SCIENZE UMANE
VOLUME PRIMO
1. PSICOLOGIA
51 2. PEDAGOGIA
73 La famiglia
73 Forme di famiglia
74 Famiglia e educazione sociale
75 Gli stili educativi
75 Clima della famiglia ed ambiente educativo
76 La comunicazione familiare
77 Analisi psicologica dei gruppi familiari: tipologie della famiglia
77 La coppia
78 Il paradosso del fondamento romantico della famiglia nucleare
79 La difficoltà di essere ‘buoni’ genitori
79 Immagini dell’infanzia e strategie educative familiari
79 L’evoluzione familiare e il problema dei ruoli educativi
80 Le nuove famiglie: adozione e affidamento
81 Famiglia e vita sociale
83 mappe concettuali (83-86)
87 3. ANTROPOLOGIA
98 3. Il corpo innaturale
98 Modellare il corpo. Dipingere, colorare, disegnare
99 Scolpire e modellare. Al di là della pelle
100 Vestirsi e svestirsi. Il corpo dopo la morte
101 Mappe concettuali
123 2. La società
123 La struttura sociale; ‘status’
124 Ruolo, gruppo, gruppi primari e secondari
125 I piccoli gruppi, la leadership
126 Il gruppo ed i processi decisionali;
l’appartenenza al gruppo e il gruppo di riferimento
131 4. La Cultura
132 Il concetto di cultura. Le caratteristiche della specie umana.
132 Il controllo sociale
133 Le variazioni culturali: approccio funzionalista ed ecologico.
135 Gli universali culturali. L’etnocentrismo.
136 Il relativismo culturale
136 L’integrazione culturale
137 L’importanza del linguaggio: la teoria relativistica di Sapir e Whorf
138 Il cambiamento culturale
LA PRIMA INFANZIA
Sviluppo fisico e sensoriale. All’inizio della vita la crescita corporea è rapidissima, come anche lo
sviluppo psicologico. Al principio il bambino dorme quasi continuamente. Di norma (ma natural-
mente esistono molte differenze individuali), egli si sveglia ogni 4 ore circa per prendere il latte, resta
ben desto per circa mezz’ora ogni volta e dopo qualche minuto di sonnolenza si addormenta profon-
damente. Il neonato fino al primo mese di vita è lucido e ben desto per non più di 3-4 ore su 24.
Già a partire dal secondo mese il periodo di veglia si allunga sostanzialmente e poi verso la fine del
secondo anno arriverà a 10-12 ore al giorno.
La condizione del primo mese di vita è particolare anche dal punto di vista della capacità di sentire
ed elaborare gli stimoli. Il neonato non ha ancora un rivestimento mielinico dei nervi del tutto com-
pleto (la mielina è una sostanza che costituisce la guaina delle fibre nervose, con funzione protetti-
va), e la trasmissione dei segnali è meno precisa e più lenta del normale. Questo vuol dire che il
sistema sensoriale del neonato non è ancora tanto efficiente, che egli non ode chiaramente certi suo-
ni, che non ha una visione nitida degli oggetti posti oltre il mezzo metro di distanza, che predilige
stimoli semplici e ripetitivi. É stato dimostrato sperimentalmente che l’attenzione del neonato è
sollecitata solo da stimoli molto semplici, mentre stimoli più complessi sono trascurati. Facendo la
prova con delle scacchiere, per esempio, il neonato rivolge lo sguardo lungamente a quella con solo
quattro quadrati, trascura o guarda poco quella con nove quadrati, sembra non badare per nulla ad
altre scacchiere con una trama più minuta. Già ad un mese di vita la situazione cambia, e si trascura
la scacchiera più semplice a favore della seconda o della terza: c’è già stata un’evoluzione sensoriale,
con un contemporaneo aumento delle capacità di elaborazione percettiva del sistema nervoso.
Il bambino nasce quindi ancora immaturo dal punto di vista sensoriale e percettivo. Quello che sa
fare è comunque perfettamente adatto alle sue necessità, la sua vista gli consente di vedere in modo
sufficientemente chiaro il seno materno o il biberon, il suo udito gli permette di riconoscere la voce
umana.
A differenza della vista e dell’udito gli altri sensi, gusto, tatto ed olfatto, appaiono alla nascita più
sviluppati. Si è visto, ad esempio, che il neonato mostra una spiccata preferenza per il sapore dolce
rispetto agli altri sapori.
Sono inoltre presenti da subito alcuni fondamentali riflessi motori, primi fra tutti quelli della
suzione e della prensione. Il riflesso della suzione parte automaticamente quando viene accostato
alle labbra del neonato il capezzolo, ma anche un dito o un altro oggetto piccolo. Se tocchiamo il
palmo della mano con un oggetto, ad esempio un dito o una matita, questa in modo riflesso si stringe
intorno all’oggetto. Il riflesso della suzione ha un ovvio significato per la sopravvivenza; il riflesso
dell’aggrappamento o prensione, che non ha più una funzione “vitale” per il neonato, potrebbe
spiegarsi come un residuo evolutivo della specie: è stato osservato che il riflesso di prensione è
presente nelle scimmie neonate, per le quali è indispensabile potersi saldamente aggrappare alla
pelliccia della madre quando vengono allattate.
I movimenti alla nascita sono quasi tutti di tipo riflesso e non volontario, il coordinamento senso-
motorio è molto carente, e anche la forza muscolare è molto ridotta. Col passare delle settimane e
dei mesi questa situazione cambia piuttosto in fretta, i movimenti riflessi cedono il posto a quelli
volontari e il coordinamento motorio si fa preciso e completo.
Dalla nascita fino ai due anni abbiamo la fase che Piaget chiama della intelligenza senso-motoria.
Questa fase si suddivide in 6 sottoperiodi:
1. da 0 a 1 mese: i meccanismi riflessi (es. suzione) si perfezionano con l’esercizio e il bambino
tende a generalizzarli (tende a succhiare ogni oggetto che incontra a portata di bocca:
“assimilazione generalizzatrice”).
2. da 2 a 5 mesi: fase delle reazioni circolari primarie: il bambino ripete, agendo sul proprio
corpo, le azioni che producono un risultato gradevole (ad es. succhiarsi il pollice)
3. da 5 a 9 mesi: fase delle reazioni circolari secondarie il bambino ripete in modo attivo
un’azione che portato ad un risultato gradevole, non più agendo sul proprio corpo ma
sull’esterno (ad es. sfiorare il carillon che ha prodotto un suono gradevole)
4. da 9 a 12 mesi: gli schemi d’azione vengono coordinati con una certa sistematicità in vista di
uno scopo.
5. da 12 a 18 mesi: fase delle reazioni circolari terziarie: il bambino non si limita più a ripetere
le azioni che hanno prodotto dei risultati, ma esperimenta attivamente delle varianti per
scoprire nuove possibilità (ad es. lanciare una palla verso l’alto, verso il basso, debolmente,
con forza, ecc.)
6. da 18 a 24 mesi: fase della interiorizzazione e rappresentazione mentale; il bambino a volte
cessa di agire e mostra i segni di comprensione improvvisa: riflette e fa delle “prove men-
tali”; cominciano i primi giochi simbolici, in cui il bambino “fa finta di”. E’ anche la
prima fase nello sviluppo del linguaggio (prime regole di combinazione di morfemi).
Circa nello periodo si trasforma il modo di rapportarsi agli altri con il segnale del sorriso.
Alla nascita la risposta del sorriso è presente come un movimento muscolare riflesso che compare
saltuariamente durante il sonno. É una specie di riflesso in risposta a stimoli di tipo interno (sorriso
endogeno), non compare come reazione al contatto con l’esterno ma solo quando il neonato è
massimamente distaccato dalla realtà, durante il sonno profondo.
Circa all’età di due-tre mesi il sorriso si presenta come una risposta riflessa a qualunque sagoma in
movimento, posta dinnanzia a lui a breve distanza, che contenga un disegno che schematicamente
ricordi un volto umano. Quindi il sorriso diventa una risposta automatica ad uno stimolo esterno
(sorriso esogeno); il bambino sorride quindi anche al semplice disegno di un sorriso, oppure al volto
di una donna che non è la sua mamma o al volto di un estraneo che si avvicina molto a lui.
Ad otto-nove mesi mediamente il bambino diventa capace di riconoscere i volti, quindi ai volti
familiari sorride con piena intenzione (non è più una risposta riflessa ma un segnale volontario e
orientato) mentre di fronte al volto estraneo che si avvicina troppo o non sorride affatto oppure, se
ne viene spaventato, scoppia a piangere.
Questa capacità di riconoscere e di distinguere vale naturalmente non solo verso l’Altro ma anche
verso se stesso. Circa alla stessa età, per esempio, il bambino posto di fronte alla propria immagi-
ne riflessa in uno specchio reagisce sorridendo e si protende verso di essa come se si trattasse di un
altro bambino. Questo vuol dire che egli ha un rudimento di sentimento identitario (distingue sé dal
mondo esterno) ma che non connette questo sentimento con una percezione chiara di sé (quindi non
riconosce nel riflesso l’immagine di se stesso).
Dopo qualche tempo la risposta di fronte asllo specchio cambia: dapprima sembra che il bambino
si arrenda di fronte alla presenza del diaframma di vetro che gli impedisce di toccare quel bambino
che pure vede così chiaramente. Ad un certo punto però, magari dopo aver osservato ripetutamente
che quando lui si allontana il bambino scompare e che i movimenti che fa l’altro sono sempre uguali
ai suoi, la percezione si trasforma e il bambino dimostra di capire che si tratta di una immagine di sé.
Questa trasformazione concettuale è frequente intorno ai 15 mesi ed è costante nei bambini di 18
mesi, i quali si guardano allo specchio e si toccano parti del viso (come il naso o le orecchie) guidan-
dosi con l’immagine riflessa.
L’osservazione dei primi rapporti oggettuali: René Spitz
René Spitz (Vienna 1887 - Denver 1974) attraverso l’utilizzo di metodi di indagine estranei alla
psicoanalisi (osservazione longitudinale, uso di reattivi, ricorso a registrazioni e riprese filmiche)
individuò nello sviluppo infantile alcuni “periodi critici” che portano il bambino alla formazione di
nuove strutture psichiche. Egli definisce tali strutture successive “organizzazioni”.
Il 1° stadio (0/3 mesi) è detto pre-oggettuale; è caratterizzato dalla indifferenziazione tra mondo
esterno e mondo interno e dalla opposizione binaria tensione-distensione.
Il 2° stadio (3/8 mesi) è il periodo del rapporto oggettuale con oggetto precursore. Il primo orga-
nizzatore è la risposta alla gestalt-sorriso: il bambino sorride a qualsiasi volto. Si stabilisce un em-
brione di comunicazione, i primi elementi dell’ “Io”; si distinguono “buono” e “cattivo”.
Nel 3° stadio (8 /15 mesi), periodo del rapporto oggettuale con oggetto privilegiato (o “libidico”)
emerge il secondo organizzatore: l’angoscia dell’ottavo mese. Il bambino ha riconosciuto l’oggetto
(il volto della madre) nella sua unicità, fondendo la precedente dicotomia di “buono” e “cattivo”.
Il 4° stadio (15 mesi) è il periodo di opposizione. Il bambino fa esperienza dei primi divieti e rea-
zione al “no” della madre. La parola “no” esprime la problematica dell’autonomia-indipendenza:
negando il bambino si identifica con l’adulto “aggressore”.
Per Melanie Klein esiste, a differenza di Freud, un Io estremamente precoce che, già alla nascita, è
capace di provare angoscia, di usare meccanismi di difesa, di stabilire rapporti oggettuali primitivi
nella fantasia e nella realtà. Il primo conflitto sorge dall’ innata polarità tra istinto di vita ed
istinto di morte. L’inconscio kleiniano è una dimensione dinamica nella quale preesistono oggetti
indipendenti dagli apporti percettivi del mondo esterno. Sono formazioni fantasmatiche, pre-verbali,
finalizzate ad orientare gli impulsi istintuali: ad esempio l’impulso alla nutrizione è organizzato in-
torno ad una “imago” di seno che preesiste alla scoperta del seno reale ma che interagisce con esso.
Il seno materno è fonte di soddisfazione e, come tale, conferma l’aspetto libidico del fantasma og-
gettuale, ma può anche essere causa di dispiacere nella misura in cui è assente o inadeguato al biso-
gno. Le fantasie inconscie strutturano il mondo interno ed esterno, svolgendo anche un compito di
difesa, in quanto l’oggetto cattivo è proiettato fuori, l’oggetto buono è introiettato dentro, secondo
il modello di funzionamento fisiologico dell’apparato orale.
L’Io primitivo è quindi animato dalle energie istintuali suddivise in libidiche ed aggressive ed ha
due direzioni di scarica, verso l’interno e verso l’esterno.
Melanie Klein denomina questa prima modalità di organizzazione dell’Io “posizione schizo-para-
noide”; il termine posizione, che sostituisce quello freudiano di “fase”, sta ad indicare il carattere
strutturale (più che cronologico) e di relativa permanenza di questa modalità psichica.
Normalmente accade una dicotomia: le parti dell’oggetto e del sè buono vengono introiettate, le par-
ti del sè e dell’oggetto cattivo vengono proiettate. In tal modo l’Io si scinde e sperimenta una situa-
zione “schizoide”. L’istinto di vita viene scisso: la parte proiettata sul seno buono, che rimane uni-
tario, ne fa un oggetto ideale, quella rimasta in sé viene utilizzata per stabilire il rapporto amoroso.
Nello stesso tempo, l’oggetto esterno (seno) può essere investito di pulsioni distruttive, divenendo
un oggetto cattivo e persecutorio.
L’impulso sadico di morderlo, che si evidenzia con la dentizione, si trasforma così nella paura spe-
culare di essere divorato. Se l’Io vive l’ angoscia di essere distrutto dagli oggetti cattivi, proverà una
angoscia di tipo paranoide (quando l’oggetto è esterno), di tipo ipocondriaco (quando l’oggetto
persecutorio è sentito come interno). Se il neonato mette in atto il meccanismo di introiezione, potrà
essere invaso dall’angoscia di essere deprivato dei suoi contenuti buoni ad opera di un aggressore
interno.
E’ essenziale, ai fini di uno sviluppo armonico, che le esperienze buone superino quelle cattive.
Il passaggio dall’oggetto parziale all’oggetto intero, che accade verso i sei mesi, segna il su-
peramento della posizione schizo-paranoide e l’ inizio di quella depressiva. Il bambino diventa ca-
pace di riconoscere la madre come una persona intera e via via di integrare le altre presenze umane
del suo ambiente. Prima la madre era seno, occhi, bocca, mani, ora è un oggetto intero che può esse-
re presente o assente, a volte buona a volte cattiva, amata ed odiata. Il bambino impara a dominare
le sue angosce. Tra le varie tendenze prevale ora quella volta ad incorporare l’oggetto ideale nell’Io.
La madre unificata assomma in sé le caratteristiche precedentemente scisse della bontà e della catti-
veria e diventa un oggetto ambivalente; il bambino scopre che la madre non esiste solo in funzione
dei suoi bisogni, ma ha una vita autonoma e relazioni diverse, tra cui essenziale quella col padre.
Mentre teme di perderla, si sente impotente a trattenerla e si riconosce dipendente da lei per la sua
sopravvivenza. Dipendenza ed impotenza provocano l’insorgere della posizione depressiva; in essa,
l’angoscia sorge dal timore che i propri impulsi aggressivi distruggano l’oggetto amato, e poichè l’og-
getto ideale è incorporato nell’Io, qualsiasi attacco nei suoi confronti è sentito come autodistruttivo.
Da questo momento l’aggressività infantile non provoca solo angoscia ma anche lutto e senso di
colpa.
Anche nel caso che le esperienze buone superino quelle cattive, può accadere che il bambino sia
impedito nella sua evoluzione. Uno dei fattori di perturbazione è l’invidia, che viene sperimentata
sin dalla prima infanzia. A differenza della gelosia, che si fonda sull’amore, tende al possesso del-
l’oggetto amato ed alla rimozione del rivale, presupponendo un rapporto triangolare ed oggetti rico-
noscibili nella loro autonomia (complesso edipico), l’invidia è, per la Klein, molto più precoce e fon-
damentale; essa consiste in una relazione a due che investe l’oggetto per qualche suo possesso o
qualità, e viene essenzialmente sperimentata nei confronti di oggetti parziali.
Il suo primo insorgere avviene nei confronti del seno: il desiderio che il bambino prova per il suo
oggetto vitale si può ammantare di aggressività: si ha allora il vissuto inconscio di “bramosia”.
Con il procedere dello sviluppo, l’invidia può investire il corpo della madre, la coppia parentale, e
se è troppo intensa non consente il riconoscimento dell’ oggetto ideale. L’individuo si sente allora
solo, incapace di dare aiuto e conforto. Nell’evoluzione normale, invece, all’invidia si contrappone la
gratitudine, l’oggetto ideale diventa parte dell’Io e ne accresce la capacità di amore.
LA SECONDA INFANZIA
Lo sviluppo linguistico. Fra i due ed i sei anni si assiste a un grande sviluppo delle capacità
linguistiche. Aumenta il numero di parole (che passa da un vocabolario di 120-200 ad almeno 2500)
ma, soprattutto, si apprende come usarle e connetterle in frasi. L’apprendimento linguistico parte
da una imitazione dei suoni e poi si estende ad una imitazione e riproduzione delle regole sintattiche
e grammaticali. Al di sotto dei quattro anni il bambino fa un uso egocentrico del linguaggio: lo usa
per comunicare bisogni oppure “gioca” con esso come in un soliloquio.
Fino ai 4 anni il bambino opera poche distinzioni concettuali e questo traspare da come usa le
aprole che conosce. Il suo linguaggio è concreto (la parola non indica un oggetto, “è” l’oggetto), la
parola è unica e generalizzabile (tutti gli animali a quattro zampe sono “cane”), il tempo è solo
presente, le frasi sono solo brevissime (due-tre parole o poco più) e direttamente dichiarative.
Quando comincia ad imparare le regole, le adopera in modo rigido compiendo quelli che si chiama-
no ipercorrettismi o regolarizzazioni (per esempio dice: “fava” invece di faceva, “anderò” invece di
andrò, ecc.). A partire dai 4 anni il linguaggio non è più egocentrico ma diventa socializzato. Il bam-
bino parla molto e usa il linguaggio sia per fare le domande che per descrivere, seppure con frasi
giustapposte ed in modo non articolato, quello che ha fatto.
Verso i sei anni comincia, infine, la ricerca della collaborazione con l’interlocutore, il bambino
articola meglio il proprio discorso ed inizia a parlare non solo di quello che ha fatto ma anche di
quello che pensa.
Il livello di competenza linguistica dipende molto strettamente dagli stimoli ricevuti dall’ambiente
familiare. Nelle famiglie meno acculturate gli scambi verbali sono più semplici, utilizzano un
vocabolario più ristretto, sono pertinenti a oggetti e situazioni concrete più che a concetti astratti.
I messaggi verbali vengono cioè trasmessi utilizzando quello che Bernstein ha chiamato codice
linguistico ristretto, per contrapporlo al codice linguistico allargato delle famiglie più acculturate.
Molti studi hanno ripetutamente dimostrato che in rapporto alla diversa stimolazione in famiglia i
bambini giunti all’età scolare rivelano differenze di competenza linguistica che la scuola ben
difficilmente riuscirà poi ad eliminare.
LO SVILUPPO DEL LINGUAGGIO
I bambini sviluppano la loro capacità linguistica in una sequenza ordinata di fasi e passano dalle
prime emissioni sonore spontanee e lallazioni alla costruzione di frasi complete.
1. Nella Fase pre-linguistica compare la predisposizione alla elaborazione dei suoni contenuti nel-
la voce umana e la capacità di discriminazione della voce materna dalle altre voci. A partire da 3/5
settimane di vita compaiono i suoni vocalici; intorno al 3° mese compaiono le prime associazioni
vocali-consonanti: le lallazioni. In breve queste combinazioni vengono combinate e ripetute come
a formare parole bisillabiche (ma-ma, da-da, pa-pa). Intorno al 5°-7° mese le lallazioni tendono a
coincidere con i fonemi utilizzati dalla lingua dell’ambiente nel quale il bambino viene allevato, e
verso il 7°- 8° mese possono comparire le parole monosillabiche corrette, come “no” e “sì”.
2. Nella Fase monoverbale, che inizia verso il 10°-12° mese, il bambino comincia a produrre le
prime parole (per lo più di due sillabe) e si esprime usando solo una parola per volta, spesso come
sostituto di una frase (parola come “olofrase”). Spesso il bambino iper-estende il senso di una
parola (cane per quadrupede); talora ipo-estende il senso delle parole (la parola “divano” per
un’unica stoffa di rivestimento). L’apprendimento del vocabolario è guidato dall’uso e finalizzato,
riferito alle cose che maggiormente lo interessano.
3. Nella Fase del linguaggio telegrafico (18°-24° mesi) i bambini cominciano a combinare le
parole in espressioni di due elementi. Sono frasi prive di elementi “accessori” (articoli, avverbi; ecc.)
Lo sviluppo emotivo. Nel modello dello sviluppo psicodinamico, secondo Freud, il periodo della
seconda infanzia non è una fase unitaria.
Il periodo fino ai 3-4 anni è la fase anale. In questa fase inizia l’autonomia motoria del bambino,
autonomia che ha la sua prima radice nel controllo degli sfinteri. Su questo controllo si gioca in parte
il rapporto educativo e la relazione con i genitori, i quali potranno essere più o meno perentori nel
richiedere al bambino un controllo sfinterale precoce. Il “trattenere”, la stitichezza, può diventare
sintomo di una difficoltà nella relazione con i genitori, un segno del desiderio di controllare e posse-
dere. Freud ritiene che disturbi di tipo ossessivo e distorsioni del carattere nel senso della avarizia e
della possessività in età adulta (il cosiddetto “carattere anale”) derivino da disturbi di sviluppo in
questa fase.
Fra i tre anni e mezzo e i sei si colloca la fase fallica o edipica, caratterizzata dalla preminenza
della scoperta e della manipolazione del proprio corpo e in particolare della scoperta dei genitali
maschili e femminili. Nel bambino compare un interesse per le differenze tra i sessi e per il meccani-
smo e l’evento della nascita. Freud afferma che in questa fase i bambini hanno un profondo investi-
mento libidico nei confronti del genitore di sesso opposto, arrivando ad amarlo intensamente.
Tendono a sentirsi a disagio e in colpa per questo e, più o meno chiaramente, temono una punizione
e vivono come ostile e minaccioso il genitore dello stesso sesso. Richiamandosi alla tragedia greca
(Edipo re, Edipo a Colono, di Sofocle: senza saperlo, Edipo uccide suo padre e sposa sua madre),
Freud ha chiamato questa fase con il nome di fase edipica. La fase edipica è per Freud un evento fi-
siologico e naturale che non diventa necessariamente una patologia. Normalmente il superamento
della crisi edipica avviene attraverso l’identificazione (padre/madre). Quando però il comportamen-
to dei genitori non è adeguato (totalmente “anaffettivo” o all’opposto troppo incline ad assecondare
le pulsioni infantili), può avvenire che il complesso edipico si traduca in un disturbo di tipo nevro-
tico.
LA TERZA INFANZIA
Se l’inizio della terza infanzia, o fanciullezza, può essere fissato con ragionevole precisione intorno
ai 6-7 anni con l’inizio dell’età scolare, la sua conclusione coincide con la maturazione puberale, la
quale si verifica in un’età diversa fra maschi e femmine con grande variabilità da soggetto a soggetto.
In termini molto generali si può dire che la fanciullezza si conclude intorno agli 11 anni in media per
le bambine e ai 13 per i bambini. Va ricordato che negli ultimi cento anni si è assistito ad un accor-
ciamento della fanciullezza, il cui termine a fine ‘800 era collocato circa tre anni più tardi di adesso.
Questa fase non è caratterizzata da cambiamenti molto evidenti dal punto di vista fisico, ed anche
la psicomotricità nella fanciullezza non progredisce in modo significativo rispetto alla seconda infan-
zia, anche se il consolidamento delle masse muscolari che precede la pubertà comincia a rendere pos-
sibile un impegno atletico non agonistico.
Lo sviluppo intellettivo. Lo sviluppo dell’intelligenza è rilevante perchè questa è la fase che vede,
per usare la terminologia di Piaget, la comparsa delle operazioni concrete, cioè delle operazioni men-
tali che poggiano su una base percettiva e motoria presente e tangibile.
L’età media della comparsa di ragionamenti logici di tipo concreto è quella dei sette anni; bambini
particolarmente precoci e intelligenti oppure riccamente stimolati possono avere questa capacità a
partire dai sei anni circa, mentre dei bambini ipo-stimolati o con una minore dotazione intellettiva
possono non averla ancora sino ad otto anni.
Il fanciullo comincia ad essere capace di effettuare delle operazioni logiche vere e proprie. La prova
della costanza della quantità (prova dei bicchieri) viene risolta correttamente perchè il fanciullo co-
mincia ad essere capace di fare operazioni mentali reversibili e non più semplicemente riproduttive e
lineari come nella seconda infanzia. In questo periodo il pensiero infatti è caratterizzato dalla rever-
sibilità: ad ogni azione mentale è quindi associata un’altra azione che è la sua inversa o reciproca.
Nella prova dei bicchieri, il fanciullo comprende sia che la diminuzione in altezza è compensata dalla
maggiore larghezza (reversibilità per compensazione) sia che operando un travasamento inverso il
liquido raggiungerebbe di nuovo il livello precedente (reversibilità per inversione).
Questa, non a caso, è l’età della prima scolarizzazione. É infatti a partire dall’età di 6-7 anni che il
bambino comincia ad avere la capacità di compiere le prime operazioni logiche concrete che rende-
ranno possibile l’acquisizione sia del concetto di numero che la formulazione delle regole linguistiche
e l’apprendimento della lettura e della scrittura. Le operazioni mentali sono infatti coordinabili in
sistemi d’insieme (raggruppamenti) quali le costruzioni di classi, le gerarchie di classi e le seriazio-
ni (ordinare degli elementi dal più piccolo al più grande e viceversa); tutto però avviene entro i limiti
del riferimento al concreto, cioè il fanciullo ha bisogno di riferimenti percettivi e manipolatori speci-
fici. Il fanciullo riesce a capire che la stessa azione, ripetendosi, resta invariata (tautologia), che lo
stesso punto d’arrivo può essere raggiunto da due vie diverse (associatività, ad es. nell’addizione:
“la somma non cambia se al posto di due o più addendi si sostituisce la loro somma”), riesce a co-
ordinare due azioni successive in una sola, (transitività: “se A = B e B = C allora A = C; se A è
maggiore di B e B è maggiore di C, allora A è maggiore di C”).
Lo sviluppo emotivo. Per la teoria psicoanalitica di Freud la fanciullezza è una sorta di fase silente
o di transizione, collocata a ponte tra le decisive trasformazioni dell’infanzia e i rivolgimenti matura-
tivi della adolescenza. Viene chiamata fase della latenza, perchè rispetto all’intenso vissuto affetti-
vo del periodo edipico, conflitti e problemi rimangono sullo sfondo, sono come assopiti e nascosti;
le pulsioni si affievoliscono, anche le curiosità e gli interessi precedenti per le differenze tra i sessi e
per il meccanismo e l’evento della nascita tendono solitamente ad essere rimossi.
L’atteggiamento generale del fanciullo è molto meno egocentrico, le relazioni sono meno conflittuali
e si verifica, nei confronti delle pulsioni così vivaci ed emergenti nella fase precedente, un processo
di sublimazione. Per Freud la sublimazione è un meccanismo di difesa per il quale l’energia libidica
viene deviata da oggetti inaccettabili ad altri accettabili, moralmente approvati e culturalmente rico-
nosciuti. Il bambino tenderà quindi a impegnarsi nell’attività (scolastiche, artistiche, sportive ecc.)
alle quali i genitori mostrano di tenere in particolar modo; se nella fase edipica l’investimento libidi-
co riguardava direttamente il genitore di sesso opposto, ora potrà riguardare gli oggetti culturalmente
approvati in ambito familiare: il fanciullo sa che così sarà amato e apprezzato dai genitori.
La sublimazione degli affetti comporta molto spesso che il fanciullo idealizzi le qualità dei propri
genitori. Tipicamente il fanciullo e la fanciulla desiderano compiacere i propri genitori e li ammirano
apertamente, assumendoli come modelli sia per i loro giochi che per le prime fantasie vocazionali su
ciò che faranno da grandi. Questo processo di identificazione adesiva nei confronti di un adulto non
è riservato solo al rapporto con i genitori, ma abbastanza di frequente si attua anche verso altre figu-
re di riferimento, sia appartenenti alla famiglia allargata che ad adulti esterni alla famiglia, come gli
insegnanti elementari. Tale identificazione è ingenua, solitamente priva di spirito critico e facilmente
manipolabile. Si registra dunque uno sviluppo in ampiezza delle capacità affettive, in particolare il
fanciullo esce dal ristretto ambito familiare e comincia a creare dei rapporti sociali tra i pari; questa è
allora la fase delle prime amicizie e sodalizi di gioco, delle prime conoscenze scolastiche e di vicina-
to, dei giochi di gruppo, della capacità di riversare il proprio affetto sugli animali domestici.
Questa fase si caratterizza quindi per la grande importanza degli stimoli sociali e per il rilievo as-
sunto, nello sviluppo dei contenuti identitari, dalle figure adulte di riferimento. Si può dire che
psico-pedagogicamente questa è la fase dell’assorbimento dei modelli. Il fanciullo tende ad assume-
re i modelli e gli schemi che gli vengono proposti in modo sostanzialmente passivo e conformistico.
Il fanciullo non mostra soltanto un aumento delle capacità di apprendimento legate alla riproduzio-
ne e comprensione dei modelli che gli vengono offerti, ma mostra un notevole aumento delle capacità
di creare e fantasticare: dai sette-otto anni in poi si nota una maggiore recettività e creatività nella
musica, nel disegno, nelle pratiche artistiche in genere. Queste nuove possibilità possono tradursi in
cambiamenti reali oppure no in stretta dipendenza con le caratteristiche dell’ambiente in cui il fan-
ciullo cresce: tali caratteristiche assumono quindi una importanza capitale per orientare concreta-
mente il bambino nel suo corso di sviluppo e nelle sue scelte future.
L’ADOLESCENZA
L’adolescenza è una fase di trasformazione e di passaggio che inizia con la pubertà e si conclude
con l’ingresso nel mondo degli adulti e con l’assunzione di un ruolo sociale autonomo. Mentre l’ini-
zio dell’adolescenza è marcato da un cambiamento fisico (lo sviluppo sessuale della pubertà) il suo
termine non è fissato dalla fisiologia, ma dipende da fattori psicologici e sociali. Si diventa adulto
perchè ci si sente tale, perchè si assumono responsabilità e si fanno cose tipiche dell’adulto e per-
chè, infine la società riconosce e sancisce che questo ingresso nel mondo adulto è avvenuto.
Spesso si utilizzano delle date convenzionali per stabilire tale ingresso nel mondo adulto (la “mag-
giore età”, un tempo a 21, oggi a 18 anni). Questa data naturalmente è solo una convenzione, per fis-
sare quando l’adolescenza si è conclusa in un modo valido per tutti. Ma lo sviluppo non è solo ma-
turazione: le esperienze e gli apprendimenti sono decisivi per lo sviluppo della persona. Se un gio-
vane si è sposato da minorenne o ha iniziato precocemente a lavorare, ci può essere una trasforma-
zione di status anticipata rispetto all’età canonica (adolrscenza sacrificata), così come, all’opposto,
il raggiungimento della maturità fisica e il passare degli anni ben oltre la maggiore età (come ad es. nel
caso degli studenti universitari) può non corrispondere per nulla ad un’autonomia di tipo adulto
(adolescenza prolungata). Diventa allora opportuno individuare i molteplici “esiti” del processo
adolescenziale.
In alcune società umane (le cosiddette società statiche, o primitive) non esiste l’adolescenza ma
solo la pubertà. Si tratta di società nelle quali al compimento della maturazione sessuale e con la evi-
denza della capacità riproduttiva ii giovani passano immediatamente a far parte del mondo degli
adulti. Questo ingresso in genere viene sancito con un rito di passaggio, il quale può talvolta con-
sistere nel superamento di una particolare prova codificata nel rito stesso. Questa può essere una
prova di coraggio, una prova di resistenza alla solitudine a al dolore, un semplice distacco dalla casa
familiare ed isolamento di qualche giorno, cui segue il ritorno da “adulto” nella comunità sociale. Una
volta compiuto questo passaggio rituale il neo-adulto comincia da subito ciò che dagli adulti ci si
aspetta, cioè si sposa, comincia a lavorare, ecc. Le società senza adolescenza sono semplici, statiche
e poco evolutive. Sono, secondo la definizione di Claude Levi-Strauss, “società senza storia”. Non
esiste in esse richiesta di scolarizzazione, i lavori ed i ruoli sociali ad essi connessi si trasmettono
sempre uguali di padre in figlio, di madre in figlia. In preatica ognuno ha la sua collocazione prevedi-
bile fin dalla nascita.
Anche presso di noi è possibile riconoscere delle situazioni che ricordano gli antichi riti di passag-
gio. Queste possono essere la cresima, la selezione di leva e il servizio militare, l’esame di maturità
o la laurea. Ma le società dinamiche (complesse, come la nostra), sono mobili ed evolutive, non
permettono che diventare adulto sia una cosa così semplice da potersi risolvere con un rito; esse ri-
chiedono dunque una specializzazione e una scolarizzazione prolungata. Si diventa adulti per gradi,
con un lungo apprendistato: i ruoli adulti, prima di essere agiti, vengono, per così dire, recitati o
“provati” (in una fase che Erikson chiama moratoria psico-sociale). Le società complesse, moderne,
industriali, hanno quindi “creato” l’adolescenza. In altre parole, l’adolescenza così come la conoscia-
mo, non è solo una fase evolutiva, ma anche e soprattutto una costruzione psico-sociale all’interno
della quale si esercitano in modo ancora sperimentale o “giocoso” le capacità di tipo adulto che sono
maturate con la pubertà. Tra queste rivestono un ruolo fondamentale le nuove capacità intellettive.
Lo sviluppo intellettivo. Le capacità intellettive, fra gli 11 e i 14 anni, fanno un grande progresso
qualitativo perchè il giovane per la prima volta comincia a fare delle operazioni mentali con dei con-
cetti astratti. Inizia la fase più alta dello sviluppo cognitivo nella specie umana, la fase che Piaget ha
definito delle operazioni formali. Compiendo dei ragionamenti astratti, l’adolescente dimostra di
essersi affrancato dal concreto, che per tutta la fanciullezza aveva mantenuto il suo primato.
Poter fare ragionamenti astratti significa poter manipolare dei concetti che non hanno una rappre-
sentazione materiale e concreta ma solo o prevalentemente logica. Ha dunque fatto la sua comparsa
il pensiero ipotetico-deduttivo, quel tipo di pensiero che, senza bisogno di ricorrere all’esperien-
za, costruisce ipotesi e ragiona su di esse, trae implicazioni e procede mettendo in atto strate-
gie scientifiche nell’interpretazione dei fenomeni.
Si possono quindi formulare delle ipotesi, comprendere e riformulare dei concetti filosofici e mate-
matici. Si apre concettualmente una finestra sul mondo, per certi versi si crea nella mente del giovane
adolescente un mondo nuovo perchè tutto quanto era nella sua mente viene vagliato con spirito criti-
co. Il nuovo modo di cogliere le cose, la logica e la razionalità, viene applicato al giudizio delle cose e
l’adolescente si crea una propria opinione del mondo e dell’ambiente che lo circonda. Abbastanza
spesso il mondo degli adulti è incoerente, contradditorio e poco lineare, ben lontano nei fatti dagli
ideali che enuncia a parole. Il mondo nuovo dell’adolescente è invece un mondo di coerenza e di as-
soluti. Abbastanza spesso il giovane adolescente, fra i 13 e i 16 anni, assume un atteggiamento che
potremmo chiamare ascetico e questo lo pone in conflitto anche aspro con i genitori e con gli adulti
in genere, da lui colti come opportunisti e contradditori.
Lo sviluppo affettivo. Il conflitto con i genitori non deriva solo dalla trasformazione intellettiva e
dallo sviluppo del giudizio morale da parte del giovane ma ha anche delle cause di tipo affettivo.
Le trasformazioni sessuali della pubertà aprono al ragazzo ed alla ragazza un mondo nuovo di espe-
rienze e di sensazioni. Esiste quindi una tensione verso il nuovo, il desiderio di fare delle prove, degli
esperimenti di ogni genere. Il nuovo, l’ignoto, è però anche fonte di paura, di timore di non farcela,
di non essere all’altezza dei compiti. Esiste anche una sorta di ambivalenza verso il cambiamento,
con la presenza sia della voglia di provare che di quella di trovare un rifugio noto e tranquillo. Sia
verso il proprio passato infantile che verso i propri genitori c’è un misto indefinito di voglia di di-
stacco e di rassicurazione. Il giovane vuole distaccarsi ma ha anche paura di farlo davvero. Questa
altalena si riflette direttamente nella relazione conflittuale e nelle discussioni solo apparentemente
politiche, morali o filosofiche che si accendono con i genitori. Nel nostro contesto socio-culturale,
l’ambiguità dello stato adolescenziale è un fatto documentato: nessuno sa esattamente quali siano i
diritti e i doveri di un adolescente; a volte gli si chiedono prestazioni da persona matura, altre volte è
escluso dal gruppo dei “grandi” come se fosse un bambino. Questa condizione di marginalità, per
cui l’adolescente non appartiene né al gruppo dei fanciulli né al gruppo degli adulti, lo pone in una
situazione di incertezza che indebolisce il senso della propria identità personale, sessuale e sociale.
Molto spesso gli adolescenti trasmettono degli stili nelle loro scelte comportamentali e nelle loro
opinioni. Questa trasmissione si organizza e diventa qualcosa che travalica il singolo, esprimendosi
nelle varie forme di cultura adolescenziale. Tipici di queste forme sono lo spirito trasgressivo, il
bisogno di colpire con l’esibizione di condotte o di simboli, la gregarietà e lo spirito di gruppo, la de-
terminatezza estrema nel sostenere delle posizioni non mediabili, associata ad una certa volubilità.
I rapporti sociali si allargano con la pubertà e si creano delle solidarietà di gruppo. Il gruppo adole-
scenziale è tipicamente un gruppo dei pari, con rigide barriere di età sia verso gli adulti che verso i
fanciulli, poco mobile ed aperto nei suoi confini. In un primo tempo questo gruppo, che può essere
amicale e di gioco ma può anche avere connotati diversi e più strutturati, è tipicamente un gruppo
monosessuale, cioè composto solo da ragazzi o solo da ragazze. Solo in un secondo tempo questi
gruppi diventano misti; attraverso l’intensificarsi degli scambi, si arriva alla formazione di un grup-
po più ampio, (“la compagnia” o gruppo eterosessuale) entro cui si creano nuove aggregazioni, com-
prendenti ora partner di sesso diverso. Spesso queste aggregazioni danno origine a due o più gruppi
misti, che matengono dei rapporti reciproci. Infine, nella tarda adolescenza, la “compagnia” e i sot-
togruppi tendono a disgregarsi per la formazione di coppie eterosessuali e quindi cessano di esistere.
Col termine della pubertà il giovane entra in quella che Freud chiama fase genitale.
I meccanismi che abbiamo visto all’opera nella fanciullezza vengono usati più estesamente e l’ado-
lescente può iniziare a rivolgere l’affetto verso l’altro da sé. L’energia libidica non si concentra più
sul proprio corpo ma si protende verso un rapporto totale della persona con un’altra persona.
Questo percorso, che viene fatto per tentativi e spesso con molte contraddizioni, ha come sbocco fi-
nale una trasformazione del rapporto affettivo con i genitori. Con la scoperta dell’amore e della ses-
sualità matura il giovane, in qualche modo, sostituisce il legame primario che dell’infanzia lo vincola-
va alla madre o al padre.
Con l’adolescenza, quindi, rivivono delle gelosie e delle tensioni di tipo edipico. I genitori stessi
possono talvolta ostacolare con divieti e restrizioni sconsiderate e “gelose” le esperienze dei figli
oppure, più raramente, anticipare il distacco da essi con un disinteresse apparentemente tollerante.
Attraverso questa situazione conflittuale, di vera e propria crisi adolescenziale, il giovane costruisce
una propria identità separata e distinta da quella dei genitori. Il termine della fase genitale coincide
con la capacità piena di assumere il ruolo sessuale e con la creazione di un rapporto di coppia auto-
nomo.
L’ADOLESCENZA: IL MODELLO PSICOANALITICO
Secondo il modello psicoanalitico la crisi adolescenziale è “fisiologica” per uno sviluppo adeguato
della personalità: le soluzioni di assetto della personalità che non passano attraverso questo trava-
glio interno (conflitti e alterazioni del comportamento, difese), risulterebbero monche e parziali, in
quanto l’integrazione dell’Io non si organizzerebbe intorno a nuovi oggetti d’amore o ad una nuova
identità, bensì attorno alle antiche identificazioni, tipiche dell’età della latenza.
Fanciullezza e adolescenza
1. Il fanciullo presenta una struttura mentale rivolta alla esplorazione del mondo esteriore; egli ten-
de a negare la conflittualità e si preoccupa soprattutto di interessi che hanno a che fare con il “pre-
sente concreto”. L’adolescente, al contrario, avverte in modo intenso il primato della vita interiore,
deve fare i conti con il passato (le fantasie infantili), col modo attuale (che scopre contraddittorio),
con il futuro (che avverte incerto e problematico).
2. Il fanciullo vive il mondo adulto come fonte di sicurezza e di appoggio (i genitori sono onni-
scienti e onnipotenti). L’adolescente scopre che il mondo adulto non sa tutto e non può tutto e ne
rimane deluso. Tende a vedere gli adulti come detentori di un potere che non hanno il diritto di ave-
re, a ricercare relazioni nuove, e sente l’impulso ad allontanarsi dalle antiche identificazioni, dagli
antichi oggetti d’amore.
3. Il fanciullo pensa utilizzando il primato della percezione, del dato concreto; nell’adolescenza
emerge invece la categoria del possibile, viene utilizzato il pensiero ipotetico-deduttivo: il possibile
diventa più pregnante del reale.
Nell’adolescente, la percezione delle trasformazioni puberali, oltre che dagli indici corporei diret-
tamente visibili, è condizionata dal sistema delle esperienze passate (conoscenze più o meno distor-
te, sentimenti, fantasie) attorno al problema della sessualità in generale; dal modo in cui sono state
elaborate e superate le fasi orale, anale e fallico-edipica derivano particolari reazioni conflittuali del-
l’adolescente alle trasformazioni psicofisiologiche della pubertà.
Per riemergenza di “nuclei orali”, si possono verificare, ad esempio, alterazioni del comportamen-
to alimentare; l’adolescente diventa inappetente, oppure estremamente vorace, compaiono gusti
nuovi, fobie per certi cibi, onicofagia (il mangiarsi le unghie) o altri comportamenti che testimoniano
una regressione di tipo orale.
Nel campo della pulizia personale (cura della persona, dei vestiti, stanza, libri) l’adolescente può
diventare disordinato, sporcarsi, trascurarsi; l’“ordine somatico” viene infranto, quale espressione
di aggressività contro le regole educative (comparse a partire dalla fase anale) che testimoniano la di-
pendenza infantile dalla quale l’adolescente vuole liberarsi.
Dietro la denuncia da parte dell’adolescente di un disagio emotivo per le trasformazioni somatiche
e per le transitorie disarmonie nelle proporzioni del corpo, stanno spesso problematiche psichiche
legate al fatto che le fasi precedenti sono state mal superate.
Il corpo rappresenta il ricettacolo più accettabile dell’Io per ospitare una ansietà che ha le sue cau-
se più profonde nel passato esistenziale del soggetto; in questo senso, le reazioni all’avvento del
menarca, nelle preadolescenti, potranno essere, talvolta, molto negative: l’emorragia genitale viene
considerata una funzione escretrice e la ragazza si vergogna di questo fenomeno, considerandolo
come qualcosa di sporco; di qui le reazioni di rifiuto o negazione dell’evento, che testimoniano la
resistenza ad accettare la definizione femminile, ed ii voler rimanere nella condizione “asessuata”
della terza infanzia. Quando invece il menarca si manifesta nel momento in cui l’adolescente ha rag-
giunto un grado di maturità psicologica consona all’età cronologica, esso è accolto positivamente,
come un segno di progresso nell’itinerario verso la conquista della ricercata autonomia; ciò non eli-
mina, in ogni caso, il verificarsi, anche frequente, di situazioni di conflitto (crescita / ritorno all’in-
fanzia).
L’adolescente riprende, dopo la parentesi del periodo di latenza, a porsi domande sui problemi
sessuali, ricompaiono le curiosità per le differenze sessuali, la nascita, la fecondazione e la masturba-
zione; quest’ultima in molti casi è vissuta con forte ansietà connessa a sentimenti di colpa o di per-
secuzione; in essa si può trovare l’espressione di un movimento psichico progressivo verso la etero-
sessualità (accompagnata da fantasie coscienti) oppure tensioni psichiche regressive di tipo edipico;
tali tendenze spesso convivono nelle condotte adolescenziali: l’intenso desiderio di andare avanti
verso l’autonomia ed il bisogno altrettanto intenso di tornare indietro verso la dipendenza infantile
producono spesso delle situazioni caratterizzate dal brusco passaggio da un tipo di comportamento
al suo opposto (accese ribellioni alternate a passive sottomissioni, iniziative entusiastiche seguite da
momenti di assoluta pigrizia, condotte esibizionistiche ed altre caratterizzate da chiusura e
introversione,ecc.).
Il gusto dell’adolescente per la introspezione corrisponde alla maturata capacità di operare sui dati
espressivi e concettuali; così la sua propensione alla discussione, alla problematizzazione, riflettono
la capacità dell’intelligenza astratta di subordinare il reale al possibile.
Può quindi accadere che l’adolescente provi insoddisfazione o insofferenza di fronte a contenuti
ideologici ed a norme di comportamento che il mondo degli adulti cerca di trasmettere senza mo-
strargliene la plausibilità o la razionale motivazione; da qui provengono quei conflitti, così frequenti
tra adolescenti e genitori (o insegnanti) che possono presentare, alle volte, soluzioni anche dramma-
tiche.
Altre occasioni di conflitto sono dovute alle condizioni di marginalità sociale nella quale viene a
trovarsi l’adolescente: nel nostro contesto socio-culturale, l’ambiguità dello stato adolescenziale è un
fatto documentato: nessuno sa esattamente quali siano i diritti e i doveri di un adolescente; a volte
gli si chiedono prestazioni da persona matura, altre volte è escluso dal gruppo dei “grandi” come se
fosse un bambino. Questa condizione di marginalità, per cui l’adolescente non appartiene né al
gruppo dei fanciulli né al gruppo degli adulti, lo pone in una situazione di incertezza che indebolisce
il senso della propria identità personale, sessuale e sociale. La difficoltà a immettere la nuova condi-
zione della pubertà in attività distanziate dai modelli parentali e di realizzare quindi la propria matu-
rità, può determinare nell’adolescente un senso di inutilità e rimettere in questione la stima e la con-
siderazione che egli ha di sé.
Le difese
La condizione di marginalità sociale non è uguale per tutti gil adolescenti, nè è da tutti vissuta con
pari grado di intensità: se in alcuni permane un atteggiamento realistico tipico della fanciullezza, con
il primato del “presente concreto”, l’evitamento delle scelte personali, l’accettazione delle indicazio-
ni prevalenti nella famiglia o nel gruppo sociale di appartenenza, e con il conseguente rischio di pas-
sività e conformismo, in altri l’atteggiamento affermativo può portare alla ricerca, talvolta spasmodi-
ca, dell’originalità e di una identità personale compiuta ed autonoma. Si configurano quindi, a vari li-
velli, diverse tensioni e situazioni conflittuali, con uno svolgimento “drammatico” della fase adole-
scenziale nella quale emergono alcune tipiche “difese”.
Una delle difese più tipiche è l’ascetismo: l’adolescente diffida a tal punto delle richieste
pulsionali interne che assume una condotta intransigente nello sbarrare la via ai desideri, con
proibizioni rigorosissime. Questo rifugio nella spiritualità (abbigliamento disadorno, alimentazione
ridotta, condotte rigorose autoimposte) è interrotto spesso da slittamenti verso gli eccessi opposti
(esibizionismo, eccessi alimentari, sessuali, ecc.).
La scissione è la difesa più radicale contro l’esperienza dell’ansia e della colpa, perchè gli oggetti
“buoni” sono separati da quelli “cattivi”. Riemerge il controllo onnipotente tipico dell’infanzia, che
permette all’adolescente di negare la dipendenza dai genitori, capovolgendo la situazione attraverso
una richiesta di sudditanza ed acquiescenza da parte della coppia genitoriale.
Riemerge anche l’identificazione proiettiva, per cui i genitori o gli adulti diventano il vaso
contenitore di tutta la propria aggressività. Il problema dell’adolescente è di trovare un oggetto
esterno in grado di contenere le proiezioni dell’odio, perchè la forma più primitiva di alleggerimento
della sofferenza si ha con la proiezione di parti di sé sofferenti in un oggetto esterno, nella speranza
di riceverli indietro riparati e alleggeriti.
Anche il gruppo può costituire un’importante difesa per l’adolescente. Esso può rappresentare
una situazione regressiva, all’interno della quale riemergono vissuti primari di fusione con la madre
e di ambivalenza affettiva. Nel gruppo monosessuale, tipicamnete ogni membro del gruppo è sentito
come una parte del sè ed il gruppo costituisce, simbolicamente, l’equivalente psichico della pelle.
Una difesa fondamentale da una condizione portatrice di insicurezza e di ansia è il tentativo di va-
lorizzare il proprio Io, di farne il centro dell’universo. L’emergenza di questa forma di narcisismo
rappresenta un notevole aiuto, in quanto esalta l’autostima dell’adolescente, e favorisce la rottura
del legame con i modelli comportamentali del passato.
Freud definisce il narcisismo come un “investimento di energia libidica sul sé” e distingue tra narci-
sismo primario, antecedente a qualsiasi investimento oggettuale, e secondario, nel quale la libido ri-
tiratasi dagli investimenti oggettuali, si ripiega sull’Io. Il narcisismo adolescenziale rientra in questa
ultima tipologia.
La psicoanalisi più recente (Kohut, Rycroft) non intende più il narcisismo in senso necessariamen-
te svalutativo ed individua un asse oggettuale ed uno narcisistico nella personalità individuale; esiste
dunque in ciascun individuo un “narcisismo sano”, vale a dire una forma di bilancio energetico tra
investimenti sull’ Io e investimenti oggettuali, con l’ Ideale dell’Io in posizione centrale, come “for-
mazione narcisistica permanente”.
All’interno della letteratura, oggi piuttosto ampia, relativa al narcisismo, vengono definiti “rifor-
nimenti narcisistici” tutte le manifestazioni o eventi (espressioni di affetto, adulazione, lode, ecc.)
che accrescono l’autostima; vengono definite “ferite narcisistiche” tutte le occasioni, costituite da
eventi e situazioni specifiche, che recano offesa all’autostima.
1. la scelta oggettuale narcisistica: tipo di scelta d’oggetto modellata sulle relazione del soggetto con
la propria persona ed in cui l’oggetto rappresenta la propria per-
sona sotto qualche aspetto.
2. la difesa fallico-narcisistica: rappresenta un bisogno di vendetta inconscio verso l’altro sesso;
il carattere può essere freddo e riservato, oppure derisorio e ag-
gressivo, arrogante.
3. lo stadio narcisistico transitorio: è caratterizzato dalla ribellione, dalla sfida alle regole, dallo
scherno verso l’autorità parentale (il genitore è un “idolo caduto”)
L’avvio del processo di ricerca di un oggetto libidico induce ad
attaccamenti e identificazioni superficiali e mutevoli.
L’ETÀ ADULTA
Lo sviluppo non cessa con il termine dell’adolescenza e con la fine della cosiddetta “età evolutiva”
ma prosegue in modo meno evidente e più “sottile” per tutto l’arco della vita. Il momento del pas-
saggio dalla adolescenza alla adultità e quello dalla maturità adulta alla vecchiaia sono cambiati nel
corso dei secoli insieme alle trasformazioni socio-culturali e soprattutto con l’allungamento della
speranza media di vita. La differenza nella durata della vita media implica che c’è più o meno tempo
a disposizione per assumere in pieno e sviluppare i compiti e i ruoli che caratterizzano le varie età
della vita. Questa variazione non è solo psicologica ma anche biologica: negli ultimi secoli si è antici-
pato il momento della maturazione sessuale (mediamente dai 17 ai 13 anni) e si è ritardato il momen-
to della cessazione delle mestruazioni o menopausa (mediamente dai 42 ai 51 anni). Si è allungato
dunque il periodo più fertile e fisiologicamente più attivo della vita umana; è corretto affermare che,
con l’aumento di durata della vita, andiamo incontro ad una dilatazione della giovinezza e ad una so-
cietà piena di adulti.
Lo sviluppo adulto non è il risultato dello sviluppo infantile ma è una sorta di continua ristruttura-
zione e superamento progressivo della struttura infantile ed adolescenziale. L’adulto, come il bambi-
no, è infatti una struttura aperta al cambiamento e agli influssi ambientali. Questa ristrutturazione
(che interessa la percezione di sé, l’identità, il mondo degli affetti, il modo di ragionare, lo stile di
reazione e la condotta) prosegue per tutta la vita ma ha dei momenti e delle fasi di accelerazione che
sono precipitate da eventi particolari. Si tratta di eventi che segnano delle biforcazioni vitali o dei
punti di non ritorno, costituendo altrettante tappe dello sviluppo; sono dati, per esempio, dall’ini-
zio del lavoro, dal matrimonio, dalla nascita dei figli, dalla morte dei propri genitori e dall’uscita di
casa dei figli resisi autonomi, da qualche grave malattia, dal pensionamento. Ognuno di questi pas-
saggi o eventi trasformativi è allo stesso tempo un evento di perdita ma anche di acquisizione. Come
l’adolescenza è uno stato di incertezza e di ambivalenza fra la sicurezza infantile e l’attrazione verso
un nuovo mondo di autonomia, così ad ogni evento trasformativo anche l’adulto tende a rivivere lo
stesso dilemma. In genere questo vissuto è meno drammatico e conflittuale, perchè la struttura psi-
chica dell’adulto è più solida rispetto a quella dell’adolescente.
La gioventù adulta è da questo punto di vista una fase di consolidamento e apprendistato.. La as-
sunzione di compiti e ruoli adulti (cominciare un’attività lavorativa, sposarsi, ecc.) è di per sé un
fattore di cambiamento. La diversità di esperienze lavorative e di vita moltiplica ovviamente le di-
versificazioni che già esistono a causa di disposizioni individuali o di varietà di formazione familiare
e scolastica: il cambiamento può essere anticipato o posticipato di circa dieci anni a seconda della
classe (subalterna o operaia, media o alta) di appartenenza. Le ricerche psico-sociali hanno dimo-
strato, ad esempio, che esistono profonde differenze tra l’immagine di sé di un operaio e di un pro-
fessionista di 40 anni: il primo si considera maturo, il secondo si considera ancora in piena espan-
sione giovanile.
Le esperienze della vita adulta sono solitamente coerenti tra di loro, quindi differenziate nella stes-
sa direzione: fare un certo lavoro favorisce un certo tipo di gusti e un certo tipo di frequentazioni.
Di solito gli innamoramenti e le relazioni profonde nascono tra persone appartenenti ad uno stesso
ceto sociale: i matrimoni omogamici (tra persone della stessa origine sociale e culturale) sono di gran
lunga i più frequenti (circa il 90% del totale). Il motivo di queste scelte di persone affini a sé è da ri-
cercare naturalmente nella maggiore facilità materiale di contatto, ma ha anche delle spiegazioni psi-
cologiche: il giovane adulto vive una situazione di apprendistato, di immedesimazione progressiva in
una nuova identità; in pratica, il modo più agevole che ha a disposizione per diventare un adulto è
quello di prendere a modello la coppia adulta dei suoi genitori. Non si tratta di solito di una imita-
zione e riproduzione consapevole e voluta ma, semmai, inconscia. Il distacco dalla famiglia, in parte
indispensabile per la costruzione di una vita autonoma, risulta in questo modo meno lacerante.
Talvolta nella scelta amorosa adulta possono ricomparire, in forma più o meno evidente, meccanismi
edipici: ci si innamora di qualcuno che assomiglia per qualche aspetto al genitore del sesso opposto.
Con frequenza molto grande si ripete anche la situazione familiare caratteristica della famiglia d’ori-
gine. La riproduzione non si ferma alla scelta del partner ma si completa con la perpetuazione dello
stile di condotta nella vita di coppia, dello stile educativo verso i figli, talvolta anche delle idee poli-
tiche e religiose, dei gusti e delle opinioni sul mondo.
Questo fatto, che ovviamente non riguarda la totalità dei casi, è accertabile però a livello statistico.
Man mano che ci si allontana dall’adolescenza, infatti, cessa l’antagonismo e la contrapposizione e
ci si assume, in misura via via crescente, il compito di preservare e trasmettere. Quando si arriva al-
l’età in cui i propri figli, ormai grandi ed adolescenti, si distanziano e si contrappongono a loro volta,
ci si potrà spesso comportare come i propri genitori si erano comportati a suo tempo con noi: si fa
fatica a comprendere questo cambiamento, si prova timore per un distacco che sembra arrivare trop-
po presto. In genere lo scontro con i figli adolescenti e la loro uscita di casa, coincide con altri eventi
rilevanti per lo sviluppo dell’adulto, che sono la morte o il peggioramento delle condizioni di salute
dei genitori, l’essere arrivato al termine della carriera possibile o alle soglie del pensionamento, il co-
minciare a vedere su di sé i segni tangibili dell’invecchiamento. Questa particolare età o fase di pas-
saggio e di ingresso alla vecchiaia è quella che viene correttamente detta mezza età e si colloca media-
mente a cavallo dei 50-55 anni. Questa messa in discussione dell’identità consolidata genera secondo
Erikson una crisi psicosociale che vede come due esiti opposti la produttività e il ristagno.
Molto spesso questa è una età di crisi e di profonda trasformazione di sé. Una identità ormai con-
solidata viene messa in discussione. Questo sia per quanto riguarda il primo bilancio di ciò che è sta-
ta la propria carriera lavorativa (si attua un paragone inevitabile fra la realtà ed i sogni e progetti gio-
vanili), sia per quanto riguarda la propria collocazione generazionale (si diventa riferimento e padre
per i propri genitori che si sono fatti deboli e vecchi e si ridimensiona la funzione di genitore per i
propri figli che se ne vanno di casa), sia infine per la propria gioventù: tanti segni piccoli e grandi
chiariscono che la giovinezza è chiusa e che il termine della vita non è più una idea astratta e lontana.
Questo periodo di crisi e di ristrutturazione della percezione di sé è stato da molti paragonato alla
crisi adolescenziale. Come l’adolescente anche l’adulto di mezza età è ambivalente verso il cambia-
mento, incerto se abbandonare le sicurezze del passato o cercare di negare la realtà e arrestarsi.
Molte persone si fissano con ostinazione sulla propria immagine giovanile (si potrebbe dire che so-
no come degli adolescenti che si rifiutano di crescere e cercano di restare bambini). Questa negazione
della realtà si traduce spesso nella ricerca di relazioni, amicali ma soprattutto amorose, con persone
molto più giovani, che possono talvolta mettere in crisi situazioni matrimoniali che avevano fino a lì
l’apparenza della solidità.
Molte altre persone tuttavia escono da questa fase di crisi della mezza età trasformate e cresciute.
Questa crescita si traduce nella assunzione del ruolo di guida e di mèntore verso le giovani genera-
zioni, in una preparazione a tramandare ciò che si sa fare ad altri, a favorire la propria sostituzione
nel lavoro e nella vita.
Capita che chi fa un lavoro creativo (principalmente gli artisti, ma non solo), traduca questa tra-
sformazione interiore in un cambiamento di contenuti e di stile. Qualche volta, come ad esempio è
successo al pittore francese Paul Gauguin (1848 - 1903), l’attività artistica, che prima era marginale,
diventa unica e preminente e si abbandona tutto il proprio passato: il lavoro, la famiglia, la casa e il
proprio Paese. Proprio richiamandosi al caso emblematico di Gauguin, che abbandonò la Francia ed
il lavoro impiegatizio per andare a dipingere nei mari del sud, si parla spesso, in riferimento a tali
esiti della crisi di mezza età, di sindrome di Gauguin.
LA VECCHIAIA
cambiamenti biologici -> indipendenti dallʼ ambiente, che può solo inibirli o accelerarli
vs
cambiamenti psicologici -> interattivi; dipendono dallʼ ambiente e dallʼ organismo insieme
inizio della vita -> cambiamenti molto regolari, “cronometrici” (prevalentemente maturativi)
fasi successive -> aumento delle differenze di sviluppo tra individui diversi in dipendenza
dei fattori esterni (esperienze, condizionamenti culturali, ecc.)
LA PRIMA INFANZIA
intelligenza => adattamento dellʼ organismo allʼ ambiente -> equilibrazione tra:
assimilazione => incorporazione di un nuovo evento o oggetto allʼ interno di uno schema
preesistente (es. afferrare nuovi oggetti con il medesimo schema di prensione)
accomodamento => modificazione di uno schema mentale/ cognitivo per poter includere un
evento od oggetto nuovo (es. afferrare a due mani un oggetto particolar-
mente grande, afferrare “a pinza” un oggetto molto piccolo,ecc.)
pre-concetti: stanno a metà strada tra la generalità del concetto e lʼ individualità degli elementi che
lo compongono, manca il corretto utilizzo dei quantificatori (“tutto”, “qualche” ecc.).
(es. “la lumaca” per intendere tante lumache). Il ragionamento che deriva dai pre-concetti
è chiamato: transduzione, in quanto non procede, come la deduzione, dal generale al
particolare, ma dal particolare al particolare, sulla base di nessi analogici , associazioni
mentali, giustapposizioni, senza precisi nessi logici.
intuizione: -> semplice interiorizzazione delle percezioni e dei movimenti sotto forma di esperienze
mentali che prolungano gli schemi senso-motori senza una vera coordinazione razionale.
egocentrismo -> impossibilità di “decentrarsi” dal proprio punto di vista per vedere la situa-
cognitivo: zione dal punto di vista dellʼ altro e coordinare insieme le diverse prospettive
unidirezionalità -> la rappresentazione mentale aderisce al percorso della percezione e , una volta
raggiunto il risultato finale dellʼ azione, è incapace di rielaborarla e ripercorrere
le fasi esecutive precedenti per riorganizzarle in un insieme.
compensazione inversione
minore altezza / maggiore larghezza livello precedente ottenuto con il travasamento inverso
D D = felini
C C° C = gatti + C° altri felini
B B° B = gatti domestici + B° gatti selvatici
A A° A = siamese + A° = altre razze
3. gli stadi non si può parlare in senso stretto di stadi nellʼ accezione piagetiana;
rimane valida lʼ idea di “sequenzialità” nellʼ acquisizione delle abilità.
funzioni funzioni
interpsichiche intrapsichiche
transizioni ecologiche -> passaggi che lʼ individuo fa da una condizione allʼ altra dellʼ ecosistema
problema delle dialettiche strutturali: tensioni e conflitti che nascono per la struttura stessa
dellʼ ambiente di sviluppo (effetti opposti dipendenti
da un unico fattore: es. calore ed affetto dei genitori,
positivo per lo sviluppo, con possibilità distorsive
sulla effettiva conoscenza della realtà esterna ).
LO SVILUPPO EMOTIVO
MODELLO FREUDIANO
RENÉ SPITZ
posizione schizo-paranoide
(o - 6 mesi)
angoscia: fondamento deprivazione dei contenuti angoscia
essere svuotato del rapporto IO primitivo buoni ad opera di un
delle parti buone amoroso aggressore interno
(identificazione introiettiva*)
introiezione
dell’ oggetto
ideale nell’ Io
MADRE:
ambivalenza
vita indispensabile
autonoma per i propri bisogni
(impotenza) ( dipendenza)
1. Fase pre-linguistica predisposizione alla elaborazione dei suoni contenuti nella voce umana
capacità di discriminazione della voce materna dalle altre voci
3 - 5 settimane: suoni vocalici
3° mese: associazioni vocali-consonanti (lallazioni)
5°-7° mese: utilizzo dei fonemi della lingua del suo ambiente
7°- 8° mese: parole monosillabiche corrette (“no”, “sì”)
3. Fase del linguaggio 18°-24° mesi: parole combinate in frasi di due parole,
telegrafico prive di elementi “accessori” (articoli, avverbi; ecc.)
2. Teoria del rinforzo reazioni di rinforzo positivo da parte dei genitori (Skinner)
3. Teoria innatista disposizione interna biologica dell’ uomo verso l’ acquisizione linguistica;
esistenza di un meccanismo di acquisizione linguistica
(LAD, language acquisition device) che orienta lo sviluppo del linguaggio
indipendentemente dalle variazioni ambientali (Chomsky / Lieberman)
fase di trasformazione e passaggio che inizia con la pubertà (maturazione sessuale e fisica) e
si conclude con l’ingresso nel mondo degli adulti e con l’assunzione di un ruolo sociale autonomo
ESITI ADOLESCENZIALI
pensiero ipotetico- deduttivo -> propensione alla discussione, alle idee innovatrici,
intelligenza astratta subordinazione del reale al “teoricamente possibile”
insofferenza verso conteniti ideologici e norme comportamentali
trasmesse senza la dimostrazione della loro plausibilità;
marginalità sociale -> non appartenenza al gruppo dei bambini o degli adulti:
crisi dellʼ identità personale, sessuale e sociale, ambivalenza.
DIFESE
atteggiamento -> primato del “presente concreto”, evitamento delle scelte personali,
realistico accettazione delle indicazioni prevalenti nella famiglia o nel gruppo
sociale di appartenenza -> rischio di passività e conformismo
atteggiamento -> ricerca dellʼ originalità e di una identità personale autonoma: conflitti
affermativo e tensioni, svolgimento “drammatico” della fase adolescenziale
Ascetismo -> diffidenza verso le richieste pulsionali interne: condotta intransigente, proibizioni rigorose.
frequenti slittamenti verso gli eccessi opposti -> esibizionismo, eccessi alimentari
Intellettualizzazione -> spostamento dei conflitti dal piano delle emozioni a quello del pensiero
Scissione: buono / cattivo -> controllo onnipotente, richiesta di sudditanza ed acquiescenza dai genitori
Identificazione proiettiva
il gruppo: può rappresentare una situazione regressiva, allʼ interno della quale riemergono vissuti
primari di fusione con la madre e di ambivalenza affettiva. Ogni membro del gruppo è
sentito come una parte del sè, il gruppo è lʼ equivalente psichico della pelle.
L’ ETA’ ADULTA
inizio del lavoro / matrimonio / nascita dei figli / morte dei genitori
uscita di casa dei figli / malattie gravi / pensionamento
gioventù adulta => fase di consolidamento ed apprendistato: assunzione di compiti e ruoli adulti
La diversità delle esperienze lavorative, la diversa collocazione sociale
moltiplicano le diversificazioni già esistenti a causa di disposizioni individuali.
Le esperienze di vita sono solitamente tra loro coerenti
(lavoro - gusti - frequentazioni => matrimoni omogamici)
Modellamento sulla coppia adulta dei genitori:
consapevole
imitazione differenziazione
inconscia
allungamento dell’aspettativa di vita Italia entro 2030 => un terzo della popolazione over 60
progressiva elaborazione ed
accettazione dell’idea della propria morte
SVILUPPO DELLE DIFFERENZE INDIVIDUALI
Lo sviluppo sociale può essere visto come un processo con due facce. Da un lato esso consiste
nell’integrazione del bambino entro una rete di rapporti con altre persone; dall’altro esso fornisce
un contesto entro il quale il bambino si differenzia da ogni altra persona, cioè si crea un’identità
individuale unica. Integrazione e differenziazione sono due aspetti complementari: bisogna tener
conto di entrambi per comprendere come il bambino giunge a mettersi in relazione con gli altri,
acquisendo via via una consapevolezza sempre più piena della propria e dell’altrui individualità.
L’emergere dell’individualità può essere esaminato sia da un punto di vista “esterno” alla persona,
cioè come manifestarsi e consolidarsi di tratti che la diversificano dalle altre persone, sia da un punto
di vista “interno”, cioè come coscienza di sé e come capacità di vedersi in prospettiva nel rapporto
con gli altri.
Per quanto riguarda il primo ambito di problemi, la domanda che gli studiosi si sono posti è: ogni
bambino presenta fin dalla nascita delle caratteristiche psicologiche individuali, o si differenzia dagli
altri solo successivamente? Tra le indagini condotte in questo campo, una delle più accurate è la ri-
cerca longitudinale condotta negli Stati Uniti da Stella Chess & Alexander Thomas, i quali si so-
no proposti di mettere in luce le differenze psicologiche tra bambini e di valutarne la costanza nel
tempo. Essi hanno trovato che ciascun neonato si comporta e reagisce agli stimoli ambientali in mo-
do peculiare; l’insieme dei tratti che permettono di caratterizzare il comportamento del bambino vie-
ne detto temperamento. Il concetto di temperamento non va confuso con quello di personalità.
Con quest’ultimo termine gli studiosi designano quel complesso intreccio di modi di pensare e com-
portarsi, dipendenti sia da fattori innati (temperamento) che da esperienze individuali, che sono pe-
culiari a ciascun individuo e lo rendono in qualche modo “unico”. Per temperamento si intende inve-
ce un modo di reagire agli stimoli ambientali che sembra dipendere quasi interamente dalla costitu-
zione fisica dell’individuo. Mentre sarebbe improprio parlare di personalità in un neonato, le prime
fasi della vita son quelle in cui meglio si possono osservare le differenze di temperamento.
Chess e Thomas hanno cercato di classificare i temperamenti in alcune categorie principali, tenendo
conto soprattutto della presenza di quei tratti che facilitano o ostacolano il rapporto del bambino
con gli altri. Essi hanno messo in luce così che alcuni bambini sono moderatamente attivi, regolari nei
ritmi sonno-veglia, adattabili alle novità, in una parola facili da trattare; altri sono iperattivi, hanno
ritmi irregolari sonno-veglia, reazioni negative alle novità e scoppi di collera che li rendono difficili;
altri ancora sono ritrosi: restano infatti inerti o protestano di fronte alle novità, ma poi si “scaldano”
e mostrano un giusto livello di attività e regolarità di comportamento.
La famiglia è il primo luogo fisico e mentale nel quale il bambino viene a esercitarsi nelle relazioni
sociali, a stabilire i contatti con la realtà che, dalla nascita alla maturazione, ma soprattutto nei pri-
missimi anni di vita, agirà profondamente sul suo carattere e sulla sua identità individuale unica.
Il tipo di famiglia che caratterizza la società industriale è indicato con il termine famiglia nucleare
o ristretta, composta dai genitori e dalla prole, spesso di numero limitato. Nella famiglia nucleare i
membri sono portatori di ruolo che, pur cambiando e adattandosi alle varie necessità, mantengono
alcune caratteristiche tipiche. I ruoli dei genitori circoscrivono l’atmosfera familiare; la condotta pre-
valente e le caratteristiche più evidenti dei genitori saranno i naturali riferimenti e concorreranno al
“clima educativo”, ossia all’habitat mentale in cui si formeranno le prime esperienze del bambino.
I rapporti tra genitori e figli sono molteplici e articolati sulle esigenze del vivere nella comunità fa-
miliare: la personalità dei genitori, le lore tendenze e le modalità acquisite di adattamento al vivere
sociale dovranno misurarsi con le varie esigenze e con i tratti di temperamento proprie dei figli.
Se i genitori, con lo stile di vita e di comportamento contribuiscono a formare la personalità dei figli,
dall’altro i figli agiscono sul piano interattivo, modificando le aspettative e contribuendo alla forma-
zione di un “clima” particolare che distingue nel suo essere una famiglia da un’altra. Tali modalità in-
terattive potranno risultare determinanti nello sviluppo delle differenze individuali.
Recenti e numerosi studi sulle dinamiche tipiche del rapporto che si instaura tra genitori e figli so-
no stati effettuati da psicologi sociali e tra essi vanno citati quelli di Schaefer, che propone una se-
rie di correlazioni per evidenziare quattro climi educativi tipo: il primo basato sulla dipendenza del
rapporto tra affetto e controllo, il secondo tra affetto e autonomia, il terzo tra ostilità e controllo, il
quarto tra ostilità e autonomia. L’autore propone due dimensioni bipolari in cui si manifestano le in-
terazioni familiari: la prima varia dalle forme di controllo fino a giungere al grado massimo di autono-
mia, l’altra tiene in considerazione i fattori che vanno dall’ostilità sino all’affetto; queste due dimen-
sioni dinamiche sottolineaano i rapporti di reciprocità tra genitori e figli. L’asse autonomia-controllo
rappresenta il ventaglio delle caratteristiche generali elargite dai genitori; l’asse affetto-ostilità indica
l’interazione affettiva mediante la quale genitori e figli vengono emotivamente in contatto tra loro.
Schaefer sintetizza le variazioni caratteristiche dei climi familiari proponendo uno schema (noto
come quadrante di Schaefer) che permette praticamente una correlazione tra i vari fattori.
La correlazione affetto-autonomia, la più auspicabile, soprattutto se sottolineata da rapporti
cooperativi o democratici, è tipica di un clima familiare in cui il bambino si apre alla socialità e alla
collaborazione: il futuro adulto sarà tendenzialmente attivo, dotato di spirito creativo e capace di
adattamento alle esigenze della vita, portato all’amicizia, generalmente estroverso, possiederà doti
direttive, maturo e libero da regole eccessivamente voncolanti, con un temperamento moderatamente
aggressivo che gli consentirà di affrontare le più svariate situazioni.
La correlazione affetto-controllo darà luogo ad un minore grado di indipendenza nel bambino che
farà spesso riferimento ai genitori, sarà ordinato, pulito, rispettoso delle regole e delle gerarchie; la
creatività risulterà meno eviente del primo caso; sarà buon organizzatore, si orienterà nella vita a li-
velli di adattabilità; pur non manifestando uno spiccato senso di indipendenza, sarà mite e disponi-
bile verso gli altri.
La correlazione ostilità-autonomia può suscitare nel bambino una notevole aggressività, con riper-
cussioni negative sull’adattamento sociale; sarà trasgressivo e anticonformista, avrà difficoltà di ma-
turazione nella sfera affettivo-emotiva.
La correlazione ostilità-controllo, la più negativa rispetto al raggiungimento dell’autonomia ed in
generale per l’educazione del bambino, potrà provocare l’insorgenza di eventuali disturbi psicoso-
matici; il bambino potrà essere ansioso, rinunciatario con i superiori, litigioso con i pari, ombroso e
introverso, spesso autolesionista, generalmente nevrotico.
controllo autonomia
Sono state condotte numerose ricerche sui gruppi familiari, con metodologie molto diverse tra loro
(strumenti psicodiagnostici, analisi delle conversazioni, osservazione) e con l’intento comune di perve-
nire alla formulazione di “tipologie” familiari.
Dalla fine degli anni sessanta, in particolare, gli schemi concettuali ispirati all’approccio sistemico so-
no stati utilizzati nella ricerca sulle tipologie familiari: il criterio dominante è diventato quello dei mo-
delli di relazione, con una migliore focalizzazione delle relazioni interpersonali (diadiche e non) e della
struttura dei gruppi familiari.
L’analisi dei gruppi familiari centrata sulla “struttura” e l’individuazione di tipologie differenziate ten-
de a privilegiare i criteri della coesione-integrazione tra i vari componenti. Particolarmente rappresen-
tativa in questo senso è la contrapposizione proposta da Minuchin (1967) tra famiglia “invischiata”
(enmashed) e famiglia “disimpegnata” (desengaged). La prima si caratterizza infatti per la stretta inter-
connessione esistente tra i membri componenti: ogni tentativo di cambiamento da parte di uno di essi
provoca un’immediata risposta di “resistenza” da parte degli altri; nella seconda, invece, i movimenti
dei singoli componenti appaiono come indipendenti l’uno dall’altro e le relazioni complessive risultano
molto debolmente interconnesse. Questa tipologia ricalca, sintetizzandole, le riflessioni teoriche sulla
struttura familiare di altri autori: Bowen (1966) parla infatti di famiglia “indifferenziata” o “differen-
ziata” a seconda della chiarezza con cui i singoli componenti giungono a definire i contorni del proprio
sé; Stealin (1972) descrive come “centripeti” o “centrifughi” i principi delle famiglie di adolescenti da
lui studiate, Ashby (1969) distingue sistemi familiari “altamente” o “scarsamente interconnessi”.
Reiss (1970, 1981) sviluppa una tipologia basata sulle relazioni interne al sistema familiare e su quelle
intercorrenti tra famiglia e ambiente. Facendo riferimento all’integrazione tra un triplice ordine di fat-
tori - coesione interna al gruppo, indipendenza personale, permeabilità alle stimolazioni esterne - questo
autore distingue tre diversi tipi di famiglia, in funzione del diverso grado di “sensibilità” manifestata ri-
spetto al “consenso”, alla “distanza interpersonale”, all’ “ambiente”.
La famiglia “sensibile al consenso” è quella in cui la dinamica predominante si caratterizza nella ricer-
ca di vicinanza, unione ed accordo tra i memri, mentre l’ambiente esterno viene vissuto come minac-
cioso e pericoloso.
La famiglia “sensubile alla distanza interpersonale” è quella i cui componenti appaiono disaggregati
tra loro; i confini tra il gruppo familiare e l’ambiente esterno non risultano marcati in maniera netta e
precisa.
La famiglia “sensibile all’ambiente” si trova invece in equilibrio ottimale tra l’esigenza di coesione
interna e l’indipendenza personale dei singoli membri; si caratterizza per flessibilità, è sensibile ai biso-
gni ed aperta ai contributi interni, ma anche alle novità ed ai cambiamenti esterni.
Identità e ruoli sessuali. Anche se gli studi recenti hanno parzialmente ridimensionato le
differenze psicologiche tra maschi e femmine, l’acquisizione di un’identità sessuale è un aspetto im-
portantissimo dello sviluppo dell’immagine di sé. Per identità sessuale si intende il riconoscimento
di sé come maschio o femmina, riconoscimento che rispecchia di solito (ma non necessariamente,
come attesta ad es. il fenomeno del travestitismo, o in generale, le cosiddette “disforie di genere” *)
il sesso biologico dell’individuo. L’identità sessuale non va confusa con il ruolo sessuale: quest’ul-
timo è l’insieme dei comportamenti che una particolare società ritiene appropriati rispettivamente
per i maschi e per le femmine. Le richieste di ruolo vanno molto al di là dei comportamenti che han-
no una base biologica, come quelli riproduttivi: essi includono prescrizioni sul modo di vestire, sui
gesti, i discorsi, gli interessi e perfino sul modo di reagire emotivamente alle diverse situazioni che si
considerano appropriati per un uomo o per una donna. Una persona può così possedere una chiara
identità sessuale, senza tuttavia conformarsi pienamente al ruolo corrispondente.
* si intende per “disforia di genere” la mancata corrispondenza tra sesso anatomico e vissuto o iden-
tità di genere. Il maschio e la femmina possono sentirsi parte dell’altro sesso, aspirare a farne parte o
fantasticarne. Le forme che nella vita degli individui, tali vissutie fantasie possono assumere variano
grandemente: il travestito, ad esempio, fonderà la propria attività di mascheramento sulla consapevolez-
za della proria identità maschile. Utilizzando quei feticci o significanti della femminilità che sono gli
abiti, il trucco, le parrucche, egli mira a sembrare femminile, ben sapendo di non esserlo.
Diverso il percorso transessuale: chi si sottopone all’intervento chirurgico e ai trattamenti ormonali
per cambiare sesso è certo di non appartenere al sesso e al genere assegnatili alla nascita, di essere impri-
gionato in un corpo non suo. Il rimodellamento del corpo esprime non un voler sembrare (come nel tra-
vestitismo), ma un voler essere.
Come giunge il bambino ad assumere la propria identità e ruolo sessuale? Uno dei primi a proporre
una spiegazione per questo fenomeno è stato Freud, secondo il quale l’identità sessuale è legata alla
positiva soluzione del complesso edipico (amore per il genitore di sesso opposto, paura della ven-
detta da parte del genitore dello stesso sesso) ed alla conseguente identificazione con il genitore dello
stesso sesso. Dall’identificazione deriva l’adesione al genere da cui dipenderà la scelta d’oggetto e la
meta sessuale degli individui, ed il superamento più o meno definitivo della “bisessualità originaria”.
Più di recente Laurence Kohlberg, esponente dell’indirizzo cognitivo-evolutivo, ha riesaminato il
problema, giungendo a conclusioni diverse. Secondo Kohlberg non è l’identificazione che determina
l’identità sessuale, ma al contrario l’identità che conduce all’identificazione. Egli pensa infatti che
l’identificazione sia il risultato di una “imitazione selettiva” di figure scelte come modello; il fatto
che tra tali figure spicchi di solito il genitore del proprio sesso dipende dal riconoscimento di una
somiglianza importante, quella relativa al sesso. Questo riconoscimento, a sua volta, è il risultato di
un processo di sviluppo cognitivo, le cui tappe principali sono:
1) la scoperta dell’esistenza della differenza tra i sessi;
2) la classificazione delle varie persone e poi di se stessi in base a tali differenze: maschi da un lato,
femmine dall’altro;
3) la comprensione che le differenze sessuali sono permanenti: chi nasce maschio rimane maschio,
chi nasce femmina rimane femmina, nonostante le vistoso trasformazioni che il corpo subisce
durante la crescita.
tabella 4: schema dell’acquisizione dell’identità e del ruolo sessuale nelle teorie di Freud e di Kohlberg
Nel libro Women’s Growth in Connection, pubblicato dal gruppo di psicoanaliste americane dello
Stone Center, si sostiene che il sé femminile si sviluppa secondo un percorso diverso da quello
maschile, e mentre per l’uomo i valori fondamentali consistono nell’autonomia, nell’autosufficienza,
nel controllo emotivo, nella distanza relazionale, nell’individualismo e nella competizione, per la
donna, al contrario, valgono le “connessioni”, ossia la rete di relazioni affettive, la condivisione.
Nel mondo occidentale è stato senz’altro privilegiato il modello individualistico, corrispondente al
cartesiano “cogito ergo sum” in base al quale l’individuo si erge contro gli altri per affermare se stes-
so e per impadronirsi del proprio destino. E’ stata in tal modo enfatizzata “l’etica agente”, ossia as-
sertiva, individualistica e competitiva a scapito dell’ “etica comunitaria”, caratterizzata, quest’ulti-
ma, dall’essere con gli altri in unione o in contatto.
Il movimento psicoanalitico ha, nel corso della sua storia, confermato tale orientamento, ma al suo
interno sono comparse posizioni differenti: Sigmund Freud riteneva che il modello maschile costi-
tuisse uno stato naturale originario, mentre Ernest Jones e Karen Horney hanno sostenuto invece,
il carattere primario della femminilità. Secondo lo psicoanalista californiano Stoller, la mascolinità e
la femminilità non sono due percorsi evolutivi paralleli, ma la condizione primaria sarebbe rappre-
sentata dalla femminilità; le osservazioni cliniche dimostrerebbero che l’identità maschile è fragile e
le perversioni sessuali riguarderebbero quasi esclusivamente l’uomo. La paura di ricadere nella fusio-
ne originaria con la madre spingerebbe l’uomo ad affermare la propria forza, la propria indipenden-
za, comportandosi talvolta in modo crudele, poligamo e misogino.
Negli ultimi due decenni il dibattito sull’identità maschile e femminile si è arricchito anche sulla
base delle osservazioni emerse dalle ricerche in campo infantile e delle polemiche interne al movi-
mento femminista. Ma qual è lo stato della ricerca nel campo dell’identità di genere? Vi sono ormai
evidenze certe che il riconoscimento dell’identità di genere maschile e femminile inizia dopo il primo
anno di vita, legato da una parte alla percezione delle differenze anatomiche e dall’altra al diverso at-
teggiamento dei genitori nei confronti dei figli maschi e delle figlie femmine. Si è visto che particolar-
mente i padri hanno delle aspettative di ruolo più definite e rigide a seconda del sesso dei figli. Per
questo motivo i maschi tendono a negare le identificazioni femminili, come ad esempio il bisogno di
dipendenza e la condivisione affettiva. Nel mondo maschile assumono un maggior peso le differenze
rispetto alle continuità, ed il maschio sviluppa un forte senso di sé come separato ed una netta di-
stinzione tra il “me” e il “non me”. Questo si ripercuote anche sulla costruzione del senso morale:
la voce femminile parla di legami, di cure, di risposte protettive, quella maschile di uguaglianza, di
giustizia e di diritti. Nel gruppo sociale le due voci si congiungono e si sovrappongono anche se vi è
la tendenza di una delle due a predominare sull’altra.
Rimane invece fondamentale, per quanto riguarda le varie fasi del processo di individuazione del
bambino e le dinamiche tra il bambino e i genitori caratterizzate dal conflitto tra dipendenza e auto-
nomia, il lavoro della psicoanalista americana Margaret Mahler .
La nozione di stile cognitivo. Quando ci rapportiamo con la realtà, possiamo seguire strategie dif-
ferenti, scegliere tra modi alternativi di elaborare le informazioni. Ad esempio, nell’esame di una fi-
gura può prevalere la tendenza alla finezza ed all’acume (sharpening) o, al contrario, quella al livel-
lamento (leveling), per cui si lasciano perdere sfumature e dettagli e si bada all’essenziale. Spesso il
fatto che si adotti una strategia cognitiva è occasionale, dettato dalle circostanze; ognuno di noi però
ha strategie dominanti e stabili, che costituiscono il risultato di adattamenti individuo-ambiente.
Per stile cognitivo si intende un insieme coerente di strategie dominanti e stabili. Si può parlare di
stili percettivi, stili di soluzione dei problemi, di gestione del sé, ecc. Più spesso però c’è un elemen-
to centrale costituito da qualche qualità cognitiva a carattere generale (come la velocità di elaborazio-
ne, la flessibilità, la complessità) che fa da nucleo organizzatore di una costellazione di tratti di vario
genere. Nello stile cognitivo si integrano gli aspetti cognitivo-razionali e aspetti affettivo-emotivi,
lato freddo e lato caldo, dell’esperienza umana. Lo stile cognitivo sta infatti nel mezzo ed è il luogo
di intersezione, l’elemento di collegamento e di mediazione tra lato freddo e lato caldo.
Le ricerche sugli stili cognitivi sono piuttosto complesse, basate su combinazioni di vari metodi:
test, osservazione, questionari, interviste, esperimenti.
In linea di massima la dipendenza dal campo comporta un approccio globale alle esperienze e l’in-
dipendenza un approccio analitico. Chi è dipendente dal campo si lascia influenzare dal contesto e
dalla struttura delle situazioni. Di conseguenza non riesce a cosiderare gli elementi che ha davanti
isolatamente, fa fatica a scomporre la realtà in pezzi e ad analizzarla. Al contrario, il soggetto indi-
pendente dal campo prescinde facilmente dal contesto e dall’organizzazione con cui le cose si pre-
sentano, sa concentrarsi su ciò che gli interessa e mostra più spiccate doti analitiche.
La parola campo è usata nel senso della psicologia della Gestalt e indica qualsiasi totalità organiz-
zata di cui facciamo esperienza e che costituisce il nostro “ambiente psicologico” in un dato momen-
to. Una figura da decifrare, uno spazio in cui orientarsi, un problema da risolvere, un contesto di vita
sociale sono tutti campi.
I lavori sulla dipendenza-indipendenza sono cominciati negli anni ‘50 e ‘60 col lavoro di Witkin e
dei suoi collaboratori dell’Università di New York. Si tratta di studi longitudinali, condotti con si-
stematicità su ragazzi della scuola pubblica.
I processi cognitivi e la personalità. Al grado di dipendenza dal campo si associano molte altre
caratteristiche che investono diversi ambiti di esperienza. Gli indipendenti dal campo ottengono mi-
gliori risultati in tutti i test che riguardano i processi cognitivi: percezione, intelligenza e pensiero,
memoria. Nei test di percezione, infatti, essi sfuggono più facilmente alle illusioni e sono più rapidi
nel cogliere organizzazioni alternative degli input; riescono molto meglio nelle prove che mettono in
gioco abilità figurali e di ragionamento spaziale, come quelle di disegno, completamento di figure e
ricomposizione di oggetti. In genere l’indipendenza dal campo si associa ad una maggiore flessibilità
e produttività di pensiero (la cosa è evidente nel problem solving); gli individui indipendenti dal
campo immagazzinano meglio i dati nella memoria a lungo termine e rievocano con più facilità e pre-
cisione, hanno una visione al tempo stesso più complessa e ordinata del mondo e della propria vita
e possiedono rappresentazioni più complesse del corpo e della figura umana che si applica sia a sé
che agli altri.
Controllo dell’ emotività. Quando la realtà è in contrasto con i bisogni e i desideri, gli individui
reagiscono in modo diverso a seconda del grado di dipendenza dal campo. Gli indipendenti sono
portati ad elaborazioni ulteriori, ricorrono a razionalizzazioni, costruzioni mentali che spiegano i
fatti spiacevoli, oppure si isolano, trovano buone ragioni per stare per conto proprio. Diversamente
i dipendenti controllano l’emotività con semplificazioni dell’esperienza, basate sul rifiuto, il misco-
noscimento dei fatti spiacevoli o la rimozione/repressione dei desideri e dei sentimenti che li metto-
no a disagio.
Socialità. Il grado di dipendenza dal campo incide sulla socialità. Gli individui più dipendenti dal
campo hanno maggior bisogno di affiliazione, tendono al contatto sociale e alla compagnia, si con-
frontano con gli altri, cercano l’approvazione, il sostegno e la guida di figure autorevoli. Diversa-
mente gli indipendenti, avendo un concetto di sé più articolato, uno spiccato senso dell’identità ed
elevata autostima, tendono a far affidamento su se stessi e hanno meno bisogno di affiliarsi.
Il diverso bisogno di affiliazione si ripercuote sull’influenzabilità e sul calore nei rapporti umani. Di
solito le persone dipendenti dal campo sono attente agli altri, cortesi e premurose, si sforzano di an-
dare incontro al prossimo e provocarne l’apprezzamento. Gli indipendenti invece possono rivelarsi
talvolta piuttosto freddi, poco interessati agli altri, privi di tatto e tendere all’isolamento.
Che cosa porta ad essere dipendenti o indipendenti. Sembra che sia decisivo l’ambiente di svi-
luppo. Witkin si è occupato della famiglia, studiando in particolare le madri e i rappoti madre-figlio.
É arrivato alla conclusione che le madri dei ragazzi indipendenti dal campo di solito sono anch’esse
indipendenti, si sentono sicure di sé e realizzate nella vita. Nei comportamenti educativi tendono ad
essere autorevoli (pretendono, controllano, dialogano e proteggono) e incoraggiano l’autonomia, la
curiosità e i bisogni cognitivi. Diversamente le madri dei ragazzi dipendenti dal campo sono a loro
volta dipendenti, poco sicure di sé, tendono ad essere permissive o autoritarie e scoraggiano
l’autonomia dei figli.
Maschi e femmine. Le ricerche di Witkin e numerosi lavori successivi hanno dimostrato che le
donne sono mediamente più dipendenti dal campo. Le differenze non sono marcate, ma il dato si
riscontra costantemente. Ci sono buoni motivi per pensare che la maggiore dipendenza dal campo
delle donne abbia origini culturali e sia legata all’educazione. É probabile che i maschi risultino più
indipendenti perchè educati ad essere razionali, intraprendenti, autonomi e freddi e che le donne
sviluppino maggiore dipendenza perchè da loro ci si aspettano doti intuitive, tendenze affiliative e
calore nei rapporti.
Alunni dipendenti e indipendenti. Nell’attività didattica e nello studio, gli alunni dipendenti dal
campo sono quelli che mostrano di avere più bisogno di guida. Si aspettano che l’insegnante dia regole
precise, segua il lavoro passo passo, faccia lezioni ordinate. Non tollerano le istruzioni ambigue, le di-
vagazioni, gli arricchimenti eccessivi. Si attengono ai programmi stabiliti e difficilmente colgono inse-
gnamenti impliciti nel lavoro del docente. Nel gruppo classe sono ben accetti e ben inseriti.
Gli alunni indipendenti all’insegnante chiedono che faccia da stimolo, che dia chiarimenti mirati, non
soffrono se il lavoro viene portato avanti con libertà e flessibilità e tendono a fare gli autodidatti.
Una didattica elastica e brillante taglia dunque fuori una parte della classe, mentre una pedante ne taglia
fuori un’altra. La strategia migliore consiste nel muoversi da un modo di insegnare all’altro, ora recupe-
rando i più dipendenti rimasti indietro, ora i più indipendenti che si annoiano.
RITMO CONCETTUALE
La nozione di ritmo concettuale è stata introdotta da J. Kagan che, negli anni ‘60, a Cambridge nel
Massachussets ha condotto delle indagini longitudinali sui processi attentivi di 180 bambini, se-
guendoli dai 4 ai 27 mesi. Per capire che cos’è il ritmo concettuale, pensiamo a come si comportano
le persone alle prese con un compito o con un problema da risolvere: c’è chi arrischia presto una ri-
sposta e chi invece si dà tempo, aspetta a esternare le ipotesi che gli vengono in mente per vagliarle
meglio prima di impegnarsi in una risposta. Quelli più svelti a decidersi hanno un ritmo concettuale
rapido, quelli che tendono a meditare, un ritmo lento.
Il concetto di “ritmo concettuale” è riferito, più che alla semplice rapidità di risposta agli stimoli
ambientali, alla “gestione personale dei tempi di risposta”; è il tempo che ci si dà per risolvere le in-
certezze dinanzi a una realtà poco chiara da comprendere o a un problema da risolvere che presenta
più alternative plausibili. In tali circostanze, gli individui con ritmo concettuale lento prendono tem-
po, gli altri si affrettano. Il ritmo concettuale non va confuso con la velocità di elaborazione delle in-
formazioni, che è la rapidità nel compiere le operazioni mentali necessarie per fare qualcosa. Mentre
la velocità di elaborazione è una capacità mentale grezza, una abilità cognitiva di base dell’intelligen-
za, il ritmo concettuale riguarda piuttosto il modo di organizzarsi nei compiti cognitivi che richiedo-
no un minimo di impegno, è uno stile di autocontrollo dell’attenzione. Rapidità e lentezza concet-
tuale sono modi particolari di valutare le capacità richieste dal compito, le proprie risorse e i tempi
necessari. Una persona con ritmo concettuale lento può ottenere prestazioni buone anche se la sua
velocità di elaborazione non è elevata: siccome si dà tempo, riesce ugualmente a fornire risposte
esatte.
Tipi di ritmo concettuale. Schematicamente si possono individuare quattro tipi di individui:
impulsivi, accurati rapidi, riflessivi, imprecisi lenti. Prendendo in esame la dimensione impulsività-
riflessività, Kagan ha rilevato che chi ha un ritmo concettuale più alto di solito commette più errori
e si rivela impulsivo, mentre chi si dà tempo è più accurato e risulta riflessivo. Solo le persone con
velocità di elaborazione molto alta riescono ad essere accurate anche con ritmi concettuali rapidi.
Allo stesso modo bisogna avere una velocità di elaborazione molto bassa per risultare imprecisi e
lenti. Perciò il grosso delle persone si colloca nella dimensione della riflessività o dell’impulsività.
Il metodo di rilevazione seguito da Kagan con i bambini comprende la registrazione dei comporta-
menti attentivi di fronte a stimoli ambigui (ad es. il contorno di un volto con naso, occhi, bocca,
orecchie in posizioni irregolari), la registrazione dei movimenti oculari e dei tempi di fissazione, la
determinazione della frequenza di sorrisi, dei vocalizzi, del ritmo cardiaco. Se analizzato a fondo, il
ritmo concettuale appare come qualcosa di più complesso delle capacità cognitive (come la velocità
di elaborazione). É legato al sé, a come l’individuo si pensa, a quanto si stima, alle sue caratteristiche
emotive, affettivo-relazionali e di autocontrollo. Sembra essere dovuto in parte a basi biologiche in-
nate e in parte all’ambiente di sviluppo.
SELF -MONITORING
Il self-monitoring (automonitoraggio) è l’attività di gestione del sè nelle situazioni della vita sociale.
Implica una componente diagnostica, di percezione della situazione, e una componente operativa, di
autocontrollo. L’individuo legge la situazione, analizza il contesto di vita sociale cercando di capire
come conviene comportarsi e di conseguenza modella le proprie azioni e la presentazione di sé.
Il self-monitoring è essenziale nella vita pubblica, per fare un’impressione piuttosto che un’altra,
per pilotare la propria immagine sociale. L’attività di automonitoraggio è importante anche nella
costruzione del sé, perchè in gran parte le idee che ci formiamo sul nostro conto dipendono dalle
impressioni che gli altri ci rimandano.
L’automonitoraggio mette in gioco fattori cognitivi e fattori emotivi. Per adattarsi alle diverse situa-
zioni occorre come prima cosa capirle. Oltre alla conoscenza dei contesti tipici di vita sociale, sono
richieste fini capacità di comprensione della comunicazione faccia a faccia, che consentano di coglie-
re i segnali non-verbali, ragionare sulle incoerenze tra segnali e ricostruire significati impliciti e na-
scosti all’interno dei discorsi e dei comportamenti. Anche per controllare e modellare i comporta-
menti è necessario un certo impegno cognitivo. Quando ci monitoriamo, siamo come attori sulla
scena: parole, tono di voce, gesti, espressioni del viso, temi toccati, tempi di silenzio e di intervento
sono cose che contano e vanno controllate. I riferimenti teorici più recenti, per gli studi sul self-mo-
nitoring, vanno del resto cercati principalmente nell’approccio drammaturgico di E. Goffmann, se-
condo il quale la vita sociale è come un teatro (E. Goffmann, The Presentation of Self in Everyday
Life, 1959, trad. it. La vita quotidiana come rappresentazione, 1969).
Il self-monitoring impegna anche sul piano emotivo: spesso le persone, lasciandosi dominare dai
sentimenti (di offesa, vergogna, colpa, rabbia) non riescono a capire le situazioni e adattarvi i com-
portamenti. Se la capacità di decentramento si disattiva, si fa prevalere il giudizio esplicito sugli altri
e su di sé, anche il controllo emotivo tende a venir meno e la situazione “sfugge di mano”.
Gli individui non hanno tutti la stessa capacità di automonitoraggio. Si distinguono soggetti HSM
(high self-monitoring), ad alto monitoraggio, molto sensibili alle situazioni ed abili nel modellare i
propri comportamenti, e soggetti LSM (low self-monitoring), a basso monitoraggio, che si regola-
no prevalentemente in base ai propri stati interiori, prescindendo dalle situazioni. Si riconoscono
perchè gli uni si si adattano senza problemi, sono al loro posto ovunque, gli altri provano facilmente
disagio e lamentano che le circostanze della vita sociale non corrispondono alle loro idee, ai propri
sentimenti, al proprio umore.
É chiaro che gli HSM risultano nel complesso avvantaggiati, specie sul piano della socialità e del
successo. Tuttavia possono sorgere dubbi sulla loro condizione, a causa dello stile camaleontico, del
trasformismo e della loro possibile incoerenza, che può essere fonte di problemi nelle relazioni pro-
fonde di lunga durata. Di solito infatti gli HSM sono meno disposti a svelarsi totalmente e a impe-
gnarsi fino in fondo.
Va detto però che gli HSM sono solitamente meno incoerenti di quello che può sembrare. É vero
che hanno tanti sé, diversi da situazione a situazione, però posseggono una propria organizzazione
non sempre riducibile ad una “esistenza a più comparti”; nella maggior parte dei casi, hanno un nu-
cleo coerente, latente e circondato da un alone fluttuante, adattabile alle situazioni. Quando si ha a
che fare con un soggetto HSM, si sperimenta infatti una grande morbidità, ma anche l’impressione
di un nocciolo duro, un io fermo e coerente dietro le quinte.
SVILUPPO DELLE DIFFERENZE INDIVIDUALI
integrazione
SVILUPPO SOCIALE
temperamento
differenziazione coscienza di sé
identità sessuale
S. Chess & A. Thomas studi e ricerche sulle caratteristiche individuali presenti fin dalla nascita
Temperamento modo di reagire agli stimoli ambientali dipendente dalla costituzione fisica
vs
bambini difficili iperattivi, ritmi irregolari sonno-veglia, reazioni negative alle novità
Maschi Femmine
manifestazioni aggressive
differenze accertate
abilità verbali e spaziali
attenzione: attenzione:
luci, forme, manipolazione suoni, linguaggio
ruolo sessuale: insieme di comportamenti che una particolare cultura vestiario, gesti
ritiene appropriati rispettivamente per maschi e femmine discorsi,emozioni
controllo autonomia
SE’ autonomia
autosufficienza
controllo emotivo etica agente
maschile distanza relazionale (assertiva)
individualismo
competizione
Stoller femminilità originaria
identità maschile (paura di ricadere nella fusione originaria)
riaffermazione di forza e indipendenza
crudeltà / misoginia
“New look” studi sulla percezione esperienza passata, bisogni, motivazioni, aspettative
dipendenza -> approccio globale alle esperienze -> influenzato dal contesto
dal campo
indipendenza -> approccio analitico alle esperienze -> prescinde dal contesto
dal campo
Witkin 1950 - 60 : New York, studi longitudinali con ragazzi della scuola pubblica
a) percezione
+ abilità figurali e ragionamento spaziale _
b) pensiero
+ flessibilità e produttività di pensiero _
c) memoria
+ immagazzinamento nella MLT e rievocazione _
d) percezione del sé
+ articolazione dellʼ esperienza spazio-temporale _
rappresentazione della figura umana
f) socialità
+ freddi + suggestionabili
- interessati agli altri + attenti agli altri
+ solitari + influenzabili, + conformisti
- cortesi + cortesi
ambiente indipendenti, autorevoli incoraggiano lʼ autonomia
di genitori
sviluppo dipendenti, permissivi / autoritari scoraggiano lʼ autonomia
RITMO CONCETTUALE
ritmo concettuale gestione personale dei tempi di risposta agli stimoli ambientali
dipendente dalle caratteristiche cognitive, emotive, affettivo-
relazionali, dallʼ organizzazione del sé e dallʼ autostima.
SELF -MONITORING
A partire dalla seconda metà del XIX secolo, si è applicato un nuovo metodo allo studio della so-
cietà umana e del comportamento sociale: il metodo scientifico, che fornisce risposte tratte dai fatti
raccolti mediante una ricerca sistematica. Da questo nuovo metodo d’indagine ha tratto origine una
disciplina vivace e ancora “giovane”: la sociologia. La sociologia è lo studio scientifico della società
umana e del comportamento sociale. Il suo oggetto è ampio, complesso e vario, e le conoscenze
prodotte dalla ricerca sociologica rimangono provvisorie ed imperfette sotto molti punti di vista.
La prospettiva sociologica ci invita a guardare l’ambiente che ci è familiare un pò come se lo vedes-
simo per la prima volta. Ci permette di avere un’immagine nuova di un mondo che abbiamo sempre
dato per scontato; essa ci incoraggia a mettere a fuoco i lineamenti del nostro ambiente sociale e a
interpretarli in una luce nuova e più ricca. La sociologia ci offre anche una finestra sul mondo, gui-
dandoci in aree della società che altrimenti avremmo ignorato o mal compreso, ci da la possibilità di
renderci conto che esistono punti di vista diversi dal nostro e, in questo processo, di comprendere
meglio noi stessi, i nostri atteggiamenti, la nostra stessa vita.
Comunemente le scienze vengono distinte in due branche principali: le scienze naturali, che studia-
no i fenomeni fisici e biologici, e le scienze sociali, che studiano i vari aspetti del comportamento
umano. Tutte le scienze, naturali o sociali, partono dall’assunto che nell’universo esiste un qualche
ordine sottostante. Gli avvenimenti, sia che riguardino le molecole sia gli esseri umani, non sono ca-
suali, ma seguono un modello che è abbastanza regolare da permettere che su di essi si facciano delle
generalizzazioni. Diventa allora possibile analizzare i rapporti di causa ed effetto e spiegare così
perchè una cosa accade e predire che, nelle stesse condizioni, accadrà ancora in futuro. Per le sue ge-
neralizzazioni, spiegazioni e predizioni, la scienza si avvale dell’analisi sistematica di dati verificabi-
li, di dati, cioè, che possono essere controllati da altri e che daranno sempre gli stessi risultati.
La vita sociale non consiste dunque in una serie di eventi casuali: nella maggior parte dei casi la so-
cietà e i processi che in essa si svolgono seguono determinati modelli. Di conseguenza la sociologia
può usare gli stessi metodi di indagine delle altre scienze ed usare i suoi risultati per formulare gene-
ralizzazioni. Come gli studiosi di scienze naturali, i sociologi costruiscono teorie e analizzano dati,
effettuano esperimenti e fanno osservazioni, tengono accurate documentazioni e cercano di giungere
a conclusioni esatte.
Come tutte le scienze sociali, la sociologia è una disciplina relativamente meno avanzata rispetto
alla maggior parte delle scienze naturali. Le ragioni sono due. In primo luogo il metodo scientifico è
stato impiegato per studiare il comportamento sociale soltanto a partire da tempi recenti, mentre è
stato applicato al mondo naturale da secoli. In secondo luogo lo studio del comportamento umano
presenta molti problemi con i quali gli studiosi di scienze naturali non devono fare i conti:
a) i sociologi si occupano delle persone, ossia di individui coscienti, consapevoli di sé, capaci di
cambiare il loro comportamento quando vogliono: a differenza delle rocce o delle molecole, possono
non cooperare e possono modificare il loro comportamento quando sanno di essere oggetto di stu-
dio; b) per motivi etici, non possono diventare oggetto di esperimenti che offendano la loro dignità o
che violino i diritti umani; inoltre c) il comportamento umano ha generalmente delle cause estrema-
mente complesse e stratificate, che è difficile determinare con esattezza.
Le scienze sociali sono un gruppo di discipline tra loro imparentate che studiano i diversi aspetti
del comportamento umano. Ne fanno parte la sociologia, l’economia, la psicologia, la scienza
politica e l’antropologia. I confini tra le varie scienze sociali sono vaghi e sempre mutevoli, e tra le
varie discipline vi sono vaste aree di sovrapposizione: gli aspetti sociali della vita economica sono
oggetto di studio della sociologia economica, la psicologia sociale studia come la personalità e il com-
portamento vengano influenzati dal contesto sociale, la sociologia politica analizza il comportamen-
to politico e l’interazione sociale nei processi politici. L’antropologia è la disciplina più affine alla
sociologia. Differisce da questa perchè si occupa principalmente di piccole società “primitive”, men-
tre la sociologia concentra la propria attenzione piuttosto sui processi di gruppo che hanno luogo
nell’ambito delle grandi società industriali moderne.
Generalmente il titolo di fondatore della sociologia viene attribuito ad August Comte (1798 -
1857), che per primo coniò il termine “sociologia” e che individuò due problemi specifici della ricer-
ca sociologica: la statica sociale e la dinamica sociale.
La statica sociale riguarda il problema dell’ordine e della stabilità, del come e perché la società sta
insieme e si regge nel tempo.
La dinamica sociale riguarda il problema del cambiamento sociale, di cosa spinge la società a cam-
biare e che cosa determina la natura e la direzione dei cambiamenti.
La maggior parte dei sociologi segue, nel proprio lavoro, la falsariga delle principali prospettive
teoriche, cioé si basa su assunti di carattere generale riguardanti la società e il comportamento socia-
le, che sono in grado di offrire un punto di vista complessivo per lo studio di problemi specifici.
Le prospettive che storicamente hanno avuto la maggiore diffusione sono: la prospettiva funzio-
nalista, la prospettiva del conflitto e la prospettiva interazionista.
La prospettiva funzionalista
La prospettiva funzionalista trae la sua ispirazione dalle opere di Herbert Spencer e di Emile
Durkheim. Spencer paragonava la società ad un organismo vivente: ogni organismo ha una struttu-
ra, cioè è composto da un certo numero di parti interrelate come la testa, gli arti, il cuore e così via.
Nello stesso modo la società he una struttura, e le sue parti interrelate sono la famiglia, la religione,
l’esercito ecc. Il moderno struttural-funzionalismo (Talcott Parsons, Robert Merton) conserva la
stessa idea di società come sistema di parti interrelate.
La teoria funzionalista presuppone che la società tenda ad essere un sistema organizzato stabile,
ben integrato, in cui la maggior parte dei membri sia d’accordo sui valori fondamentali, ed in cui
gli elementi del sistema sociale tendano ad adattarsi gli uni agli altri, cooperando al mantenimento
della stabilità generale. Robert Merton distingue le funzioni manifeste - quelle riconosciute ed
intenzionali - dalle funzioni latenti - quelle che non vengono riconosciute e non sono intenzionali.
La scuola, ad esempio, ha la funzione manifesta di insegnare a leggere, scrivere, far di conto, ma ha
anche delle funzioni latenti, come per esempio tenere impegnati i giovani, nella società industriale,
fino a quando non hanno un’età sufficiente per lavorare. Merton avverte che non tutti gli elementi
del sistema sociale sono sempre funzionali: accade a volte che di fatto alcuni di essi infrangano
l’equilibrio sociale e che quindi siano disfunzionali (ad es. l’alto tasso di natalità nei paesi sottosvi-
luppati).
Concentrando l’attenzione principalmente sull’ordine e la stabilità sociale, i funzionalisti tendono
talvolta ad assumere un atteggiamento implicitamente conservatore: i cambiamenti distruttivi vengo-
no considerati a priori disfunzionali, anche quando tali cambiamenti possono essere, a lungo andare,
benefici.
L’ispirazione della prospettiva del conflitto della sociologia moderna deriva dall’opera di Karl
Marx, il quale considerava la lotta tra le classi sociali il vero “motore” della storia. La teoria del con-
flitto moderna (Charles Wright Mills, Lewis Coser) considera come un fatto che troviamo nella
vita di ogni società il conflitto tra molti gruppi ed interessi. Questi conflitti possono mobilitare, ad
esempio, i vecchi contro i giovani, i produttori contro i consumatori, gli uomini contro le donne, un
gruppo razziale contro un altro, ecc.
I teorici del conflitto assumono che le società si trovino in uno stato di costante cambiamento in cui
il conflitto è una caratteristica permanente. “Conflitto” non significa necessariamente violenza aper-
ta, ma anche tensione, ostilità, competizione e dissenso sui fini e sui valori; la sua caratteristica è di
non essere occasionale, ma di costituire una presenza costante nella vita sociale.
Le cose che le persone vogliono - il potere, la ricchezza, il prestigio - sono sempre scarse e la loro
domanda supera l’offerta. Coloro che controllano queste risorse riescono a proteggere i loro interessi
a spese degli altri: chi ha il potere costringe il resto della popolazione all’acquiescenza ed alla con-
formità con la forza o con la minaccia dell’uso della forza. I teorici del conflitto non pensano che il
conflitto sia una forza necessariamente distruttiva. Secondo loro esso può avere spesso dei risultati
positivi, diventando un importante fonte di cambiamento ed impedendo che la società ristagni.
La prospettiva interazionista
Ogni prospettiva privilegia dunque un aspetto diverso della realtà: il funzionalismo l’ordine e la
stabilità sociale, la teoria del conflitto la tensione ed il cambiamento sociale, e l’interazionismo le
esperienze consuete della vita quotidiana. Ciascuna di queste prospettive può fornire un contributo
all’analisi della società, e non c’è niente di strano nel fatto che un ricercatore impieghi teorie appa-
rentemente incompatibili per studiare lo stesso oggetto
Le tendenze attuali della sociologia
Più ci si avvicina ai nostri giorni, più diventa difficile distinguere nel fitto panorama delle teorie
contemporanee quelle di maggiore importanza e significato. Si può comunque notare una rinascita
della sociologia europea attraverso gli studi di alcuni autori particolarmente profondi nelle loro ana-
lisi e ricchi di intuizioni utili alla comprensione della società odierna e dei suoi fenomeni, anche se,
conformemente alla tradizione europea, poco attivi sul piano delle ricerche empiriche.
In Francia riscuotono molto credito i lavori per molti aspetti contrapposti di Raymond Boudon
(1934) e Pierre Bourdieu (1932). Il primo è il teorico in sociologia dell’individualismo metodologi-
co, secondo il quale ogni fenomeno sociale, anche il più macroscopico, deve sempre essere conside-
rato l’esito di azioni, convinzioni e comportamenti individuali, e in particolare delle finalità perse-
guite dall’individuo. Bourdieu è dal canto suo uno dei pochi sociologi europei che abbia svolto un
numero rilevante di ricerche empiriche. Egli ritiene che dal punto di vista teorico sia un errore consi-
derare l’individuo come colui che, libero da condizionamenti strutturali, crea i fenomeni sociali con
le proprie decisioni ragionate. Per Bourdieu la struttura sociale è sì un prodotto delle singole azioni
umane e nasce dall’esigenza di rendere l’agire dell’uomo stabile e prevedibile ma, una volta costitui-
ta, essa diviene a sua volta un’importante foente di determinazione dell’agire dei singoli soggetti so-
ciali.
Un pensatore di particolare interesse per i sociologi - sempre in ambito francese - è il filosofo Mi-
chel Foucault (1926-84), il quale si è occupato di istituzioni totali (prigioni, ospedali, manicomi),
interessandosi in particolar modo al rapporto tra potere, conoscenza e ciò che egli chiamava il “di-
scorso”, vale a dire i modi di pensare e di scrivere riguardo alla vita sociale. Foucault è interessato al
modo in cui il potere funziona (la “microfisica del potere”) e alle identità personali, che costringono
e limitano ciò che facciamo. Secondo Foucault il potere è impersonale, anonimo, onnipresente e on-
nicomprensivo, non ha un luogo preciso e privilegiato di residenza, perchè abita ovunque. In altri
termini, il potere è dato dai molteplici rapporti di forza minutamente presenti nella società: i macro-
meccanismi statali (“il Potere”) dipendono in realtà dai micro-meccanismi sociali.
SOCIOLOGIA
Sociologia => studio scientifico della società umana e del comportamento sociale
Status della Sociologia => scienza recente e meno avanzata delle scienze naturali
famiglia
elementi scuola mantenimento della stabilità generale statica sociale
stato ordine e stabilità
della società;
spiega perchè
la società si regge
manifeste ( riconosciute e intenzionali ) nel tempo
funzioni
funzionali
elementi del
sistema sociale
disfunzionali
L’uomo è un animale sociale (“zoon politikòn”, nella definizione di Aristotele); la sua umanità si
realizza soltanto attraverso la vita sociale. La società dà alla nostra vita un contenuto, una direzione,
un significato e noi, a nostra volta, rimodelliamo la società che lasciamo alla prossima generazione.
Gli individui costruiscono una società quando si verificano le seguenti condizioni:
a) occupano un territorio comune e interagiscono gli uni con gli altri;
b) hanno una cultura comune che condividono almeno in parte;
c) si sentono appartenenti allo stesso gruppo.
Oltre agli esseri umani, esistono numerose specie di animali sociali: le formiche, le aringhe, le oche,
le termiti, gli elefanti, ecc. Ma le società animali non-umane per la loro sopravvivenza e il loro fun-
zionamento dipendono fondamentalmente da modelli di comportamento non appresi (“istintivi”).
Di conseguenza, le diverse società di ciascuna specie, sono praticamente uguali.
Invece le società umane sono straordinariamente diverse. L’organizzazione e le caratteristiche di
ogni società umana non si fondano sui rigidi dettati degli “istinti” dei suoi membri. Esse sono pro-
dotte dagli stessi esseri umani, che le apprendono e le modificano da una generazione all’altra.
La struttura sociale
Tutte le cose complesse, dai batteri ai pianeti, hanno una struttura, cioè sono costituite da un insie-
me di parti tra loro correlate in modo organizzato. I sociologi pensano che usare la metafora della
“struttura” sia utile per descrivere o analizzare le società umane. Una società non è mai una caotica
accolita di persone; gli esseri umani sono flessibili e creativi, ma in ogni società esiste una sottostan-
te regolarità, ossia vi sono dei modelli di comportamento. Quindi, per il sociologo, la struttura socia-
le è qualcosa che si riferisce alle relazioni organizzate tra le componenti fondamentali di un sistema
sociale.
Le componenti principali della struttura sociale sono gli status, i ruoli, i gruppi e le istituzioni.
Status
Ogni società è composta da individui, da persone, ognuna delle quali occupa una o più posizioni
socialmente definite: donna, falegname, insegnante, figlio, anziano, e così via. Ognuna di queste posi-
zioni si chiama status. Lo status di una persona determina come questa si colloca nella società ed in
che modo costui o costei deve instaurare relazioni con gli altri.
Una persona può avere, ovviamente, numerosi status nello stesso tempo, ma uno di essi, di regola
quello occupazionale, tende ad essere il più importante (“status dominante”).
In quasi tutte le società esiste una notevole disuguaglianza tra i diversi status (chi ha lo status di
magistrato, ad esempio, gode di maggiore ricchezza, prestigio e potere di chi ha lo status di usciere).
Le persone che, in una società stratificata, hanno uno status pressapoco equivalente formano una
classe: hanno accesso alla proprietà e alle altre risorse in misura maggiore rispetto a coloro che han-
no uno status inferiore.
Su alcuni dei nostri status abbiamo scarse capacità di controllo. Non siamo noi a decidere se siamo
giovani o vecchi, maschi o femmine, bianchi o neri. Gli status di questo tipo si chiamano ascritti, in
quanto essi ci vengono assegnati arbitrariamente dalla società. Ma su altri status possiamo invece
esercitare una certa misura di controllo. E’ grazie ai propri sforzi - almeno in parte - che una persona
si sposa, si laurea, va in galera o diventa un adepto di una certa religione. Gli status di questo tipo si
chiamano acquisiti.
LA SOCIETA’
società contenuto
alla vita umana
direzione
significati
a) territorio comune e interazione
gli individui costituiscono
b) cultura comune condivisa
una società quando hanno :
c) senso di appartenenza
Ogni status nella società comporta un insieme di modelli di comportamento attesi, di obblighi e di
privilegi, in altri termini ogni status comporta un ruolo. Il concetto sociologico di ruolo deriva dal-
l’uso teatrale: si riferisce alla parte o alle parti che un individuo può interpretare nella società.
La distinzione tra status e ruolo è semplice: uno status lo si occupa, un ruolo lo si svolge.
Il ruolo è definito da norme sociali che prescrivono come deve comportarsi colui che occupa lo sta-
tus. Lo status è una posizione fissata socialmente, mentre il ruolo è più flessibile perchè esistono
notevoli variazioni sul modo concreto nel quale gli occupanti lo status concretamente lo svolgono.
In pratica uno status comporta numerosi ruoli. Per esempio, lo status di professore universitario
comporta un ruolo di insegnante, un ruolo di ricercatore, un ruolo di collega di altri professori, di au-
tore di articoli e saggi accademici, ecc. Un grappolo di ruoli connessi ad un singolo status si chiama
“role set” (insieme di ruoli).
Il contenuto del nostro comportamento di ruolo è determinato in primo luogo dalle aspettative di
ruolo, cioè dalle norme generalmente accettate che definiscono come deve essere un ruolo. Il nostro
effettivo comportamento di ruolo ha il nome di esecuzione di ruolo. Il modo in cui le persone rea-
giscono l’una rispetto all’altra dipende dal grado di corrispondenza tra l’esecuzione di ruolo e le
aspettative di ruolo. In certi casi aspettative contradditorie possono essere incorporate in uno stes-
so ruolo (ad es. ci si aspetta che un insegnante tenga delle buone relazioni con gli alunni, ma anche
che faccia in modo che tutti rispettino le regole). Ne può risultare una tensione di ruolo, cioè una
situazione in cui una persona, per ragioni diverse, può non corrispondere alle varie aspettative di
ruolo. Un altro problema si pone quando una persona interpreta due ruoli cui sono connesse aspet-
tative difficilmente conciliabili (ad es. un agente di polizia che si trovasse a dover arrestare il proprio
figlio). Se due o più ruoli di una persona si scontrano in tal modo, ci troviamo di fronte ad una situa-
zione di conflitto di ruolo.
Gruppo
Un gruppo è composto di persone che interagiscono le une con le altre in modo ordinato sulla base
di aspettative condivise riguardanti il rispettivo comportamento. Detto in altre parole, un gruppo è
un insieme di persone i cui status e i cui ruoli sono interrelati. I membri del gruppo condividono un
sentimento di “appartenenza”; essi distinguono i membri dai non-membri. Diverso dal gruppo è
l’aggregato, un insieme di persone alle quali capita di trovarsi temporaneamente nello stesso posto
e nello stesso tempo (i passeggeri di un autobus o la folla in una strada). Il gruppo differisce anche
dalla categoria. Questa è composta da un certo numero di persone che in molti casi non si sono mai
incontrate, ma che condividono certe caratteristiche come l’età, la razza o il sesso.
Ogni gruppo ha i propri confini, le proprie norme, i propri valori, nonchè gli status ed i ruoli che
ad essi si collegano, per esempio quelli di capo (leader), di gregario (follower), di burlone, di capro
espiatorio, ecc. In certi gruppi questa struttura è rigida ed esplicita: i membri riconoscono posizioni
ufficiali e i valori e le norme sono contenuti in scopi e regole scritti. In altri gruppi invece la struttura
è molto più flessibile e gli status e i ruoli sono soggetti a negoziazioni e a cambiamenti.
I gruppi si possono suddividere in due tipi principali: primari e secondari. Il gruppo primario è
composto da un piccolo numero di persone che interagiscono per un periodo di tempo relativamente
lungo sulla base di rapporti intimi, faccia a faccia. I suoi membri si conoscono personalmente ed agi-
scono in modo informale (famiglia, gruppo dei pari, piccole comunità).
RUOLO
STATUS vs RUOLO
fissato flessibile
socialmente
Comportamento di ruolo
ASPETTATIVE ESECUZIONE
DI RUOLO DI RUOLO
NORME comportamento
ACCETTATE corrispondenza effettivo
(+ o )
reazione degli
altri
uniformi
o
contraddittorie tensione di ruolo conflitto
(singolo ruolo) intra-ruolo
ruolo insieme delle norme e delle aspettative che convergono su un individuo in quanto occupa
una determinata posizione in una rete di relazioni sociali più o meno strutturata, ovvero in
un sistema sociale. Norme e aspettative provengono dagli individui che occupano le posizioni
collegate a quella del soggetto; esse hanno per questi carattere esterno, oggettuale, in varia
misura obbligante o costrittivo; sono suscettibili di diverse interpretazioni, e a seconda della
situazione possono essere in varia misura rispettate o ignorate o evase.
All’opposto un gruppo secondario è composto da un numero variabile di persone che interagisco-
no su basi temporanee, anonime e impersonali. I suoi membri o non si conoscono affatto personal-
mente, o, al massimo, si conoscono in relazione a particolari ruoli formali anzichè come persone nel-
la loro completezza; i contatti faccia-a-faccia sono solitamente limitati. I gruppi secondari di solito
sorgono per conseguire finalità specifiche (=> gruppo eterocentrato, centrato su un compito) ed i
loro membri sono generalmente meno impegnati emotivamente rispetto ai gruppi primari.
I gruppi secondari possono avere maggiori o minori dimensioni, comunque tutti i gruppi di grandi
dimensioni (ad es. associazioni, società commerciali, grandi fabbriche, ministeri, partiti politici, mo-
vimenti religiosi) sono secondari. All’interno dei grandi gruppi secondari esistono sempre dei grup-
pi primari di minori dimensioni.
I piccoli gruppi
d) l’appartenenza al gruppo
Il gruppo deve avere dei confini, altrimenti non sarebbe possibile distinguere i membri dai non-
membri. A volte questi confini sono definiti in modo chiaro e formale (criteri predeterminati, tesse-
re, distintivi, ecc.); in altri casi i confini non sono affatto chiari. Tutti i gruppi, comunque, tendono
a mantenere i loro confini sviluppando un forte senso della distinzione tra “noi” e “loro”, fra chi fa
parte del gruppo e chi ne è fuori. I membri tendono a considerare il proprio gruppo, lo ingroup, co-
me qualcosa di speciale, mentre ogni outgroup al quale le altre persone appartengono è considerato
come qualcosa che vale di meno e che può anche essere oggetto di ostilità.
e) i gruppi di riferimento
Esiste un tipo di gruppo al quale le persone sentono di appartenere anche se in realtà non ne sono
membri. Si tratta del gruppo di riferimento. Per esempio, una persona può giudicare se stessa se-
condo i criteri delle comunità nella quale ha vissuto in precedenza, o di una comunità alla quale spera
di poter appartenere in futuro. Le valutazioni che diamo di noi stessi sono fortemente influenzate
dal gruppo di riferimento che assumiamo.
IL GRUPPO
struttura
il confini
GRUPPO norme
ha : valori rigida flessibile
status
ruoli leader / follower esplicita status e ruoli:
posizioni
ufficiali negoziazioni
e
regole cambiamenti
scritte
gradualità
LEADERSHIP
distinzione
NOI LORO
ingroup outgroup
a) comportamenti collettivi
Il “comportamento collettivo” è un tipo di comportamento sociale più o meno spontaneo che nu-
merosi individui manifestano al medesimo tempo, in presenza di un medesimo stimolo o di situazio-
ni affini ( tensioni strutturali o istituzionali di origine economica, politica, culturale ), siano essi riu-
niti in un luogo (folla) oppure fisicamente separati, come avviene con i movimenti sociali o con i fe-
nomeni della “moda”.
I tipi di comportamenti collettivi sono innumerevoli; essi sono stati classificati in vario modo, in
considerazione delle motivazioni immediate e delle variabili contestuali e strutturali. Si possono di-
stinguere: a) fenomeni politici (cortei, comizi, assamblee spontanee, sommosse, rivolte di piazza,
ecc.); b) fenomeni economici (scioperi selvaggi, panico dei risparmiatori - azionisti, manie per lot-
terie, concorsi, giochi a premi, consumo ossessivo di particolari beni); c) fattori religiosi (sette, pel-
legrinaggi di massa, “crociate”, isterismi collettivi come la “paura del diavolo”); d) fattori culturali
(mobilitazioni giovanili, mode relative all’ abbigliamento, ai mezzi di trasporto, mode telematiche);
e) eventi bellici o catastrofi naturali (panico, fughe di massa, emigrazioni , saccheggi); f ) conflitti
etnici o razziali (linciaggi, violenze collettive, discriminazioni condivise); g ) attività sportive (tifo,
voga di sport particolari, invasioni di campo, uso di capi di abbigliamento emulativi di squadre o
campioni).
b) movimenti sociali
Il movimento sociale è una derivazione dei comportamenti collettivi coinvolgente di norma un gran
numero di persone, intenzionalmente diretto a modificare oppure a trasformare in modo radicale
l’ordine sociale esistente o alcune della sue istituzioni sulla base di una determinata ideologia e con
l’impiego di qualche forma di organizzazione. Si definisce, in linea di massima, movimento sociale
lo sforzo di un gruppo organizzato, teso a produrre qualche cambiamento nella vita sociale.
I movimenti sociali vanno distinti: a) dai comportamenti collettivi, in quanto hanno:maggiore dura-
ta, strutture più stabili, fini prefissati, ideologie ben definite, maggior senso di appartenenza ad una
realtà unitaria; b) dalle organizzazioni, in quanto si muovono fuori dalla sfera istituzionale e utilizza-
no strategie inconsuete. Il movimento sociale, mirando al cambiamento, mantiene una vena seppur
minima di opposizione e di contestazione dello status quo (lo “stato di cose presente”).
Si distinguono movimenti eterocentrati, che mirano a cambiare il mondo esterno, ed autocentrati,
che vogliono cambiare i loro membri e magari arrivare per questa via a trasformare la vita sociale e la
realtà.
I movimenti hanno un loro ciclo vitale: solitamente dopo una effervescenza creativa iniziale, tendo-
no a rientrare nell’alveo istituzionale, trasformandosi in organizzazioni o dissolvendosi. Solitamente
vengono individuate quattro fasi:
1) fermento sociale; lo scopo di questa fase è sensibilizzare la gente ai problemi che il movimento ha
a cuore;
2) mobilitazione popolare; si tratta poi di diffondere l’ideologia del movimento e raccogliere segua-
ci;
3) organizzazione; si rende necessario dividere i compiti, darsi norme e ruoli, disporre di risorse ed
attrezzature;
4 ) istituzionalizzazione; il movimento ha ormai un suo ruolo nella vita politica e sociale ed abban-
dona completamente i tratti informali, attenua la sua carica di opposizione e contestazione.
COMPORTAMENTO COLLETTIVO
movimenti
Un’istituzione è un insieme di valori, norme, status, ruoli e gruppi che si sviluppa attorno ad
un bisogno fondamentale della società.
Nelle società moderne le istituzioni fondamentali sono: la famiglia, che fornisce ai bambini le cure
di cui necessitano; la scuola, che trasmette ai giovani le conoscenze culturali; la religione, che forni-
sce un insieme di valori condivisi che i riti riaffermano; le istituzioni politiche che distribuiscono il
potere e mantengono l’ordine; le istituzioni economiche che forniscono beni e servizi. Inoltre le isti-
tuzioni più importanti si suddividono al loro interno in unità di dimensioni minori.
Tra le principali caratteristiche delle istituzioni possiamo elencare le seguenti:
a) le istituzioni sono intrinsecamente conservatrici. I modelli di comportamento sociale vengono
istituzionalizzati, ossia fissati saldamente, solo dopo essere stati talmente rafforzati dai costumi e
dalla tradizione che la gente li accetta senza sollevare dubbi. Anzi, le persone si irritano ed oppon-
gono resistenza di fronte a qualsiasi attacco diretto alle istituzioni che conoscono. Questa resistenza
al cambiamento è spesso funzionale perchè assicura la stabilità sociale, ma nei periodi di conflitto
sociale o di rapido cambiamento una risposta del genere può risultare disfunzionale se le vecchie for-
me sono diventate antiquate, inefficaci o oppressive.
b) Le istituzioni tendono a collegarsi strettamente tra loro nell’ambito della struttura sociale. Le
componenti di una struttura sociale devono essere abbastanza bene integrate se si vuole evitare una
eccessiva tensione strutturale. Per questo motivo, le istituzioni principali di una società tendono ad
avere valori e norme simili, a rispecchiare finalità e priorità compatibili.
c) Quando le istituzioni cambiano, raramente lo fanno in una situazione di isolamento. Ogni
modificazione importante in una delle istituzioni principali tende ad essere accompagnata o seguita
da dei cambiamenti nelle altre. Ciò è particolarmente vero nel caso dei cambiamenti che avvengono
nell’economia; tali cambiamenti si ripercuotono infatti su quasi tutti i campi di attività.
Organizzazioni formali
Fino all’ottocento, quasi tutta la vita sociale si svolgeva nell’ambito di piccoli gruppi primari: la
famiglia, la congregazione religiosa, l’edificio scolastico, la fattoria o la bottega e la comunità del vil-
laggio. Oggi il paesaggio sociale è dominato da organizzazioni grandi e impersonali che influenzano
la nostra vita fin dalla nascita. Alcune di queste organizzazioni sono volontarie, nel senso che le per-
sone possono liberamente aderirvi o allontanarsene (movimenti religiosi, partiti politici, associazioni
professionali); altre sono invece obbligatorie, nel senso che le persone sono costrette a farne parte
(prigioni, scuole elementari); altre sono di tipo utilitario, nel senso che le persone entrano a farne
parte per ragioni pratiche (imprese commerciali).
Le associazioni secondarie di questo tipo vengono chiamate organizzazioni formali; si tratta di
grandi gruppi razionalmente rivolti al conseguimento di obiettivi specifici. A differenza dei gruppi
primari, che sono informali, queste organizzazioni hanno una struttura gerarchica progettata con
precisione che coordina le attività dei membri nell’interesse degli obiettivi dell’organizzazione.
Le organizzazioni formali comprendono di solito numerosi status ufficiali (presidente, segretario,
tesoriere, ecc); è possibile disegnare una mappa di ogni organizzazione formale che mostri quali rap-
porti intercorrono tra le varie posizioni ufficiali senza fare il minimo riferimento alle persone che in
essa operano. Se da un lato il benessere e il nostro modo di vita dipendono dall’ esistenza di orga-
nizzazioni quali le società commerciali, l’università, i ministeri, le grandi fabbriche, dall’altro lato, le
dimensioni, il carattere impersonale e il potere delle organizzazioni formali sono spesso considerati
dalle persone minacciosi e disumanizzanti.
La burocrazia
Quanto più grande e complessa diventa una organizzazione formale, tanto maggiore è il bisogno di
creare una catena di comando che coordini le attività dei suoi membri. Questo bisogno è soddisfatto
dalla burocrazia, una struttura di autorità gerarchica che opera secondo procedure precise.
Generalmente la parola “burocrazia” ha delle connotazioni negative, in tutte le lingue, ma rimane il
mezzo più efficace mai escogitato per produrre una grande quantità di lavoro organizzato.
Il sociologo utilizza quindi il termine in senso neutrale. Max Weber per primo ha analizzato siste-
maticamente questo tipo di organizzazione mettendone in luce l’efficienza ed evidenziandone gli
aspetti problematici.
Per Max Weber la tendenza dominante nel mondo moderno è il processo che egli ha chiamato di
razionalizzazione. Con questo termine egli intendeva riferirsi al modo in cui i metodi tradizionali,
spontanei, basati sulla pratica vengono rimpiazzati da procedure astratte, precise, esattamente cal-
colate. Questo processo di graduale razionalizzazione si manifesta in ogni aspetto della vita sociale
moderna. Il risultato di tale processo è uu marcato aumento di efficienza, ma questa efficienza è
stata raggiunta pagando un prezzo. Il mondo, secondo Weber, diventa grigio e triste, disincantato;
il suo mistero e la sua bellezza vengono demoliti dal nuovo valore della razionalità tecnica .
Weber era convinto che la burocrazia, per quanto indispensabile, fosse una forma di razionalizza-
zione particolarmente minacciosa, in quanto essa implica l’organizzazione e la subordinazione calco-
late degli esseri umani nell’interesse del conseguimento di finalità impersonali, tecniche. Di conse-
guenza, secondo Weber, gli individui diventano prigionieri di una “gabbia di acciaio” che essi stessi
hanno costruito.
Norme
La nostra vita si svolge in un mondo regolamentato, popolato di regole di vario genere. Ci sono le
leggi naturali, i principi della fisica, della biologia e delle altre scienze che studiano la natura. Tali leg-
gi sono descrittivo-esplicative, cioè esprimono regolarità riscontrate nella realtà e ci aiutano a capire i
fenomeni. Diverse dalle leggi naturali sono le leggi umane, che esistono non per natura, ma perchè gli
uomini le hanno stabilite, più o meno apertamente ed esplicitamente; esse sono prescrittive, consi-
stono in comandi, ordini, suggerimenti che qualcuno (una persona, un gruppo, un’autorità) dà a
qualcun’altro, spingendolo poco o tanto ad agire di conseguenza. A differenza delle regole naturali,
che si impongono a noi senza che possiamo sottrarci, le umane sono violabili.
Non tutte le regole umane sono norme sociali. Esistono regole personali o private, che gli individui
si danno da sé, e di cui rispondono dinanzi a se stessi. Le norme sociali, invece, sono delle regole, o
direttive condivise, che prescrivono qual è il comportamento appropriato in una data situazione.
Ci conformiamo alle norme tanto agevolmente da non renderci conto quasi che esse esistono.
Certe norme si applicano a tutti i membri della società, altre norme si applicano a certe persone e
non a certe altre. Altre norme sono anche più specifiche, prescrivono il comportamento appropriato
per persone che si trovano in situazioni particolari. Le norme ci forniscono delle indicazioni su come
comportarci e delle affidabili aspettative sul comportamento degli altri.
La classificazione delle norme sociali correntemente usata è quella di W. G. Sumer, il quale distin-
gue tre tipi di norme: folkways, mores, stateways.
a) folkways (usi)
I folkways sono le consuetudini e le convenzioni abitudinarie della vita quotidiana (ways of the folk
= usanze del popolo, come cerimoniali, etichette, ecc.). In genere sono norme speciali, non universali
all’interno di una cultura; per lo più sono implicite, orali; hanno origine nella tradizione ma non sono
legittimate da una carica etica o sacrale. Esse vengono mantenute con la pressione informativa e ac-
colte automaticamente, non sono sottoposte a coercizione ed a controllo formale e sono spesso labi-
li., La conformità ad esse è attesa, ma una certa quota di non-conformità viene tollerata.
b) mores (costumi)
I costumi sono norme molto più forti. Le persone assegnano loro un significato morale e considera-
no la loro violazione molto più seriamente (la parola “mores” presso gli antichi romani designava i
costumi più rispettati e sacri). Esse sono universali, per lo più formulate oralmente, ma aventi una
forte legittimazione su basi etiche, religiose o funzionali; hanno forza coercitiva anche se permane un
controllo informale, tendono a restare stabili.
c) stateways (leggi)
Certe norme, specialmente del tipo dei costumi, sono codificate in leggi. Una legge altro non è che
una norma che è stata formalmente posta in vigore dall’autorità politica e sostenuta dal potere dello
stato. In genere la legge codifica norme importanti che già esistevano. Esse sono universali, solita-
mente stabili; vengono formulate per iscritto, sono sempre legittimate su base etica o funzionale; a
sorreggerle hanno elevata forza coercitiva e un controllo formale.
Non tutte le norme possono essere assegnate chiaramente alla categoria degli usi o a quella dei co-
stumi. Esse si distribuiscono in pratica su di un continuum le cui posizioni dipendono dal grado di
serietà con il quale vengono considerata dalla società.
Ogni società deve avere un sistema di controllo sociale, cioè un insieme di strumenti atti a garantire
che i suoi membri si comportino abitualmente secondo le modalità attese e approvate.
Una parte di questo controllo sociale sull’individuo viene esercitata dagli altri, sia in modo formale,
attraverso agenzie quali la polizia e i pubblici ufficiali, sia in modo informale, attraverso le reazioni
delle altre persone nel corso della vita quotidiana. Tutte le norme vengono sostenute da sanzioni,
cioè da ricompense quando le persone vi si conformano e da punizioni quando non lo fanno. Solo
una frazione trascurabile del comportamento sociale viene controllato dalle agenzie formali, mentre
gran parte delle sanzioni viene applicata in modo informale. Tuttavia la maggior parte del controllo
sociale non viene esercitata attraverso l’influenza diretta degli altri, ma da noi stessi, nel nostro inti-
mo, durante il processo della nostra crescita, attraverso l’interiorizzazione inconsapevole delle nor-
me della cultura.
Valori
Le norme di una società esprimono i suoi valori, cioè le idee condivise su ciò che è buono, giusto,
desiderabile. La differenza tra i valori e le norme è che i valori sono dei concetti astratti, generali,
mentre le norme sono regole di comportamento o indicazioni dirette alle persone che si trovano in
situazioni particolari.. I valori si classificano secondo varie dimensioni:
a) il contenuto, che può essere affettivo, quando i valori definiscono stati desiderabili in termini di
gratificazione fisica o psico-fisica primaria, come senso di benessere dell’individuo in salute, o se-
condaria, come il senso di benessere di tipo estetico (es. ascoltare buona musica); cognitivo, quando
i valori contengono asserzioni intorno alla realtà valide come condizioni da rispettare nelle condotte
individuali ( verità); morale, quando si riferiscono ai principi che una collettività considera come
punti cardinali per la convivenza e l’ordine sociale.
b) la posizione nella catena mezzo-fine, per la quale si distinguon valori intrinseci, o finali, e
operativi, o strumentali (cfr. l’inventario di Rokeach); c) l’intensità o forza, cioè il grado di attacca-
mento al valore da parte del soggetto; d) il campo di applicazione (tutti o parte dei membri di una
collettività); e) il grado di adesione (l’effettiva applicazione dei valori da parte dei membri della
collettività).
ISTITUZIONI
VALORI STATUS
complesso di NORME RUOLI che definiscono :
CONSUETUDINI
d) le istituzioni sono tra loro interconnesse (integrate) => norme e valori compatibili
REGOLE
(1) ( 2) (3)
FOLKWAYS MORES STATEWAYS
usanze costume norme giuridiche
etichetta
cerimoniale
valori vs norme
primaria secondaria
senso di benessere senso di benessere
dell’ individuo in salute di tipo estetico
TERMINALI STRUMENTALI
A differenza di altri animali, gli esseri umani non nascono forniti di modelli di comportamento rigi-
di, complessi, ma devono invece apprendere e scoprire dei modi di adattamento ad ambienti molto
diversi che vanno dalle nevi dell’Artico, ai deserti sterili, alle metropoli brulicanti.
Questi modi di vita che vengono modificati e trasmessi da una generazione all’altra, costituiscono
ciò che antropologi e sociologi chiamano “cultura”. Nelle scienze sociali il significato del termine
“cultura” è molto più ampio rispetto al suo utilizzo nei discorsi comuni (“vaste conoscenze”, “gusti
raffinati”, ecc), e comprende tutto il modo di vivere di una società. In questo senso chiunque faccia
parte di una società “ha una cultura”. Per gli studiosi di scienze umane (o sociali), la cultura com-
prende tutti i prodotti condivisi della società umana. Questi prodotti si distinguono in due specie
fondamentali: materiali e non materiali. La cultura materiale comprende tutti i manufatti, ossia gli
oggetti che gli esseri umani producono e ai quali danno un significato: ruote, abiti, scuole, fabbriche,
città, libri, veicoli spaziali, ecc. ; la cultura non-materiale comprende prodotti più astratti - linguag-
gi, idee, credenze, regole, costumi, miti, abilità, modelli familiari, sistemi politici.
Almeno concettualmente è possibile distinguere la “cultura” dalla “società”. La cultura è costituita
dai prodotti condivisi della società; la società è costituita da individui interagenti che condividono
una cultura. Ma le due cose sono interrelate: una società non può esistere senza una cultura; una cul-
tura non può esistere senza una società che la mantenga in vita.
L’antropologo Clifford Geertz (1968) osserva che esseri umani non acculturati “in realtà non esi-
stono, non sono mai esistiti e, ciò che più conta, non potrebbero esistere data la loro natura”. Senza
la cultura non potrebbero sopravvivere né il singolo individuo né la società umana. Per comprendere
questo punto è necessario osservare le caratteristiche che solo la nostra specie possiede.
Descrivere l’evoluzione della specie umana non è un compito facile. In gran parte dobbiamo basarci
sui resti fossili e spesso questi sono scarsi. Sappiamo comunque di appartenere all’ordine dei pri-
mati, un gruppo di specie imparentate che compare in una fase relativamente tarda dell’evoluzione:
i primi primati comparvero circa 70 milioni di anni fa (il pianeta Terra ha all’incirca 4,7 miliardi di
anni) e la nostra linea specifica si è differenziata da quella dei nostri parenti più stretti (scimpanzé,
gorilla e orangutani) fra 8 e 14 milioni di anni fa. Quale è stata l’eredità fisica e comportamentale dei
nostri antenati? I primati di rango più elevato condividono numerose caratteristiche, ciascuna delle
quali ci offre delle tracce del nostro ambito evolutivo.
In primo luogo essi tendono ad essere molto socievoli: vivono in gruppi nei quali si riscontra un al-
to grado di affetto e interazione tra i membri.
In secondo luogo hanno una forte intelligenza, essendo dotati di un cervello eccezionalmente pe-
sante in relazione al peso del corpo.
In terzo luogo i primati hanno mani dotate di un’alta sensibilità; nei primati più sviluppati, l’op-
posizione del pollice rispetto all’indice offre la possibilità di una presa salda e decisa (caratteristica
di fondamentale importanza: si pensi all’atto di scrivere, cucinare, ecc).
In quarto luogo, i primati hanno caratteristiche spiccatamente vocali: nell’uomo questa caratteristi-
ca si è sviluppata giungendo a produrre il linguaggio.
In quinto luogo i primati hanno un potenziale di posizione eretta: negli esseri umani la stazione
eretta, bipedale, e la capacità di camminare sono diventate normali.
Nel corso della loro evoluzione i nostri antenati hanno sviluppato altre due caratteristiche. La pri-
ma, che si riscontra in pochi altri animali, è la capacità di riprodursi per tutto l’anno. La seconda,
che si riscontra negli esseri umani in misura largamente superiore a quella di ogni altra specie anima-
le, è costituita dal lungo periodo di dipendenza del giovane essere umano dagli adulti. Il periodo
di dipendenza offre al giovane essere umano anche la possibilità di apprendere le conoscenze cultu-
rali necessarie per sopravvivere da adulto.
Le capacità di adattamento, la flessibilità e l’intelligenza hanno fatto dell’homo sapiens la specie
più creativa e più diffusa del pianeta. Come si spiega il successo della specie umana? La risposta sta
nella parola “cultura”: è la cultura che ha reso possibile la vita sociale dell’uomo. Se non ci fosse una
cultura trasmessa dal passato, ogni nuova generazione dovrebbe risolvere i problemi più elementari
dell’esistenza umana ricominciando da zero (il fuoco, la ruota, il linguaggio, ecc). É chiaro che i con-
tenuti della cultura non vengono trasmessi per via genetica: nella cultura tutto viene appreso (nel
lungo periodo di dipendenza del giovane essere umano). La cultura è il sostituto dell’istinto come
strumento di risposta all’ambiente, ma offre delle modalità molto superiori per farlo.
La “natura umana” è altamente flessibile. Il nostro comportamento è il prodotto dell’interazione
tra il nostro patrimonio biologico ereditario e le esperienze apprese dalla particolare cultura nella
quale ci è dato di vivere. Per esempio, abbiamo la capacità biologica di parlare, ma quale lingua par-
liamo e come la parliamo, dipende dall’ambiente. Quasi tutti gli psicologi moderni concordano sul
fatto che gli esseri umani non hanno alcun “istinto”. Un istinto è un modello di comportamento
complesso geneticamente determinato, quale la costruzione di un nido degli uccelli o di un termitaio.
Tutti gli istinti di cui eravamo dotati sono andati perduti nel corso dell’evoluzione. Per qualcuno
l’idea che non possediamo istinti è difficilmente accettabile perché sembra andare contro il “senso
comune”. Una delle ragioni di questa difficoltà è che la parola “istinto” viene spesso usata impro-
priamente nei discorsi comuni. La gente dice che una persona schiaccia il freno “istintivamente”, o
che “istintivamente” diffida di qualcuno, mentre in effetti quest’azione e quest’atteggiamento ven-
gono appresi culturalmente. É vero che abbiamo alcuni tipi di comportamento geneticamente deter-
minati, ma si tratta di riflessi semplici, quali il trasalire di fronte ad un rumore inatteso, sollevare le
braccia quando perdiamo l’equilibrio, tirare indietro la mano quando essa tocca una superficie che
scotta. Abbiamo anche alcune pulsioni fondamentali innate, come i bisogni di autoconservazione, di
mangiare, di bere, di avere la compagnia di altre persone. Ma il modo in cui soddisfiamo queste pul-
sioni viene appreso attraverso l’esperienza culturale.
Naturalmente la grande maggioranza delle persone impara a soddisfare le proprie pulsioni secondo
le modalità dettate dalla propria cultura; non siamo programmati a soddisfarle in un modo particola-
re, altrimenti lo faremmo tutti nella stessa, rigorosamente identica, maniera. Invece, a differenza del-
le altre specie, possiamo addirittura annullare completamente le nostre pulsioni, ignorando talvolta
anche il bisogno di autoconservazione. Entro certi limiti, la “natura umana” è ciò che facciamo di es-
sa, e ciò che facciamo di essa dipende largamente dalla cultura nella quale ci è dato di vivere.
Il controllo sociale
Ogni cultura ha dei modelli di comportamento sociale controllati da norme, cioè da regole o diretti-
ve condivise che prescrivono i comportamenti appropriati nelle varie situazioni; le norme di una so-
cietà non fanno che esprimere i suoi valori, cioè le idee condivise su ciò che è buono, giusto, deside-
rabile (cfr. norme, valori). Ogni cultura deve anche avere un sistema di controllo sociale, cioè un in-
sieme di strumenti atti a garantire che i suoi membri si comportino abilualmente secondo le modalità
attese e approvate. Una parte di questo controllo sociale sull’individuo viene esercitata dagli altri,
sia in modo formale, attraverso la polizia e i pubblici ufficiali, sia in modo informale, attraverso le
reazioni delle altre persone nel corso della vita quotidiana. Tutte le norme, siano esse codificate in
leggi oppure no, vengono sostenute da sanzioni, cioè da ricompense quando le persone vi si confor-
mano e da punizioni quando non lo fanno. Le sanzioni positive possono andare da un cenno del ca-
po a una cerimonia di premiazione; le sanzioni negative possono andare da blande disapprovazioni
alle più rigide pene carcerarie. Solo una frazione trascurabile del comportamento sociale viene con-
trollato dalle agenzie formali, mentre gran parte delle sanzioni viene applicata in modo informale
(sorrisi, occhiatacce, commenti, alzate di sopracciglia, ecc). Tuttavia la maggior parte del controllo
sociale non viene esercitata attraverso l’influenza diretta degli altri, ma da noi stessi, nel nostro in-
timo. Durante il processo della nostra crescita nella società, interiorizziamo inconsapevolmente le
norme della cultura, rendendo conforme ad esse una parte della nostra personalità e seguendo le
aspettative sociali senza fare domande.
Le variazioni culturali
La cultura di ogni società è unica, comprende delle combinazioni di norme e valori che raramente si
ritrova in altri luoghi. I francesi mangiano le chiocciole, ma non le locuste. Gli zulu mangiano le locu-
ste, ma non il pesce, Gli ebrei mangiano il pesce, ma non il maiale. Gli indù mangiano il maiale, ma
non il manzo. I russi mangiano il manzo, ma non i serpenti. I cinesi mangiano i serpenti, ma non gli
esseri umani. Gli jalé della Nuova Guinea trovano deliziosa la carne umana. Mentre le nostre norme
danno valore alla castità prematrimoniale, le norme dei Mentawei indonesiani impongono che una
donna sia incinta per potersi candidare al matrimonio, le norme dei Keraki della Nuova Guinea esi-
gono che ogni uomo pratiche l’omosessualità prima del matrimonio.
La gamma delle variazioni culturali è talmente ampia che probabilmente non esiste nessuna norma
specifica che compaia in ogni società. Come spiegare queste variazioni?
L’approccio funzionalista
Un modo per analizzare le componenti della cultura è quello di osservare le funzioni che esse
adempiono nel mantenere l’ordine sociale complessivo. I teorici del funzionalismo considerano la
società e la cultura come un sistema di parti interdipendenti. Sostengono che nessun elemento cultu-
rale può essere compreso se isolato dall’insieme della società e della cultura. Quindi per spiegare un
tratto culturale particolare si deve stabilire quali funzioni svolge per l’intero sistema. L’approccio
funzionalista è stato impiegato per molto tempo negli studi delle altre culture (Malinowski, 1926,
Radcliffe-Brown, 1935, 1952, Parsons, 1951, Merton, 1968).
Nelle società tradizionali eschimesi l’ospitalità verso i viaggiatori aveva un grande valore. L’ospitante
era obbligato a fare qualsiasi cosa per mettere a suo agio il viaggiatore, anche se personalmente lo trova-
va sgradevole. C’era perfino una norma che imponeva all’ospitante di offrire sua moglie all’ospite per
la notte. Questo tratto culturale dell’ospitalità obbligatoria, quasi del tutto sconosciuto nelle società ur-
bane industrializzate, era fortemente funzionale nella cultura eschimese, (che peraltro ha sempre prati-
cato una grande libertà in campo sessuale: poligamia, poliandria, scambio delle mogli). Viaggiare attra-
verso le nevi e la tormenta dell’Artico sarebbe stato impossibile se il viaggiatore non avesse potuto con-
tare sulla certezza del cibo, del calore e di tutto il resto nell’insediamento più vicino e se a sua volta
l’ospitante non avesse potuto aspettarsi la stessa cosa mettendosi in viaggio. In assenza di questa norma
le comunicazioni e gli scambi fra i vari gruppi sarebbero stati troppo rischiosi e non sarebbero avvenuti.
Una norma simile non esiste oggi nei paesi occidentali ( e risulta anacronistica anche presso gran parte
della popolazione eschimese, o inuit, ormai molto più stanziale e integrata con la civiltà americana e
canadese). Per adempiere alla stessa funzione, esistono altri mezzi, come ristoranti e motel.
La teoria funzionalista può aiutarci a comprendere perchè un particolare tratto culturale è presente
in una società e non in altre. Tuttavia essa presenta talora l’inconveniente di concentrare l’attenzio-
ne sul modo in cui le cose “quadrano” in un momento particolare della storia culturale, trascurando il
processo del cambiamento culturale.
L’approccio ecologico
Alcuni antropologi che studiano le altre culture (ad es. Harris, 1975, Bennett, 1976, Hardesty,
1977) cercano di spiegare gran parte delle variazioni esistenti tra le culture umane partendo da un
approccio ecologico, cioè analizzando gli elementi culturali nel contesto dell’ambiente sociale com-
plessivo nel quale la società è inserita. La cultura è un mezzo di adattamento all’ambiente, di conse-
guenza le pratiche culturali delle persone sono necessariamente connesse alle limitazioni poste dal-
l’ambiente in cui vivono e alle possibilità che esso offre.
La cultura dei beduini ci offre un esempio evidente di questo tipo di adattamento, dato che il duro am-
biente del deserto pone dei severi limiti alle loro scelte culturali. La regione in cui vivono i beduini è tal-
mente arida che è impossibile coltivarla. Di conseguenza essi non possono formare degli insediamenti
permanenti, né vivere in case. Sono nomadi che passano gran parte dell’anno vagando da un’oasi all’al-
tra, costretti a spostarsi ogni volta che le fonti si prosciugano. Il loro rifugio non può che essere la ten-
da, l’unica forma di alloggiamento che può essere trasportata agevolmente. Possiedono mandrie di cam-
melli, non maiali né alci, perché i cammelli sono gli unici animali che possono resistere a lungo senza
bere. I beni materiali che possiedono non sono né numerosi, né grandi, né pesanti, perché devono essere
regolarmente imballati, spostati per decine e centinaia di chilometri, quindi ancora disimballati. I beduini
hanno sviluppato precise norme per la conservazione dell’acqua e, a differenza degli occidentali, non si
scandalizzano affatto se la gente non si lava per giorni e settimane. Attribuiscono un grande valore alla
capacità di viaggiare per lunghissimi tratti di deserto sempre uguale, quasi privo di segni. Nella loro reli-
gione si immaginano il paradiso come un luogo frescheggiante di ombra, ricco di ridenti fontane, dove
abbondano frutti freschi: le cose di cui essi mancano a questo mondo. Insomma: quasi tutti gli elementi
importanti della loro cultura possono essere ricondotti all’influenza dell’ambiente in cui vivono (Vidal,
1976).
Il rapporto delle diverse pratiche culturali con l’ambiente complessivo non è sempre evidente; tut-
tavia l’approccio ecologico è stato impiegato per spiegare polte pratiche altrimenti indecifrabili.
Marvin Harris (1974), ad esempio, applica questo tipo di approccio per spiegare la venerazione, appa-
rentemente irrazionale, che gli Indù hanno per le vacche. Gli occidentali sono portati a considerare gli
oltre conto milioni di vacche che vagano liberamente per le campagne e (ormai molto meno) nelle città
indiane, mettendo in difficoltà il traffico e sporcando, come “inutili”. Invece Harris sostiene che le vac-
che sono di importana vitale per l’economia indiana. Gran parte della popolazione vive in piccoli pode-
ri che richiedono almeno un paio di buoi per l’aratura. Queste famiglie contadine vivono sull’orlo del-
l’inedia e non possono permettersi dei trattori, devono usare i buoi e questi, ovviamente, vengono par-
toriti dalle vacche. Se le vacche venissero abbattute su larga scala si recherebbe un peggioramento alla
già critica carenza di animali da tiro, si renderebbero improduttive le piccole aziende agricole, si spinge-
rebbero almeno 150 milioni di persone verso città fortemente sovraffollate. Inoltre in India le vacche
producono ogni anno circa 700 milioni di tonnellate di letame, la metà delle quali vengono utilizzate
come fertilizzanti dai contadini che non potrebbero permettersi dei sostututi chimici. La parte restante
viene usata come combustibile per cucinare, una risorsa vitale in un paese che scarseggia di petrolio e di
carbone e soffre di un’acuta carenza di legname. Quando poi le vacche muoiono vengono mangiate dai
paria, che sono anche più poveri e più affamati del resto della popolazione. La pelle e il cuoio degli ani-
mali vengono utilizzati dall’industria del pellame, in India molto sviluppata. Del resto le vacche non
sottraggono cibo all’alimentazione umana perché si nutrono di rifiuti. Insomma: la vacca sacra è un ele-
mento importante dell’intera ecologia dell’India.
Naturalmente società diverse possono adottare soluzioni diverse di fronte ad esigenze funzionali o
a problemi ecologici simili. Molte sono le società che devono affrontare il problema di un ambiente
che non offre cibo sufficiente a mantenere una popolazione che cresce.
Gli eschimesi risolvevano il problema con l’esposizione alla neve e al gelo di una parte dei neonati di
sesso femminile e di molti anziani divenuti improduttivi. Gli Yanamamö del Brasile esercitavano il con-
trollo della popolazione uccidendo o facendo morire di fame i neonati di sesso femminile o praticando
incessanti e snaguinosi combattimenti tra i maschi. I Keraki della Nuova Guinea limitavano la crescita
della popolazione imponendo ai maschi di avere relazioni esclusivamente omosessuali per parecchi anni
dopo la pubertà.
Non tutti gli elementi culturali si possono spiegare agevolmente in termini funzionalisti o ecologici.
Alcune pratiche si possono diffondere da una cultura all’altra in seguito ad invasioni, migrazioni o
commerci; questi elementi estranei vengono adottati se, a lungo andare, non si rivelano disfunzionali
o controproducenti dal punto di vista ecologico. Gli elementi culturali possono perdurare per decen-
ni o o per secoli anche quando sono venute meno le condizioni che li hanno prodotti. La cultura ten-
de sempre ad essere conservatrice: le tradizioni vengono seguite anche molto tempo dopo che le loro
origini sono state dimenticate e le esigenze a cui corrispondevano sono venute meno.
In tutta questa varietà di pratiche che si riscontra in ogni cultura, esistono degli “universali cultura-
li”, cioé dei tratti e delle pratiche riscontrabili in tutte le culture conosciute? La risposta è che esiste
un numero piuttosto grande di universali culturali generali, ma che non sembra ne esistano di speci-
fici. Per esempio, ogni cultura ha delle norme che proibiscono l’assassinio, ma le diverse culture han-
no idee differenti su quali omicidi configurano un assassinio e quali no: si pensi ai sacrifici umani ed
agli omicidi rituali presenti non solo nelle società antiche, o ai bombardamenti sistematici sui civili
(spesso mascherati come “bombe intelligenti”).
Gli universali culturali derivano dai problemi comuni che l’ambiente pone alla nostra specie: il cli-
ma troppo caldo o troppo freddo, le cure o le attenzioni che vanno destinate ai bambini, o ai malati,
ecc. L’antropologo George Murdock (1945) ha compilato un lungo elenco di caratteristiche generali
che sono state riscontrate in tutte le culture e che comprendono: gli sport atletici, gli ornamenti del
corpo, l’arte culinaria, il lavoro in comune, il corteggiamento, la danza, l’interpretazione dei sogni, la
famiglia, i festeggiamenti, il folklore, i tabù alimentari, le cerimonie funebri, i giochi, le donazioni, i
tabù dell’incesto, le leggi, la medicina, la musica, i miti, i numeri, i nomi propri, il diritto di proprie-
tà, la religione, le restrizioni sessuali, la costruzione di strumenti e i tentativi di controllare gli agenti
atmosferici. Ma queste sono soltanto delle categorie generali il cui contenuto specifico varia da una
cultura all’altra.
L’etnocentrismo
Le culture sono diverse l’una dall’altra, e gli esseri umani passano tutta la vita all’interno della cul-
tura nella quale sono nati. Non conoscendo altri modi di vita, considerano le proprie norme e i pro-
pri valori una necessità e non una possibilità. Per questo motivo gli individui di ogni società sono af-
fetti da una certa misura di etnocentrismo, cioè dalla tendenza a giudicare le altre culture secondo i
criteri specifici della propria. Le persone sono pronte a dare per scontato che la loro moralità, il loro
tipo di vestiario, ecc. sono giusti e naturali, i migliori possibili.
Qualche esempio di modo di vedere etnocentrico: noi copriamo le parti intime perché siamo dignitosi
e civilizzati, in altre società vanno in giro nudi perché sono ignoranti e privi di pudore; le donne occi-
dentali portano gli orecchini e usano i cosmetici per accrescere la loro bellezza, le donne di altre società
si mettono degli ossicini nel naso e si tatuano il volto perché non riescono a capire quanto ciò le renda
brutte; le nostre pratiche sessuali sono morali e decenti, quelle degli altri sono primitive e perverse, ecc.
L’etnocentrismo è particolarmente forte nelle società isolate, che hanno scarsi contatti con altre
culture. Ma anche nelle società industriali moderne simili atteggiamenti prevalgono ancora. Una ra-
gione della persistenza dell’etnocentrismo sta nel fatto che è quasi impossibile avere una concezione
obiettiva della propria cultura; ma un’altra ragione è che l’etnocentrismo può risultare funzionale al-
la società. Rafforza la fiducia nella proprie tradizioni, scoraggia possibili penetrazioni da parte di
estranei assicurando in tal modo la solidarietà e l’unità del gruppo. Ma in determinate condizioni,
l’etnocentrismo può avere molti effetti indesiderabili: incoraggia il razzismo, può causare ostilità e
conflitti tra gruppi, può far sì che le persone si oppongano al bisogno di cambiamento della loro cul-
tura.
Il relativismo culturale
La capacità di raggiungere una piena comprensione di una cultura diversa dipende fortemente dalla
misura in cui lo studioso è disponibile ad essumere una posizione di relativismo culturale, cioè a ri-
conoscere che una cultura non può essere giudicata arbitrariamente secondo i criteri di un’altra.
Probabilmente non è possibile liberarsi del tutto da preconcetti e distorsioni a favore della propria
cultura. Per quanto serio sia il nostro impegno, è probabile che il segreto sentimento della superiori-
tà dei nostri criteri - che ci spinge a considerare i nostri giudizi su ciò che è bene e ciò che è male co-
me gli unici ” veri” criteri universali - persista.
D’altra parte, riconoscere il relativismo culturale come criterio procedurale proprio dello studioso
delle varie culture non significa astenersi da ogni giudizio sulle pratiche di un’altra società: non signi-
fica di certo considerare accettabili, solo perchè inserite in una cornice culturale “omogenea”, le più
retrive forme di violenza o di discriminazione, lo sterminio di massa o il genocidio. Ciò che il relati-
vismo culturale comporta è che le pratiche di un’altra società possono essere comprese pienamente
soltanto nei termini delle loro norme e dei loro valori. Per conseguire l’obiettivo pratico di compren-
dere il comportamento umano è di importanza vitale che l’osservatore cerchi di rimuovere quanto
più è possibile i paraocchi della propria cultura.
L’integrazione culturale
Le abilità, i costumi, i valori, le credenze, le pratiche e le altre caratteristiche di una cultura tendono
a completarsi le une con le altre, cioè ad integrarsi in un insieme complesso. Per poter sopravvivere,
una cultura deve essere integrata in misura considerevole, anche se in effetti alcune culture sono più
integrate di altre.
Generalmente nelle società tradizionali, preindustriali, la cultura è fortemente integrata. Queste so-
cietà tendono ad essere relativamente piccole e i loro componenti tendono a condivididere gli stessi
valori, la loro cultura è omogenea e spesso il tasso di cambiamento culturale è molto lento.
Nelle società industriali moderne, d’altro canto, i vari elementi non sono ben integrati. Le società
industriali sono per lo più di grandi dimensioni e comprendono gruppi che hanno modi di vita diffe-
renti. La loro cultura è relativamente eterogenea e spesso esistono notevoli divergenze di valori. Il
cambiamento sociale e culturale avviene rapidamente e in modo irregolare.
Subculture e controculture
In una cultura, una seconda fonte di tensioni deriva dall’esistenza di gruppi che non partecipano
pienamente alla cultura dominante della società. Questi gruppi si riscontrano con più frequenza nelle
grandi ed eterogenee società industriali, nelle quali esistono numerose differenze culturali tra i mem-
bri delle diverse comunità regionali, religiose, occupazionali o di altro tipo.
Subculture
Una subcultura è una parte della cultura generale della società, ma possiede dei valori, delle norme e
degli stili di vita distinti. In quasi tutte le società industriali di grandi dimensioni esistono, per esem-
pio, subculture dei giovani, dei ricchi, dei poveri, dei vari gruppi etnici e razziali e delle diverse re-
gioni. Subculture di dimensioni più limitate si riscontrano tra i militari, nelle prigioni, nelle universi-
tà, tra i consumatori di droga, tra le gang dei ragazzi di strada. Le persone che appartengono a cia-
scuna di queste subculture tendono ad assumere atteggiamenti etnocentrici rispetto alle altre subcul-
ture perché l’appartenenza a una subcultura influisce sull’immagine che un individuo ha della realtà.
Se le differenze tra le subculture sono abbastanza grandi, può insorgere un conflitto di valori, cioè
un dissenso profondo che riguarda i fini e gli ideali. É necessario che i sociologi assumano una posi-
zione di relativismo culturale tanto nei confronti delle subculture quanto nei confronti delle altre
culture.
Controculture
Una controcultura è una subcultura che si trova in disaccordo radicale rispetto alla cultura domi-
nante, respinge consapevolmente alcune delle norme sociali più importanti e di solito ne è fiera.
Il movimento giovanile degli anni sessanta è un buon esempio di controcultura moderna. Sia l’ala
hippie, sia quella politica “militante” hanno sfidato tutta una serie di norme e di valori custoditi ge-
losamente dagli americani, compresi quelli centrati sul successo, sull’impegno lavorativo, sul com-
fort materiale, sulla razionalità scientifica, sulla superiorità dei bianchi e sulle restrizioni sessuali
(Roszak, La nascita di una controcultura, 1969).
Come hanno mostrato le rivolte degli anni Sessanta, un’ampia controcultura genera inevitabilmente
tensioni e conflitti di valori nella società. In quel caso specifico una certa misura di integrazione cul-
turale alla fine fu raggiunta in parte perché alcuni valori della controcultura furono incorporati (come
spesso accade alle varie forme di “movimento sociale”, cfr.) dalla cultura dominante.
Il linguaggio è la chiave di volta della cultura. Il linguaggio ci permette di dare un significato al mon-
do, attraverso di esso veniamo introdotti all’esperienza collettiva della nostra società: quasi tutto ciò
che apprendiamo nella cultura umana lo apprendiamo infatti attraverso il linguaggio nel corso del-
l’interazione sociale con gli altri.
Per molti secoli si è creduto che tutti i linguaggi riflettessero la realtà fondamentalmente nello stesso
modo e che le parole e i concetti potessero essere trasferiti liberamente ed esattamente da un lin-
guaggio all’altro. Ma nel corso del novecento, studi effettuati su migliaia di lingue del mondo hanno
rivelato che esse interpretano gli stessi fenomeni in modi assai diversi, e numerosi autori hanno so-
stenuto che i linguaggi, più che rispecchiare la realtà, la strutturano.
L’ipotesi della relatività linguistica sostiene che chi parla una determinata lingua deve necessaria-
mente interpretare il mondo attraverso le specifiche forme e categorie grammaticali che la sua lingua
gli offre. Questa ipotesi è stata proposta con vigore da due linguisti americani, Edward Sapir e il
suo discepolo Benjamin Whorf, e talvolta è nota come ipotesi Sapir-Whorf.
Sapir (1929) ha sostenuto che “ i mondi in cui vivono le diverse società sono dei mondi distinti,
non semplicemente lo stesso mondo etichettato in modi diversi”. Secondo quali modalità i linguaggi
“spezzettano” e organizzano variamente il mondo? Le differenze più comuni si trovano nel vocabo-
lario: alcuni linguaggi hanno parole per designare oggetti e concetti che altri linguaggi non hanno.
Gli Atzechi avevano una sola parola per indicare la neve, la brina, il ghiaccio e il freddo, e probabil-
mente tendevano a considerare tutte queste cose come se in fondo fossero lo stesso fenomeno. Noi ab-
biamo una sola parola per indicare la neve, gli eschimesi non hanno nessuna parola che significa neve in
generale, ma ne hanno più di venti per i diversi tipi di neve: per indicare la neve sul suolo, la neve che
cade, la tormenta di neve, ecc. Il loro linguaggio li spinge a percepire queste distinzioni, mentre il nostro
ci predispone ad ignorarle. I Koya dell’India meridionale non fanno distinzioni tra neve, nebbia e rugia-
da, ma il loro linguaggio li spinge a distinguere sette tipi di bambù, distinzioni importanti per loro, ma
che poi difficilmente noteremmo.
Benché l’occhio umano sia in grado di operare un numero elevatissimo di discriminazioni cromatiche,
le lingue del mondo riconoscono soltanto un piccolo numero di colori diversi. Quasi tutte le lingue euro-
pee riconoscono il nero, il bianco e sei colori fondamentali: il rosso, l’arancio, il giallo, il verde, il blu e
il viola. Però molti linguaggi riconoscono solo due colori: gli Jalé della Nuova Guinea, ad esempio, sud-
dividono lo spettro cromatico nei colori hui e ziza, che rappresentano rispettivamente i colori caldi e
freddi dello spettro. Altre culture (quella Toda indiana, quella Baganda ugandese) riconoscono soltanto
tre colori. Tutte queste genti vedono lo stesso spettro cromatico, ma lo suddividono in modi diversi.
Altre distinzioni si riscontrano negli usi grammaticali dei diversi linguaggi. Molte lingue, europee e non
europee, impongono a colui che parla di indicare la condizione sociale sue e quella dell’interlocutore.
Così in italiano, in francese, in tedesco si usa la forma tu (o Du) per rivolgersi a persone di rango ugua-
le o inferiore, mentre la forma lei (o vous o Sie) sta a indicare una relazione improntata a formalità e
deferenza.
Il linguaggio degli indiani Navajo non possiede nessun equivalente dei nostri verbi attivi; nel pensiero
dei Navajo le persone, più che agire, partecipano passivamente alle azioni che si svolgono. Ancora più
sorprendente è per noi il linguaggio degli indiani Hopi, che non riconosce le categorie del tempo e dello
spazio. Il linguaggio hopi non possiede l’equivalente dei tempi presente, passato e futuro, ma organizza
l’universo secondo le categorie di “manifesto” (tutto ciò che è o è stato percepibile mediante i sensi) e
“che manifesta” (tutto ciò che non è fisicamente percepibile). Se è difficile comprendere questo concet-
to, è perché il nostro linguaggio è scarsamente attrezzato ad esprimerlo.
L’ipotesi della relatività linguistica non sostiene che coloro che parlano dei linguaggi diversi sono in-
capaci di esprimere le stesse idee o di vedere il mondo nello stesso modo. Tutti gli esseri umani nor-
mali sono biologicamente capaci di avere percezioni e modi di ragionare simili (Lévi-Strauss, 1962).
Ciò che l’ipotesi sostiene è che il linguaggio ci predispone a dare delle particolari interpretazioni del-
la realtà. Il linguaggio e la cultura si trovano in una costante interazione: la cultura influenza la strut-
tura e l’uso del linguaggio, mentre il linguaggio influenza le interpretazioni culturali della realtà.
Il cambiamento culturale
Nessuna cultura è statica. Ma, per quanto tutte le culture cambino, i modi e i tempi del cambia-
mento differiscono. Nella maggior parte dei casi il cambiamento culturale è piuttosto lento: la cultura
tende ad essere intrinsecamente conservatrice, in special modo per ciò che riguarda gli aspetti non
materiali, perché le persone sono riluttanti a disfarsi dei valori e dei costumi acquisiti.
Quando in un settore di una cultura avvengono dei cambiamenti, prima o poi altri se ne verificano
in altri settori. Alcuni dei cambiamenti più importanti riguardano l’attività economica, la quale è tal-
mente fondaentale per la vita umana che tutti gli altri elementi culturali devono adattarsi ad essa.
I processi che portano al cambiamento culturale sono tre: la scoperta, l’invenzione e la diffusione.
La scoperta è la percezione di qualcosa che già esiste (ad es. la struttura sociale di una colonia di ter-
miti, le proprietà allucinogene del peyote, le funzioni del cuore, le norme di parentela di una socie-
tà). L’invenzione è la combinazione o l’uso innovativo di conoscenze esistenti per produrre qualco-
sa che non esisteva (ad es. la bussola, il telefono, la musica rock). Tutte le invenzioni si basano su
precedenti scoperte o invenzioni. La diffusione è il propagarsi di elementi culturali da una cultura
all’altra.
Le invenzioni, le scoperte e la diffusione dei tratti culturali entrano a far parte di una cultura sol-
tanto se vengono accolte dalla società in questione e condivise dai suoi membri. Le persone fanno
prima a riconoscere l’utilità dei nuovi prodotti materiali che ad accettare nuove norme e valori.
CULTURA
socievolezza intelligenza
mani dotate di sensibilità (opposizione pollice-indice)
specie umana vocalità stazione eretta
primati di rango elevato capacità di riproduzione continuata
(8-14 milioni di anni fa) lungo periodo di dipendenza (svezzamento)
relatività linguistica
ipotesi della relatività linguistica chi parla una lingua interpreta il mondo attraverso le forme
Edward Sapir / Benjamin Whorf e le categorie grammaticali che la sua lingua gli offre
la lingua ci predispone a dare particolari interpretazioni della realtà
Antropologia significa letteralmente «studio dell’uomo» (dal greco anthropos [uomo] + logos
[discorso razionale, studio]. Capita di incontrare il termine «antropologia» accompagnato da ag-
gettivi diversi come fisica, sociale, culturale. In alcuni casi indicano specializzazioni della disci-
plina, in altri invece si tratta di tradizioni di studio legate a paesi diversi.
L’antropologia fisica è una disciplina scientifica che studia l’uomo dal punto di vista della sua
struttura biologica. Infatti si occupa dei meccanismi dell’evoluzione biologica, dell’ereditarietà ge-
netica, dell’adattamento fisico degli esseri umani e dei resti fossili di tale evoluzione; il suo scopo è
dunque lo studio dell’uomo e della sua storia naturale con i relativi aspetti biologici e naturalistici.
Verso la fine dell’Ottocento in Gran Bretagna nasce e si sviluppa la cosiddetta «antropologia so-
ciale» (social anthropology). Si tratta di una disciplina di carattere sociale, che pone al centro della
sua attenzione le relazioni tra gli individui e le strutture sociali a cui danno vita; vengono analizzati
i sistemi di parentela, i modelli politici e giuridici tradizionali, nonché gli aspetti economici delle
popolazioni studiate. Poco più tardi negli Stati Uniti nasce con Franz Boas una scuola di pensiero
definita antropologia culturale (cultural anthropology) che cerca di mettere in risalto l’aspetto
simbolico e cognitivo delle società umane, dedicandosi più allo studio dei processi di apprendimen-
to e di costruzione delle culture, che alle strutture sociali.
Nel lavoro antropologico è possibile individuare diverse fasi: l’etnografia rappresenta la tappa del-
la raccolta dei dati, l’etnologia quella delle prime sintesi, mentre l’antropologia propriamente detta
costituisce la fase delle generalizzazioni teoriche basate sulla comparazione. L’etnografia corri-
sponde ad un lavoro descrittivo basato sull’osservazione e sulla scrittura, che comporta la raccolta
di dati e documenti, di registrazione dei fatti umani giudicati pertinenti per la comprensione di una
cultura. Risultato di questo lavoro sono le monografie riguardanti i diversi aspetti di una società.
L’etnologia, nell’elaborare i materiali forniti dall’etnografia, mira a un livello di sintesi reso possi-
bile dall’analisi comparativa. Si parla di etnografia di un villaggio, ma di etnologia dei paesi medi-
terranei, intendendo con ciò un insieme cospicuo di lavori. L’antropologia – sociale e/o culturale -
persegue un grado di generalizzazione ancora più elevato.
In realtà l’antropologia culturale non studia l’uomo, ma gli uomini e le loro reciproche relazioni.
Non è l’individuo a interessare l’antropologo culturale, quanto il suo essere parte di un insieme di
individui con cui intrattiene relazioni di vario genere: affettive, parentali, sessuali, di vicinato, com-
merciali, politiche. Sono queste relazioni e quelle che gli individui instaurano con il loro ambiente,
a prendere il nome di «cultura». Non esiste una sola cultura, ma tante culture; infatti diversi sono i
comportamenti, le usanze, le lingue, le forme di pensiero che caratterizzano la vita di ogni gruppo
umano. Ci si è interrogati sul perché gli esseri umani abbiano trovato soluzioni diverse a problemi
di sopravvivenza simili. La risposta può sembrare paradossale: perché così come siamo, non funzio-
niamo. L’uomo, a differenza degli altri esseri viventi, non è specializzato, è un essere incompleto.
Secondo Pico della Mirandola (1463-1494), l’uomo non avrebbe una natura determinata, ma inde-
finita, e proprio questa sua indefinitezza sarebbe la sua caratteristica principale, ciò che lo contrad-
distingue dagli altri esseri viventi del pianeta. Per questa sua peculiarità l’uomo deve costruire il suo
destino con le sue stesse mani. Questa lettura della nascita dell’uomo contiene una verità fondamen-
tale, che ha segnato la storia dell’umanità fin dall’inizio: gli esseri umani sono esseri incompleti.
Un qualsiasi cucciolo di animale nasce già dotato di tutto ciò che gli serve per sopravvivere nel-
l’ambiente proprio della sua specie: un pesce nasce provvisto di branchie, pinne e squame per nuo-
tare, un uccello avrà ali, piume e ossa cave adatte al volo, un carnivoro è fornito fin dalla nascita di
zanne aguzze e affilate, mandibole potenti e una certa velocità nella corsa, un erbivoro, oltre ad ave-
re uno stomaco adatto a digerire la cellulosa contenuta nell’erba, se vive nella savana, dovrà avere
per salvarsi una velocità leggermente superiore a quella del carnivoro, e così via.
Consideriamo invece l’esperienza che tutti noi abbiamo vissuto in prima persona di cuccioli del-
l’uomo: non sappiamo nuotare e, anche dopo aver imparato, non siamo rapidissimi; se si eccettuano
pochi velocisti olimpici, non siamo dei grandi corridori; non voliamo; se fa freddo dobbiamo coprir-
ci con degli abiti; se fa caldo dobbiamo ripararci dal sole per non soffrire troppo. Senza contare che,
dopo pochi giorni o al massimo poche settimane, qualsiasi cucciolo animale è in grado di muoversi
autonomamente e conosce tutto ciò che gli serve per sopravvivere, mentre noi impieghiamo più di
un anno per muovere i primi passi, rimaniamo anni sotto la tutela dei genitori, per apprendere ciò
che ci serve occorrono decenni e non sempre ci riusciamo del tutto.
È stata però proprio l’incompletezza a sviluppare la capacità di adattamento del genere umano. Il
vuoto lasciatoci dalla natura deve essere riempito con quella serie di esperienze che chiamiamo cul-
ture. In campo antropologico il termine «cultura» si riferisce proprio all’insieme di saperi e prati-
che che permettono ai diversi gruppi umani di sopravvivere in ambienti differenti.
Negli spostamenti che hanno caratterizzato la storia, gli uomini si sono trovati di fronte ad ambien-
ti diversi, hanno dovuto risolvere problemi nuovi e lo hanno fatto dando risposte diverse: ecco per-
ché il panorama culturale del pianeta è variegato. L’antropologo cerca di individuare delle regole
nell’insieme di pratiche che un gruppo umano mette in atto, partendo dall’osservazione particolare
per giungere a una comprensione globale.
Nessuno vive dunque in una bolla priva di cultura. Tuttavia le culture non sono «gabbie»; sono
piuttosto dei recinti aperti, da cui si può uscire e rientrare, così come possono entrarvi altre persone,
apportando nuovi elementi. Poiché la storia umana è fatta di incontri, nessuna cultura è dunque «pu-
ra». Le culture sono «cantieri» sempre aperti, nei quali si svolge una continua attività di montaggio,
smontaggio, innovazione, partendo da materiali «nostri» o provenienti da altre culture, adeguata-
mente adattati.
«Cultura» o «società» sono concetti astratti, creati dagli studiosi per visualizzare meglio le azioni
umane, classificarle e compararle. La comparazione, infatti, è uno degli aspetti centrali della ricerca
antropologica, perché evidenzia tratti comuni a popoli diversi. Poiché studia le differenze tra società
e culture, l’antropologia si assegna il compito di pensare l’altro. L’alterità è stata via via concepita
come storica – l’altro era il primitivo – o come geografica – l’altro era il non europeo – ed è stata
schematizzata avvalendosi di stereotipi e immagini caricaturali: il dispotismo orientale, l’irraziona-
lità africana, la selvatichezza indiana. Nel corso del XX secolo, tuttavia, i termini positivo e negati-
vo di questi pregiudizi si sono talvolta invertiti: la libertà, l’eguaglianza, la fratellanza sono apparse
appannaggio del “buon selvaggio”, in confronto alla nostra società competitiva e segnata dalla disu-
guaglianza. Tali pregiudizi sono stati comunque entrambi smentiti – o attenuati – dagli studi compa-
rativi approfonditi. Quando parliamo dell’ ‘altro’ non intendiamo necessariamente evocare scenari
lontani. Nel momento in cui l’antropologo moderno si applica allo studio di un villaggio rurale della
Bretagna, di una comunità di emarginati, di una bidonville o di un quartiere asiatico di Parigi, la di-
stanza non è tanto geografica, quanto sociale e cognitiva. Portare lo sguardo sull’altro significa in
definitiva intrecciare delle relazioni, e ciò conduce sia ad una migliore conoscenza di se stessi sia,
grazie al confronto, ad una migliore conoscenza della nostra cultura.
Oggi l’antropologia non è più solo uno sguardo dell’Occidente sugli altri, sia perché antropologi
che provengono dalle realtà in passato oggetto di studio rivolgono lo sguardo verso di noi, sia per-
ché spesso l’antropologia si occupa di eventi culturali vicini.
L’antropologia si fonda sulla ricerca sul campo, cioè sulle prolungate relazioni tra osservatore e
osservati. L’antropologo deve però posizionarsi in un certo punto di osservazione e distaccarsi dalla
realtà che osserva: in questo consiste lo «sguardo da lontano» che caratterizza l’antropologia e che
comporta un riposizionamento dell’osservatore in una sorta di terra di nessuno, in una realtà che
non è il suo mondo e neppure quello degli altri, ma il mondo tra noi e gli altri.
Una ricerca antropologica generalmente è strutturata in tre fasi: descrizione, analisi, interpretazio-
ne. Nessuna delle tre è del tutto neutra, perché è influenzata dalla personalità del ricercatore e dal
punto di osservazione. Non esiste perciò una realtà oggettiva.
In epoche e aree del mondo diverse si sono sviluppate correnti di pensiero antropologico, che nella
maggior parte dei casi hanno convissuto e convivono tuttora.
Antropologia
uomini nelle loro reciproche relazioni => «cultura» = > pluralità di culture
uomo come “essere incompleto” (non specializzato) Pico della Mirandola (1463-1494)
descrizione
ricerca sul campo analisi
interpretazione
La storia dell’antropologia moderna
L’antropologia moderna nasce alla fine dell’800 in Gran Bretagna. Tra i pionieri ci furono Edward
Tylor (1832-1917), James Frazer (1854-1941) e Henry Lewis Morgan (1818-81), che diedero sta-
tuto di disciplina a pratiche fino a quel momento occasionali e non organizzate. La loro prospettiva
teorica, l’evoluzionismo sociale o unilineare, prevedeva una classificazione del genere umano sulla
base del grado di evoluzione raggiunto. Il limite dell’evoluzionismo sta nella visione etnocentrica,
secondo la quale al vertice della scala evolutiva sono collocati gli occidentali, mentre gli altri popoli
sono in attesa di civilizzarsi o essere civilizzati sul modello occidentale.
Nello stesso periodo nasce il diffusionismo, che puntava a identificare delle «aree culturali», al-
l’interno delle quali si riscontrassero tratti comuni. Disponendo cronologicamente queste aree, era
possibile individuare punti di irradiamento da cui si sarebbero diffusi elementi della cultura origi-
naria. Le proposte dei diffusionisti vennero riprese dalla «scuola tedesco-americana», che sposta
l’accento sui «tratti culturali», cioè su quegli elementi che potevano contribuire a determinare un
insieme culturalmente omogeneo, tenendo conto delle specificità storiche di ogni area.
Secondo Émile Durkheim (1858- 1917), fondatore della scuola sociologica francese, la cultura
umana è il prodotto di una coscienza collettiva, superorganica, superiore a quella di ogni singolo
individuo. A portare avanti le teorie di Durkheim fu Marcel Mauss (1872-1950), fondatore della
tradizione etnologica francese. Mauss teorizzò il fatto sociale totale, cioè un aspetto particolare di
una cultura, in relazione con tutti gli altri aspetti di quella stessa cultura.
Nei primi decenni del ‘900 Bronislaw Malinowski (1884-1942) e Reginald Radcliffe-Brown
(1881- 1955) diedero vita alla pratica dell’osservazione partecipante, che rivoluzionò la moderna
antropologia. La loro prospettiva, chiamata funzionalismo, vede la società come risultante del lavo-
ro delle sue diverse funzioni (economia, religione, struttura familiare ecc.). Sia Malinowski sia Rad-
cliffe-Brown si disinteressarono della dimensione storica delle società, che solo più tardi verrà riva-
lutata da Edward Evans-Pritchard (1902-73).
La scarsa attenzione alla storia suscitò le maggiori critiche nei confronti del funzionalismo. Negli
anni Cinquanta del Novecento queste critiche furono trasformate in una nuova prospettiva dagli an-
tropologi della Scuola di Manchester, Max Gluckman (1911-75), Victor Turner (1920-83) ed Ed-
mund Leach (1910- 89), i quali spostarono l’accento sulle dinamiche interne a ogni società, vista
non più come un organo statico, ma come prodotto di un continuo processo di trasformazione, ba-
sato sul conflitto, cioè sulla normale tensione che esiste tra varie componenti sociali.
Negli anni Quaranta e Cinquanta le teorie evoluzioniste vennero riprese da Julian Steward (1902-
72), Leslie White (1900-75), Elman Service (1915- 96) e successivamente da Marshall Sahlins
(1930-) in chiave multilineare. Secondo questi autori, esponenti del neoevoluzionismo, ogni socie-
tà passerebbe attraverso stadi diversi di complessità lungo linee di sviluppo multiple e talvolta pa-
rallele, senza necessariamente seguire un percorso unico.
In Francia Claude Lévi-Strauss (1908-2009) formulò la teoria antropologica chiamata struttura-
lismo. Tale corrente di pensiero, fortemente influenzata dalle teorie linguistiche e psicologiche, si
pone l’obiettivo di dimostrare, attraverso l’individuazione di categorie mentali comuni a tutti gli
uomini, che esiste un’unità psichica del genere umano: le diversità culturali sarebbero varianti di
temi costanti, insiti in essa.
Di scuola francese l’antropologia marxista, sviluppatasi negli anni Sessanta, si proponeva di indi-
viduare modi di produzione diversi da quello capitalista, per vedere come questi influenzavano le
società. Altro oggetto di studio furono i rapporti tra colonizzati e colonizzatori. In Italia tale cor-
rente si sviluppò grazie al pensiero di Antonio Gramsci (1891-1937).
Riprendendo il modello marxista dell’analisi sociale, basato sull’individuazione di tre livelli (strut-
tura, infrastruttura, sovrastruttura), Marvin Harris (1927-2001) propone una prospettiva, il materia-
lismo culturale, secondo cui l’infrastruttura determinerebbe la struttura, e questa, a sua volta, sareb-
be determinante per la sovrastruttura. Tale prospettiva ha molti punti in comune con l’ecologia cul-
turale, che si sofferma sul rapporto tra le popolazioni e l’ambiente in cui vivono, analizzandone
prevalentemente gli aspetti relativi all’adattamento e all’economia
Linee di storia dell’antropologia moderna
ecologia culturale
Julian Steward (1902-1972) rapporto popolazioni/ambiente - adattamento/economia
Metodi e campi d’indagine
1 L'osservazione partecipante
Con Bronislaw Malinowski (1884-1942) si afferma nella ricerca antropologica la pratica dell'osse-
vazione partecipante, che consiste nel recarsi presso la comunità che si intende studiare e soggior-
narvi a lungo, per raccogliere dati e per creare relazioni. Malinowski si era recato a Melbourne per
un convegno, quando in Europa scoppiò la prima guerra mondiale (1914). In quanto polacco, era
cittadino dell’Impero austro-ungarico, ma le autorità australiane invece di arrestarlo lo lasciarono
libero di compiere le sue ricerche in Melanesia. Questo esilio forzato gli offrì la possibilità di vivere
lunghi anni nei villaggi trobiandesi. Nasce cosi l'etnografia, l'annotazione scritta, o con il supporto
di strumenti di registrazione sonora e visiva, degli eventi che accadono davanti agli occhi dell'antro-
pologo. L'etnografia è la prima e indispensabile fase della ricerca antropologica.
2 Amici e collaboratori
Nel suo lavoro l'antropologo si serve di mediatori, appartenenti al gruppo che intende studiare.
Andando a intervistare la gente, l’antropologo in fondo costringe queste persone a riflettere sulla
propria cultura e sulla propria società. Nessuno di noi, solitamente, si alza la mattina e inizia a pen-
sare di essere italiano, di parlare una lingua neolatina, di vivere in uno stato democratico, e così via.
Nemmeno saremmo in grado di rispondere immediatamente – se un antropologo ce lo chiedesse –
al perché salutiamo con la mano destra. Non è necessario conoscere una cultura per praticarla, e in
fondo non è necessario sapere che il tendere la mano destra è un gesto di origine medioevale, che
significava “sono in pace, non ho armi in mano”. Nel momento in cui però ci viene chiesto di spie-
garlo, dobbiamo fare uno sforzo di interpretazione. E’ quello che fanno tutte le persone intervistate.
L’antropologo, quindi, non interpreta direttamente una realtà, ma interpreta delle ‘interpretazioni’.
L'osservazione partecipante non si riduce perciò a una semplice trascrizione di ciò che si osserva,
ma implica una riflessione più ampia, in cui entrano in gioco conoscenze, sensibilità e capacità
teoriche del ricercatore.
4 Comparare
Nonostante le specificità delle singole culture, esistono forme di trasversalità, che si ritrovano, con
un certo grado di approssimazione, in popolazioni diverse. L'antropologia si occupa di individuare
le costanti, tramite la comparazione di casi diversi e spesso distanti tra di loro. Tutte le culture pos-
siedono quello che il filosofo austriaco Paul Feyerabend chiama ‘dispositivo di transitività’, dovuto
alla capacità di ogni linguaggio di elaborare concetti nuovi, inventando nuovi termini e modalità
comunicative, che rendono possibile tradurre un concetto da una lingua a un'altra.
5 Scrivere l'esperienza
Terminato lo studio delle culture altrui, l'antropologo deve ‘tradurlo’ per renderlo noto: questa ope-
razione implica necessariamente una selezione. Occorre inoltre scegliere le modalità della descri-
zione dell'esperienza vissuta. Nella prima fase dell'antropologia si è spesso tentato di rendere il più
possibile oggettiva la ricerca: ciò implicava una descrizione asettica, in cui l’autore era un “io in-
visibile”, estraneo ai fatti. Uno degli elementi retorici era l'uso del presente etnografico, che però
trasmetteva l'immagine di popolazioni statiche e senza storia. A partire dal testo Scrivere le cultu-
re (1984), curato da James Clifford e George Marcus, si è riflettuto sul fatto che il ricercatore è
parte stessa della ricerca, pertanto nella narrazione scritta occorre inserire l'esperienza personale:
l'antropologo diventa così sempre più ‘autore’ e il suo scritto si trasforma in narrazione.
La presenza del ricercatore sul campo altera inevitabilmente la realtà osservata, sia perché crea cu-
riosità e relazioni nuove e preferenziali con alcuni membri della comunità, sia perché induce la gen-
te del posto a parlare e a tentare di spiegare cose di cui talvolta non è realmente cosciente.
Osservazione partecipante
Bronislaw Malinowski (1884-1942) Melbourne 1914 ricerche in Melanesia: villaggi trobiandesi
recarsi presso la comunità che si intende studiare e soggiornarvi a lungo, per raccogliere
dati e per creare relazioni; non semplice trascrizione di ciò che si osserva, ma riflessione
in cui entrano in gioco conoscenze, sensibilità e capacità teoriche del ricercatore.
mediatori: informatori:
appartenenti al gruppo persone intervistate: sforzo di interpretazione
che si intende studiare di pratiche e gesti abituali e consuetudinari
(es. il saluto con la mano destra: origine
medioevale “sono in pace, non ho armi in mano”)
L'antropologo interpreta delle 'interpretazioni'
prospettive di
osservazione antropologica
1) etica 2) emica
appartiene all'osservatore esterno, al ricercatore appartiene a chi fa parte della società in oggetto
che spesso è altro rispetto alla comunità in cui e che percepisce gli stessi fatti e agisce senza
studia; sguardo da fuori che riconduce i fatti per forza darsi spiegazioni, ma per abitudine,
osservati a una logica di tipo scientifico conformismo e routine.
comparazione
specificità delle forme di trasversalità
singole culture che si ritrovano, con un certo grado di
approssimazione, in popolazioni diverse
Le culture sono diverse l’una dall’altra, e gli esseri umani passano tutta la vita all’interno della cul-
tura nella quale sono nati. Non conoscendo altri modi di vita, considerano le proprie norme e i pro-
pri valori una necessità e non una possibilità. Per questo motivo gli individui di ogni società sono
affetti da una certa misura di etnocentrismo, cioè dalla tendenza a giudicare le altre culture secondo
i criteri specifici della propria. Le persone sono pronte a dare per scontato che la loro moralità, il
loro tipo di vestiario, ecc. sono giusti e naturali, i migliori possibili.
Qualche esempio di modo di vedere etnocentrico: noi copriamo le parti intime perché siamo dignitosi e
civilizzati, in altre società vanno in giro nudi perché sono ignoranti e privi di pudore; le donne occidentali
portano gli orecchini e usano i cosmetici per accrescere la loro bellezza, le donne di altre società si mettono
degli ossicini nel naso e si tatuano il volto perché non riescono a capire quanto ciò le renda brutte; le nostre
pratiche sessuali sono morali e decenti, quelle degli altri sono primitive e perverse, ecc.
L’etnocentrismo è particolarmente forte nelle società isolate, che hanno scarsi contatti con altre
culture. Ma anche nelle società industriali moderne simili atteggiamenti prevalgono ancora. Una ra-
gione della persistenza dell’etnocentrismo sta nel fatto che è quasi impossibile avere una concezio-
ne obiettiva della propria cultura; ma un’altra ragione è che l’etnocentrismo può risultare funzionale
alla società. Rafforza la fiducia nelle proprie tradizioni, scoraggia possibili penetrazioni da parte di
estranei assicurando in tal modo la solidarietà e l’unità del gruppo. Ma in determinate condizioni,
l’etnocentrismo può avere molti effetti indesiderabili: incoraggia il razzismo, può causare ostilità e
conflitti tra gruppi, può far sì che le persone si oppongano al bisogno di cambiamento della loro cul-
tura.
Il relativismo culturale
La capacità di raggiungere una piena comprensione di una cultura diversa dipende fortemente dalla
misura in cui lo studioso è disponibile ad assumere una posizione di relativismo culturale, cioè a ri-
conoscere che una cultura non può essere giudicata arbitrariamente secondo i criteri di un’altra.
Probabilmente non è possibile liberarsi del tutto da preconcetti e distorsioni a favore della propria
cultura. Per quanto serio sia il nostro impegno, è probabile che il segreto sentimento della superiori-
tà dei nostri criteri - che ci spinge a considerare i nostri giudizi su ciò che è bene e ciò che è male
come gli unici ” veri” criteri universali - persista.
D’altra parte, riconoscere il relativismo culturale come criterio metodologico e procedurale pro-
prio dello studioso delle varie culture non significa astenersi da ogni giudizio sulle pratiche di un’al-
tra società: non significa di certo considerare accettabili, solo perchè inserite in una cornice cultura-
le “omogenea”, le più retrive forme di violenza o di discriminazione, lo sterminio di massa o il ge-
nocidio. Ciò che il relativismo culturale comporta è che le pratiche di un’altra società possono esse-
re comprese pienamente soltanto nei termini delle loro norme e dei loro valori.
Per conseguire l’obiettivo pratico di comprendere il comportamento umano è di importanza vitale
che l’osservatore cerchi di rimuovere quanto più è possibile i paraocchi della propria cultura.
Il Corpo innaturale
Modellare il corpo
Tutte le società del mondo modificano il corpo ‘naturale’. Per questo le pratiche di disegno e mo-
dellamento del corpo sono diventate campo d'indagine dell'antropologia culturale: sono una forma
di scrittura che gli uomini imprimono su di sé. Dall’Oceania all’Africa, dall’Europa all’Amazzonia
il corpo viene scritto, modellato, plasmato. Un esempio sono i capelli, che vengono tagliati, accon-
ciati, tinti, per esprimere un senso di appartenenza a una società, a un gruppo, a una moda, a un'epo-
ca, oppure il desiderio di essere ‘altro’ o il fatto di trovarsi in una particolare condizione.
Negli anni sessanta del XX secolo portare i capelli lunghi significava aderire a un modello ideolo-
gico di contestazione, esprimere un rifiuto del sistema dominante; nei decenni seguenti i giovani
punk esprimevano anch’essi con le loro creste colorate il loro disagio e il loro voler essere “altro”.
In Giamaica negli anni trenta nacque un movimento mistico religioso, che voleva valorizzare le ra-
dici africane della popolazione nera attraverso il culto del ras tafari, l’imperatore d’Etiopia Hailé
Sélassié. L’Etiopia infatti è l’unico paese africano che non ha mai subito una vera colonizzazione
(ad eccezione dell’effimero “impero” fascista degli anni 1935-41, che comunque non comportò una
occupazione totale del territorio). I seguaci del movimento rasta adottarono una capigliatura fatta di
lunghe trecce cotonate, i dreadlocks, tipiche delle popolazioni oromo dell’Etiopia, che ancora oggi
molti giovani di tutto il mondo adottano come forma di adesione a un movimento di pensiero e mu-
sicale di cui Bob Marley ha rappresentato una delle più note espressioni artistiche. Nell’Africa occi-
dentale le pettinature femminili assumono talvolta significati precisi, non solo legati all’appartenen-
za ad un determinato gruppo, ma anche alla condizione della donna che li porta: un certo modo di
annodare le treccine può voler dire “sono nubile, chiamami”, oppure esprimere un lutto, e così via.
In molte culture si usa dipingere il corpo. I nuba del Sudan o i mursi dell’Etiopia decorano i loro
corpi con disegni fatti con il caolino (un minerale argilloso e soffice, che fornisce una polvere bian-
ca). Tali disegni, che scompaiono dopo ogni lavaggio, costituiscono una forma di arte effimera e
servono a comunicare, a ribadire l'appartenenza al proprio popolo, a distinguere ruoli.
Anche in Occidente si usa dipingere il corpo – in maniera effimera - con i cosmetici, in base alle
mode imperanti, ma anche a seconda degli stati d’animo o delle preferenze personali.
Talvolta il corpo è disegnato invece in modo indelebile. È il caso del tatuaggio, pratica nata in Po-
linesia, dove serviva a distinguere lo status sociale degli individui – capi, uomini liberi, schiavi - ed
era legata a espressioni rituali e religiose. Il tatuaggio, il cui nome deriva dalla parola polinesiana
tatu, che significa “incidere” si diffuse successivamente anche in altre società, subendo trasforma-
zioni di significato o diventando strumento di espressione di subculture. I primi ad apprendere que-
sta tecnica furono i marinai che percorrevano i mari del Sud. In molti casi il tatuaggio divenne una
sorta di marchio punitivo o d’infamia, impresso sulla pelle di galeotti, prostitute, omosessuali. Nel
lager di Auschwitz veniva tatuato sul braccio del detenuto un numero di matricola per marchiare a
vita un individuo – ebreo, zingaro, omosessuale – come appartenente a una presunta razza inferiore.
In Giappone invece, fin dal XVIII secolo divenne una vera e propria forma d’arte, destinata ad
esprimere soprattutto la bellezza femminile. Da un paio di decenni anche nella società occidentale
la pratica del tatuaggio è ritornata fortemente di moda, diffondendosi sia tra le donne sia tra gli uo-
mini. Il nostro tatuaggio non ha nessuna connotazione rituale, in molti casi è un’espressione esteti-
ca; a volte può assumere un significato politico, come nel caso dei naziskin o degli Hell’s Angels, i
motociclisti americani che guidano grosse Harley Davidson con giubbotti di pelle senza maniche; è
entrato fortemente a far parte di molte subculture, come quelle punk, dark, ecc., che intendono
esprimere disagio, ribellione, rifiuto e tracciare un confine tra chi lo porta e chi no.
Scolpire e modellare
Monocromatico o colorato, il tatuaggio necessita di uno sfondo chiaro, pertanto molte popolazioni
dalla pelle scura disegnano il proprio corpo attraverso la scarificazione, un'incisione superficiale
della pelle, che prevede talvolta l'inserimento di piccoli grani per creare disegni in rilievo. Si tratta
di forme di rappresentazione artistica che possono essere lette come segno di bellezza o come
espressione di un linguaggio simbolico (ad es. i tiv della Nigeria e i Betammaribe del Benin).
La “carta d’identità” di molti abitanti dell’Africa occidentale è inciso sul loro volto da quando erano
bambini. Piccole cicatrici di forma e combinazione diversa segnano le guance, indicando il gruppo
etnico di appartenenza, talvolta anche il clan di origine. Il corpo culturale, e cioè elaborato, dipinto,
segnato, diventa così un testo scritto in una lingua, che la rispettiva cultura è in grado di decifrare.
Il corpo viene anche modellato e scolpito per corrispondere ai criteri di una determinata cultura.
L’allungamento del collo tramite l’apposizione progressiva di anelli di metallo, che caratterizza le
cosiddette donne-giraffa del gruppo padaung dello Myanmar del sud (Birmania), i piattelli labiali
delle donne mursi della valle dell’Omo (Etiopia meridionale), la dolicocefalia, cioè l’allungamento
del cranio, in uso tra i mangbetu della Repubblica Democratica del Congo, la compressione dei pie-
di per impedirne la crescita, praticata dalle donne cinesi, sono esempi di come il corpo possa essere
plasmato secondo i criteri di una determinata cultura. Questo avviene anche in Occidente, ad esem-
pio con il body building, l'esercizio fisico, le diete, la chirurgia plastica, che obbediscono ai canoni
estetici dominanti. Oggi in Occidente c’è abbondanza di cibo e allora essere magri diventa segno di
bellezza. In molti paesi non occidentali, dove non sempre l’alimentazione è assicurata, il concetto di
bellezza non è legato alla magrezza, ma piuttosto all’opulenza del corpo.
Al di là della pelle
In molte pratiche rituali, come i riti di iniziazione, il corpo è violato per causare dolore, essenza
stessa della prova. Presso i sioux, popolazione di nativi americani delle grandi pianure centrali degli
Stati Uniti e del Canada meridionale, la prova per diventare guerrieri era la Danza del Sole, nel cor-
so della quale colui che doveva essere iniziato veniva sollevato, appeso ad artigli di aquila conficca-
ti nella carne del suo torace. Nel rito della frustata, diffuso nel golfo di Guinea (Africa occidentale),
l’iniziato deve sottostare a diversi colpi di frusta inflittigli dagli adulti senza dare segni di dolore. Il
dolore è vissuto come esperienza necessaria per attraversare la soglia della normalità e acquisire
uno status diverso. Tra le pratiche che prevedono l'amputazione vi sono la circoncisione, che segna
riti di passaggio sia tra i fedeli di ebraismo e islam, sia presso società tradizionali, e le mutilazioni
genitali femminili, praticate sia in contesto islamico sia nell'ambito di religioni tradizionali. L’infi-
bulazione nota anche come circoncisione faraonica o sudanese, è una forma di modificazione geni-
tale femminile che comporta l'asportazione del clitoride, delle piccole labbra, di parte delle grandi
labbra vaginali, a cui segue la cucitura della vulva, lasciando aperto solo un foro per permettere la
fuoriuscita dell'urina e del sangue mestruale. Tale pratica è stata condannata dall'Organizzazione
Mondiale della Sanità come la forma più grave di mutilazione genitale femminile.
In Occidente nella cultura punk la pelle e la carne vengono penetrate (spilloni nelle guance, pier-
cing) per esprime una volontà di riappropriazione del corpo, di appartenenza o di inadeguatezza alla
vita, o infine come antidoto al dolore esistenziale. Il corpo è dunque materia da personalizzare se-
condo schemi culturali o individuali. Si compie così quel processo definito dall'antropologo France-
sco Remotti antropopoiesi, cioè l'insieme di pratiche che ogni società mette in atto per costruire
l'uomo, secondo i propri criteri di umanità.
Il corpo a pezzi
Decisamente più intrusiva e assai poco umana è la pratica di espianto e di trapianto di organi, che
la moderna tecnologia chirurgica ha reso sempre più praticabile, mettendo in discussione il concetto
di unità e inviolabilità del corpo e dando vita a una nuova etica del corpo. Esiste un vero e proprio
turismo dei trapianti, legalizzato solo in Israele e in Sudafrica, nel quale si svelano anche le inegua-
glianze di classe: un pacchetto completo per ottenere un rene costa 200.000 dollari, dei quali solo
5.000 arrivano al donatore. Il corpo ‘divisibile’ è diventato così una delle tante merci soggette alle
leggi di mercato. Il traffico, più o meno legale, che ne è derivato ripropone il divario tra i più ab-
bienti e chi non possiede altro che la ‘nuda vita’. Si tratta di un inquietante neo-cannibalismo con-
temporaneo, dove a ‘inghiottire’ pezzi di umani siamo noi occidentali.
Vestirsi e svestirsi
Non solo manipoliamo, coloriamo, modelliamo il nostro corpo, ma alla pelle che costituisce il li-
mite esterno del nostro corpo, siamo soliti aggiungerne una seconda, fatta di stoffe, di corteccia, di
foglie, per coprire, disegnare, esaltare le forme. L’abito non assolve solo alla funzione di riparare
dagli elementi naturali, ma è anche un segno culturale attraverso il quale ostentiamo una nostra con-
dizione. L’abito muta non solo da cultura a cultura, ma anche di epoca in epoca. La moda, i gusti, la
morale condizionano il modo di vestirsi: l'aspetto estetico del vestire è legato infatti anche al ‘senso
del pudore’. Ogni cultura decide quali parti del corpo sia lecito esporre e quali no. Si è creduto che
la nudità fosse retaggio di uno stato primitivo, in cui gli esseri umani sarebbero vissuti in una condi-
zione ‘naturale’. In realtà nella maggior parte delle società si è restii a mostrare i genitali pubblica-
mente, ma la nudità non sempre è considerata oscena, mentre è l’atteggiamento che si ha verso di
essa, lo sguardo morboso, ad esempio, a essere sanzionato o condannato. Il grande navigatore ingle-
se James Cook racconta di come i suoi marinai, guardandone esplicitamente i genitali, mettessero in
imbarazzo i nativi della Terra del Fuoco (Cile), per i quali, pur circolando nudi, era considerato
sconveniente soffermarsi con lo sguardo su certe parti del corpo.
Anche le religioni monoteiste hanno imposto, in epoche e in misura diverse, regole sull'abbiglia-
mento legate sia al pudore, sia al comportamento nei luoghi religiosi. L’hijab, il velo che incornicia
il volto di molte donne musulmane, rappresenta un segno di pudore, peraltro molto diffuso in molte
altre società. Anche in Italia in passato le donne si recavano a messa a capo coperto. Assai più dra-
stica l’imposizione del burka che, oltre a celare completamente il volto, annulla totalmente ogni for-
ma del corpo femminile. Per quanto riguarda gli uomini, è possibile incontrare, nelle regole relative
alla frequentazione dei luoghi di culto, comportamenti opposti: nel mondo cristiano ci si toglie il
cappello nell’entrare in una chiesa, al contrario gli ebrei non entrano in una sinagoga se non a capo
coperto.
Il corpo ha una dimensione sociale anche dopo la morte. In diverse forme, più o meno ritualizzate,
tutte le società praticano la ‘toilette del morto’: composizione del cadavere, vestizione, preparazione
di cibi per il viaggio, protezione dall’esterno. La cura dei corpi dei defunti rappresenta inoltre
l’estremo tentativo di strapparli alla putrefazione. Nella sepoltura il deperimento della carne viene
occultato, nell'imbalsamazione ritardato, nell'esposizione dei cadaveri alle intemperie o nella cre-
mazione accelerato. La volontà di combattere ogni forma di decomposizione emerge nelle pratiche
di mummificazione e di criogenizzazíone (il congelamento del corpo per una conservazione prolun-
gata). I corpi dei leader defunti, conservati e ostentati, possono diventare icone e strumenti del pote-
re. Distruito o conservato, il corpo non viene mai lasciato al suo destino: quasi tutte le società eser-
citano una sorta di controllo culturale dei corpi in disgregazione.
Una diversa forma di valore sociale del corpo dei defunti è il culto delle reliquie dei santi cristiani,
che affonda le sue origini nel IV-V secolo ed ebbe il suo apice nei secoli IX e XI. Queste “ossa sen-
za pace” venivano ostentate, portate in giro, adorate, ma erano anche spesso oggetto di furti, trafu-
gamenti, profanazioni, falsificazioni. Nella tradizione cristiana la reliquia è il simbolo della vittoria
dell'essere umano contro la morte e risponde al bisogno di materialità dei culti.
Il Corpo innaturale
dipingere il corpo -> arte effimera -> comunicare o ribadire l'appartenenza al proprio popolo
distinguere ruoli caolino: nuba (Sudan) mursi (Etiopia)
Occidente cosmetici mode, stati d’animo, preferenze personali.
disegno indelebile -> tatuaggio Polinesia -> status sociale - capi, uomini liberi, schiavi
espressioni rituali e religiose (tatu “incidere”)
marinai mari del Sud
galeotti, prostitute, omosessuali marchio punitivo o d’infamia
lager di Auschwitz: ebrei, zingari, omosessuali ‘razze inferiori’
Giappone XVIII secolo: forma d’arte -> bellezza femminile
corpo modellato -> criteri estetici, ruoli sessuali di una determinata cultura.
donne-giraffa padaung Myanmar del sud (Birmania)
piattelli labiali donne mursi, valle dell’Omo (Etiopia meridionale)
dolicocefalia, mangbetu, Congo
compressione dei piedi: donne cinesi
Sioux, USA Danza del Sole Rito della frustata golfo di Guinea (Africa occ.)
circoncisione -> riti di passaggio ebraismo e islam
mutilazioni genitali femminili islam, religioni tradizionali africane
Francesco Remotti ‘antropopoiesi’ -> pratiche che ogni società mette in atto per costruire
l’uomo, secondo i propri criteri di umanità.
Il corpo a pezzi
Vestirsi e svestirsi
composizione del cadavere, vestizione, preparazione di cibi per il viaggio, protezione dall’esterno
Corpi dei leader defunti conservati e ostentati -> icone e strumenti del potere
Culto delle reliquie dei santi cristiani (IV-XI sec.) -> simbolo della vittoria dell'uomo contro la morte
ostentate / adorate / rubate / profanate / falsificate
Parentela e matrimonio
Un importante campo di studio per gli antropologi sono le relazioni parentali, perché il modo in
cui una società costruisce le sue regole di parentela, definite dal diritto consuetudinario o scritto,
costituisce la grammatica di quella società. La parentela nasce dall'intersezione fra due relazioni
fondamentali: il legame di filiazione tra madre e figlio e il legame di coppia tra uomo e donna, che
si ha quando il maschio offre la sua paternità alla prole della femmina, stabilendo così il legame di
paternità.
Il sistema grafico convenzionale con cui nei testi di antropologia vengono indicati i componenti di
un gruppo parentale e le relazioni che intercorrono tra di loro prevede: il triangolo, ad indicare un
individuo di sesso maschile, il cerchio, per una persona di sesso femminile; il segno = per indicare
l’unione matrimoniale (affinità), una linea orizzontale che unisce due segni per indicare una
relazione fratello/sorella (consanguineità), una linea verticale per indicare discendenza (filiazione).
Famiglia e matrimonio
La parola famiglia può assumere significati e forme diversi. Si parla di famiglia nucleare per indi-
care quella composta da genitori e figli. La famiglia allargata comprende invece, oltre a genitori e
figli, zii, nonni e cugini. La famiglia allungata è quella in cui i figli rimangono a vivere con i geni-
tori fino a un'età avanzata, mentre la famiglia monogenitore comprende i figli con un solo genito-
re. Non esiste dunque una ‘famiglia naturale’, ma sono gli esseri umani a creare i diversi tipi di fa-
miglia.
La famiglia è una creazione sociale derivata dal gruppo madre/figli, che il matrimonio serve a ren-
dere stabile e duratura nel tempo. Il matrimonio definisce le condizioni in cui un uomo e una donna
possono intrattenere relazioni sessuali. Con il matrimonio l’unione tra un uomo e una donna diventa
tale che i figli di questa sono considerati prole legittima di entrambi i coniugi. Il matrimonio deter-
mina la trasmissione di beni e di status dai genitori ai figli e stabilisce privilegi e doveri legati a
queste condizioni. Il matrimonio contribuisce infine ad allargare i legami parentali dalla sfera dei
consanguinei a quella dei parenti affini, acquisiti dopo il matrimonio; dà vita pertanto a una paren-
tela sociale, che si aggiunge a quella biologica.
La poligamia
In molte culture del nostro pianeta è presente la poligamia, cioè il matrimonio di un coniuge con
più partner. Il fatto che sia possibile non significa che sia obbligatoria: nel Mali all’atto del matri-
monio lo sposo può scegliere l’opzione poligamica, ma solo con il consenso della moglie. La poli-
gamia si divide in poliginia (un marito e diverse mogli) e poliandria (una moglie e diversi mariti).
La poliginia è più diffusa, sia perché in tutte le società sono i maschi ad avere maggiori diritti, sia
perché, soprattutto nelle società di interesse antropologico, si riscontra spesso un numero di donne
superiore a quello degli uomini. La poliginia serve pertanto ad assicurare a ogni donna la possibilità
di sposarsi, ma soprattutto garantisce molti figli, importanti in contesti economici nei quali le risor-
se principali sono umane. Il numero elevato di figli, che spesso caratterizza le popolazioni dei paesi
in via di sviluppo, ha inoltre l'obiettivo di assicurare una vecchiaia sicura.
I rapporti tra co-mogli (le diverse mogli di uno stesso marito) sono spesso conflittuali e fonte di
tensione, come dimostra il termine usato tra le popolazioni del Ruanda per indicare una delle mogli,
che significa “gelosia”. A regolare tale potenziale distruttivo vige solitamente tra le co-mogli una
sorta di gerarchia basata sull’età. La moglie più anziana ha uno status superiore e così via a calare.
Presso i tanga del Benin settentrionale ogni moglie cucina a turni di due giorni per il marito e per le
altre co-mogli e in quelle notti il marito dorme con lei.
La poliandria è invece assai rara; un caso è quello dei toda dell’India meridionale, mentre nel Tibet
vige un matrimonio poliandrico delfico. In questo caso una donna sposa un uomo e tutti i suoi fra-
telli. Spesso tra i fratelli c’è una forte differenza di età e il più anziano domina gli altri come se fos-
se il padre, regolando così l’accesso sessuale alla moglie.
La scelta del coniuge può essere condizionata da regole sociali. In alcuni casi vige l'obbligo o la
preferenza di sposare una donna del gruppo sociale o territoriale di appartenenza (lignaggio, casta,
clan, ecc.). Questa pratica viene definita endogamia (Si pensi al vecchio proverbio italiano “Moglie
e buoi dei paesi tuoi”). Uno degli esempi più evidenti di endogamia è rappresentato dalle caste in-
diane, nelle quali il principio dell’endogamia contribuisce a determinare, rafforzare e mantenere la
separazione tra i diversi livelli grarchici della società e a istituzionalizzare i concetti di impurità e
purezza.
L'esogamia, molto più diffusa, indica invece la preferenza nel contrarre matrimonio con donne
esterne al proprio gruppo. L'esogamia stempera o annulla la competizione che nascerebbe tra i gio-
vani se dovessero contendersi le ragazze del gruppo stesso. Inoltre sposare i ‘propri nemici’ è un si-
stema per creare nuove alleanze. L’esogamia, infine, garantisce un maggiore successo riproduttivo.
In certe società al matrimonio si lega il prezzo della sposa, una sorta di rimborso in denaro, beni o
lavoro, che lo sposo dà alla famiglia della sposa per ricompensarla della perdita. Il prezzo della spo-
sa spesso è legato alle sue capacità procreative. La dote, tipica delle società più ricche, consiste in-
vece in una serie di beni, status o denaro, data alla sposa dalla propria famiglia. Tale pratica è legata
al criterio di trasmissione dell’eredità. Per mantenere in vita l’alleanza nata dal matrimonio, presso
alcune popolazioni vige il levirato, una pratica che prevede che nel caso in cui una donna rimanga
vedova possa ‘risposarsi’ con il fratello del marito defunto o con un suo figlio. Tale pratica è adotta-
ta in alcune società a discendenza patrilineare: i nuer del Sudan, i lodagaa del Ghana, i beduini del-
l’Arabia, gli Ebrei. Un'estensione più marcata del levirato è il ‘matrimonio con un defunto’. In que-
sto caso, se un uomo muore prima di avere avuto la possibilità di sposarsi e di avere figli, un suo
fratello più giovane sposerà sua moglie o quella che gli era stata destinata in moglie. La donna tutta-
via sarà sempre considerata moglie del defunto (che magari non ha mai incontrato) e così i suoi fi-
gli. Parallelo all'istituzione del levirato, anche se meno diffuso, è il sororato, secondo il quale un
uomo rimasto vedovo ha l'obbligo di sposare una sorella della moglie defunta.
L'incesto
In quasi tutte le culture l’incesto è proibito o evitato. Sono ovunque proibite le relazioni sessuali
tra genitori diretti e figli, e quelli tra fratelli e sorelle. Esistono però delle eccezioni riguardanti le
famiglie reali: era permesso quello tra fratello e sorella presso i tolomei d’Egitto, gli inca, gli hawa-
iani, i nyoro dell’Uganda; quello tra gemelli di sesso opposto a Bali, ecc. L’estensione della proibi-
zione varia a seconda delle culture, e a volte include anche parenti acquisiti. La teoria secondo la
quale il tabù dell'incesto nasce dalla constatazione che l'incrocio tra consanguinei porterebbe a ri-
sultati genetici disastrosi non è convincente, perché gli effetti di una mutazione genetica sono ri-
scontrabili solo dopo una decina di migliaia di anni. Una spiegazione può venire dall'esame della
società primitiva. All’inizio gli esseri umani vivevano in gruppi parentali privi di struttura organiz-
zativa definita, detti orde. Nell’orda primordiale, i maschi più anziani dominavano e mantenevano il
controllo sulle donne, i giovani erano pertanto spinti fuori dal gruppo e si vedevano costretti a cer-
care altrove compagne con le quali accoppiarsi. Teniamo presente che la vita media si aggirava in-
torno ai 35 anni e la pubertà si raggiungeva non prima dei 15 anni: quando i maschi raggiungevano
la pubertà, le loro madri avevano già superato l’età fertile o erano già morte. Lo stesso valeva per i
rapporti tra fratelli e sorelle: quando un ragazzo raggiungeva la pubertà, era probabile che la sorella
maggiore fosse già stata “presa” da qualcuno più vecchio, quando la sorella minore avesse raggiun-
to la maturità, il fratello era probabilmente già accoppiato. Dunque l’incesto era praticamente im-
possibile. In seguito, con l'affermarsi di gruppi famigliari stabili, nacque l'esigenza di porre il tabù
dell'incesto per mantenere i vantaggi selettivi e sociali procurati dall'evitare gli incesti.
La residenza
Dopo il matrimonio, nella nostra società gli sposi abbandonano le case paterne per abitare in una
loro casa (modello residenziale neolocale). Presso comunità molto piccole può trovarsi un modello
di residenza detto bilocale, secondo cui i coniugi vivono alternativamente per un periodo presso il
gruppo dello sposo e per un altro presso quello della sposa. E’ il caso tipico delle società di caccia-
tori-raccoglitori, come, per esempio, i khoi-san del deserto del Kalahari (Africa australe) noti anche
come boscimani. Una necessità fondamentale per chi vive di caccia-raccolta infatti è la flessibilità,
in quanto le risorse sulle quali si basa la loro sussistenza sono estremamente mobili e spesso di lo-
calizzazione variabile. Nella maggior parte dei casi è però la sposa a trasferirsi presso il gruppo dei
parenti del marito (residenza virilocale). Quando è l'uomo a lasciare la propria famiglia per trasfe-
rirsi presso il gruppo dei parenti della moglie si parla di residenza uxorilocale. E’ il caso dei mun-
durucu dell’Amazzonia, dove gli uomini sono spesso assenti per spedizioni di caccia e sono le don-
ne a rimanere stabili nei villaggi e a dover mantenere le relazioni di cooperazione tra i diversi grup-
pi parentali.
La discendenza
Una funzione del matrimonio è quella di stabilire una linea di discendenza, lungo la quale verrà
trasmessa l'eredità dei genitori ai figli. Per discendenza si intende l’insieme delle regole che deter-
minano la gerarchia dei membri della famiglia, le norme dell’eredità, la trasmissione dei compiti e
delle funzioni. La discendenza indifferenziata (detta anche cognatica o bilaterale) è quella in cui
si tiene conto della parentela su entrambi i lati, come accade nelle nostre società. In molte società
del Terzo Mondo domina invece il tipo di discendenza unilineare. Se i diritti sociali, il rango, il
nome, la religione, i beni sono trasmessi attraverso i parenti paterni, vale a dire per via agnatica, la
società è patrilineare; nel caso siano trasmessi attraverso la madre, cioè per via uterina, la società
è matrilineare. Nel caso della discendenza matrilineare, beni e status non vengono ereditati dai fi-
gli direttamente dalla madre, poiché in quasi tutte le società sono i maschi a detenere le ricchezze,
ma dal maschio consanguineo più vicino alla madre (suo fratello o il suo zio materno).
Esistono alcuni gruppi in cui la discendenza è doppia o bilineare, nella quale alcuni diritti vengo-
no trasmessi per via materna e altri per via paterna, come avviene tra gli aborigeni australiani, o
presso gli ashanti del Ghana, che ereditano il proprio “sangue” dal clan materno e il loro “spirito”
dal clan paterno.
Clan e lignaggi
Negli studi antropologici si indica con il termine clan un gruppo di discendenza unilineare (patri-
clan o matriclan) costituito da un certo numero di famiglie che si riconoscono come discendenti di
un antenato o di una coppia di antenati comuni. I membri si richiamano talvolta ad un totem comu-
ne (animale o pianta) che si presume legato all’antenato. L'origine di un clan non è storica, ma sim-
bolica: i suoi antenati sono infatti spesso mitici. Con il trascorrere del tempo, i gruppi di discenden-
za si fanno più ampi, si perdono i contatti e si vengono a formare dei segmenti di clan, distanti tra
loro. Questi segmenti vengono definiti lignaggi, cioè gruppi di discendenza (patrilineare o matrili-
neare), i cui membri possono ricostruire le proprie relazioni di discendenza con precisione. Si tratta
pertanto di gruppi che generalmente non superano le 4-5 generazioni. In ordine inclusivo decre-
scente si possono distinguere, riguardo ai gruppi di parentela: l’etnia, la tribù, il clan, il lignaggio,
la famiglia, la coppia di coniugi.
Parentela e matrimonio
bilineare o doppia alcuni diritti trasmessi per via materna e altri per via paterna
aborigeni australiani ashanti (Ghana)
modelli familiari
forme di partner
matrimonio preferenziale
poliandria poliginia
FORME DI FAMIGLIA
multiculturali / multietniche
tanga (Benin): ogni moglie cucina a turno, per il marito e le co-mogli, in quelle notti il marito dorme con lei.
Mali: lo sposo può scegliere l’opzione poligamica, ma solo con il consenso della moglie.
endogamia -> partner del proprio gruppo sociale “Moglie e buoi dei paesi tuoi”
(lignaggio, casta, clan) caste indiane
separazione tra i diversi
obbligo o preferenza di sposare livelli gerarchici della società
esogamia -> partner esterni al proprio gruppo sposare i ‘propri nemici’ > nuove alleanze
maggiore successo riproduttivo
dote (società più ricche) beni o denaro dati alla sposa dalla propria famiglia
trasmissione dell’eredità
levirato > la vedova può risposarsi con il fratello del marito defunto o con un suo figlio
società a discendenza patrilineare:
nuer (Sudan) lodagaa (Ghana) beduini (Arabia) Ebrei
sororato > il vedovo ha l'obbligo di sposare una sorella della moglie defunta
vedda (Sri Lanka) fuegini (Terra del Fuoco) Africa nera
neolocale > gli sposi abbandonano le case paterne per abitare in una loro casa
modelli di bilocale > gli sposi alternano la residenza gruppo dello sposo / della sposa
residenza cacciatori-raccoglitori: khoi-san, deserto del Kalahari (Africa)
virilocale > la sposa si trasferisce presso il gruppo dei parenti del marito
uxorilocale > lo sposo si trasferisce presso il gruppo dei parenti della moglie
mundurucu (Amazzonia): uomini cacciatori / donne stabili nei villaggi
Incesto
rapporto sessuale tra due persone fra le quali in quasi tutte le culture l’incesto è proibito o evitato
esistano determinati vincoli di consanguineità relazioni sessuali genitori diretti/figli fratelli/sorelle
Una spiegazione dell’origine del tabù dell’incesto può venire dall'esame della società primitiva. All’inizio gli esseri umani vivevano
in gruppi parentali privi di struttura organizzativa definita, detti orde. Nell’orda primordiale, i maschi più anziani dominavano e
mantenevano il controllo sulle donne, i giovani erano pertanto spinti fuori dal gruppo e si vedevano costretti a cercare altrove com-
pagne con le quali accoppiarsi. La vita media si aggirava intorno ai 35 anni e la pubertà si raggiungeva non prima dei 15 anni: quan-
do i maschi raggiungevano la pubertà, le loro madri avevano già superato l’età fertile o erano già morte. Lo stesso valeva per i rap-
porti tra fratelli e sorelle: quando un ragazzo raggiungeva la pubertà, era probabile che la sorella maggiore fosse già stata “presa” da
qualcuno più vecchio, quando la sorella minore avesse raggiunto la maturità, il fratello era probabilmente già accoppiato.
Dunque l’incesto era praticamente impossibile. In seguito, con l'affermarsi di gruppi famigliari stabili, nacque l'esigenza di porre il
tabù dell'incesto per mantenere i vantaggi selettivi e sociali procurati dall'evitare gli incesti.
Clan e lignaggi
clan > gruppo di discendenza unilineare (patri-clan o matriclan) totem comune (animale o pianta)
famiglie che si riconoscono come discendenti di un antenato origine simbolica vs storica
o di una coppia di antenati comuni. antenati mitici
LA PEDAGOGIA DELL’UMANESIMO
1) l’educazione mira alla formazione di un uomo completo, le cui virtualità e le cui molteplici atti-
tudini intellettuali, fisiche, tecniche vanno sviluppate armonicamente, nessuna esclusa. Sotto questo
punto di vista, la cultura generale è esattamente agli antipodi dell’enciclopedismo erudito. Lo stu-
dio delle lingue classiche risponde sia all’esigenza di comprendere e di assimilare meglio i valori del-
l’antichità sia allo scopo di adottare uno strumento più valido del volgare per poter discutere intor-
no a vari argomenti e socializzare la propria formazione;
(2) scegliere una sola via, sia pure allo scopo di giungere per essa alla perfezione in un singolo cam-
po, sarebbe, per l’umanista, come sottoporsi ad una mutilazione: l’educazione umanistica è contra-
ria alla specializzazione ed all’orientamento tecnico precoce;
(3) il modello dell’uomo che l’educazione umanistica aspira a creare è l’oratore dell’età ellenistico-
romana. Ancora una volta è l’ideale di Isocrate e Quintiliano che prevale contro quello, filosofico-
matematico, di Platone. Viene ribadito il primato della parola e dell’educazione estetico-letteraria:
la massima importanza viene assegnata, a fini formativi, agli studia humanitatis. Lo studio delle let-
tere riporta ai valori eterni, mentre gli studi di carattere tecnico si richiamano a valori transitori.
Il contatto con il mondo classico è più intenso e approfondito, grazie a una più ampia disponibilità
di testi e alla filologia per un approccio diretto con l’autore del passato. Guarino da Verona è il pri-
mo studioso a trasformare le arti del trivio in un solido organismo di cultura liberale, impostando co-
sì un curriculum di studi di stampo “classico”, che influenzerà la moderna istruzione classica;
4) il latino, considerato dagli umanisti uno strumento di espressione incomparabilmente più perfet-
to del volgare, viene studiato come “lingua viva” con riferimento a opere precise. Lo studio della
grammatica viene collegato allo studio dei testi e dei grammatici antichi;
(5) si afferma un modo diverso - addolcito - di intendere la disciplina, non più basato sulle puni-
zioni corporali, ma sulla comprensione maestro-scolaro e sulla considerazione della personalità del-
l’allievo, per adeguare ad essa il metodo di lavoro;
(6) un motivo di polemica contro la scuola medioevale è costituito dalla rivalutazione del mondo
fisico, manifestantesi attraverso le cure da concedere al corpo attraverso il gioco e la ginnastica, e
della osservazione della natura e delle “cose”; la rivalutazione della “fisicità” può in generale essere
intesa come insieme armonico di bellezza, qualità morali, vigoria del corpo e dello spirito;
(7) gli umanisti danno, agli studi da loro coltivati, l’attributo di “liberali”: da un lato il termine vuole
significare quegli studi che liberano l’uomo dall’irrazionalità e dall’animalità (“liberum hominem ef-
ficiunt”), dall’altro vuole indicare un tipo di cultura disinteressata, attraverso la quale l’uomo tende
al sapere e alla virtù, senza aspirare al guadagno o al vantaggio materiale.
(8) Nel suo complesso, l’ideale pedagogico rinascimentale conserva un carattere essenzialmente ari-
stocratico: per quanto la scuola diventi più consapevole della difficoltà e della delicatezza del suo
compito e gli istituti scolastici cominciano ad accogliere anche gli appartenenti alle classi meno agiate
(come avviene, ad esempio, nella scuola di Vittorino da Feltre), i pedagogisti dell’umanesimo mani-
festano una decisa tendenza “elitaria”, puntando alla formazione di un ristretto ordine di dotti, mi-
noranza privilegiata libera da ogni impegno di lavoro che non sia lo studio.
Vittorino da Feltre e la “scuola giocosa”
Vittorino nasce a Feltre nel 1373 e studia a Padova discipline matematiche, letterarie, scienze fisi-
che e astronomiche. Dopo aver insegnato a Venezia e a Padova, gli viene affidata dal principe Gian
Francesco Gonzaga di Mantova l’educazione dei suoi sei figli; per svolgere meglio il suo compito
trasforma una sontuosa residenza principesca - detta Zojosa - in una scuola destinata a divenire una
tra le più illustri istituzioni educative di questo periodo. Egli la ribattezza “La Giocosa” per dimo-
strare, anche nel nome, il motivo ispiratore della sua opera: “Libera e gioiosa espressione di ogni at-
tività fisica e spirituale”. Vittorino crea un collegio privato, le cui rette, adeguate alle disponibilità
economiche, servono anche a pagare gli studi di alcuni giovani poveri ma capaci, secondo il modello
che già aveva seguito a Padova. “La Giocosa” ospiterà anche alcune fanciulle e otterrà in breve tem-
po il riconoscimento universitario. Vittorino muore a Mantova nel 1446, senza lasciare, come Socra-
te, nulla di scritto (di lui restano solo sei lettere e un trattatello sull’ortografia latina): quanto cono-
sciamo di lui e del suo metodo lo dobbiamo alle memorie dei suoi numerosi discepoli. Tra questi,
Sàssolo da Prato, che nutrì per il maestro un amore vivissimo.
pensiero umanistico -> teoria del primato della volontà e della dignità
LA PEDAGOGIA DELLʼUMANESIMO
trattati:
(1) Cultura generale vs Enciclopedismo erudito
P. PaoloVergerio
preparazione completa Maffeo Vegio
virtualità dellʼ essere umano armonicamente sviluppate Guarino da Verona
molteplici attitudini -> intellettuali, fisiche, tecniche Matteo Palmieri
L.Battista Alberti
(2) avversione alla specializzazione precoce -> gradualità dellʼinsegnamento
(4) restaurazione del latino come lingua viva -> valori dellʼ antichità (filologia)
(vs volgare)
(9) riconoscimento della specificità del bambino (non più piccolo adulto) “la scoperta dellʼinfanzia”
(P. Ariés)
(10) formalizzazione delle “buone maniere” (Della Casa, Erasmo da Rotterdam )
ʻ400 -> formazione dellʼ “uomo” in generale “homo faber ipsius fortunae”
(riscoperta del valore dellʼ individuo)
vs
ʻ500 -> formazione del “tipo” umano particolare (“principe”, “cortegiano”, “perfezione della donna”)
(Machiavelli, Castiglione, Firenzuola)
LA PEDAGOGIA DELLA RIFORMA PROTESTANTE
La pedagogia della Riforma protestante inizia con Martin Lutero (1483 - 1546), cui spetta la pa-
ternità della fase iniziale dello scisma e anche della sua nuova prospettiva educativa. Di origine con-
tadina, Martin Lutero si forma come monaco agostiniano, diviene magister artium e formula nel
1516 i fondamenti della sua concezione teologica (Scolii alla lettera ai Romani di S. Paolo). L’anno
dopo rende pubbliche le Novantacinque tesi, in cui attacca frontalmente la Chiesa su questioni prati-
che (come la vendita delle indulgenze) e teologiche. In seguito elabora gli elementi fondamentali della
nuova Chiesa e pubblica anche le sue opere a carattere più specificamente pedagogico (Ai consiglieri
di tutte le città della Germania, sul dovere di istituire e mantenere scuole cristiane, 1524 e il Sermo-
ne sul dovere di mandare i fanciulli a scuola, 1530).
Libertà interiore e educazione. La necessità che ogni credente si accosti alla lettura delle Sacre
Scritture autonomamente, senza intermediazione e interpretazione da parte della Chiesa (dottrina
del “libero esame”), porta Martin Lutero a richiamare la fondamentale importanza dell’educazione.
La libera interpretazione dei testi sacri richiede infatti la capacità di leggerli e comprenderli. Dunque
occorre fornire a tutti, in modo obbligatorio e gratuito, l’accesso all’istruzione elementare. L’ideale
del sacerdozio universale (ogni credente è sacerdote a se stesso nell’accostarsi alle Sacre Scritture)
porta inoltre l’istruzione al di fuori degli ambienti religiosi e richiede l’impegno dei laici per creare
scuole sostitutive a quelle ecclesiastiche.
Stato, famiglia e scuola. L’impegno diretto dello Stato nell’educazione (richiesto energicamente
da Lutero nella lettera “Ai consiglieri...”), al pari della gratuità e della obbligatorietà della scuola di
base, diverranno tratti caratterizzanti della modernità pedagogica. La dottrina del libero esame abbat-
terà anche le barriere educative fra i sessi: a tutti deve infatti essere impartita una medesima istruzio-
ne di base, il che non comporta solo - in contrapposizione netta all’aristocraticismo rinascimentale -
l’accesso alle istituzioni scolastiche delle classi popolari, ma anche quello delle donne, valorizzate in
primo luogo nel loro ruolo di future madri e quindi educatrici.
Benchè Lutero metta in luce l’inadeguatezza delle famiglie (insufficiente volontà, capacità, quantità
di tempo) per il compito educativo, egli ritiene però che la famiglia deve essere richiamata al suo
ruolo educativo (svolto per esempio per mezzo della lettura quotidiana di passi della Bibbia da par-
te del capofamiglia), ma soprattutto al suo dovere di far accedere i figli all’istruzione pubblica.
La scuola e il suo curricolo. Il curricolo della scuola popolare luterana si fonda anzitutto sulla
necessità di fornire l’alfabetizzazione necessaria per l’accostamento diretto al testo sacro. Pertanto
si provvederà alla didattica della lettura, da effettuarsi direttamente sulla Bibbia e nella propria lin-
gua (Lutero stesso traduce in tedesco l’Antico e il Nuovo Testamento).
Il programma della scuola luterana è ancora legato alla tradizione là dove prevede l’insegnamento
del latino, del greco, dell’ebraico; accanto a queste discipline è fatto posto anche alla retorica, alla
storia e alla matematica. Dal punto di vista didattico ci si serve ancora abbondantemente dell’ap-
prendimento mnemonico.
Un cenno particolare merita l’importanza attribuita alla musica. La musica polifonica della chiesa
cattolica è divenuto, attraverso i secoli, qualcosa di eccessivamente complesso; inoltre il canto grego-
riano, del quale essa è il monumentale sviluppo, è ormai lontano dalla sensibilità popolare. Lutero
introduce dunque nella liturgia, accanto alla lingua tedesca, il canto popolare, spontaneo, melodico.
Il nuovo tipo di canto religioso prenderà il nome di “corale”: alla musica e al canto corale verrà attri-
buita grande importanza anche nella scuola. Inconcepibile, per Lutero, un maestro che “non sappia
cantare”.
L’atteggiamento anticontemplativo della religiosità luterana porta a valorizzare nella scuola la di-
mensione del lavoro, inteso non più come strumento per acquistare meriti presso Dio (l’uomo, in-
fatti, per Lutero, non è in grado di guadagnarsi la salvezza con le proprie azioni), ma come attività a
cui Dio ci chiama per testimoniare la nostra fede. Questo nuovo modo di intendere l’ideale rinasci-
mentale dell’homo faber favorisce nel mondo luterano la nascita di scuole che coniugano l’alfabetiz-
zazione all’insegnamento di specifiche attività lavorative.
Il metodo. Promotore di una scuola di massa, Lutero auspica una scuola dove si impari “con pia-
cere e giocando” “per un’ora o due al giorno”. Solo i più dotati devono dedicarsi allo studio con mag-
giore intensità. Ed è importante che tutte le scuole abbiano maestri in grado di accostarsi ai fanciulli
con affetto e comprensione, allontanandosi da quei modelli che Lutero aveva ben presenti per la
propria esperienza infantile. Il bambino ha bisogno di aria, di sole, di gioia; perciò nella scuola lute-
rana si fa posto alla ginnastica e ai giochi.
La Controriforma è, nel suo insieme, una grande e complessa iniziativa pedagogica. La reazione del
cattolicesimo alla frattura col mondo della Riforma protestante si caratterizza infatti in campo cultu-
rale e religioso come ferreo controllo sulle produzioni intellettuali e artistiche, ma anche come sforzo
per indurre, attraverso una positiva azione educativa, al rispetto dell’ortodossia.
All’Inquisizione e all’Indice dei Libri Proibiti corrisponde così un rafforzamento della devozione
esteriore, che ha nel culto delle reliquie, nel fasto delle chiese, nei paramenti e nelle processioni, fina-
lità pedagogiche non diverse da quelle medioevali. Ma l’impegno educativo si traduce anche in una
migliore formazione del clero e della classe dirigente. Bisogna infatti, prima di tutto, educare gli edu-
catori, cioè i religiosi, scegliendoli con più severi criteri selettivi, formandoli ad una maggiore consa-
pevolezza della grave missione. Viene ribadito l’obbligo del celibato, è intensificata la sorveglianza,
sono precisati i compiti. Sorgono i Seminari, nuova fondamentale istituzione educativa dell’Occi-
dente europeo. Si cerca di combattere l’influsso della Riforma e del Rinascimento sul loro stesso ter-
reno: quello della scuola. Si fa obbligo ai sacerdoti di occuparsi dell’istruzione, almeno elementare,
dei fanciulli. Si concedono mezzi notevoli agli ordini insegnanti. Si creano collegi universitari catto-
lici, si istituiscono scuole popolari e orfanotrofi; si creano collegi per le classi dirigenti e la formazio-
ne degli intellettuali. Vengono pubblicati libri sacri e catechismi su cui basare un’ortodossa educazio-
ne alla fede, mentre religiosi di formazione umanistica redigono trattati pedagogici orientati al nuovo
spirito educativo. Si vuole ribadire l’autorità della Chiesa, rafforzare l’obbedienza e proporre model-
li culturali “approvati” (come la filosofia tomistica) per controbattere la diffusione delle dottrine ri-
formate. Vengono anche riaffrontati, in una nuova luce, i grandi problemi dell’educazione popolare e
femminile, considerati cruciali per arrestare la diffusione dell’ “eresia”.
Protagonisti di questo nuovo spirito formativo sono numerosi intellettuali che giungono alla vita
ecclesiastica nel quadro di un preciso impegno religioso e sociale e che, nella maggioranza dei casi,
approderanno all’istituzione di nuovi ordini religiosi che hanno nelle finalità educative e scolastiche
uno degli obiettivi principali: in Italia Girolamo Emiliani e Antonio Maria Zaccaria, fondatori dei
due ordini dei Somaschi e dei Barnabiti; Filippo Neri, fondatore degli Congregazione dell’Oratorio,
presente anche in Francia ad opera del cardinale Pierre de Bérulle; Carlo Borromeo, fondatore del
Seminario di Milano, Giuseppe Calasanzio, fondatore della Congregazione dei Padri delle Scuole
Pie, o Scolopi; Silvio Antoniano, ecclesiastico umanista che, col trattato in tre libri Dell’educazione
cristiana e politica dei figlioli (1584) influenzerà anche Jean-Baptiste de la Salle, fondatore in Fran-
cia dell’ordine dei Fratelli delle scuole cristiane.
IGNAZIO DI LOYOLA E L’EDUCAZIONE GESUITICA
L’esperienza educativa più importante nell’ambito controriformistico è legata alla fondazione della
Compagnia di Gesù (1534) da parte di Ignazio di Loyola (1491/1556), nobile capitano spagnolo
giunto alla fede durante la degenza per una ferita di guerra. Ignazio di Loyola volle fondare un ordine
con caratteristiche militari, sia nella forma, sia nella disciplina. Il primo requisito della Compagnia
era infatti l’obbedienza, che doveva essere cieca e assoluta (perinde ac cadaver, con la remissività di
un cadavere), proprio come quella di un soldato in battaglia. Ottimisti nei riguardi dell’umanità, i ge-
suiti rivelano un sostanziale pessimismo nei riguardi della personalità individuale, alla cui autonoma
iniziativa negano la capacità di raggiungere la perfezione morale e religiosa: il singolo può trovare la
salvezza solo mediante l’inserimento in una società perfetta, che assume il carattere di un sistema
rigidamente organizzato, gerarchizzato e accentrato. La via della restaurazione cattolica è quella del
successo terreno della Chiesa; lo strumento atto a garantire il recupero dell’egemonia politica e cul-
turale da parte della Chiesa, è fornito dalla filosofia tomistica. Dal tomismo i Gesuiti derivano la loro
attitudine a concedere apparentemente e resistere in sostanza, accogliendo taluni motivi della cultura
moderna, ma in modo del tutto estrinseco. Ciò permette loro di apparire “moderni”, aperti ad accet-
tare la mutevolezza e la progressività delle tecniche, pur rimanendo ancorati a valori immutabili.
La Ratio studiorum e la diffusione dei collegi. La pedagogia gesuitica può essere considerata una
“pedagogia di guerra”, in cui la cultura riveste il ruolo di uno strumento atto a favorire l’obbedienza
alla fede. Per Ignazio di Loyola la difesa della Chiesa contro l’eresia deve passare attraverso il con-
trollo sulle classi dominanti, dunque occorre anzitutto un’accurata formazione dei giovani in appo-
siti collegi. Il documento nel quale si condensano i principi educativi, didattici ed organizzativi dei
collegi gesuitici è la Ratio atque institutio studiorum (1599), che contiene un insieme organico di re-
gole per i Superiori, i professori e gli alunni, in una forma che resterà inalterata per più di due secoli
e che costituirà un esempio paradigmatico per la scuola europea dei Paesi cattolici.
La fioritura dei collegi (il primo collegio aperto anche alla frequenza dei laici nasce a Messina nel
1548) procede con notevole rapidità: per circa due secoli la scuola sarà, in gran parte d’Europa e del
mondo, o direttamente gestita o organizzata secondo le loro direttive. All’interno dei collegi gesuitici
si formerà anche la maggioranza di quegli intellettuali laici, come Cartesio e Voltaire, che approde-
ranno a posizioni di distacco o di esplicita polemica rispetto alla cultura gesuitica stessa.
Revisione globale del ruolo della cultura di fronte alle nuove necessità:
libertà di coscienza -> libero esame dei testi sacri -> capacità di leggere
curricolo della scuola alfabetizzazione -> lettura della Bibbia nella propria lingua
popolare luterana
valorizzazione del lavoro -> insegnamento professionale
Ignazio di Loyola (1491 - 1556) -> Compagnia di Gesù (1534) Costituzioni, Esercizi Spirituali
a) controllo sulle classi dominanti (aristocrazia e ricca borghesia)
b) accurata formazione dei giovani religiosi collegi -> Ratio Studiorum (1599)
interesse attivo
obbedienza assoluta massimo profitto emulazione
eccellenza
promozione
studi superiori: corso umanistico -> 3 classi di grammatica, 4° di humanitas, 5° di retorica bocciatura
corso filosofico 3 anni -> corso teologico 4 anni (formazione dei religiosi) ammissione
prelezione / composizione / ripetizione “sub judice”
organizzazione pratica minuziosa della vita della scuola -> sguardo “panottico”
dispute DELAZIONE
I mezzi posti in atto all’interno della disciplina gesuitica erano costituiti da una sorveglianza conti-
nua su ogni momento della giornata. E’ Michel Foucault a offrire gli strumenti concettuali per com-
prendere tale dispositivo pedagogico, laddove tratta di uno sguardo “panottico”*, della richiesta isti-
tuzionalizzata di delazione, delle punizioni corporali e della loro metamorfosi in una “tecnologia del
corpo” capace di agire sull’anima, di un controllo capillare su tutti gli allievi e sui loro ‘scrupoli’:
“Tecniche minuziose sempre, spesso modestissime, ma tutte con una loro importanza: poichè de-
finiscono una nuova microfisica del potere; piccole astuzie dotate di grande efficacia di diffusione,
disposizioni sottili, di apparenza innocente, ma profondamente insinuanti (...) In questa tradizione
dell’eminenza del dettaglio verranno a collocarsi tutte le meticolosità dell’educazione cristiana, della
pedagogia scolare e militare, di tutte le forme di addestramento.”
“Nella disciplina l’unità non è né il luogo (unità di residenza) né il territorio (unità di dominazio-
ne), ma il “rango”: il posto occupato in una classificazione (...) La disciplina: arte del rango e tecnica
per la trasformazione delle destinazioni (...) Sia l’esempio della “classe”. Nei collegi dei gesuiti tro-
viamo una organizzazione binaria e massiva. Le classi, che potevano contare fino a due o trecento
allievi, erano divise in gruppi di dieci; ciascuno di questi gruppi con un suo decurione era assegnato
ad un campo, il romano o il cartaginese; ad ogni decuria corrispondeva una decuria avversaria. La
forma generale era quella della guerra e della rivalità; il lavoro, l’apprendimento, la classificazione
venivano effettuati sotto forma di torneo, attraverso l’affrontarsi di due eserciti; la prestazione di
ogni allievo era inscritta in quel duello generale e assicurava la vittoria o le disfatte di un campo. Gli
allievi si vedevano assegnare un posto che corrispondeva alla funzione di ciascuno ed al suo valore
di combattente nel gruppo unitario della sua decuria. Questa commedia romana permetteva di legare
agli esercizi binari della rivalità, una disposizione spaziale ispirata alla gerarchia ed alla sorveglianza
piramidale”. M. Foucault, Sorvegliare e punire, Einaudi, 1976
L’educatore gesuita si sforza di far vivere il bambino in un universo chiuso e controllato perchè lo
considera in preda ad una duplice minaccia: da una parte il bambino è talmente debole che qualsiasi
incontro, per quanto breve, con la ‘tentazione’ rischia di avere un effetto catastrofico. Dall’altra par-
te il bambino ha una tendenza “naturale” verso il male che rende necessaria una sorveglianza che ret-
tifichi la spontaneità infantile, depurandola da ogni tendenza deviante.
Foucault, che ha studiato l’evolversi delle tecniche disciplinari (e quindi delle tecniche educative)
nella storia moderna, ricorda come altro esempio significativo il caso dei Fratelli delle scuole cri-
stiane. La congregazione dei Fratelli delle scuole cristiane si diffuse in Francia verso il 1680, e si de-
dicò sia all’istituzione di scuole ed istituti per la formazione degli insegnanti, sia all’organizzazione
di una rete di scuole elementari popolari e di corsi di addestramento tecnico.
I rudimenti di lettura, scrittura e calcolo venivano insegnati a classi molto numerose, nelle quali la
preoccupazione fondamentale era quella di mantenere la disciplina affermando l’autorità del mae-
stro. Foucault prende la congregazione fondata da J. B. La Salle come paradigma del modo in cui il
potere si impossessa sempre più dell’individuo attraverso un processo nel quale, accanto alle forme
di disciplina basate sulle punizioni corporali, si passa ad un controllo più sottile, che irreggimenta i
corpi e le menti attraverso uno sguardo totalizzante sui singoli movimenti della persona nella sua
intimità:
“Il controllo disciplinare non consiste semplicemente nell’insegnare o nell’imporre una serie di ge-
*Panopticon (J. Bentham): edificio la cui pianta risulta costituita da corpi disposti radialmente intorno
ad un punto centrale, dal quale è possibile la vigilanza dell’ intero complesso (costruzioni carcerarie)
sti definiti; esso impone tra un gesto e l’attitudine globale del corpo la relazione migliore, che è con-
dizione di efficacia e di rapidità. Nel buon impiego del corpo, che permette un buon impiego del
tempo, niente deve rimanere ozioso o inutile; tutto deve essere chiamato a formare il supporto del-
l’atto richiesto. Un corpo ben disciplinato forma il contesto operativo del minimo gesto. Una buona
scrittura, ad esempio, presuppone un codice rigoroso che investe il corpo per intero, dalla punta del
piede alla punta dell’indice. Bisogna “tenere il corpo diritto, un pò girato e sciolto verso il lato sini-
stro, e sia pur poco inclinato sul davanti, in modo che, essendo il gomito poggiato sulla tavola, il
mento possa essere poggiato sul pugno, a meno che la portata della vista non lo permetta; la gamba
sinistra deve essere un poco più in avanti, sotto il tavolo, della destra. Bisogna lasciare una distanza
di due dita del corpo al tavolo, poichè non solamente si scrive con maggiore prontezza, ma perchè
niente è più nocivo alla salute del contrarre l’abitudine di appoggiare lo stomaco contro il tavolo. Il
braccio destro deve essere lontano dal corpo circa tre dita ed uscire di circa cinque dita dal tavolo sul
quale deve appoggiare leggermente. Il maestro farà conoscere agli scolari la posizione che essi devo-
no tenere scrivendo, e la correggerà con un segno o in altro modo, quando se ne allontanassero”.
(J.B. La Salle, Conduite des écoles chrétiennes). Un corpo disciplinato è il sostegno di un gesto
efficace.” (M. Foucault, op. cit.)
L’allievo, sostiene Foucault, viene sempre di più isolato nella sua individualità per controllarlo me-
glio. Per Foucault tutte le scienze psicosociali hanno avuto possibilità di esistere, in quanto scienze
pedagogiche, solo quando l’uomo non è stato più considerato all’interno del suo clan o in riferimen-
to ai suoi antenati, ma invece come ‘uomo calcolabile’, nel corso di appositi esami, in seguito alle
note che lo definiscono pezzo per pezzo, alle note comparative che su di lui si effettuano in ogni
settore. Questa nuova modalità educativa è chiamata da Foucault nuova tecnologia del potere; essa
utilizza un’analisi minuziosa delle possibilità gestuali, comportamentali e disciplinari del corpo stes-
so all’interno di un certo contesto sociale ed educativo (nei collegi l’allievo non è mai lasciato solo).
Uno di questi modi di controllo è costituito dall’esame:
“L’esame combina le tecniche della gerarchia che sorveglia con quelle della sanzione che normalizza.
E’ un controllo normalizzatore, una sorveglianza che permette di qualificare, classificare, punire. La
scuola diviene una sorta di apparato di esame ininterrotto (..) I Fratelli delle scuole cristiane voleva-
no che i loro allievi avessero una prova in ogni giorno della settimana: il primo di ortografia, il secon-
do di aritmetica, il terzo di catechismo al mattino e di calligrafia il pomeriggio, ecc. (...) L’esame co-
me fissazione, nello stesso tempo rituale e “scientifica” delle differenze individuali, come spillatura
di ciascuno alla propria singolarità (in opposizione alla cerimonia in cui si manifestano gli status, la
nascita, i privilegi, le funzioni, con tutto lo splendore dei loro segni) mostra bene l’apparizione di
una nuova modalità del potere in cui ciascuno riceve come status la propria individualità ed in cui è
statutariamente legato ai tratti, agli scarti, alle “note” che lo caratterizzano e fanno di lui, in ogni mo-
do, un caso”. (M. Foucault, op. cit.)
COMENIO
Jan Amos Komensky (Nivmitz 1592 /Amsterdam 1670), pastore del gruppo religioso dei Fratelli
Boemi e ministro della Chiesa hussita, ebbe una vita assai travagliata a causa della guerra dei trenta
anni e delle persecuzioni religiose contro il suo gruppo: il saccheggio delle truppe imperiali lo priva
della sua casa (nella città di Fulnek) e della sua biblioteca, i cui libri vengono bruciati in piazza.
Sarà più volte costretto a cambiare paese. Grazie ai suoi scritti (Janua linguarum reserata,1628-
31; Didactica magna,1638; Pansofia, 1645; Orbis sensualium pictus, 1658, ecc) diventa famoso e
viene visto quasi come incarnazione del modello rinascimentale di “uomo universale”, in quanto
maestro di fama internazionale, teologo, linguista e scienziato. Viene invitato in numerose nazioni
europee come l’Inghilterra, la Francia, la Svezia, per organizzare la riforma degli studi. Profugo in
Ungheria, si dedica ancora alla riforma della scuola. Nel 1656 è ancora costretto a fuggire: nell’incen-
dio della città di Lezno, in Polonia, perde nuovamente parte delle sue opere. Si rifugia ad Amster-
dam, dove trascorre gli anni che gli restano.
Filosofo e pedagogista, uomo di scuola e teologo, Comenio è l’ultimo e più grande erede della tradi-
zione rinascimentale e dello spirito religioso della riforma protestante; egli fu influenzato sia dalle ri-
vendicazioni riformatrici in campo educativo dei suoi predecessori (Ratke, Alsted, Andrëa) che cri-
ticavano l’educazione tradizionale per lo studio mnemonico, per l’astrattezza, per l’uso totalizzante
del latino cui contrapponevano l’introduzione delle lingue nazionali, sia dall’empirismo di Bacone.
Infatti Comenio fece proprio l’invito a partire dall’esperienza e dall’osservazione della natura per
quella che è, cercando di applicarlo alla pedagogia.
Comenio pose come prima istanza la necessità di un’educazione universale (pampaedia), cioè
un’educazione che deve essere data a tutti gli uomini di ogni razza, ceto, sesso, religione, età , che
deve riguardare ogni cosa e mirare alla diffusione universale del sapere (pansofia), che deve essere
impartita in ogni modo possibile.
“Noi bramiamo che tutti gli uomini siano pansofi e cioè: 1) comprendano le articolazioni delle cose,
dei pensieri e dei discorsi; 2) comprendano gli scopi di tutte le azioni, proprie e altrui, i mezzi e i modi
per realizzarli; 3) sappiano distinguere nelle azioni - come nei pensieri e nelle parole - che si diffondono
e si confondono, l’essenziale dall’accidentale, l’indifferente dal nocivo” (Comenio, Pampaedia).
Comenio propone una prospettiva che, contemplando l’insieme di tutti i saperi, sappia trapiantar-
lo “nelle menti, nelle lingue, nei cuori e nelle mani” di tutti gli uomini, per poter raggiungere la pace e
la concordia universale, la capacità di tolleranza reciproca, una convivenza umana armoniosa.
Il metodo e i contenuti
La riflessione di Comenio è mirata a istituire la specificità del discorso pedagogico come ambito di-
sciplinare caratterizzato dalla centralità del metodo, e quindi di una didattica capace di estendersi al-
l’intera organizzazione della prassi educativa. Comenio individua i principi da applicare all’arte del-
l’insegnamento, partendo dal presupposto che tutti gli uomini hanno in comune la stessa natura e gli
stessi fini educativi. Lo studio del mondo naturale ci permette dunque di individuare quei principi
comuni che si fondano sui criteri dell’universalità e della semplicità.
La formula comeniana del “tutto a tutti” (universalità) va intesa nel senso che tutti devono avere
l’opportunità di accedere fin dall’inizio ai fondamenti dei diversi saperi.
Per Comenio il metodo deve essere sempre semplice e facile: “tutto pratico e tutto gradevole e tale
che per mezzo di esso la scuola diventi veramente un gioco, cioè un dolce preludio a tutta la vita.
Ciò avverrà se tutte le attività della vita umana saranno ridotte alla portata dei ragazzi, non soltanto
in funzione dell’apprendimento, ma anche di un autentico diletto” (Comenio, Pampaedia).
La semplicità rimanda alla necessità di “partire dai sensi”. La mente umana, al momento della na-
scita, è una tabula rasa: Comenio afferma che la conoscenza inizia sempre dai sensi, i quali “sono le
porte attraverso le quali le cose, poste fuori dell’uomo, si aprono l’accesso alla sua anima”.
“Niente è nell’intelletto che prima non sia stato nel senso. Esercitare, quindi, i sensi a ben percepire le
differenze delle cose significa gettare le fondamenta di tutta la sapienza, di tutte le prudenti attività della
vita umana” (J. A. Comenio, Orbis sensualium pictus)
Solamente l’esperienza diretta offre dunque all’uomo conoscenze “certe”. La “regola aurea” degli
insegnanti sarà quella di presentare le cose “a tutti i sensi possibili”: se le cose possono essere per-
cepite da più sensi, “si presentino contemporaneamente a più sensi”. Comenio consiglia perciò ai
maestri di presentare agli alunni oggetti reali (“ben più facilmente - dice - resterà in me l’immagine
dell’elefante se lo avrò visto anche una sola volta che non se mi sarà stato descritto decine di volte”);
quando ciò non è possibile si devono utilizzare dei modelli o delle illustrazioni. A questo proposito
si parla generalmente di realismo gnoseologico e pedagogico.
Per poter insegnare tutto a tutti e in tutte le età occorre considerare le possibilità intellettive e le
capacità di apprendimento proprie di ciascuna età, e quindi osservare lo sviluppo progressivo della
natura del bambino, del giovane, dell’uomo, e del loro modo di apprendere dall’istruzione diretta
delle cose. Ne derivano i criteri della naturalità, della gradualità, della ciclicità. .
(1) Il criterio della naturalità comporta che l’educatore rispetti lo sviluppo progressivo della natu-
ra del bambino: come la natura prepara il terreno adatto alla crescita della pianticella, così il maestro
“prepara il terreno” per la crescita dell’alunno.
(2) La natura, inoltre, non procede per salti, ma passo dopo passo: tutto il curriculum di studi deve
così essere organizzato con gradualità. Occorre che al suo interno vi sia una successione di gradi
progressivi di approfondimento, partendo sempre dal semplice e dal generale per arrivare al com-
plesso e particolare. Il curriculum degli studi deve seguire tale ordine logico-evolutivo assecondando
le tappe dello sviluppo in relazione all’età ed agli interessi dell’educando.
Si partirà dunque dall’esercizio delle facoltà legate ai sensi esterni, si proseguirà con esercizio della
memoria e dell’immaginazione (sensi interni), per giungere all’attivarsi della volontà ed alla com-
prensione piena dell’uomo adulto.
(3) L’essere umano è “completo” a qualunque età: quindi anche la personalità del bambino è già
compiuta in sé, ed è solo diversa rispetto a quella dell’adulto. Partendo da questa premessa, Come-
nio ritiene che nell’insegnamento occorre esporre tutto il sapere nella sua globalità fin dall’infanzia,
presentandolo dapprima in forma molto semplice e generale e dandone poi nelle età successive una
presentazione via via più specifica, più completa e complessa. É il principio della ciclicità, secondo
il quale i vari momenti della vita scolastica sono scanditi da una “ciclica” riproposta di contenuti
uguali, ma diversamente approfonditi. Per Comenio è molto importante che vengano offerti elementi
di tutto il sapere fin dall’inizio della vita, in modo che poi più avanti la persona non debba mai tro-
varsi di fronte a oggetti culturali sconosciuti, ma sempre di fronte a qualcosa che gli è già noto, con
cui ha già familiarizzato fin dall’infanzia.
Comenio ritiene che nella scuola del suo tempo, elitaria e lontana da qualunque efficacia pratica, la
didattica tenda a trascurare ciò che è importante, determinando negli alunni scarso interesse per la
maggior parte delle materie. Il rimedio si può trovare: 1) insegnando solo argomenti di sicura utilità
e, comunque, collegandoli tra loro; 2) radicando profondamente gli argomenti, in modo che ogni inse-
gnamento successivo possa basarsi sul precedente; 3) usando tutte le descrizioni possibili; 4) rispet-
tando il criterio della consequenzialità e della contemporaneità; 5) facendo continui esercizi.
Istruire non significa quindi sovraccaricare la mente degli alunni di nozioni, fondandosi sull’imitazio-
ne, ma aprire la mente all’intelligenza, ricavando il sapere non dai libri, ma dalla natura, come faceva-
no gli antichi.
L’organizzazione scolastica
Tutti gli uomini necessitano di una regolare educazione, ogni uomo deve essere educato, qualunque
sia la sua funzione nel mondo: “tutti ugualmente i fanciulli e le fanciulle, nobili e no, ricchi e poveri”.
Comenio ritiene che “dovunque si devono far sorgere scuole pubbliche”: occorre accrescere il nume-
ro delle istituzioni scolastiche, affinchè ogni città, borgata o villaggio ne disponga. E a queste scuole
devono poter avere accesso tutti.
Al pari degli uomini, anche le donne devono ricevere l’educazione, in quanto sono anch’esse crea-
ture di Dio, dotate di mente sveglia e capace di sapienza, spesso più di quella degli uomini.
Anche le creature meno dotate possono trarre vantaggio dall’educazione. É indispensabile dunque
che la collettività stessa si prenda cura di tutti i suoi membri, anche di quelli ‘anormali’, affidi a per-
sone scelte e preparate l’incarico di maestro e riunisca insieme grandi gruppi di giovani, che attraver-
so l’esempio, l’emulazione, il mutuo aiuto imparino tutti insieme.
Per Comenio la scuola “deve essere un luogo bello che offra, dentro e fuori, piacevole spettacolo
alla vista. All’interno l’ambiente sia luminoso, pulito, adorno dappertutto di dipinti, effigi, di uomi-
ni illustri oppure mappe coreografiche, o memorie storiche, o emblemi. Di fuori, invece, adiacente
alla scuola, ci deve essere non solo uno spazio per giocare e camminare, ma anche un giardino ove
portare i fanciulli perchè essi possano ricrearsi gli occhi alla vista di alberi, fiori, erbe.”
Ogni fase nella scuola va organizzata e predisposta nel tempo, nello spazio, nei contenuti, nelle
prestazioni richieste. La scuola per Comenio riguarda tutta la vita e comincia dalla fase prenatale, in
cui occorre dare consigli ai genitori per la procreazione e per un buon rapporto della madre con il fi-
glio nel suo grembo, a cui succede la Schola materna, fino a sei anni, in cui l’educazione è data ai ge-
nitori che devono cominciare a mostrare al bimbo i primi semplicissimi elementi della pansofia.
Quest’ultima viene ripresa come ciclo successivo della Schola vernacula (fino ai 12 anni), in cui si
insegna la lingua nazionale e si avvicina il bambino alla natura esterna. Segue la Schola latina (o gin-
nasio), fino a 18 anni, in cui si introduce lo studio delle lingue classiche per capire il presente attra-
verso il confronto con il passato, e poi la grammatica, le scienze naturali, la fisica, la matematica, la
retorica, la dialettica, l’etica, ampliando sempre più la comprensione pansofica del mondo. I più ca-
paci proseguono nell’Accademia (fino a 24 anni), a cui segue da ultimo la Schola scolarum, cioè la
scuola che prepara a diventare maestro. Ma anche la maturità e la vecchiaia costituiscono per l’uo-
mo una scuola, quella in cui la vita stessa si fa scuola e si impara a vivere serenamente con le capa-
cità e le caratteristiche proprie di quella età. Per Comenio dunque l’uomo impara tutta la vita.
L’Orbis sensualium pictus (cioè “Il mondo delle cose sensibili illustrato”) viene definito dall’autore
come un lucidarium, cioè come un sussidio figurato per lo studio delle lingue. In realtà, a buona ra-
gione esso può ritenersi una delle opere culminanti dell’attività pedagogica di Comenio, in cui si ma-
nifestano con chiarezza i motivi ispiratori della sua teoria: il realismo e la pansofia.
Il testo è rivolto a tutti i giovani e destinato a una prima educazione di base: si tratta di un riassun-
to chiaro e sistematico delle conoscenze dell’intero scibile umano. Le immagini (“figure”) di “ciò che
è visibile nel mondo”, sono accompagnate da un titolo (“nomenclatura”) che consente di afferrarne
sinteticamente il contenuto e da una didascalia (“descrizione”) che le descrive e spiega più ampia-
mente. Comenio inaugura così la tradizione manualistica ed enciclopedica del libro illustrato per l’in-
fanzia.
COMENIO (Jan Amos Komensky, Nivmitz 1592 - Amsterdam1670)
Didactica magna (1638) Janua linguarum reserata (1628-31) Orbis sensualium pictus (1658)
Educazione -> tutti gli uomini di ogni razza, ceto, sesso, religione, età
(pampaedia)
universale riguardante ogni cosa, (pansofia) impartita in ogni modo possibile
prospettiva che sappia contemplare lʼinsieme di tutti i saperi -> Pace universale
Gradualità -> il curriculum degli studi deve seguire un ordine logico-evolutivo che proceda dal
semplice al complesso, dal generico allo specifico, assecondando le tappe dello
sviluppo in relazione allʼetà ed agli interessi dellʼeducando
Ciclicità -> esporre tutto il sapere nella sua globalità fin dallʼinfanzia, dapprima
in forma semplice e generale, successivamente in forma via via più
specifica, completa e complessa
Sul piano della vita quotidiana e della formazione diffusa, si può osservare che nel Seicento conti-
nua quella tendenza secondo la quale si assiste progressivamente alla formazione del sentimento del-
l’individualità. Siamo in un periodo di transizione, in cui si sta passando dalle forme aggregative
amplissime del medioevo (quando la vita dell’individuo si svolgeva costantemente in mezzo agli al-
tri, si era sempre in gruppo e la socievolezza costituiva il principio esistenziale fondamentale) a mo-
di di vita nei quali l’individuo, in particolare il borghese, comincia a ritagliarsi spazi privati, vale a
dire a costituire nuclei familiari sempre meno allargati, a sviluppare così il senso della famiglia e pa-
rallelamente dell’infanzia, intesa progressivamente come un’età con valenze specifiche e con carat-
teristiche diverse da quella adulta.
Il Seicento, dopo il Cinquecento, è il secolo in cui più si sviluppa l’idea della necessità di imparare
e seguire le buone maniere, in cui si diffondono molti manuali su come ci si deve comportare a ta-
vola, riguardo ai bisogni corporali, nelle occasioni di incontro sociale, su come parlare e su quali ar-
gomenti conviene discorrere: “Le regole delle buone maniere - dice J. Revel, (Gli ‘usi’ delle buone
maniere, in Ariès, Duby, a cura di, La vita privata) - possono essere intese come un’operazione di
delimitazione, anzi come una negazione della vita privata. Si può così tentare di seguire, lungo tre
secoli, lo spostamento di quella frontiera che, progressivamente, riduce il privato all’intimo, poi l’in-
timo al segreto, anzi all’inconfessabile.”
A causa dell’imporsi delle buone maniere ciò che prima si faceva in pubblico ora si fa nel privato,
fino al punto in cui si ha vergogna (nasce infatti parallelamente anche il senso della vergogna e del
pudore) di compierlo anche nell’intimità, e quindi non si osa comunicarlo agli altri e neppure a se
stessi. Si assiste a una progressiva interiorizzazione sociale e individuale della norma, così che l’in-
dividuo ne diventa complice inconsapevole e si assume tutto il peso di corrispondere più che può a
tale aspettativa sociale, pena l’aumento intollerabile del senso di colpa.
Sembra di poter affermare che il dispositivo pedagogico presente nelle pratiche educative del Sei-
cento consista da una parte nella prosecuzione delle forme tradizionali di esperienza, in cui i giovani
si formavano essenzialmente attraverso la partecipazione precoce e piena alla vita sociale collettiva,
in cui stavano assieme promiscuamente giovani, adulti e anziani, in cui cioè la socializzazione diffu-
sa era il tramite fondamentale della riproduzione culturale e comportamentale a fini di integrazione
sociale. Dall’altra parte assistiamo allo svilupparsi di un dispositivo più specifico che, tramite i col-
legi, le scuole religiose, la nuova disciplina, i codici diffusi sulle buone maniere, indirizzano intenzio-
nalmente e programmaticamente le condotte, i comportamenti anche quotidiani, i saperi e le cono-
scenze, la vita morale, l’uso del tempo libero, insomma la formazione del giovane, verso modalità di
riproduzione e di integrazione sociale sempre più controllate e mirate.
Nel Seicento continua il fenomeno dell’apprendistato del giovane, se povero o piccolo-borghese,
presso famiglie dove impara un mestiere e una condotta adeguata, se ricco e nobile presso famiglie
aristocratiche o presso corti, anche straniere, dove acquisire le buone maniere e l’etichetta del pro-
prio rango. Per quanto riguarda l’educazione femminile, le ragazze per lo più continuavano a rimane-
re prive di una educazione approfondita, sia che restassero ad apprendere dalle donne di casa le tra-
dizionali funzioni femminili, sia che fossero destinate all’educazione conventuale. Varie le ragioni
dell’ingresso in convento: ci sono figlie di famiglie nobili o ricche che vengono destinate fin da bam-
bine alla monacazione, altre della medesima estrazione che rimangono in convento solo il tempo ne-
cessario a ricevere un’opportuna formazione, infine fanciulle delle classi popolari accolte per carità,
e quindi indotte a prendere i voti.
Molte le congregazioni che che nascono a scopi caritativi ma anche di alfabetizzazione delle bambi-
ne; emblematico il caso dell’ordine delle “Orsoline” (fondato nel 1535) al fine di “consolare le vergi-
nelle afflitte, istruire le ignoranti, sollevare le povere, visitare le malate e abbracciare ogni disagio”.
PEDAGOGIA
TEMI E PROBLEMI
EDUCAZIONE, EDUCABILITÀ E POTENZIALE FORMATIVO
Educazione e apprendimento.
L’insegnamento ha per gli esseri umani una base naturale, dimostrata dal fatto che si produce sponta-
neamente tra adulti e bambini. Allo stesso tempo, però, l’insegnamento assume presto le caratteristiche
“artificiali” di un processo razionalmente diretto e programmato (come avviene per esempio a scuola)
per ottenere la massima efficacia di apprendimento. E’ inevitabile, infatti, che l’attività dell’insegnare
comporti qualcosa che va al di là delle modalità naturali dell’apprendimento, perchè canalizza, prestabi-
lisce, programma situazioni che nell’apprendimento spontaneo potrebbero non prodursi. Quindi l’inse-
gnamento produce un tipo di apprendimento in qualche modo “artificiale”. Il rapporto tra insegnamento
e apprendimento spontaneo, o meglio ancora tra apprendimento spontaneo e apprendimento artificia-
le, è così uno delle grandi questioni della riflessione pedagogica. . Carl Rogers distingue due tipi di ap-
prendimento: un apprendimento che chiama in causa solo la mente, coinvolge l’individuo esclusiva-
mente “dal collo in sù”, che non tiene conto di sentimenti o significati personali; un apprendimento
significativo che, all’estremùo opposto, è basato sull’esperienza ed è capace di destare gli interessi vitali
del soggetto che apprende: “Quando il bambino che muove incerto i suoi primi passi tocca il termosifo-
ne acceso, impara da solo il significato di una parola: “caldo”; egli ha inoltre appreso una regola di
prudenza”.
Problematicità dell’educazione e potenziale formativo
L’efficacia dell’insegnamento e dell’attività formativa in genere dipendono anche dal potenziale forma-
tivo coinvolto. L’attività educativa ha al suo centro l’uomo nella sua realtà individuale e sociale, con i li-
miti che caratterizzano il suo potenziale formativo. L’espressione “potenziale formativo” indica anzi-
tutto la misura di ciò che nell’uomo può essere sviluppato mediante educazione; si tratta di un insieme
di potenzialità individuali che devono sempre, inevitabilmente, essere in parte ipotizzate, in mancanza
di conoscenze, strumenti e procedimenti in grado di fornire su di esse previsioni complete.
L’educazione contiene perciò un elemento di “scommessa” e “rischio”, che consiste nel compiere azioni
formative la cui efficacia dipende da caratteristiche dell’allievo “probabili” anzichè “certe”: si entra qui
nella riflessione sulla educabilità di ogni singolo uomo. Ma l’espressione “potenziale formativo” può
indicare anche la misura di ciò che determinate agenzie o azioni possono produrre nell’ambiente educati-
vo. Da questo punto di vista si può parlare di “potenziale formativo” della scuola, dei mass-media, della
famiglia, del gruppo dei pari.
EDUCAZIONE
azione formativa
1. educazione, istruzione, formazione
processo formativo
6. Educazione e
progetto sociale integrazione e trasmissione culturale
antropologia => inculturazione
pedagogia => educazione sociale famiglia
scuola
agenzie educative gruppo dei pari
mass-media
ambiente di lavoro
modelli di socializzazione associazioni e istituzioni
(Rudolph Schaffer: testo)
Motivazioni => ciò che attiva e dirige un individuo verso una meta “need” -> “drive”
bisogno impulso
primarie -> bisogni naturali (carenziali)
vs
secondarie -> bisogni “culturali” (indotti)
Secondo alcuni studiosi, come ad esempio Jerome Bruner, i modelli educativi e pedagogici sono
culturalmente condizionati e condizionanti, nel senso che tendono a creare la realtà che descrivono.
Tali caratteristiche non sono solo proprie di quei modelli che dipendono esplicitamente da ideologie
o concezioni religiose, ma appartengono anche alle concezioni qualificate come “scientifiche”, am-
piamente diffuse nella pedagogia dell’ultimo secolo. La riflessione contemporanea ha infatti ormai
scartato l’idea di una scienza capace di fornire una descrizione della realtà come è effettivamente in
sé, pertanto nessuna teoria può essere considerata “vera” in senso assoluto e definitivo. Quindi an-
che i modelli pedagogici di derivazione più spiccatamente scientifica non possono essere considerati
di per sé “veri”, analogamente ai modelli educativi che si sviluppano nelle pratiche sociali e nella
“psicologia ingenua” degli individui. Occorre perciò valutare attentamente il significato di ciascun
modello rispetto ai risultati che si intende produrre.
La trasmissione dei modelli educativi dipende in primo luogo dal loro essere parte integrante di una
cultura. Ciò significa che essi sono saldamente collegati alle concezioni ed alle forme di organizzazio-
ne di ciascuna società. La loro trasmissione non può dunque essere distinta dal processo globale di
trasmissione della cultura e può essere prevalentemente informale e non-intenzionale senza per que-
sto diminuire di efficacia. Particolarmente significative sono, a questo proposito, le indagini a carat-
tere storico-sociologico condotte sulle immagini della nostra cultura e sulle pratiche educative da es-
se generate (si pensi, ad esempio, alle osservazioni di Philippe Ariès sulla nascita del senso dell’”in-
nocenza” infantile nell’età moderna).
É stato invece merito di esponenti della Scuola di Francoforte come T. W. Adorno ed E. Fromm, di
psicoanalisti come Alice Miller, Erik Erikson, l’aver messo in luce il rapporto esistente fra partico-
lari strutture sociali e familiari e lo sviluppo, mediante pratiche educative, di personalità particolari e
patologiche. Secondo questi studiosi i meccanismi che portano alla “persecuzione del bambino”, alla
genesi di “personalità autoritarie” sono profondamente connessi con l’organizzazione di base della
società e con la sua cultura, e si riproducono con esse. Sulla scia di simili concezioni ci si è dunque
preoccupati di delineare il rapporto fra le trasformazioni storico-culturali della società contempora-
nea e i modelli educativi che ad esse si accompagnano.
Molte riflessioni si sono incentrate sulle implicazioni pedagogiche del passaggio fra moderno e
postmoderno, delineato a partire dagli anni ottanta come categoria interpretativa della nostra epoca.
L’analisi dei modelli educativi generali della nostra società è oggi particolarmente complessa, a cau-
sa anche della transizione fondamentale che caratterizza il presente. Il punto di partenza di questa
transizione è quello della società industriale. Se già nel 1970 Walter Richmond proponeva di accet-
tare, come verità evidenti e interdipendenti, che l’educazione è un processo sociale e che “viviamo in
una società industriale”, a circa quarant’anni di distanza le “parole d’ordine” della società contempo-
ranea continuano ad essere caratterizzate da immagini economiche ed imprenditoriali: il “mercato”,
la “managerialità”, la “redditività”, la “spendibilità” e così via. Si parla sempre più spesso di “scuola
come impresa” e di “managerialità educativa”. Inoltre lo sviluppo degli apparati industriali e del si-
stema economico del nostro secolo ha prodotto una mentalità dominante caratterizzata dal ricono-
scere in essi “valori” a sé stanti. Secondo questa visione l’educazione è efficace quando viene gestita
con le stesse modalità di un processo produttivo in campo economico. I fini del processo educativo
sono così nella formazione di soggetti dotati di capacità funzionali alle richieste del sistema produt-
tivo, specialisti capaci di dominare i saperi particolari di volta in volta ritenuti necessari. I mezzi
consistono nella programmazione e nella pianificazione razionale di obiettivi e percorsi, nella co-
struzione di una adeguata tecnologia educativa fondata su valutazioni concrete e impersonali della
produttività e delle azioni formative. In una società caratterizzata dall’esplosione demografica, dalla
scolarizzazione di massa, dalla professionalizzazione del lavoro e dal moltiplicarsi delle aspettative,
il modello educativo dello “specialista” viene perciò ritenuto non solo adatto a una positiva integra-
zione, ma capace anche di promuovere quell’uguaglianza di opportunità e quell’emancipazione che
sono gli obiettivi fondamentali della pianificazione politica del XX secolo.
I modelli formativi
moderno postmoderno
modello ed. tipico della società moderno-industriale modello ed. tipico della società postmoderna dominata
dominata da scienza e tecnologia. Per esso i fini del dall’informazione e dalla comunicazione. Per esso i fini
processo educativo sono nella formazione di soggetti del processo educativo sono nella formazione di un
dotati di capacità perfettamente funzionali alle richieste “uomo polivalente”, capace di coniugare umanesimo e
del sistema produttivo, specialisti capaci di dominare i specialismo in modo da tene re assieme i saperi parti-
saperi particolari di volta in volta ritenuti necessari. colari e i vari “punti di vista”, di saper rispondere effi-
cacemente alle innovazioni, comprenderle e controllarle
attraverso una cultura personale che va al di là delle
esigenze dell’immediato.
descrizione comprensione
informazione “understanding”
produttività demistificazione
certezza complessità
coerenza disponibilità
metodologica al cambiamento
I MODELLI FORMATIVI
ATTIVITA’
FORMATIVA
informale formale
formazione
“diffusa”
tradizionalista tecnocratico progressista
MODELLI FORMATIVI
MODERNO POSTMODERNO
DISCORSI PEDAGOGICI
ufficiale contestatario
umanista innovatore
funzionale
I MODELLI FORMATIVI
informale -> formazione diffusa “discorsi”:
non intenzionale
modelli educativi umanista
attività formativa tradizionalista ufficiale
postmoderno
extrascolastica
potenziamento degli aspetti estensione delle
intenzionali dellʼ educazione attività programmate educazione permanente
integrale / sociale
modelli educativi e pedagogici
i modelli come “mondi possibili”:
“nessuna teoria è “vera” in senso assoluto”
psicoanalisi
la trasmissione dei contributi
modelli educativi della
microsociologia.
I modelli formativi
moderno postmoderno
m. e. tipico della società moderno-industriale domi- m. e. tipico della società postmoderna dominata
nata da scienza e tecnologia. Per esso i fini del dallʼ informazione e dalla comunicazione.
processo educativo sono nella formazione di Per esso i fini del processo educativo sono nella
soggetti dotati di capacità perfettamente funzio- formazione di un “uomo polivalente”, capace di
nali alle richieste del sistema produttivo, specialisti coniugare umanesimo e specialismo in modo da tene-
capaci di dominare i saperi particolari di volta in re assieme i saperi particolari e i vari “punti di vista”,
volta ritenuti necessari. di saper rispondere efficacemente alle innovazioni,
comprenderle e controllarle attraverso una cultura per-
sonale che va al di là delle esigenze dellʼ immediato.
descrizione comprensione
informazione “understanding”
produttività demistificazione
certezza complessità
coerenza disponibilità
metodologica al cambiamento
Il lessico pedagogico slogan forniscono una riunione simbolica delle idee chiave e delle attitu-
(Israel Scheffler) educativi dini fondamentali delle tendenze educative, a scopo persuasivo
DISCORSO PEDAGOGICO
Olivier Reboul
discorso pedagogico:
“il più ideologico di tutti i discorsi”
I discorsi pedagogici
Olivier Reboul intende per discorso pedagogico l’insieme delle affermazioni che vertono sull’edu-
cazione allo scopo di legittimare o condannare suoi determinati aspetti; egli afferma (Il linguaggio del-
l’educazione, 1986) che il discorso sull’educazione è il più ideologico di tutti i discorsi; si può notare
che in esso ricorrono prse di posizione, progetti e valori condizionati da premesse ideologiche ben
precise. A parere di Reboul è possibile su questa base individuare cinque tipi fondamentali di discor-
so pedagogico: il discorso contestatario, il discorso innovatore, il discorso funzionale, il discorso uma-
nista, il discorso ufficiale. Ciascuno di questi tipi contiene una “verità” precostituita che viene difesa
con argomentazioni retoriche spesso senza che coloro che la sostengono se ne rendano neppure conto.
Parole come apprendimento, educazione, maturazione, trasmissione vengono quindi usate in modo da
legittimare l’opinione pedagogica di chi se ne serve. A loro volta, slogan come “democratizzare la scuo-
la” o “imparare ad imparare”, possono, data la loro brevità e la loro forza espressiva, essere utilizzati
in modo equivoco e, allo stesso tempo, efficace nel produrre consenso. Occorre tuttavia riconoscere,
secondo Reboul, che i vari discorsi pedagogici hanno il pregio di mettere in evidenza elementi del fatto
educativo realmente importanti per gli educatori.
DISCORSI PEDAGOGICI
“distinzione”
“creatività” obiettivo “qualità” dipendenti
“repressione”
termini “spontaneo” comportamento “sforzo” dalle mode
manipolazione
caratteristici “apertura” operativo “modello” pedagogiche
“inserito”
“vita” misurabile “chiarezza”
“cambiamento”
nichilismo elitismo
tendenza elitismo scientismo classismo verbalismo
atteggiamento
eclettismo tecnocrazia conservatorismo volontarismo
oppositivo e/o
distruttivo pedagogico
LA FAMIGLIA
La famiglia è la più importante e la più antica di tutte le istituzioni e in tutte le società essa resta
l’unità sociale fondamentale. Che cos’è esattamente una famiglia? Le nostre idee al riguardo tendono
probabilmente ad essere piuttosto etnocentriche, perché spesso si basano sulla “famiglia ideale” del-
la classe media, quella che la pubblicità dei mass-media assiduamente ci propina, ma questo modello
non è molto rappresentativo ed è comunque piuttosto recente. Per avere una definizione più corret-
ta della famiglia occorre tener conto delle numerose forme di famiglia che sono esistite e che esistono
ancora nelle diverse culture.
La prima caratteristica della famiglia è quella di essere un gruppo di individui in qualche modo im-
parentati tra loro. In secondo luogo i suoi membri vivono insieme per lunghi periodi di tempo. In
terzo luogo, gli adulti del terzo gruppo assumono la responsabilità di tutta la prole. Infine i membri
formano un’unità economica, in molti casi per la produzione di beni e servizi (per esempio quando
tutti partecipano ai lavori agricoli) e in ogni caso ai fini del consumo di beni e servizi (per esempio
per quanto riguarda il vitto e l’abitazione).
Possiamo dunque affermare che la famiglia è un gruppo relativamente stabile di individui legati tra
loro da un’ascendenza comune, dal matrimonio o dall’adozione, che convivono formando un’unità
economica e i cui membri adulti assumono la responsabilità dei piccoli.
In tutti i modelli di famiglia esiste una norma universale: un individuo non può accoppiarsi con
qualsiasi altra persona di suo gradimento. In tutte le società esiste un tabù dell’incesto che proibisce
i rapporti sessuali nell’ambito di certi rapporti di parentela. Il tabù si applica quasi universalmente
ai rapporti tra genitori e figli e tra fratello e sorella, ad eccezione delle famiglie al trono delle società
dell’antico Egitto, delle Hawaii e degli Inca e di alcune etnie africane.
Secondo la prospettiva funzionalista (Murdock, 1949, Parsons e Bales, 1955), la famiglia svolge
diverse funzioni fondamentali in tutte le società.
a) Regolamentazione del comportamento sessuale. Nessuna società permette che i suoi membri
possano accoppiarsi casualmente; il sistema matrimoniale rappresenta uno strumento atto a regola-
mentare il comportamento sessuale dei suoi membri.
b) Sostituzione dei membri e ricambio generazionale. Una società non riesce a sopravvivere se
non dispone di un sistema mediante il quale possa sostituire i suoi membri da una generazione all’al-
tra. la famiglia rappresenta uno strumento stabile, istituzionalizzato, mediante il quale si assicura il
ricambio generazionale.
c) Cura, protezione e socializzazione dei bambini. I bambini hanno bisogno di calore, di cibo, di
protezione e di affetto, e la famiglia costituisce un’atmosfera intima e costituisce al tempo stesso
un’unità economica che permette di soddisfare tutti questi bisogni. I genitori ripongono generalmen-
te una particolare attenzione nel controllare il comportamento dei figli e nel trasmettere loro il lin-
guaggio, i valori, le norme e le credenze propri della loro cultura; in altre parole, essi si pongono co-
me agenti della socializzazione dei figli. La famiglia resta il primo ed il più importante agente della
socializzazione.
d) Collocazione sociale. La nascita legittima nell’ambito di una famiglia conferisce agli individui
una posizione stabile nella società. dalla famiglia di orientamento si ereditano non soltanto oggetti
materiali, ma anche lo status sociale.
I modelli familiari
Forme di matrimonio
Il matrimonio può essere monogamico, ossia circostritto ad un solo uomo e a una sola donna, o
poligamico, quando una persona si sposa simultaneamente con due o più persone dell’altro sesso.
La forma di matrimonio prende il nome di poliginia se è l’uomo ad avere più di una moglie; se inve-
ce è la moglia ad avere più di un marito, si chiama poliandria. Quest’ultima si verifica soltanto in
condizioni eccezionali, come ad esempio presso i Toda (India), che, praticando l’infanticidio femmi-
nile, si trovano ad avere un forte soprannumero di maschi.
Partner preferenziale
Alcuni gruppi si attendono o esigono che i loro membri si sposino al di fuori del gruppo: questo
modello prende il nome di esogamia. Gli Aranda australiani, per esempio, dividono la loro società in
due sezioni e ciascun individuo può sposarsi soltanto con qualcuno che appartiene all’altra sezione.
Altri gruppi invece si attendono e esigono che i loro membri si sposino all’interno del gruppo: que-
sto modello prende il nome di endogamia. Generalmente i gruppi religiosi, razziali ed etnici pratica-
no l’endogamia, sia a causa dei pregiudizi, sia per la mancanza di contatti con gli altri gruppi, sia
perché viene usata come strumento per conservare la coesione del gruppo.
Modelli di residenza
Una coppia appena sposata può andare a vivere con la famiglia estesa del padre dello sposo, se-
guendo così il modello patrilocale, oppure può andare a vivere con la famiglia della sposa, seguendo
il modello matrilocale. Ma oggi è sempre più diffusa la consuetudine di formare una famiglia nucle-
are che va a stabilirsi in una propria residenza, seguendo il modello neolocale.
Modelli di autorità
Pur essendo influenzati dalla personalità degli sposi, i modelli di autorità che regolano i rapporti tra
marito e moglie seguono le norme imposte dalla società. In quasi tutte le società il modello dominan-
te è quello patriarcale, in cui l’ultima parola su tutto ciò che riguarda la famiglia spetta sempre al
marito. Non esiste oggi un vero e proprio sistema matriarcale che assegni alle donne una posizione
di autorità definitiva, pur esistendo diverse società nelle quali in certi settori della vita domestica la
moglie ha un potere maggiore del marito. Un terzo modello apparso in tempi recenti è quello della
famiglia ugualitaria. Si tratta di un fenomeno che sta diventando sempre più comune nel mondo
moderno e che vede marito e moglie più o meno su un piano di parità per ciò che riguarda le faccen-
de della famiglia.
Modelli di discendenza
Le forme principali di discendenza e di trasmissione ereditaria sono tre. Nel sistema patrilineare la
discendenza e l’eredità seguono la linea maschile della famiglia; i congiunti della madre non sono con-
siderati parenti e alle femmine non spetta alcun diritto di successione nella proprietà.
Nel sistema matrilineare accade l’inverso: i congiunti del padre non sono considerati parenti e la
proprietà si trasmette solo in linea femminile.
Nel sistema bilaterale, il tipo più comune per noi, ma seguito da meno della metà della popolazio-
ne mondiale, la discendenza e l’eredità seguono sia la linea maschile che quella femminile. Sono con-
siderati parenti i congiunti di tutti e due i genitori e la proprietà si trasmette sia ai maschi che alle
femmine.
FORME DI FAMIGLIA
Il modo in cui una famiglia affronta l’educazione dei figli è soggetto a numerose variabilità e può
essere descritto in una tipologia che comprende:
a) uno stile autoritario, basato su un sistema rigido di norme stabilite dai genitori, cui il figlio deve
adeguarsi passivamente;
b) uno stile autorevole (democratico) in cui i valori stabili e la responsabilità educativa dell’adulto
vengono calati in una serie di norme flessibili e incentrate sui bisogni di tutti i membri della famiglia;
c) uno stile permissivo che si fonda sul tenativo di eliminare tutte le occasioni di frustrazione e di
soddisfare tutte le richieste dei figli;
d) uno stile incoerente in cui si oscilla tra autoritarismo e permissività a seconda delle codizioni
emotive dell’adulto. (U. Avalle - M. Maranzana, Problemi di pedagogia, Paravia, Torino, 2001)
La condotta prevalente e le caratteristiche più evidenti dei genitori concorrono al “clima educati-
vo”, ossia all’habitat mentale in cui si formeranno le prime esperienze del bambino.
I rapporti tra genitori e figli sono molteplici e articolati sulle esigenze del vivere nella comunità fa-
miliare: la personalità dei genitori, le lore tendenze e le modalità acquisite di adattamento al vivere
sociale dovranno misurarsi con le varie esigenze e con i tratti di temperamento proprie dei figli.
Se i genitori, con lo stile di vita e di comportamento contribuiscono a formare la personalità dei figli,
dall’altro i figli agiscono sul piano interattivo, modificando le aspettative e contribuendo alla forma-
zione di un “clima” particolare che distingue nel suo essere una famiglia da un’altra. Tali modalità in-
terattive potranno risultare determinanti nello sviluppo delle differenze individuali.
Recenti e numerosi studi sulle dinamiche tipiche del rapporto che si instaura tra genitori e figli so-
no stati effettuati da psicologi sociali e tra essi vanno citati quelli di Schaefer, che propone una se-
rie di correlazioni per evidenziare quattro climi educativi tipo: il primo basato sulla dipendenza del
rapporto tra affetto e controllo, il secondo tra affetto e autonomia, il terzo tra ostilità e controllo, il
quarto tra ostilità e autonomia. L’autore propone due dimensioni bipolari in cui si manifestano le in-
terazioni familiari: la prima varia dalle forme di controllo fino a giungere al grado massimo di autono-
mia, l’altra tiene in considerazione i fattori che vanno dall’ostilità sino all’affetto; queste due dimen-
sioni dinamiche sottolineaano i rapporti di reciprocità tra genitori e figli. L’asse autonomia-controllo
rappresenta il ventaglio delle caratteristiche generali elargite dai genitori; l’asse affetto-ostilità indica
l’interazione affettiva mediante la quale genitori e figli vengono emotivamente in contatto tra loro.
Schaefer sintetizza le variazioni caratteristiche dei climi familiari proponendo uno schema (noto
come quadrante di Schaefer) che permette praticamente una correlazione tra i vari fattori.
controllo autonomia
LA COMUNICAZIONE FAMILIARE
La comunicazione familiare è stata studiata più da un punto di vista patologico che non pedagogi-
co, seguendo il riflesso di quella concezione della “crisi della famiglia” che costituisce uno dei grandi
modelli interpretativi dell’istituzione famigliare del nostro secolo. La scuola psicologica di Palo Al-
to, ad esempio, ha messo in luce nei suoi studi sulla pragmatica della comunicazione umana in che
modo all’interno della famiglia, considerato come il principale dei “gruppi-vitali-con-storie”, le atti-
vità comunicative producano conseguenze a vasto raggio, in cui sono presenti anche versanti distrut-
tivi. La differenza tra la famiglia capace di realizzare positivi progetti educativi e la famiglia psicolo-
gicamente distruttiva sta soprattutto nella capacità della prima di assorbire i cambiamenti attraverso
una ristrutturazione complessiva delle relazioni, a confronto con la tendenza della seconda a cercare
di negare le trasformazioni o a scaricare gli effetti sui membri più deboli o esposti. Secondo i teorici
di Palo Alto, è all’interno delle famiglie patologiche che si sviluppano frequentemente interazioni a
doppio legame1 , forme di risposta tangenziale2 e mistificazioni dell’Io3 .
La considerazione delle relazioni famigliari come sistemi educativi e comunicativi induce a conside-
rare la loro diversa validità nella creazione di sistemi aperti (cioé famiglie capaci di interagire con i
mutamenti interni ed esterni, così da favorire la crescita psicologica di tutti i propri membri) e siste-
mi chiusi (ovvero famiglie strutturate tanto rigidamente da impedire gli adattamenti e l’apertura ver-
so l’esterno e da mantenere i propri equilibri al prezzo del disadattamento dei propri membri rispet-
to ad altri sistemi).
(1) Il doppio legame è un’ingiunzione paradossale (illusione delle alternative) all’interno della quale compare: a) una
relazione profonda tra due persone (vita familiare, dipendenza materiale, amicizia, amore); b) un messaggio strutturato
in modo da: 1) affermare qualcosa (contenuto); 2) metacomunicare sulla propria asserzione (relazione); 3) determinare
una contraddizione reciproca tra i due livelli di comunicazione; c) un impedimento al ricettore del messaggio (solita-
mente in rapporto complementare subordinato con l’emittente) di rifiutarlo o metacomunicare su di esso.
(2) La risposta tangenziale (con effetto di disconferma) è una risposta adulta inadeguata rispetto all’intervento del
bambino di cui non si prende in considerazione la richiesta effettiva di attenzione.
(3) La mistificazione dell’io consiste in una attribuzione all’altro di desideri, bisogni, stati d’animo in realtà non
espressi, con fini di controllo.
Analisi psicologica dei gruppi familiari: tipologie della famiglia
Sono state condotte numerose ricerche sui gruppi familiari, con metodologie molto diverse tra loro
(strumenti psicodiagnostici, analisi delle conversazioni, osservazione) e con l’intento comune di per-
venire alla formulazione di “tipologie” familiari.
Dalla fine degli anni sessanta, in particolare, gli schemi concettuali ispirati all’approccio sistemico
sono stati utilizzati nella ricerca sulle tipologie familiari: il criterio dominante è diventato quello dei
modelli di relazione, con una migliore focalizzazione delle relazioni interpersonali (diadiche e non) e
della struttura dei gruppi familiari.
L’analisi dei gruppi familiari centrata sulla “struttura” e l’individuazione di tipologie differenziate
tende a privilegiare i criteri della coesione-integrazione tra i vari componenti. Particolarmente rap-
presentativa in questo senso è la contrapposizione proposta da Minuchin (1967) tra famiglia “in-
vischiata” (enmashed) e famiglia “disimpegnata” (desengaged). La prima si caratterizza infatti per
la stretta interconnessione esistente tra i membri componenti: ogni tentativo di cambiamento da par-
te di uno di essi provoca un’immediata risposta di “resistenza” da parte degli altri; nella seconda, in-
vece, i movimenti dei singoli componenti appaiono come indipendenti l’uno dall’altro e le relazioni
complessive risultano molto debolmente interconnesse. Questa tipologia ricalca, sintetizzandole, le
riflessioni teoriche sulla struttura familiare di altri autori: Bowen (1966) parla infatti di famiglia “in-
differenziata” o “differenziata” a seconda della chiarezza con cui i singoli componenti giungono a de-
finire i contorni del proprio sé; Stealin (1972) descrive come “centripeti” o “centrifughi” i principi
delle famiglie di adolescenti da lui studiate, Ashby (1969) distingue sistemi familiari “altamente” o
“scarsamente interconnessi”.
Reiss (1970, 1981) sviluppa una tipologia basata sulle relazioni interne al sistema familiare e su
quelle intercorrenti tra famiglia e ambiente. Facendo riferimento all’integrazione tra un triplice ordine
di fattori - coesione interna al gruppo, indipendenza personale, permeabilità alle stimolazioni ester-
ne - questo autore distingue tre diversi tipi di famiglia, in funzione del diverso grado di “sensibilità”
manifestata rispetto al “consenso”, alla “distanza interpersonale”, all’ “ambiente”.
La famiglia “sensibile al consenso” è quella in cui la dinamica predominante si caratterizza nella
ricerca di vicinanza, unione ed accordo tra i membri, mentre l’ambiente esterno viene vissuto come
minaccioso e pericoloso.
La famiglia “sensibile alla distanza interpersonale” è quella i cui componenti appaiono disaggre-
gati tra loro; i confini tra il gruppo familiare e l’ambiente esterno non risultano marcati in maniera
netta e precisa.
La famiglia “sensibile all’ambiente” si trova invece in equilibrio ottimale tra l’esigenza di coesione
interna e l’indipendenza personale dei singoli membri; si caratterizza per flessibilità, è sensibile ai
bisogni ed aperta ai contributi interni, ma anche alle novità ed ai cambiamenti esterni.
(Renzo Canestrari, Psicologia generale e dello sviluppo, Clueb, Bologna, 1984, p. 564)
La coppia
La coppia può essere considerata come sistema relazionale fondato su un’autoeducazione e una
educazione reciproca dei suoi membri. Nell’antichità l’educazione alla relazione di coppia e ai ruoli
genitoriali era intesa a senso unico, come educazione che prima la famiglia d’origine e poi il marito
dovevano fornire alla donna. Oggi la tendenza verso la parità dei sessi e il riconoscimento della cen-
tralità dei sentimenti, derivante dalle evoluzioni culturali e sociali maturate nel XX secolo, richiedo-
no piuttosto una coeducazione realizzata assieme dai membri della nuova coppia. L’opportunità di
quest’opera sembra sottolineata dalla diffusione di un modello di “coppia coniugale instabile” e dal
notevole aumento delle separazioni e dei divorzi. La stabilità della coppia dipende certamente da
premesse psicologiche profonde, ma anche da relazioni concretamente gestibili ed educabili. Molti
studiosi sottolineano l’importanza di una intimità affettiva in cui ciascuno dei due membri della
coppia è in grado di sviluppare empatia verso i sentimenti dell’altro senza rischiare di “fondersi”
con esso. Accanto all’intimità è importante l’esistenza di un progetto comune: in questo senso
l’armonia di coppia non viene intesa come “miracolo”, quanto piuttosto come il risultato di una
ricerca in cui i partner puntano tanto ad affinare il senso di biunivocità e reciprocità (“amarsi allo
stesso modo”) quanto a coindirizzarsi verso scelte condivise (“amare le stesse cose”).
Il paradosso che balza all’occhio di chi si pone ad osservare la famiglia nucleare, nasce dalla consta-
tazione che, una volta liberata dai vincoli esterni e istituita sul solo fondamento del consenso e del-
l’amore, la famiglia si è fatta più fragile, esposta come mai in passato alla sua rapida dissoluzione;
con la conseguenza evidente dell’aumento costante del numero di bambini ed adolescenti che vivono
le tensioni dei loro genitori o mancano di una delle figure parentali. Il matrimonio resta l’ideale più
ampiamente condiviso dalle giovani coppie le quali istituiscono la famiglia ubbidendo alla sola moti-
vazione dell’amore; quelle stesse coppie, però, consumano di frequente in tempi rapidi e in numero
crescente sia il loro ideale che la sua base affettiva.
Sulla coppia non pesano più, come in passato, vincoli di origine esterna, (come le strategie familiari
delle alleanze tra parentele fondate su calcoli economici o d’altro tipo): preminente su ogni altra mo-
tivazione è la logica secondo la quale “ci si sposa per amore, e per amore si rimane sposati”, formula
che gli studiosi di sociologia della famiglia hanno ricondotto al modello dell’ “amore romantico”.
La famiglia contemporanea è fondata sull’amore, e dunque si vede arricchita dai valori dell’intimità,
dell’auto-espressione, dell’affettività, dunque di motivi che si collocano nell’interiorità. L’amore,
però, evidentemente non basta, altrimenti non si spiegherebbero le proporzioni del fenomeno delle
separazioni e dei divorzi. É qui che che compare il “paradosso” dell’amore romantico: è infatti per-
fettamente spiegabile che, una volta posto l’amore romantico - come rapporto amoroso-passionale -
a fondamento unico della costituzione della coppia e quindi della famiglia, il venir meno dell’amore
legittimi la separazione e lo scioglimento della famiglia medesima.
L’amore, assolutizzato e vissuto come “esclusivo”, tende a diventare edonistico, l’autoespressione
affettiva tende a precipitare nell’egocentrismo. Ciò che spesso non è presente è un progetto di vita
familiare che trascenda la coppia per estendersi ai figli, che peraltro vengono ricercati come “com-
pletamento” della famiglia, ma che nella realtà vengono trascurati nel momento in cui l’amore roman-
tico dovrebbe tradursi in amore per la famiglia, esteso a tutti i suoi membri.
La famiglia nata nel segno della libertà sembra in definitiva restare prigioniera dell’individualismo e
del consumismo della società contemporanea: l’amore - non oblativo - si consuma per effetto dello
scorrere del tempo, e poichè i coniugi vivono solo nel presente, la famiglia non riesce a costituire una
sua storia, spesso lasciando dietro di sé un cumulo di macerie. L’effetto di un amore che non sa rin-
novarsi è costituito dall’aumento notevole delle famiglie monogenitore, con la presenza, nella misura
del 90%, delle madri. La vittima resta, così, quella di sempre: ieri “angelo del focolare domestico”,
ma oggetto di sfruttamento; oggi quasi sempre lavoratrice “fuori di casa” e “donna di servizio” in fa-
miglia; coi rischi aggiuntivi della solitudine, della povertà conseguente al divorzio, della responsabili-
tà educativa dei figli.
L’istanza che emerge è quella, ineludibile, di una pedagogia della famiglia, che si ispiri non già al
motivo “moralistico” della cura dovuta ai figli, ma che punti sui motivi forti della formazione della
personalità, aperta, disponibile a raccordarsi ad un vasto orizzonte di valori metaindividuali, che de-
nunci l’egocentrismo come il segno di un’insufficiente maturazione personale.
(Renzo Tassi, Itinerari pedagogici, Zanichelli, Bologna, 1993, vol 1b, p. 82-83)
La difficoltà di essere “buoni” genitori
Come afferma John Bowlby, “è sempre più facile educare i figli degli altri che non i propri”. L’in-
tensità del legame affettivo fa infatti sì che la relazione richieda un’elaborata gestione di emozioni e
sentimenti. É evidente che la ricchezza dei legami emotivi presenti nella relazione famigliare renda
molto difficile essere “genitori perfetti”. Così lo psicoanalista Bruno Bettelheim ha dedicato all’edu-
cazione famigliare un libro, Un genitore quasi perfetto, basato sull’idea che, piuttosto che affidarsi
agli “specialisti”, “è alla portata di tutti essere genitori passabili, vale a dire genitori che educano be-
ne i figli. Occorre però che gli errori che commettiamo nell’educarli (...) siano più che compensati
dalle molte occasioni in cui ci comportiamo in modo giusto con loro”. Il “genitore quasi perfetto” è
dunque colui che è in grado di amare il figlio e dialogare con lui sulla base del “progetto” di cui que-
st’ultimo è portatore e che trascende la volontà dell’adulto. Naturalmente questo progetto non è
chiaro fin dall’inizio, ma necessita di strumenti (che spetta appunto al genitore fornire) per costru-
irsi, in modo che il figlio possa scoprire “chi essere e come esserlo”.
Secondo Claudio Volpi esistono nella società contemporanea tre distinte immagini dell’infanzia e
tre distinte strategie della socializzazione infantile, alle quali corrispondono tre modelli di interventi
familiari:
a) l’immagine della “continuità”, in rapporto alla quale l’infanzia è concepita in funzione della ri-
produzione culturale e dell’inserimento del bambino nella società dell’adulto, si regge sulla “socializ-
zazione oggettiva” e postula una famiglia di tipo “patriocentrico”, in modo di foggiare e assicurare
modelli di comportamento ben definiti e ascritti normativamente;
b) l’immagine della “discontiuità”, in rapporto alla quale l’infanzia è concepita in funzione della li-
berazione individuale e del ruolo rivoluzionario del bambino nei confronti della società degli adulti, si
fonda sulla “socializzazione soggettiva” e richiede una struttura familiare di tipo “puerocentrico”, in
grado di assicurare la crescita infantile secondo parametri prettamente individualistici;
c) l’immagine della “continuità nell’autonomia”, in rapporto alla quale l’infanzia è concepita sia in
funzione dell’inserimento critico che in funzione dell’autorealizzazione, si regge sulla socializzazio-
ne transattiva e postula un modello di famiglia di tipo “paidocentrico”, in grado di far crescere tanto
il bambino quanto i genitori in ordine a progetti di vita possibili ma anche auspicabili, che partono
dal presente ma assumono il divenire storico come ipotesi di lavoro razionalmente controllabile.
(C. Volpi, La famiglia e l’educazione, oggi, in AA. VV. Un educazione possibile, La Nuova Italia,
Firenze, 1988, pp. 114-115)
L’evoluzione della famiglia nella società contemporanea, unito alla trasformazione della divisione
tradizionale del lavoro fra i sessi, ha prodotto vistose conseguenze educative, fra cui anche la diffi-
coltà di molti genitori ad assicurare nei primi anni di vita una presenza famigliare estesa e regolare.
Nella famiglia tradizionale questo problema toccava in genere solo la figura paterna. Oggi è invece
frequente il lavoro di entrambi i genitori, con la necessità di individuare già nel primo anno di vita
istituzioni, come l’asilo-nido, o figure, come i nonni o le baby-sitter, in grado di svolgere una funzio-
ne sostitutiva.
Per al psicologia del XX secolo il rapporto tra il bambino e la madre è stato uno degli argomenti
più affrontati: da un lato è stato infatti considerato dal punto di vista proprio della teoria dell’attac-
camento, che presupponeva un ruolo fondamentale della madre nello sviluppo emotivo della 1ª in-
fanzia e, spesso, di tutta la vita (Bowlby, Winnicott, Brazelton). Peraltro le implicazioni sociali e
pedagogiche di questi approcci sono anche state sottoposte a critiche da parte di coloro che hanno
visto, almeno in alcune di esse, un tentativo di ribadire il ruolo femminile di “moglie e madre” con-
tro l’emancipazione della donna. Secondo pedagogisti come Elena Gianini Belotti o pedopsichiatri
come Stella Chess e Alexander Thomas, ad esempio, quella di considerare le madri le principali re-
sponsabili di un’ampia serie di difficoltà comportamentali dei figli è una vera e propria moda, in-
fluenzata da pregiudizi sessisti e cresciuta sul tronco di teorie come quella di John Bowlby, orien-
tate a sopravvalutare il ruolo delle interazioni precoci fra l’adulto (inteso sostanzialmente come
“madre biologica”) e il bambino. Mentre lo stereotipo di madre è rimasto, nonostante tutto, piutto-
sto stabile, la figura paterna è andata incontro, nella nostra civiltà, ad una evoluzione considerevole,
che ha portato a notevoli oscillazioni dei ruoli educativi, variamente rappresentati con figure come
quelle del padre-autoritario, del padre-assente, del padre-amico, del padre-infantilizzato, del padre-
madre, e così via. Connessa a tutto ciò vi è certamente una maggiore flessibilità dei ruoli famigliari e
un cambiamento dei rapporti di autorità. La flessibilità dei ruoli richiede al padre la capacità di conti-
nuare ad essere una figura di riferimento autorevole senza per questo fissarsi sugli stereotipi dell’au-
toritarismo tradizionale.
L’adozione è l’istituto giuridico che permette ad un minore, dichiarato adottabile per assenza o in-
capacità della famiglia naturale, di diventare figlio legittimo di chi lo adotta. La legge italiana prevede
l’istituto dell’adozione. Il diritto ad avere una famiglia, stabilito dalle carte costituzionali, dalle di-
chiarazioni e dalle convenzioni internazionali, è stato più volte ribadito anche da coloro che profes-
sionalmente si occupano dei bambini. Noti psicologi come René Spitz o John Bowlby, ad esempio,
hanno messo in luce gli effetti delle carenze affettive conseguenti a uno stato di abbandono.
L’adozione diventa così la soluzione per queste carenze sia nel caso di bambini orfani che in quello
in cui, per varie ragioni, la famiglia naturale venga giudicata, con provvedimento del tribunale minori-
le, incapace di “mantenere, istruire ed educare” i propri figli.
L’adozione rappresenta, per genitori e figli, un’importante “crisi” i cui esiti positivi o negativi di-
pendono in larga parte dalla capacità di gestione dei nuovi genitori. Peraltro i genitori adottivi hanno
nei confronti del nuovo figlio aspettative che possono risultare anche frustrate e deluse; avvertendo
l’insicurezza della nuova situazione, possono temere di non riuscire a gestirla. Ciò dipende in parte
dall’incapacità di distinguere tra procreazione (biologica) e filiazione (il legame psicologico che uni-
sce un figlio ai propri genitori). La psicoanalista Françoise Dolto afferma che “bisogna che i genitori
adottino i loro figli: purtroppo molto spesso non lo fanno”, intendendo con questo sottolineare che
un bambino, anche se procreato, diventa autenticamente figlio solo a condizione di una scelta e di
una volontà di affetto e di cura che non dipendono dalla procreazione biologica.
Secondo René Hoksbergen, tra i fattori necessari a evitare il fallimento dell’adozione troviamo, ol-
tre all’essere buone genitori: a) il rispetto dell’identità (genetica, culturale, etnica) dell’adottato, e
quindi del suo diritto a conoscere le proprie origini; b) la capacità di affrontare i problemi psicologi-
ci che possono caratterizzare il rapporto con tranquillità emotiva. Esiste una vera e propria “ango-
scia pedagogica” del genitore adottivo, il quale teme che il figlio non cresca secondo le proprie aspet-
tative, e che le esperienze precedenti o l’eredità genetica prendano il sopravvento.
La famiglia è a tutti gli effetti un’istituzione che si assume compiti educativi inerenti la trasmissio-
ne dei valori sociali e l’integrazione dei suoi membri nella società. Sulla validità di questa azione esi-
ste un dibattito antico, ma ancora attuale: riesce la famiglia ad assolvere pienamente la propria fun-
zione di trasmissione e integrazione? É in grado di foggiare individui che corrispondano al modello
d’uomo su cui si basa il “progetto sociale” della propria comunità? É nota a questo proposito la ri-
sposta di Platone, il quale credeva che esistesse un conflitto tra famiglia e società, che la famiglia
potesse essere un ostacolo per la crescita politica dell’individuo. La sua concezione è diventata il
prototipo di tutte le proposte pedagogiche incentrate su una socializzazione precoce nell’educazio-
ne dei bambini. Aristotele, viceversa, era convinto che il contributo della famiglia fosse ineliminabile
e sostanzialmente integrabile con quello della società. Al di là della generale propensione per questa
seconda soluzione, la problematica di fatto è complessa. Essa concerne in primo luogo la misura in
cui la famiglia si identifica con i modelli sociali dominanti e riconosce il destino dei propri membri
nel destino collettivo della società. Schematizzando, si potrebbe dire che ogni famiglia colloca le pro-
prie scelte educative fra gli estremi di una perfetta adesione a un progetto sociale esterno (il quale, se
corrisponde a quello dei gruppi dominanti, rischia di produrre individui acriticamente “integrati”), e
di un completo familismo* indifferente ai bisogni sociali e orientato esclusivamente verso la forma-
zione di soggetti indirizzati a perseguire gli interessi del proprio ambito particolare di vita.
Il familismo può anche implicare che il successo del compito educativo della famiglia venga identi-
ficato con il raggiungimento di determinati obiettivi (di successo sociale, professionali, ecc..) giudica-
ti validi solo da alcuni dei suoi membri. Si può citare ad esempio il caso tipico del sacrificio dei pro-
getti dei figli a favore del progetto dei genitori (come accadeva tradizionalmente nei “matrimoni d’in-
teresse”) o alla rinuncia all’autonomia economica della moglie in nome del suo compito di “angelo
del focolare” per la carriera del marito. La crisi di questo orientamento si è espressa nei conflitti in-
trafamigliari, negli scontri generazionali e nei movimenti di emancipazione femminile.
Molte proposte per il superamento della crisi educativa della famiglia indicano la sua attuale situa-
zione di chiusura familistica come segnale della necessità di una “apertura” all’interno di forme di ag-
gregazione più ampie (Vance Packard, Bruno Bettelheim). Si tratta di mantenere o ricostruire la co-
munità, nella quale la famiglia possa inserirsi senza per questo cadere nella dissoluzione della pro-
pria identità.
* il familismo è la concezione secondo la quale la solidarietà tra i membri della famiglia deve prevalere
sui legami sociali più generali
(U. Avalle - M. Maranzana, Problemi di pedagogia, Paravia, Torino, 2001, pp. 8-22)
LA FAMIGLIA
modelli familiari
forme di partner
matrimonio preferenziale
poliandria poliginia
FORME DI FAMIGLIA
multiculturali / multietniche
B. Bettelheim -> “un genitore quasi perfetto” -> errori educativi compensati dal dialogo / amore
la teoria dellʼ attaccamento: il ruolo della madre nello sviluppo emotivo della 1° infanzia (J. Bowlby)
le critiche (S. Chess & A. Thomas): i pregiudizi sessisti
evoluzione della figura paterna: padre autoritario / assente / amico / infantilizzato / padre-madre
La separazione dei genitori / la “società fraterna” / figure significative nella “famiglia estesa”
familismo: la solidarietà tra i membri della famiglia prevale sui legami sociali più generali
soggetti indirizzati a perseguire gli interessi del proprio ambito particolare di vita
I MUTAMENTI PROFONDI E LA CRISI DELLA FAMIGLIA NEL XX SECOLO
a) relazione profonda tra due persone vita familiare, dipendenza materiale, amicizia, amore
(3) MISTIFICAZIONE DELLʼ IO attribuzione allʼ altro di desideri, bisogni, stati dʼ animo in realtà
non espressi, con fini di controllo
aperta -> capace di interagire con i mutamenti interni ed esterni in modo flessibile
famiglia
chiusa -> strutturata tanto rigidamente da impedire gli adattamenti e lʼ apertura verso lʼ esterno
coeducazione
la coppia parità dei sessi intimità affettiva -> sviluppo di sentimenti empatici senza “fusione”
centralità dei sentimenti progetto comune
Sulla coppia non pesano più, come in passato, vincoli di origine esterna (come le strategie familiari delle
alleanze tra parentele fondate su calcoli economici o dʼ altro tipo): preminente su ogni altra motivazione è la
logica secondo la quale “ci si sposa per amore, e per amore si rimane sposati” (formula riconducibile al modello
dellʼ “amore romantico”) . La famigli contemporanea è fondata sullʼ amore, e dunque si vede arricchita dai valori
dellʼ intimità, dellʼ auto-espressione, dellʼ affettività, dunque di motivi che si collocano nellʼ interiorità; ma una volta
liberata dai vincoli esterni e istituita sul solo fondamento del consenso e dellʼ amore, la famiglia si è fatta più
fragile, esposta come mai in passato alla sua rapida dissoluzione; una volta posto lʼ amore romantico a
fondamento unico della costituzione della coppia, il venir meno dellʼ amore legittima la separazione e lo
scioglimento della famiglia medesima; lʼ amore, vissuto come “esclusivo”, rischia di diventare edonistico,
lʼ autoespressione affettiva tende a precipitare nellʼ egocentrismo, la famiglia, nata nel segno della libertà,
sembra restare prigioniera dellʼ individualismo e del consumismo della società contempo- ranea: lʼ amore (non
oblativo) si consuma per effetto dello scorrere del tempo, e poichè i coniugi vivono solo nel presente, la famiglia
non riesce a costituire una sua storia, con la conseguenza evidente dellʼ aumento costante del numero di
bambini ed adolescenti che vivono le tensioni dei loro genitori o mancano di una delle figure parentali.
MODELLI DI COMUNICAZIONE FAMILIARE
RELAZIONI
Minuchin
famiglia
“invischiata” “disimpegnata”
(enmashed) (desengaged)
“centripeta” “centrifuga”
Stealin
controllo autonomia