.
Infatti, la diagnosi si basa solo sul dosaggio fenilalaninemia. La terapia consiste nel
controllare l’apporto di fenilalanina con la dieta. Il precoce riconoscimento del deficit
enzimatico e la conseguente dietoterapia riescono a prevenire l’insorgenza della
disabilità intellettiva. L’importanza della prevenzione si è tradotta nell’adozione di un
test effettuato sistematicamente alla nascita: consiste nel prelievo di una goccia di
sangue dal tallone che verrà sottoposto ad indagini di laboratorio. Le donne
fenilchetonuriche trattate, che vadano incontro a gravidanza vanno attentamente valutate.
Solitamente, i figli, presentano sintomi come: microcefalia, basso peso alla nascita,
malformazioni cardiache e ritardo globale dello sviluppo.

Prognosi. Un precoce trattamento dietetico permette un adeguato sviluppo


neuropsichico.

L’IPOTIROIDISMO CONGENITO.

È dovuto ad una carenza di ormoni tiroidei. Le cause responsabili possono essere:


anomalie della formazione della tiroide, anomalie della funzione della ghiandola tiroide,
anomalie della formazione e/o della funzione dell’ipotalamo e/o dell’ipofisi (la
ghiandola non riceve gli stimoli necessari per la produzione e liberazione degli ormoni
tiroidei. Vi sono forme del disturbo transitorie, dovute a fattori acquisiti, e forme
permanenti.

Clinica. I soggetti affetti da tale disturbo presentano anoressia, apatia, respirazione


rumorosa, stipsi e cute fredda e chiazzata già nei primi mesi di vita. Uno dei sintomi più
precoci è l’abnorme persistenza dell’ittero neonatale. Il capo è di dimensioni aumentate,
la fontanella bregmatica è ampiamente aperta, il collo è tozzo, la radice del naso è
appiattita e la bocca è semiaperta. La diagnosi si basa su indagini ormonali e la terapia
consiste nella somministrazione per via orale di ormoni tiroidei (deve essere iniziata

57
appena formulata la diagnosi). La terapia tempestiva garantisce un normale sviluppo
somatico e neuropsichico.

Capitolo 19: I DISTURBI DELLO SPETTRO AUTISTICO.

L’autismo viene considerato un disordine neuropsichiatrico complesso. Presenta un set


di comportamenti definiti che riconduce a specifici deficit nell’ambito delle aree
funzionali dell’interazione, della comunicazione sociale e della flessibilità dei processi di
pensiero. Il termine “autismo” fu impiegato da Bleuler per indicare un comportamento
rappresentato da chiusura, evitamento dell’altro ed isolamento. Successivamente questo
termine fu utilizzato per descrivere un determinato quadro clinico, cioè “Disturbi
autistici del contatto affettivo”, caratterizzato da cause sconosciute, insorgenza precoce,
tendenza all’isolamento, assenza di segni neurologici e una facies che colpisce per la sua
intelligenza. Secondo il modello interpretativo dell’approccio psicodinamico, invece,
l’autismo rappresentava una difesa contro l’angoscia derivante da un fallimento delle
prime relazioni oggettuali. Vennero distinte due forme di autismo: primario e
secondario. Nel corso degli anno questo approccio è stato oggetto di molte critiche che
hanno ricercato le cause del disturbo autistico non più all’esterno, ma all’interno del
bambino. Attualmente, infatti, è sempre più accettata l’ipotesi che il disturbo autistico sia
legato ad un funzionamento mentale atipico. I disturbi autistici sono molto più frequenti
rispetto al passato e si presentano con una netta prevalenza per il sesso maschile.

Clinica. I Disturbi dello Spettro Autistico rappresentano un gruppo di condizioni


cliniche che condividono alcune caratteristiche quali: la compromissione dell’interazione
e della comunicazione sociale; la compromissione del repertorio di attività ed interessi.
Accanto ai sintomi caratterizzanti il disturbo autistico, si ritrovano abitualmente una
serie di comportamenti atipici riscontrabili in diverse altre condizioni cliniche (disturbi
associati).

I deficit dell’interazione e della comunicazione sociale. I disturbi che rientrano in


quest’area variano in rapporto all’età e al livello di sviluppo.

• PRIMO ANNO DI VITA. Nel corso del primo anno di vita, la compromissione
dell’interazione sociale è espressa dal deficit del canale di scambio privilegiato
durante questo periodo: il contatto occhi-occhi (molti genitori riferiscono
comportamenti come “sfuggenza dello sguardo”, “sguardo assente”). Nel primo
anno di vita sono frequenti anche le anomalie delle posture corporee; il bambino,
inoltre, prova un’insofferenza per il contatto fisico con conseguente adozione di
comportamenti di evitamento. Di conseguenza i genitori non riescono a tenere in
braccio il bambino. Queste ultime caratteristiche sono riconducibili al disturbo del

58
dialogo tonico, il modo, cioè, di entrare in uno scambio relazionale con l’altro.
Sono presenti, inoltre, atipie relative alle espressioni facciali, di tipo qualitativo e
quantitativo
• ETA’ PRESCOLARE. La compromissione dell’interazione sociale si arricchisce
di comportamenti sempre più caratteristici: il bambino tende ad isolarsi; non
risponde quando viene chiamato; non rende l’altro partecipe delle sue attività;
utilizza l’altro in maniera strumentale solo per l’appagamento momentaneo delle
sue esigenze (prende il braccio di un bambino senza guardarlo negli occhi e lo
indirizza verso una cosa che non riesce a prendere da solo). Il rapporto
interpersonale è compromesso, ma mai del tutto assente: il bambino si limita a
richiedere qualcosa o qualche azione, non condividendo interessi, bisogni ed
emozioni. Anche se l’isolamento e la chiusura in se stessi rappresentano tratti
patognomici, vi sono anche casi in cui il bambino sembra cercare il contatto con
l’altro in maniera attiva attraverso comportamenti che, però, si mostrano subito
atipici come: contatto fisico molto intimo con sconosciuti; dispensano baci ed
affettuosità a persone viste per la prima volta; invasione dello spazio personale
dell’altro. Va segnalata, inoltre, la possibile presenza di un attaccamento morboso
nei confronti di una figura privilegiata (solitamente quella materna). Nel
complesso possono essere distinti alcuni profili di interazione: bambini
inaccessibili, bambini passivi, bambini attivi-ma bizzarri. Questi diversi profili
possono variare nel corso dello sviluppo. Infine, gli strumenti utilizzati dal
bambino per la comunicazione sono poco strutturati ed elementari, configurando,
quindi, anche un disturbo del linguaggio.
• ETA’ SCOLARE.A partire dai sei anni il modo con cui si manifesta il deficit
dell’interazione e della comunicazione sociale, comincia a differenziarsi in
maniera definita fra soggetto e soggetto. Vengono a caratterizzarsi diversi “livelli”
di gravità. Nelle forme severe (livelli 3) il bambino mostra una marcata chiusura
relazionale, dedicandosi esclusivamente alle sue attività e presentando segni di
disaggio o rabbia quando l’altro cerca di intromettersi nel suo gioco. Il linguaggio
verbale è assente. Nelle forme lievi (livelli 1), invece, il bambino stabilisce
relazioni interpersonali semplici, anche se la qualità degli scambi è condizionata
da un’inadeguatezza delle competenze di percezione e cognizione sociale. In
rapporto ad alcuni aspetti temperamentali, possono configurarsi due profili
caratteristici: un profili “esternalizzante” (interviene a sproposito, invade lo spazio
dell’altro, si parla addosso, è poco attento ai messaggi dell’altro) ed un profilo
“internalizzante” (lo sguardo è sfuggente, la mimica è poco modulata, si limita a
rispondere alle domande con enunciati essenziali, è goffo nel movimenti). In
questo contesto, il linguaggio possiede un ruolo importante nella connotazione del
carattere. La compromissione del linguaggio, ad eccezione dei casi in cui si
presenti come un disturbo associato, investe la componente non verbale del
59
parlato e la pragmatica (incapacità di riconoscere metafore, doppi sensi e motti di
spirito).
• ETA’ ADOLESCENZIALE. I soggetti di livello 3 continuano a presentare forti
chiusure relazionali con un’aderenza molto passiva alle richieste del contesto. I
soggetti di livello 1 presentano un’emergente motivazione sociale, ma le modalità
a cui ricorrono per avviare una relazione interpersonale, risultano bizzarre.

Il repertorio di attività ed interessi ristretto e ripetitivo. Si tratta del modo con cui il
soggetto si rapporta all’oggetto, presentando una serie di atipie comportamentali quali:
movimenti, uso degli oggetti o eloquio stereotipati o ripetitivi; insistenza nella
monotonia; interessi molto limitati, fissi che sono anomali per intensità o profondità;
iper-oipo-reattività in risposta a stimoli sensoriali o interessi insoliti verso aspetti
sensoriali dell’ambiente.

• MOVIVENTI, USO DEGLI OGGETTI O ELOQUIO STEREOTIPATI O


RIPETITIVI. L’elemento caratterizzante è la ripetitività che può assumere diversi
aspetti: dondolarsi, sfarfallare le mani, mettere in fila gli oggetti, sfogliare le
pagine di giornale, strappare la carta, ripetere le stesse parole o frasi, emettere
determinati suoni, versare l’acqua da un contenitore ad un altro.
• INSISTENZA NELLA MONOTONIA (SAMENES). L’elemento caratterizzante
è la rigidità che può esprimersi con il bisogno di effettuare determinate attività
sempre nello stesso modo. Tale rigidità può assumere aspetti diversi: comportarsi
in maniera eccessivamente abitudinaria nello svolgimento di routine quotidiane,
presentare un’esasperante selettività alimentare, mostrare un attaccamento
eccessivo a particolare oggetti, pretendere che si verifichino determinati eventi in
determinate circostanze, rifiutarsi di svolgere alcune attività con modalità
differenti da quelle abituali, turbarsi in ambienti nuovi e mostrare forte disaggio in
presenza di persone non familiari.
• INTERESSI MOLTO LIMITATI, FISSI CHE SONO ANOMALI PER
INTENSITA’ O PROFONDITA’. L’elemento caratterizzante è la ristrettezza
degli interessi che può assumere aspetti diversi: osservare l’acqua che scorre,
osservare la lavatrice in funzione, seguire con un dito tutte le linee rette, osservare
soltanto il particolare di un oggetto, essere particolarmente attratto da numeri o
date, essere particolarmente attratto dalle targhe delle autovetture, dedicarsi in
maniera assorbente ad un cartone animato o a dispositivi elettronici, avere
conoscenze approfondite su determinati argomenti.
• IPER- O IPO-REATTIVITA’ IN RISPOSTA A STIMOLI SENSORIALI O
INTERESSI INSOLITI VERSO ASPETTI SENSORIALI DELL’AMBIENTE.
L’elemento caratterizzante è la reattività insolita nei confronti di stimoli sensoriali
provenienti dal proprio corpo o dall’ambiente. La gravità della sintomatologia può

60
assumere diversi aspetti, quali: camminare sulle punte, imprimere alle mani
atteggiamenti particolari, leccare, annusare, essere attratto da particolari sonorità o
presentare una particolare avversione, guardare gli oggetti sotto angolazioni
insolite.

L’entità della compromissione varia da soggetto a soggetto e l’espressività dei


comportamenti si modifica nel tempo.

I Disturbi Associati. Il quadro clinico è legato all’eventuale presenza di altre patologie


come:

- Disabilità intellettiva, circa il 75% dei pazienti autistici presenta Disabilità


Intellettive. Nelle situazioni in cui la disabilità intellettiva è grave, risulta difficile
stabilire se alcuni comportamenti atipici siano riferibili alla co-esistenza di un
disturbo dello spettro autistico e non al basso livello intellettivo. Tuttavia, alcuni
aspetti come la socievolezza, la disponibilità allo scambio relazionale ed il piacere
di essere e di partecipare, permettono di differenziare le due condizioni.
- Epilessie, si verificano nel 30-40% dei casi. Solitamente, le crisi insorgono in
epoca adolescenziale ed assumono le caratteristiche delle crisi parziali complesse
e tonico-cloniche generalizzate. Il disturbo dello spettro autistico e l’epilessia
vengono considerati fenomeno di un comune danno encefalico, ad esempio una
lesione a carico del lobo temporale.
- Altri disturbi del neurosviluppo. Comprendono: disabilità intellettive, disturbi
della comunicazione, disturbi motori, disturbo da deficit di attenzione/iperattività,
disturbi dell’apprendimento.
- Sintomi non inquadrabili in categorie nosografiche definite. Spesso sono presenti
sintomi non autistici che, tuttavia, incidono in maniera determinante sul profilo
funzionale del soggetto. Vanno segnalati, pertanto, i seguenti sintomi: livelli di
attività motoria molto accentuati, ad esempio quando sono su una sedia, si
agitano; compromissione del linguaggio, ad esempio l’utilizzo di singole parole o
di frasi isolate che vanno specificate come “compromissione del linguaggio
associate”; disturbi motori, ad esempio goffaggine, maldestrezza nell’esecuzione
di movimenti fini, incapacità nel provvedere ad autonomie personali semplici,
ipomotilità della muscolatura mimica.

Età e modalità di esordio. Il Disturbo dello spettro autistico è un quadro clinico


complesso legato ad una disorganizzazione atipica dei network encefalici preposti
all’elaborazione e alla sistematizzazione dei dati della realtà e necessari alla
programmazione dei comportamenti in rapporto alle esigenze definite dal contesto. La
disorganizzazione dei network si realizza progressivamente nel tempo in rapporto ad una

61
serie di circostanze, interne ed esterne al soggetto. Di conseguenza, anche i sintomi si
manifestano progressivamente.

Livello 3 (Forme molto severe): si tratta dei casi in cui il bambino, già a partire dal
primo anno di vita, presenta modalità atipiche di rapportarsi all’oggetto e alle persone,
come: limitare l’interesse a determinati oggetti; guardarsi ripetutamente le mani; non
rispondere al sorriso; non adattarsi alla postura dell’altro in braccio; vivere in un “mondo
tutto suo”; isolarsi; ripetere gli ultimi suoni e le parole udite. In questi casi, è possibile
formulare una diagnosi a partire dai 18 mesi di vita.

Livello 1 (Forme molto lievi): si tratta di casi in cui il bambino comincia a manifestare i
sintomi dopo i 18 mesi. Il bambino, infatti, tende ad estraniarsi dall’ambiente, si
disinteressa dei coetanei, si impegna in attività motorie stereotipate, non pronuncia
alcuna parola con finalità comunicativa. In alcuni casi, denominati forme regressive, la
comparsa dei sintomi interrompe uno sviluppo che sembrava procedere normalmente. La
regressione, tuttavia, è solo apparente, in quanto, attraverso un’anamnesi accurata,
possono essere messi in evidenza dei segni atipici precedenti. Nelle forme lievi, fattori
favorevoli interni (buone capacità di regolazione e controllo degli impulsi, soddisfacente
adattamento emozionale) ed esterni (esperienze emozionali o relazionali favorevoli),
possono impedire che i sintomi assumano una rilevanza clinica.

Livello 2 (Forme di media gravità): l’età e le modalità di esordio variano da soggetto a


soggetto in rapporto ad una serie di fattori quali il temperamento del bambino,
l’eventuale presenza di condizioni mediche associate, le eventuali comorbidità.

Decorso. Con la denominazione di “storia naturale” del disturbo ci si riferisce alla


possibilità di definire i punti critici di una determinata condizione morbosa, quali:
quando inizia, come inizia, come decorre, quando finisce, come si trasforma nel tempo.

Traiettorie evolutive. Tutti i soggetti con una diagnosi di disturbo dello spettro autistico
formulata entro i primi 3 anni di vita, presentano un miglioramento a carico
dell’interazione e della comunicazione sociale, specialmente durante l’adolescenza.
Questa tendenza, ovviamente, riguarda in maniera minore i soggetti affetti da forme
severe, mentre quelli affetti da forme lievi presentano modifiche molto più significative.
Il miglioramento, però, non è sempre legato all’interazione e alla comunicazione, ma
spesso coincide con un miglioramento dell’adattamento. Con il termine “adattamento” si
fa riferimento al comportamento che il soggetto assume nei contesti abituali della vita:
quanto più sono aderenti al contesto, tanto migliore viene definito il suo adattamento.

Cause. Le cause dell’Autismo risultano sconosciute. Il Disturbo dello spettro autistico


non è una “malattia” nel senso classico del termine, ma si tratta di una serie di
comportamenti atipici che, ripresentandosi in maniera ricorrente, assumono la dignità di

62
una condizione patologica. Ciò che si manifesta sul piano clinico viene definito come un
fenotipo comportamentale, cioè il fenotipo autistico. Cercare le cause del Disturbo dello
spettro autistico significa, pertanto, cercare “qualcosa” che sta sotto il fenotipo
comportamentale osservabile, ossia l’endofenotipo funzionali. Le disfunzioni
dell’endofenotipo sono riconducibili, a loro volta, ad anomalie che investono una serie di
strutture neurobiologiche di fondo (endofenotipo strutturale).

L’endofenotipo funzionale. I criteri diagnostici si identificano in (a) deficit


dell’interazione e della comunicazione sociale e (b) attività e interessi ristretti e ripetitivi.
Vengono, pertanto, a definirsi due cluster sintomatologici che possono essere indicati
come “componente sociale” dell’autismo e “componente non sociale” dell’autismo. I
principali modelli interpretativi proposti sono: Deficit della Motivazione sociale; Deficit
della Cognizione sociale; Debolezza della Coerenza centrale; Deficit delle Funzioni
esecutive.

DEFICIT DELLA MOTIVAZIONE SOCIALE

Il modello interpretativo che fa riferimento ad un Deficit della Motivazione sociale, parte


dal presupposto che l’essere umano nasce con una predisposizione innata ad interagire
con l’altro, bisogno primario che nasce con l’individuo. Alcuni comportamenti dei
bambini come l’imitazione, l’inseguimento visivo, il sorriso sociale e la fissazione,
rappresentano un esercizio spontaneo dei riflessi. Secondo la teoria affettiva esisterebbe
nell’autismo un innato disinteresse per gli stimoli sociali ed una disattenzione nei
confronti di ciò che l’Altro fa o non fa. Questa iniziale scarsa motivazione sociale
porterebbe all’incapacità di imparare a riconoscere a riconoscere gli stati mentali degli
altri, al deficit del linguaggio, al deficit della cognizione sociale.

DEFICIT DELLA COGNIZIONE SOCIALE

Il modello interpretativo nasce sulla base di un paradigma sperimentale, in rapporto al


quale i soggetti autistici presenterebbero un’incapacità di risolvere compiti di falsa
credenza, che richiedono la capacità di assumere la prospettiva dell’altro, immaginare
quello che l’altro crede e prevedere il suo comportamento. Questa capacità viene
indicata come “Teoria della Mente”, acquisita a partire dai 4 anni. Il deficit del soggetto
autistico consisterebbe nella capacità di acquisire questa competenza, il che
determinerebbe una sorta di “cecità mentale”, ossia l’incapacità di interpretare i
comportamenti degli altri. Tuttavia, il modello di un deficit della Teoria della Mente si è
dimostrato poco attendibile in relazione ad alcuni fattori come l’incapacità “normale” del
bambino di risolvere compiti di falsa credenza prima dei 4 anni.

DEBOLEZZA DELLA COERENZA CENTRALE


63
Questa ipotesi interpretativa del funzionamento mentale autistico fa riferimento ad un
dato più volte rilevato nei quadri clinici dei soggetti affetti da autismo, ossia la presenza
di uno stile cognitivo in rapporto al quale il soggetto tende a soffermarsi sull’analisi
percettiva dei particolari e presenta un’incapacità di giungere ad una visione di insieme,
di fondamentale importanza per la comprensione della situazione e della scelta dei
comportamenti più adeguati.

DEFICIT DELLE FUNZIONI ESECUTIVE

Con il termine di FE vengono indicate una serie di abilità che risultano determinanti
nell’organizzazione e nella pianificazione dei comportamenti di risoluzione dei
problemi. Tali abilità sono: capacità di attivare e mantenere attiva un’area di lavoro,
capacità di formulare un piano d’azione, capacità di inibire risposte impulsive, capacità
di spostare in modo flessibile l’attenzione sui vari aspetti del contesto. Un disturbo delle
FE può spiegare molti comportamenti del fenomeno autistico come la rigidità dei
processi di attenzione o la scarsa capacità di adattamento ambientale. Tuttavia, un deficit
delle FE può essere riscontrato in altri quadri clinici diversi dall’autismo, rendendo, in
questo modo, complessa la formulazione della diagnosi.

L’endofenotipo strutturale. Si riferisce a quelle anomalie del substrato neurobiologico


che sottendono le atipie considerate nell’ambito dell’endofenotipo funzionale. L’attuale
disponibilità di tecniche di studio sempre più sofisticate, come la risonanza magnetica
funzionale, permette di individuare con sempre maggiore attendibilità una serie di
strutture encefaliche che funzionano come “impalcatura” per la realizzazione di funzioni
coinvolte nel comportamento sociale e per le sue evoluzioni nel corso dello sviluppo. Il
neonato è subito interessato ad interagire con le figure di accadimento, imitando le
espressioni facciali dell’Altro. Una serie di ricerche hanno messo in evidenza un sistema
encefalico specificamente preposto a co-attivarsi spontaneamente al solo vedere l’Altro
mentre compie un’azione: i neuroni che si co-attivano sono gli stessi che, nell’Altro,
sono in azione: si tratta dei neuroni specchio. In particolare, studi in Risonanza
Magnetica finalizzati ad indagare le aree coinvolte nel riconoscimento delle espressioni
facciali, hanno messo in evidenza l’attivazione ed il collegamento funzionale del giro
fusiforme (parte del lobo temporale che si occupa del riconoscimento del viso, delle
parole e dei numeriù), del Solco Temporale e dell’amigdala, il cui ruolo nella coloritura
emozionale di tutte le esperienze di un individuo è ben documentato. In epoche
successive, l’acquisizione di competenze coinvolge nuove strutture encefaliche. Uno
degli orientamenti attuali è quello di non considerare la singola struttura encefalica
attivata, ma di ricostruire la rete di strutture che si co-attivano nell’esecuzione di
determinati compiti.

64
I fattori etiologici. Alcuni fattori sembrano assumere un ruolo etiologico nella
determinazione del quadro clinico. Si tratta di: patologie legate alla gravidanza e al
parto; alterazioni neurochimiche; disfunzioni connesse con il sistema immunitario;
intossicazioni; fattori genetici.

PATOLOGIE LEGATE ALLA GRAVIDANZA E AL PARTO

Noxae patogene legate alla gravidanza, al travaglio o alla fase post-natale, sono state
segnalate come possibili cause, nonostante la maggioranza dei lavori effettuati in questo
senso non hanno confermato questo orientamento.

ALTERAZIONI NEUROCHIMICHE

Diverse ricerche hanno riportato elevati livelli di metaboliti della dopamina nel sangue,
nelle urine e nel liquido cefalo spinale. Ciò ha indotto ad ipotizzare una disfunzione
dopaminergica, in particolare: incapacità di produrre dopamina, insensibilità o basso
numero di ricettori dopaminergici, impossibilità della dopamina di svolgere le sue
funzioni. Anche per quanto riguarda la serotonina, è stata ipotizzata una disfunzione
relativa ad elevati livelli di serotonina nel sangue e nelle urine. Alcune ricerche, inoltre,
avrebbero messo in evidenza elevati livelli di ossitocina ne sangue e nel liquido cefalo
spinale e un’elevata escrezione urinaria di peptidi.

DISFUNZIONI CONNESSE CON IL SISTEMA INMMUNITARIO

Si tratta di un’area di ricerca che sta suscitando grande interesse in relazione a: elevata
frequenza di affezioni allergiche ed autoimmunitarie nei genitori di soggetti
autistici,presenza di manifestazioni allergiche connesse al sistema immunitario, presenza
di indicatori di processi auto-immunitari in una significativa percentuale.

INTOSSICAZIONI

Fra le sostanze tossiche è stato spesso enfatizzato il possibile ruolo di metalli pesanti
come il mercurio e la contaminazione ambientale legata all’uso di pesticidi ed insetticidi.
Un’ipotesi molto diffusa è quella della “leaky gut”, secondo cui, nei soggetti affetti da
Disturbo dello spettro autistico, sarebbe presente un’eccessiva permeabilità
dell’intestino, dovuta ad un’infiammazione a carico della parete intestinale, che dà luogo
al passaggio di alcune sostanze.

FATTORI GENETICI

65
Sembrerebbero assumere un significato preminente. Per quanto riguarda la familiarità,
infatti, gli studi hanno messo in evidenza: concordanza nei gemelli variabile dall’86% al
92%; nei fratelli, non gemelli, l’incidenza sarebbe del 2%; presenza di particolari stili
cognitivo-comportamentali, interpretati come modalità atipiche, fra ascendenti e
collaterali. Spesso, inoltre, un fenotipo comportamentale di tipo autistico viene
riscontrato in una serie di quadri clinici come: la sclerosi tuberosa, la neurofibromatosa,
la fenilchetonuria, la sindrome dell’X fragile.

Diagnosi. Le fasi caratterizzante il percorso diagnostico sono: l’anamnesi, l’esame


clinico generale, l’esame neurologico, l’esame psicologico, le indagini strumentali e di
laboratorio.

L’anamnesi. Riportiamo di seguito i dati che possono assumere una rilevanza


determinante nella conferma diagnostica: presenza nell’anamnesi familiare di altri casi
ascrivibili ad un Disturbo dello spettro autistico; presenza nell’anamnesi familiare di altri
quadri neuropsichiatrici diversi dall’autismo; consanguineità dei genitori; presenza di
noxae patogene in fase pre-natale, perinatale o post-natale; la presenza di una
regressione dello sviluppo.

L’esame clinico generale. Deve avvalersi della documentazione medica fornita dai
genitori e va integrato con un esame finalizzato a mettere in evidenza segni del tipo:
dismorfismi cranio-facciali; macro/microcefalia; dismorfismi somatici; malformazioni;
manifestazioni dermatologiche. L’esame permette di acquisire informazioni determinanti
per la formulazione delle cause del quadro clinico.

L’esame neurologico. Va effettuato sistematicamente e deve avvalersi di uno scema


procedurale che permetta di prendere in considerazione: i nervi cranici, il tono
muscolare, la forza muscolare,il trofismo muscolare, i riflessi superficiali e profondi, la
coordinazione dinamica generale e la sensibilità. L’esame fornisce gli elementi
necessari per valutare lo stato neurologico del soggetto e a verificare l’eventuale
presenza di quadri clinici nosograficamente definiti.

L’esame psicologico. Le procedure messe in atto sono rappresentate dall’osservazione,


dal colloquio e dalla somministrazione di reattivi mentali di livello e proiettivi. Le
finalità dell’esame sono: confermare la presenza di un quadro autistico; valutare la
presenza di quadri clinici differenti da quello autistico, ma che possono simularlo;
definire il profilo funzionale del soggetto e il suo adattamento. Gli strumenti di
valutazione maggiormente utilizzati sono:

• AUTISM DIAGNOSTIC INTERVIEW-REVISED (ADI-R). Si tratta di


un’intervista semi-strutturata da somministrare ad uno o entrambi i genitori da
parte di un operatore; l’obiettivo è quello di fornire un quadro clinico che prenda

66
in esame i comportamenti del soggetto in tutti gli abituali contesti di vita al fine di
individuare gli elementi utili a formulare una diagnosi di un disturbo dello spettro
autistico. L’intervista, inoltre, non si limita ai soli comportamenti correnti, ma
cerca di ricostruire il percorso evolutivo del soggetto. In un tempo (2 ore circa) un
operatore riesce ad attribuire un punteggio in rapporto ad un algoritmo
diagnostico che prevede a discriminare fra autismo/non autismo.
• AUTISM DIAGNOSTIC OBSERVATION SCHEDULE (ADOS). Può essere
utilizzato a partire dai 2 anni ed è un esame complementare a quello precedente e
si basa sull’osservazione diretta e standardizzata del bambino. Si struttura in
moduli (prove selezionate in base all’età e al livello linguistico) che esplorano il
comportamento sociale in contesti comunicativi naturali. La somministrazione
richiede dai 30 ai 45 minuti e procedure di convalida specifiche.
• CHILDHOOD AUTISM RAITING SCALES-SECOND EDITION (CARS2). Si
tratta di una scala di valutazione del comportamento autistico che permette di
esplorare 15 aree di sviluppo (imitazione, affettività, utilizzo del corpo, reazioni
d’ansia, etc), attraverso la raccolta di informazioni in contesti vari. Ad ogni area
viene assegnato un punteggio da 1 a 4. Per determinare il grado di anormalità
nelle aree di sviluppo analizzate, l’esaminatore deve considerare le caratteristiche
la frequenza, l’intensità e la durata del comportamento considerato; la somma dei
punteggi riportati in ciascun area può variare da 15 a 60. Lo strumento può essere
utilizzato a partire dai 2 anni.

Le indagini strumentali e di laboratorio. Rappresentano un completamento


dell’approfondimento diagnostico e sono: EEG, Risonanza Magnetica Encefalo; Test
screening per malattie congenite del metabolismo; consulenza genetica con relative
indagini genetiche; consulenza oculistica; consulenza foniatrica; consulenza gastro-
enterologica pediatrica.

Terapia. Risulta necessaria la formulazione di un PTP. Bisogna tenere infatti, in


considerazione che determinate proposte terapeutiche possono essere valide per un
bambino, ma non per un altro. Le proposte terapeutiche attualmente disponibili sono:

- TERAPIE FARMACOLOGICHE: vengono utilizzati i neurolettici, in particolare


l’aloperidolo che incide significativamente su alcuni disturbi come agitazione e
aggressività. Particolarmente attivi sul comportamento ripetitivo sarebbero,
invece, gli inibitori della ricaptazione della serotonina. L’intervento
farmacologico, tuttavia, ha un significato elusivamente sintomatico.
- INTERVENTI RIABILITATIVI. Un operatore con specifiche competenze lavora
sulle aree dello sviluppo che risultano compromesse: funzione psicosociale e del
pensiero; funzione mentale del linguaggio; funzioni psicomotorie e cognitive di
base. L’intervento mira a riabilitare le funzioni compromesse ed abilitare

67
competenze di ordine adattivo. Le strategie vanno scelte in rapporto all’età del
soggetto, all’entità della sintomatologia, all’eventuale presenza di disturbi
associati e alle caratteristiche del profilo funzionale del soggetto. Vanno
segnalate: la pratica psicomotoria, cerca di attivare sequenze di interazione,
nell’ambito delle quali il bambino riesce ad accedere ad esperienze internamente
vissute, utili per la costruzione e la riorganizzazione di stati mentali; le tecniche di
modifica del comportamento, analizzano il comportamento su cui agire,
definiscono gli obiettivi e ricorrono, poi, al rinforzamento e modalità capaci di
determinare la scomparsa o comparsa del comportamento; le tecniche di
comunicazione aumentativa ed alternativa, favoriscono qualsiasi forma di
comunicazione che possa permettere al bambino scambi più efficienti ed efficaci
con l’ambiente significativo.
- INTERVENTI PSICO-EDUCATIVI. Mirano a favorire l’adattamento del
soggetto all’ambiente attraverso un programma educativo da mettere in atto negli
abituali contesti di vita del soggetto, coinvolgendo i genitori.
- ALTRI TIPI DI INTERVENTO. Si tratta di alcune proposte terapeutiche come:
l’ippoterapia, l’idroterapia o la musicoterapia; vengono considerate come attività
da inserire nel PTP.

Il PTP va periodicamente valutato e riformulato in rapporto alle esigenze che di volta in


volta si vengono a verificare. Tutti gli spazi del bambino devono assumere una valenza
terapeutica e la famiglia, in particolare, deve rappresentare uno spazio privilegiato in cui
il bambino possa interagire e partecipare.

SINDROMI PARTICOLARI CON FENOTIPO AUTISTICO.

Il Disturbo di Rett. Interessa il sesso femminile e presenta alcuni elementi


caratterizzanti quali; iniziale sviluppo normale con comparsa di un arresto dello sviluppo
psicomotorio (dai 6 ai 18 mesi), comparsa di comportamenti autistici, difficoltà nella
coordinazione dinamica generale e particolari stereotipie a livello della mano. Tali
stereotipie possono essere caratterizzate da: portare e mantenere le mani in bocca, battere
le mani, imprimere alle mani posture bizzarre. Dai 12 mesi ai 4 anni compaiono, inoltre,
irregolarità del ritmo sonno-veglia, irregolarità della respirazione e situazioni di
irritabilità. Successivamente, dopo i 4 anni, si ha un parziale recupero dell’interazione
sociale, mentre il ritardo mentale si rende manifesto con un’accentuazione dei sintomi
neurologici. La componente genetica gioca un ruolo determinante nella definizione della
sindrome ed è legata ad una mutazione del cromosoma X (Xq28). La sindrome di Rett
presenta 4 stadi caratterizzanti: iniziale arresto dello sviluppo (6-18 mesi); regressione
rapida (1-4 anni); periodo pseudo stazionario (recupero parziale della comunicazione);
deterioramento motorio tardivo (inabilità nella deambulazione e grave disabilità).

68
Il Disturbo di Asperger. Si tratta di un quadro clinico caratterizzato dalla
compromissione dell’interazione e della comunicazione sociale. Viene messo, inoltre, in
evidenza un repertorio di attività ed interessi ridotto. Il soggetto, tuttavia, presenta un
livello intellettivo nella norma ed un linguaggio normostrutturato. Viene, pertanto,
solitamente diagnosticato con l’ingresso nella scuola primaria. L’evoluzione a lungo
termine è positiva, anche se, spesso l’ingresso nell’età adolescenziale può determinare la
comparsa di quadri neurologici gravi come depressione, disturbi d’ansia o quadri
psicotici.

Capitolo 20: IL DISTURBO DA DEFICIT DI ATTENZIONE/IPERATTIVITA’.

Si tratta di una sindrome comportamentale caratterizzata da impulsività, incapacità di


fissare l’attenzione in maniera continuativa e livelli di attività molto accentuati. La
prevalenza in bambini di età scolare è stimata dal 3% al 6% ed è più frequente nel sesso
maschile.

Cause. Le cause sono sconosciute. Inizialmente, la sindrome è stata interpretata come


l’esito di alterazioni organiche dell’encefalo. In particolare, la frequente associazione del
comportamento ipercinetico con segni neurologici minori indusse ad ipotizzare
l’esistenza di un Danno Cerebrale Minimo. Tuttavia la difficoltà di documentare tale
alterazione indusse a preferire al termine di Danno quello di Disfunzione.
Successivamente, il concetto di Disfunzione Cerebrale Minima è stato abbandonato in
quanto non supportato da evidenze cliniche. È stata messa in evidenza l’importanza della
familiarità, anche se la ricerca genetica non è riuscita a fornire contributi definitivi.

Clinica. Il DDAI è una sindrome comportamentale caratterizzata da comportamenti che


possono essere ricondotti a tre aree disfunzionali: l’iperattività, l’impulsività e la
disattenzione.

L’iperattività: è caratterizzata da livelli di attività motoria particolarmente elevati. Il


soggetto è incapace di stare fermo e anche quando sta fermo si agita, muovendo in
continuazione le mani, i piedi e/o il capo. Il soggetto affetto da DDAI, spesso lascia il
posto in situazione in cui si dovrebbe stare seduti come a scuola o al cinema; si dedica a
giochi che prevedono un’intensa attività motoria e ha difficoltà a dedicarsi a giochi
tranquilli.

L’impulsività: si riferisce ad un modo di essere caratterizzato dall’incapacità di


riflettere, mediare e dilazionare le risposte comportamentali. Il soggetto non pensa prima
di agire o di rispondere ad una richiesta. Nei giochi o nelle attività di classe è incapace di

69
attendere il proprio turno e si intromette nei giochi o nelle conversazioni degli altri in
maniera invadente.

La disattenzione: si esprime con una incapacità di mantenere l’attenzione su un


determinato compito e di resistere all’azione di distrattori. Il soggetto commette errori di
distrazione ed è sbadato nelle attività quotidiane; non riesce a portare a termine le
consegne e dimentica spesso gli oggetti necessari per le sue attività.

I sottotipi clinici. Possiamo distinguere tre gruppi: nel primo prevalgono l’impulsività e
l’iperattività; nel secondo prevale la disattenzione; nel terzo prevalgono i tre tipi di
comportamento.

Decorso. Il DDAI comincia a manifestarsi nei primi anni di vita, ma l’epoca abituale in
cui il disturbo comincia ad incidere significativamente sul funzionamento adattivo è
l’inizio della scuola primaria. Il disturbo si evolve in maniera differente a seconda di
alcuni fattori come il diverso grado di espressività dei sintomi caratterizzanti e la severità
di ciascuna dimensione. Il disturbo persiste in età adulta ance se assume un’espressività
diversa.

Diagnosi. Viene formulata in base a criteri comportamentali, per tanto l’osservazione


assume una particolare importanza.

L’osservazione: vanno considerati alcuni aspetti come il modo con cui il bambino entra
nella stanza, investe lo spazio, si rapporta all’oggetto, aderisce alle proposte
dell’esaminatore, si impegna nel compito e resiste alle distrazioni. Per la formulazione di
una diagnosi definitiva, però, è necessario verificare se i comportamenti del bambino
osservati in ambito clinico caratterizzano il modo di essere del soggetto anche nei
contesti di vita abituale.

I questionari e le interviste: è determinante l’adozione di questionari che premettono di


raccogliere notizie sul comportamento del bambino a casa, a scuola e nell’ambito delle
attività del tempo libero. Fra i questionari maggiormente utilizzati vanno citati i
questionari di Conner.

Il continuous performance test: rappresenta una valutazione semi-obiettiva


dell’attenzione e della capacità di controllare risposte impulsive. In pratica viene
presentato al bambino sul monitor una sequenza di stimoli come lettere o figure, in
rapida successione. Fra essi viene stabilito uno stimolo bersaglio chiamato target: il
bambino non deve fare altro che stare attento e premere un tasto quando sul monitor
compare il target. Gli errori che possono essere commessi sono di omissione (non viene
premuto il tasto) o di commissione (viene premuto il tasto per uno stimolo che non è il
target). Gli errori di omissione sono utili per valutare le capacità di mantenimento

70
dell’attenzione, mentre quelli di commissione sono utili per la valutazione
dell’impulsività.

La diagnosi differenziale. L’esame neuropsichiatrico è finalizzato a valutare se i


sintomi sono riconducibili al DDAI o altri disturbi come la Disabilità Intellettiva e
Disturbi d’Ansia. Spesso, possono coesistere altre condizioni patologiche come: i
disturbi della condotta, il disturbo oppositivo-provocatorio, i disturbi dello spettro
autistico, i disturbi del linguaggio, i disturbi dell’apprendimento, i disturbi d’ansia e
l’epilessia.

Terapia. Il PTP prevede interventi farmacologici, riabilitativi, psico-educativi e


psicoterapeutici.

Interventi farmacologici: l’ipotesi dopaminergica del disturbo ha indotto ad utilizzare


farmaci psicostimolanti come la pemolina ed il metilfenidato che viene maggiormente
utilizzato per la capacità di incidere sul rilascio della dopamina.

Interventi riabilitativi: per i bambini in età prescolare e scolare trova indicazione la


terapia della neuropsicomotricità. Vengono privilegiate l’interazione e la comunicazione
sociale in un contesto ludico. Il terapista si prefigge i seguenti obiettivi: prolungamento
dei tempi di attenzione, potenziamento dei processi di controllo degli impulsi, aderenza
alle regole, educazione alle emozioni. Si tratta di esperienze che portano ad un
miglioramento dei comportamenti. Fra gli interventi riabilitativi, la logopedia trova
ampia indicazione.

Interventi psico-educativi: in molte situazioni i genitori sviluppano sentimenti di


inadeguatezza, legati alla percezione di non riuscire a gestire i comportamenti del
bambino; di colpa, legati alla fantasia di essere responsabili del comportamento del
bambino; di angosci, legati alla paura che lo sviluppo del bambino possa essere
compromesso. Tali vissuti si traducono in atteggiamenti pedagogici adeguati che
finiscono per aggravare il disturbo. Gli interventi psico-educativi sono, pertanto, rivolti a
creare nell’ambiente significativo del soggetto le condizioni utili a favorire l’estinzione
dei comportamenti disadattivi e la comparsa di comportamenti adeguati.

Gli interventi psicoterapeutici: vengono realizzati con metodologie variabili, in rapporto


alle indicazioni che provengono dalla valutazione del soggetto della famiglia e delle
risorse dell’ambiente.

Capitolo 21: I DISTURBI DA COMPORTAMENTO DIROMPENTE, DEL


CONTROLLO DEGLI IMPULSI E DELLA CONDOTTA.

Si tratta di un gruppo di quadri clinici che rappresentano uno dei motivi più frequenti di
consultazione in Neuropsichiatria Infantile. I quadri clinici sono caratterizzati da due

71
aspetti quali il disturbo della regolazione dell’emotività e/o del comportamento e
l’assunzione di atti e modalità reattive che violano i diritti degli altri, mettendo il
soggetto in situazioni di conflittualità con le figure che rappresentano l’autorità. I quadri
clinici inclusi nel gruppo sono: il Disturbo della condotta e il Disturbo oppositivo-
provocatorio.

IL DISTURBO DELLA CONDOTTA.

Si tratta di un quadro clinico caratterizzato da comportamenti inadeguati che configurano


un profilo funzionale persistente e pervasivo nel modo in cui il soggetto si relaziona ai
contesti di vita.

Clinica. I comportamenti inadeguati possono interessare diverse aree del funzionamento


adattivo; vengono suddivisi in quattro gruppi fondamentali: condotte aggressive che
causano danni fisici ad altre persone o ad animali; condotte non aggressive che causano
perdita o danneggiamento della proprietà; frode o furto; gravi violazioni di regole. La
sintomatologia varia in rapporto alla fase di sviluppo: nei quadri ad esordio precoce
prevalgono i disturbi comportamentali caratterizzati da prepotenza nei confronti dei
coetanei e violazione delle regole; nei quadri ad esordio in adolescenza compaiono
comportamenti disfunzionali a carattere sessuale e gli atti delinquenziali. Entrambe le
forme possono assumere gravità diverse che variano dal grado lieve a quello medio e
grave. In ambito scolastico l’apprendimento e solitamente al di sotto del livello previsto
in relazione all’età e all’intelligenza. Frequentemente si riscontra una scarsa tolleranza
alla frustrazione, con modalità reattive inadeguate che rendono difficile l’inserimento del
soggetto nelle normali attività di vita.

Il Disturbo della condotta con emozioni prosociali limitate. Sul piano affettivo-
relazionale, i soggetti affetti da Disturbo della Condotta presentano una scarsa attenzione
per i sentimenti, i desideri e il benessere degli altri. In particolare, il soggetto è
caratterizzato da tratti denominati “tratti calloso-anemozionali” che sono: assenza di
sensi di colpa e di rimorso nei confronti delle conseguenze delle loro azioni; mancanza
di empatia; scarsa espressione delle emozioni; menefreghismo; disinteresse nei confronti
delle attività che vengono abitualmente ritenute importanti.

Attualmente la percentuale del disturbo della condotta sembra essersi accresciuta,


soprattutto negli ambienti urbani, con prevalenza per il sesso maschile.

Cause. I disturbi della condotta riconoscono una genesi plurifattoriale. Nell’ambito


dell’area neurobiologica, le ricerche hanno messo in evidenza una generica
predisposizione nei bambini in cui uno dei genitori presenta analoghi disturbi,
dipendenza da alcool, disturbi dell’umore o schizofrenia. I fattori ambientali assumono

72
un significato preminente in quanto agiscono dall’esterno sullo sviluppo affettivo-
relazionale del bambino.

Deficit di empatia e del rimorso. Riguarda la mancata capacità di comprendere e sentire


quello che gli altri provano in termini emotivi; si tratta di un deficit che impedisce al
soggetto di assumere la prospettiva dell’altro e di cogliere la sua sofferenza. In aggiunta
al deficit dell’empatia è abituale la mancanza di rimorso cioè il senso di malessere legato
ad una trasgressione o ad un incidente provocato. Si segnala, inoltre, una scarsa
motivazione ai comportamenti di cooperazione e solidarietà.

Aumentata sensibilità nei confronti della minaccia. La sensibilità alle minacce rientra in
un sistema di protezione con finalità adattive, in quanto permette di percepire una
situazione di pericolo e mettere in atto dei comportamenti difensivi. Se il pericolo è
lontano, il soggetto si limita a bloccarsi e a monitorarlo; se il pericolo si avvicina e
rappresenta una minaccia reale il soggetto fugge; se il pericolo lascia poco spazio ad
un’eventuale fuga, il soggetto combatte. L’amigdala riveste un ruolo importante in
questa funzione, in quanto è una parte del cervello preposta a determinare l’intensità
della risposta nei confronti di una minaccia. Un’eventuale iperattività dell’amigdala
aumenta la probabilità che si verifichi una risposta aggressiva sproporzionata all’entità
dell’evento o dello stimolo.

Atipie del senso morale. I comportamenti aggressivi e violenti che caratterizzano il DC


sono sottesi da alcuni set cognitivi disfunzionali. I soggetti con DC inferiscono molto più
spesso degli altri soggetti che l’autore di un ipotetico danno nei loro confronti sia mosso
da un’intenzione ostile, più tosto che neutrale o benigna; gli adolescenti antisociali sono
meno propensi a mettere in atto comportamenti prosociali, nel momento in cui ritengono
che l’essere collaborativi sia dannoso e che, al contrario, l’aggressività paghi; i ragazzi
con DC non riconoscono l’autorità come legittima, in quanto, essa viene percepita come
inadeguata, debole, lesiva, abusante, arbitraria e insensibile nei confronti delle loro
preferenze e/o avversioni. La percezione degli altri come ostili e l’attribuzione di scarsa
equità all’autorità costituiscono la base per legittimare la propria attitudine ad ottenere
vantaggi anche a discapito degli altri.

Diagnosi. Si basa sull’osservazione diretta e sul colloquio con il soggetto, sul colloquio
con i genitori e sulla documentazione da loro esibita. Le informazioni raccolte
permettono di valutare: il tipo di comportamenti atipici presentati dal soggetto; la loro
durata, frequenza ed intensità; le caratteristiche dell’ambiente in cui vive il soggetto; le
modalità affettivo-pedagogiche che caratterizzano la relazione genitore-bambino; la
presenza di altri tipi di disturbo come fobie, enuresi o ansia generalizzata. La diagnosi
non è limitata a definire le caratteristiche dei comportamenti osservati e riferiti, ma è
finalizzata a valutare le caratteristiche del mondo interno del soggetto. La conoscenza di

73
tali dinamiche è fondamentale per la formulazione del piano di trattamento . Il processo
diagnostico, infine, va a valutare l’eventuale presenza di quadri clinici associati.

Terapia. Prevede: interventi farmacologici, limitati a situazioni in cui sono presenti altre
condizioni patologiche associate; interventi riabilitativi, vanno presi in considerazione
nelle situazioni in cui il DC si associa ai disturbi del neurosviluppo; interventi psico-
educativi, prevedono la creazione di spazzi in cui il soggetto possa esprimersi e
confrontarsi con modelli di comportamento strutturati; interventi psicoterapeutici, ad
orientamento psicodinamico (utili nell’elaborazione delle dinamiche conflittuali), ad
orientamento sistemico-relazionale (supporto nelle situazioni in cui la disfunzione
investe l’intera famiglia), ad orientamento cognitivo-comportamentale (modifica del
comportamento e riorganizzazione cognitiva del funzionamento mentale del soggetto).
Nella maggioranza dei casi il disturbo tende a scomparire con l’età adulta, mentre in altri
casi il disturbo persiste, manifestandosi con condotte antisociali.

IL DISTURBO OPPOSITIVO-PROVOCATORIO.

Il DOP è caratterizzato da un insieme di comportamenti che assumono l’aspetto di una


costante sfida nei confronti delle figure dell’ambiente significativo. L’atteggiamento
emotivo di fondo è rappresentato da una situazione di irritabilità e frequenti scoppi di ira.

Clinica. Il quadro clinico esordisce in età prescolare e si esprime con: umore collerico
e/o irritabile; comportamento polemico e/o provocatorio; tendenza alla vendicatività.

Umore collerico e/o irritabile. Bassa tolleranza nei confronti delle frustrazioni. Il
soggetto va in collera per motivi apparentemente banali e a volte non sembrano esserci
motivi ai suoi scoppi di collera. Il soggetto è irritabile e permaloso.

Comportamento polemico e/o provocatorio. Il soggetto vuole avere sempre l’ultima


parola; ha grosse difficoltà ad accettare le regole, in quanto tende ad anteporre i suoi
bisogni; litiga spesso con l’autorità o anche con i pari. Inoltre, il soggetto esegue
lentamente e in maniera inadeguata una serie di compiti o di routine per “esasperare” i
genitori e provocare la loro rabbia, accusandoli, tra l’altro, responsabili dei proprio errori
o dei propri comportamenti inadeguati.

Tendenza alla vendicatività. Il soggetto non riesce ad elaborare i vissuti di rabbia e, così,
mette in atto strategie vendicative.

Diagnosi. La diagnosi del DOC pone una serie di difficoltà relative sia al fatto che si
esprime con comportamenti molto diffusi nella popolazione generale, sia al fatto che i
sintomi possono essere inquadrati in altre psicopatologie.

Terapia. Prevede: interventi riabilitativi, educazione alle emozioni, comunicazione


sociale, facilitazione di esperienze di condivisione; interventi psico-educativi, cercano di
74
favorire la crescita psicologica del soggetto e di facilitare comportamenti aderenti alle
esigenze del contesto; interventi psicoterapeutici, derivano dalla valutazione di diversi
fattori come l’età del soggetto, le caratteristiche del suo profilo interattivo e la tipologia
parentale.

In un’alta percentuale di casi il DOP finisce per associarsi ad altri quadri patologici
come il Disturbo d’ansi o il Disturbo depressivo.

Capitolo 23: IL DISTURBO DA TIC.

Il Disturbo da Tic è un quadro clinico caratterizzato dalla presenza di tic, ossia un


movimento improvviso, rapido, ricorrente e aritmico avvertito come irresistibile: i
tentativi di reprimerlo, infatti, determinano un notevole senso di disagio e tensione. I tic
si accentuano in situazioni di stress, mentre si attenuano in situazioni che richiedono
concentrazione (leggere o disegnare); solitamente scompaiono durante il sonno. Possono
essere classificati come semplici o complessi.

• Semplici: quelli motori sono rappresentati da ammiccamenti, torsioni del collo,


alzate di spalle, smorfie del viso o colpi di tosse; quelli vocali sono rappresentati
dal raschiarsi la gola, sbuffare, tirare su col naso o ululare.
• Complessi: quelli motori sono rappresentati da comportamenti vari come saltare,
toccare, pestare i piedi o odorare oggetti; quelli vocali sono rappresentati dalla
ripetizione di parole o di frasi fuori dal contesto.

Le caratteristiche del tic possono presentare variazioni. Vengono abitualmente


riconosciute tre forme cliniche: il Disturbo di Tourette, caratterizzato da tic motori e
vocali presenti in maniera continuativa per un periodo superiore ad un anno; il Disturbo
persistente da Tic, caratterizzato da tic motori e vocali presenti per un periodo superiore
ad un anno; il Disturbo transitorio da Tic, caratterizzato dalla comparsa di tic motori e
vocali per un periodo inferiore ad un anno.

Cause. È stata ipotizzata l’esistenza di un fattore genetico responsabile di una


predisposizione all’incidenza del disturbo. Dal punto di vista biologico, si ritiene che il
sistema neurotrasmettitoriale coinvolto sia quello dopaminergico. Un ruolo determinante
sembra svolto dai nuclei della base che sono ricchi di neuroni dopaminergici, implicati
in diverse funzioni motorie. Diverse indagini suggeriscono l’esistenza di una disfunzione
a livello del nucleo striato che verrebbe meno nella sua funzione di inibizione degli
impulsi eccitatori. Fattori emotivi, come l’ansia e l’insicurezza, in passato venivano
ritenuti responsabili del disturbo, mentre attualmente vengono considerati sintomi
associati.

Clinica. Il paziente è cosciente del verificarsi dei tic e li avverte come un bisogno, la cui
soddisfazione procura una riduzione dello stato di tensione. Il disturbo insorge intorno ai
75
7 anni; inizialmente i tic sono di tipo motorio semplice, localizzati agli occhi o alla
faccia, successivamente si estendono al tronco e agli arti diventando più complessi ed
associandosi a tic vocali. Un carattere che va sottolineato è la suggestionabilità: il
soggetto, cioè, presenta una tendenza a ripetere i gesti osservati e i suoni uditi da altri o
emessi da lui stesso. I disturbi frequentemente associati sono i Disturbi d’Ansia, il
Disturbo da Deficit dell’Attenzione con Iperattività, il Disturbo Ossessivo-Compulsivo.

Diagnosi. Solitamente la diagnosi non pone particolari problemi. L’anamnesi e


l’osservazione permettono di rilevare gli elementi utili per: la classificazione del
disturbo, la caratterizzazione di eventuali disturbi associati, la diagnosi differenziale. In
merito a quest’ultimo aspetto, va sempre tenuta presente una situazione definita corea di
Sydenham o corea reumatica. Si tratta di una manifestazione della malattia reumatica
che esordisce con comportamenti simili ai tic, ma che se ne differenziano in quanto
incontrollabili e inconsapevoli.

Terapia. La prima misura terapeutica è rassicurare il soggetto e la famiglia. Il


trattamento farmacologico è riservato alle forme più gravi; i farmaci utilizzati sono i
neurolettici come l’aloperidolo e il risperidone.

Prognosi. Le forme transitorie presentano un’evoluzione spontaneamente benigna,


mentre le forme croniche prevedono due possibilità: il disturbo può scomparire
nell’adolescenza; i tic persistono nell’età adulta anche se la sintomatologia tende ad
attenuarsi.

Capitolo 24: I DISTURBI DELLA COMUNICAZIONE.

La comunicazione viene definita come lo scambio di messaggio fra due o più persone;
affinché possa realizzarsi lo scambio c’è bisogno di un sistema di codici. I codici
comunicativi sono: il linguaggio verbale; il linguaggio non verbale (segno, gesti,
mimica); l’uso e/o la comprensione di elementi contestuali che integrano il significato
del messaggio, i disturbi della comunicazione comprendono: Disturbo del linguaggio;
Disturbo fonetico-fonologico; Disturbo della fluenza con esordio nell’infanzia
(balbuzie); Disturbo della comunicazione sociale.

DISTURBO DEL LINGIAGGIO.

Il linguaggio è una funzione complessa che si realizza attraverso la maturazione e lo


sviluppo di una serie di strutture: organi fono-articolatori; apparato senso-percettivo;
strutture encefaliche specifiche; aree e sistemi di connettività intra ed extra-emisferica.
La funzione linguistica, indipendentemente dalle strutture di base utili alla sua
realizzazione, si organizza secondo una serie di regole che il soggetto deve acquisire ed

76
automatizzare. In molti casi, il disturbo del linguaggio è “secondario”, viene cioè
considerato sintomo di un quadro sindromico più complesso; in altri casi è “primario”,
nel senso che non può essere attribuito ad un’altra malattia o condizione patologica.

Cause. Le cause del disturbo del linguaggio non sono conosciute. Si fa spesso
riferimento ai fattori ambientali, come l’ipostimolazione della funzione linguistica, o a
fattori genetici, mettendo in evidenza una particolare ricorrenza di disturbi del
linguaggio in ascendenti e collaterali.

Le funzioni del linguaggio. La capacità di parlare e di comprendere il linguaggio


deriva, oltre che dalle strutture di base, dallo sviluppo di alcune competenze quali:
riconoscimento e gestione dei suoni che compongono il linguaggio (competenza
fonologica); riconoscimento e gestione delle parole e delle regole che le legano nelle
frasi (competenza morfo-sintattica); l’attribuzione del significato delle parole e delle
frasi (competenza semantica). La componente fonologica si riferisce alla capacità del
bambino di discriminare fra suoni verbali e suoni non verbali, riconoscere somiglianze e
differenze tra suoni uditi e suoni emessi e discriminare i diversi suoni del parlato. La
competenza morfo-sintattica comprende l’abilità del bambino di combinare più parole
per formare delle frasi e di arricchire la frase con una serie di figure linguistiche. La
componente semantica, infine, si riferisce alla capacità del bambino di arricchire il
vocabolario e di acquisire il significato delle singole parole. Un disturbo del linguaggio
coinvolge tutte le componenti appena accennate.

Le basi neurologiche del linguaggio. All’organizzazione del linguaggio partecipano


alcune strutture encefaliche specifiche, fra cui, l’area di Wernicke (centro verbo-
acustico) e l’area di Broca (centro verbo-motore). Una lesione in un’area situata nella
regione mediana del lobo temporale medio dell’emisfero sinistro comporta nel soggetto
l’incapacità di capire il senso di quello che ascolta. Quest’area prende il nome di
Wernicke. Una lesione, invece, in un’area situata nel piede della circonvoluzione
frontale ascendente dell’emisfero sinistro comporta la perdita della capacità di formulare
verbalmente un pensiero. Quest’area prende il nome di Broca. Possiamo affermare che
l’encefalo partecipa globalmente all’organizzazione del linguaggio. Per riconoscere il
significato di una frase, non è sufficiente decifrare il messaggio, ma bisogna accedere al
proprio patrimonio di conoscenze che si riferisce ad un bagaglio nozionistico e ad un
bagaglio esperienziale. L’attività dell’encefalo si realizza, inoltre, per altre due funzioni:
la disponibilità di un pensiero strutturato, che fornisce i contenuti del linguaggio di
espressione; la capacità di pianificare ed integrare le funzioni, che permette di realizzare
il linguaggio.

Clinica. L’esordio del disturbo del linguaggio è molto precoce; coincide, infatti, con
l’epoca abituale di insorgenza del linguaggio. Il bambino presenta un “ritardo” relativo

77
a: l’emergenza delle prime parole; l’emergenza della capacità di associare più parole in
frasi semplici; l’emergenza della capacità di organizzare frasi complesse; l’emergenza
della capacità di raccontare e sostenere una conversazione.

Le forme lievi. Esordiscono e si risolvono in età prescolare o con l’ingresso nella scuola
primaria. Il bambino, all’età di 2 anni, ha un vocabolario limitato a dieci parole che non
utilizza nello scambio comunicativo; non sa dire il suo nome, né l’età che ha. All’età di
circa 4 anni il bambino comincia a strutturare frasi, utilizzandole per gli scambi
comunicativi. Persistono, tuttavia, deficit fonologici. All’età di 5 anni il linguaggio
subisce una forte accelerazione e le difficoltà si attenuano fino a scomparire.

Le forme di media gravità. Si riscontrano tutti i sintomi caratterizzanti la forma lieve,


con la differenza della “durata” maggiore delle difficoltà. Durante la scuola primaria,
infatti, sono presenti deficit che riguardano la fonologia, l’organizzazione morfo-
sintattica e la componente semantica. Le difficoltà del linguaggio parlato si ritrovano
anche nel linguaggio letto e scritto. Il linguaggio riesce, con l’evoluzione, a raggiungere
i livelli che soddisfano le richieste per un buon adattamento sociale, anche se le
competenze narrative e conversazionali non rappresentano un punto di forza del profilo
funzionale del soggetto.

Le forme gravi. L’entità del deficit è tale che, anche da adulto, il soggetto ha un
linguaggio caratterizzato da gravi limitazioni funzionali.

Diagnosi. Si basa su: anamnesi, esame clinico generale, esame neurologico, esame
psichico, indagine di laboratorio. Gli obiettivi del processo diagnostico sono: stabilire il
livello di sviluppo del linguaggio, caratterizzare il tipo di disturbo, valutare l’eventuale
presenza di patologie neuropsichiatriche associate.

Terapia. I provvedimenti terapeutici dipendono dall’età del bambino, dall’eventuale


presenza di disturbi associati e dalle caratteristiche dell’ambiente significativo. Quando
si ha la possibilità di intervenire precocemente, il piano terapeutico deve essere mirato
alla comunicazione e alla relazione. Quando il bambino presenta un investimento del
canale verbale, il piano terapeutico deve essere centrato sulla facilitazione,
l’apprendimento e l’automatizzazione delle competenze linguistiche. In questa
prospettiva, di grande importanza è la logopedia.

DISTURBO DELLA FLUENZA VERBALE (BALBUZIE).

Si tratta di un disturbo dell’articolazione della parola dovuto ad uno spasmo


intermittente dell’apparato fonatorio, per cui l’eloquio si presenta esitante, tronco o con
ripetizioni.

78
Cause. Risultano indefinite. Possono essere riconducibili a: familiarità; sesso
(prevalenza per il sesso maschile); disturbi della lateralizzazione; ritardi del linguaggio.
Si ipotizza che alla base del disturbo vi sia un fattore organico a forte componente
genetica. Le ipotesi neuropsicologiche, invece, affermano che la balbuzie sarebbe
riferibile ad una disfunzione dei circuiti di controllo della parola. L’orientamento
psicogenetico tende ad enfatizzare un riscontro rappresentato da uno stretto legame tra
balbuzie e condizioni emotive.

Clinica. La balbuzie viene suddivisa in tonica, quando uno spasmo ostacola l’avvio del
suono o il passaggio da un suono a quello successivo; clonica, quando l’inceppo
nell’eloquio è dovuto alla ripetizione di un suono che in genere è la prima sillaba o la
prima parola della frase. Il disturbo della fluenza è accompagnato da sincinesie
(movimento compiuto da un arto involontariamente) e turbe vegetative e respiratorie. In
alcuni casi, si hanno periodi anche di mesi di remissione della sintomatologia, che fanno
pensare alla guarigione della malattia. Tuttavia, il disturbo si ripresenta. Il disturbo può
comparire nel corso del terzo anno di età o tra i 6 e i 10 anni; raramente si instaura
nell’adolescenza o nell’età adulta.

Terapia. Sono stati proposti: interventi riabilitativi, cercano di facilitare la


riorganizzazione della funzione e stimolare il controllo tonico-emozionale del soggetto;
interventi psico-educativi, cercano di favorire modificazioni degli atteggiamenti
dell’ambiente significativo; gli interventi psicoterapeutici, prevedono terapie cognitivo-
comportamentali (basate su tecniche di decondizionamento) e psicoterapie ad
orientamento psicodinamico (favoriscono un adeguato controllo pulsionale ed una
gestione produttiva dell’ansia); interventi farmacologici, vengono utilizzati in casi di
manifestazioni ansiose o sintomi di natura depressiva.

Prognosi. Nella maggioranza dei casi il disturbo si risolve durante l’età evolutiva; tende
a persistere solo nel 30% dei casi.

DISTURBO DELLA COMUNICAZIONE SOCIALE (PREAGMATICA).

Il disturbo si manifesta con stili comunicativi bizzarri per un’aderenza eccessiva al


significato letterale del linguaggio, l’uso di espressioni scarsamente aderenti alle
esigenze del contesto e un’inadeguatezza delle competenze narrative e conversazionali.
L’elemento caratterizzante è, dunque, un uso del linguaggio che non tiene in debita
considerazione le caratteristiche del contesto. Si tratta di un disturbo di recente
introduzione nei sistemi di nosografia.

Cause. Le cause del disturbo sono sconosciute. L’elemento caratterizzante è


rappresentato dalla menomazione di una specifica funzione: la pragmatica, cioè la
capacità di comprendere il significato di una parola o di una frase facendo riferimento al

79
contesto. Nell’ambito della pragmatica, inoltre, rientra anche la capacità richiesta al
soggetto di assumere la prospettiva dell’altro per adattare l’eloquio a quello che si
immagina siano le conoscenze dell’altro.

Clinica. Il disturbo esordisce in età scolare, quando il confronto con i pari e le richieste
di un linguaggio che sappia adeguarsi alle esigenze narrative e conversazionali imposte
dalla nuova fase evolutiva, rendono evidenti le difficoltà del soggetto. Lo stile
comunicativo viene spesso interpretato come un disturbo del pensiero; così, il soggetto
genera il sospetto di una persona che ha bisogni educativi speciali.

Diagnosi. Prevede la verifica dell’esistenza di un reale problema della pragmatica.


Vengono utilizzati alcuni strumenti quali il CCC-2, un questionario strutturato. Di
fondamentale importanza è la diagnosi differenziale, centrando l’attenzione sui disturbi
dello spettro autistico. La terapia prevede un lavoro finalizzato a favorire le competenze
di comunicazione sociale.

Capitolo 25: I DISTURBI SPECIFICI DELL’APPRENDIMENTO

Il Disturbo specifico dell’apprendimento (DSA) include una serie di quadri clinici in cui
l’elemento caratterizzante è un deficit che riguarda una o più abilità scolastiche. Il deficit
può riguardare, infatti, la lettura, la scrittura o il calcolo; non è riconducibile a patologie
neuromotorie, cognitive o psicopatologiche, ma riguarda specificamente il processo
dell’apprendimento. Si presenta maggiormente nei maschi.

Cause. Le cause sono sconosciute, tuttavia si ipotizza l’esistenza di una serie di


disfunzioni neuropsicologiche di fondo che si traducono nella mancata acquisizione di
alcune abilità scolastiche. Alcuni studi evidenziano l’importanza della genetica alla base
del disturbo, affermando l’esistenza di geni responsabili di funzioni specifiche: il
disturbo, in questa prospettiva, deriverebbe da una mutazione di questi geni e/o da
un’interferenza nella loro espressività. Altri studi, invece, evidenziano l’importanza di
fattori organici di natura acquisita, ossia danni o micro danni, acquisiti in epoche
precoci, che avrebbero interferito sullo sviluppo dell’encefalo. Dobbiamo tener presente
che l’apprendimento delle abilità implica diversi meccanismi: processi percettivi uditivi;
processi percettivi visivi; memoria uditiva e visiva a breve termine; competenze
linguistiche e numeriche; memoria di lavoro. I DSA, pertanto, verrebbero a configurarsi
come disfunzioni riguardanti tali meccanismi.

Clinica. Il quadro clinico si rende evidente con l’inizio della scuola primaria: il deficit
può interessare la lettura, la scrittura o il calcolo; in alcuni casi, può compromettere più
aree contemporaneamente.

80
DSA con compromissione della lettura. La rilevanza clinica varia in rapporto alla
severità della compromissione. Un soggetto legge male per problemi che possono
riguardare l’accuratezza, la velocità o la comprensione del testo letto.

• Deficit dell’accuratezza: riguarda gli errori che un soggetto fa durante la lettura ad


alta voce. La tipologia degli errori varia in base all’età e alla severità del disturbo.
Gli errori maggiormente riscontrati sono: omissione di sillabe o di lettere; unione
di parole; mancata osservanza degli accenti o della punteggiatura; aggiunta di
sillaba. La dislessia si riferisce ai quadri clinici in cui è compromessa
specificamente l’accuratezza della lettura.
• Deficit della rapidità: riguarda il tempo che il soggetto impiega nella lettura del
brano. Il soggetto legge male in quanto: segue con il dito la lettura; impiega un
tempo eccessivamente lungo nella lettura di una parola; legge in modo sillabico;
intervalla la lettura con lunghe pause. I motivi alla base del rallentamento sono
molteplici.
• Deficit della comprensione: riguarda l’incapacità del soggetto di comprendere il
significato di ciò che ha letto, compromettendo la finalità della lettura che è quella
di acquisire notizie, informazioni e conoscenze. Quando si presenta
“singolarmente”, viene riconosciuto all’età di 8-9 anni e tende a persistere nel
tempo.

DSA con compromissione della scrittura. Le difficoltà iniziano con la scuola primaria,
dove il bambino può scrivere male per problemi che riguardano la grafia, l’ortografia o
la composizione del testo.

• La disgrafia: riguarda l’acquisizione dei programmi motori che permettono di


tradurre sullo spazio grafico quanto elaborato mentalmente. Il disturbo si
manifesta con i seguenti segni: eccessiva velocità nello scrivere; scarsa velocità
nello scrivere; impugnatura scorretta. Tali segni tendono a migliorare con
l’evoluzione, anche se configurano uno stile di scrittura ai limiti della leggibilità.
• La disortografia: riguarda l’incapacità del padroneggiamento delle regole che
appartengono al sistema grafemico della lingua. Il soggetto presenta: inversioni;
omissioni; errori di punteggiatura, accenti.
• La composizione del testo: inizialmente la difficoltà si traduce con brevità del
testo, povertà de vocabolario ed inadeguata struttura della frase. Ne deriva,
successivamente, una composizione inadeguata sul piano qualitativo e
quantitativo.

DSA con compromissione del calcolo. Le difficoltà riguardano la comprensione e la


manipolazione degli elementi basali dell’abilità numerica e l’acquisizione delle
procedure e algoritmi del calcolo. Il soggetto presenta difficoltà: nel riconoscimento di

81
piccole quantità; nella seriazione; nella comparazione; nella comprensione dei segni e
termini matematici; nell’apprendere i concetti relativi alle operazioni aritmetiche.

Diagnosi. Nei confronti di un bambino segnalato per “disturbi dell’apprendimento” è


necessario mettere in atto un processo diagnostico articolato in diverse fasi:

- accertamento dell’esistenza di una reale difficoltà, finalizzato a verificare il livello


prestazionale nelle aree della lettura, della scrittura e del calcolo. Si effettua attraverso
l’esame della lettura, l’esame della scrittura e l’esame del calcolo;

- diagnosi differenziale, si rivolge alla valutazione globale del soggetto e cerca di


comprendere se si tratta di un disturbo “specifico” o se esistono altre situazioni
patologiche all’interno delle quali il disturbo debba essere inquadrato. Si fonda
sull’anamnesi, sull’esame neurologico e sull’esame psichico;

- i disturbi associati, spesso sono associati i seguenti quadri clinici: disturbi del
linguaggio, disordini della lateralizzazione e disturbi emotivi. Vengono considerati non
come causa del disturbo, ma come co-presenza.

Terapia. L’orientamento del nostro Paese è quello di affidare la “cura” dei disturbi
specifici dell’apprendimento alla Scuola che ha il compito di realizzare un Piano
Didattico Personalizzato. Il piano seguente deve essere integrato con il PTP che si basa
su:

• Interventi riabilitativi, comprendono: le stimolazioni specifiche (attività che


hanno per oggetto la prestazione deficitaria e si basano sulla ripetizione); le
stimolazioni generali (attività di pre-grafismo, attività relative alla formazione
dello schema corporeo, attività di orientamento spazio-temporale, attività di
espressione verbale).
• Interventi psico-educativi, riconoscono come autori privilegiati i genitori e gli
insegnanti. L’intervento educativo mira a definire la natura del disturbo e a
suggerire le modalità di approccio più idonee.
• Interventi psicoterapeutici, sono differenti in rapporto alle esigenze del singolo
caso.

Prognosi. I DSA presentano un’evoluzione migliorativa. In alcuni casi, però, i disturbi


persistono, limitando in età adulta le competenze della lettura, della scrittura e del
calcolo.

Capitolo 26: I DISTURBI DELL’EVACUAZIONE.

82
Si riferiscono a problemi legati al controllo degli sfinteri: si parla di enuresi, quando lo
sfintere interessato e quello vescicale; si parla di encopresi, quando lo sfintere interessato
è quello anale.

L’ENURESI. Viene indicata una minzione involontaria in un bambino di età superiore


ai 5 anni. È definita diurna, se si verifica durante il giorno; notturna, se si verifica
durante il sonno; mista, se è diurna e notturna. Viene, inoltre, suddivisa in: primaria, se il
bambino non è mai stato completamente continente; secondaria, se il bambino ha
presentato un periodo di almeno sei mesi, nei quali è stato continente. È un disturbo
molto frequente.

Cause. La familiarità sembra assumere un ruolo molto importante. Relativamente ai


possibili meccanismi disfunzionali, è necessario fare un riferimento alla diuresi e alla
minzione. Il sangue in circolo passa attraverso i reni che provvedono a filtrarlo. La
maggior parte dei liquidi viene riassorbita, mentre una parte va nella vescica per formare
l’urina. Inizialmente, lo svuotamento della vescica avviene in modo riflesso: quando la
quantità di urina raggiunge la capacità critica della vescica, il muscolo detrusore si
contrae determinando la minzione. Progressivamente, la capacità della vescica aumenta,
ma soprattutto si sviluppa la percezione cosciente dello stato di pienezza della vescica.
Ciò permette al soggetto di contrarre volontariamente il detrusore della vescica per
liberarla, ma anche di inibirlo, per rimandare la minzione al momento opportune.
Durante il sonno, quando si verifica una particolare tensione vescicare, si ha il passaggio
dal sonno profondo al sonno leggero, durante il quale può essere avvertito lo stimolo ad
urinare. Facendo riferimento alla fisiologia della diuresi, sono state proposte alcune
cause del disturbo: una ridotta capacità vescicale, un’aumentata produzione di urina,
un’instabilità del detrusore della vescica, un disturbo delle fasi del sonno.

Clinica. Tra le varie forme di enuresi, quella notturna primaria è la più comune: si tratta
di bambini di età superiore ai 5 anni che non hanno mai presentato il controllo dello
sfintere vescicale durante la notte. Nei bambini affetti da questo tipo di enuresi è
possibile mettere in evidenza la presenza durante il giorno di comportamenti riferibili ad
una instabilità vescicale, espressa dal bisogno irresistibile di urinare o da piccole perdite
di urine. I bambini affetti da questo disturbo possono essere suddivisi in due gruppi:
bambini con Enuresi Notturna Isolata e bambini con Enuresi Notturna e Sintomi di
Instabilità Vescicale Diurna. L’enuresi si associa abitualmente a disturbi emotivi come
l’ansia: si tratta, tuttavia, di manifestazioni emotive che rappresentano la conseguenza
del disturbo enuretico, piuttosto che la causa. Il soggetto, inoltre, essendo consapevole
della sua menomazione, sviluppa sentimenti di colpa e inadeguatezza che influenzano le
esperienze di conoscenza e socializzazione.

83
Diagnosi. Un ruolo particolare rivestono le indagini di laboratorio e quelle strumentali
come l’esame delle urine, l’urinocoltura, l’uroflussometria.

Terapia. Prevede: interventi psico-educativi, rappresentati da un’informazione


dettagliata e corretta da fornire ai genitori circa la natura del disturbo del bambino e le
possibili scelte terapeutiche; interventi farmacologici, gli antidiuretici (la vasopressina)
rivestono un ruolo preminente; tecniche comportamentali, si tratta di un allarme notturno
che comincia a suonare alle prime gocce di urina, svegliando il bambino; interventi
psicoterapeutici, incidono sulle funzioni adattive del soggetto attraverso modalità
definite in rapporto alle indicazioni che emergono dalla diagnosi. L’enuresi notturna
primaria presenta un’evoluzione spontaneamente benigna, tendendo a scomparire fra i
14 e 18 anni.

L’ENCOPRESI.

Si intende l’emissione involontaria di feci che si verifica nei bambini oltre i 4 anni, in
assenza di lesioni organiche. Viene distinta in: primaria, quando i bambini quando i
bambini non hanno mai acquisito il controllo dello sfintere; secondaria, quando si
presenta in soggetti che lo avevano già raggiunto. Si verifica con netta preferenza per il
sesso maschile.

Cause. I fattori psicologici sembrano assumere un significato preminente: spesso, infatti,


il disturbo è l’espressione di una disarmonia nelle relazioni del bambino con i propri
genitori. Può essere di ordine regressivo-passivo, in cui le feci assumono il significato di
un’offerta o di un dono alla madre; di ordine aggressivo-attivo, in cui le feci assumono il
significato di un insulto ed esprimono un’intensa protesta.

Clinica. Vengono abitualmente distinte due forme di encopresi:

- Encopresi con costipazione e incontinenza da sovrariempimento, le feci sono poco


formate e la loro fuoriuscita e continua;
- Encopresi senza costipazione e incontinenza da sovrariempimento, le feci sono di
forma e consistenza normali e la defecazione può essere intenzionale (dietro la
poltrona o dietro una tenda) o involontaria (il soggetto perde le feci mentre cerca
di raggiungere il bagno).

Atteggiamenti nei confronti del disturbo e disturbi associati. Il bambino può


mostrarsi indifferente nei confronti del disturbo o dissimularlo (nasconde la biancheria
sporca); in altri casi, presenta atteggiamenti provocatori (esibisce la biancheria sporca). I
disturbi abitualmente associati sono: DOP, condotte infantili-regressive, disturbi d’ansia,
DDAI, difficoltà di apprendimento.

84
Diagnosi e terapia. La diagnosi è finalizzata ad escludere tutte le cause organiche che
possono esprimersi con perdita di feci, per poi focalizzare l’attenzione sulle
problematiche emozionali e le dinamiche relazionali. La terapia prevede interventi psico-
educatici, prevedono un lavoro con la coppia genitoriale; interventi psicoterapeutici,
finalizzati a decolpevolizzare il bambino, aiutarlo a gestire le problematiche emotive,
armonizzare i rapporti nell’ambiente familiare; interventi farmacologici, vengono
utilizzati lassativi in situazioni associate a stipsi. Vanno evitati i clisteri. Il disturbo tende
a scomparire nell’arco di qualche settimana o di alcuni mesi. Tuttavia, le problematiche
emozionali associate a volte possono evolvere in quadri psicopatologici.

85

Potrebbero piacerti anche