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TEMI E PROBLEMI DI

SCIENZE UMANE

VOLUME PRIMO

1. Il ciclo della vita; le differenze individuali


2. Storia della pedagogia: dall’Umanesimo a Locke
3. Antropologia: metodi e campi d’indagine; il corpo; la famiglia
4. Sociologia: la struttura e i processi sociali; la cultura
INDICE SCIENZE UMANE

1. PSICOLOGIA

1 Psicologia dell’età evolutiva: fasi dello sviluppo e ciclo della vita


1 La prima infanzia: sviluppo fisico e sensoriale
2 lo sviluppo intellettivo
3 lo sviluppo emotivo
5 L’osservazione dei primi rapporti oggettuali: Renè Spitz lo sviluppo percettivo e motorio
5 Melanie Klein e il teatro dell’inconscio
7 Lo sviluppo del linguaggio
8 La seconda infanzia: lo sviluppo fisico
8 le fasi dello sviluppo linguistico
9 lo sviluppo intellettivo
9 lo sviluppo emotivo
10 La terza infanzia: la psicomotricità
10 lo sviluppo intellettivo
11 lo sviluppo emotivo
12 L’adolescenza: esiti adolescenziali
13 lo sviluppo intellettivo
13 lo sviluppo affettivo
15 L’adolescenza: il modello psicoanalitico
18 L’età adulta
20 La vecchiaia
21 mappe concettuali (21-32)

33 Lo sviluppo delle Differenze individuali


34 Clima della famiglia e ambiente educativo
36 Tipologie della famiglia
36 Differenze psicologiche tra maschi e femmine
38 Identità maschile e femminile: il punto di vista psicoanalitico
40 Gli stili cognitivi
40 Dipendenza e indipendenza dal campo
42 Il ritmo concettuale.
43 Self-monitoring
45 Mappe concettuali (45-49)

51 2. PEDAGOGIA

52 1. La scoperta dell’infanzia e la pedagogia umanistico-rinascimentale


53 Educazione e formazione dell’uomo nel Rinascimento
55 La Riforma protestante e l’educazione.
56 La pedagogia della Controriforma
57 Ignazio di Loyola e l’educazione gesuitica
59 Michel Foucault: discipline e tecniche educative nell’età moderna
61 Mappe concettuali

63 2. Comenio: “Pansofia” e “Pampaedia”


63 Il metodo e i contenuti
65 L’organizzazione scolastica; l’ “Orbis sensualium pictus”
66 3. Il ‘600: le buone maniere, l’apprendistato e l’educazione femminile
67 mappa concettuale: Comenio
69 John Locke: la concezione pedagogica
71 mappa concettuale: John Locke

73 La famiglia
73 Forme di famiglia
74 Famiglia e educazione sociale
75 Gli stili educativi
75 Clima della famiglia ed ambiente educativo
76 La comunicazione familiare
77 Analisi psicologica dei gruppi familiari: tipologie della famiglia
77 La coppia
78 Il paradosso del fondamento romantico della famiglia nucleare
79 La difficoltà di essere ‘buoni’ genitori
79 Immagini dell’infanzia e strategie educative familiari
79 L’evoluzione familiare e il problema dei ruoli educativi
80 Le nuove famiglie: adozione e affidamento
81 Famiglia e vita sociale
83 mappe concettuali (83-86)

87 3. ANTROPOLOGIA

89 1. Che cos’è l’antropologia


91 mappe concettuali
93 La storia dell’antropologia moderna

94 2. Metodi e campi d’indagine


94 L’osservazione partecipante; il ruolo dei mediatori
94 Gli strumenti dell’antropologo
95 Comparare; scrivere l’esperienza; specializzazioni e campi d’indagine
96 Mappe concettuali

98 3. Il corpo innaturale
98 Modellare il corpo. Dipingere, colorare, disegnare
99 Scolpire e modellare. Al di là della pelle
100 Vestirsi e svestirsi. Il corpo dopo la morte
101 Mappe concettuali

103 4. Parentela e matrimonio


103 Filiazione, affinità, consanguineità. La poligamia.
104 Esogamia, endogamia e levirato
105 L’incesto; la residenza; la discendenza
106 Clan e lignaggi
107 mappe concettuali (107-109)

111 Le parole dell’antropologia – glossario


117 4. SOCIOLOGIA

119 1. La sociologia come prospettiva


120 La sociologia e le altre scienze sociali
120 La prospettiva funzionalista
121 La teoria del conflitto
121 La prospettiva interazionista
122 le tendenze attuali della sociologia

123 2. La società
123 La struttura sociale; ‘status’
124 Ruolo, gruppo, gruppi primari e secondari
125 I piccoli gruppi, la leadership
126 Il gruppo ed i processi decisionali;
l’appartenenza al gruppo e il gruppo di riferimento

127 3. I processi sociali


127 I comportamenti collettivi e i movimenti sociali
128 Le Istituzioni e le Organizzazioni formali
129 Le norme: folkways, mores, stateways
130 I valori

131 4. La Cultura
132 Il concetto di cultura. Le caratteristiche della specie umana.
132 Il controllo sociale
133 Le variazioni culturali: approccio funzionalista ed ecologico.
135 Gli universali culturali. L’etnocentrismo.
136 Il relativismo culturale
136 L’integrazione culturale
137 L’importanza del linguaggio: la teoria relativistica di Sapir e Whorf
138 Il cambiamento culturale

139 Mappe concettuali (139-154)


IL CICLO DELLA VITA : fasi dello sviluppo

Che cosa si intende per sviluppo

Per Sviluppo si intende una modificazione strutturale e funzionale a carattere permanente.


Il percorso dello sviluppo non è quindi circolare (con delle cose che tornano come prima o si
ripetono incessantemente) ma lineare. Pur essendo lineare è però discontinuo: certi cambiamenti
sono abbastanza netti e precisi da permetterci di distinguere delle fasi. La sequenza di queste fasi e
le caratteristiche delle fasi seguono delle leggi generali, ed esse sono prevedibili ed uguali per tutti gli
individui.
Con lo sviluppo l’organismo si arricchisce di proprietà, si “complica”. Il concetto di sviluppo, che
deriva dall’idea di una proprietà potenziale interna all’organismo che diventa reale e che si attualiz-
za, comprende in sé quelli di maturazione e di crescita, ma è qualcosa di più, è sovraordinato rispet-
to ad essi. La maturazione è infatti un cambiamento che deriva solo da leggi e programmi interni del-
l’organismo. Il concetto di crescita indica invece l’aumento di dimensione e l’aumento del numero di
proprietà e differenziazioni progressive.
Se passiamo dal campo biologico a quello psicologico vediamo che esiste una differenza basilare. I
cambiamenti evolutivi biologici sono indipendenti dall’ambiente, tuttalpiù l’ambiente fisico può ini-
birli o bloccarli oppure accelerarli un poco rispetto alla media. I cambiamenti evolutivi psicologici,
al contrario, sono esclusivamente interattivi, derivano dall’incontro mutevole tra l’ambiente e l’orga-
nismo e quindi in sostanza derivano dall’ambiente e dall’organismo insieme. Lo sviluppo è un pro-
cesso che interessa simultaneamente tutti gli aspetti, sia funzionali che strutturali, di un organismo.
Anche se certi periodi della vita vedono uno sviluppo molto rapido e con delle fasi molto chiare e
distinte (tant’è che si è parlato di età evolutiva) l’essere umano non smette mai, per l’intera sua esi-
stenza, di cambiare e di evolversi. Nell’esaminare le fasi dello sviluppo, seguiremo dunque come ri-
ferimento l’età, interessandoci dell’intero arco della vita.
Una cosa importante da ricordare è che all’inizio della vita le fasi dello sviluppo sono quasi uguali
per tutti gli individui, cioè nei neonati e nell’infanzia i cambiamenti sono molto regolari e quasi “cro-
nometrici”. Questo perchè si tratta quasi esclusivamente di cambiamenti di tipo maturativo, derivati
dall’interno e poco o nulla influenzati dall’ambiente.
A partire dalla fanciullezza, ma con molta maggior evidenza con l’adolescenza, la fase adulta e la
maturità, le differenze di sviluppo fra una persona e l’altra aumentano sempre di più. Esiste allora
sempre meno regolarità nello sviluppo, perchè esso è sempre più influenzato da fattori variabili
esterni come le esperienze, le scelte lavorative, i condizionamenti culturali, ecc.

LA PRIMA INFANZIA

Sviluppo fisico e sensoriale. All’inizio della vita la crescita corporea è rapidissima, come anche lo
sviluppo psicologico. Al principio il bambino dorme quasi continuamente. Di norma (ma natural-
mente esistono molte differenze individuali), egli si sveglia ogni 4 ore circa per prendere il latte, resta
ben desto per circa mezz’ora ogni volta e dopo qualche minuto di sonnolenza si addormenta profon-
damente. Il neonato fino al primo mese di vita è lucido e ben desto per non più di 3-4 ore su 24.
Già a partire dal secondo mese il periodo di veglia si allunga sostanzialmente e poi verso la fine del
secondo anno arriverà a 10-12 ore al giorno.
La condizione del primo mese di vita è particolare anche dal punto di vista della capacità di sentire
ed elaborare gli stimoli. Il neonato non ha ancora un rivestimento mielinico dei nervi del tutto com-
pleto (la mielina è una sostanza che costituisce la guaina delle fibre nervose, con funzione protetti-
va), e la trasmissione dei segnali è meno precisa e più lenta del normale. Questo vuol dire che il
sistema sensoriale del neonato non è ancora tanto efficiente, che egli non ode chiaramente certi suo-
ni, che non ha una visione nitida degli oggetti posti oltre il mezzo metro di distanza, che predilige
stimoli semplici e ripetitivi. É stato dimostrato sperimentalmente che l’attenzione del neonato è
sollecitata solo da stimoli molto semplici, mentre stimoli più complessi sono trascurati. Facendo la
prova con delle scacchiere, per esempio, il neonato rivolge lo sguardo lungamente a quella con solo
quattro quadrati, trascura o guarda poco quella con nove quadrati, sembra non badare per nulla ad
altre scacchiere con una trama più minuta. Già ad un mese di vita la situazione cambia, e si trascura
la scacchiera più semplice a favore della seconda o della terza: c’è già stata un’evoluzione sensoriale,
con un contemporaneo aumento delle capacità di elaborazione percettiva del sistema nervoso.
Il bambino nasce quindi ancora immaturo dal punto di vista sensoriale e percettivo. Quello che sa
fare è comunque perfettamente adatto alle sue necessità, la sua vista gli consente di vedere in modo
sufficientemente chiaro il seno materno o il biberon, il suo udito gli permette di riconoscere la voce
umana.
A differenza della vista e dell’udito gli altri sensi, gusto, tatto ed olfatto, appaiono alla nascita più
sviluppati. Si è visto, ad esempio, che il neonato mostra una spiccata preferenza per il sapore dolce
rispetto agli altri sapori.
Sono inoltre presenti da subito alcuni fondamentali riflessi motori, primi fra tutti quelli della
suzione e della prensione. Il riflesso della suzione parte automaticamente quando viene accostato
alle labbra del neonato il capezzolo, ma anche un dito o un altro oggetto piccolo. Se tocchiamo il
palmo della mano con un oggetto, ad esempio un dito o una matita, questa in modo riflesso si stringe
intorno all’oggetto. Il riflesso della suzione ha un ovvio significato per la sopravvivenza; il riflesso
dell’aggrappamento o prensione, che non ha più una funzione “vitale” per il neonato, potrebbe
spiegarsi come un residuo evolutivo della specie: è stato osservato che il riflesso di prensione è
presente nelle scimmie neonate, per le quali è indispensabile potersi saldamente aggrappare alla
pelliccia della madre quando vengono allattate.
I movimenti alla nascita sono quasi tutti di tipo riflesso e non volontario, il coordinamento senso-
motorio è molto carente, e anche la forza muscolare è molto ridotta. Col passare delle settimane e
dei mesi questa situazione cambia piuttosto in fretta, i movimenti riflessi cedono il posto a quelli
volontari e il coordinamento motorio si fa preciso e completo.

Lo sviluppo intellettivo. In parallelo con lo sviluppo motorio si registra un formidabile sviluppo


intellettivo. Per comprenderlo facciamo riferimento al modello teorico di Jean Piaget, lo psicologo
che resta il principale punto di riferimento per gli studi sullo sviluppo dell’intelligenza.
Questo modello si chiama epistemologia genetica; tale disciplina si propone di individuare la
corrispondenza tra gli stadi di sviluppo dei processi cognitivi e lo sviluppo storico delle forme di
pensiero, individuando, nelle varie fasi dello sviluppo, la genesi delle forme di pensiero scientifico;
in altri termini, Piaget intende mettere in luce i meccanismi attraverso i quali le forme di conoscenza
scientifica (epistemologia) si generino (genetica) nel bambino nelle varie fasi dell’età evolutiva.
Piaget concepisce l’intelligenza e il pensiero come meccanismi che hanno lo scopo di adattare
l’organismo all’ambiente. L’adattamento corrisponde ad uno stato di equilibrio, nel rapporto tra
organismo e ambiente. Questa condizione non è statica, cioè raggiunta una volta per tutte, ma è dina-
mica. Infatti cambia continuamente non solo l’ambiente con i suoi stimoli, ma anche l’organismo con
le sue risposte. Questa equilibrazione si ottiene attraverso i meccanismi della assimilazione
(incorporazione di un nuovo evento o oggetto all’interno di uno schema preesistente, ad es. afferrare
nuovi oggetti con il medesimo schema di prensione) e dell’accomodamento (modificazione di uno
schema mentale/cognitivo per poter includere un evento od oggetto nuovo, ad es. afferrare a due
mani un nuovo oggetto particolarmente grande, afferrare “a pinza” un oggetto molto piccolo,ecc.).
Naturalmente affinchè lo stimolo possa venire assimilato deve incontrare un organismo che abbia
una struttura compatibile con esso, che lo possa recepire e comprendere. Gli stimoli che potranno
essere recepiti dal neonato, potranno essere ordinati in schemi che poi permetteranno una assimila-
zione e un accomodamento successivi di stimoli di maggiore complessità. Stimoli non recepibili (ad
es. calcoli aritmetici, giochi di costruzione complessi) non daranno luogo ad alcun tipo di accomoda-
mento.

FASE DELL’INTELLIGENZA SENSO-MOTORIA: 0 / 24 MESI

Dalla nascita fino ai due anni abbiamo la fase che Piaget chiama della intelligenza senso-motoria.
Questa fase si suddivide in 6 sottoperiodi:
1. da 0 a 1 mese: i meccanismi riflessi (es. suzione) si perfezionano con l’esercizio e il bambino
tende a generalizzarli (tende a succhiare ogni oggetto che incontra a portata di bocca:
“assimilazione generalizzatrice”).
2. da 2 a 5 mesi: fase delle reazioni circolari primarie: il bambino ripete, agendo sul proprio
corpo, le azioni che producono un risultato gradevole (ad es. succhiarsi il pollice)
3. da 5 a 9 mesi: fase delle reazioni circolari secondarie il bambino ripete in modo attivo
un’azione che portato ad un risultato gradevole, non più agendo sul proprio corpo ma
sull’esterno (ad es. sfiorare il carillon che ha prodotto un suono gradevole)
4. da 9 a 12 mesi: gli schemi d’azione vengono coordinati con una certa sistematicità in vista di
uno scopo.
5. da 12 a 18 mesi: fase delle reazioni circolari terziarie: il bambino non si limita più a ripetere
le azioni che hanno prodotto dei risultati, ma esperimenta attivamente delle varianti per
scoprire nuove possibilità (ad es. lanciare una palla verso l’alto, verso il basso, debolmente,
con forza, ecc.)
6. da 18 a 24 mesi: fase della interiorizzazione e rappresentazione mentale; il bambino a volte
cessa di agire e mostra i segni di comprensione improvvisa: riflette e fa delle “prove men-
tali”; cominciano i primi giochi simbolici, in cui il bambino “fa finta di”. E’ anche la
prima fase nello sviluppo del linguaggio (prime regole di combinazione di morfemi).

Lo sviluppo emotivo. Sviluppo emotivo e somato-psichico sono esaminati congiuntamente


dal modello psicoanalitico.
La fase della prima infanzia, viene detta da Freud della fase orale (0 - 18 / 24 mesi). Essa ha que-
sto nome perchè è dominata dalla bocca e dalle funzioni alimentari. É attraverso la bocca che il bam-
bino assume cibo e prova piacere calmando la fame. Sempre attraverso la bocca, con l’assaggiare,
con il mordicchiare, il bambino fa le sue prime esperienze e conoscenze di tipo materiale sulla consi-
stenza e la natura degli oggetti.
Il neonato è solo in rapporto con le proprie sensazioni interne, di fame e sazietà, di quiete o di
agitazione, e l’unica parte del suo corpo che diventa veicolo di scambio (nel senso di ricezione e
incorporazione) con l’esterno è la bocca. Attraverso il costituirsi dell’oggetto (l’oggetto primario
seno) si costituisce il primo nucleo della propria identità, il primo senso del proprio esistere distinto
da qualcosa che è diverso da sé. Questo nucleo di identità primordiale è privo di sfumature a livello
emotivo. Fino a 4 mesi abbiamo la fase dell’incorporazione, dopo i 4 - 6 mesi abbiamo l’inizio della
fase di ambivalenza, coi primi esempi di attacco e di distruzione. L’unico oggetto che si è costituito
come tale nei confronti del neonato, l’oggetto primario, è il seno materno. Nei confronti dell’oggetto
primario si instaura, secondo Melanie Klein (cfr.), la polarità buono-cattivo: il seno materno è
“buono” come fonte di soddisfazione, ma può anche essere “cattivo”, causa di dispiacere nella mi-
sura in cui è assente o inadeguato al bisogno. L’oggetto cattivo è proiettato fuori, l’oggetto buono è
introiettato dentro (fame/sazietà, benessere/dolore).
In qualche modo il neonato è in una condizione di assoluta dipendenza che, nella totale inconsa-
pevolezza di quanto avviene, diventa soggettivamente una esperienza di perpetua soddisfazione del
bisogno e quindi una condizione di onnipotenza.
Col progredire dello sviluppo cognitivo il bambino, in particolare dal sesto-ottavo mese, quando
avviene il passaggio dall’oggetto primario parziale (seno) all’oggetto intero (madre),
comincia ad accorgersi che la risposta al bisogno non dipende dal potere del suo richiamo ma solo
dalla prontezza e disponibilità della madre (o dell’adulto che si prende cura di lui).
Talora l’oggetto risponde prontamente, è buono, talora risponde tardi o non risponde affatto, è
cattivo. Per un periodo molto lungo il bambino, che si è accorto ora di dipendere dall’oggetto e di
non essere onnipotente, non si rende conto che ad essere buona e cattiva è sempre la stessa persona
(la madre o chi si prende cura di lui), sembra credere che si tratti di due persone diverse.
Quando egli comincia a riconoscere la persona e a capire che è sempre la stessa (di solito verso gli
otto mesi) inizia un periodo di ambivalenza affettiva, cioè un periodo in cui egli prova sentimenti
contrastanti di amore e di odio verso la mamma.

Circa nello periodo si trasforma il modo di rapportarsi agli altri con il segnale del sorriso.
Alla nascita la risposta del sorriso è presente come un movimento muscolare riflesso che compare
saltuariamente durante il sonno. É una specie di riflesso in risposta a stimoli di tipo interno (sorriso
endogeno), non compare come reazione al contatto con l’esterno ma solo quando il neonato è
massimamente distaccato dalla realtà, durante il sonno profondo.
Circa all’età di due-tre mesi il sorriso si presenta come una risposta riflessa a qualunque sagoma in
movimento, posta dinnanzia a lui a breve distanza, che contenga un disegno che schematicamente
ricordi un volto umano. Quindi il sorriso diventa una risposta automatica ad uno stimolo esterno
(sorriso esogeno); il bambino sorride quindi anche al semplice disegno di un sorriso, oppure al volto
di una donna che non è la sua mamma o al volto di un estraneo che si avvicina molto a lui.
Ad otto-nove mesi mediamente il bambino diventa capace di riconoscere i volti, quindi ai volti
familiari sorride con piena intenzione (non è più una risposta riflessa ma un segnale volontario e
orientato) mentre di fronte al volto estraneo che si avvicina troppo o non sorride affatto oppure, se
ne viene spaventato, scoppia a piangere.
Questa capacità di riconoscere e di distinguere vale naturalmente non solo verso l’Altro ma anche
verso se stesso. Circa alla stessa età, per esempio, il bambino posto di fronte alla propria immagi-
ne riflessa in uno specchio reagisce sorridendo e si protende verso di essa come se si trattasse di un
altro bambino. Questo vuol dire che egli ha un rudimento di sentimento identitario (distingue sé dal
mondo esterno) ma che non connette questo sentimento con una percezione chiara di sé (quindi non
riconosce nel riflesso l’immagine di se stesso).
Dopo qualche tempo la risposta di fronte asllo specchio cambia: dapprima sembra che il bambino
si arrenda di fronte alla presenza del diaframma di vetro che gli impedisce di toccare quel bambino
che pure vede così chiaramente. Ad un certo punto però, magari dopo aver osservato ripetutamente
che quando lui si allontana il bambino scompare e che i movimenti che fa l’altro sono sempre uguali
ai suoi, la percezione si trasforma e il bambino dimostra di capire che si tratta di una immagine di sé.
Questa trasformazione concettuale è frequente intorno ai 15 mesi ed è costante nei bambini di 18
mesi, i quali si guardano allo specchio e si toccano parti del viso (come il naso o le orecchie) guidan-
dosi con l’immagine riflessa.
L’osservazione dei primi rapporti oggettuali: René Spitz

René Spitz (Vienna 1887 - Denver 1974) attraverso l’utilizzo di metodi di indagine estranei alla
psicoanalisi (osservazione longitudinale, uso di reattivi, ricorso a registrazioni e riprese filmiche)
individuò nello sviluppo infantile alcuni “periodi critici” che portano il bambino alla formazione di
nuove strutture psichiche. Egli definisce tali strutture successive “organizzazioni”.
Il 1° stadio (0/3 mesi) è detto pre-oggettuale; è caratterizzato dalla indifferenziazione tra mondo
esterno e mondo interno e dalla opposizione binaria tensione-distensione.
Il 2° stadio (3/8 mesi) è il periodo del rapporto oggettuale con oggetto precursore. Il primo orga-
nizzatore è la risposta alla gestalt-sorriso: il bambino sorride a qualsiasi volto. Si stabilisce un em-
brione di comunicazione, i primi elementi dell’ “Io”; si distinguono “buono” e “cattivo”.
Nel 3° stadio (8 /15 mesi), periodo del rapporto oggettuale con oggetto privilegiato (o “libidico”)
emerge il secondo organizzatore: l’angoscia dell’ottavo mese. Il bambino ha riconosciuto l’oggetto
(il volto della madre) nella sua unicità, fondendo la precedente dicotomia di “buono” e “cattivo”.
Il 4° stadio (15 mesi) è il periodo di opposizione. Il bambino fa esperienza dei primi divieti e rea-
zione al “no” della madre. La parola “no” esprime la problematica dell’autonomia-indipendenza:
negando il bambino si identifica con l’adulto “aggressore”.

Melanie Klein (1882 - 1960) e il teatro dell’inconscio.

Per Melanie Klein esiste, a differenza di Freud, un Io estremamente precoce che, già alla nascita, è
capace di provare angoscia, di usare meccanismi di difesa, di stabilire rapporti oggettuali primitivi
nella fantasia e nella realtà. Il primo conflitto sorge dall’ innata polarità tra istinto di vita ed
istinto di morte. L’inconscio kleiniano è una dimensione dinamica nella quale preesistono oggetti
indipendenti dagli apporti percettivi del mondo esterno. Sono formazioni fantasmatiche, pre-verbali,
finalizzate ad orientare gli impulsi istintuali: ad esempio l’impulso alla nutrizione è organizzato in-
torno ad una “imago” di seno che preesiste alla scoperta del seno reale ma che interagisce con esso.
Il seno materno è fonte di soddisfazione e, come tale, conferma l’aspetto libidico del fantasma og-
gettuale, ma può anche essere causa di dispiacere nella misura in cui è assente o inadeguato al biso-
gno. Le fantasie inconscie strutturano il mondo interno ed esterno, svolgendo anche un compito di
difesa, in quanto l’oggetto cattivo è proiettato fuori, l’oggetto buono è introiettato dentro, secondo
il modello di funzionamento fisiologico dell’apparato orale.
L’Io primitivo è quindi animato dalle energie istintuali suddivise in libidiche ed aggressive ed ha
due direzioni di scarica, verso l’interno e verso l’esterno.
Melanie Klein denomina questa prima modalità di organizzazione dell’Io “posizione schizo-para-
noide”; il termine posizione, che sostituisce quello freudiano di “fase”, sta ad indicare il carattere
strutturale (più che cronologico) e di relativa permanenza di questa modalità psichica.
Normalmente accade una dicotomia: le parti dell’oggetto e del sè buono vengono introiettate, le par-
ti del sè e dell’oggetto cattivo vengono proiettate. In tal modo l’Io si scinde e sperimenta una situa-
zione “schizoide”. L’istinto di vita viene scisso: la parte proiettata sul seno buono, che rimane uni-
tario, ne fa un oggetto ideale, quella rimasta in sé viene utilizzata per stabilire il rapporto amoroso.
Nello stesso tempo, l’oggetto esterno (seno) può essere investito di pulsioni distruttive, divenendo
un oggetto cattivo e persecutorio.
L’impulso sadico di morderlo, che si evidenzia con la dentizione, si trasforma così nella paura spe-
culare di essere divorato. Se l’Io vive l’ angoscia di essere distrutto dagli oggetti cattivi, proverà una
angoscia di tipo paranoide (quando l’oggetto è esterno), di tipo ipocondriaco (quando l’oggetto
persecutorio è sentito come interno). Se il neonato mette in atto il meccanismo di introiezione, potrà
essere invaso dall’angoscia di essere deprivato dei suoi contenuti buoni ad opera di un aggressore
interno.
E’ essenziale, ai fini di uno sviluppo armonico, che le esperienze buone superino quelle cattive.
Il passaggio dall’oggetto parziale all’oggetto intero, che accade verso i sei mesi, segna il su-
peramento della posizione schizo-paranoide e l’ inizio di quella depressiva. Il bambino diventa ca-
pace di riconoscere la madre come una persona intera e via via di integrare le altre presenze umane
del suo ambiente. Prima la madre era seno, occhi, bocca, mani, ora è un oggetto intero che può esse-
re presente o assente, a volte buona a volte cattiva, amata ed odiata. Il bambino impara a dominare
le sue angosce. Tra le varie tendenze prevale ora quella volta ad incorporare l’oggetto ideale nell’Io.
La madre unificata assomma in sé le caratteristiche precedentemente scisse della bontà e della catti-
veria e diventa un oggetto ambivalente; il bambino scopre che la madre non esiste solo in funzione
dei suoi bisogni, ma ha una vita autonoma e relazioni diverse, tra cui essenziale quella col padre.
Mentre teme di perderla, si sente impotente a trattenerla e si riconosce dipendente da lei per la sua
sopravvivenza. Dipendenza ed impotenza provocano l’insorgere della posizione depressiva; in essa,
l’angoscia sorge dal timore che i propri impulsi aggressivi distruggano l’oggetto amato, e poichè l’og-
getto ideale è incorporato nell’Io, qualsiasi attacco nei suoi confronti è sentito come autodistruttivo.
Da questo momento l’aggressività infantile non provoca solo angoscia ma anche lutto e senso di
colpa.

Invidia e gratitudine (1957)

Anche nel caso che le esperienze buone superino quelle cattive, può accadere che il bambino sia
impedito nella sua evoluzione. Uno dei fattori di perturbazione è l’invidia, che viene sperimentata
sin dalla prima infanzia. A differenza della gelosia, che si fonda sull’amore, tende al possesso del-
l’oggetto amato ed alla rimozione del rivale, presupponendo un rapporto triangolare ed oggetti rico-
noscibili nella loro autonomia (complesso edipico), l’invidia è, per la Klein, molto più precoce e fon-
damentale; essa consiste in una relazione a due che investe l’oggetto per qualche suo possesso o
qualità, e viene essenzialmente sperimentata nei confronti di oggetti parziali.
Il suo primo insorgere avviene nei confronti del seno: il desiderio che il bambino prova per il suo
oggetto vitale si può ammantare di aggressività: si ha allora il vissuto inconscio di “bramosia”.
Con il procedere dello sviluppo, l’invidia può investire il corpo della madre, la coppia parentale, e
se è troppo intensa non consente il riconoscimento dell’ oggetto ideale. L’individuo si sente allora
solo, incapace di dare aiuto e conforto. Nell’evoluzione normale, invece, all’invidia si contrappone la
gratitudine, l’oggetto ideale diventa parte dell’Io e ne accresce la capacità di amore.
LA SECONDA INFANZIA

Lo sviluppo fisico. Da un punto di vista somatico la velocità dell’accrescimento rallenta


notevolmente. Il tipo di crescita è distribuito diversamente: mentre la testa resta più o meno uguale,
a crescere sono il tronco e le gambe. Questa è una crescita che si chiama cefalo-caudale, in quanto
procede dalla testa verso le estremità.
Il sistema nervoso non presenta ulteriori modificazioni maturative nella struttura, ma si osservano
delle importanti differenze funzionali. A partire dai 30 mesi circa si possono formare i primi ricordi
episodici permanenti. Mentre gli eventi sperimentati nella prima infanzia non lasciano mai tracce
permanenti in memoria (quindi il soggetto adulto non ricorda nulla che sia avvenuto a quell’età),
nella seconda infanzia la memorizzazione a lungo termine comincia ad essere attiva secondo
modalità almeno in parte analoghe a quelle definitive. Questi ricordi infantili sono però in genere
frammentari e di lunghi periodi possono essere ricordate solo delle scene che ad un adulto possono
sembrare irrilevanti (come il colore di un lombrico, la voce della maestra dell’asilo, l’ombra cupa di
una nuvola su di un campo, ...). Con ogni probabilità sono rimasti registrati in modo permanente
solo gli stimoli che hanno colpito la fantasia e la emotività del bambino.
A livello di coordinamento motorio, il bambino che aveva già imparato a camminare da solo diviene
capace di correre, saltare con la corda, di giocare con la palla, di nuotare, di andare in bicicletta. La
motricità si organizza con precisione e diviene gioco motorio.. A livello di gioco compare l’interesse
per le manipolazioni fini, con giochi di biglie, interesse per gli incastri e semplici giochi di costruzio-
ne, per giochi con le marionette o per giochi con accessori per le bambole.

Lo sviluppo linguistico. Fra i due ed i sei anni si assiste a un grande sviluppo delle capacità
linguistiche. Aumenta il numero di parole (che passa da un vocabolario di 120-200 ad almeno 2500)
ma, soprattutto, si apprende come usarle e connetterle in frasi. L’apprendimento linguistico parte
da una imitazione dei suoni e poi si estende ad una imitazione e riproduzione delle regole sintattiche
e grammaticali. Al di sotto dei quattro anni il bambino fa un uso egocentrico del linguaggio: lo usa
per comunicare bisogni oppure “gioca” con esso come in un soliloquio.
Fino ai 4 anni il bambino opera poche distinzioni concettuali e questo traspare da come usa le
aprole che conosce. Il suo linguaggio è concreto (la parola non indica un oggetto, “è” l’oggetto), la
parola è unica e generalizzabile (tutti gli animali a quattro zampe sono “cane”), il tempo è solo
presente, le frasi sono solo brevissime (due-tre parole o poco più) e direttamente dichiarative.
Quando comincia ad imparare le regole, le adopera in modo rigido compiendo quelli che si chiama-
no ipercorrettismi o regolarizzazioni (per esempio dice: “fava” invece di faceva, “anderò” invece di
andrò, ecc.). A partire dai 4 anni il linguaggio non è più egocentrico ma diventa socializzato. Il bam-
bino parla molto e usa il linguaggio sia per fare le domande che per descrivere, seppure con frasi
giustapposte ed in modo non articolato, quello che ha fatto.
Verso i sei anni comincia, infine, la ricerca della collaborazione con l’interlocutore, il bambino
articola meglio il proprio discorso ed inizia a parlare non solo di quello che ha fatto ma anche di
quello che pensa.
Il livello di competenza linguistica dipende molto strettamente dagli stimoli ricevuti dall’ambiente
familiare. Nelle famiglie meno acculturate gli scambi verbali sono più semplici, utilizzano un
vocabolario più ristretto, sono pertinenti a oggetti e situazioni concrete più che a concetti astratti.
I messaggi verbali vengono cioè trasmessi utilizzando quello che Bernstein ha chiamato codice
linguistico ristretto, per contrapporlo al codice linguistico allargato delle famiglie più acculturate.
Molti studi hanno ripetutamente dimostrato che in rapporto alla diversa stimolazione in famiglia i
bambini giunti all’età scolare rivelano differenze di competenza linguistica che la scuola ben
difficilmente riuscirà poi ad eliminare.
LO SVILUPPO DEL LINGUAGGIO

I bambini sviluppano la loro capacità linguistica in una sequenza ordinata di fasi e passano dalle
prime emissioni sonore spontanee e lallazioni alla costruzione di frasi complete.

1. Nella Fase pre-linguistica compare la predisposizione alla elaborazione dei suoni contenuti nel-
la voce umana e la capacità di discriminazione della voce materna dalle altre voci. A partire da 3/5
settimane di vita compaiono i suoni vocalici; intorno al 3° mese compaiono le prime associazioni
vocali-consonanti: le lallazioni. In breve queste combinazioni vengono combinate e ripetute come
a formare parole bisillabiche (ma-ma, da-da, pa-pa). Intorno al 5°-7° mese le lallazioni tendono a
coincidere con i fonemi utilizzati dalla lingua dell’ambiente nel quale il bambino viene allevato, e
verso il 7°- 8° mese possono comparire le parole monosillabiche corrette, come “no” e “sì”.

2. Nella Fase monoverbale, che inizia verso il 10°-12° mese, il bambino comincia a produrre le
prime parole (per lo più di due sillabe) e si esprime usando solo una parola per volta, spesso come
sostituto di una frase (parola come “olofrase”). Spesso il bambino iper-estende il senso di una
parola (cane per quadrupede); talora ipo-estende il senso delle parole (la parola “divano” per
un’unica stoffa di rivestimento). L’apprendimento del vocabolario è guidato dall’uso e finalizzato,
riferito alle cose che maggiormente lo interessano.

3. Nella Fase del linguaggio telegrafico (18°-24° mesi) i bambini cominciano a combinare le
parole in espressioni di due elementi. Sono frasi prive di elementi “accessori” (articoli, avverbi; ecc.)

4. Nella Fase dell’acquisizione grammaticale-sintattica (2-6 anni) la sequenza di apprendimento


dei morfemi (le modificazioni delle parole che ne modificano il senso: singolare, plurale, presente,
passato) sembra seguire una sequenza fissa, legata al grado crescente di complessità. Il bambino
iper-regolarizza i morfemi (soddisfava per soddisfaceva, canòne per cagnone, ecc.), nel senso che
applica il morfema regolare anche alle forme irregolari. Secondo Slobin la sequenza concreta
dell’apprendimento è: a) l’apprendimento della regola b) l’applicazione della regola in tutti i casi;
c) l’apprendimento e l’uso delle eccezioni o trasformazioni (la frase dichiarativa che diventa
negativa, interrogativa, composta).

TEORIE SULLO SVILUPPO DEL LINGUAGGIO

Le principali teorie sullo sviluppo del linguaggio sono:


1. La Teoria dell’imitazione, secondo la quale l’apprendimento linguistico avviene passivamente,
per semplice imitazione dei modelli di riferimento.
2. La Teoria del rinforzo afferma che i bambini imparano a parlare in modo appropriato perchè
“guidati” e stimolati dalle reazioni di rinforzo positivo da parte dei genitori (Skinner).
3. Le Teoria innatiste più recenti propugnano l’esistenza di una disposizione interna biologica del-
l’uomo verso l’acquisizione linguistica, ovvero l’esistenza di un meccanismo di acquisizione
linguistica (LAD, language acquisition device) che orienta lo sviluppo del linguaggio indipendente-
mente dalle variazioni ambientali (Chomsky/Lieberman).
4. La Teoria interazionista sostiene che lo sviluppo del linguaggio è legato all’esistenza di compo-
nenti maturative ed innate, ma ritiene che queste ultime non siano il fattore unico, ma che lo svilup-
po del linguaggio sia il prodotto di una interazione fra componenti maturative e stimoli ambientali.
Lo sviluppo intellettivo. Per quanto riguarda lo sviluppo cognitivo della seconda infanzia (2 - 7
anni), abbiamo quello che Piaget chiama il periodo del pensiero pre-operatorio; egli individua due
momenti: la fase del pensiero simbolico e pre-concettuale (2 / 4 anni), e la fase del pensiero
intuitivo (4 / 7 anni).
La prima fase è caratterizzata dalla forma di pensiero chiamata rappresentativa o simbolica, che
permette una sorta di “manipolazione mentale” degli oggetti e degli eventi. Il bambino è in grado di
rappresentare qualcosa mediante un’altra cosa che la simboleggi (oggetto, gesto, parola, segno...).
Ciò avviene tramite comportamenti tipici di questo periodo, come: l’imitazione differita (cioè effet-
tuata in assenza del modello da imitare), il gioco simbolico o di finzione (far finta di...), il disegno,
l’evocazione verbale di eventi non attuali. La funzione simbolica è potentemente agevolata dal con-
temporaneo sviluppo del linguaggio.
Questa fase è chiamata anche “preconcettuale”, perchè il bambino fa ricorso a dei pre-concetti,
cioè a dei precursori elementari dei concetti, ancora molto legati al concreto, e oscillanti tra la desi-
gnazione dell’elemento individuale e il riferimento alla classe cui appartiene. Manca il corretto uti-
lizzo dei quantificatori (“tutto”, “qualche” ecc.), quindi il bambino potrà dire, ad esempio,
“la lumaca” per intendere tante lumache. Il ragionamento che deriva dai pre-concetti è chiamato
transduzione, in quanto non procede, come la deduzione, dal generale al particolare, ma dal parti-
colare al particolare, sulla base di nessi analogici , associazioni mentali, senza precisi nessi logici.
É considerata una forma di ragionamento “sincretico”, perchè, a differenza del ragionamento
“sintetico”, coerente e consequenziale, procede per giustapposizioni spesso casuali.
Il periodo intuitivo è così chiamato perchè il bambino usa la rappresentazione mentale in forma
intuitiva, senza un’effettiva coordinazione razionale, per fare delle ipotesi di tipo analogico.
Non esiste ancora la reversibilità, e il pensiero presenta una logica unidirezionale: la rappresen-
tazione mentale aderisce al percorso della percezione e, una volta raggiunto il risultato finale dell’a-
zione, è incapace di rielaborarla e ripercorrere le fasi esecutive precedenti per riorganizzarle in un
insieme. Una classica illustrazione di questo modo di pensare è fornito dalla prova dei bicchieri.
Se si presenta ad un bambino un bicchiere alto e stretto pieno fino al bordo e poi si travasa il liqui-
do, davanti ai suoi occhi, in un bicchiere basso e largo e poi gli si domanda in quale dei due c’è più
acqua, la risposta in questa fase è: c’è più acqua nel bicchiere più stretto, quello con il livello più
alto. Quando l’acqua è nel bicchiere basso, ce n’è di meno. Anche ripetendo più volte il travaso la
risposta non cambia: il bambino sembra ancorare la sua risposta al solo dato percettivo del livello,
che è più alto, “quindi vuol dire che c’è più acqua”.
Una caratteristica generale del periodo pre-operatorio è l’egocentrismo cognitivo, che consiste
nell’impossibilità di “decentrarsi” dal proprio punto di vista per vedere la situazione dal punto di
vista dell’altro e coordinare insieme le diverse prospettive.

Lo sviluppo emotivo. Nel modello dello sviluppo psicodinamico, secondo Freud, il periodo della
seconda infanzia non è una fase unitaria.
Il periodo fino ai 3-4 anni è la fase anale. In questa fase inizia l’autonomia motoria del bambino,
autonomia che ha la sua prima radice nel controllo degli sfinteri. Su questo controllo si gioca in parte
il rapporto educativo e la relazione con i genitori, i quali potranno essere più o meno perentori nel
richiedere al bambino un controllo sfinterale precoce. Il “trattenere”, la stitichezza, può diventare
sintomo di una difficoltà nella relazione con i genitori, un segno del desiderio di controllare e posse-
dere. Freud ritiene che disturbi di tipo ossessivo e distorsioni del carattere nel senso della avarizia e
della possessività in età adulta (il cosiddetto “carattere anale”) derivino da disturbi di sviluppo in
questa fase.
Fra i tre anni e mezzo e i sei si colloca la fase fallica o edipica, caratterizzata dalla preminenza
della scoperta e della manipolazione del proprio corpo e in particolare della scoperta dei genitali
maschili e femminili. Nel bambino compare un interesse per le differenze tra i sessi e per il meccani-
smo e l’evento della nascita. Freud afferma che in questa fase i bambini hanno un profondo investi-
mento libidico nei confronti del genitore di sesso opposto, arrivando ad amarlo intensamente.
Tendono a sentirsi a disagio e in colpa per questo e, più o meno chiaramente, temono una punizione
e vivono come ostile e minaccioso il genitore dello stesso sesso. Richiamandosi alla tragedia greca
(Edipo re, Edipo a Colono, di Sofocle: senza saperlo, Edipo uccide suo padre e sposa sua madre),
Freud ha chiamato questa fase con il nome di fase edipica. La fase edipica è per Freud un evento fi-
siologico e naturale che non diventa necessariamente una patologia. Normalmente il superamento
della crisi edipica avviene attraverso l’identificazione (padre/madre). Quando però il comportamen-
to dei genitori non è adeguato (totalmente “anaffettivo” o all’opposto troppo incline ad assecondare
le pulsioni infantili), può avvenire che il complesso edipico si traduca in un disturbo di tipo nevro-
tico.

LA TERZA INFANZIA

Se l’inizio della terza infanzia, o fanciullezza, può essere fissato con ragionevole precisione intorno
ai 6-7 anni con l’inizio dell’età scolare, la sua conclusione coincide con la maturazione puberale, la
quale si verifica in un’età diversa fra maschi e femmine con grande variabilità da soggetto a soggetto.
In termini molto generali si può dire che la fanciullezza si conclude intorno agli 11 anni in media per
le bambine e ai 13 per i bambini. Va ricordato che negli ultimi cento anni si è assistito ad un accor-
ciamento della fanciullezza, il cui termine a fine ‘800 era collocato circa tre anni più tardi di adesso.
Questa fase non è caratterizzata da cambiamenti molto evidenti dal punto di vista fisico, ed anche
la psicomotricità nella fanciullezza non progredisce in modo significativo rispetto alla seconda infan-
zia, anche se il consolidamento delle masse muscolari che precede la pubertà comincia a rendere pos-
sibile un impegno atletico non agonistico.

Lo sviluppo intellettivo. Lo sviluppo dell’intelligenza è rilevante perchè questa è la fase che vede,
per usare la terminologia di Piaget, la comparsa delle operazioni concrete, cioè delle operazioni men-
tali che poggiano su una base percettiva e motoria presente e tangibile.
L’età media della comparsa di ragionamenti logici di tipo concreto è quella dei sette anni; bambini
particolarmente precoci e intelligenti oppure riccamente stimolati possono avere questa capacità a
partire dai sei anni circa, mentre dei bambini ipo-stimolati o con una minore dotazione intellettiva
possono non averla ancora sino ad otto anni.
Il fanciullo comincia ad essere capace di effettuare delle operazioni logiche vere e proprie. La prova
della costanza della quantità (prova dei bicchieri) viene risolta correttamente perchè il fanciullo co-
mincia ad essere capace di fare operazioni mentali reversibili e non più semplicemente riproduttive e
lineari come nella seconda infanzia. In questo periodo il pensiero infatti è caratterizzato dalla rever-
sibilità: ad ogni azione mentale è quindi associata un’altra azione che è la sua inversa o reciproca.
Nella prova dei bicchieri, il fanciullo comprende sia che la diminuzione in altezza è compensata dalla
maggiore larghezza (reversibilità per compensazione) sia che operando un travasamento inverso il
liquido raggiungerebbe di nuovo il livello precedente (reversibilità per inversione).
Questa, non a caso, è l’età della prima scolarizzazione. É infatti a partire dall’età di 6-7 anni che il
bambino comincia ad avere la capacità di compiere le prime operazioni logiche concrete che rende-
ranno possibile l’acquisizione sia del concetto di numero che la formulazione delle regole linguistiche
e l’apprendimento della lettura e della scrittura. Le operazioni mentali sono infatti coordinabili in
sistemi d’insieme (raggruppamenti) quali le costruzioni di classi, le gerarchie di classi e le seriazio-
ni (ordinare degli elementi dal più piccolo al più grande e viceversa); tutto però avviene entro i limiti
del riferimento al concreto, cioè il fanciullo ha bisogno di riferimenti percettivi e manipolatori speci-
fici. Il fanciullo riesce a capire che la stessa azione, ripetendosi, resta invariata (tautologia), che lo
stesso punto d’arrivo può essere raggiunto da due vie diverse (associatività, ad es. nell’addizione:
“la somma non cambia se al posto di due o più addendi si sostituisce la loro somma”), riesce a co-
ordinare due azioni successive in una sola, (transitività: “se A = B e B = C allora A = C; se A è
maggiore di B e B è maggiore di C, allora A è maggiore di C”).

Lo sviluppo emotivo. Per la teoria psicoanalitica di Freud la fanciullezza è una sorta di fase silente
o di transizione, collocata a ponte tra le decisive trasformazioni dell’infanzia e i rivolgimenti matura-
tivi della adolescenza. Viene chiamata fase della latenza, perchè rispetto all’intenso vissuto affetti-
vo del periodo edipico, conflitti e problemi rimangono sullo sfondo, sono come assopiti e nascosti;
le pulsioni si affievoliscono, anche le curiosità e gli interessi precedenti per le differenze tra i sessi e
per il meccanismo e l’evento della nascita tendono solitamente ad essere rimossi.
L’atteggiamento generale del fanciullo è molto meno egocentrico, le relazioni sono meno conflittuali
e si verifica, nei confronti delle pulsioni così vivaci ed emergenti nella fase precedente, un processo
di sublimazione. Per Freud la sublimazione è un meccanismo di difesa per il quale l’energia libidica
viene deviata da oggetti inaccettabili ad altri accettabili, moralmente approvati e culturalmente rico-
nosciuti. Il bambino tenderà quindi a impegnarsi nell’attività (scolastiche, artistiche, sportive ecc.)
alle quali i genitori mostrano di tenere in particolar modo; se nella fase edipica l’investimento libidi-
co riguardava direttamente il genitore di sesso opposto, ora potrà riguardare gli oggetti culturalmente
approvati in ambito familiare: il fanciullo sa che così sarà amato e apprezzato dai genitori.
La sublimazione degli affetti comporta molto spesso che il fanciullo idealizzi le qualità dei propri
genitori. Tipicamente il fanciullo e la fanciulla desiderano compiacere i propri genitori e li ammirano
apertamente, assumendoli come modelli sia per i loro giochi che per le prime fantasie vocazionali su
ciò che faranno da grandi. Questo processo di identificazione adesiva nei confronti di un adulto non
è riservato solo al rapporto con i genitori, ma abbastanza di frequente si attua anche verso altre figu-
re di riferimento, sia appartenenti alla famiglia allargata che ad adulti esterni alla famiglia, come gli
insegnanti elementari. Tale identificazione è ingenua, solitamente priva di spirito critico e facilmente
manipolabile. Si registra dunque uno sviluppo in ampiezza delle capacità affettive, in particolare il
fanciullo esce dal ristretto ambito familiare e comincia a creare dei rapporti sociali tra i pari; questa è
allora la fase delle prime amicizie e sodalizi di gioco, delle prime conoscenze scolastiche e di vicina-
to, dei giochi di gruppo, della capacità di riversare il proprio affetto sugli animali domestici.
Questa fase si caratterizza quindi per la grande importanza degli stimoli sociali e per il rilievo as-
sunto, nello sviluppo dei contenuti identitari, dalle figure adulte di riferimento. Si può dire che
psico-pedagogicamente questa è la fase dell’assorbimento dei modelli. Il fanciullo tende ad assume-
re i modelli e gli schemi che gli vengono proposti in modo sostanzialmente passivo e conformistico.
Il fanciullo non mostra soltanto un aumento delle capacità di apprendimento legate alla riproduzio-
ne e comprensione dei modelli che gli vengono offerti, ma mostra un notevole aumento delle capacità
di creare e fantasticare: dai sette-otto anni in poi si nota una maggiore recettività e creatività nella
musica, nel disegno, nelle pratiche artistiche in genere. Queste nuove possibilità possono tradursi in
cambiamenti reali oppure no in stretta dipendenza con le caratteristiche dell’ambiente in cui il fan-
ciullo cresce: tali caratteristiche assumono quindi una importanza capitale per orientare concreta-
mente il bambino nel suo corso di sviluppo e nelle sue scelte future.
L’ADOLESCENZA

L’adolescenza è una fase di trasformazione e di passaggio che inizia con la pubertà e si conclude
con l’ingresso nel mondo degli adulti e con l’assunzione di un ruolo sociale autonomo. Mentre l’ini-
zio dell’adolescenza è marcato da un cambiamento fisico (lo sviluppo sessuale della pubertà) il suo
termine non è fissato dalla fisiologia, ma dipende da fattori psicologici e sociali. Si diventa adulto
perchè ci si sente tale, perchè si assumono responsabilità e si fanno cose tipiche dell’adulto e per-
chè, infine la società riconosce e sancisce che questo ingresso nel mondo adulto è avvenuto.
Spesso si utilizzano delle date convenzionali per stabilire tale ingresso nel mondo adulto (la “mag-
giore età”, un tempo a 21, oggi a 18 anni). Questa data naturalmente è solo una convenzione, per fis-
sare quando l’adolescenza si è conclusa in un modo valido per tutti. Ma lo sviluppo non è solo ma-
turazione: le esperienze e gli apprendimenti sono decisivi per lo sviluppo della persona. Se un gio-
vane si è sposato da minorenne o ha iniziato precocemente a lavorare, ci può essere una trasforma-
zione di status anticipata rispetto all’età canonica (adolrscenza sacrificata), così come, all’opposto,
il raggiungimento della maturità fisica e il passare degli anni ben oltre la maggiore età (come ad es. nel
caso degli studenti universitari) può non corrispondere per nulla ad un’autonomia di tipo adulto
(adolescenza prolungata). Diventa allora opportuno individuare i molteplici “esiti” del processo
adolescenziale.

esiti adolescenziali: 1) Nell’adolescenza “adeguata”, l’adolescente diventa gradualmente adulto


attraverso il processo di “identificazione introiettiva” con qualità parentali quali la stabilità, la gene-
rosità, la gratitudine. Il giovane sceglie partners simili, acquista possibilità di confronto critico, evita
la stagnazione. E’ comunque un processo lento e difficile, e richiede un contesto socioculturale che
ne favorisca l’attuazione, con atteggiamenti che proteggano lo sviluppo (educazione alla soluzione
dei conflitti; educazione all’esame critico della realtà; tolleranza parentale verso gli “acting-out” di
disprezzo e di dominio, disponibilità al confronto generazionale).
2) L’esito molto più frequente è quello in cui l’adolescente, per non abbandonare le tranquille sicu-
rezze dell’età dela latenza, prosegue nella negazione dell’introspezione e del conflitto; questi adole-
scenti, spesso appartenenti a famiglie borghesi, riproducono acriticamente il modello familiare, sen-
za manifestare alcun potenziale critico; in questa forma adolescenza ritardata, l’insorgenza dei con-
flitti e la nevrotizzazione avvengono solitamente intorno ai trentanni, nel primo impatto con la real-
tà “adulta” (ingresso nel mondo del lavoro, matrimonio, nascita dei figli).
3) Delle volte l’adolescenza viene prolungata all’infinito: spesso sono i progetti grandiosi, il senso
di inadeguatezza nei confronti di modelli non emulabili che generano la tendenza a rimandare all’infi-
nito l’entrata nella condizione adulta, vissuta come caduta ingloriosa in un modello inadeguato.
4) Il caso della adolescenza sacrificata riguarda soprattutto chi si trova nell’impossibilità di
disporre del tempo necessario per la formazione della propria personalità; in un ragazzo che entra
precocemente nel mondo del lavoro, o si sposa da minorenne, si producono dei cambiamenti di
status anticipati rispetto all’età canonica ed il processo adolescenziale viene spesso eluso.

In alcune società umane (le cosiddette società statiche, o primitive) non esiste l’adolescenza ma
solo la pubertà. Si tratta di società nelle quali al compimento della maturazione sessuale e con la evi-
denza della capacità riproduttiva ii giovani passano immediatamente a far parte del mondo degli
adulti. Questo ingresso in genere viene sancito con un rito di passaggio, il quale può talvolta con-
sistere nel superamento di una particolare prova codificata nel rito stesso. Questa può essere una
prova di coraggio, una prova di resistenza alla solitudine a al dolore, un semplice distacco dalla casa
familiare ed isolamento di qualche giorno, cui segue il ritorno da “adulto” nella comunità sociale. Una
volta compiuto questo passaggio rituale il neo-adulto comincia da subito ciò che dagli adulti ci si
aspetta, cioè si sposa, comincia a lavorare, ecc. Le società senza adolescenza sono semplici, statiche
e poco evolutive. Sono, secondo la definizione di Claude Levi-Strauss, “società senza storia”. Non
esiste in esse richiesta di scolarizzazione, i lavori ed i ruoli sociali ad essi connessi si trasmettono
sempre uguali di padre in figlio, di madre in figlia. In preatica ognuno ha la sua collocazione prevedi-
bile fin dalla nascita.
Anche presso di noi è possibile riconoscere delle situazioni che ricordano gli antichi riti di passag-
gio. Queste possono essere la cresima, la selezione di leva e il servizio militare, l’esame di maturità
o la laurea. Ma le società dinamiche (complesse, come la nostra), sono mobili ed evolutive, non
permettono che diventare adulto sia una cosa così semplice da potersi risolvere con un rito; esse ri-
chiedono dunque una specializzazione e una scolarizzazione prolungata. Si diventa adulti per gradi,
con un lungo apprendistato: i ruoli adulti, prima di essere agiti, vengono, per così dire, recitati o
“provati” (in una fase che Erikson chiama moratoria psico-sociale). Le società complesse, moderne,
industriali, hanno quindi “creato” l’adolescenza. In altre parole, l’adolescenza così come la conoscia-
mo, non è solo una fase evolutiva, ma anche e soprattutto una costruzione psico-sociale all’interno
della quale si esercitano in modo ancora sperimentale o “giocoso” le capacità di tipo adulto che sono
maturate con la pubertà. Tra queste rivestono un ruolo fondamentale le nuove capacità intellettive.

Lo sviluppo intellettivo. Le capacità intellettive, fra gli 11 e i 14 anni, fanno un grande progresso
qualitativo perchè il giovane per la prima volta comincia a fare delle operazioni mentali con dei con-
cetti astratti. Inizia la fase più alta dello sviluppo cognitivo nella specie umana, la fase che Piaget ha
definito delle operazioni formali. Compiendo dei ragionamenti astratti, l’adolescente dimostra di
essersi affrancato dal concreto, che per tutta la fanciullezza aveva mantenuto il suo primato.
Poter fare ragionamenti astratti significa poter manipolare dei concetti che non hanno una rappre-
sentazione materiale e concreta ma solo o prevalentemente logica. Ha dunque fatto la sua comparsa
il pensiero ipotetico-deduttivo, quel tipo di pensiero che, senza bisogno di ricorrere all’esperien-
za, costruisce ipotesi e ragiona su di esse, trae implicazioni e procede mettendo in atto strate-
gie scientifiche nell’interpretazione dei fenomeni.
Si possono quindi formulare delle ipotesi, comprendere e riformulare dei concetti filosofici e mate-
matici. Si apre concettualmente una finestra sul mondo, per certi versi si crea nella mente del giovane
adolescente un mondo nuovo perchè tutto quanto era nella sua mente viene vagliato con spirito criti-
co. Il nuovo modo di cogliere le cose, la logica e la razionalità, viene applicato al giudizio delle cose e
l’adolescente si crea una propria opinione del mondo e dell’ambiente che lo circonda. Abbastanza
spesso il mondo degli adulti è incoerente, contradditorio e poco lineare, ben lontano nei fatti dagli
ideali che enuncia a parole. Il mondo nuovo dell’adolescente è invece un mondo di coerenza e di as-
soluti. Abbastanza spesso il giovane adolescente, fra i 13 e i 16 anni, assume un atteggiamento che
potremmo chiamare ascetico e questo lo pone in conflitto anche aspro con i genitori e con gli adulti
in genere, da lui colti come opportunisti e contradditori.

Lo sviluppo affettivo. Il conflitto con i genitori non deriva solo dalla trasformazione intellettiva e
dallo sviluppo del giudizio morale da parte del giovane ma ha anche delle cause di tipo affettivo.
Le trasformazioni sessuali della pubertà aprono al ragazzo ed alla ragazza un mondo nuovo di espe-
rienze e di sensazioni. Esiste quindi una tensione verso il nuovo, il desiderio di fare delle prove, degli
esperimenti di ogni genere. Il nuovo, l’ignoto, è però anche fonte di paura, di timore di non farcela,
di non essere all’altezza dei compiti. Esiste anche una sorta di ambivalenza verso il cambiamento,
con la presenza sia della voglia di provare che di quella di trovare un rifugio noto e tranquillo. Sia
verso il proprio passato infantile che verso i propri genitori c’è un misto indefinito di voglia di di-
stacco e di rassicurazione. Il giovane vuole distaccarsi ma ha anche paura di farlo davvero. Questa
altalena si riflette direttamente nella relazione conflittuale e nelle discussioni solo apparentemente
politiche, morali o filosofiche che si accendono con i genitori. Nel nostro contesto socio-culturale,
l’ambiguità dello stato adolescenziale è un fatto documentato: nessuno sa esattamente quali siano i
diritti e i doveri di un adolescente; a volte gli si chiedono prestazioni da persona matura, altre volte è
escluso dal gruppo dei “grandi” come se fosse un bambino. Questa condizione di marginalità, per
cui l’adolescente non appartiene né al gruppo dei fanciulli né al gruppo degli adulti, lo pone in una
situazione di incertezza che indebolisce il senso della propria identità personale, sessuale e sociale.
Molto spesso gli adolescenti trasmettono degli stili nelle loro scelte comportamentali e nelle loro
opinioni. Questa trasmissione si organizza e diventa qualcosa che travalica il singolo, esprimendosi
nelle varie forme di cultura adolescenziale. Tipici di queste forme sono lo spirito trasgressivo, il
bisogno di colpire con l’esibizione di condotte o di simboli, la gregarietà e lo spirito di gruppo, la de-
terminatezza estrema nel sostenere delle posizioni non mediabili, associata ad una certa volubilità.
I rapporti sociali si allargano con la pubertà e si creano delle solidarietà di gruppo. Il gruppo adole-
scenziale è tipicamente un gruppo dei pari, con rigide barriere di età sia verso gli adulti che verso i
fanciulli, poco mobile ed aperto nei suoi confini. In un primo tempo questo gruppo, che può essere
amicale e di gioco ma può anche avere connotati diversi e più strutturati, è tipicamente un gruppo
monosessuale, cioè composto solo da ragazzi o solo da ragazze. Solo in un secondo tempo questi
gruppi diventano misti; attraverso l’intensificarsi degli scambi, si arriva alla formazione di un grup-
po più ampio, (“la compagnia” o gruppo eterosessuale) entro cui si creano nuove aggregazioni, com-
prendenti ora partner di sesso diverso. Spesso queste aggregazioni danno origine a due o più gruppi
misti, che matengono dei rapporti reciproci. Infine, nella tarda adolescenza, la “compagnia” e i sot-
togruppi tendono a disgregarsi per la formazione di coppie eterosessuali e quindi cessano di esistere.
Col termine della pubertà il giovane entra in quella che Freud chiama fase genitale.
I meccanismi che abbiamo visto all’opera nella fanciullezza vengono usati più estesamente e l’ado-
lescente può iniziare a rivolgere l’affetto verso l’altro da sé. L’energia libidica non si concentra più
sul proprio corpo ma si protende verso un rapporto totale della persona con un’altra persona.
Questo percorso, che viene fatto per tentativi e spesso con molte contraddizioni, ha come sbocco fi-
nale una trasformazione del rapporto affettivo con i genitori. Con la scoperta dell’amore e della ses-
sualità matura il giovane, in qualche modo, sostituisce il legame primario che dell’infanzia lo vincola-
va alla madre o al padre.
Con l’adolescenza, quindi, rivivono delle gelosie e delle tensioni di tipo edipico. I genitori stessi
possono talvolta ostacolare con divieti e restrizioni sconsiderate e “gelose” le esperienze dei figli
oppure, più raramente, anticipare il distacco da essi con un disinteresse apparentemente tollerante.
Attraverso questa situazione conflittuale, di vera e propria crisi adolescenziale, il giovane costruisce
una propria identità separata e distinta da quella dei genitori. Il termine della fase genitale coincide
con la capacità piena di assumere il ruolo sessuale e con la creazione di un rapporto di coppia auto-
nomo.
L’ADOLESCENZA: IL MODELLO PSICOANALITICO

Secondo il modello psicoanalitico la crisi adolescenziale è “fisiologica” per uno sviluppo adeguato
della personalità: le soluzioni di assetto della personalità che non passano attraverso questo trava-
glio interno (conflitti e alterazioni del comportamento, difese), risulterebbero monche e parziali, in
quanto l’integrazione dell’Io non si organizzerebbe intorno a nuovi oggetti d’amore o ad una nuova
identità, bensì attorno alle antiche identificazioni, tipiche dell’età della latenza.

Fanciullezza e adolescenza

1. Il fanciullo presenta una struttura mentale rivolta alla esplorazione del mondo esteriore; egli ten-
de a negare la conflittualità e si preoccupa soprattutto di interessi che hanno a che fare con il “pre-
sente concreto”. L’adolescente, al contrario, avverte in modo intenso il primato della vita interiore,
deve fare i conti con il passato (le fantasie infantili), col modo attuale (che scopre contraddittorio),
con il futuro (che avverte incerto e problematico).
2. Il fanciullo vive il mondo adulto come fonte di sicurezza e di appoggio (i genitori sono onni-
scienti e onnipotenti). L’adolescente scopre che il mondo adulto non sa tutto e non può tutto e ne
rimane deluso. Tende a vedere gli adulti come detentori di un potere che non hanno il diritto di ave-
re, a ricercare relazioni nuove, e sente l’impulso ad allontanarsi dalle antiche identificazioni, dagli
antichi oggetti d’amore.
3. Il fanciullo pensa utilizzando il primato della percezione, del dato concreto; nell’adolescenza
emerge invece la categoria del possibile, viene utilizzato il pensiero ipotetico-deduttivo: il possibile
diventa più pregnante del reale.

Conflitti psichici relativi allo sviluppo sessuale

Nell’adolescente, la percezione delle trasformazioni puberali, oltre che dagli indici corporei diret-
tamente visibili, è condizionata dal sistema delle esperienze passate (conoscenze più o meno distor-
te, sentimenti, fantasie) attorno al problema della sessualità in generale; dal modo in cui sono state
elaborate e superate le fasi orale, anale e fallico-edipica derivano particolari reazioni conflittuali del-
l’adolescente alle trasformazioni psicofisiologiche della pubertà.
Per riemergenza di “nuclei orali”, si possono verificare, ad esempio, alterazioni del comportamen-
to alimentare; l’adolescente diventa inappetente, oppure estremamente vorace, compaiono gusti
nuovi, fobie per certi cibi, onicofagia (il mangiarsi le unghie) o altri comportamenti che testimoniano
una regressione di tipo orale.
Nel campo della pulizia personale (cura della persona, dei vestiti, stanza, libri) l’adolescente può
diventare disordinato, sporcarsi, trascurarsi; l’“ordine somatico” viene infranto, quale espressione
di aggressività contro le regole educative (comparse a partire dalla fase anale) che testimoniano la di-
pendenza infantile dalla quale l’adolescente vuole liberarsi.
Dietro la denuncia da parte dell’adolescente di un disagio emotivo per le trasformazioni somatiche
e per le transitorie disarmonie nelle proporzioni del corpo, stanno spesso problematiche psichiche
legate al fatto che le fasi precedenti sono state mal superate.
Il corpo rappresenta il ricettacolo più accettabile dell’Io per ospitare una ansietà che ha le sue cau-
se più profonde nel passato esistenziale del soggetto; in questo senso, le reazioni all’avvento del
menarca, nelle preadolescenti, potranno essere, talvolta, molto negative: l’emorragia genitale viene
considerata una funzione escretrice e la ragazza si vergogna di questo fenomeno, considerandolo
come qualcosa di sporco; di qui le reazioni di rifiuto o negazione dell’evento, che testimoniano la
resistenza ad accettare la definizione femminile, ed ii voler rimanere nella condizione “asessuata”
della terza infanzia. Quando invece il menarca si manifesta nel momento in cui l’adolescente ha rag-
giunto un grado di maturità psicologica consona all’età cronologica, esso è accolto positivamente,
come un segno di progresso nell’itinerario verso la conquista della ricercata autonomia; ciò non eli-
mina, in ogni caso, il verificarsi, anche frequente, di situazioni di conflitto (crescita / ritorno all’in-
fanzia).
L’adolescente riprende, dopo la parentesi del periodo di latenza, a porsi domande sui problemi
sessuali, ricompaiono le curiosità per le differenze sessuali, la nascita, la fecondazione e la masturba-
zione; quest’ultima in molti casi è vissuta con forte ansietà connessa a sentimenti di colpa o di per-
secuzione; in essa si può trovare l’espressione di un movimento psichico progressivo verso la etero-
sessualità (accompagnata da fantasie coscienti) oppure tensioni psichiche regressive di tipo edipico;
tali tendenze spesso convivono nelle condotte adolescenziali: l’intenso desiderio di andare avanti
verso l’autonomia ed il bisogno altrettanto intenso di tornare indietro verso la dipendenza infantile
producono spesso delle situazioni caratterizzate dal brusco passaggio da un tipo di comportamento
al suo opposto (accese ribellioni alternate a passive sottomissioni, iniziative entusiastiche seguite da
momenti di assoluta pigrizia, condotte esibizionistiche ed altre caratterizzate da chiusura e
introversione,ecc.).

Conflitti psichici relativi allo sviluppo intellettivo

Il gusto dell’adolescente per la introspezione corrisponde alla maturata capacità di operare sui dati
espressivi e concettuali; così la sua propensione alla discussione, alla problematizzazione, riflettono
la capacità dell’intelligenza astratta di subordinare il reale al possibile.
Può quindi accadere che l’adolescente provi insoddisfazione o insofferenza di fronte a contenuti
ideologici ed a norme di comportamento che il mondo degli adulti cerca di trasmettere senza mo-
strargliene la plausibilità o la razionale motivazione; da qui provengono quei conflitti, così frequenti
tra adolescenti e genitori (o insegnanti) che possono presentare, alle volte, soluzioni anche dramma-
tiche.
Altre occasioni di conflitto sono dovute alle condizioni di marginalità sociale nella quale viene a
trovarsi l’adolescente: nel nostro contesto socio-culturale, l’ambiguità dello stato adolescenziale è un
fatto documentato: nessuno sa esattamente quali siano i diritti e i doveri di un adolescente; a volte
gli si chiedono prestazioni da persona matura, altre volte è escluso dal gruppo dei “grandi” come se
fosse un bambino. Questa condizione di marginalità, per cui l’adolescente non appartiene né al
gruppo dei fanciulli né al gruppo degli adulti, lo pone in una situazione di incertezza che indebolisce
il senso della propria identità personale, sessuale e sociale. La difficoltà a immettere la nuova condi-
zione della pubertà in attività distanziate dai modelli parentali e di realizzare quindi la propria matu-
rità, può determinare nell’adolescente un senso di inutilità e rimettere in questione la stima e la con-
siderazione che egli ha di sé.

Le difese

La condizione di marginalità sociale non è uguale per tutti gil adolescenti, nè è da tutti vissuta con
pari grado di intensità: se in alcuni permane un atteggiamento realistico tipico della fanciullezza, con
il primato del “presente concreto”, l’evitamento delle scelte personali, l’accettazione delle indicazio-
ni prevalenti nella famiglia o nel gruppo sociale di appartenenza, e con il conseguente rischio di pas-
sività e conformismo, in altri l’atteggiamento affermativo può portare alla ricerca, talvolta spasmodi-
ca, dell’originalità e di una identità personale compiuta ed autonoma. Si configurano quindi, a vari li-
velli, diverse tensioni e situazioni conflittuali, con uno svolgimento “drammatico” della fase adole-
scenziale nella quale emergono alcune tipiche “difese”.
Una delle difese più tipiche è l’ascetismo: l’adolescente diffida a tal punto delle richieste
pulsionali interne che assume una condotta intransigente nello sbarrare la via ai desideri, con
proibizioni rigorosissime. Questo rifugio nella spiritualità (abbigliamento disadorno, alimentazione
ridotta, condotte rigorose autoimposte) è interrotto spesso da slittamenti verso gli eccessi opposti
(esibizionismo, eccessi alimentari, sessuali, ecc.).

Un secondo meccanismo di difesa è rappresentato dall’intellettualizzazione, che mira a trasferire


i conflitti dal piano delle emozioni a quello del pensiero. L’adolescente può, a livello di fantastiche-
ria, immaginare di essere un un trionfatore, un conquistatore o, all’opposto, un martire o una vitti-
ma; oppure, nelle forme di intellettualizzazione più rigorosa, i grandi temi religiosi, filosofici, politi-
ci, possono diventare una traduzione di impulsi aggressivi o sessuali.

La scissione è la difesa più radicale contro l’esperienza dell’ansia e della colpa, perchè gli oggetti
“buoni” sono separati da quelli “cattivi”. Riemerge il controllo onnipotente tipico dell’infanzia, che
permette all’adolescente di negare la dipendenza dai genitori, capovolgendo la situazione attraverso
una richiesta di sudditanza ed acquiescenza da parte della coppia genitoriale.
Riemerge anche l’identificazione proiettiva, per cui i genitori o gli adulti diventano il vaso
contenitore di tutta la propria aggressività. Il problema dell’adolescente è di trovare un oggetto
esterno in grado di contenere le proiezioni dell’odio, perchè la forma più primitiva di alleggerimento
della sofferenza si ha con la proiezione di parti di sé sofferenti in un oggetto esterno, nella speranza
di riceverli indietro riparati e alleggeriti.

Sono molto frequenti nell’adolescente le difese maniacali: si tratta di fantasie di onnipotenza


accompagnate da euforia, disinibizione, illimitata fiducia in sè stessi per difendersi in modo reattivo
dalla depressione, immaginando di avere tutto sotto controllo. I rapporti oggettuali sono caratteriz-
zati da trionfo, dominio e disprezzo. Tutto ciò si traduce nel bisogno di mostrarsi cinici, spietati,
arroganti e superbi. Accanto a queste forme si incontra però nell’adolescente la tendenza a preoccu-
parsi dei coetanei, ad esperire sentimenti di intimità e di affetto, a coltivare interessi artistici e cultu-
rali. Il paradosso dell’adolescente è, come dice Meltzer (1978), che egli pensa che ciò che lo “porta
avanti” nel mondo degli adulti è la mancanza di pietà, l’ambizione, l’egocentrismo, l’onnipotenza;
mentre in realtà ciò che lo “porta avanti” è l’altruismo, la sensibilità, il preoccuparsi degli altri, tutto
ciò, insomma, che egli pure prova, ma esperisce come regressivo ed infantile.

Anche il gruppo può costituire un’importante difesa per l’adolescente. Esso può rappresentare
una situazione regressiva, all’interno della quale riemergono vissuti primari di fusione con la madre
e di ambivalenza affettiva. Nel gruppo monosessuale, tipicamnete ogni membro del gruppo è sentito
come una parte del sè ed il gruppo costituisce, simbolicamente, l’equivalente psichico della pelle.

Una difesa fondamentale da una condizione portatrice di insicurezza e di ansia è il tentativo di va-
lorizzare il proprio Io, di farne il centro dell’universo. L’emergenza di questa forma di narcisismo
rappresenta un notevole aiuto, in quanto esalta l’autostima dell’adolescente, e favorisce la rottura
del legame con i modelli comportamentali del passato.
Freud definisce il narcisismo come un “investimento di energia libidica sul sé” e distingue tra narci-
sismo primario, antecedente a qualsiasi investimento oggettuale, e secondario, nel quale la libido ri-
tiratasi dagli investimenti oggettuali, si ripiega sull’Io. Il narcisismo adolescenziale rientra in questa
ultima tipologia.
La psicoanalisi più recente (Kohut, Rycroft) non intende più il narcisismo in senso necessariamen-
te svalutativo ed individua un asse oggettuale ed uno narcisistico nella personalità individuale; esiste
dunque in ciascun individuo un “narcisismo sano”, vale a dire una forma di bilancio energetico tra
investimenti sull’ Io e investimenti oggettuali, con l’ Ideale dell’Io in posizione centrale, come “for-
mazione narcisistica permanente”.
All’interno della letteratura, oggi piuttosto ampia, relativa al narcisismo, vengono definiti “rifor-
nimenti narcisistici” tutte le manifestazioni o eventi (espressioni di affetto, adulazione, lode, ecc.)
che accrescono l’autostima; vengono definite “ferite narcisistiche” tutte le occasioni, costituite da
eventi e situazioni specifiche, che recano offesa all’autostima.

Nella costellazione narcisistica adolescenziale è possibile individuare alcuni tratti caratterizzanti:

1. la scelta oggettuale narcisistica: tipo di scelta d’oggetto modellata sulle relazione del soggetto con
la propria persona ed in cui l’oggetto rappresenta la propria per-
sona sotto qualche aspetto.
2. la difesa fallico-narcisistica: rappresenta un bisogno di vendetta inconscio verso l’altro sesso;
il carattere può essere freddo e riservato, oppure derisorio e ag-
gressivo, arrogante.
3. lo stadio narcisistico transitorio: è caratterizzato dalla ribellione, dalla sfida alle regole, dallo
scherno verso l’autorità parentale (il genitore è un “idolo caduto”)
L’avvio del processo di ricerca di un oggetto libidico induce ad
attaccamenti e identificazioni superficiali e mutevoli.
L’ETÀ ADULTA

Lo sviluppo non cessa con il termine dell’adolescenza e con la fine della cosiddetta “età evolutiva”
ma prosegue in modo meno evidente e più “sottile” per tutto l’arco della vita. Il momento del pas-
saggio dalla adolescenza alla adultità e quello dalla maturità adulta alla vecchiaia sono cambiati nel
corso dei secoli insieme alle trasformazioni socio-culturali e soprattutto con l’allungamento della
speranza media di vita. La differenza nella durata della vita media implica che c’è più o meno tempo
a disposizione per assumere in pieno e sviluppare i compiti e i ruoli che caratterizzano le varie età
della vita. Questa variazione non è solo psicologica ma anche biologica: negli ultimi secoli si è antici-
pato il momento della maturazione sessuale (mediamente dai 17 ai 13 anni) e si è ritardato il momen-
to della cessazione delle mestruazioni o menopausa (mediamente dai 42 ai 51 anni). Si è allungato
dunque il periodo più fertile e fisiologicamente più attivo della vita umana; è corretto affermare che,
con l’aumento di durata della vita, andiamo incontro ad una dilatazione della giovinezza e ad una so-
cietà piena di adulti.
Lo sviluppo adulto non è il risultato dello sviluppo infantile ma è una sorta di continua ristruttura-
zione e superamento progressivo della struttura infantile ed adolescenziale. L’adulto, come il bambi-
no, è infatti una struttura aperta al cambiamento e agli influssi ambientali. Questa ristrutturazione
(che interessa la percezione di sé, l’identità, il mondo degli affetti, il modo di ragionare, lo stile di
reazione e la condotta) prosegue per tutta la vita ma ha dei momenti e delle fasi di accelerazione che
sono precipitate da eventi particolari. Si tratta di eventi che segnano delle biforcazioni vitali o dei
punti di non ritorno, costituendo altrettante tappe dello sviluppo; sono dati, per esempio, dall’ini-
zio del lavoro, dal matrimonio, dalla nascita dei figli, dalla morte dei propri genitori e dall’uscita di
casa dei figli resisi autonomi, da qualche grave malattia, dal pensionamento. Ognuno di questi pas-
saggi o eventi trasformativi è allo stesso tempo un evento di perdita ma anche di acquisizione. Come
l’adolescenza è uno stato di incertezza e di ambivalenza fra la sicurezza infantile e l’attrazione verso
un nuovo mondo di autonomia, così ad ogni evento trasformativo anche l’adulto tende a rivivere lo
stesso dilemma. In genere questo vissuto è meno drammatico e conflittuale, perchè la struttura psi-
chica dell’adulto è più solida rispetto a quella dell’adolescente.
La gioventù adulta è da questo punto di vista una fase di consolidamento e apprendistato.. La as-
sunzione di compiti e ruoli adulti (cominciare un’attività lavorativa, sposarsi, ecc.) è di per sé un
fattore di cambiamento. La diversità di esperienze lavorative e di vita moltiplica ovviamente le di-
versificazioni che già esistono a causa di disposizioni individuali o di varietà di formazione familiare
e scolastica: il cambiamento può essere anticipato o posticipato di circa dieci anni a seconda della
classe (subalterna o operaia, media o alta) di appartenenza. Le ricerche psico-sociali hanno dimo-
strato, ad esempio, che esistono profonde differenze tra l’immagine di sé di un operaio e di un pro-
fessionista di 40 anni: il primo si considera maturo, il secondo si considera ancora in piena espan-
sione giovanile.
Le esperienze della vita adulta sono solitamente coerenti tra di loro, quindi differenziate nella stes-
sa direzione: fare un certo lavoro favorisce un certo tipo di gusti e un certo tipo di frequentazioni.
Di solito gli innamoramenti e le relazioni profonde nascono tra persone appartenenti ad uno stesso
ceto sociale: i matrimoni omogamici (tra persone della stessa origine sociale e culturale) sono di gran
lunga i più frequenti (circa il 90% del totale). Il motivo di queste scelte di persone affini a sé è da ri-
cercare naturalmente nella maggiore facilità materiale di contatto, ma ha anche delle spiegazioni psi-
cologiche: il giovane adulto vive una situazione di apprendistato, di immedesimazione progressiva in
una nuova identità; in pratica, il modo più agevole che ha a disposizione per diventare un adulto è
quello di prendere a modello la coppia adulta dei suoi genitori. Non si tratta di solito di una imita-
zione e riproduzione consapevole e voluta ma, semmai, inconscia. Il distacco dalla famiglia, in parte
indispensabile per la costruzione di una vita autonoma, risulta in questo modo meno lacerante.
Talvolta nella scelta amorosa adulta possono ricomparire, in forma più o meno evidente, meccanismi
edipici: ci si innamora di qualcuno che assomiglia per qualche aspetto al genitore del sesso opposto.
Con frequenza molto grande si ripete anche la situazione familiare caratteristica della famiglia d’ori-
gine. La riproduzione non si ferma alla scelta del partner ma si completa con la perpetuazione dello
stile di condotta nella vita di coppia, dello stile educativo verso i figli, talvolta anche delle idee poli-
tiche e religiose, dei gusti e delle opinioni sul mondo.
Questo fatto, che ovviamente non riguarda la totalità dei casi, è accertabile però a livello statistico.
Man mano che ci si allontana dall’adolescenza, infatti, cessa l’antagonismo e la contrapposizione e
ci si assume, in misura via via crescente, il compito di preservare e trasmettere. Quando si arriva al-
l’età in cui i propri figli, ormai grandi ed adolescenti, si distanziano e si contrappongono a loro volta,
ci si potrà spesso comportare come i propri genitori si erano comportati a suo tempo con noi: si fa
fatica a comprendere questo cambiamento, si prova timore per un distacco che sembra arrivare trop-
po presto. In genere lo scontro con i figli adolescenti e la loro uscita di casa, coincide con altri eventi
rilevanti per lo sviluppo dell’adulto, che sono la morte o il peggioramento delle condizioni di salute
dei genitori, l’essere arrivato al termine della carriera possibile o alle soglie del pensionamento, il co-
minciare a vedere su di sé i segni tangibili dell’invecchiamento. Questa particolare età o fase di pas-
saggio e di ingresso alla vecchiaia è quella che viene correttamente detta mezza età e si colloca media-
mente a cavallo dei 50-55 anni. Questa messa in discussione dell’identità consolidata genera secondo
Erikson una crisi psicosociale che vede come due esiti opposti la produttività e il ristagno.
Molto spesso questa è una età di crisi e di profonda trasformazione di sé. Una identità ormai con-
solidata viene messa in discussione. Questo sia per quanto riguarda il primo bilancio di ciò che è sta-
ta la propria carriera lavorativa (si attua un paragone inevitabile fra la realtà ed i sogni e progetti gio-
vanili), sia per quanto riguarda la propria collocazione generazionale (si diventa riferimento e padre
per i propri genitori che si sono fatti deboli e vecchi e si ridimensiona la funzione di genitore per i
propri figli che se ne vanno di casa), sia infine per la propria gioventù: tanti segni piccoli e grandi
chiariscono che la giovinezza è chiusa e che il termine della vita non è più una idea astratta e lontana.
Questo periodo di crisi e di ristrutturazione della percezione di sé è stato da molti paragonato alla
crisi adolescenziale. Come l’adolescente anche l’adulto di mezza età è ambivalente verso il cambia-
mento, incerto se abbandonare le sicurezze del passato o cercare di negare la realtà e arrestarsi.
Molte persone si fissano con ostinazione sulla propria immagine giovanile (si potrebbe dire che so-
no come degli adolescenti che si rifiutano di crescere e cercano di restare bambini). Questa negazione
della realtà si traduce spesso nella ricerca di relazioni, amicali ma soprattutto amorose, con persone
molto più giovani, che possono talvolta mettere in crisi situazioni matrimoniali che avevano fino a lì
l’apparenza della solidità.
Molte altre persone tuttavia escono da questa fase di crisi della mezza età trasformate e cresciute.
Questa crescita si traduce nella assunzione del ruolo di guida e di mèntore verso le giovani genera-
zioni, in una preparazione a tramandare ciò che si sa fare ad altri, a favorire la propria sostituzione
nel lavoro e nella vita.
Capita che chi fa un lavoro creativo (principalmente gli artisti, ma non solo), traduca questa tra-
sformazione interiore in un cambiamento di contenuti e di stile. Qualche volta, come ad esempio è
successo al pittore francese Paul Gauguin (1848 - 1903), l’attività artistica, che prima era marginale,
diventa unica e preminente e si abbandona tutto il proprio passato: il lavoro, la famiglia, la casa e il
proprio Paese. Proprio richiamandosi al caso emblematico di Gauguin, che abbandonò la Francia ed
il lavoro impiegatizio per andare a dipingere nei mari del sud, si parla spesso, in riferimento a tali
esiti della crisi di mezza età, di sindrome di Gauguin.
LA VECCHIAIA

L’invecchiamento, dal punto di vista psicologico, è un’ulteriore trasformazione della percezione di


sé. Tutto un percorso di vita può a questo punto essere visto dall’alto, come un bilancio generale.
Secondo alcuni psicologi, che fondano su studi empirici le loro definizioni dei tipi di personalità
che caratterizzano gli stadi dell’arco vitale, vi sarebbero due forme di tendenza; una propria della
giovinezza e inizio di maturità; l’altra degli anni della tarda maturità e vecchiaia. La prima tendenza è
fondamentalmente centrifuga: essa induce l’individuo a propendere più verso la realtà esterna che
verso se stesso.
Alla base di questa disposizione ci sarebbe la necessità di acquisire nuovi ruoli e di adattarsi alla
società con relazioni che sono in continua espansione (rapporti sociali, sessuali, familiari, lavorati-
vi). All’apice della maturità si costituisce una specie di equilibrio che è tale anche tra gli elementi
stabili della personalità e quelli in espansione. Gli anni della tarda maturità e della vecchiaia si ac-
compagnano invece alla emergenza di tendenze centripete, che inducono l’individuo a sottovalutare
progressivamente gli aspetti della personalità condizionati dai ruoli, dalle aspettative e dalle intera-
zioni sociali. L’individuo sposta la propria attenzione dal mondo esterno a se stesso, mentre si va
affermando la consapevolezza che la vita volge al termine. Le persone anziane tenderebbero quindi a
rispondere maggiormente agli stimoli interni che a quelli esterni, a ritrarsi dalle situazioni che impli-
chino una compartecipazione ed un investimento emotivo, ad evitare i rischi e le sfide piuttosto che
a ricercarle.
Tali interpretazioni possono costituire una base teorica per le scelte di fondo relative al dilemma
tra auspicabilità per l’anziano di un progressivo disimpegno oppure una costante partecipazione.
La teoria del disimpegno, proposta da Cummings e Henry (1961), afferma che l’anziano tende a
convincersi che la propria condizione ideale consiste nella rinuncia ad una serie di aspirazioni e tra-
guardi che caratterizzarono la vita passata. Pensionamento e vedovanza sarebbero dunque vissuti
come una sorta di “permesso al disimpegno” concesso dalla società. Tale teoria è del tutto in disac-
cordo con quella sostenuta prevalentemente da Havighurst (1969). Secondo questa teoria il morale
dell’anziano sarebbe elevato fino a quando egli riesce a restare attivo. Secondo tale teoria dell’im-
pegno, è dunque necessario che i vecchi ruoli siano sostituiti con altri nuovi e con attività compen-
sative perchè si realizzi una “vecchiaia felice”. Una terza ipotesi (Canestrari, Battacchi , Crociati,
1967) afferma che le disposizioni all’impegno e al disimpegno, alla vita attiva e a quella contempla-
tiva, coesistono sempre nell’individuo e giocano un ruolo più o meno importante a seconda dell’in-
dividuo e della situazione sociale. La vecchiaia non si esplicherebbe quindi in una sola modalità.
Nel corso della vecchiaia si verifica l’ultima delle crisi psico-sociali individuate da Erikson (1959)
come passaggi cruciali per lo sviluppo della personalità: quella tra integrità personale e disperazione.
Sia che metta capo ad un senso di appagamento per ciò che si è riusciti a realizzare, sia che risulti
predominante una condizione depressiva, la vecchiaia è caratterizzata dalla progressiva elaborazione
ed accettazione dell’idea della propria morte, che, in quanto perdita totale, è anticipata da perdite
parziali. Uno di questi eventi è la perdita della funzione produttiva con il pensionamento. Tutto un
mondo di relazioni, rapporti, abitudini, potere, cessa di esistere. Per chi non si era preparato per
tempo questa situazione di vuoto diventa una situazione depressiva. Un altro evento è la perdita de-
gli amici e dei coetanei e la vedovanza. Il mondo degli affetti si svuota, e lentamente diventa un mon-
do di estranei e sconosciuti.
Se il distacco da questa realtà è grande, ed in genere nel “grande vecchio” di oltre 90 anni è molto
grande (la sua vita è diventata simile ad un “deserto di coetanei”), il distacco dalla vita è come se fos-
se già compiuto e l’accettazione della fine diventa qualcosa di naturale. La depressione, il rifugiarsi
nell’alcool, la paura della morte sono infatti più frequenti all’inizio della vecchiaia (in particolare al
momento della pensione) ma poi diventano sempre meno comuni man mano che si sale con gli anni.
IL CICLO DELLA VITA

Sviluppo = modificazione strutturale e funzionale a carattere permanente


lineare (vs circolare) discontinuo -> fasi uguali per tutti gli individui;
include i concetti di:
Maturazione = cambiamento che deriva solo da leggi e programmi interni dellʼ organismo

Crescita = aumento di dimensioni e del numero di proprietà e differenziazioni

cambiamenti biologici -> indipendenti dallʼ ambiente, che può solo inibirli o accelerarli
vs
cambiamenti psicologici -> interattivi; dipendono dallʼ ambiente e dallʼ organismo insieme

inizio della vita -> cambiamenti molto regolari, “cronometrici” (prevalentemente maturativi)

fasi successive -> aumento delle differenze di sviluppo tra individui diversi in dipendenza
dei fattori esterni (esperienze, condizionamenti culturali, ecc.)

LA PRIMA INFANZIA

sviluppo sensoriale - > incompletezza del rivestimento mielinico dei nervi


> iniziale predilezione di stimoli semplici e ripetitivi
> graduale aumento delle capacità di elaborazione (stimoli + complessi)
> gusto, tatto e olfatto + sviluppati della vista e dellʼ udito
> riflessi della suzione e della prensione (residuo evolutivo)

Lo sviluppo intellettivo: il modello teorico di JEAN PIAGET

epistemologia genetica: disciplina che si propone di trovare la corrispondenza


tra gli stadi di sviluppo dei processi cognitivi e lo sviluppo storico delle forme di
pensiero, individuando, nelle varie fasi dello sviluppo, la genesi (-> genetica)
delle forme di pensiero scientifico (episteme = scienza).

intelligenza => adattamento dellʼ organismo allʼ ambiente -> equilibrazione tra:

assimilazione => incorporazione di un nuovo evento o oggetto allʼ interno di uno schema
preesistente (es. afferrare nuovi oggetti con il medesimo schema di prensione)

accomodamento => modificazione di uno schema mentale/ cognitivo per poter includere un
evento od oggetto nuovo (es. afferrare a due mani un oggetto particolar-
mente grande, afferrare “a pinza” un oggetto molto piccolo,ecc.)

FASE DELLʼINTELLIGENZA SENSO-MOTORIA: 0 / 24 MESI

0 / 1 mese -> esercizi riflessi; assimilazione / generalizzazione

2 / 5 mesi -> reazioni circolari primarie ( = ripetizione attiva delle azioni


che producono, sul proprio corpo, un risultato gradevole)

5 / 9 mesi -> reazioni circolari secondarie ( = ripetizione attiva di azioni


che producono, allʼ esterno, un risultato gradevole)

9 / 12 mesi -> coordinamento sistematico degli schemi in vista di uno scopo

12 / 18 mesi -> reazioni circolari terziarie ( = ripetizione attiva di azioni interes-


santi, con sperimentazione di varianti; es. : lanciare una palla
verso lʼ alto, verso il basso, debolmente, con forza, ecc.)

18 / 24 mesi -> interiorizzazione e rappresentazione mentale;


giochi simbolici, “far finta di”, sviluppo del linguaggio.
PERIODO PRE-OPERATORIO: 2 / 7 ANNI

Fase del pensiero simbolico e pre-concettuale : 2 / 4 anni

pre-concetti: stanno a metà strada tra la generalità del concetto e lʼ individualità degli elementi che
lo compongono, manca il corretto utilizzo dei quantificatori (“tutto”, “qualche” ecc.).
(es. “la lumaca” per intendere tante lumache). Il ragionamento che deriva dai pre-concetti
è chiamato: transduzione, in quanto non procede, come la deduzione, dal generale al
particolare, ma dal particolare al particolare, sulla base di nessi analogici , associazioni
mentali, giustapposizioni, senza precisi nessi logici.

Fase del pensiero intuitivo: 4 / 7 anni

intuizione: -> semplice interiorizzazione delle percezioni e dei movimenti sotto forma di esperienze
mentali che prolungano gli schemi senso-motori senza una vera coordinazione razionale.

egocentrismo -> impossibilità di “decentrarsi” dal proprio punto di vista per vedere la situa-
cognitivo: zione dal punto di vista dellʼ altro e coordinare insieme le diverse prospettive

unidirezionalità -> la rappresentazione mentale aderisce al percorso della percezione e , una volta
raggiunto il risultato finale dellʼ azione, è incapace di rielaborarla e ripercorrere
le fasi esecutive precedenti per riorganizzarle in un insieme.

PERIODO DELLE RAPPRESENTAZIONI CONCRETE: 7 / 11 ANNI

Le operazioni mentali sono coordinabili in sistemi dʼ insieme (raggrippamenti) quali le costruzioni


di classi, le gerarchie di classi e le seriazioni; tutto però avviene entro i limiti del riferimento al concreto.

reversibilità -> ad ogni azione mentale è associata unʼ altra


per: azione che è la sua inversa o reciproca

compensazione inversione

minore altezza / maggiore larghezza livello precedente ottenuto con il travasamento inverso

transitività: A = B B = C -> A = C; A > B B > C -> A > C


seriazione -> ordinare degli elementi dal più piccolo al più grande e viceversa

classificazione, gerarchia di classi, inclusione in classi, raggruppamento additivo delle classi:

D D = felini
C C° C = gatti + C° altri felini
B B° B = gatti domestici + B° gatti selvatici
A A° A = siamese + A° = altre razze

matrice a doppia entrata: A vertebrati A° invertebrati

B acquatici vert. acquatici inv. acquatici


(A + B) (A° + B)

B° terrestri vert. terrestri inv. terrestri


(A + B°) (A° + B°)

PERIODO DELLE OPERAZIONI FORMALI: 11 / 14 ANNI

ragionamento astratto -> affrancamento dal concreto, distacco dallʼ esperienza

pensiero tipo di pensiero che, senza bisogno di ricorrere allʼ esperienza,


ipotetico-deduttivo costruisce ipotesi e ragiona su di esse, trae implicazioni e
procede mettendo in atto strategie scientifiche
nellʼ interpretazione dei fenomeni.
LE CRITICHE E LE INTEGRAZIONI ALLA TEORIA DI PIAGET

1. sottostima generale delle capacità dei bambini da 0 a 6 anni

presenza di rappresentazioni interiori nel periodo senso-motorio


(integrazione intersensoriale precoce)
capacità di decentramento cognitivo: da 6 a 4 anni
sociale: empatia verso i 2 anni

2. sopravvalutazione delle capacità dei più grandi

incidenza delle differenze individuali e delle situazioni


utilizzo non sistematico delle operazioni formali (-> operazioni concrete)
non raggiungimento della fase delle operazioni formali in età adolescenziale

3. gli stadi non si può parlare in senso stretto di stadi nellʼ accezione piagetiana;
rimane valida lʼ idea di “sequenzialità” nellʼ acquisizione delle abilità.

4. logica e logicismo piagetiano -> sottovalutazione dei contenuti


contenuti intelligenza = interdipendenza di capacità grezze e conoscenze specifiche

5. sottovalutazione delle influenze naturali e socio-culturali

convinzione che lʼ intelligenza si “autogeneri” (autopoiesi) :


a) sottovalutazione dei programmi innati e della maturazione biologica
b) sottovalutazione del ruolo delle influenze ambientali e dellʼ apprendimento

Vygotskij: sviluppo cognitivo dipendente dal contesto storico-sociale:


vita sociale -> sistemi di rappresentazione interiore della realtà

funzioni funzioni
interpsichiche intrapsichiche

Piaget: a) linguaggio egocentrico -> b) linguaggio socializzato


vs
Vygotskij a) linguaggio sociale -> b) linguaggio egocentrico -> c) linguaggio interno

ECOLOGIA DELLO SVILUPPO

approccio ecologico: tentativo di costruzione di spiegazioni a vasto raggio, mirate alla


definizione di una “ingegneria” dello sviluppo. -> Bronfenbrenner

ecosistema 1. microsistema (famiglia, scuola)


2. esosistemi ( influenza indiretta: es.ambiente di lavoro dei genitori)
3. mesosistemi (relazioni tra i diversi ambienti di vita)
4. macrosistemi (scenari istituzionali e storico-sociali)

transizioni ecologiche -> passaggi che lʼ individuo fa da una condizione allʼ altra dellʼ ecosistema

problema della complessità: studiare scientificamente enormi reti di


interconnessioni tra fattori ed eventi.

problema della mediazione soggettiva: le interazioni non sono meccaniche, ma mediate


dalla percezione che le persone ne hanno.

problema delle dialettiche strutturali: tensioni e conflitti che nascono per la struttura stessa
dellʼ ambiente di sviluppo (effetti opposti dipendenti
da un unico fattore: es. calore ed affetto dei genitori,
positivo per lo sviluppo, con possibilità distorsive
sulla effettiva conoscenza della realtà esterna ).
LO SVILUPPO EMOTIVO

MODELLO FREUDIANO

fase orale centralità della bocca


(0 - 18 / 24 mesi) narcisismo primario => egocentrismo assoluto
assoluta dipendenza => condizione di onnipotenza
fino a 4 mesi => fase dell’incorporazione
4 / 6 mesi => fase dell’ambivalenza (=> M. Klein)

fase anale trattenere / espellere


( fino a 3 / 4 anni) controllo degli sfinteri => richieste educative
primo momento: piacere dell’espulsione
secondo momento: dinamiche messe in moto dalle regole parentali
(trattenere = controllare, possedere)

fase fallica o edipica manipolazione del proprio corpo


(3°- 4°- 5° anno) scoperta dei genitali maschili e femminili
interesse per le differenze tra i sessi
interesse per il meccanismo e l’evento della nascita
investimento libidico per il genitore di sesso opposto
superamento della crisi edipica attraverso l’ identificazione (padre/madre)

fase di latenza affievolimento delle pulsioni, rimozione della sessualità


(6 - 11 anni) sublimazione: meccanismo di difesa dall’ ansia per il quale l’energia
libidica viene deviata da oggetti inaccettabili (=> super-io) ad altri
accettabili, moralmente approvati e culturalmente riconosciuti

fase genitale energia libidica e affetto rivolto verso l’altro da sé


(11 - 12 anni) scoperta dell’amore e della sessualità matura
regressioni, innamoramenti fuggevoli, idealizzazioni dell’oggetto d’amore

RENÉ SPITZ

1° stadio periodo del rapporto pre-oggettuale con la realtà


(0 - 3 mesi) indifferenziazione esterno-interno

2° stadio periodo del rapporto oggettuale con oggetto precursore


(3 - 8 mesi) reazione alla gestalt-sorriso: il bambino sorride a qualsiasi volto

3° stadio periodo del rapporto oggettuale con oggetto privilegiato (“libidico”)


(8 - 15 mesi) oggetto privilegiato: volto della madre
angoscia da separazione e da estraneo

4° stadio periodo di opposizione: la parola “no”


(15 mesi) problematica dell’autonomia-indipendenza
esperienza dei primi divieti: reazione al “no della madre
negazione: identificazione con l’adulto “aggressore”.
MELANIE KLEIN

posizione schizo-paranoide
(o - 6 mesi)
angoscia: fondamento deprivazione dei contenuti angoscia
essere svuotato del rapporto IO primitivo buoni ad opera di un
delle parti buone amoroso aggressore interno
(identificazione introiettiva*)

introiez. introiez. essere distrutto


normale dicotomia: dall’ oggetto cattivo:
situazione schizoide energie libidiche energie aggressive
ISTINTO di VITA ISTINTO di MORTE interno
oggetto oggetto A. ipocondriaca
buono vs cattivo proiez. proiez. esterno
introiettato proiettato A; paranoide

oggetto esterno oggetto esterno mordere/essere divorati


io scisso SENO SENO (sadismo)
oggetto ideale cattivo e persecutorio
capacità discriminativa buono e unitario oggetto frammentato in
basata su due categorie tante parti persecutorie
elementari:
buono/cattivo (identificazione proiettiva°)

scissione SUPER-IO * processo per cui il bambino


madre = seno + immagina che un altro/a stia
bocca + mani, dentro, o sia parte di sè
ecc.
° è la fantasia di introdurre
la propria persona o parti scis-
integrazione se di sè all’ interno del corpo
madre : materno per possederlo,
presente - assente oggetto intero controllarlo, danneggiarlo.
amata - odiata ambivalente E’ un meccanismo di difesa:
buona - cattiva da l’ illusione del controllo
sull’ oggetto e consente di
POSIZIONE negare la mancanza di potere
DEPRESSIVA su di esso.
( 6 - 12 mesi)

introiezione
dell’ oggetto
ideale nell’ Io

MADRE:
ambivalenza

vita indispensabile
autonoma per i propri bisogni
(impotenza) ( dipendenza)

aggressività timore che i propri impulsi


aggessivi distruggano
l’ oggetto amato (incorporato)

angoscia / lutto autodistruttività


senso di colpa

ciclo: ostilità -> senso di colpa -> sottomissione ->


aggressività reattiva -> senso di colpa, ecc.
SVILUPPO DEL LINGUAGGIO

1. Fase pre-linguistica predisposizione alla elaborazione dei suoni contenuti nella voce umana
capacità di discriminazione della voce materna dalle altre voci
3 - 5 settimane: suoni vocalici
3° mese: associazioni vocali-consonanti (lallazioni)
5°-7° mese: utilizzo dei fonemi della lingua del suo ambiente
7°- 8° mese: parole monosillabiche corrette (“no”, “sì”)

2. Fase monoverbale 10°-12° mese: prime parole (due sillabe) “olofrase”


linguaggio “concreto” (la parola “è” l’ oggetto) e generalizzabile
tempo presente, frasi dichiarative
18° mese: cinquanta parole => 6 anni: 2000 / 2500
apprendimento guidato dall’ uso e finalizzato (=> interesse)
iper-estensione / ipo-estensione; uso egocentrico del linguaggio

3. Fase del linguaggio 18°-24° mesi: parole combinate in frasi di due parole,
telegrafico prive di elementi “accessori” (articoli, avverbi; ecc.)

4. Fase dell’acquisizione apprendimento dei morfemi legata al grado crescente di complessità


grammaticale-sintattica iper-regolarizzazione => applicazione dei morfemi regolari alle eccezioni
(2-6 anni) a) apprendimento della regola
b) applicazione della regola in tutti i casi
c) apprendimento e uso delle eccezioni
trasformazioni (dichiarativa => negativa, interrogativa, composta)
4 anni : linguaggio socializzato (domande, descrizioni)
6 anni : livello di competenza linguistica dipendente dall’ ambiente familiare
Bernstein: codice linguistico allargato / ristretto

TEORIE SULLO SVILUPPO DEL LINGUAGGIO

1. Teoria dell’imitazione apprendimento passivo

2. Teoria del rinforzo reazioni di rinforzo positivo da parte dei genitori (Skinner)

3. Teoria innatista disposizione interna biologica dell’ uomo verso l’ acquisizione linguistica;
esistenza di un meccanismo di acquisizione linguistica
(LAD, language acquisition device) che orienta lo sviluppo del linguaggio
indipendentemente dalle variazioni ambientali (Chomsky / Lieberman)

4. Teoria interazionista sviluppo del linguaggio legato all’ esistenza di componenti


maturative ed innate interagenti con gli stimoli ambientali .
IL PROCESSO ADOLESCENZIALE

fase di trasformazione e passaggio che inizia con la pubertà (maturazione sessuale e fisica) e
si conclude con l’ingresso nel mondo degli adulti e con l’assunzione di un ruolo sociale autonomo

Società statiche l’adolescenza non esiste, al compimento della maturazione sessuale


(primitive) i giovani passano a far parte del mondo degli adulti con un rito di passaggio:
prova di coraggio
iniziazione prova di resistenza alla solitudine ed al dolore
vs distacco dalla casa familiare per un breve periodo

Società dinamiche scolarizzazione prolungata/specializzazione: si diventa adulti per gradi, con


(complesse) un lungo apprendistato: i ruoli adulti, prima di essere agiti, vengono “provati”
(Erikson: ‘moratoria psico-sociale’)
Le società complesse, moderne, industriali, hanno “creato” l’adolescenza,
che non può propriamente essere considerata una fase evolutiva, bensì una
“costruzione psico-sociale”

inizio > cambiamento fisico => pubertà

termine > dipendente da variabili individuali ed ambientali

a) consapevolezza => ci si sente adulto


b) condotta => si assumono delle responsabilità
c) riconoscimento sociale => la società sancisce l’ingresso nel mondo adulto

ESITI ADOLESCENZIALI

adeguata: identificazione introiettiva di modelli parentalli positivi


(stabilità, generosità, gratitudine)
atteggiamenti parentali che proteggano lo sviluppo adolescenziale:
educazione alla soluzione dei conflitti;
educazione all’esame critico della realtà;
tolleranza parentale verso gli “acting-out” di disprezzo/dominio

ritardata: negazione dell’introspezione e del conflitto;


riproduzione acritica del modello familiare;
insorgenza dei conflitti/nevrotizzazione nel primo impatto
adolescenza con la realtà “adulta” => biforcazioni vitali
(ingresso nel mondo del lavoro / matrimonio / nascita dei figli)

prolungata: tendenza a rimandare all’infinito l’entrata nella condizione adulta


progetti grandiosi / senso di inadeguatezza nei confronti di
modelli non emulabili

sacrificata: impossibilità di disporre del tempo necessario per


la formazione della personalità
ingresso precoce nel mondo del lavoro
Lʼ ADOLESCENZA : IL MODELLO PSICOANALITICO

Secondo il modello psicoanalitico la crisi adolescenziale è “fisiologica” per uno sviluppo


adeguato della personalità: le soluzioni di assetto della personalità che non passano
attraverso questo travaglio interno (conflitti e alterazioni del comportamento, difese),
risulterebbero monche e parziali, in quanto lʼ integrazione dellʼIo non si organizzerebbe
intorno a nuovi oggetti dʼ amore o ad una nuova identità, bensì attorno alle antiche
identificazioni, tipiche dellʼ età della latenza.

Conflitti relativi allo sviluppo sessuale

alimentare: riemergere di “nuclei orali”:


inappetenza, voracità, fobie per i cibi.
alterazioni del
comportamento sessuale: problematiche relative al menarca ed alla masturbazione.

sociale: problematiche relative agli atteggiamenti educativi parentali;


( lʼ incoerenza parentale -> liberalità / autoritarismo)

Conflitti relativi allo sviluppo intellettivo

pensiero ipotetico- deduttivo -> propensione alla discussione, alle idee innovatrici,
intelligenza astratta subordinazione del reale al “teoricamente possibile”
insofferenza verso conteniti ideologici e norme comportamentali
trasmesse senza la dimostrazione della loro plausibilità;

marginalità sociale -> non appartenenza al gruppo dei bambini o degli adulti:
crisi dellʼ identità personale, sessuale e sociale, ambivalenza.

DIFESE

atteggiamento -> primato del “presente concreto”, evitamento delle scelte personali,
realistico accettazione delle indicazioni prevalenti nella famiglia o nel gruppo
sociale di appartenenza -> rischio di passività e conformismo

atteggiamento -> ricerca dellʼ originalità e di una identità personale autonoma: conflitti
affermativo e tensioni, svolgimento “drammatico” della fase adolescenziale

Narcisismo -> valorizzare il proprio Io, facendone il centro dellʼ universo;


esaltazione difensiva della propria autostima.

Ascetismo -> diffidenza verso le richieste pulsionali interne: condotta intransigente, proibizioni rigorose.
frequenti slittamenti verso gli eccessi opposti -> esibizionismo, eccessi alimentari

Intellettualizzazione -> spostamento dei conflitti dal piano delle emozioni a quello del pensiero
Scissione: buono / cattivo -> controllo onnipotente, richiesta di sudditanza ed acquiescenza dai genitori
Identificazione proiettiva

buone oggetto ideale vs separazione, opp. tenere al sicuro da


oggetti interni cattivi
parti del sé liberazione -> adolescente

cattive distruggere oggetto cattivo controllo

difese maniacali : fantasie di onnipotenza accompagnate da euforia, disinibizione, illimitata fiducia in sè


stessi per difendersi in modo reattivo dalla depressione, immaginando di avere tutto
sotto controllo; i rapporti oggettuali sono caratterizzati da trionfo, dominio e disprezzo.

il gruppo: può rappresentare una situazione regressiva, allʼ interno della quale riemergono vissuti
primari di fusione con la madre e di ambivalenza affettiva. Ogni membro del gruppo è
sentito come una parte del sè, il gruppo è lʼ equivalente psichico della pelle.
L’ ETA’ ADULTA

passaggio adolescenza / età adulta / vecchiaia => trasformazioni socio-culturali

allungamento della speranza media di vita


anticipazione della maturazione sessuale
allungamento del periodo fertile e fisiologicamente più attivo

giovinezza / inizio maturità vs tarda maturità / vecchiaia


tendenza centrifuga tendenza centripeta

sviluppo adulto struttura dinamica, aperta al cambiamento.


continua ristrutturazione e superamento progressivo
della struttura infantile/ adolescenziale

fasi specifiche di accelerazione/cambiamento => “biforcazioni vitali”

inizio del lavoro / matrimonio / nascita dei figli / morte dei genitori
uscita di casa dei figli / malattie gravi / pensionamento

passaggi contrassegnati dal dualismo perdita / acquisizione


riaffiorare (solitamente meno conflittuale) dell’ambivalenza adolescenziale

gioventù adulta => fase di consolidamento ed apprendistato: assunzione di compiti e ruoli adulti
La diversità delle esperienze lavorative, la diversa collocazione sociale
moltiplicano le diversificazioni già esistenti a causa di disposizioni individuali.
Le esperienze di vita sono solitamente tra loro coerenti
(lavoro - gusti - frequentazioni => matrimoni omogamici)
Modellamento sulla coppia adulta dei genitori:

consapevole

imitazione differenziazione

inconscia

prevalenza statistica di ripetizione delle situazioni vissute nella famiglia di origine

passaggio adolescenza- età adulta: a) attenuazione dell’ antagonismo


b) assunzione del compito di “trasmettere/ conservare”

mezza età => crisi psicosociale => produttività / ristagno (Erikson)


crisi e trasformazione di sé: messa in discussione dell’identità consolidata
bilancio della propria carriera: confronto tra la realtà ed i progetti giovanili.
collocazione generazionale (autonomia dei figli / sostegno per i genitori)
elaborazione dell’abbandono dell’età giovane -> ambivalenza

a) fissazione sull’ immagine giovanile


b) accettazione dei cambiamenti somato-psichici e dei nuovi ruoli
c) svolte creative: la “sindrome di Gauguin”
Anzianità e Vecchiaia

‘fenomeno complesso’ variabili

età biologica/psicologica/sociale fattori genetici educativo-culturali economici


sanitari personalità famiglia ambiente

allungamento dell’aspettativa di vita Italia entro 2030 => un terzo della popolazione over 60

condizioni di salute buone/discrete


terza età o tarda maturità => inserimento sociale (pensionamento posticipato)
60/65 -> 75 disponibilità di risorse / realizzazione personale

quarta età / senescenza => dipendenza / decadimento fisico (Laslett,1989)


75 in poi
quinta età (grande vecchio) => perdita progressiva delle funzioni vitali
90 in poi distacco, accettazione della fine

trasformazione della percezione di sé: bilancio generale “dall’alto”

tendenza centripeta vs tendenza centrifuga (età adulta)

rispondere maggiormente agli stimoli interni che a quelli esterni


ritrarsi dalle situazioni che implichino compartecipazione/investimento emotivo
evitare i rischi e le sfide piuttosto che ricercarle

teoria del disimpegno rinuncia ad aspirazioni


Cummings e Henry, 1961 e traguardi che caratterizzarono
la vita passata
(old/old) pensionato / vedovanza:
permesso al disinpegno

teoria dell’impegno necessità che i vecchi ruoli


Havighurst, 1969 siano sostituiti con altri nuovi
e con attività compensative
(old/young) => vecchiaia felice

crisi psico-sociale: ‘integrità personale’ vs ‘disperazione’ Erikson,1959

senso di appagamento per condizione depressiva:


ciò che si è riusciti a realizzare bilancio negativo e perdite

della funzione produttiva: di parenti amici e coetanei


pensionamento svuotamento del mondo degli affetti/vedovanza

situazione di vuoto / senso di estraneità

progressiva elaborazione ed
accettazione dell’idea della propria morte
SVILUPPO DELLE DIFFERENZE INDIVIDUALI

Lo sviluppo sociale può essere visto come un processo con due facce. Da un lato esso consiste
nell’integrazione del bambino entro una rete di rapporti con altre persone; dall’altro esso fornisce
un contesto entro il quale il bambino si differenzia da ogni altra persona, cioè si crea un’identità
individuale unica. Integrazione e differenziazione sono due aspetti complementari: bisogna tener
conto di entrambi per comprendere come il bambino giunge a mettersi in relazione con gli altri,
acquisendo via via una consapevolezza sempre più piena della propria e dell’altrui individualità.
L’emergere dell’individualità può essere esaminato sia da un punto di vista “esterno” alla persona,
cioè come manifestarsi e consolidarsi di tratti che la diversificano dalle altre persone, sia da un punto
di vista “interno”, cioè come coscienza di sé e come capacità di vedersi in prospettiva nel rapporto
con gli altri.
Per quanto riguarda il primo ambito di problemi, la domanda che gli studiosi si sono posti è: ogni
bambino presenta fin dalla nascita delle caratteristiche psicologiche individuali, o si differenzia dagli
altri solo successivamente? Tra le indagini condotte in questo campo, una delle più accurate è la ri-
cerca longitudinale condotta negli Stati Uniti da Stella Chess & Alexander Thomas, i quali si so-
no proposti di mettere in luce le differenze psicologiche tra bambini e di valutarne la costanza nel
tempo. Essi hanno trovato che ciascun neonato si comporta e reagisce agli stimoli ambientali in mo-
do peculiare; l’insieme dei tratti che permettono di caratterizzare il comportamento del bambino vie-
ne detto temperamento. Il concetto di temperamento non va confuso con quello di personalità.
Con quest’ultimo termine gli studiosi designano quel complesso intreccio di modi di pensare e com-
portarsi, dipendenti sia da fattori innati (temperamento) che da esperienze individuali, che sono pe-
culiari a ciascun individuo e lo rendono in qualche modo “unico”. Per temperamento si intende inve-
ce un modo di reagire agli stimoli ambientali che sembra dipendere quasi interamente dalla costitu-
zione fisica dell’individuo. Mentre sarebbe improprio parlare di personalità in un neonato, le prime
fasi della vita son quelle in cui meglio si possono osservare le differenze di temperamento.
Chess e Thomas hanno cercato di classificare i temperamenti in alcune categorie principali, tenendo
conto soprattutto della presenza di quei tratti che facilitano o ostacolano il rapporto del bambino
con gli altri. Essi hanno messo in luce così che alcuni bambini sono moderatamente attivi, regolari nei
ritmi sonno-veglia, adattabili alle novità, in una parola facili da trattare; altri sono iperattivi, hanno
ritmi irregolari sonno-veglia, reazioni negative alle novità e scoppi di collera che li rendono difficili;
altri ancora sono ritrosi: restano infatti inerti o protestano di fronte alle novità, ma poi si “scaldano”
e mostrano un giusto livello di attività e regolarità di comportamento.

facile difficile ritroso

Livello di attività vario vario basso / medio


Ritmicità molto regolare irregolare varia
Ritrosia No sì inizialmente
Adattabilità rapida lenta lenta
Intensità di reazione bassa / media alta media
Soglia di risposta varia varia varia
Qualità dell’umore piacevole spiacevole un pò spiacevole
Distraibilità varia varia varia
Attenzione varia varia varia

Tabella 1 caratteristiche temperamentali dei bambini secondo Chess e Thomas


Solo alcuni tratti che formano il temperamento persistono a volte negli anni successivi; a mano a
mano che il bambino compie delle esperienze il suo modo di comportarsi finisce per rispecchiare la
storia della sua vita piuttosto che il suo temperamento iniziale. In altri termini, la personalità di
ognuno di noi risulta da una complessa interazione tra fattori innati, quali il temperamento, e le
esperienze individuali; cruciali, tra queste, quelle relative ai rapporti con le figure di attaccamento.
Per quanto riguarda poi l’effetto del temperamento nella costruzione dei primi rapporti interper-
sonali, bisogna tener presente che non è il temperamento del bambino in sé e per sé che ha impor-
tanza, quanto il modo in cui tale temperamento viene percepito e valutato dai genitori e il conse-
guente effetto sull’interazione.
Ad esempio, un comportamento molto attivo e deciso da parte del bambino può essere apprezzato
come segno di vitalità e forza, o criticato come indizio di inquietudine o aggressività, e a seconda del-
la valutazione sarà ben diversa la reazione del genitore. In realtà è molto difficile stabilire se sono le
caratteristiche personali del bambino a renderlo “facile” o “difficile”, o non piuttosto la concordanza
o la discrepanza tra tali caratteristiche e le aspettative dei genitori.
Richards (L’integrazione del bambino in un mondo sociale, 1978), sottolinea come le ricerche sul
tema della socializzazione infantile mettano in luce gli effetti differenziati dell’interazione nel rap-
porto adulto-bambino, e la possibilità che bambini diversi reagiscano in modi variabili alle medesime
condizioni ambientali. Importante, a questo proposito, lo studio condotto da Escalona (1968) sul
reciproco interagire delle diverse dimensioni di comportamento dei neonati in rapporto alle variazio-
ni di comportamento adulto. Queste diversità riguardano principalmente:
a) le modalità sensoriali preferite. Le madri differiscono nell’utilizzo preferenziale di modalità tat-
tili, visive, acustiche nel loro contatto con il bambino, il quale a sua volta, con le proprie modalità
reattive (di accettazione, di rifiuto, di richiesta), determina una valorizzazione, un utilizzo o un ab-
bandono di certe modalità adottate dall’adulto, fino alla creazione di un comune schema di compor-
tamento interattivo;
b) il livello di attività-inattività. Vi sono bambini “tranquilli” e bambini “turbolenti”: queste
differenze interagiscono con i comportamenti degli interlocutori adulti, in quanto il bambino
“buono” (capace di auto-soddisfarsi, meno interessato all’ambiente, ecc.) riceve spesso una minore
quantità di at-tenzione del bambino “protestatario”, che tende ad imporsi nell’ambiente. Si creano
così dei circoli viziosi su cui sarebbe necessario riflettere dal punto di vista educativo, dal momento
che l’adulto finisce per offrire stimolazioni supplementari proprio al soggetto che ne avrebbe più
bisogno, tra-scurando invece il soggetto più bisognoso di stimolazioni.

Clima della famiglia e ambiente educativo

La famiglia è il primo luogo fisico e mentale nel quale il bambino viene a esercitarsi nelle relazioni
sociali, a stabilire i contatti con la realtà che, dalla nascita alla maturazione, ma soprattutto nei pri-
missimi anni di vita, agirà profondamente sul suo carattere e sulla sua identità individuale unica.
Il tipo di famiglia che caratterizza la società industriale è indicato con il termine famiglia nucleare
o ristretta, composta dai genitori e dalla prole, spesso di numero limitato. Nella famiglia nucleare i
membri sono portatori di ruolo che, pur cambiando e adattandosi alle varie necessità, mantengono
alcune caratteristiche tipiche. I ruoli dei genitori circoscrivono l’atmosfera familiare; la condotta pre-
valente e le caratteristiche più evidenti dei genitori saranno i naturali riferimenti e concorreranno al
“clima educativo”, ossia all’habitat mentale in cui si formeranno le prime esperienze del bambino.
I rapporti tra genitori e figli sono molteplici e articolati sulle esigenze del vivere nella comunità fa-
miliare: la personalità dei genitori, le lore tendenze e le modalità acquisite di adattamento al vivere
sociale dovranno misurarsi con le varie esigenze e con i tratti di temperamento proprie dei figli.
Se i genitori, con lo stile di vita e di comportamento contribuiscono a formare la personalità dei figli,
dall’altro i figli agiscono sul piano interattivo, modificando le aspettative e contribuendo alla forma-
zione di un “clima” particolare che distingue nel suo essere una famiglia da un’altra. Tali modalità in-
terattive potranno risultare determinanti nello sviluppo delle differenze individuali.
Recenti e numerosi studi sulle dinamiche tipiche del rapporto che si instaura tra genitori e figli so-
no stati effettuati da psicologi sociali e tra essi vanno citati quelli di Schaefer, che propone una se-
rie di correlazioni per evidenziare quattro climi educativi tipo: il primo basato sulla dipendenza del
rapporto tra affetto e controllo, il secondo tra affetto e autonomia, il terzo tra ostilità e controllo, il
quarto tra ostilità e autonomia. L’autore propone due dimensioni bipolari in cui si manifestano le in-
terazioni familiari: la prima varia dalle forme di controllo fino a giungere al grado massimo di autono-
mia, l’altra tiene in considerazione i fattori che vanno dall’ostilità sino all’affetto; queste due dimen-
sioni dinamiche sottolineaano i rapporti di reciprocità tra genitori e figli. L’asse autonomia-controllo
rappresenta il ventaglio delle caratteristiche generali elargite dai genitori; l’asse affetto-ostilità indica
l’interazione affettiva mediante la quale genitori e figli vengono emotivamente in contatto tra loro.
Schaefer sintetizza le variazioni caratteristiche dei climi familiari proponendo uno schema (noto
come quadrante di Schaefer) che permette praticamente una correlazione tra i vari fattori.
La correlazione affetto-autonomia, la più auspicabile, soprattutto se sottolineata da rapporti
cooperativi o democratici, è tipica di un clima familiare in cui il bambino si apre alla socialità e alla
collaborazione: il futuro adulto sarà tendenzialmente attivo, dotato di spirito creativo e capace di
adattamento alle esigenze della vita, portato all’amicizia, generalmente estroverso, possiederà doti
direttive, maturo e libero da regole eccessivamente voncolanti, con un temperamento moderatamente
aggressivo che gli consentirà di affrontare le più svariate situazioni.
La correlazione affetto-controllo darà luogo ad un minore grado di indipendenza nel bambino che
farà spesso riferimento ai genitori, sarà ordinato, pulito, rispettoso delle regole e delle gerarchie; la
creatività risulterà meno eviente del primo caso; sarà buon organizzatore, si orienterà nella vita a li-
velli di adattabilità; pur non manifestando uno spiccato senso di indipendenza, sarà mite e disponi-
bile verso gli altri.
La correlazione ostilità-autonomia può suscitare nel bambino una notevole aggressività, con riper-
cussioni negative sull’adattamento sociale; sarà trasgressivo e anticonformista, avrà difficoltà di ma-
turazione nella sfera affettivo-emotiva.
La correlazione ostilità-controllo, la più negativa rispetto al raggiungimento dell’autonomia ed in
generale per l’educazione del bambino, potrà provocare l’insorgenza di eventuali disturbi psicoso-
matici; il bambino potrà essere ansioso, rinunciatario con i superiori, litigioso con i pari, ombroso e
introverso, spesso autolesionista, generalmente nevrotico.

controllo autonomia

affetto sottomissione, dipendenza attività, creatività


buone maniere, obbedienza buon adattamento sociale
scarsa creatività, conformismo aggressività moderata
rispetto acritico delle regole indipendenza

ostilità problemi nevrotici, forte aggressività


scarso adattamento sociale disadattamento sociale
timidezza, scarsa autonomia trasgressione ed anticonformismo
auto-aggressività immaturità affettiva

tabella 2 clima educativo e tratti infantili della personalità: quadrante di Schaefer


Tipologie della famiglia.

Sono state condotte numerose ricerche sui gruppi familiari, con metodologie molto diverse tra loro
(strumenti psicodiagnostici, analisi delle conversazioni, osservazione) e con l’intento comune di perve-
nire alla formulazione di “tipologie” familiari.
Dalla fine degli anni sessanta, in particolare, gli schemi concettuali ispirati all’approccio sistemico so-
no stati utilizzati nella ricerca sulle tipologie familiari: il criterio dominante è diventato quello dei mo-
delli di relazione, con una migliore focalizzazione delle relazioni interpersonali (diadiche e non) e della
struttura dei gruppi familiari.
L’analisi dei gruppi familiari centrata sulla “struttura” e l’individuazione di tipologie differenziate ten-
de a privilegiare i criteri della coesione-integrazione tra i vari componenti. Particolarmente rappresen-
tativa in questo senso è la contrapposizione proposta da Minuchin (1967) tra famiglia “invischiata”
(enmashed) e famiglia “disimpegnata” (desengaged). La prima si caratterizza infatti per la stretta inter-
connessione esistente tra i membri componenti: ogni tentativo di cambiamento da parte di uno di essi
provoca un’immediata risposta di “resistenza” da parte degli altri; nella seconda, invece, i movimenti
dei singoli componenti appaiono come indipendenti l’uno dall’altro e le relazioni complessive risultano
molto debolmente interconnesse. Questa tipologia ricalca, sintetizzandole, le riflessioni teoriche sulla
struttura familiare di altri autori: Bowen (1966) parla infatti di famiglia “indifferenziata” o “differen-
ziata” a seconda della chiarezza con cui i singoli componenti giungono a definire i contorni del proprio
sé; Stealin (1972) descrive come “centripeti” o “centrifughi” i principi delle famiglie di adolescenti da
lui studiate, Ashby (1969) distingue sistemi familiari “altamente” o “scarsamente interconnessi”.
Reiss (1970, 1981) sviluppa una tipologia basata sulle relazioni interne al sistema familiare e su quelle
intercorrenti tra famiglia e ambiente. Facendo riferimento all’integrazione tra un triplice ordine di fat-
tori - coesione interna al gruppo, indipendenza personale, permeabilità alle stimolazioni esterne - questo
autore distingue tre diversi tipi di famiglia, in funzione del diverso grado di “sensibilità” manifestata ri-
spetto al “consenso”, alla “distanza interpersonale”, all’ “ambiente”.
La famiglia “sensibile al consenso” è quella in cui la dinamica predominante si caratterizza nella ricer-
ca di vicinanza, unione ed accordo tra i memri, mentre l’ambiente esterno viene vissuto come minac-
cioso e pericoloso.
La famiglia “sensubile alla distanza interpersonale” è quella i cui componenti appaiono disaggregati
tra loro; i confini tra il gruppo familiare e l’ambiente esterno non risultano marcati in maniera netta e
precisa.
La famiglia “sensibile all’ambiente” si trova invece in equilibrio ottimale tra l’esigenza di coesione
interna e l’indipendenza personale dei singoli membri; si caratterizza per flessibilità, è sensibile ai biso-
gni ed aperta ai contributi interni, ma anche alle novità ed ai cambiamenti esterni.

DIFFERENZE PSICOLOGICHE TRA MASCHI E FEMMINE

Un aspetto importante dell’immagine di sé che il bambino sviluppa assai presto è il sesso.


Un’enorme mole di ricerche è stata effettuata per determinare se, oltre a presentare le diversità fisi-
che autoevidenti, maschi e femmine differiscano stabilmente anche per alcune caratteristiche psico-
logiche. I primi studi in questo settore mettevano in luce molte differenze fra i rappresentanti dei
due sessi; ad esempio, affermavano che le femmine sono più suggestionabili dei maschi, meno moti-
vate al successo, più adeguate a compiti ripetitivi che a compiti intellettuali complessi, meno analiti-
che; e per concludere questa rassegna di tratti non certo lusinghiera per il sesso femminile, alle bam-
bine veniva attribuita anche una minor stima di sé.
Tuttavia questi risultati non sono stati confermati dalle ricerche più recenti, condotte con maggiore
rigore sul piano metodologico. Ad esempio si è cominciato a sostituire le impressioni di genitori ed
insegnanti con osservazioni dirette; nel caso di interviste ai bambini, si è tenuto conto del fatto che il
sesso dell’intervistatore (identico o no a quello dell’intervistato) può influire sui risultati; più in ge-
nerale si è modificata l’ottica degli studi stessi, andando in cerca non solo di differenze, ma anche di
somiglianze. Alla luce dei risultati attuali, solo pochissime sono le differenze accertate tra maschi e
femmine: esse riguardano le manifestazioni aggressive e le abilità verbali e spaziali.
Fin dai due anni, i maschi mettono in atto più spesso delle femmine comportamenti che hanno lo
scopo di colpire, danneggiare o irritare gli altri; essi litigano di più con i coetanei e anche nelle loro
fantasticherie compaiono più spesso temi aggressivi. D’altra parte, le femmine sono più inclini ad
aggressioni verbali o ad atteggiamenti poco socievoli. Questi dati suggeriscono che maschi e femmine
abbiano un grado di aggressività più o meno pari, ma che la manifestino in modi diversi, congruenti
con le aspettative degli adulti circa il comportamento più appropriato rispettivamente per un bam-
bino o per una bambina.
La superiore abilità verbale delle femmine e quella visivo-spaziale dei maschi, che si manifestano in
vari compiti fin dall’età prescolare e perdurano anche in seguito, sembrano avere le radici nei primi
anni di vita. Le bambine infatti prestano maggiore attenzione che non i bambini ai suoni in genere, e
a quelli del linguaggio in particolare, mentre i maschi guardano con più interesse delle femmine luci e
forme e, appena sono in grado di manipolare degli oggetti, si impegnano più a lungo in questo tipo di
attività. Tuttavia non mancano bambine con notevoli abilità spaziali e maschi con notevoli abilità
linguistiche: la differenza tra i due gruppi emerge con chiarezza solo nei confronti tra le medie di
gruppi numerosi.

a) studi condotti negli anni ‘60


Maschi Femmine
meno suggestionabili più suggestionabili
più analitici più adatte a compiti ripetitivi
più stima di sé meno stima di sé
più motivati al successo meno motivate al successo

b) studi più recenti (anni ‘70/80)


Maschi Femmine
più aggressività fisica più aggressività verbale tabella 3: ricerche sulle
più socievolezza meno socievolezza differenze psicologiche
più abilità visivo-spaziale più abilità verbale tra maschi e femmine
attenzione:
luci, forme, manipolazione suoni, linguaggio

Identità e ruoli sessuali. Anche se gli studi recenti hanno parzialmente ridimensionato le
differenze psicologiche tra maschi e femmine, l’acquisizione di un’identità sessuale è un aspetto im-
portantissimo dello sviluppo dell’immagine di sé. Per identità sessuale si intende il riconoscimento
di sé come maschio o femmina, riconoscimento che rispecchia di solito (ma non necessariamente,
come attesta ad es. il fenomeno del travestitismo, o in generale, le cosiddette “disforie di genere” *)
il sesso biologico dell’individuo. L’identità sessuale non va confusa con il ruolo sessuale: quest’ul-
timo è l’insieme dei comportamenti che una particolare società ritiene appropriati rispettivamente
per i maschi e per le femmine. Le richieste di ruolo vanno molto al di là dei comportamenti che han-
no una base biologica, come quelli riproduttivi: essi includono prescrizioni sul modo di vestire, sui
gesti, i discorsi, gli interessi e perfino sul modo di reagire emotivamente alle diverse situazioni che si
considerano appropriati per un uomo o per una donna. Una persona può così possedere una chiara
identità sessuale, senza tuttavia conformarsi pienamente al ruolo corrispondente.

* si intende per “disforia di genere” la mancata corrispondenza tra sesso anatomico e vissuto o iden-
tità di genere. Il maschio e la femmina possono sentirsi parte dell’altro sesso, aspirare a farne parte o
fantasticarne. Le forme che nella vita degli individui, tali vissutie fantasie possono assumere variano
grandemente: il travestito, ad esempio, fonderà la propria attività di mascheramento sulla consapevolez-
za della proria identità maschile. Utilizzando quei feticci o significanti della femminilità che sono gli
abiti, il trucco, le parrucche, egli mira a sembrare femminile, ben sapendo di non esserlo.
Diverso il percorso transessuale: chi si sottopone all’intervento chirurgico e ai trattamenti ormonali
per cambiare sesso è certo di non appartenere al sesso e al genere assegnatili alla nascita, di essere impri-
gionato in un corpo non suo. Il rimodellamento del corpo esprime non un voler sembrare (come nel tra-
vestitismo), ma un voler essere.
Come giunge il bambino ad assumere la propria identità e ruolo sessuale? Uno dei primi a proporre
una spiegazione per questo fenomeno è stato Freud, secondo il quale l’identità sessuale è legata alla
positiva soluzione del complesso edipico (amore per il genitore di sesso opposto, paura della ven-
detta da parte del genitore dello stesso sesso) ed alla conseguente identificazione con il genitore dello
stesso sesso. Dall’identificazione deriva l’adesione al genere da cui dipenderà la scelta d’oggetto e la
meta sessuale degli individui, ed il superamento più o meno definitivo della “bisessualità originaria”.
Più di recente Laurence Kohlberg, esponente dell’indirizzo cognitivo-evolutivo, ha riesaminato il
problema, giungendo a conclusioni diverse. Secondo Kohlberg non è l’identificazione che determina
l’identità sessuale, ma al contrario l’identità che conduce all’identificazione. Egli pensa infatti che
l’identificazione sia il risultato di una “imitazione selettiva” di figure scelte come modello; il fatto
che tra tali figure spicchi di solito il genitore del proprio sesso dipende dal riconoscimento di una
somiglianza importante, quella relativa al sesso. Questo riconoscimento, a sua volta, è il risultato di
un processo di sviluppo cognitivo, le cui tappe principali sono:
1) la scoperta dell’esistenza della differenza tra i sessi;
2) la classificazione delle varie persone e poi di se stessi in base a tali differenze: maschi da un lato,
femmine dall’altro;
3) la comprensione che le differenze sessuali sono permanenti: chi nasce maschio rimane maschio,
chi nasce femmina rimane femmina, nonostante le vistoso trasformazioni che il corpo subisce
durante la crescita.

Teoria freudiana Approccio cognitivo-evolutivo (Kohlberg)

1) desiderio del genitore del sesso opposto 1) identità sessuale:


(complesso edipico) a) scoperta dell’esistenza delle differenze tra i sessi
2) paura della vendetta del genitore dello st. sesso b) classificazione delle persone in base a tali differenze
3) identificazione col genitore dello stesso sesso c) comprensione della stabilità dell’ identità sessuale
4) identità sessuale 2) imitazione del padre
3) attaccamento al padre

tabella 4: schema dell’acquisizione dell’identità e del ruolo sessuale nelle teorie di Freud e di Kohlberg

Identità maschile e femminile: il punto di vista psicoanalitico

Nel libro Women’s Growth in Connection, pubblicato dal gruppo di psicoanaliste americane dello
Stone Center, si sostiene che il sé femminile si sviluppa secondo un percorso diverso da quello
maschile, e mentre per l’uomo i valori fondamentali consistono nell’autonomia, nell’autosufficienza,
nel controllo emotivo, nella distanza relazionale, nell’individualismo e nella competizione, per la
donna, al contrario, valgono le “connessioni”, ossia la rete di relazioni affettive, la condivisione.
Nel mondo occidentale è stato senz’altro privilegiato il modello individualistico, corrispondente al
cartesiano “cogito ergo sum” in base al quale l’individuo si erge contro gli altri per affermare se stes-
so e per impadronirsi del proprio destino. E’ stata in tal modo enfatizzata “l’etica agente”, ossia as-
sertiva, individualistica e competitiva a scapito dell’ “etica comunitaria”, caratterizzata, quest’ulti-
ma, dall’essere con gli altri in unione o in contatto.
Il movimento psicoanalitico ha, nel corso della sua storia, confermato tale orientamento, ma al suo
interno sono comparse posizioni differenti: Sigmund Freud riteneva che il modello maschile costi-
tuisse uno stato naturale originario, mentre Ernest Jones e Karen Horney hanno sostenuto invece,
il carattere primario della femminilità. Secondo lo psicoanalista californiano Stoller, la mascolinità e
la femminilità non sono due percorsi evolutivi paralleli, ma la condizione primaria sarebbe rappre-
sentata dalla femminilità; le osservazioni cliniche dimostrerebbero che l’identità maschile è fragile e
le perversioni sessuali riguarderebbero quasi esclusivamente l’uomo. La paura di ricadere nella fusio-
ne originaria con la madre spingerebbe l’uomo ad affermare la propria forza, la propria indipenden-
za, comportandosi talvolta in modo crudele, poligamo e misogino.
Negli ultimi due decenni il dibattito sull’identità maschile e femminile si è arricchito anche sulla
base delle osservazioni emerse dalle ricerche in campo infantile e delle polemiche interne al movi-
mento femminista. Ma qual è lo stato della ricerca nel campo dell’identità di genere? Vi sono ormai
evidenze certe che il riconoscimento dell’identità di genere maschile e femminile inizia dopo il primo
anno di vita, legato da una parte alla percezione delle differenze anatomiche e dall’altra al diverso at-
teggiamento dei genitori nei confronti dei figli maschi e delle figlie femmine. Si è visto che particolar-
mente i padri hanno delle aspettative di ruolo più definite e rigide a seconda del sesso dei figli. Per
questo motivo i maschi tendono a negare le identificazioni femminili, come ad esempio il bisogno di
dipendenza e la condivisione affettiva. Nel mondo maschile assumono un maggior peso le differenze
rispetto alle continuità, ed il maschio sviluppa un forte senso di sé come separato ed una netta di-
stinzione tra il “me” e il “non me”. Questo si ripercuote anche sulla costruzione del senso morale:
la voce femminile parla di legami, di cure, di risposte protettive, quella maschile di uguaglianza, di
giustizia e di diritti. Nel gruppo sociale le due voci si congiungono e si sovrappongono anche se vi è
la tendenza di una delle due a predominare sull’altra.
Rimane invece fondamentale, per quanto riguarda le varie fasi del processo di individuazione del
bambino e le dinamiche tra il bambino e i genitori caratterizzate dal conflitto tra dipendenza e auto-
nomia, il lavoro della psicoanalista americana Margaret Mahler .

Il processo di separazione / individuazione: Margaret Mahler. La teoria psicoanalitica ha dedi-


cato particolare attenzione al processo di separazione/individuazione del bambino rispetto alla ma-
dre. Secondo gli studi di Margaret Mahler, questo processo non è né lineare né rapido, e si delinea
nel corso dello sviluppo a partire dallo stato iniziale “simbiotico” di identificazione del bambino con
la madre. Si tratta di un processo lento, contrassegnato da alti e bassi, che segna le fasi di interioriz-
zazione dell’oggetto libidico, così schematizzabili:
4-12 mesi: inizio del processo di differenziazione. Il bambino comincia ad elaborare, attraverso le
esperienze di contatto, una embrionale distinzione di sé dall’altro, nei confronti del quale si orienta
con un sistema di aspettative basato sulla fiducia.
12-18 mesi: l’avvento della deambulazione incentiva i processi di separazione. Il bambino si separa
dalla madre allontanandosi e riavvicinandosi. Dopo aver raggiunto la capacità di differenziare gli og-
getti tra loro, elabora una rappresentazione di sé come distinto dagli oggetti. Le attività di sperimen-
tazione/esplorazione nell’ambiente sono accompagnate dal contatto visivo o vocale con la figura di
attaccamento. Iniziano i conflitti con l’adulto (proibizioni ecc.) nella gestione iniziale della propria
autonomia.
18-24 mesi: periodo di “riavvicinamento”. Si tratta di una fase importante, di apparente regressio-
ne, in cui il bambino mette in atto varie strategie per “negare” la separazione (segue la madre, le si
aggrappa; si allontana ma vuol essere raggiunto da lei ecc.). Gli itinerari di fuga e dipendenza, di an-
data e ritorno, mettono in luce l’ambivalenza tra il bisogno di stare con la madre e quello di stare con
gli amici.
24-36 mesi: il processo di separazione/individuazione giunge a compimento. Il bambino abbandona
la comunicazione di tipo simbiotico a base di segnali (gestuali, mimici ecc.) ed esprime i suoi bisogni
in forma verbale. Se si è instaurato un rapporto di fiducia, non ha più bisogno di affermare la propria
autonomia con violenza. L’oggetto d’amore (oggetto libidico) è stato pienamente interiorizzato.
STILI COGNITIVI

La nozione di stile cognitivo. Quando ci rapportiamo con la realtà, possiamo seguire strategie dif-
ferenti, scegliere tra modi alternativi di elaborare le informazioni. Ad esempio, nell’esame di una fi-
gura può prevalere la tendenza alla finezza ed all’acume (sharpening) o, al contrario, quella al livel-
lamento (leveling), per cui si lasciano perdere sfumature e dettagli e si bada all’essenziale. Spesso il
fatto che si adotti una strategia cognitiva è occasionale, dettato dalle circostanze; ognuno di noi però
ha strategie dominanti e stabili, che costituiscono il risultato di adattamenti individuo-ambiente.
Per stile cognitivo si intende un insieme coerente di strategie dominanti e stabili. Si può parlare di
stili percettivi, stili di soluzione dei problemi, di gestione del sé, ecc. Più spesso però c’è un elemen-
to centrale costituito da qualche qualità cognitiva a carattere generale (come la velocità di elaborazio-
ne, la flessibilità, la complessità) che fa da nucleo organizzatore di una costellazione di tratti di vario
genere. Nello stile cognitivo si integrano gli aspetti cognitivo-razionali e aspetti affettivo-emotivi,
lato freddo e lato caldo, dell’esperienza umana. Lo stile cognitivo sta infatti nel mezzo ed è il luogo
di intersezione, l’elemento di collegamento e di mediazione tra lato freddo e lato caldo.
Le ricerche sugli stili cognitivi sono piuttosto complesse, basate su combinazioni di vari metodi:
test, osservazione, questionari, interviste, esperimenti.

DIPENDENZA E INDIPENDENZA DAL CAMPO

In linea di massima la dipendenza dal campo comporta un approccio globale alle esperienze e l’in-
dipendenza un approccio analitico. Chi è dipendente dal campo si lascia influenzare dal contesto e
dalla struttura delle situazioni. Di conseguenza non riesce a cosiderare gli elementi che ha davanti
isolatamente, fa fatica a scomporre la realtà in pezzi e ad analizzarla. Al contrario, il soggetto indi-
pendente dal campo prescinde facilmente dal contesto e dall’organizzazione con cui le cose si pre-
sentano, sa concentrarsi su ciò che gli interessa e mostra più spiccate doti analitiche.
La parola campo è usata nel senso della psicologia della Gestalt e indica qualsiasi totalità organiz-
zata di cui facciamo esperienza e che costituisce il nostro “ambiente psicologico” in un dato momen-
to. Una figura da decifrare, uno spazio in cui orientarsi, un problema da risolvere, un contesto di vita
sociale sono tutti campi.
I lavori sulla dipendenza-indipendenza sono cominciati negli anni ‘50 e ‘60 col lavoro di Witkin e
dei suoi collaboratori dell’Università di New York. Si tratta di studi longitudinali, condotti con si-
stematicità su ragazzi della scuola pubblica.

I test. Per valutare il grado di campo-dipendenza di


un individuo sono stati messi a punto vari tipi di pro-
ve. Hanno in comune il fatto di richiedere che ci si con-
centri su un dato elemento della situazione, ignorando
il resto.
Il più famoso è il test delle figure mascherate o EFT
(embedded figures test). Al soggetto si chiede di rin-
tracciare una figura semplice dentro una più comples-
sa che la ingloba.

I processi cognitivi e la personalità. Al grado di dipendenza dal campo si associano molte altre
caratteristiche che investono diversi ambiti di esperienza. Gli indipendenti dal campo ottengono mi-
gliori risultati in tutti i test che riguardano i processi cognitivi: percezione, intelligenza e pensiero,
memoria. Nei test di percezione, infatti, essi sfuggono più facilmente alle illusioni e sono più rapidi
nel cogliere organizzazioni alternative degli input; riescono molto meglio nelle prove che mettono in
gioco abilità figurali e di ragionamento spaziale, come quelle di disegno, completamento di figure e
ricomposizione di oggetti. In genere l’indipendenza dal campo si associa ad una maggiore flessibilità
e produttività di pensiero (la cosa è evidente nel problem solving); gli individui indipendenti dal
campo immagazzinano meglio i dati nella memoria a lungo termine e rievocano con più facilità e pre-
cisione, hanno una visione al tempo stesso più complessa e ordinata del mondo e della propria vita
e possiedono rappresentazioni più complesse del corpo e della figura umana che si applica sia a sé
che agli altri.
Controllo dell’ emotività. Quando la realtà è in contrasto con i bisogni e i desideri, gli individui
reagiscono in modo diverso a seconda del grado di dipendenza dal campo. Gli indipendenti sono
portati ad elaborazioni ulteriori, ricorrono a razionalizzazioni, costruzioni mentali che spiegano i
fatti spiacevoli, oppure si isolano, trovano buone ragioni per stare per conto proprio. Diversamente
i dipendenti controllano l’emotività con semplificazioni dell’esperienza, basate sul rifiuto, il misco-
noscimento dei fatti spiacevoli o la rimozione/repressione dei desideri e dei sentimenti che li metto-
no a disagio.
Socialità. Il grado di dipendenza dal campo incide sulla socialità. Gli individui più dipendenti dal
campo hanno maggior bisogno di affiliazione, tendono al contatto sociale e alla compagnia, si con-
frontano con gli altri, cercano l’approvazione, il sostegno e la guida di figure autorevoli. Diversa-
mente gli indipendenti, avendo un concetto di sé più articolato, uno spiccato senso dell’identità ed
elevata autostima, tendono a far affidamento su se stessi e hanno meno bisogno di affiliarsi.
Il diverso bisogno di affiliazione si ripercuote sull’influenzabilità e sul calore nei rapporti umani. Di
solito le persone dipendenti dal campo sono attente agli altri, cortesi e premurose, si sforzano di an-
dare incontro al prossimo e provocarne l’apprezzamento. Gli indipendenti invece possono rivelarsi
talvolta piuttosto freddi, poco interessati agli altri, privi di tatto e tendere all’isolamento.
Che cosa porta ad essere dipendenti o indipendenti. Sembra che sia decisivo l’ambiente di svi-
luppo. Witkin si è occupato della famiglia, studiando in particolare le madri e i rappoti madre-figlio.
É arrivato alla conclusione che le madri dei ragazzi indipendenti dal campo di solito sono anch’esse
indipendenti, si sentono sicure di sé e realizzate nella vita. Nei comportamenti educativi tendono ad
essere autorevoli (pretendono, controllano, dialogano e proteggono) e incoraggiano l’autonomia, la
curiosità e i bisogni cognitivi. Diversamente le madri dei ragazzi dipendenti dal campo sono a loro
volta dipendenti, poco sicure di sé, tendono ad essere permissive o autoritarie e scoraggiano
l’autonomia dei figli.
Maschi e femmine. Le ricerche di Witkin e numerosi lavori successivi hanno dimostrato che le
donne sono mediamente più dipendenti dal campo. Le differenze non sono marcate, ma il dato si
riscontra costantemente. Ci sono buoni motivi per pensare che la maggiore dipendenza dal campo
delle donne abbia origini culturali e sia legata all’educazione. É probabile che i maschi risultino più
indipendenti perchè educati ad essere razionali, intraprendenti, autonomi e freddi e che le donne
sviluppino maggiore dipendenza perchè da loro ci si aspettano doti intuitive, tendenze affiliative e
calore nei rapporti.
Alunni dipendenti e indipendenti. Nell’attività didattica e nello studio, gli alunni dipendenti dal
campo sono quelli che mostrano di avere più bisogno di guida. Si aspettano che l’insegnante dia regole
precise, segua il lavoro passo passo, faccia lezioni ordinate. Non tollerano le istruzioni ambigue, le di-
vagazioni, gli arricchimenti eccessivi. Si attengono ai programmi stabiliti e difficilmente colgono inse-
gnamenti impliciti nel lavoro del docente. Nel gruppo classe sono ben accetti e ben inseriti.
Gli alunni indipendenti all’insegnante chiedono che faccia da stimolo, che dia chiarimenti mirati, non
soffrono se il lavoro viene portato avanti con libertà e flessibilità e tendono a fare gli autodidatti.
Una didattica elastica e brillante taglia dunque fuori una parte della classe, mentre una pedante ne taglia
fuori un’altra. La strategia migliore consiste nel muoversi da un modo di insegnare all’altro, ora recupe-
rando i più dipendenti rimasti indietro, ora i più indipendenti che si annoiano.
RITMO CONCETTUALE

La nozione di ritmo concettuale è stata introdotta da J. Kagan che, negli anni ‘60, a Cambridge nel
Massachussets ha condotto delle indagini longitudinali sui processi attentivi di 180 bambini, se-
guendoli dai 4 ai 27 mesi. Per capire che cos’è il ritmo concettuale, pensiamo a come si comportano
le persone alle prese con un compito o con un problema da risolvere: c’è chi arrischia presto una ri-
sposta e chi invece si dà tempo, aspetta a esternare le ipotesi che gli vengono in mente per vagliarle
meglio prima di impegnarsi in una risposta. Quelli più svelti a decidersi hanno un ritmo concettuale
rapido, quelli che tendono a meditare, un ritmo lento.
Il concetto di “ritmo concettuale” è riferito, più che alla semplice rapidità di risposta agli stimoli
ambientali, alla “gestione personale dei tempi di risposta”; è il tempo che ci si dà per risolvere le in-
certezze dinanzi a una realtà poco chiara da comprendere o a un problema da risolvere che presenta
più alternative plausibili. In tali circostanze, gli individui con ritmo concettuale lento prendono tem-
po, gli altri si affrettano. Il ritmo concettuale non va confuso con la velocità di elaborazione delle in-
formazioni, che è la rapidità nel compiere le operazioni mentali necessarie per fare qualcosa. Mentre
la velocità di elaborazione è una capacità mentale grezza, una abilità cognitiva di base dell’intelligen-
za, il ritmo concettuale riguarda piuttosto il modo di organizzarsi nei compiti cognitivi che richiedo-
no un minimo di impegno, è uno stile di autocontrollo dell’attenzione. Rapidità e lentezza concet-
tuale sono modi particolari di valutare le capacità richieste dal compito, le proprie risorse e i tempi
necessari. Una persona con ritmo concettuale lento può ottenere prestazioni buone anche se la sua
velocità di elaborazione non è elevata: siccome si dà tempo, riesce ugualmente a fornire risposte
esatte.
Tipi di ritmo concettuale. Schematicamente si possono individuare quattro tipi di individui:
impulsivi, accurati rapidi, riflessivi, imprecisi lenti. Prendendo in esame la dimensione impulsività-
riflessività, Kagan ha rilevato che chi ha un ritmo concettuale più alto di solito commette più errori
e si rivela impulsivo, mentre chi si dà tempo è più accurato e risulta riflessivo. Solo le persone con
velocità di elaborazione molto alta riescono ad essere accurate anche con ritmi concettuali rapidi.
Allo stesso modo bisogna avere una velocità di elaborazione molto bassa per risultare imprecisi e
lenti. Perciò il grosso delle persone si colloca nella dimensione della riflessività o dell’impulsività.

alto ^ impulsivi accurati rapidi


ritmo concettuale: alto ritmo concettuale: alto tabella 5:
velocità di elab.: bassa velocità di elab. : alta differenze individuali
ritmo per ritmo concettuale
concettuale imprecisi lenti riflessivi e velocità di elaborazione
ritmo concettuale: basso ritmo concettuale : basso
velocita di elab. : bassa velocità di elab. : alta
basso >
bassa VELOCITÀ DI ELABORAZIONE alta

Il metodo di rilevazione seguito da Kagan con i bambini comprende la registrazione dei comporta-
menti attentivi di fronte a stimoli ambigui (ad es. il contorno di un volto con naso, occhi, bocca,
orecchie in posizioni irregolari), la registrazione dei movimenti oculari e dei tempi di fissazione, la
determinazione della frequenza di sorrisi, dei vocalizzi, del ritmo cardiaco. Se analizzato a fondo, il
ritmo concettuale appare come qualcosa di più complesso delle capacità cognitive (come la velocità
di elaborazione). É legato al sé, a come l’individuo si pensa, a quanto si stima, alle sue caratteristiche
emotive, affettivo-relazionali e di autocontrollo. Sembra essere dovuto in parte a basi biologiche in-
nate e in parte all’ambiente di sviluppo.
SELF -MONITORING

Il self-monitoring (automonitoraggio) è l’attività di gestione del sè nelle situazioni della vita sociale.
Implica una componente diagnostica, di percezione della situazione, e una componente operativa, di
autocontrollo. L’individuo legge la situazione, analizza il contesto di vita sociale cercando di capire
come conviene comportarsi e di conseguenza modella le proprie azioni e la presentazione di sé.
Il self-monitoring è essenziale nella vita pubblica, per fare un’impressione piuttosto che un’altra,
per pilotare la propria immagine sociale. L’attività di automonitoraggio è importante anche nella
costruzione del sé, perchè in gran parte le idee che ci formiamo sul nostro conto dipendono dalle
impressioni che gli altri ci rimandano.
L’automonitoraggio mette in gioco fattori cognitivi e fattori emotivi. Per adattarsi alle diverse situa-
zioni occorre come prima cosa capirle. Oltre alla conoscenza dei contesti tipici di vita sociale, sono
richieste fini capacità di comprensione della comunicazione faccia a faccia, che consentano di coglie-
re i segnali non-verbali, ragionare sulle incoerenze tra segnali e ricostruire significati impliciti e na-
scosti all’interno dei discorsi e dei comportamenti. Anche per controllare e modellare i comporta-
menti è necessario un certo impegno cognitivo. Quando ci monitoriamo, siamo come attori sulla
scena: parole, tono di voce, gesti, espressioni del viso, temi toccati, tempi di silenzio e di intervento
sono cose che contano e vanno controllate. I riferimenti teorici più recenti, per gli studi sul self-mo-
nitoring, vanno del resto cercati principalmente nell’approccio drammaturgico di E. Goffmann, se-
condo il quale la vita sociale è come un teatro (E. Goffmann, The Presentation of Self in Everyday
Life, 1959, trad. it. La vita quotidiana come rappresentazione, 1969).
Il self-monitoring impegna anche sul piano emotivo: spesso le persone, lasciandosi dominare dai
sentimenti (di offesa, vergogna, colpa, rabbia) non riescono a capire le situazioni e adattarvi i com-
portamenti. Se la capacità di decentramento si disattiva, si fa prevalere il giudizio esplicito sugli altri
e su di sé, anche il controllo emotivo tende a venir meno e la situazione “sfugge di mano”.

Gli individui non hanno tutti la stessa capacità di automonitoraggio. Si distinguono soggetti HSM
(high self-monitoring), ad alto monitoraggio, molto sensibili alle situazioni ed abili nel modellare i
propri comportamenti, e soggetti LSM (low self-monitoring), a basso monitoraggio, che si regola-
no prevalentemente in base ai propri stati interiori, prescindendo dalle situazioni. Si riconoscono
perchè gli uni si si adattano senza problemi, sono al loro posto ovunque, gli altri provano facilmente
disagio e lamentano che le circostanze della vita sociale non corrispondono alle loro idee, ai propri
sentimenti, al proprio umore.
É chiaro che gli HSM risultano nel complesso avvantaggiati, specie sul piano della socialità e del
successo. Tuttavia possono sorgere dubbi sulla loro condizione, a causa dello stile camaleontico, del
trasformismo e della loro possibile incoerenza, che può essere fonte di problemi nelle relazioni pro-
fonde di lunga durata. Di solito infatti gli HSM sono meno disposti a svelarsi totalmente e a impe-
gnarsi fino in fondo.
Va detto però che gli HSM sono solitamente meno incoerenti di quello che può sembrare. É vero
che hanno tanti sé, diversi da situazione a situazione, però posseggono una propria organizzazione
non sempre riducibile ad una “esistenza a più comparti”; nella maggior parte dei casi, hanno un nu-
cleo coerente, latente e circondato da un alone fluttuante, adattabile alle situazioni. Quando si ha a
che fare con un soggetto HSM, si sperimenta infatti una grande morbidità, ma anche l’impressione
di un nocciolo duro, un io fermo e coerente dietro le quinte.
SVILUPPO DELLE DIFFERENZE INDIVIDUALI

integrazione

SVILUPPO SOCIALE
temperamento
differenziazione coscienza di sé
identità sessuale

S. Chess & A. Thomas studi e ricerche sulle caratteristiche individuali presenti fin dalla nascita

Temperamento modo di reagire agli stimoli ambientali dipendente dalla costituzione fisica

vs

Personalità modi di pensare e comportarsi peculiari dellʼ individuo dipendenti


sia da fattori innati ( -> temperamento) che da esperienze individuali

facili moderatamente attivi, regolari sonno-veglia, adattabili alle novità

bambini difficili iperattivi, ritmi irregolari sonno-veglia, reazioni negative alle novità

ritrosi iniziale inerzia e protesta di fronte alle novità

Reazioni dei genitori al concordanza


del temperamento rispetto alle aspettative
temperamento del bambino discrepanza

1) modalità sensoriali preferite


Escalona
2) livello attività-inattività

ORIGINI DELLA COSCIENZA DI SEʼ

immagine di sé soggetto delle proprie azioni


oggetto per gli altri
stabile nellʼ identità
separato dagli altri

riconoscimento allo specchio

di sé come entità fisica Zazzo (1975) Lewis & Brooks (1974-79)


differenziata dagli altri

1. 0 - 3 mesi: nessun interesse

2. 3 - 6 mesi interesse per lʼ immagine altrui; sorrisi e vocalizzi

3. 6 - 8 mesi comportamento sociale verso la propria immagine,


come se fosse lʼ immagine di un altro bambino
sorrisi, vocalizzi, colpi sullo specchio

4. 8 - 12 mesi comportamenti ripetitivi di osservazione di particolari del corpo;


inizia il collegamento tra sensazioni cinestesiche e immagini percepite

5. 12 - 18 mesi comportamento più attivo, reazioni di piacere più intense


alle proprie immagini rispetto alle altre

6. 18 - 24 mesi reazioni di stupore (macchia sul viso), affascinamento, evitamento


che preludono il riconoscimento

7. 24 mesi il bambino tocca la macchia, indicandosi ed usando il proprio nome


DIFFERENZE PSICOLOGICHE TRA MASCHI E FEMMINE

immagine di sé identità sessuale

ricerche sulle differenze psicologiche M / F

a) studi anni ʻ60 (Witkin ʻ62)

Maschi Femmine

meno suggestionabili + suggestionabili


+ analitici + adeguate a compiti ripetitivi
+ stima di sé meno stima di sé
+ motivati al successo meno motivate al successo

b) studi più recenti (Maccoby, Jacklin ʻ74)

manifestazioni aggressive
differenze accertate
abilità verbali e spaziali

Maschi Femmine osservazioni dirette

+ aggressività fisica + aggressività verbale test e questionari


colpire, danneggiare metodo
irritare, litigare meno socievolezza maggior attenzione
fantasie aggressive al sesso dell intervistatore

+ abilità visivo-spaziale + abilità verbale alle somiglianze

attenzione: attenzione:
luci, forme, manipolazione suoni, linguaggio

differenze emergenti tra


le medie di gruppi numerosi

IDENTITAʼ E RUOLI SESSUALI

Identità sessuale: riconoscimento di sé come maschio o femmina


che rispecchia - di solito - il sesso biologico

ruolo sessuale: insieme di comportamenti che una particolare cultura vestiario, gesti
ritiene appropriati rispettivamente per maschi e femmine discorsi,emozioni

si può possedere una chiara identità senza conformarsi al ruolo

acquisizione dellʼidentità e del ruolo sessuale

Freud complesso edipico Kohlberg

1) desiderio del genitore del sesso opposto 1) identità sessuale:


a) scoperta esistenza diff. tra sessi
2) paura della vendetta del genitore dello st. sesso b) classificazione delle persone
in base a tali differenze
3) identificazione col genitore dello stesso sesso c) comprensione della stabilità dellʼ identità s.
3 / 4 anni: individuazione dei ruoli
4) identità sessuale 5 / 6 anni: imitazione selettiva degli
individui del proprio sesso
2) imitazione del padre
3) attaccamento al padre
CLIMA EDUCATIVO E TRATTI INFANTILI DELLA PERSONALITÀ Schaefer

controllo autonomia

affetto sottomissione, dipendenza attività, creatività


buone maniere, obbedienza buon adattamento sociale
scarsa creatività, conformismo aggressività moderata
rispetto acritico delle regole indipendenza

ostilità problemi nevrotici, forte aggressività


scarso adattamento sociale disadattamento sociale
timidezza, scarsa autonomia trasgressione ed anticonformismo
auto-aggressività immaturità affettiva

IDENTITÀ MASCHILE/FEMMINILE: IL PUNTO DI VISTA PSICOANALITICO Stone Center


connessione
condivisione etica comunitaria
femminile identità diffusa (unione - contatto)
simbiosi - fusionalità

SE’ autonomia
autosufficienza
controllo emotivo etica agente
maschile distanza relazionale (assertiva)
individualismo
competizione
Stoller femminilità originaria
identità maschile (paura di ricadere nella fusione originaria)
riaffermazione di forza e indipendenza
crudeltà / misoginia

IL PROCESSO DI SEPARAZIONE / INDIVIDUAZIONE M. Mahler

4 - 12 mesi inizio del processo di differenziazione; embrionale distinzione di sè dall’altro


sistema di aspettative basato sulla fiducia - sfiducia

12 - 18 m. separazione incentivata dalla deambulazione: allonanamento-riavvicinamento


rappresentazione di sé; attività di esplorazione con sostegno della figura di
primi conflitti nella gestione dell’ autonomia (attaccamento

18 - 24 m. periodo di riavvicinamento; strategie per “negare” la separazione


itinerari di fuga/dipendenza, ambivalenza simbiosi/ separazione

24 - 36 m. interiorizzazione dell’oggetto libidico: compimento del processo di sep./ ind.


espressione verbale dei bisogni; se la relazione è basata sulla fiducia,
l’autonomia non viene riaffermata in forma aggressiva
STILI COGNITIVI

Insieme coerente di strategie dominanti e stabili es. acume / livellamento

risultato di adattamenti individuo - ambiente

“New look” studi sulla percezione esperienza passata, bisogni, motivazioni, aspettative

cognitivo-razionali lato “freddo”

aspetti stili cognitivi: luogo di intersezione

affettivo-emotivi lato “caldo”

metodo di ricerca: test, osservazione, questionari, interviste, esperimenti

DIPENDENZA E INDIPENDENZA DAL CAMPO

dipendenza -> approccio globale alle esperienze -> influenzato dal contesto
dal campo

indipendenza -> approccio analitico alle esperienze -> prescinde dal contesto
dal campo

campo = totalità organizzata di cui si fa esperienza e che costituisce un “ambiente psicologico”

Witkin 1950 - 60 : New York, studi longitudinali con ragazzi della scuola pubblica

gradi diversi di dipendenza - indipendenza

STILE COMPLESSIVO E PERSONALITÀ

indipendenti dal campo dipendenti da campo

a) percezione
+ abilità figurali e ragionamento spaziale _

b) pensiero
+ flessibilità e produttività di pensiero _

c) memoria
+ immagazzinamento nella MLT e rievocazione _

d) percezione del sé
+ articolazione dellʼ esperienza spazio-temporale _
rappresentazione della figura umana

e) controllo dellʼ emotività


realtà in contrasto con i desideri
elaborazioni ulteriori: semplificazione dellʼ esperienza:
razionalizzazioni rifiuto
legittimazioni misconoscimento
isolamento riflessivo rimozione - repressione

f) socialità
+ freddi + suggestionabili
- interessati agli altri + attenti agli altri
+ solitari + influenzabili, + conformisti
- cortesi + cortesi
ambiente indipendenti, autorevoli incoraggiano lʼ autonomia
di genitori
sviluppo dipendenti, permissivi / autoritari scoraggiano lʼ autonomia
RITMO CONCETTUALE

J. Kagan, Cambridge, Massachussets, 1960


indagini longitudinali sui processi attentivi (180 bambini di 4 - 27 mesi)

ritmo concettuale gestione personale dei tempi di risposta agli stimoli ambientali
dipendente dalle caratteristiche cognitive, emotive, affettivo-
relazionali, dallʼ organizzazione del sé e dallʼ autostima.

-> tempo che ci si dà per risolvere le incertezze vs velocità di elaborazione


-> stile di autocontrollo dellʼ attenzione delle informazioni
(capacità mentale grezza)
alto
R
I
T impulsivi accurati rapidi
M
O ritmo concettuale: alto ritmo concettuale: alto
velocità di elab.: bassa velocità di elab. : alta
C
O
N
C
E imprecisi lenti riflessivi
T
T ritmo concettuale: basso ritmo concettuale : basso
U velocita di elab. : bassa velocità di elab. : alta
A
L
E

basso/ a VELOCITAʼ DI ELABORAZIONE alta

metodo di rilevazione -> osservazione sistematica


dei compiti attentivi (stimoli ambigui)
registrazione dei movimenti oculari, dei tempi di fissazione
della frequenza di sorrisi e vocalizzi, del ritmo cardiaco

temperamento (basi biologiche)


+ fam. meno agiate bamb. + impulsivi
ambiente di sviluppo differenze socio-economiche
fam. più agiate bamb. + riflessivi
il ritmo concettuale tende a mantenersi costante

SELF -MONITORING

attività di gestione del sè componente diagnostica (percezione della situazione)


nelle situazioni di vita sociale componente operativa (autocontrollo)

fattori cognitivi conoscenza dei contesti di vita sociale


comunicazione faccia a faccia
S.M. modellamento dei comportamenti (parole, gesti, mimica, tono )

fattori emotivi controllo dei meccanismi di difesa


controllo dei biases socio-affettivi

High S.M. sensibili alle situazioni, tendenza al trasformismo


abili nel modellamento divisione in comparti dellʼ esistenza
restii a svelarsi totalmente nucleo centrale + alone fluttuante

Low S.M. sensibili agli stati interiori,


SOCIOLOGIA
La sociologia come prospettiva

A partire dalla seconda metà del XIX secolo, si è applicato un nuovo metodo allo studio della so-
cietà umana e del comportamento sociale: il metodo scientifico, che fornisce risposte tratte dai fatti
raccolti mediante una ricerca sistematica. Da questo nuovo metodo d’indagine ha tratto origine una
disciplina vivace e ancora “giovane”: la sociologia. La sociologia è lo studio scientifico della società
umana e del comportamento sociale. Il suo oggetto è ampio, complesso e vario, e le conoscenze
prodotte dalla ricerca sociologica rimangono provvisorie ed imperfette sotto molti punti di vista.
La prospettiva sociologica ci invita a guardare l’ambiente che ci è familiare un pò come se lo vedes-
simo per la prima volta. Ci permette di avere un’immagine nuova di un mondo che abbiamo sempre
dato per scontato; essa ci incoraggia a mettere a fuoco i lineamenti del nostro ambiente sociale e a
interpretarli in una luce nuova e più ricca. La sociologia ci offre anche una finestra sul mondo, gui-
dandoci in aree della società che altrimenti avremmo ignorato o mal compreso, ci da la possibilità di
renderci conto che esistono punti di vista diversi dal nostro e, in questo processo, di comprendere
meglio noi stessi, i nostri atteggiamenti, la nostra stessa vita.

L’idea fondamentale della sociologia è questa: il comportamento umano viene influenzato in


forte misura dai gruppi ai quali la persona appartiene e dall’interazione sociale che ha luogo in
tali gruppi.
L’oggetto di studio principale della sociologia è il gruppo, non l’individuo. Gli studi di individui
particolari sono utili ai sociologi, ma i sociologi sono interessati principalmente all’interazione socia-
le, cioè al modo in cui le persone agiscono e reagiscono le une rispetto alle altre influenzandosi reci-
procamente.

Comunemente le scienze vengono distinte in due branche principali: le scienze naturali, che studia-
no i fenomeni fisici e biologici, e le scienze sociali, che studiano i vari aspetti del comportamento
umano. Tutte le scienze, naturali o sociali, partono dall’assunto che nell’universo esiste un qualche
ordine sottostante. Gli avvenimenti, sia che riguardino le molecole sia gli esseri umani, non sono ca-
suali, ma seguono un modello che è abbastanza regolare da permettere che su di essi si facciano delle
generalizzazioni. Diventa allora possibile analizzare i rapporti di causa ed effetto e spiegare così
perchè una cosa accade e predire che, nelle stesse condizioni, accadrà ancora in futuro. Per le sue ge-
neralizzazioni, spiegazioni e predizioni, la scienza si avvale dell’analisi sistematica di dati verificabi-
li, di dati, cioè, che possono essere controllati da altri e che daranno sempre gli stessi risultati.
La vita sociale non consiste dunque in una serie di eventi casuali: nella maggior parte dei casi la so-
cietà e i processi che in essa si svolgono seguono determinati modelli. Di conseguenza la sociologia
può usare gli stessi metodi di indagine delle altre scienze ed usare i suoi risultati per formulare gene-
ralizzazioni. Come gli studiosi di scienze naturali, i sociologi costruiscono teorie e analizzano dati,
effettuano esperimenti e fanno osservazioni, tengono accurate documentazioni e cercano di giungere
a conclusioni esatte.

Come tutte le scienze sociali, la sociologia è una disciplina relativamente meno avanzata rispetto
alla maggior parte delle scienze naturali. Le ragioni sono due. In primo luogo il metodo scientifico è
stato impiegato per studiare il comportamento sociale soltanto a partire da tempi recenti, mentre è
stato applicato al mondo naturale da secoli. In secondo luogo lo studio del comportamento umano
presenta molti problemi con i quali gli studiosi di scienze naturali non devono fare i conti:
a) i sociologi si occupano delle persone, ossia di individui coscienti, consapevoli di sé, capaci di
cambiare il loro comportamento quando vogliono: a differenza delle rocce o delle molecole, possono
non cooperare e possono modificare il loro comportamento quando sanno di essere oggetto di stu-
dio; b) per motivi etici, non possono diventare oggetto di esperimenti che offendano la loro dignità o
che violino i diritti umani; inoltre c) il comportamento umano ha generalmente delle cause estrema-
mente complesse e stratificate, che è difficile determinare con esattezza.

Le scienze sociali sono un gruppo di discipline tra loro imparentate che studiano i diversi aspetti
del comportamento umano. Ne fanno parte la sociologia, l’economia, la psicologia, la scienza
politica e l’antropologia. I confini tra le varie scienze sociali sono vaghi e sempre mutevoli, e tra le
varie discipline vi sono vaste aree di sovrapposizione: gli aspetti sociali della vita economica sono
oggetto di studio della sociologia economica, la psicologia sociale studia come la personalità e il com-
portamento vengano influenzati dal contesto sociale, la sociologia politica analizza il comportamen-
to politico e l’interazione sociale nei processi politici. L’antropologia è la disciplina più affine alla
sociologia. Differisce da questa perchè si occupa principalmente di piccole società “primitive”, men-
tre la sociologia concentra la propria attenzione piuttosto sui processi di gruppo che hanno luogo
nell’ambito delle grandi società industriali moderne.

Generalmente il titolo di fondatore della sociologia viene attribuito ad August Comte (1798 -
1857), che per primo coniò il termine “sociologia” e che individuò due problemi specifici della ricer-
ca sociologica: la statica sociale e la dinamica sociale.
La statica sociale riguarda il problema dell’ordine e della stabilità, del come e perché la società sta
insieme e si regge nel tempo.
La dinamica sociale riguarda il problema del cambiamento sociale, di cosa spinge la società a cam-
biare e che cosa determina la natura e la direzione dei cambiamenti.

La maggior parte dei sociologi segue, nel proprio lavoro, la falsariga delle principali prospettive
teoriche, cioé si basa su assunti di carattere generale riguardanti la società e il comportamento socia-
le, che sono in grado di offrire un punto di vista complessivo per lo studio di problemi specifici.
Le prospettive che storicamente hanno avuto la maggiore diffusione sono: la prospettiva funzio-
nalista, la prospettiva del conflitto e la prospettiva interazionista.

La prospettiva funzionalista

La prospettiva funzionalista trae la sua ispirazione dalle opere di Herbert Spencer e di Emile
Durkheim. Spencer paragonava la società ad un organismo vivente: ogni organismo ha una struttu-
ra, cioè è composto da un certo numero di parti interrelate come la testa, gli arti, il cuore e così via.
Nello stesso modo la società he una struttura, e le sue parti interrelate sono la famiglia, la religione,
l’esercito ecc. Il moderno struttural-funzionalismo (Talcott Parsons, Robert Merton) conserva la
stessa idea di società come sistema di parti interrelate.
La teoria funzionalista presuppone che la società tenda ad essere un sistema organizzato stabile,
ben integrato, in cui la maggior parte dei membri sia d’accordo sui valori fondamentali, ed in cui
gli elementi del sistema sociale tendano ad adattarsi gli uni agli altri, cooperando al mantenimento
della stabilità generale. Robert Merton distingue le funzioni manifeste - quelle riconosciute ed
intenzionali - dalle funzioni latenti - quelle che non vengono riconosciute e non sono intenzionali.
La scuola, ad esempio, ha la funzione manifesta di insegnare a leggere, scrivere, far di conto, ma ha
anche delle funzioni latenti, come per esempio tenere impegnati i giovani, nella società industriale,
fino a quando non hanno un’età sufficiente per lavorare. Merton avverte che non tutti gli elementi
del sistema sociale sono sempre funzionali: accade a volte che di fatto alcuni di essi infrangano
l’equilibrio sociale e che quindi siano disfunzionali (ad es. l’alto tasso di natalità nei paesi sottosvi-
luppati).
Concentrando l’attenzione principalmente sull’ordine e la stabilità sociale, i funzionalisti tendono
talvolta ad assumere un atteggiamento implicitamente conservatore: i cambiamenti distruttivi vengo-
no considerati a priori disfunzionali, anche quando tali cambiamenti possono essere, a lungo andare,
benefici.

La prospettiva del conflitto

L’ispirazione della prospettiva del conflitto della sociologia moderna deriva dall’opera di Karl
Marx, il quale considerava la lotta tra le classi sociali il vero “motore” della storia. La teoria del con-
flitto moderna (Charles Wright Mills, Lewis Coser) considera come un fatto che troviamo nella
vita di ogni società il conflitto tra molti gruppi ed interessi. Questi conflitti possono mobilitare, ad
esempio, i vecchi contro i giovani, i produttori contro i consumatori, gli uomini contro le donne, un
gruppo razziale contro un altro, ecc.
I teorici del conflitto assumono che le società si trovino in uno stato di costante cambiamento in cui
il conflitto è una caratteristica permanente. “Conflitto” non significa necessariamente violenza aper-
ta, ma anche tensione, ostilità, competizione e dissenso sui fini e sui valori; la sua caratteristica è di
non essere occasionale, ma di costituire una presenza costante nella vita sociale.
Le cose che le persone vogliono - il potere, la ricchezza, il prestigio - sono sempre scarse e la loro
domanda supera l’offerta. Coloro che controllano queste risorse riescono a proteggere i loro interessi
a spese degli altri: chi ha il potere costringe il resto della popolazione all’acquiescenza ed alla con-
formità con la forza o con la minaccia dell’uso della forza. I teorici del conflitto non pensano che il
conflitto sia una forza necessariamente distruttiva. Secondo loro esso può avere spesso dei risultati
positivi, diventando un importante fonte di cambiamento ed impedendo che la società ristagni.

La prospettiva interazionista

In sociologia la prospettiva interazionista è stata profondamente influenzata da Max Weber, che


sottolineò l’importanza di comprendere il mondo sociale dal punto di vista degli individui che agi-
scono nel suo ambito. Essa non pone al centro dell’analisi grandi strutture come lo stato, l’economia
o le classi sociali (=> macrosociologia), occupandosi invece principalmente dell’interazione sociale
che ha luogo nell’interazione quotidiana della gente (=> microsociologia).
La ragione principale per la quale i teorici dell’interazionismo diffidano dell’importanza che gli altri
sociologi attribuiscono alle componenti maggiori della società, sta nel fatto che concetti come quelli
di “economia” e di “stato” sono in sostanza delle astrazioni e che non possono esistere o agire di
per sé. Sono le persone che esistono ed agiscono ed è solo attraverso il loro comportamento sociale
che la società esiste. In ultima istanza la società viene creata, mantenuta e cambiata dall’interazione
sociale dei suoi membri. La prospettiva interazionista mette in evidenza il modo in cui le innumere-
voli interazioni sociali generano le principali strutture della società, cerca di comprendere in che mo-
do gli individui creano e interpretano le situazioni e porta quindi il sociologo a indagare sulle inter-
pretazioni e sulle risposte delle persone relative alla loro interazione con gli altri. Impiegando questa
prospettiva i sociologi (in particolare Ervin Goffman) concentrano la loro attenzione sugli aspetti
specifici, dettagliati della vita quotidiana.

Ogni prospettiva privilegia dunque un aspetto diverso della realtà: il funzionalismo l’ordine e la
stabilità sociale, la teoria del conflitto la tensione ed il cambiamento sociale, e l’interazionismo le
esperienze consuete della vita quotidiana. Ciascuna di queste prospettive può fornire un contributo
all’analisi della società, e non c’è niente di strano nel fatto che un ricercatore impieghi teorie appa-
rentemente incompatibili per studiare lo stesso oggetto
Le tendenze attuali della sociologia

Più ci si avvicina ai nostri giorni, più diventa difficile distinguere nel fitto panorama delle teorie
contemporanee quelle di maggiore importanza e significato. Si può comunque notare una rinascita
della sociologia europea attraverso gli studi di alcuni autori particolarmente profondi nelle loro ana-
lisi e ricchi di intuizioni utili alla comprensione della società odierna e dei suoi fenomeni, anche se,
conformemente alla tradizione europea, poco attivi sul piano delle ricerche empiriche.

In Germania si è sviluppato un ampio dibattito tra le opposte concezioni di Jürgens Habermas


(1929) e di Niklas Luhmann (1927). Habermas, erede della teoria critica della Scuola di Francoforte,
cerca di trovare le condizioni che consentano agli individui di agire di comune accordo (“agire comu-
nicativo”) anche nella società attuale, in cui convivono gruppi che possono essere molto diversi per
provenienza etnica, per educazione e per stili di vita, e che quindi possono avere valori e norme di
comportamento assai contrastanti. La riflessione di Habermas è dunque in un certo senso una rispo-
sta sociologica ai problemi di società via via più pluralistiche e complesse, sempre più vicine allo
stato di società multietniche.
Più vicino al funzionalismo è Luhmann, il quale torna a interpretare la società come un sistema;
ma, a differenza di Parsons, Luhmann non identifica in maniera univoca sistema e società. Come la
società, anche l’individuo può essere considerato un sistema, purchè lo si consideri come un tutto,
un organismo in sé conchiuso. In tal caso la società dovrà essere letta come il contesto, l’ambiente in
cui il sistema-individuo vive.
Negli ultimi anni ha destato molto interesse il pensiero di un sociologo inglese, Anthony Giddens
(1938), a cui si deve la diffusione in sociologia del concetto, oggi molto di moda, di globalizzazione.
Giddens pone l’accento sull’esistenza di una rete di relazioni sociali, politiche ed economiche così
vasta da attraversare tutte le frontiere tra i paesi del mondo e produrre una situazione di reciproco
condizionamento e interdipendenza su tutto il globo, tale per cui il mondo si configurerebbe ormai,
al di là delle apparenti differenze tra regione e regione, come un unico grande sistema sociale.

In Francia riscuotono molto credito i lavori per molti aspetti contrapposti di Raymond Boudon
(1934) e Pierre Bourdieu (1932). Il primo è il teorico in sociologia dell’individualismo metodologi-
co, secondo il quale ogni fenomeno sociale, anche il più macroscopico, deve sempre essere conside-
rato l’esito di azioni, convinzioni e comportamenti individuali, e in particolare delle finalità perse-
guite dall’individuo. Bourdieu è dal canto suo uno dei pochi sociologi europei che abbia svolto un
numero rilevante di ricerche empiriche. Egli ritiene che dal punto di vista teorico sia un errore consi-
derare l’individuo come colui che, libero da condizionamenti strutturali, crea i fenomeni sociali con
le proprie decisioni ragionate. Per Bourdieu la struttura sociale è sì un prodotto delle singole azioni
umane e nasce dall’esigenza di rendere l’agire dell’uomo stabile e prevedibile ma, una volta costitui-
ta, essa diviene a sua volta un’importante foente di determinazione dell’agire dei singoli soggetti so-
ciali.
Un pensatore di particolare interesse per i sociologi - sempre in ambito francese - è il filosofo Mi-
chel Foucault (1926-84), il quale si è occupato di istituzioni totali (prigioni, ospedali, manicomi),
interessandosi in particolar modo al rapporto tra potere, conoscenza e ciò che egli chiamava il “di-
scorso”, vale a dire i modi di pensare e di scrivere riguardo alla vita sociale. Foucault è interessato al
modo in cui il potere funziona (la “microfisica del potere”) e alle identità personali, che costringono
e limitano ciò che facciamo. Secondo Foucault il potere è impersonale, anonimo, onnipresente e on-
nicomprensivo, non ha un luogo preciso e privilegiato di residenza, perchè abita ovunque. In altri
termini, il potere è dato dai molteplici rapporti di forza minutamente presenti nella società: i macro-
meccanismi statali (“il Potere”) dipendono in realtà dai micro-meccanismi sociali.
SOCIOLOGIA

Sociologia => studio scientifico della società umana e del comportamento sociale

ambiente familiare “visto per la prima volta”

prospettiva sociologica messa a fuoco e interpretazione + ricca dell’ ambiente

punti di vista diversi dal nostro

Idea fondamentale comportamento influenzato dai gruppi (dall’ interazione sociale)

Oggetto di studio GRUPPO vs individuo

SCIENZE NATURALI ordine sottostante => fenomeni osservabili


modelli regolari generalizzazioni
SCIENZE SOCIALI causa effetto
spiegare e predire gli eventi

metodologia 1. costruzione di teorie (ipotesi)


2. analisi dei dati
della 3. effettuazione di esperimenti
4. osservazioni
ricerca 5. documentazioni
6. conclusioni

Status della Sociologia => scienza recente e meno avanzata delle scienze naturali

problemi relativi allo studio del comportamento umano :

a) etici (limiti sugli esperimenti)

b) modificabilità - imprevedibilità del comportamento

c) sovradeterminazione (stratificazione delle cause comportamentali)


SCIENZE SOCIALI :

1. economia sociologia economica

2. psicologia psicologia sociale


sociologia
3. scienze politiche sociologia politica

4. antropologia antropologia culturale


PROSPETTIVE TEORICHE DELLA SOCIOLOGIA

1. Prospettiva FUNZIONALISTA Spencer Durkheim


Talcott Parsons
organismo - struttura

SOCIETA’ sistema di parti interrelate


Comte
sistema organizzato e stabile

famiglia
elementi scuola mantenimento della stabilità generale statica sociale
stato ordine e stabilità
della società;
spiega perchè
la società si regge
manifeste ( riconosciute e intenzionali ) nel tempo
funzioni

latenti ( non riconosciute )

funzionali
elementi del
sistema sociale
disfunzionali

2. Prospettiva del CONFLITTO


tensione, ostilità,
conflitti tra gruppi e interessi => caratteristica permanente della società competizione, violenza,
dissenso sui fini / valori
gruppi di potere gruppi discriminati Marx
(classe egemone) (classi subalterne) Wright Mills
macrosociologia
controllo delle risorse acquiescenza
(potere politico, ricchezza) conformità dinamica sociale :
natura e direzione
protezione dei propri interessi sottomissione dei cambiamenti sociali
( possibile uso della forza )

3. Prospettiva INTERAZIONISTA “microsociologia” Weber


Goffman
mondo sociale => punto di vista degli individui
nell’interazione sociale
della vita quotidiana
La Società

L’uomo è un animale sociale (“zoon politikòn”, nella definizione di Aristotele); la sua umanità si
realizza soltanto attraverso la vita sociale. La società dà alla nostra vita un contenuto, una direzione,
un significato e noi, a nostra volta, rimodelliamo la società che lasciamo alla prossima generazione.
Gli individui costruiscono una società quando si verificano le seguenti condizioni:
a) occupano un territorio comune e interagiscono gli uni con gli altri;
b) hanno una cultura comune che condividono almeno in parte;
c) si sentono appartenenti allo stesso gruppo.
Oltre agli esseri umani, esistono numerose specie di animali sociali: le formiche, le aringhe, le oche,
le termiti, gli elefanti, ecc. Ma le società animali non-umane per la loro sopravvivenza e il loro fun-
zionamento dipendono fondamentalmente da modelli di comportamento non appresi (“istintivi”).
Di conseguenza, le diverse società di ciascuna specie, sono praticamente uguali.
Invece le società umane sono straordinariamente diverse. L’organizzazione e le caratteristiche di
ogni società umana non si fondano sui rigidi dettati degli “istinti” dei suoi membri. Esse sono pro-
dotte dagli stessi esseri umani, che le apprendono e le modificano da una generazione all’altra.

La struttura sociale

Tutte le cose complesse, dai batteri ai pianeti, hanno una struttura, cioè sono costituite da un insie-
me di parti tra loro correlate in modo organizzato. I sociologi pensano che usare la metafora della
“struttura” sia utile per descrivere o analizzare le società umane. Una società non è mai una caotica
accolita di persone; gli esseri umani sono flessibili e creativi, ma in ogni società esiste una sottostan-
te regolarità, ossia vi sono dei modelli di comportamento. Quindi, per il sociologo, la struttura socia-
le è qualcosa che si riferisce alle relazioni organizzate tra le componenti fondamentali di un sistema
sociale.
Le componenti principali della struttura sociale sono gli status, i ruoli, i gruppi e le istituzioni.

Status

Ogni società è composta da individui, da persone, ognuna delle quali occupa una o più posizioni
socialmente definite: donna, falegname, insegnante, figlio, anziano, e così via. Ognuna di queste posi-
zioni si chiama status. Lo status di una persona determina come questa si colloca nella società ed in
che modo costui o costei deve instaurare relazioni con gli altri.
Una persona può avere, ovviamente, numerosi status nello stesso tempo, ma uno di essi, di regola
quello occupazionale, tende ad essere il più importante (“status dominante”).
In quasi tutte le società esiste una notevole disuguaglianza tra i diversi status (chi ha lo status di
magistrato, ad esempio, gode di maggiore ricchezza, prestigio e potere di chi ha lo status di usciere).
Le persone che, in una società stratificata, hanno uno status pressapoco equivalente formano una
classe: hanno accesso alla proprietà e alle altre risorse in misura maggiore rispetto a coloro che han-
no uno status inferiore.
Su alcuni dei nostri status abbiamo scarse capacità di controllo. Non siamo noi a decidere se siamo
giovani o vecchi, maschi o femmine, bianchi o neri. Gli status di questo tipo si chiamano ascritti, in
quanto essi ci vengono assegnati arbitrariamente dalla società. Ma su altri status possiamo invece
esercitare una certa misura di controllo. E’ grazie ai propri sforzi - almeno in parte - che una persona
si sposa, si laurea, va in galera o diventa un adepto di una certa religione. Gli status di questo tipo si
chiamano acquisiti.
LA SOCIETA’

esseri umani => animali sociali (Aristotele: “zoon politikon” )

società contenuto
alla vita umana
direzione

significati
a) territorio comune e interazione
gli individui costituiscono
b) cultura comune condivisa
una società quando hanno :
c) senso di appartenenza

società umane società animali (non umane)


vs

varietà uniformità (modelli istintuali)

STRUTTURA SOCIALE relazioni organizzate tra le componenti


fondamentali di un sistema sociale

a) STATUS caratterizza la POSIZIONE


di un individuo in un gruppo

determina la collocazione della persona


e le relazioni con gli altri

ciascuno può averne molti ma di regola


uno tende ad essere + importante

disuguaglianza tra status classi sociali

ASCRITTI assegnati dalla società sulla indipendenti


base di caratteri esterni
( età, sesso, razza ) dalla capacità
status
e dalla volontà

ACQUISITI possibilità di controllo dipendenti


legata all’ attività-inattività
ed alla abilità funzionale
a) status locali ( parziali ) di diversa levatura incongruenza di status
b)prestigio valutato non proporzionale vs
al potere o alla ricchezza effettiva cristallizzazione di status
Ruolo

Ogni status nella società comporta un insieme di modelli di comportamento attesi, di obblighi e di
privilegi, in altri termini ogni status comporta un ruolo. Il concetto sociologico di ruolo deriva dal-
l’uso teatrale: si riferisce alla parte o alle parti che un individuo può interpretare nella società.
La distinzione tra status e ruolo è semplice: uno status lo si occupa, un ruolo lo si svolge.
Il ruolo è definito da norme sociali che prescrivono come deve comportarsi colui che occupa lo sta-
tus. Lo status è una posizione fissata socialmente, mentre il ruolo è più flessibile perchè esistono
notevoli variazioni sul modo concreto nel quale gli occupanti lo status concretamente lo svolgono.
In pratica uno status comporta numerosi ruoli. Per esempio, lo status di professore universitario
comporta un ruolo di insegnante, un ruolo di ricercatore, un ruolo di collega di altri professori, di au-
tore di articoli e saggi accademici, ecc. Un grappolo di ruoli connessi ad un singolo status si chiama
“role set” (insieme di ruoli).
Il contenuto del nostro comportamento di ruolo è determinato in primo luogo dalle aspettative di
ruolo, cioè dalle norme generalmente accettate che definiscono come deve essere un ruolo. Il nostro
effettivo comportamento di ruolo ha il nome di esecuzione di ruolo. Il modo in cui le persone rea-
giscono l’una rispetto all’altra dipende dal grado di corrispondenza tra l’esecuzione di ruolo e le
aspettative di ruolo. In certi casi aspettative contradditorie possono essere incorporate in uno stes-
so ruolo (ad es. ci si aspetta che un insegnante tenga delle buone relazioni con gli alunni, ma anche
che faccia in modo che tutti rispettino le regole). Ne può risultare una tensione di ruolo, cioè una
situazione in cui una persona, per ragioni diverse, può non corrispondere alle varie aspettative di
ruolo. Un altro problema si pone quando una persona interpreta due ruoli cui sono connesse aspet-
tative difficilmente conciliabili (ad es. un agente di polizia che si trovasse a dover arrestare il proprio
figlio). Se due o più ruoli di una persona si scontrano in tal modo, ci troviamo di fronte ad una situa-
zione di conflitto di ruolo.

Gruppo

Un gruppo è composto di persone che interagiscono le une con le altre in modo ordinato sulla base
di aspettative condivise riguardanti il rispettivo comportamento. Detto in altre parole, un gruppo è
un insieme di persone i cui status e i cui ruoli sono interrelati. I membri del gruppo condividono un
sentimento di “appartenenza”; essi distinguono i membri dai non-membri. Diverso dal gruppo è
l’aggregato, un insieme di persone alle quali capita di trovarsi temporaneamente nello stesso posto
e nello stesso tempo (i passeggeri di un autobus o la folla in una strada). Il gruppo differisce anche
dalla categoria. Questa è composta da un certo numero di persone che in molti casi non si sono mai
incontrate, ma che condividono certe caratteristiche come l’età, la razza o il sesso.
Ogni gruppo ha i propri confini, le proprie norme, i propri valori, nonchè gli status ed i ruoli che
ad essi si collegano, per esempio quelli di capo (leader), di gregario (follower), di burlone, di capro
espiatorio, ecc. In certi gruppi questa struttura è rigida ed esplicita: i membri riconoscono posizioni
ufficiali e i valori e le norme sono contenuti in scopi e regole scritti. In altri gruppi invece la struttura
è molto più flessibile e gli status e i ruoli sono soggetti a negoziazioni e a cambiamenti.

Gruppi primari e gruppi secondari

I gruppi si possono suddividere in due tipi principali: primari e secondari. Il gruppo primario è
composto da un piccolo numero di persone che interagiscono per un periodo di tempo relativamente
lungo sulla base di rapporti intimi, faccia a faccia. I suoi membri si conoscono personalmente ed agi-
scono in modo informale (famiglia, gruppo dei pari, piccole comunità).
RUOLO

STATUS vs RUOLO

parte dinamica dello STATUS


definita da NORME SOCIALI si occupa si svolge

fissato flessibile
socialmente

singolo status insieme di ruoli insegnante


(ROLE SET ) es. professore ricercatore
universitario collega
consigliere
tutor

Comportamento di ruolo

ASPETTATIVE ESECUZIONE
DI RUOLO DI RUOLO

NORME comportamento
ACCETTATE corrispondenza effettivo
(+ o )

reazione degli
altri
uniformi
o
contraddittorie tensione di ruolo conflitto
(singolo ruolo) intra-ruolo

aspettative relative conflitto di ruolo conflitto


a ruoli diversi inter-ruolo

ruolo insieme delle norme e delle aspettative che convergono su un individuo in quanto occupa
una determinata posizione in una rete di relazioni sociali più o meno strutturata, ovvero in
un sistema sociale. Norme e aspettative provengono dagli individui che occupano le posizioni
collegate a quella del soggetto; esse hanno per questi carattere esterno, oggettuale, in varia
misura obbligante o costrittivo; sono suscettibili di diverse interpretazioni, e a seconda della
situazione possono essere in varia misura rispettate o ignorate o evase.
All’opposto un gruppo secondario è composto da un numero variabile di persone che interagisco-
no su basi temporanee, anonime e impersonali. I suoi membri o non si conoscono affatto personal-
mente, o, al massimo, si conoscono in relazione a particolari ruoli formali anzichè come persone nel-
la loro completezza; i contatti faccia-a-faccia sono solitamente limitati. I gruppi secondari di solito
sorgono per conseguire finalità specifiche (=> gruppo eterocentrato, centrato su un compito) ed i
loro membri sono generalmente meno impegnati emotivamente rispetto ai gruppi primari.
I gruppi secondari possono avere maggiori o minori dimensioni, comunque tutti i gruppi di grandi
dimensioni (ad es. associazioni, società commerciali, grandi fabbriche, ministeri, partiti politici, mo-
vimenti religiosi) sono secondari. All’interno dei grandi gruppi secondari esistono sempre dei grup-
pi primari di minori dimensioni.

I piccoli gruppi

Il piccolo gruppo è costituito da un numero sufficientemente ristretto di membri da permettere lo-


ro di avere rapporti da persona a persona. Può essere un gruppo primario o secondario a seconda
dei rapporti che intercorrono tra i loro membri: un gruppo di vecchi amici è un gruppo primario
autocentrato (orientato cioè sul valore stesso della relazione profonda esistente tra i membri, e sulla
sua funzione); un gruppo di lavoro costituito occasionalmente tra persone che non si sono mai viste
prima è un piccolo gruppo secondario eterocentrato (orientato su di un compito specifico).

a) l’importanza delle dimensioni


Tra le caratteristiche dei piccoli gruppi, la più importante è probabilmente la dimensione, perchè
determina i tipi di interazione che dovranno aver luogo tra i membri. Quanto più è piccolo il gruppo,
tanto più personale ed intensa diventa la relazione.
La diade comprende due sole persone, e non tutti i sociologi concordano sul fatto che essa costi-
tuisca un “gruppo”: di fatto la diade si differenzia da tutti gli altri gruppi perchè i suoi membri devo-
no tener conto l’uno dell’altro. Se uno dei membri ignora la conversazione o comincia a distrarsi,
l’interazione cessa. Se un membro si ritira dal gruppo, questo cessa di esistere.
Nella triade ognuno dei membri invece può alternativamente ignorare la conversazione degli altri
senza disgregare l’interazione nel gruppo. Se si aggiungono altri membri, la natura dell’interazione
continua a cambiare; nei gruppi sino a sette-otto individui tutti i membri possono partecipare alla
stessa conversazione, ma al di là di questo numero è sempre più probabile che si formino gruppi più
piccoli nei quali si svolgono contemporaneamente varie conversazioni.
Se il gruppo cresce ancora superando le dieci unità, è praticamente impossibile che tutti prendano
parte alla stessa conversazione se qualcuno non assume il ruolo di leader e regola l’interazione in
modo che ciascuno abbia la possibilità di intervenire. Lo stile della conversazione cambia perchè i
membri non possono dare ai loro discorsi il taglio che si adatta ad una persona specifica, cosicchè
tendono a parlare in modo più formale. I membri non “parlano” più al gruppo: “si rivolgono” ad
esso con una grammatica ed un vocabolario che è diverso da quello usato nella conversazione comu-
ne. I cambiamenti improvvisi nelle dimensioni del gruppo tendono ad avere effetti disgreganti, spe-
cialmente se si verifica un rapido aumento nel numero dei nuovi membri. Questa disgregazione viene
in parte prodotta dal fatto che l’interazione diventa sempre più difficile via via che il gruppo cresce.
Ma opera anche un altro fattore: spesso i membri si oppongono all’assimilazione dei nuovi venuti.
La presenza dei nuovi membri minaccia le norme dell’interazione che il gruppo ha già sviluppato e i
vecchi membri si trovano a disagio fino a quando non si sono affermate nuove norme.
b) la leadership
Il leader è qualcuno che, in virtù di certe caratteristiche personali, riesce ad influenzare il comporta-
mento degli altri. La leadership di fatto è sempre presente nei gruppi, anche in quelli che cercano di
“evitarla”. Esistono due tipi diversi di leadership nei piccoli gruppi (Bales, 1953): la leadership di
tipo strumentale è necessaria per organizzare il gruppo in vista del perseguimento dei suoi scopi.
Un leader strumentale propone iniziative concrete e influenza i membri affinchè lo seguano. La lea-
dership di tipo espressivo è necessaria per creare armonia e solidarietà tra i membri.
Un leader espressivo si preoccupa di tenere alto il morale e di ridurre al minimo i conflitti. Di solito
i due ruoli vengono assegnati alla stessa persona, ma generalmente i leader non ricoprono a lungo i
due ruoli, perchè le persone che dirigono le attività del gruppo tendono a perdere popolarità.
Lo stile della leadership si distingue in tre tipi fondamentali. Si chiama autoritario il leader che dà
soltanto degli ordini; democratico quello che cerca di ottenere il consenso alle sue iniziative; permis-
sivo (lassez-faire) il leader indolente e che si preoccupa assai poco di dirigere ed organizzare il grup-
po (White e Lippitt, 1960).

c) il gruppo e il processo decisionale


Riguardo alla risoluzione di problemi da parte dei gruppi, si può distinguere tra due tipologie di
situazione decisionale: a) nei problemi a “soluzione obbligata” (es. un cruciverba), il lavoro di grup-
po fa aumentare le probabilità di trovare la risposta giusta. In termini di semplice calcolo delle pro-
babilità, un gruppo ha maggiori probabilità di trovare la risposta esatta rispetto a una persona sin-
gola; b) per i problemi “a soluzione libera” (che non hanno cioè necessariamente una sola soluzione)
i diversi gruppi giungono a soluzioni molto diverse, probabilmente perchè ciascun gruppo viene in-
fluenzato dall’opinione di particolari membri dominanti.
J.A. Stoner (1961) ebbe modo di riscontrare una forte tendenza verso quello che definì un “cam-
biamento a rischio”, cioè un cambiamento rivolto verso un’iniziativa più audace. In tempi più recen-
ti la ricerca ha mostrato che tale tendenza non è universale: alcuni gruppi sono più cauti di quanto
sarebbero da sole le persone che ne fanno parte.
Irving Janis (1972) ha sottolineato che in certi casi di decisione di gruppo, i membri sono a tal pun-
to interessati a mantenere l’armonia e il consenso nel gruppo, da astenersi dal fare riserve o critiche.
Ne risulta quello che Janis chiama il “pensiero-di-gruppo” (group-think), un processo decisionale in
cui i membri ignorano le informazioni e le alternative che non combaciano con gli assunti iniziali del
gruppo.

d) l’appartenenza al gruppo
Il gruppo deve avere dei confini, altrimenti non sarebbe possibile distinguere i membri dai non-
membri. A volte questi confini sono definiti in modo chiaro e formale (criteri predeterminati, tesse-
re, distintivi, ecc.); in altri casi i confini non sono affatto chiari. Tutti i gruppi, comunque, tendono
a mantenere i loro confini sviluppando un forte senso della distinzione tra “noi” e “loro”, fra chi fa
parte del gruppo e chi ne è fuori. I membri tendono a considerare il proprio gruppo, lo ingroup, co-
me qualcosa di speciale, mentre ogni outgroup al quale le altre persone appartengono è considerato
come qualcosa che vale di meno e che può anche essere oggetto di ostilità.

e) i gruppi di riferimento
Esiste un tipo di gruppo al quale le persone sentono di appartenere anche se in realtà non ne sono
membri. Si tratta del gruppo di riferimento. Per esempio, una persona può giudicare se stessa se-
condo i criteri delle comunità nella quale ha vissuto in precedenza, o di una comunità alla quale spera
di poter appartenere in futuro. Le valutazioni che diamo di noi stessi sono fortemente influenzate
dal gruppo di riferimento che assumiamo.
IL GRUPPO

Insieme stabile di soggetti aventi


uno scopo coordinato, un ordinamento,
delle gerarchie e relazioni
fondate su aspettative condivise

STATUS e RUOLI vs aggregazione di persone


INTERRELATI
categoria ( persone con caratteristiche comuni )

struttura
il confini
GRUPPO norme
ha : valori rigida flessibile
status
ruoli leader / follower esplicita status e ruoli:

posizioni
ufficiali negoziazioni
e
regole cambiamenti
scritte
gradualità

numero limitato di persone


interazione di lunga durata
rapporti intimi
PRIMARIO comunicazione faccia a faccia
conoscenza personale ( profonda )
coinvolgimento emotivo
auto-centrato
GRUPPO
numero variabile di persone ( spesso elevato )
interazione temporanea
SECONDARIO rapporto impersonale anonimo
conoscenza legata a particolari ruoli formali
finalità specifiche
etero-centrato
PICCOLI GRUPPI

Dimensione > interazione gruppo + piccolo > interazione + stretta

Diade tutti i membri funzionali all’ interazione

Triade non insostituibilità dei membri


Tetrade coalizioni e pressioni di gruppo
Pentade stile informale-colloquiale
Esade numero di aspettative limitato
Eptade “parlare” agli altri

oltre le difficoltà di conversazione senza leader


12 stile + formale (grammatica-vocabolario)
unità “rivolgersi al gruppo”
interazione via via più difficile

cambiamenti improvvisi effetti disgreganti


minaccia per le norme
dell’ interazione

opposizione dei membri del gruppo


all’ assimilazione di nuovi venuti

LEADERSHIP

Leader => individuo che - in virtù di caratteristiche personali -


riesce ad influenzare il comportamento degli altri

di tipo STRUMENTALE organizzazione del gruppo per iniziative


il perseguimento dei suoi scopi concrete
Leadership leader rispettato - temuto

di tipo ESPRESSIVO creazione - mantenimento di limitazione


armonia/solidarietà nel gruppo dei conflitti
leader amato

autoritario ordini direttività

Leader democratico consenso cooperazione

permissivo casualità- libertà spontaneismo


individualismo negligenza
IL PROCESSO DECISIONALE NEI GRUPPI

1 ) Problemi a soluzione obbligata + probabilità di trovare


la risposta giusta

2 ) Problemi a solizione libera soluzioni diverse


influenza dei membri dominanti

Stoner cambiamento a rischio


iniziative audaci
attenuazione dei sensi di colpa contenitore
all’ interno del gruppo => “membrana protettiva”

Janis pensiero di gruppo => processo decisionale in cui i membri


“group think” ignorano le informazioni e le alternative
che non combaciano con gli
“assunti di base” del gruppo

mantenimento di armonia e consenso


vs
osservazioni e critiche

Conformità al gruppo => pressione a conformarsi alle aspettative ( Asch )

CONFINI DEL GRUPPO

a) definiti in modo formale b ) informali


( distintivi, tessere, ecc. )

distinzione

NOI LORO

ingroup outgroup

GRUPPO DI RIFERIMENTO gruppo al quale si sente di appartenere


pur non essendone membri
PROCESSI SOCIALI

a) comportamenti collettivi

Il “comportamento collettivo” è un tipo di comportamento sociale più o meno spontaneo che nu-
merosi individui manifestano al medesimo tempo, in presenza di un medesimo stimolo o di situazio-
ni affini ( tensioni strutturali o istituzionali di origine economica, politica, culturale ), siano essi riu-
niti in un luogo (folla) oppure fisicamente separati, come avviene con i movimenti sociali o con i fe-
nomeni della “moda”.

I tipi di comportamenti collettivi sono innumerevoli; essi sono stati classificati in vario modo, in
considerazione delle motivazioni immediate e delle variabili contestuali e strutturali. Si possono di-
stinguere: a) fenomeni politici (cortei, comizi, assamblee spontanee, sommosse, rivolte di piazza,
ecc.); b) fenomeni economici (scioperi selvaggi, panico dei risparmiatori - azionisti, manie per lot-
terie, concorsi, giochi a premi, consumo ossessivo di particolari beni); c) fattori religiosi (sette, pel-
legrinaggi di massa, “crociate”, isterismi collettivi come la “paura del diavolo”); d) fattori culturali
(mobilitazioni giovanili, mode relative all’ abbigliamento, ai mezzi di trasporto, mode telematiche);
e) eventi bellici o catastrofi naturali (panico, fughe di massa, emigrazioni , saccheggi); f ) conflitti
etnici o razziali (linciaggi, violenze collettive, discriminazioni condivise); g ) attività sportive (tifo,
voga di sport particolari, invasioni di campo, uso di capi di abbigliamento emulativi di squadre o
campioni).

b) movimenti sociali

Il movimento sociale è una derivazione dei comportamenti collettivi coinvolgente di norma un gran
numero di persone, intenzionalmente diretto a modificare oppure a trasformare in modo radicale
l’ordine sociale esistente o alcune della sue istituzioni sulla base di una determinata ideologia e con
l’impiego di qualche forma di organizzazione. Si definisce, in linea di massima, movimento sociale
lo sforzo di un gruppo organizzato, teso a produrre qualche cambiamento nella vita sociale.
I movimenti sociali vanno distinti: a) dai comportamenti collettivi, in quanto hanno:maggiore dura-
ta, strutture più stabili, fini prefissati, ideologie ben definite, maggior senso di appartenenza ad una
realtà unitaria; b) dalle organizzazioni, in quanto si muovono fuori dalla sfera istituzionale e utilizza-
no strategie inconsuete. Il movimento sociale, mirando al cambiamento, mantiene una vena seppur
minima di opposizione e di contestazione dello status quo (lo “stato di cose presente”).
Si distinguono movimenti eterocentrati, che mirano a cambiare il mondo esterno, ed autocentrati,
che vogliono cambiare i loro membri e magari arrivare per questa via a trasformare la vita sociale e la
realtà.
I movimenti hanno un loro ciclo vitale: solitamente dopo una effervescenza creativa iniziale, tendo-
no a rientrare nell’alveo istituzionale, trasformandosi in organizzazioni o dissolvendosi. Solitamente
vengono individuate quattro fasi:
1) fermento sociale; lo scopo di questa fase è sensibilizzare la gente ai problemi che il movimento ha
a cuore;
2) mobilitazione popolare; si tratta poi di diffondere l’ideologia del movimento e raccogliere segua-
ci;
3) organizzazione; si rende necessario dividere i compiti, darsi norme e ruoli, disporre di risorse ed
attrezzature;
4 ) istituzionalizzazione; il movimento ha ormai un suo ruolo nella vita politica e sociale ed abban-
dona completamente i tratti informali, attenua la sua carica di opposizione e contestazione.
COMPORTAMENTO COLLETTIVO

Il “comportamento collettivo” è un tipo di comportamento sociale più o meno spontaneo


che numerosi individui manifestano al medesimo tempo, in presenza di un medesimo
stimolo o di situazioni affini ( tensioni strutturali o istituzionali di origine economica, politica,
culturale ), siano essi riuniti in un luogo ( folla ) oppure fisicamente separati, come avviene
con i movimenti sociali o con i fenomeni della “moda”

a ) fenomeni politici cortei, comizi, assamblee spontanee,


sommosse, rivolte di piazza, ecc.

b ) fenomeni economici scioperi selvaggi,


panico dei risparmiatori - azionisti
manie per lotterie, concorsi, giochi a premi,
consumo ossessivo di particolari beni

c ) fattori religiosi sette, pellegrinaggi di massa, “crociate”,


isterismi collettivi ( es. :paura del diavolo”)

d ) fattori culturali mobilitazioni giovanili,


mode ( abbigliamento, mezzi di trasporto, mode telematiche )

e ) Eventi bellici o panico, fughe di massa, emigrazioni , saccheggi


catastrofi naturali

f ) conflitti etnici o razziali linciaggi, violenze collettive,


discriminazioni condivise

g ) attività sportive tifo, voga di sport particolari, invasioni di campo,


uso di capi di abbigliamento emulativi di squadre o campioni
MOVIMENTO SOCIALE

Il movimento sociale è una derivazione dei comportamenti collettivi coinvolgente


di norma un gran numero di persone, intenzionalmente diretto a modificare oppure a
trasformare in modo radicale l’ ordine sociale esistente o alcune della sue istituzioni sulla
base di una determinata ideologia e con l’ impiego di qualche forma di organizzazione
Si definisce, in linea di massima, movimento sociale lo sforzo di un gruppo
organizzato, teso a produrre qualche cambiamento nella vita sociale

I movimenti sociali vanno distinti:

a) dai comportamenti collettivi maggiore durata


in quanto hanno: strutture più stabili
fini prefissati
ideologie ben definite
maggior senso di appartenenza
ad una realtà unitaria
b ) dalle organizzazioni
in quanto si muovono fuori dalla sfera istituzionale
utilizzano strategie inconsuete

il movimento sociale, mirando al cambiamento,


mantiene una vena seppur minima di opposizione
contestazione dello STATUS QUO

eterocentrati cambiamenti del mondo esterno

movimenti

autocentrati cambiamenti dei membri come


via per trasformare la realtà

1 ) fermento sociale ( sensibilizzazione )

2 ) mobilitazione popolare ( diffusione e proselitismo )


ciclo vitale dei
movimenti 3 ) organizzazione ( divisione dei compiti, norme e ruoli, attrezzature )

4 ) istituzionalizzazione ( ruolo stabile nella vita sociale )


Istituzioni

Un’istituzione è un insieme di valori, norme, status, ruoli e gruppi che si sviluppa attorno ad
un bisogno fondamentale della società.
Nelle società moderne le istituzioni fondamentali sono: la famiglia, che fornisce ai bambini le cure
di cui necessitano; la scuola, che trasmette ai giovani le conoscenze culturali; la religione, che forni-
sce un insieme di valori condivisi che i riti riaffermano; le istituzioni politiche che distribuiscono il
potere e mantengono l’ordine; le istituzioni economiche che forniscono beni e servizi. Inoltre le isti-
tuzioni più importanti si suddividono al loro interno in unità di dimensioni minori.
Tra le principali caratteristiche delle istituzioni possiamo elencare le seguenti:
a) le istituzioni sono intrinsecamente conservatrici. I modelli di comportamento sociale vengono
istituzionalizzati, ossia fissati saldamente, solo dopo essere stati talmente rafforzati dai costumi e
dalla tradizione che la gente li accetta senza sollevare dubbi. Anzi, le persone si irritano ed oppon-
gono resistenza di fronte a qualsiasi attacco diretto alle istituzioni che conoscono. Questa resistenza
al cambiamento è spesso funzionale perchè assicura la stabilità sociale, ma nei periodi di conflitto
sociale o di rapido cambiamento una risposta del genere può risultare disfunzionale se le vecchie for-
me sono diventate antiquate, inefficaci o oppressive.
b) Le istituzioni tendono a collegarsi strettamente tra loro nell’ambito della struttura sociale. Le
componenti di una struttura sociale devono essere abbastanza bene integrate se si vuole evitare una
eccessiva tensione strutturale. Per questo motivo, le istituzioni principali di una società tendono ad
avere valori e norme simili, a rispecchiare finalità e priorità compatibili.
c) Quando le istituzioni cambiano, raramente lo fanno in una situazione di isolamento. Ogni
modificazione importante in una delle istituzioni principali tende ad essere accompagnata o seguita
da dei cambiamenti nelle altre. Ciò è particolarmente vero nel caso dei cambiamenti che avvengono
nell’economia; tali cambiamenti si ripercuotono infatti su quasi tutti i campi di attività.

Organizzazioni formali

Fino all’ottocento, quasi tutta la vita sociale si svolgeva nell’ambito di piccoli gruppi primari: la
famiglia, la congregazione religiosa, l’edificio scolastico, la fattoria o la bottega e la comunità del vil-
laggio. Oggi il paesaggio sociale è dominato da organizzazioni grandi e impersonali che influenzano
la nostra vita fin dalla nascita. Alcune di queste organizzazioni sono volontarie, nel senso che le per-
sone possono liberamente aderirvi o allontanarsene (movimenti religiosi, partiti politici, associazioni
professionali); altre sono invece obbligatorie, nel senso che le persone sono costrette a farne parte
(prigioni, scuole elementari); altre sono di tipo utilitario, nel senso che le persone entrano a farne
parte per ragioni pratiche (imprese commerciali).
Le associazioni secondarie di questo tipo vengono chiamate organizzazioni formali; si tratta di
grandi gruppi razionalmente rivolti al conseguimento di obiettivi specifici. A differenza dei gruppi
primari, che sono informali, queste organizzazioni hanno una struttura gerarchica progettata con
precisione che coordina le attività dei membri nell’interesse degli obiettivi dell’organizzazione.
Le organizzazioni formali comprendono di solito numerosi status ufficiali (presidente, segretario,
tesoriere, ecc); è possibile disegnare una mappa di ogni organizzazione formale che mostri quali rap-
porti intercorrono tra le varie posizioni ufficiali senza fare il minimo riferimento alle persone che in
essa operano. Se da un lato il benessere e il nostro modo di vita dipendono dall’ esistenza di orga-
nizzazioni quali le società commerciali, l’università, i ministeri, le grandi fabbriche, dall’altro lato, le
dimensioni, il carattere impersonale e il potere delle organizzazioni formali sono spesso considerati
dalle persone minacciosi e disumanizzanti.
La burocrazia
Quanto più grande e complessa diventa una organizzazione formale, tanto maggiore è il bisogno di
creare una catena di comando che coordini le attività dei suoi membri. Questo bisogno è soddisfatto
dalla burocrazia, una struttura di autorità gerarchica che opera secondo procedure precise.
Generalmente la parola “burocrazia” ha delle connotazioni negative, in tutte le lingue, ma rimane il
mezzo più efficace mai escogitato per produrre una grande quantità di lavoro organizzato.
Il sociologo utilizza quindi il termine in senso neutrale. Max Weber per primo ha analizzato siste-
maticamente questo tipo di organizzazione mettendone in luce l’efficienza ed evidenziandone gli
aspetti problematici.
Per Max Weber la tendenza dominante nel mondo moderno è il processo che egli ha chiamato di
razionalizzazione. Con questo termine egli intendeva riferirsi al modo in cui i metodi tradizionali,
spontanei, basati sulla pratica vengono rimpiazzati da procedure astratte, precise, esattamente cal-
colate. Questo processo di graduale razionalizzazione si manifesta in ogni aspetto della vita sociale
moderna. Il risultato di tale processo è uu marcato aumento di efficienza, ma questa efficienza è
stata raggiunta pagando un prezzo. Il mondo, secondo Weber, diventa grigio e triste, disincantato;
il suo mistero e la sua bellezza vengono demoliti dal nuovo valore della razionalità tecnica .
Weber era convinto che la burocrazia, per quanto indispensabile, fosse una forma di razionalizza-
zione particolarmente minacciosa, in quanto essa implica l’organizzazione e la subordinazione calco-
late degli esseri umani nell’interesse del conseguimento di finalità impersonali, tecniche. Di conse-
guenza, secondo Weber, gli individui diventano prigionieri di una “gabbia di acciaio” che essi stessi
hanno costruito.

Norme

La nostra vita si svolge in un mondo regolamentato, popolato di regole di vario genere. Ci sono le
leggi naturali, i principi della fisica, della biologia e delle altre scienze che studiano la natura. Tali leg-
gi sono descrittivo-esplicative, cioè esprimono regolarità riscontrate nella realtà e ci aiutano a capire i
fenomeni. Diverse dalle leggi naturali sono le leggi umane, che esistono non per natura, ma perchè gli
uomini le hanno stabilite, più o meno apertamente ed esplicitamente; esse sono prescrittive, consi-
stono in comandi, ordini, suggerimenti che qualcuno (una persona, un gruppo, un’autorità) dà a
qualcun’altro, spingendolo poco o tanto ad agire di conseguenza. A differenza delle regole naturali,
che si impongono a noi senza che possiamo sottrarci, le umane sono violabili.
Non tutte le regole umane sono norme sociali. Esistono regole personali o private, che gli individui
si danno da sé, e di cui rispondono dinanzi a se stessi. Le norme sociali, invece, sono delle regole, o
direttive condivise, che prescrivono qual è il comportamento appropriato in una data situazione.
Ci conformiamo alle norme tanto agevolmente da non renderci conto quasi che esse esistono.
Certe norme si applicano a tutti i membri della società, altre norme si applicano a certe persone e
non a certe altre. Altre norme sono anche più specifiche, prescrivono il comportamento appropriato
per persone che si trovano in situazioni particolari. Le norme ci forniscono delle indicazioni su come
comportarci e delle affidabili aspettative sul comportamento degli altri.
La classificazione delle norme sociali correntemente usata è quella di W. G. Sumer, il quale distin-
gue tre tipi di norme: folkways, mores, stateways.

a) folkways (usi)
I folkways sono le consuetudini e le convenzioni abitudinarie della vita quotidiana (ways of the folk
= usanze del popolo, come cerimoniali, etichette, ecc.). In genere sono norme speciali, non universali
all’interno di una cultura; per lo più sono implicite, orali; hanno origine nella tradizione ma non sono
legittimate da una carica etica o sacrale. Esse vengono mantenute con la pressione informativa e ac-
colte automaticamente, non sono sottoposte a coercizione ed a controllo formale e sono spesso labi-
li., La conformità ad esse è attesa, ma una certa quota di non-conformità viene tollerata.

b) mores (costumi)
I costumi sono norme molto più forti. Le persone assegnano loro un significato morale e considera-
no la loro violazione molto più seriamente (la parola “mores” presso gli antichi romani designava i
costumi più rispettati e sacri). Esse sono universali, per lo più formulate oralmente, ma aventi una
forte legittimazione su basi etiche, religiose o funzionali; hanno forza coercitiva anche se permane un
controllo informale, tendono a restare stabili.

c) stateways (leggi)
Certe norme, specialmente del tipo dei costumi, sono codificate in leggi. Una legge altro non è che
una norma che è stata formalmente posta in vigore dall’autorità politica e sostenuta dal potere dello
stato. In genere la legge codifica norme importanti che già esistevano. Esse sono universali, solita-
mente stabili; vengono formulate per iscritto, sono sempre legittimate su base etica o funzionale; a
sorreggerle hanno elevata forza coercitiva e un controllo formale.
Non tutte le norme possono essere assegnate chiaramente alla categoria degli usi o a quella dei co-
stumi. Esse si distribuiscono in pratica su di un continuum le cui posizioni dipendono dal grado di
serietà con il quale vengono considerata dalla società.
Ogni società deve avere un sistema di controllo sociale, cioè un insieme di strumenti atti a garantire
che i suoi membri si comportino abitualmente secondo le modalità attese e approvate.
Una parte di questo controllo sociale sull’individuo viene esercitata dagli altri, sia in modo formale,
attraverso agenzie quali la polizia e i pubblici ufficiali, sia in modo informale, attraverso le reazioni
delle altre persone nel corso della vita quotidiana. Tutte le norme vengono sostenute da sanzioni,
cioè da ricompense quando le persone vi si conformano e da punizioni quando non lo fanno. Solo
una frazione trascurabile del comportamento sociale viene controllato dalle agenzie formali, mentre
gran parte delle sanzioni viene applicata in modo informale. Tuttavia la maggior parte del controllo
sociale non viene esercitata attraverso l’influenza diretta degli altri, ma da noi stessi, nel nostro inti-
mo, durante il processo della nostra crescita, attraverso l’interiorizzazione inconsapevole delle nor-
me della cultura.

Valori

Le norme di una società esprimono i suoi valori, cioè le idee condivise su ciò che è buono, giusto,
desiderabile. La differenza tra i valori e le norme è che i valori sono dei concetti astratti, generali,
mentre le norme sono regole di comportamento o indicazioni dirette alle persone che si trovano in
situazioni particolari.. I valori si classificano secondo varie dimensioni:
a) il contenuto, che può essere affettivo, quando i valori definiscono stati desiderabili in termini di
gratificazione fisica o psico-fisica primaria, come senso di benessere dell’individuo in salute, o se-
condaria, come il senso di benessere di tipo estetico (es. ascoltare buona musica); cognitivo, quando
i valori contengono asserzioni intorno alla realtà valide come condizioni da rispettare nelle condotte
individuali ( verità); morale, quando si riferiscono ai principi che una collettività considera come
punti cardinali per la convivenza e l’ordine sociale.
b) la posizione nella catena mezzo-fine, per la quale si distinguon valori intrinseci, o finali, e
operativi, o strumentali (cfr. l’inventario di Rokeach); c) l’intensità o forza, cioè il grado di attacca-
mento al valore da parte del soggetto; d) il campo di applicazione (tutti o parte dei membri di una
collettività); e) il grado di adesione (l’effettiva applicazione dei valori da parte dei membri della
collettività).
ISTITUZIONI

VALORI STATUS
complesso di NORME RUOLI che definiscono :
CONSUETUDINI

a) rapporti sociali e membri di aventi un fine socialmente rilevante


comportamenti un gruppo
reciproci dei di soggetti

b) rapporti sociali e individui che è necessario mantenere e rispettare


comportamenti di esterni al
gruppo

che si sviluppa attorno ad un

BISOGNO FONDAMENTALE DELLA SOCIETAʼ

Famiglia cure - educazione


Scuola educazione - istruzione
Religione valori
Istituzioni politiche ordine - distribuzione del potere
Istituzioni economiche beni - servizi

c) le istituzioni sono intrinsecamente conservatrici => resistenza al cambiamento

d) le istituzioni sono tra loro interconnesse (integrate) => norme e valori compatibili

e) un cambiamento istituzionale si riverbera sulle altre istituzioni

istituzioni bisogni sociali valori norme status/ ruoli gruppi

famiglia convivenza stabile uguaglianza dovere di marito / moglie gruppo di


aiuto tra coniugi fedeltà coniug. coabitazione figlio, nonna, parentela
cura dei figli reciproca assistenza monogamia
regolazione del collaborazione mantenere ed
comport. sessuale formazione dei figli educare la prole

scuola istruzione crescita intellettuale frequenza insegnanti gruppi-classe


socializzazione libero uso delle rispetto delle studenti collegio dei
formazione “forze spirituali” regole presidi docenti
consiglio
di classe
ORGANIZZAZIONI FORMALI

gruppi secondari vs gruppi primari

impersonalità vs rapporti profondi

a) volontarie partiti politici, assoc. professionali o religiose

organizzazioni b) obbligatorie prigioni, scuole elementari

c) utilitarie imprese commerciali

GRANDI GRUPPI RAZIONALMENTE RIVOLTI status ufficiali

AL CONSEGUIMENTO DI OBIETTIVI SPECIFICI Università Ministeri Fabbriche

STRUTTURA GERARCHICA PRECISA

BUROCRAZIA struttura di autorità gerarchica che welfare stato sociale


opera secondo procedure precise
assistenza sanitaria
pubblica istruzione
tanto più necessaria quanto più previdenza sociale
l’ organizzazione è grande agenzia delle entrate

Weber razionalizzazione e “disincanto”

procedure precise, esattamente


calcolate, che rimpiazzano i meto-
di tradizionali, con un marcato perdita della bellezza del mondo, demolita
aumento di efficienza a prezzo della e sostituita dal valore della razionalità tecnica

la burocrazia implica l’organizzazione e


la subordinazione calcolate degli esseri
umani nell’interesse del conseguimento
di finalità impersonali, tecniche
NORME

REGOLE

leggi naturali leggi umane


(descrittive e (prescrittive e
necessarie) violabili)

NORME regole private o personali


SOCIALI (abitudini debolmente vincolate)

(1) ( 2) (3)
FOLKWAYS MORES STATEWAYS
usanze costume norme giuridiche
etichetta
cerimoniale

particolari universali universali

orali - implicite orali scritte

non legittimati legittimate legittimate


non sacrali, non etici forza coercitiva forza coercitiva
controllo informale controllo formale
dipendenti da
pressione informativa stabili stabili
(instabili)

Proposizione codificata che prescrive ad un individuo o ad una collettività la condotta


più appropriata cui attenersi ( o l’azione da evitare) in una determinata situazione
VALORI

Idee condivise di ciò che è in una società - cultura


buono, giusto, desiderabile determinata

valori vs norme

concetti regole di comportamento


astratti generali per situazioni specifiche

si classificano secondo varie dimensioni :

a) contenuto affettivo stati desiderabili in termini di gratificazione fisica o psico-fisica

primaria secondaria
senso di benessere senso di benessere
dell’ individuo in salute di tipo estetico

cognitivo asserzioni intorno alla realtà valide come condizioni


da rispettare nelle condotte individuali verità

morale ciò che una collettività considera come punti cardinali


della convivenza e dell’ ordine sociale

b) posizione nella catena mezzo - fine intrinseci (finali)


valori
operativi (strumentali)

c) intensità o forza (grado di attaccamento al valore)

d) campo di applicazione (tutti vs parte dei membri di una collettività)

e) grado di adesione (effettiva applicazione dei valori)

TERMINALI STRUMENTALI

1 una vita comoda ambizioso 1


2 una vita eccitante di larghe vedute 2
3 un senso di compiutezza capace 3
4 un mondo di pace allegro 4
5 un mondo di bellezza puro 5
6 eguaglianza coraggioso 6 INVENTARIO
7 sicurezza famigliare indulgente 7
8 libertà altruista 8 DEI VALORI
9 felicità onesto 9
10 armonia interiore immaginativo 10 DI ROKEACH
11 maturità affettiva indipendente 11
12 sicurezza nazionale colto 12
13 piacere logico 13
14 salvezza dell’anima affettuoso 14
15 rispetto di sé docile 15
16 prestigio sociale cortese 16
17 sincera amicizia responsabile 17
18 saggezza che sa dominarsi 18
LA CULTURA

A differenza di altri animali, gli esseri umani non nascono forniti di modelli di comportamento rigi-
di, complessi, ma devono invece apprendere e scoprire dei modi di adattamento ad ambienti molto
diversi che vanno dalle nevi dell’Artico, ai deserti sterili, alle metropoli brulicanti.
Questi modi di vita che vengono modificati e trasmessi da una generazione all’altra, costituiscono
ciò che antropologi e sociologi chiamano “cultura”. Nelle scienze sociali il significato del termine
“cultura” è molto più ampio rispetto al suo utilizzo nei discorsi comuni (“vaste conoscenze”, “gusti
raffinati”, ecc), e comprende tutto il modo di vivere di una società. In questo senso chiunque faccia
parte di una società “ha una cultura”. Per gli studiosi di scienze umane (o sociali), la cultura com-
prende tutti i prodotti condivisi della società umana. Questi prodotti si distinguono in due specie
fondamentali: materiali e non materiali. La cultura materiale comprende tutti i manufatti, ossia gli
oggetti che gli esseri umani producono e ai quali danno un significato: ruote, abiti, scuole, fabbriche,
città, libri, veicoli spaziali, ecc. ; la cultura non-materiale comprende prodotti più astratti - linguag-
gi, idee, credenze, regole, costumi, miti, abilità, modelli familiari, sistemi politici.
Almeno concettualmente è possibile distinguere la “cultura” dalla “società”. La cultura è costituita
dai prodotti condivisi della società; la società è costituita da individui interagenti che condividono
una cultura. Ma le due cose sono interrelate: una società non può esistere senza una cultura; una cul-
tura non può esistere senza una società che la mantenga in vita.
L’antropologo Clifford Geertz (1968) osserva che esseri umani non acculturati “in realtà non esi-
stono, non sono mai esistiti e, ciò che più conta, non potrebbero esistere data la loro natura”. Senza
la cultura non potrebbero sopravvivere né il singolo individuo né la società umana. Per comprendere
questo punto è necessario osservare le caratteristiche che solo la nostra specie possiede.

Le caratteristiche della specie umana

Descrivere l’evoluzione della specie umana non è un compito facile. In gran parte dobbiamo basarci
sui resti fossili e spesso questi sono scarsi. Sappiamo comunque di appartenere all’ordine dei pri-
mati, un gruppo di specie imparentate che compare in una fase relativamente tarda dell’evoluzione:
i primi primati comparvero circa 70 milioni di anni fa (il pianeta Terra ha all’incirca 4,7 miliardi di
anni) e la nostra linea specifica si è differenziata da quella dei nostri parenti più stretti (scimpanzé,
gorilla e orangutani) fra 8 e 14 milioni di anni fa. Quale è stata l’eredità fisica e comportamentale dei
nostri antenati? I primati di rango più elevato condividono numerose caratteristiche, ciascuna delle
quali ci offre delle tracce del nostro ambito evolutivo.
In primo luogo essi tendono ad essere molto socievoli: vivono in gruppi nei quali si riscontra un al-
to grado di affetto e interazione tra i membri.
In secondo luogo hanno una forte intelligenza, essendo dotati di un cervello eccezionalmente pe-
sante in relazione al peso del corpo.
In terzo luogo i primati hanno mani dotate di un’alta sensibilità; nei primati più sviluppati, l’op-
posizione del pollice rispetto all’indice offre la possibilità di una presa salda e decisa (caratteristica
di fondamentale importanza: si pensi all’atto di scrivere, cucinare, ecc).
In quarto luogo, i primati hanno caratteristiche spiccatamente vocali: nell’uomo questa caratteristi-
ca si è sviluppata giungendo a produrre il linguaggio.
In quinto luogo i primati hanno un potenziale di posizione eretta: negli esseri umani la stazione
eretta, bipedale, e la capacità di camminare sono diventate normali.
Nel corso della loro evoluzione i nostri antenati hanno sviluppato altre due caratteristiche. La pri-
ma, che si riscontra in pochi altri animali, è la capacità di riprodursi per tutto l’anno. La seconda,
che si riscontra negli esseri umani in misura largamente superiore a quella di ogni altra specie anima-
le, è costituita dal lungo periodo di dipendenza del giovane essere umano dagli adulti. Il periodo
di dipendenza offre al giovane essere umano anche la possibilità di apprendere le conoscenze cultu-
rali necessarie per sopravvivere da adulto.
Le capacità di adattamento, la flessibilità e l’intelligenza hanno fatto dell’homo sapiens la specie
più creativa e più diffusa del pianeta. Come si spiega il successo della specie umana? La risposta sta
nella parola “cultura”: è la cultura che ha reso possibile la vita sociale dell’uomo. Se non ci fosse una
cultura trasmessa dal passato, ogni nuova generazione dovrebbe risolvere i problemi più elementari
dell’esistenza umana ricominciando da zero (il fuoco, la ruota, il linguaggio, ecc). É chiaro che i con-
tenuti della cultura non vengono trasmessi per via genetica: nella cultura tutto viene appreso (nel
lungo periodo di dipendenza del giovane essere umano). La cultura è il sostituto dell’istinto come
strumento di risposta all’ambiente, ma offre delle modalità molto superiori per farlo.
La “natura umana” è altamente flessibile. Il nostro comportamento è il prodotto dell’interazione
tra il nostro patrimonio biologico ereditario e le esperienze apprese dalla particolare cultura nella
quale ci è dato di vivere. Per esempio, abbiamo la capacità biologica di parlare, ma quale lingua par-
liamo e come la parliamo, dipende dall’ambiente. Quasi tutti gli psicologi moderni concordano sul
fatto che gli esseri umani non hanno alcun “istinto”. Un istinto è un modello di comportamento
complesso geneticamente determinato, quale la costruzione di un nido degli uccelli o di un termitaio.
Tutti gli istinti di cui eravamo dotati sono andati perduti nel corso dell’evoluzione. Per qualcuno
l’idea che non possediamo istinti è difficilmente accettabile perché sembra andare contro il “senso
comune”. Una delle ragioni di questa difficoltà è che la parola “istinto” viene spesso usata impro-
priamente nei discorsi comuni. La gente dice che una persona schiaccia il freno “istintivamente”, o
che “istintivamente” diffida di qualcuno, mentre in effetti quest’azione e quest’atteggiamento ven-
gono appresi culturalmente. É vero che abbiamo alcuni tipi di comportamento geneticamente deter-
minati, ma si tratta di riflessi semplici, quali il trasalire di fronte ad un rumore inatteso, sollevare le
braccia quando perdiamo l’equilibrio, tirare indietro la mano quando essa tocca una superficie che
scotta. Abbiamo anche alcune pulsioni fondamentali innate, come i bisogni di autoconservazione, di
mangiare, di bere, di avere la compagnia di altre persone. Ma il modo in cui soddisfiamo queste pul-
sioni viene appreso attraverso l’esperienza culturale.
Naturalmente la grande maggioranza delle persone impara a soddisfare le proprie pulsioni secondo
le modalità dettate dalla propria cultura; non siamo programmati a soddisfarle in un modo particola-
re, altrimenti lo faremmo tutti nella stessa, rigorosamente identica, maniera. Invece, a differenza del-
le altre specie, possiamo addirittura annullare completamente le nostre pulsioni, ignorando talvolta
anche il bisogno di autoconservazione. Entro certi limiti, la “natura umana” è ciò che facciamo di es-
sa, e ciò che facciamo di essa dipende largamente dalla cultura nella quale ci è dato di vivere.

Il controllo sociale

Ogni cultura ha dei modelli di comportamento sociale controllati da norme, cioè da regole o diretti-
ve condivise che prescrivono i comportamenti appropriati nelle varie situazioni; le norme di una so-
cietà non fanno che esprimere i suoi valori, cioè le idee condivise su ciò che è buono, giusto, deside-
rabile (cfr. norme, valori). Ogni cultura deve anche avere un sistema di controllo sociale, cioè un in-
sieme di strumenti atti a garantire che i suoi membri si comportino abilualmente secondo le modalità
attese e approvate. Una parte di questo controllo sociale sull’individuo viene esercitata dagli altri,
sia in modo formale, attraverso la polizia e i pubblici ufficiali, sia in modo informale, attraverso le
reazioni delle altre persone nel corso della vita quotidiana. Tutte le norme, siano esse codificate in
leggi oppure no, vengono sostenute da sanzioni, cioè da ricompense quando le persone vi si confor-
mano e da punizioni quando non lo fanno. Le sanzioni positive possono andare da un cenno del ca-
po a una cerimonia di premiazione; le sanzioni negative possono andare da blande disapprovazioni
alle più rigide pene carcerarie. Solo una frazione trascurabile del comportamento sociale viene con-
trollato dalle agenzie formali, mentre gran parte delle sanzioni viene applicata in modo informale
(sorrisi, occhiatacce, commenti, alzate di sopracciglia, ecc). Tuttavia la maggior parte del controllo
sociale non viene esercitata attraverso l’influenza diretta degli altri, ma da noi stessi, nel nostro in-
timo. Durante il processo della nostra crescita nella società, interiorizziamo inconsapevolmente le
norme della cultura, rendendo conforme ad esse una parte della nostra personalità e seguendo le
aspettative sociali senza fare domande.

Le variazioni culturali

La cultura di ogni società è unica, comprende delle combinazioni di norme e valori che raramente si
ritrova in altri luoghi. I francesi mangiano le chiocciole, ma non le locuste. Gli zulu mangiano le locu-
ste, ma non il pesce, Gli ebrei mangiano il pesce, ma non il maiale. Gli indù mangiano il maiale, ma
non il manzo. I russi mangiano il manzo, ma non i serpenti. I cinesi mangiano i serpenti, ma non gli
esseri umani. Gli jalé della Nuova Guinea trovano deliziosa la carne umana. Mentre le nostre norme
danno valore alla castità prematrimoniale, le norme dei Mentawei indonesiani impongono che una
donna sia incinta per potersi candidare al matrimonio, le norme dei Keraki della Nuova Guinea esi-
gono che ogni uomo pratiche l’omosessualità prima del matrimonio.
La gamma delle variazioni culturali è talmente ampia che probabilmente non esiste nessuna norma
specifica che compaia in ogni società. Come spiegare queste variazioni?

L’approccio funzionalista
Un modo per analizzare le componenti della cultura è quello di osservare le funzioni che esse
adempiono nel mantenere l’ordine sociale complessivo. I teorici del funzionalismo considerano la
società e la cultura come un sistema di parti interdipendenti. Sostengono che nessun elemento cultu-
rale può essere compreso se isolato dall’insieme della società e della cultura. Quindi per spiegare un
tratto culturale particolare si deve stabilire quali funzioni svolge per l’intero sistema. L’approccio
funzionalista è stato impiegato per molto tempo negli studi delle altre culture (Malinowski, 1926,
Radcliffe-Brown, 1935, 1952, Parsons, 1951, Merton, 1968).
Nelle società tradizionali eschimesi l’ospitalità verso i viaggiatori aveva un grande valore. L’ospitante
era obbligato a fare qualsiasi cosa per mettere a suo agio il viaggiatore, anche se personalmente lo trova-
va sgradevole. C’era perfino una norma che imponeva all’ospitante di offrire sua moglie all’ospite per
la notte. Questo tratto culturale dell’ospitalità obbligatoria, quasi del tutto sconosciuto nelle società ur-
bane industrializzate, era fortemente funzionale nella cultura eschimese, (che peraltro ha sempre prati-
cato una grande libertà in campo sessuale: poligamia, poliandria, scambio delle mogli). Viaggiare attra-
verso le nevi e la tormenta dell’Artico sarebbe stato impossibile se il viaggiatore non avesse potuto con-
tare sulla certezza del cibo, del calore e di tutto il resto nell’insediamento più vicino e se a sua volta
l’ospitante non avesse potuto aspettarsi la stessa cosa mettendosi in viaggio. In assenza di questa norma
le comunicazioni e gli scambi fra i vari gruppi sarebbero stati troppo rischiosi e non sarebbero avvenuti.
Una norma simile non esiste oggi nei paesi occidentali ( e risulta anacronistica anche presso gran parte
della popolazione eschimese, o inuit, ormai molto più stanziale e integrata con la civiltà americana e
canadese). Per adempiere alla stessa funzione, esistono altri mezzi, come ristoranti e motel.
La teoria funzionalista può aiutarci a comprendere perchè un particolare tratto culturale è presente
in una società e non in altre. Tuttavia essa presenta talora l’inconveniente di concentrare l’attenzio-
ne sul modo in cui le cose “quadrano” in un momento particolare della storia culturale, trascurando il
processo del cambiamento culturale.

L’approccio ecologico
Alcuni antropologi che studiano le altre culture (ad es. Harris, 1975, Bennett, 1976, Hardesty,
1977) cercano di spiegare gran parte delle variazioni esistenti tra le culture umane partendo da un
approccio ecologico, cioè analizzando gli elementi culturali nel contesto dell’ambiente sociale com-
plessivo nel quale la società è inserita. La cultura è un mezzo di adattamento all’ambiente, di conse-
guenza le pratiche culturali delle persone sono necessariamente connesse alle limitazioni poste dal-
l’ambiente in cui vivono e alle possibilità che esso offre.
La cultura dei beduini ci offre un esempio evidente di questo tipo di adattamento, dato che il duro am-
biente del deserto pone dei severi limiti alle loro scelte culturali. La regione in cui vivono i beduini è tal-
mente arida che è impossibile coltivarla. Di conseguenza essi non possono formare degli insediamenti
permanenti, né vivere in case. Sono nomadi che passano gran parte dell’anno vagando da un’oasi all’al-
tra, costretti a spostarsi ogni volta che le fonti si prosciugano. Il loro rifugio non può che essere la ten-
da, l’unica forma di alloggiamento che può essere trasportata agevolmente. Possiedono mandrie di cam-
melli, non maiali né alci, perché i cammelli sono gli unici animali che possono resistere a lungo senza
bere. I beni materiali che possiedono non sono né numerosi, né grandi, né pesanti, perché devono essere
regolarmente imballati, spostati per decine e centinaia di chilometri, quindi ancora disimballati. I beduini
hanno sviluppato precise norme per la conservazione dell’acqua e, a differenza degli occidentali, non si
scandalizzano affatto se la gente non si lava per giorni e settimane. Attribuiscono un grande valore alla
capacità di viaggiare per lunghissimi tratti di deserto sempre uguale, quasi privo di segni. Nella loro reli-
gione si immaginano il paradiso come un luogo frescheggiante di ombra, ricco di ridenti fontane, dove
abbondano frutti freschi: le cose di cui essi mancano a questo mondo. Insomma: quasi tutti gli elementi
importanti della loro cultura possono essere ricondotti all’influenza dell’ambiente in cui vivono (Vidal,
1976).

Il rapporto delle diverse pratiche culturali con l’ambiente complessivo non è sempre evidente; tut-
tavia l’approccio ecologico è stato impiegato per spiegare polte pratiche altrimenti indecifrabili.
Marvin Harris (1974), ad esempio, applica questo tipo di approccio per spiegare la venerazione, appa-
rentemente irrazionale, che gli Indù hanno per le vacche. Gli occidentali sono portati a considerare gli
oltre conto milioni di vacche che vagano liberamente per le campagne e (ormai molto meno) nelle città
indiane, mettendo in difficoltà il traffico e sporcando, come “inutili”. Invece Harris sostiene che le vac-
che sono di importana vitale per l’economia indiana. Gran parte della popolazione vive in piccoli pode-
ri che richiedono almeno un paio di buoi per l’aratura. Queste famiglie contadine vivono sull’orlo del-
l’inedia e non possono permettersi dei trattori, devono usare i buoi e questi, ovviamente, vengono par-
toriti dalle vacche. Se le vacche venissero abbattute su larga scala si recherebbe un peggioramento alla
già critica carenza di animali da tiro, si renderebbero improduttive le piccole aziende agricole, si spinge-
rebbero almeno 150 milioni di persone verso città fortemente sovraffollate. Inoltre in India le vacche
producono ogni anno circa 700 milioni di tonnellate di letame, la metà delle quali vengono utilizzate
come fertilizzanti dai contadini che non potrebbero permettersi dei sostututi chimici. La parte restante
viene usata come combustibile per cucinare, una risorsa vitale in un paese che scarseggia di petrolio e di
carbone e soffre di un’acuta carenza di legname. Quando poi le vacche muoiono vengono mangiate dai
paria, che sono anche più poveri e più affamati del resto della popolazione. La pelle e il cuoio degli ani-
mali vengono utilizzati dall’industria del pellame, in India molto sviluppata. Del resto le vacche non
sottraggono cibo all’alimentazione umana perché si nutrono di rifiuti. Insomma: la vacca sacra è un ele-
mento importante dell’intera ecologia dell’India.

Naturalmente società diverse possono adottare soluzioni diverse di fronte ad esigenze funzionali o
a problemi ecologici simili. Molte sono le società che devono affrontare il problema di un ambiente
che non offre cibo sufficiente a mantenere una popolazione che cresce.
Gli eschimesi risolvevano il problema con l’esposizione alla neve e al gelo di una parte dei neonati di
sesso femminile e di molti anziani divenuti improduttivi. Gli Yanamamö del Brasile esercitavano il con-
trollo della popolazione uccidendo o facendo morire di fame i neonati di sesso femminile o praticando
incessanti e snaguinosi combattimenti tra i maschi. I Keraki della Nuova Guinea limitavano la crescita
della popolazione imponendo ai maschi di avere relazioni esclusivamente omosessuali per parecchi anni
dopo la pubertà.

Non tutti gli elementi culturali si possono spiegare agevolmente in termini funzionalisti o ecologici.
Alcune pratiche si possono diffondere da una cultura all’altra in seguito ad invasioni, migrazioni o
commerci; questi elementi estranei vengono adottati se, a lungo andare, non si rivelano disfunzionali
o controproducenti dal punto di vista ecologico. Gli elementi culturali possono perdurare per decen-
ni o o per secoli anche quando sono venute meno le condizioni che li hanno prodotti. La cultura ten-
de sempre ad essere conservatrice: le tradizioni vengono seguite anche molto tempo dopo che le loro
origini sono state dimenticate e le esigenze a cui corrispondevano sono venute meno.

Gli universali culturali

In tutta questa varietà di pratiche che si riscontra in ogni cultura, esistono degli “universali cultura-
li”, cioé dei tratti e delle pratiche riscontrabili in tutte le culture conosciute? La risposta è che esiste
un numero piuttosto grande di universali culturali generali, ma che non sembra ne esistano di speci-
fici. Per esempio, ogni cultura ha delle norme che proibiscono l’assassinio, ma le diverse culture han-
no idee differenti su quali omicidi configurano un assassinio e quali no: si pensi ai sacrifici umani ed
agli omicidi rituali presenti non solo nelle società antiche, o ai bombardamenti sistematici sui civili
(spesso mascherati come “bombe intelligenti”).
Gli universali culturali derivano dai problemi comuni che l’ambiente pone alla nostra specie: il cli-
ma troppo caldo o troppo freddo, le cure o le attenzioni che vanno destinate ai bambini, o ai malati,
ecc. L’antropologo George Murdock (1945) ha compilato un lungo elenco di caratteristiche generali
che sono state riscontrate in tutte le culture e che comprendono: gli sport atletici, gli ornamenti del
corpo, l’arte culinaria, il lavoro in comune, il corteggiamento, la danza, l’interpretazione dei sogni, la
famiglia, i festeggiamenti, il folklore, i tabù alimentari, le cerimonie funebri, i giochi, le donazioni, i
tabù dell’incesto, le leggi, la medicina, la musica, i miti, i numeri, i nomi propri, il diritto di proprie-
tà, la religione, le restrizioni sessuali, la costruzione di strumenti e i tentativi di controllare gli agenti
atmosferici. Ma queste sono soltanto delle categorie generali il cui contenuto specifico varia da una
cultura all’altra.

L’etnocentrismo

Le culture sono diverse l’una dall’altra, e gli esseri umani passano tutta la vita all’interno della cul-
tura nella quale sono nati. Non conoscendo altri modi di vita, considerano le proprie norme e i pro-
pri valori una necessità e non una possibilità. Per questo motivo gli individui di ogni società sono af-
fetti da una certa misura di etnocentrismo, cioè dalla tendenza a giudicare le altre culture secondo i
criteri specifici della propria. Le persone sono pronte a dare per scontato che la loro moralità, il loro
tipo di vestiario, ecc. sono giusti e naturali, i migliori possibili.

Qualche esempio di modo di vedere etnocentrico: noi copriamo le parti intime perché siamo dignitosi
e civilizzati, in altre società vanno in giro nudi perché sono ignoranti e privi di pudore; le donne occi-
dentali portano gli orecchini e usano i cosmetici per accrescere la loro bellezza, le donne di altre società
si mettono degli ossicini nel naso e si tatuano il volto perché non riescono a capire quanto ciò le renda
brutte; le nostre pratiche sessuali sono morali e decenti, quelle degli altri sono primitive e perverse, ecc.

L’etnocentrismo è particolarmente forte nelle società isolate, che hanno scarsi contatti con altre
culture. Ma anche nelle società industriali moderne simili atteggiamenti prevalgono ancora. Una ra-
gione della persistenza dell’etnocentrismo sta nel fatto che è quasi impossibile avere una concezione
obiettiva della propria cultura; ma un’altra ragione è che l’etnocentrismo può risultare funzionale al-
la società. Rafforza la fiducia nella proprie tradizioni, scoraggia possibili penetrazioni da parte di
estranei assicurando in tal modo la solidarietà e l’unità del gruppo. Ma in determinate condizioni,
l’etnocentrismo può avere molti effetti indesiderabili: incoraggia il razzismo, può causare ostilità e
conflitti tra gruppi, può far sì che le persone si oppongano al bisogno di cambiamento della loro cul-
tura.
Il relativismo culturale

La capacità di raggiungere una piena comprensione di una cultura diversa dipende fortemente dalla
misura in cui lo studioso è disponibile ad essumere una posizione di relativismo culturale, cioè a ri-
conoscere che una cultura non può essere giudicata arbitrariamente secondo i criteri di un’altra.
Probabilmente non è possibile liberarsi del tutto da preconcetti e distorsioni a favore della propria
cultura. Per quanto serio sia il nostro impegno, è probabile che il segreto sentimento della superiori-
tà dei nostri criteri - che ci spinge a considerare i nostri giudizi su ciò che è bene e ciò che è male co-
me gli unici ” veri” criteri universali - persista.
D’altra parte, riconoscere il relativismo culturale come criterio procedurale proprio dello studioso
delle varie culture non significa astenersi da ogni giudizio sulle pratiche di un’altra società: non signi-
fica di certo considerare accettabili, solo perchè inserite in una cornice culturale “omogenea”, le più
retrive forme di violenza o di discriminazione, lo sterminio di massa o il genocidio. Ciò che il relati-
vismo culturale comporta è che le pratiche di un’altra società possono essere comprese pienamente
soltanto nei termini delle loro norme e dei loro valori. Per conseguire l’obiettivo pratico di compren-
dere il comportamento umano è di importanza vitale che l’osservatore cerchi di rimuovere quanto
più è possibile i paraocchi della propria cultura.

L’integrazione culturale

Le abilità, i costumi, i valori, le credenze, le pratiche e le altre caratteristiche di una cultura tendono
a completarsi le une con le altre, cioè ad integrarsi in un insieme complesso. Per poter sopravvivere,
una cultura deve essere integrata in misura considerevole, anche se in effetti alcune culture sono più
integrate di altre.
Generalmente nelle società tradizionali, preindustriali, la cultura è fortemente integrata. Queste so-
cietà tendono ad essere relativamente piccole e i loro componenti tendono a condivididere gli stessi
valori, la loro cultura è omogenea e spesso il tasso di cambiamento culturale è molto lento.
Nelle società industriali moderne, d’altro canto, i vari elementi non sono ben integrati. Le società
industriali sono per lo più di grandi dimensioni e comprendono gruppi che hanno modi di vita diffe-
renti. La loro cultura è relativamente eterogenea e spesso esistono notevoli divergenze di valori. Il
cambiamento sociale e culturale avviene rapidamente e in modo irregolare.

Cultura reale e cultura ideale


In una cultura una fonte abituale di tensione è costituita dalla discrepanza che talora esiste tra la
cultura ideale, che si manifesta nei valori e nelle norme nei quali una persona asserisce di credere, e la
cultura reale, che si manifesta nelle pratiche effettive. Nei paesi occidentali, per esempio, nonostan-
te si proclami di credere nell’uguaglianza, vi sono, sempre più, persone ricchissime e persone pove-
rissime. Si dà un grande valore all’onestà, eppure molte persone, che mai ruberebbero in un negozio,
evitano regolarmente di pagare le imposte, ecc. Spesso c’è, insomma, un notevole divario tra le no-
stre norme ideali e quelle reali. Talvolta le tensioni tra la cultura reale e quella ideale assumono di-
mensioni tali che necessariamente devono verificarsi dei cambiamenti che riescano ad integrare le due
in un rapporto più stretto.

Subculture e controculture
In una cultura, una seconda fonte di tensioni deriva dall’esistenza di gruppi che non partecipano
pienamente alla cultura dominante della società. Questi gruppi si riscontrano con più frequenza nelle
grandi ed eterogenee società industriali, nelle quali esistono numerose differenze culturali tra i mem-
bri delle diverse comunità regionali, religiose, occupazionali o di altro tipo.
Subculture
Una subcultura è una parte della cultura generale della società, ma possiede dei valori, delle norme e
degli stili di vita distinti. In quasi tutte le società industriali di grandi dimensioni esistono, per esem-
pio, subculture dei giovani, dei ricchi, dei poveri, dei vari gruppi etnici e razziali e delle diverse re-
gioni. Subculture di dimensioni più limitate si riscontrano tra i militari, nelle prigioni, nelle universi-
tà, tra i consumatori di droga, tra le gang dei ragazzi di strada. Le persone che appartengono a cia-
scuna di queste subculture tendono ad assumere atteggiamenti etnocentrici rispetto alle altre subcul-
ture perché l’appartenenza a una subcultura influisce sull’immagine che un individuo ha della realtà.
Se le differenze tra le subculture sono abbastanza grandi, può insorgere un conflitto di valori, cioè
un dissenso profondo che riguarda i fini e gli ideali. É necessario che i sociologi assumano una posi-
zione di relativismo culturale tanto nei confronti delle subculture quanto nei confronti delle altre
culture.

Controculture
Una controcultura è una subcultura che si trova in disaccordo radicale rispetto alla cultura domi-
nante, respinge consapevolmente alcune delle norme sociali più importanti e di solito ne è fiera.
Il movimento giovanile degli anni sessanta è un buon esempio di controcultura moderna. Sia l’ala
hippie, sia quella politica “militante” hanno sfidato tutta una serie di norme e di valori custoditi ge-
losamente dagli americani, compresi quelli centrati sul successo, sull’impegno lavorativo, sul com-
fort materiale, sulla razionalità scientifica, sulla superiorità dei bianchi e sulle restrizioni sessuali
(Roszak, La nascita di una controcultura, 1969).
Come hanno mostrato le rivolte degli anni Sessanta, un’ampia controcultura genera inevitabilmente
tensioni e conflitti di valori nella società. In quel caso specifico una certa misura di integrazione cul-
turale alla fine fu raggiunta in parte perché alcuni valori della controcultura furono incorporati (come
spesso accade alle varie forme di “movimento sociale”, cfr.) dalla cultura dominante.

L’importanza del linguaggio: la relatività linguistica

Il linguaggio è la chiave di volta della cultura. Il linguaggio ci permette di dare un significato al mon-
do, attraverso di esso veniamo introdotti all’esperienza collettiva della nostra società: quasi tutto ciò
che apprendiamo nella cultura umana lo apprendiamo infatti attraverso il linguaggio nel corso del-
l’interazione sociale con gli altri.
Per molti secoli si è creduto che tutti i linguaggi riflettessero la realtà fondamentalmente nello stesso
modo e che le parole e i concetti potessero essere trasferiti liberamente ed esattamente da un lin-
guaggio all’altro. Ma nel corso del novecento, studi effettuati su migliaia di lingue del mondo hanno
rivelato che esse interpretano gli stessi fenomeni in modi assai diversi, e numerosi autori hanno so-
stenuto che i linguaggi, più che rispecchiare la realtà, la strutturano.
L’ipotesi della relatività linguistica sostiene che chi parla una determinata lingua deve necessaria-
mente interpretare il mondo attraverso le specifiche forme e categorie grammaticali che la sua lingua
gli offre. Questa ipotesi è stata proposta con vigore da due linguisti americani, Edward Sapir e il
suo discepolo Benjamin Whorf, e talvolta è nota come ipotesi Sapir-Whorf.
Sapir (1929) ha sostenuto che “ i mondi in cui vivono le diverse società sono dei mondi distinti,
non semplicemente lo stesso mondo etichettato in modi diversi”. Secondo quali modalità i linguaggi
“spezzettano” e organizzano variamente il mondo? Le differenze più comuni si trovano nel vocabo-
lario: alcuni linguaggi hanno parole per designare oggetti e concetti che altri linguaggi non hanno.

Gli Atzechi avevano una sola parola per indicare la neve, la brina, il ghiaccio e il freddo, e probabil-
mente tendevano a considerare tutte queste cose come se in fondo fossero lo stesso fenomeno. Noi ab-
biamo una sola parola per indicare la neve, gli eschimesi non hanno nessuna parola che significa neve in
generale, ma ne hanno più di venti per i diversi tipi di neve: per indicare la neve sul suolo, la neve che
cade, la tormenta di neve, ecc. Il loro linguaggio li spinge a percepire queste distinzioni, mentre il nostro
ci predispone ad ignorarle. I Koya dell’India meridionale non fanno distinzioni tra neve, nebbia e rugia-
da, ma il loro linguaggio li spinge a distinguere sette tipi di bambù, distinzioni importanti per loro, ma
che poi difficilmente noteremmo.
Benché l’occhio umano sia in grado di operare un numero elevatissimo di discriminazioni cromatiche,
le lingue del mondo riconoscono soltanto un piccolo numero di colori diversi. Quasi tutte le lingue euro-
pee riconoscono il nero, il bianco e sei colori fondamentali: il rosso, l’arancio, il giallo, il verde, il blu e
il viola. Però molti linguaggi riconoscono solo due colori: gli Jalé della Nuova Guinea, ad esempio, sud-
dividono lo spettro cromatico nei colori hui e ziza, che rappresentano rispettivamente i colori caldi e
freddi dello spettro. Altre culture (quella Toda indiana, quella Baganda ugandese) riconoscono soltanto
tre colori. Tutte queste genti vedono lo stesso spettro cromatico, ma lo suddividono in modi diversi.
Altre distinzioni si riscontrano negli usi grammaticali dei diversi linguaggi. Molte lingue, europee e non
europee, impongono a colui che parla di indicare la condizione sociale sue e quella dell’interlocutore.
Così in italiano, in francese, in tedesco si usa la forma tu (o Du) per rivolgersi a persone di rango ugua-
le o inferiore, mentre la forma lei (o vous o Sie) sta a indicare una relazione improntata a formalità e
deferenza.
Il linguaggio degli indiani Navajo non possiede nessun equivalente dei nostri verbi attivi; nel pensiero
dei Navajo le persone, più che agire, partecipano passivamente alle azioni che si svolgono. Ancora più
sorprendente è per noi il linguaggio degli indiani Hopi, che non riconosce le categorie del tempo e dello
spazio. Il linguaggio hopi non possiede l’equivalente dei tempi presente, passato e futuro, ma organizza
l’universo secondo le categorie di “manifesto” (tutto ciò che è o è stato percepibile mediante i sensi) e
“che manifesta” (tutto ciò che non è fisicamente percepibile). Se è difficile comprendere questo concet-
to, è perché il nostro linguaggio è scarsamente attrezzato ad esprimerlo.

L’ipotesi della relatività linguistica non sostiene che coloro che parlano dei linguaggi diversi sono in-
capaci di esprimere le stesse idee o di vedere il mondo nello stesso modo. Tutti gli esseri umani nor-
mali sono biologicamente capaci di avere percezioni e modi di ragionare simili (Lévi-Strauss, 1962).
Ciò che l’ipotesi sostiene è che il linguaggio ci predispone a dare delle particolari interpretazioni del-
la realtà. Il linguaggio e la cultura si trovano in una costante interazione: la cultura influenza la strut-
tura e l’uso del linguaggio, mentre il linguaggio influenza le interpretazioni culturali della realtà.

Il cambiamento culturale

Nessuna cultura è statica. Ma, per quanto tutte le culture cambino, i modi e i tempi del cambia-
mento differiscono. Nella maggior parte dei casi il cambiamento culturale è piuttosto lento: la cultura
tende ad essere intrinsecamente conservatrice, in special modo per ciò che riguarda gli aspetti non
materiali, perché le persone sono riluttanti a disfarsi dei valori e dei costumi acquisiti.
Quando in un settore di una cultura avvengono dei cambiamenti, prima o poi altri se ne verificano
in altri settori. Alcuni dei cambiamenti più importanti riguardano l’attività economica, la quale è tal-
mente fondaentale per la vita umana che tutti gli altri elementi culturali devono adattarsi ad essa.
I processi che portano al cambiamento culturale sono tre: la scoperta, l’invenzione e la diffusione.
La scoperta è la percezione di qualcosa che già esiste (ad es. la struttura sociale di una colonia di ter-
miti, le proprietà allucinogene del peyote, le funzioni del cuore, le norme di parentela di una socie-
tà). L’invenzione è la combinazione o l’uso innovativo di conoscenze esistenti per produrre qualco-
sa che non esisteva (ad es. la bussola, il telefono, la musica rock). Tutte le invenzioni si basano su
precedenti scoperte o invenzioni. La diffusione è il propagarsi di elementi culturali da una cultura
all’altra.
Le invenzioni, le scoperte e la diffusione dei tratti culturali entrano a far parte di una cultura sol-
tanto se vengono accolte dalla società in questione e condivise dai suoi membri. Le persone fanno
prima a riconoscere l’utilità dei nuovi prodotti materiali che ad accettare nuove norme e valori.
CULTURA

modi di vita appresi, modificati e trasmessi da una generazione all’altra vs


prodotti condivisi della società umana “vaste conoscenze”
“gusti raffinati”
sociologia cultura materiale / non materiale
antropologia manufatti prodotti astratti
(ruote abiti libri) (credenze costumi miti)

cultura società => individui interagenti che condividono una cultura

socievolezza intelligenza
mani dotate di sensibilità (opposizione pollice-indice)
specie umana vocalità stazione eretta
primati di rango elevato capacità di riproduzione continuata
(8-14 milioni di anni fa) lungo periodo di dipendenza (svezzamento)

specie umana cultura/apprendimento flessibilità


vs vs vs
specie animali istinto rigidità

cultura => norme sanzioni positive/ricompense negative/punizioni


sistema di controllo sociale
formali medaglia pena carceraria
interiorizzazione delle norme
informali complimento rimprovero

VARIAZIONI CULTURALI => combinazione di pratiche, norme, valori di ampia gamma

approccio funzionalista cultura come sistema di parti interdipendenti


es. società tradizionale eschimese
componenti culturali
cultura come mezzo di adattamento all’ambiente
approccio ecologico es. beduini (Sahara) Indù (India)

tabù alimentari, ornamenti del corpo


generali classificazione miti, leggi, danza, folklore, medicina
UNIVERSALI di Murdock cibi, sport atletici, lavoro, feste, famiglia,
CULTURALI cerimonie funebri, giochi, musica, religione

specifici variano da cultura a cultura

ETNOCENTRISMO RELATIVISMO CULTURALE

tendenza a giudicare tendenza a riconoscere che una


le altre culture secondo cultura non può essere giudicata
i criteri specifici della propria secondo i criteri di un’altra
scienze sociali => “relativismo metodologico”
INTEGRAZIONE CULTURALE

abilità società primitive


costumi “comunità” +
cultura valori vs coese
credenze società industriali -
pratiche moderne/post-moderne
reale ideale
valori/norme
effettivi dichiarati sub-culture controculture

relatività linguistica

linguaggio => chiave di volta della cultura

concezione secolare (antichi e moderni):


specchio della realtà / concetti trasferibili da una lingua all’altra
lingue
‘900: studi effettuati su migliaia di lingue del mondo:
le lingue più che rispecchiare la realtà la strutturano

ipotesi della relatività linguistica chi parla una lingua interpreta il mondo attraverso le forme
Edward Sapir / Benjamin Whorf e le categorie grammaticali che la sua lingua gli offre
la lingua ci predispone a dare particolari interpretazioni della realtà

“ i mondi in cui vivono le diverse società sono dei mondi distinti,


non semplicemente lo stesso mondo etichettato in modi diversi” semantica / grammatica

neve: Atzechi neve => brina/ghiaccio/freddo unica parola


Inuit: 20 termini diversi (vs neve in generale)
Koya (India mer.) neve/nebbia/rugiada / 7 tipi di bambù
colori: lingue europee: nero bianco rosso arancio giallo verde blu viola
due colori: Jalé (Nuova Guinea) colori hui (freddi) e ziza (caldi)
Toda (India) Baganda (Uganda) tre colori

usi grammaticali indicare condizione sociale propria e dell’interlocutore:


italiano/francese/tedesco forma tu (Du) persone di rango uguale o inferiore
forma lei (o vous o Sie) persone di rango superiore
Indiani Navajo: mancano i verbi attivi: le persone partecipano passivamente alle azioni che si svolgono
Indiani Hopi: assenti le categorie spazio/tempo > mancano i tempi presente/passato/futuro
categorie di “manifesto” (tutto ciò che è o è stato percepibile mediante i sensi) e
“che manifesta” (tutto ciò che non è fisicamente percepibile)

cambiamento culturale => lentezza => cultura intrinsecamente conservatrice

scoperta percezione di qualcosa che già esiste


(ad es. funzioni del cuore, le norme di parentela di una società)
processi che invenzione combinazione o uso innovativo di conoscenze esistenti per
portano al cambiamento produrre qualcosa che non esisteva (bussola, telefono, computer)
invenzioni => precedenti scoperte o invenzioni
diffusione propagarsi di elementi culturali da una cultura all’altra
disponibilità a riconoscere l’utilità dei nuovi prodotti materiali
vs cambiamento di norme e valori.
Che cos’è l’antropologia

Antropologia significa letteralmente «studio dell’uomo» (dal greco anthropos [uomo] + logos
[discorso razionale, studio]. Capita di incontrare il termine «antropologia» accompagnato da ag-
gettivi diversi come fisica, sociale, culturale. In alcuni casi indicano specializzazioni della disci-
plina, in altri invece si tratta di tradizioni di studio legate a paesi diversi.
L’antropologia fisica è una disciplina scientifica che studia l’uomo dal punto di vista della sua
struttura biologica. Infatti si occupa dei meccanismi dell’evoluzione biologica, dell’ereditarietà ge-
netica, dell’adattamento fisico degli esseri umani e dei resti fossili di tale evoluzione; il suo scopo è
dunque lo studio dell’uomo e della sua storia naturale con i relativi aspetti biologici e naturalistici.
Verso la fine dell’Ottocento in Gran Bretagna nasce e si sviluppa la cosiddetta «antropologia so-
ciale» (social anthropology). Si tratta di una disciplina di carattere sociale, che pone al centro della
sua attenzione le relazioni tra gli individui e le strutture sociali a cui danno vita; vengono analizzati
i sistemi di parentela, i modelli politici e giuridici tradizionali, nonché gli aspetti economici delle
popolazioni studiate. Poco più tardi negli Stati Uniti nasce con Franz Boas una scuola di pensiero
definita antropologia culturale (cultural anthropology) che cerca di mettere in risalto l’aspetto
simbolico e cognitivo delle società umane, dedicandosi più allo studio dei processi di apprendimen-
to e di costruzione delle culture, che alle strutture sociali.
Nel lavoro antropologico è possibile individuare diverse fasi: l’etnografia rappresenta la tappa del-
la raccolta dei dati, l’etnologia quella delle prime sintesi, mentre l’antropologia propriamente detta
costituisce la fase delle generalizzazioni teoriche basate sulla comparazione. L’etnografia corri-
sponde ad un lavoro descrittivo basato sull’osservazione e sulla scrittura, che comporta la raccolta
di dati e documenti, di registrazione dei fatti umani giudicati pertinenti per la comprensione di una
cultura. Risultato di questo lavoro sono le monografie riguardanti i diversi aspetti di una società.
L’etnologia, nell’elaborare i materiali forniti dall’etnografia, mira a un livello di sintesi reso possi-
bile dall’analisi comparativa. Si parla di etnografia di un villaggio, ma di etnologia dei paesi medi-
terranei, intendendo con ciò un insieme cospicuo di lavori. L’antropologia – sociale e/o culturale -
persegue un grado di generalizzazione ancora più elevato.

In realtà l’antropologia culturale non studia l’uomo, ma gli uomini e le loro reciproche relazioni.
Non è l’individuo a interessare l’antropologo culturale, quanto il suo essere parte di un insieme di
individui con cui intrattiene relazioni di vario genere: affettive, parentali, sessuali, di vicinato, com-
merciali, politiche. Sono queste relazioni e quelle che gli individui instaurano con il loro ambiente,
a prendere il nome di «cultura». Non esiste una sola cultura, ma tante culture; infatti diversi sono i
comportamenti, le usanze, le lingue, le forme di pensiero che caratterizzano la vita di ogni gruppo
umano. Ci si è interrogati sul perché gli esseri umani abbiano trovato soluzioni diverse a problemi
di sopravvivenza simili. La risposta può sembrare paradossale: perché così come siamo, non funzio-
niamo. L’uomo, a differenza degli altri esseri viventi, non è specializzato, è un essere incompleto.
Secondo Pico della Mirandola (1463-1494), l’uomo non avrebbe una natura determinata, ma inde-
finita, e proprio questa sua indefinitezza sarebbe la sua caratteristica principale, ciò che lo contrad-
distingue dagli altri esseri viventi del pianeta. Per questa sua peculiarità l’uomo deve costruire il suo
destino con le sue stesse mani. Questa lettura della nascita dell’uomo contiene una verità fondamen-
tale, che ha segnato la storia dell’umanità fin dall’inizio: gli esseri umani sono esseri incompleti.
Un qualsiasi cucciolo di animale nasce già dotato di tutto ciò che gli serve per sopravvivere nel-
l’ambiente proprio della sua specie: un pesce nasce provvisto di branchie, pinne e squame per nuo-
tare, un uccello avrà ali, piume e ossa cave adatte al volo, un carnivoro è fornito fin dalla nascita di
zanne aguzze e affilate, mandibole potenti e una certa velocità nella corsa, un erbivoro, oltre ad ave-
re uno stomaco adatto a digerire la cellulosa contenuta nell’erba, se vive nella savana, dovrà avere
per salvarsi una velocità leggermente superiore a quella del carnivoro, e così via.
Consideriamo invece l’esperienza che tutti noi abbiamo vissuto in prima persona di cuccioli del-
l’uomo: non sappiamo nuotare e, anche dopo aver imparato, non siamo rapidissimi; se si eccettuano
pochi velocisti olimpici, non siamo dei grandi corridori; non voliamo; se fa freddo dobbiamo coprir-
ci con degli abiti; se fa caldo dobbiamo ripararci dal sole per non soffrire troppo. Senza contare che,
dopo pochi giorni o al massimo poche settimane, qualsiasi cucciolo animale è in grado di muoversi
autonomamente e conosce tutto ciò che gli serve per sopravvivere, mentre noi impieghiamo più di
un anno per muovere i primi passi, rimaniamo anni sotto la tutela dei genitori, per apprendere ciò
che ci serve occorrono decenni e non sempre ci riusciamo del tutto.
È stata però proprio l’incompletezza a sviluppare la capacità di adattamento del genere umano. Il
vuoto lasciatoci dalla natura deve essere riempito con quella serie di esperienze che chiamiamo cul-
ture. In campo antropologico il termine «cultura» si riferisce proprio all’insieme di saperi e prati-
che che permettono ai diversi gruppi umani di sopravvivere in ambienti differenti.
Negli spostamenti che hanno caratterizzato la storia, gli uomini si sono trovati di fronte ad ambien-
ti diversi, hanno dovuto risolvere problemi nuovi e lo hanno fatto dando risposte diverse: ecco per-
ché il panorama culturale del pianeta è variegato. L’antropologo cerca di individuare delle regole
nell’insieme di pratiche che un gruppo umano mette in atto, partendo dall’osservazione particolare
per giungere a una comprensione globale.
Nessuno vive dunque in una bolla priva di cultura. Tuttavia le culture non sono «gabbie»; sono
piuttosto dei recinti aperti, da cui si può uscire e rientrare, così come possono entrarvi altre persone,
apportando nuovi elementi. Poiché la storia umana è fatta di incontri, nessuna cultura è dunque «pu-
ra». Le culture sono «cantieri» sempre aperti, nei quali si svolge una continua attività di montaggio,
smontaggio, innovazione, partendo da materiali «nostri» o provenienti da altre culture, adeguata-
mente adattati.
«Cultura» o «società» sono concetti astratti, creati dagli studiosi per visualizzare meglio le azioni
umane, classificarle e compararle. La comparazione, infatti, è uno degli aspetti centrali della ricerca
antropologica, perché evidenzia tratti comuni a popoli diversi. Poiché studia le differenze tra società
e culture, l’antropologia si assegna il compito di pensare l’altro. L’alterità è stata via via concepita
come storica – l’altro era il primitivo – o come geografica – l’altro era il non europeo – ed è stata
schematizzata avvalendosi di stereotipi e immagini caricaturali: il dispotismo orientale, l’irraziona-
lità africana, la selvatichezza indiana. Nel corso del XX secolo, tuttavia, i termini positivo e negati-
vo di questi pregiudizi si sono talvolta invertiti: la libertà, l’eguaglianza, la fratellanza sono apparse
appannaggio del “buon selvaggio”, in confronto alla nostra società competitiva e segnata dalla disu-
guaglianza. Tali pregiudizi sono stati comunque entrambi smentiti – o attenuati – dagli studi compa-
rativi approfonditi. Quando parliamo dell’ ‘altro’ non intendiamo necessariamente evocare scenari
lontani. Nel momento in cui l’antropologo moderno si applica allo studio di un villaggio rurale della
Bretagna, di una comunità di emarginati, di una bidonville o di un quartiere asiatico di Parigi, la di-
stanza non è tanto geografica, quanto sociale e cognitiva. Portare lo sguardo sull’altro significa in
definitiva intrecciare delle relazioni, e ciò conduce sia ad una migliore conoscenza di se stessi sia,
grazie al confronto, ad una migliore conoscenza della nostra cultura.
Oggi l’antropologia non è più solo uno sguardo dell’Occidente sugli altri, sia perché antropologi
che provengono dalle realtà in passato oggetto di studio rivolgono lo sguardo verso di noi, sia per-
ché spesso l’antropologia si occupa di eventi culturali vicini.

L’antropologia si fonda sulla ricerca sul campo, cioè sulle prolungate relazioni tra osservatore e
osservati. L’antropologo deve però posizionarsi in un certo punto di osservazione e distaccarsi dalla
realtà che osserva: in questo consiste lo «sguardo da lontano» che caratterizza l’antropologia e che
comporta un riposizionamento dell’osservatore in una sorta di terra di nessuno, in una realtà che
non è il suo mondo e neppure quello degli altri, ma il mondo tra noi e gli altri.
Una ricerca antropologica generalmente è strutturata in tre fasi: descrizione, analisi, interpretazio-
ne. Nessuna delle tre è del tutto neutra, perché è influenzata dalla personalità del ricercatore e dal
punto di osservazione. Non esiste perciò una realtà oggettiva.
In epoche e aree del mondo diverse si sono sviluppate correnti di pensiero antropologico, che nella
maggior parte dei casi hanno convissuto e convivono tuttora.
Antropologia

«studio dell’uomo» = > anthropos [uomo] + logos [discorso, studio]

studio della storia naturale dell’uomo => aspetti biologici e naturalistici


antropologia fisica studia l’uomo dal punto di vista della sua struttura biologica
meccanismi dell’evoluzione biologica e dell’ereditarietà genetica
adattamento fisico degli esseri umani => analisi dei resti fossili

disciplina di carattere sociale => relazioni tra gli individui


antropologia sociale strutture sociali a cui danno vita => sistemi di parentela
modelli politici e giuridici tradizionali / aspetti economici

aspetto simbolico e cognitivo delle società umane


antropologia culturale studio dei processi di apprendimento
costruzione delle culture vs strutture sociali.

fasi del lavoro antropologico

1 etnografia raccolta di dati e documenti => monografie


lavoro descrittivo basato su osservazione e scrittura
registrazione dei fatti umani pertinenti
per la comprensione di una cultura
(es. etnografia di un villaggio)

2 etnologia elaborazione dei materiali forniti dall’etnografia


prime sintesi rese possibili dall’analisi comparativa
(es. etnologia dei paesi mediterranei)

3 antropologia grado di generalizzazione ancora più elevato


sociale e/o culturale generalizzazioni teoriche basate sulla comparazione

uomini nelle loro reciproche relazioni => «cultura» = > pluralità di culture

uomo come “essere incompleto” (non specializzato) Pico della Mirandola (1463-1494)

tempi lunghi di svezzamento /apprendimento => esperienze chiamate “culture”


adattamento
insieme di saperi e pratiche che
“recinti aperti” permettono ai diversi gruppi umani
vs gabbie di sopravvivere in ambienti differenti

comparazione differenze e tratti comuni


ricerca in popoli diversi
antropologica
pensare/incontrare l’altro alterità storica, geografica, culturale

descrizione
ricerca sul campo analisi
interpretazione
La storia dell’antropologia moderna
L’antropologia moderna nasce alla fine dell’800 in Gran Bretagna. Tra i pionieri ci furono Edward
Tylor (1832-1917), James Frazer (1854-1941) e Henry Lewis Morgan (1818-81), che diedero sta-
tuto di disciplina a pratiche fino a quel momento occasionali e non organizzate. La loro prospettiva
teorica, l’evoluzionismo sociale o unilineare, prevedeva una classificazione del genere umano sulla
base del grado di evoluzione raggiunto. Il limite dell’evoluzionismo sta nella visione etnocentrica,
secondo la quale al vertice della scala evolutiva sono collocati gli occidentali, mentre gli altri popoli
sono in attesa di civilizzarsi o essere civilizzati sul modello occidentale.
Nello stesso periodo nasce il diffusionismo, che puntava a identificare delle «aree culturali», al-
l’interno delle quali si riscontrassero tratti comuni. Disponendo cronologicamente queste aree, era
possibile individuare punti di irradiamento da cui si sarebbero diffusi elementi della cultura origi-
naria. Le proposte dei diffusionisti vennero riprese dalla «scuola tedesco-americana», che sposta
l’accento sui «tratti culturali», cioè su quegli elementi che potevano contribuire a determinare un
insieme culturalmente omogeneo, tenendo conto delle specificità storiche di ogni area.
Secondo Émile Durkheim (1858- 1917), fondatore della scuola sociologica francese, la cultura
umana è il prodotto di una coscienza collettiva, superorganica, superiore a quella di ogni singolo
individuo. A portare avanti le teorie di Durkheim fu Marcel Mauss (1872-1950), fondatore della
tradizione etnologica francese. Mauss teorizzò il fatto sociale totale, cioè un aspetto particolare di
una cultura, in relazione con tutti gli altri aspetti di quella stessa cultura.
Nei primi decenni del ‘900 Bronislaw Malinowski (1884-1942) e Reginald Radcliffe-Brown
(1881- 1955) diedero vita alla pratica dell’osservazione partecipante, che rivoluzionò la moderna
antropologia. La loro prospettiva, chiamata funzionalismo, vede la società come risultante del lavo-
ro delle sue diverse funzioni (economia, religione, struttura familiare ecc.). Sia Malinowski sia Rad-
cliffe-Brown si disinteressarono della dimensione storica delle società, che solo più tardi verrà riva-
lutata da Edward Evans-Pritchard (1902-73).
La scarsa attenzione alla storia suscitò le maggiori critiche nei confronti del funzionalismo. Negli
anni Cinquanta del Novecento queste critiche furono trasformate in una nuova prospettiva dagli an-
tropologi della Scuola di Manchester, Max Gluckman (1911-75), Victor Turner (1920-83) ed Ed-
mund Leach (1910- 89), i quali spostarono l’accento sulle dinamiche interne a ogni società, vista
non più come un organo statico, ma come prodotto di un continuo processo di trasformazione, ba-
sato sul conflitto, cioè sulla normale tensione che esiste tra varie componenti sociali.
Negli anni Quaranta e Cinquanta le teorie evoluzioniste vennero riprese da Julian Steward (1902-
72), Leslie White (1900-75), Elman Service (1915- 96) e successivamente da Marshall Sahlins
(1930-) in chiave multilineare. Secondo questi autori, esponenti del neoevoluzionismo, ogni socie-
tà passerebbe attraverso stadi diversi di complessità lungo linee di sviluppo multiple e talvolta pa-
rallele, senza necessariamente seguire un percorso unico.
In Francia Claude Lévi-Strauss (1908-2009) formulò la teoria antropologica chiamata struttura-
lismo. Tale corrente di pensiero, fortemente influenzata dalle teorie linguistiche e psicologiche, si
pone l’obiettivo di dimostrare, attraverso l’individuazione di categorie mentali comuni a tutti gli
uomini, che esiste un’unità psichica del genere umano: le diversità culturali sarebbero varianti di
temi costanti, insiti in essa.
Di scuola francese l’antropologia marxista, sviluppatasi negli anni Sessanta, si proponeva di indi-
viduare modi di produzione diversi da quello capitalista, per vedere come questi influenzavano le
società. Altro oggetto di studio furono i rapporti tra colonizzati e colonizzatori. In Italia tale cor-
rente si sviluppò grazie al pensiero di Antonio Gramsci (1891-1937).
Riprendendo il modello marxista dell’analisi sociale, basato sull’individuazione di tre livelli (strut-
tura, infrastruttura, sovrastruttura), Marvin Harris (1927-2001) propone una prospettiva, il materia-
lismo culturale, secondo cui l’infrastruttura determinerebbe la struttura, e questa, a sua volta, sareb-
be determinante per la sovrastruttura. Tale prospettiva ha molti punti in comune con l’ecologia cul-
turale, che si sofferma sul rapporto tra le popolazioni e l’ambiente in cui vivono, analizzandone
prevalentemente gli aspetti relativi all’adattamento e all’economia
Linee di storia dell’antropologia moderna

Edward Tylor (1832-1917) evoluzionismo sociale o unilineare


G.B. James Frazer (1854-1941) classificazione del genere umano -> grado di evoluzione raggiunto
Henry Lewis Morgan (1818-81) visione etnocentrica => occidentali al vertice della scala evolutiva
altri popoli in attesa di essere civilizzati
fine ‘800
diffusionismo
identificazione delle «aree culturali» con tratti comuni
G. Whilhelm Schmidt (1868-1954) disposizione cronologica delle aree
G.B. Grafton Elliott Smith (1871-1937) individuazione di punti di irradiamento da cui
U.S.A William James Perry (1887-1949) si diffondono elementi della cultura originaria

«scuola tedesco-americana» «tratti culturali»


Clark Wissler (1870-1947) elementi che determinano un insieme culturale omogeneo
tenendo conto delle specificità storiche di ogni area
primo ‘900
Émile Durkheim (1858- 1917) F. funzionalismo
Bronislaw Malinowski (1884-1942) P. società come risultante del lavoro delle sue diverse funzioni
G.B. Reginald Radcliffe-Brown (1881-1955) (economia, religione, struttura familiare ecc.)
osservazione partecipante cultura umana -> prodotto di una coscienza collettiva
superorganica, superiore a quella di ogni singolo individuo

Marcel Mauss (1872-1950) F. fatto sociale totale


aspetto particolare di una cultura
vs dimensione storica delle società: che influenza tutti gli altri aspetti di quella cultura
Edward Evans-Pritchard (1902-73)
Scuola di Manchester
anni ‘50 Max Gluckman (1911-75) dinamiche interne a ogni società, vista non più come un organo statico
Victor Turner (1920-83) ma come prodotto di un continuo processo di trasformazione
Edmund Leach (1910- 89) basato sul conflitto o tensione che esiste tra varie componenti sociali

‘40/ ‘50 Julian Steward (1902- 72) neoevoluzionismo multilineare (Sahlins)


Leslie White (1900-75) ogni società passa attraverso stadi diversi
Elman Service (1915- 96) di complessità lungo linee di sviluppo multiple
Marshall Sahlins (1930- ) e/o parallele, non sempre seguendo un percorso unico

Claude Lévi-Strauss (1908-2009) F. strutturalismo (linguistica, psicoanalisi)


individuazione di categorie mentali comuni a tutti gli uomini
unità psichica del genere umano = >
diversità culturali come varianti di temi costanti insiti in esso

anni ‘60 antropologia marxista


Antonio Gramsci (1891-1937) individuazione di modi di produzione diversi da quello capitalista
rapporti tra colonizzati e colonizzatori
Marvin Harris (1927-2001) materialismo culturale
tre livelli: infrastruttura => struttura => sovrastruttura

ecologia culturale
Julian Steward (1902-1972) rapporto popolazioni/ambiente - adattamento/economia
Metodi e campi d’indagine

1 L'osservazione partecipante
Con Bronislaw Malinowski (1884-1942) si afferma nella ricerca antropologica la pratica dell'osse-
vazione partecipante, che consiste nel recarsi presso la comunità che si intende studiare e soggior-
narvi a lungo, per raccogliere dati e per creare relazioni. Malinowski si era recato a Melbourne per
un convegno, quando in Europa scoppiò la prima guerra mondiale (1914). In quanto polacco, era
cittadino dell’Impero austro-ungarico, ma le autorità australiane invece di arrestarlo lo lasciarono
libero di compiere le sue ricerche in Melanesia. Questo esilio forzato gli offrì la possibilità di vivere
lunghi anni nei villaggi trobiandesi. Nasce cosi l'etnografia, l'annotazione scritta, o con il supporto
di strumenti di registrazione sonora e visiva, degli eventi che accadono davanti agli occhi dell'antro-
pologo. L'etnografia è la prima e indispensabile fase della ricerca antropologica.

2 Amici e collaboratori
Nel suo lavoro l'antropologo si serve di mediatori, appartenenti al gruppo che intende studiare.
Andando a intervistare la gente, l’antropologo in fondo costringe queste persone a riflettere sulla
propria cultura e sulla propria società. Nessuno di noi, solitamente, si alza la mattina e inizia a pen-
sare di essere italiano, di parlare una lingua neolatina, di vivere in uno stato democratico, e così via.
Nemmeno saremmo in grado di rispondere immediatamente – se un antropologo ce lo chiedesse –
al perché salutiamo con la mano destra. Non è necessario conoscere una cultura per praticarla, e in
fondo non è necessario sapere che il tendere la mano destra è un gesto di origine medioevale, che
significava “sono in pace, non ho armi in mano”. Nel momento in cui però ci viene chiesto di spie-
garlo, dobbiamo fare uno sforzo di interpretazione. E’ quello che fanno tutte le persone intervistate.
L’antropologo, quindi, non interpreta direttamente una realtà, ma interpreta delle ‘interpretazioni’.
L'osservazione partecipante non si riduce perciò a una semplice trascrizione di ciò che si osserva,
ma implica una riflessione più ampia, in cui entrano in gioco conoscenze, sensibilità e capacità
teoriche del ricercatore.

3 Gli strumenti dell'antropologo


Per la sua dimensione relazionale l'antropologia culturale è una disciplina molto ‘umana’ e pertanto
influenzata dalla variabilità e soggettività delle relazioni interpersonali; per questo ha sempre de-
nunciato una certa carenza di metodo, nonostante alcuni strumenti teorici e metodologici comuni.
Sebbene uno studio antropologico normalmente si concentri su un aspetto specifico di una società,
per comprendere quell’aspetto deve tentare di comprendere la società nel suo insieme, deve cioè
avere una visione olistica. Uno dei pilastri fondanti delle discipline antropologiche è il relativismo
culturale, un atteggiamento secondo il quale ogni espressione culturale va spiegata all'interno del
quadro simbolico della società che la produce. L'atteggiamento relativista si oppone all'etnocen-
trismo, “una concezione per la quale il proprio gruppo è considerato il centro di ogni cosa e tutti gli
altri sono considerati e valutati in rapporto a esso”. Il risultato inevitabile di questo approccio è
quello di giudicare sbagliato tutto ciò che non corrisponde ai propri canoni. L’etnocentrismo è un
tratto che accomuna la maggior parte dei gruppi umani: gli antichi greci chiamavano “barbari” i non
greci (ovvero tutti coloro che parlavano una lingua sconosciuta: “bar-bar” = “bla-bla”, suoni dei
quali non si coglie il senso), i lugbara dell’Uganda definiscono gli stranieri “gente che cammina a
testa in giù” e il nome di moltissime popolazioni significa “gli uomini”, per indicare che gli altri
sonon un po’ meno uomini, se non addirittura non-uomini. Insomma, ogni società tende a pensarsi
fondamentalmente buona e circondata da gruppi e persone tendenzialmente non buone. Questo
atteggiamento, se radicalizzato, può diventare l'anticamera del razzismo, poiché può arrivare ad
affermare l'esistenza di culture superiori e inferiori.
Alla base del relativismo c'è invece il dubbio. Quando ci si trova di fronte ad un’espressione cultu-
rale diversa dalle nostre, abbiamo due scelte: pensare che sia sbagliata, oppure dubitare e chiederci:
perché fanno così? Lo studio, lo scambio di idee, la comprensione del modo di pensare dell’altro
potranno darci delle risposte, che potremo comprendere solo se assumiamo, almeno per un momen-
to, il punto di vista altrui.
In antropologia si individuano due diverse prospettive di osservazione:
1) etica, che appartiene all'osservatore esterno, del ricercatore che spesso è altro rispetto alla comu-
nità in cui studia; è uno sguardo da fuori che tenta di ricondurre i fatti osservati a una logica di tipo
scientifico; 2) emica, che appartiene a chi fa parte della società in oggetto e che percepisce gli stessi
fatti e agisce senza per forza darsi spiegazioni, ma per abitudine, conformismo e routine.

4 Comparare
Nonostante le specificità delle singole culture, esistono forme di trasversalità, che si ritrovano, con
un certo grado di approssimazione, in popolazioni diverse. L'antropologia si occupa di individuare
le costanti, tramite la comparazione di casi diversi e spesso distanti tra di loro. Tutte le culture pos-
siedono quello che il filosofo austriaco Paul Feyerabend chiama ‘dispositivo di transitività’, dovuto
alla capacità di ogni linguaggio di elaborare concetti nuovi, inventando nuovi termini e modalità
comunicative, che rendono possibile tradurre un concetto da una lingua a un'altra.

5 Scrivere l'esperienza
Terminato lo studio delle culture altrui, l'antropologo deve ‘tradurlo’ per renderlo noto: questa ope-
razione implica necessariamente una selezione. Occorre inoltre scegliere le modalità della descri-
zione dell'esperienza vissuta. Nella prima fase dell'antropologia si è spesso tentato di rendere il più
possibile oggettiva la ricerca: ciò implicava una descrizione asettica, in cui l’autore era un “io in-
visibile”, estraneo ai fatti. Uno degli elementi retorici era l'uso del presente etnografico, che però
trasmetteva l'immagine di popolazioni statiche e senza storia. A partire dal testo Scrivere le cultu-
re (1984), curato da James Clifford e George Marcus, si è riflettuto sul fatto che il ricercatore è
parte stessa della ricerca, pertanto nella narrazione scritta occorre inserire l'esperienza personale:
l'antropologo diventa così sempre più ‘autore’ e il suo scritto si trasforma in narrazione.
La presenza del ricercatore sul campo altera inevitabilmente la realtà osservata, sia perché crea cu-
riosità e relazioni nuove e preferenziali con alcuni membri della comunità, sia perché induce la gen-
te del posto a parlare e a tentare di spiegare cose di cui talvolta non è realmente cosciente.

5 Specializzazioni e campi d'indagine


L'antropologia prevede al suo interno diverse specializzazioni. Tra le principali ricordiamo l’antro-
pologia politica, il cui oggetto di studio sono le forme di organizzazione dell’autorità, del potere e
delle gerarchie interne alla società; l’antropologia economica, che studia i modi di produzione, la
concezione dei beni, le forme di scambio e i commerci; l’antropologia cognitiva, che cerca di far
luce sui processi cognitivi di base con cui gli esseri umani elaborano la conoscenza del mondo;
l’antropologia medica, che si occupa delle diverse concezioni del corpo e delle malattie, nonché
dei relativi sistemi di cura; l’antropologia estetica, che analizza i concetti di produzione artistica
nelle diverse culture; l’antropologia delle religioni, che studia i sistemi di credenze e delle relazio-
ni tra gli uomini e il sacro; l’antropologia visiva, che privilegia l’immagine (realizzazione di foto-
grafie, film, documentari) e che riflette sull’uso che viene fatto dell’immagine stessa.
Con il tempo anche i campi di indagine di queste specializzazioni sono cambiati. Se in passato si
prediligevano popolazioni isolate, oggi sono diventati oggetto di studio i quartieri multietnici delle
città, il turismo, i media, ilweb e le comunità online, lo sport, le nuove forme dell'economia: esiste
anche un’antropologia dei consumi, che studia il rapporto tra gli individui e l’atto dell’acquisto.
In passato lo sguardo dell'antropologo era unidirezionale, aveva un unico punto di osservazione, e la
ricerca classica era quasi necessariamente ‘unifocale’, cioè prevedeva un soggiorno lungo in un
luogo, dove si avviavano relazioni con determinate persone. Oggi la ricerca è diventata spesso mul-
tifocale: il ricercatore si muove e utilizza i nuovi media, cambiando così diversi punti di osservazio-
ne, e crea una rete complessa di relazioni, che non sono più unidirezionali, ma basate sul dialogo e
sullo scambio reciproco.
Metodi e strumenti d'indagine

Osservazione partecipante
Bronislaw Malinowski (1884-1942) Melbourne 1914 ricerche in Melanesia: villaggi trobiandesi
recarsi presso la comunità che si intende studiare e soggiornarvi a lungo, per raccogliere
dati e per creare relazioni; non semplice trascrizione di ciò che si osserva, ma riflessione
in cui entrano in gioco conoscenze, sensibilità e capacità teoriche del ricercatore.

mediatori: informatori:
appartenenti al gruppo persone intervistate: sforzo di interpretazione
che si intende studiare di pratiche e gesti abituali e consuetudinari
(es. il saluto con la mano destra: origine
medioevale “sono in pace, non ho armi in mano”)
L'antropologo interpreta delle 'interpretazioni'

Gli strumenti dell’antropologo


studio antropologico => a) aspetto specifico di una società
b) comprendere la società nel suo insieme => visione olistica

relativismo culturale etnocentrismo


ogni espressione culturale spiegata all'interno del concezione per la quale il proprio gruppo è
quadro simbolico della società che la produce considerato il centro di ogni cosa e tutti gli altri
dubbio studio scambio di idee sono considerati e valutati in rapporto a esso
comprensione del modo di pensare dell'altro tratto che accomuna la maggior parte delle culture
assunzione del punto di vista altrui es. “barbari” = non greci (“bar-bar” = “bla-bla”)
affermare l’esistenza di culture superiori e inferiori

prospettive di
osservazione antropologica
1) etica 2) emica
appartiene all'osservatore esterno, al ricercatore appartiene a chi fa parte della società in oggetto
che spesso è altro rispetto alla comunità in cui e che percepisce gli stessi fatti e agisce senza
studia; sguardo da fuori che riconduce i fatti per forza darsi spiegazioni, ma per abitudine,
osservati a una logica di tipo scientifico conformismo e routine.

comparazione
specificità delle forme di trasversalità
singole culture che si ritrovano, con un certo grado di
approssimazione, in popolazioni diverse

individuare costanti e differenze


tramite il confronto tra le culture

tipologie antropologiche di scrittura

1) prima fase dell'antropologia 2) Scrivere le culture (1984)


rendere oggettiva la ricerca: James Clifford George Marcus
descrizione asettica ricercatore parte stessa della ricerca
inserimento dell'esperienza personale
narrazione
Antropologia culturale:
specializzazioni e campi d'indagine

antropologia della parentela antropologia dell’alimentazione


legami familiari e matrimoniali studia i processi e le dinamiche
che uniscono geneticamente o culturali connessi alla produzione,
volontariamente gli individui preparazione e consumo del cibo
nelle diverse culture

antropologia medica antropologia dello spazio e del tempo


concezioni del corpo e delle studia l’organizzazione dello spazio e del tempo
malattie e relativi sistemi di cura come elemento strutturante delle varie culture

antropologia politica antropologia economica


forme di organizzazione dell'autorità, del modi di produzione, concezione di
potere e delle gerarchie interne alla società beni, forme di scambio e commerci

antropologia cognitiva antropologia visiva


processi cognitivi con cui privilegia l'immagine
gli esseri umani elaborano (fotografie, film, documentari)
la conoscenza del mondo riflettendo sull'uso che ne viene fatto

antropologia estetica antropologia del corpo


concetti di produzione studio del corpo come
artistica nelle diverse culture oggetto di elaborazione
identitaria e pratiche culturali

antropologia delle religioni antropologia dei consumi


sistemi di credenze e delle rapporto tra gli individui
relazioni tra gli uomini e il sacro e l'atto dell'acquisto

Cambiamento dei campi di indagine:


quartieri multietnici delle città, turismo, vs popolazioni isolate
media, web e comunità online, sport,
nuove forme dell'economia

ricerca unifocale vs ricerca multifocale


sguardo unidirezionale dialogo e scambio reciproco
unico punto di osservazione diversi punti di osservazione
soggiorno lungo in un luogo rete complessa di relazioni
L’etnocentrismo

Le culture sono diverse l’una dall’altra, e gli esseri umani passano tutta la vita all’interno della cul-
tura nella quale sono nati. Non conoscendo altri modi di vita, considerano le proprie norme e i pro-
pri valori una necessità e non una possibilità. Per questo motivo gli individui di ogni società sono
affetti da una certa misura di etnocentrismo, cioè dalla tendenza a giudicare le altre culture secondo
i criteri specifici della propria. Le persone sono pronte a dare per scontato che la loro moralità, il
loro tipo di vestiario, ecc. sono giusti e naturali, i migliori possibili.

Qualche esempio di modo di vedere etnocentrico: noi copriamo le parti intime perché siamo dignitosi e
civilizzati, in altre società vanno in giro nudi perché sono ignoranti e privi di pudore; le donne occidentali
portano gli orecchini e usano i cosmetici per accrescere la loro bellezza, le donne di altre società si mettono
degli ossicini nel naso e si tatuano il volto perché non riescono a capire quanto ciò le renda brutte; le nostre
pratiche sessuali sono morali e decenti, quelle degli altri sono primitive e perverse, ecc.

L’etnocentrismo è particolarmente forte nelle società isolate, che hanno scarsi contatti con altre
culture. Ma anche nelle società industriali moderne simili atteggiamenti prevalgono ancora. Una ra-
gione della persistenza dell’etnocentrismo sta nel fatto che è quasi impossibile avere una concezio-
ne obiettiva della propria cultura; ma un’altra ragione è che l’etnocentrismo può risultare funzionale
alla società. Rafforza la fiducia nelle proprie tradizioni, scoraggia possibili penetrazioni da parte di
estranei assicurando in tal modo la solidarietà e l’unità del gruppo. Ma in determinate condizioni,
l’etnocentrismo può avere molti effetti indesiderabili: incoraggia il razzismo, può causare ostilità e
conflitti tra gruppi, può far sì che le persone si oppongano al bisogno di cambiamento della loro cul-
tura.

Il relativismo culturale

La capacità di raggiungere una piena comprensione di una cultura diversa dipende fortemente dalla
misura in cui lo studioso è disponibile ad assumere una posizione di relativismo culturale, cioè a ri-
conoscere che una cultura non può essere giudicata arbitrariamente secondo i criteri di un’altra.
Probabilmente non è possibile liberarsi del tutto da preconcetti e distorsioni a favore della propria
cultura. Per quanto serio sia il nostro impegno, è probabile che il segreto sentimento della superiori-
tà dei nostri criteri - che ci spinge a considerare i nostri giudizi su ciò che è bene e ciò che è male
come gli unici ” veri” criteri universali - persista.
D’altra parte, riconoscere il relativismo culturale come criterio metodologico e procedurale pro-
prio dello studioso delle varie culture non significa astenersi da ogni giudizio sulle pratiche di un’al-
tra società: non significa di certo considerare accettabili, solo perchè inserite in una cornice cultura-
le “omogenea”, le più retrive forme di violenza o di discriminazione, lo sterminio di massa o il ge-
nocidio. Ciò che il relativismo culturale comporta è che le pratiche di un’altra società possono esse-
re comprese pienamente soltanto nei termini delle loro norme e dei loro valori.
Per conseguire l’obiettivo pratico di comprendere il comportamento umano è di importanza vitale
che l’osservatore cerchi di rimuovere quanto più è possibile i paraocchi della propria cultura.
Il Corpo innaturale

Modellare il corpo
Tutte le società del mondo modificano il corpo ‘naturale’. Per questo le pratiche di disegno e mo-
dellamento del corpo sono diventate campo d'indagine dell'antropologia culturale: sono una forma
di scrittura che gli uomini imprimono su di sé. Dall’Oceania all’Africa, dall’Europa all’Amazzonia
il corpo viene scritto, modellato, plasmato. Un esempio sono i capelli, che vengono tagliati, accon-
ciati, tinti, per esprimere un senso di appartenenza a una società, a un gruppo, a una moda, a un'epo-
ca, oppure il desiderio di essere ‘altro’ o il fatto di trovarsi in una particolare condizione.
Negli anni sessanta del XX secolo portare i capelli lunghi significava aderire a un modello ideolo-
gico di contestazione, esprimere un rifiuto del sistema dominante; nei decenni seguenti i giovani
punk esprimevano anch’essi con le loro creste colorate il loro disagio e il loro voler essere “altro”.
In Giamaica negli anni trenta nacque un movimento mistico religioso, che voleva valorizzare le ra-
dici africane della popolazione nera attraverso il culto del ras tafari, l’imperatore d’Etiopia Hailé
Sélassié. L’Etiopia infatti è l’unico paese africano che non ha mai subito una vera colonizzazione
(ad eccezione dell’effimero “impero” fascista degli anni 1935-41, che comunque non comportò una
occupazione totale del territorio). I seguaci del movimento rasta adottarono una capigliatura fatta di
lunghe trecce cotonate, i dreadlocks, tipiche delle popolazioni oromo dell’Etiopia, che ancora oggi
molti giovani di tutto il mondo adottano come forma di adesione a un movimento di pensiero e mu-
sicale di cui Bob Marley ha rappresentato una delle più note espressioni artistiche. Nell’Africa occi-
dentale le pettinature femminili assumono talvolta significati precisi, non solo legati all’appartenen-
za ad un determinato gruppo, ma anche alla condizione della donna che li porta: un certo modo di
annodare le treccine può voler dire “sono nubile, chiamami”, oppure esprimere un lutto, e così via.

Dipingere, colorare, disegnare

In molte culture si usa dipingere il corpo. I nuba del Sudan o i mursi dell’Etiopia decorano i loro
corpi con disegni fatti con il caolino (un minerale argilloso e soffice, che fornisce una polvere bian-
ca). Tali disegni, che scompaiono dopo ogni lavaggio, costituiscono una forma di arte effimera e
servono a comunicare, a ribadire l'appartenenza al proprio popolo, a distinguere ruoli.
Anche in Occidente si usa dipingere il corpo – in maniera effimera - con i cosmetici, in base alle
mode imperanti, ma anche a seconda degli stati d’animo o delle preferenze personali.
Talvolta il corpo è disegnato invece in modo indelebile. È il caso del tatuaggio, pratica nata in Po-
linesia, dove serviva a distinguere lo status sociale degli individui – capi, uomini liberi, schiavi - ed
era legata a espressioni rituali e religiose. Il tatuaggio, il cui nome deriva dalla parola polinesiana
tatu, che significa “incidere” si diffuse successivamente anche in altre società, subendo trasforma-
zioni di significato o diventando strumento di espressione di subculture. I primi ad apprendere que-
sta tecnica furono i marinai che percorrevano i mari del Sud. In molti casi il tatuaggio divenne una
sorta di marchio punitivo o d’infamia, impresso sulla pelle di galeotti, prostitute, omosessuali. Nel
lager di Auschwitz veniva tatuato sul braccio del detenuto un numero di matricola per marchiare a
vita un individuo – ebreo, zingaro, omosessuale – come appartenente a una presunta razza inferiore.
In Giappone invece, fin dal XVIII secolo divenne una vera e propria forma d’arte, destinata ad
esprimere soprattutto la bellezza femminile. Da un paio di decenni anche nella società occidentale
la pratica del tatuaggio è ritornata fortemente di moda, diffondendosi sia tra le donne sia tra gli uo-
mini. Il nostro tatuaggio non ha nessuna connotazione rituale, in molti casi è un’espressione esteti-
ca; a volte può assumere un significato politico, come nel caso dei naziskin o degli Hell’s Angels, i
motociclisti americani che guidano grosse Harley Davidson con giubbotti di pelle senza maniche; è
entrato fortemente a far parte di molte subculture, come quelle punk, dark, ecc., che intendono
esprimere disagio, ribellione, rifiuto e tracciare un confine tra chi lo porta e chi no.
Scolpire e modellare

Monocromatico o colorato, il tatuaggio necessita di uno sfondo chiaro, pertanto molte popolazioni
dalla pelle scura disegnano il proprio corpo attraverso la scarificazione, un'incisione superficiale
della pelle, che prevede talvolta l'inserimento di piccoli grani per creare disegni in rilievo. Si tratta
di forme di rappresentazione artistica che possono essere lette come segno di bellezza o come
espressione di un linguaggio simbolico (ad es. i tiv della Nigeria e i Betammaribe del Benin).
La “carta d’identità” di molti abitanti dell’Africa occidentale è inciso sul loro volto da quando erano
bambini. Piccole cicatrici di forma e combinazione diversa segnano le guance, indicando il gruppo
etnico di appartenenza, talvolta anche il clan di origine. Il corpo culturale, e cioè elaborato, dipinto,
segnato, diventa così un testo scritto in una lingua, che la rispettiva cultura è in grado di decifrare.
Il corpo viene anche modellato e scolpito per corrispondere ai criteri di una determinata cultura.
L’allungamento del collo tramite l’apposizione progressiva di anelli di metallo, che caratterizza le
cosiddette donne-giraffa del gruppo padaung dello Myanmar del sud (Birmania), i piattelli labiali
delle donne mursi della valle dell’Omo (Etiopia meridionale), la dolicocefalia, cioè l’allungamento
del cranio, in uso tra i mangbetu della Repubblica Democratica del Congo, la compressione dei pie-
di per impedirne la crescita, praticata dalle donne cinesi, sono esempi di come il corpo possa essere
plasmato secondo i criteri di una determinata cultura. Questo avviene anche in Occidente, ad esem-
pio con il body building, l'esercizio fisico, le diete, la chirurgia plastica, che obbediscono ai canoni
estetici dominanti. Oggi in Occidente c’è abbondanza di cibo e allora essere magri diventa segno di
bellezza. In molti paesi non occidentali, dove non sempre l’alimentazione è assicurata, il concetto di
bellezza non è legato alla magrezza, ma piuttosto all’opulenza del corpo.

Al di là della pelle

In molte pratiche rituali, come i riti di iniziazione, il corpo è violato per causare dolore, essenza
stessa della prova. Presso i sioux, popolazione di nativi americani delle grandi pianure centrali degli
Stati Uniti e del Canada meridionale, la prova per diventare guerrieri era la Danza del Sole, nel cor-
so della quale colui che doveva essere iniziato veniva sollevato, appeso ad artigli di aquila conficca-
ti nella carne del suo torace. Nel rito della frustata, diffuso nel golfo di Guinea (Africa occidentale),
l’iniziato deve sottostare a diversi colpi di frusta inflittigli dagli adulti senza dare segni di dolore. Il
dolore è vissuto come esperienza necessaria per attraversare la soglia della normalità e acquisire
uno status diverso. Tra le pratiche che prevedono l'amputazione vi sono la circoncisione, che segna
riti di passaggio sia tra i fedeli di ebraismo e islam, sia presso società tradizionali, e le mutilazioni
genitali femminili, praticate sia in contesto islamico sia nell'ambito di religioni tradizionali. L’infi-
bulazione nota anche come circoncisione faraonica o sudanese, è una forma di modificazione geni-
tale femminile che comporta l'asportazione del clitoride, delle piccole labbra, di parte delle grandi
labbra vaginali, a cui segue la cucitura della vulva, lasciando aperto solo un foro per permettere la
fuoriuscita dell'urina e del sangue mestruale. Tale pratica è stata condannata dall'Organizzazione
Mondiale della Sanità come la forma più grave di mutilazione genitale femminile.
In Occidente nella cultura punk la pelle e la carne vengono penetrate (spilloni nelle guance, pier-
cing) per esprime una volontà di riappropriazione del corpo, di appartenenza o di inadeguatezza alla
vita, o infine come antidoto al dolore esistenziale. Il corpo è dunque materia da personalizzare se-
condo schemi culturali o individuali. Si compie così quel processo definito dall'antropologo France-
sco Remotti antropopoiesi, cioè l'insieme di pratiche che ogni società mette in atto per costruire
l'uomo, secondo i propri criteri di umanità.

Il corpo a pezzi

Decisamente più intrusiva e assai poco umana è la pratica di espianto e di trapianto di organi, che
la moderna tecnologia chirurgica ha reso sempre più praticabile, mettendo in discussione il concetto
di unità e inviolabilità del corpo e dando vita a una nuova etica del corpo. Esiste un vero e proprio
turismo dei trapianti, legalizzato solo in Israele e in Sudafrica, nel quale si svelano anche le inegua-
glianze di classe: un pacchetto completo per ottenere un rene costa 200.000 dollari, dei quali solo
5.000 arrivano al donatore. Il corpo ‘divisibile’ è diventato così una delle tante merci soggette alle
leggi di mercato. Il traffico, più o meno legale, che ne è derivato ripropone il divario tra i più ab-
bienti e chi non possiede altro che la ‘nuda vita’. Si tratta di un inquietante neo-cannibalismo con-
temporaneo, dove a ‘inghiottire’ pezzi di umani siamo noi occidentali.

Vestirsi e svestirsi

Non solo manipoliamo, coloriamo, modelliamo il nostro corpo, ma alla pelle che costituisce il li-
mite esterno del nostro corpo, siamo soliti aggiungerne una seconda, fatta di stoffe, di corteccia, di
foglie, per coprire, disegnare, esaltare le forme. L’abito non assolve solo alla funzione di riparare
dagli elementi naturali, ma è anche un segno culturale attraverso il quale ostentiamo una nostra con-
dizione. L’abito muta non solo da cultura a cultura, ma anche di epoca in epoca. La moda, i gusti, la
morale condizionano il modo di vestirsi: l'aspetto estetico del vestire è legato infatti anche al ‘senso
del pudore’. Ogni cultura decide quali parti del corpo sia lecito esporre e quali no. Si è creduto che
la nudità fosse retaggio di uno stato primitivo, in cui gli esseri umani sarebbero vissuti in una condi-
zione ‘naturale’. In realtà nella maggior parte delle società si è restii a mostrare i genitali pubblica-
mente, ma la nudità non sempre è considerata oscena, mentre è l’atteggiamento che si ha verso di
essa, lo sguardo morboso, ad esempio, a essere sanzionato o condannato. Il grande navigatore ingle-
se James Cook racconta di come i suoi marinai, guardandone esplicitamente i genitali, mettessero in
imbarazzo i nativi della Terra del Fuoco (Cile), per i quali, pur circolando nudi, era considerato
sconveniente soffermarsi con lo sguardo su certe parti del corpo.
Anche le religioni monoteiste hanno imposto, in epoche e in misura diverse, regole sull'abbiglia-
mento legate sia al pudore, sia al comportamento nei luoghi religiosi. L’hijab, il velo che incornicia
il volto di molte donne musulmane, rappresenta un segno di pudore, peraltro molto diffuso in molte
altre società. Anche in Italia in passato le donne si recavano a messa a capo coperto. Assai più dra-
stica l’imposizione del burka che, oltre a celare completamente il volto, annulla totalmente ogni for-
ma del corpo femminile. Per quanto riguarda gli uomini, è possibile incontrare, nelle regole relative
alla frequentazione dei luoghi di culto, comportamenti opposti: nel mondo cristiano ci si toglie il
cappello nell’entrare in una chiesa, al contrario gli ebrei non entrano in una sinagoga se non a capo
coperto.

Il corpo dopo la morte

Il corpo ha una dimensione sociale anche dopo la morte. In diverse forme, più o meno ritualizzate,
tutte le società praticano la ‘toilette del morto’: composizione del cadavere, vestizione, preparazione
di cibi per il viaggio, protezione dall’esterno. La cura dei corpi dei defunti rappresenta inoltre
l’estremo tentativo di strapparli alla putrefazione. Nella sepoltura il deperimento della carne viene
occultato, nell'imbalsamazione ritardato, nell'esposizione dei cadaveri alle intemperie o nella cre-
mazione accelerato. La volontà di combattere ogni forma di decomposizione emerge nelle pratiche
di mummificazione e di criogenizzazíone (il congelamento del corpo per una conservazione prolun-
gata). I corpi dei leader defunti, conservati e ostentati, possono diventare icone e strumenti del pote-
re. Distruito o conservato, il corpo non viene mai lasciato al suo destino: quasi tutte le società eser-
citano una sorta di controllo culturale dei corpi in disgregazione.
Una diversa forma di valore sociale del corpo dei defunti è il culto delle reliquie dei santi cristiani,
che affonda le sue origini nel IV-V secolo ed ebbe il suo apice nei secoli IX e XI. Queste “ossa sen-
za pace” venivano ostentate, portate in giro, adorate, ma erano anche spesso oggetto di furti, trafu-
gamenti, profanazioni, falsificazioni. Nella tradizione cristiana la reliquia è il simbolo della vittoria
dell'essere umano contro la morte e risponde al bisogno di materialità dei culti.
Il Corpo innaturale

Modificazione del corpo ‘naturale’

pratiche di disegno e modellamento del corpo


‘scrittura’ che gli uomini imprimono su di sé.

appartenenza a una società, un gruppo, una moda, un’epoca


acconciature
dei capelli capelli lunghi (anni ‘60) creste punk (anni ‘80) dreadlocks - movimento rasta

desiderio di essere ‘altro’ - contestazione del sistema dominante

Corpo dipinto, colorato, disegnato

dipingere il corpo -> arte effimera -> comunicare o ribadire l'appartenenza al proprio popolo
distinguere ruoli caolino: nuba (Sudan) mursi (Etiopia)
Occidente cosmetici mode, stati d’animo, preferenze personali.

disegno indelebile -> tatuaggio Polinesia -> status sociale - capi, uomini liberi, schiavi
espressioni rituali e religiose (tatu “incidere”)
marinai mari del Sud
galeotti, prostitute, omosessuali marchio punitivo o d’infamia
lager di Auschwitz: ebrei, zingari, omosessuali ‘razze inferiori’
Giappone XVIII secolo: forma d’arte -> bellezza femminile

moda del tatuaggio espressione estetica


Occidente nessuna connotazione rituale
significato politico (naziskin, Hell’s Angels)
subculture: punk, dark, ecc:
disagio, ribellione, confini del gruppo

Corpo scolpito e modellato

scarificazione un'incisione superficiale della pelle talvolta con


inserimento di grani per creare disegni in rilievo
segno di bellezza o linguaggio simbolico (tiv, Nigeria, Betammaribe, Benin).
gruppo etnico di appartenenza, clan di origine
corpo culturale: testo scritto nella lingua della rispettiva cultura

corpo modellato -> criteri estetici, ruoli sessuali di una determinata cultura.
donne-giraffa padaung Myanmar del sud (Birmania)
piattelli labiali donne mursi, valle dell’Omo (Etiopia meridionale)
dolicocefalia, mangbetu, Congo
compressione dei piedi: donne cinesi

body building, l'esercizio fisico, le diete, la chirurgia plastica


Occidente
canoni estetici dominanti: magrezza vs opulenza del corpo
Il corpo violato

corpo violato -> riti di iniziazione e riti di passaggio (passaggio di status)


prove di sopportazione del dolore

Sioux, USA Danza del Sole Rito della frustata golfo di Guinea (Africa occ.)
circoncisione -> riti di passaggio ebraismo e islam
mutilazioni genitali femminili islam, religioni tradizionali africane

Corpo come materia da personalizzare Occidente -> cultura punk


secondo schemi culturali o individuali (spilloni nelle guance, piercing)

volontà di riappropriazione del corpo


senso di appartenenza - inadeguatezza alla vita
antidoto al dolore esistenziale

Francesco Remotti ‘antropopoiesi’ -> pratiche che ogni società mette in atto per costruire
l’uomo, secondo i propri criteri di umanità.

Il corpo a pezzi

Il corpo ‘divisibile’ -> “merce” soggetta alle leggi di mercato


pratica di espianto e di trapianto di organi -> turismo dei trapianti (legalizzato in Israele e in Sudafrica)
ineguaglianze di classe e sfruttamento (un rene costa 200.000 dollari solo 5.000 arrivano al donatore)
neo-cannibalismo contemporaneo

Vestirsi e svestirsi

pelle -> limite esterno del nostro corpo


vestiti -> seconda pelle (stoffe, corteccia, foglie, etc) -> coprire, disegnare, esaltare le forme.

‘senso del pudore’ (nudità: J. Cook, nativi Terra del Fuoco)


riparo dagli elementi naturali variabili
abito funzioni segno culturale per ostentare condizione e status culturali-epocali
concezione estetica (tradizione, moda, gusti, morale)
regole religiose hijab (velo) Islam burka luoghi religiosi:
chiesa -> capo scoperto vs sinagoga -> kippah

Il corpo dopo la morte -> forme + o - ritualizzate di ‘toilette del morto’

composizione del cadavere, vestizione, preparazione di cibi per il viaggio, protezione dall’esterno

deperimento occultato -> sepoltura


ritardato -> imbalsamazione
accelerato -> esposizione alle intemperie cremazione
impedito -> criogenizzazione (congelamento per cons. prolungata)

Corpi dei leader defunti conservati e ostentati -> icone e strumenti del potere
Culto delle reliquie dei santi cristiani (IV-XI sec.) -> simbolo della vittoria dell'uomo contro la morte
ostentate / adorate / rubate / profanate / falsificate
Parentela e matrimonio

Un importante campo di studio per gli antropologi sono le relazioni parentali, perché il modo in
cui una società costruisce le sue regole di parentela, definite dal diritto consuetudinario o scritto,
costituisce la grammatica di quella società. La parentela nasce dall'intersezione fra due relazioni
fondamentali: il legame di filiazione tra madre e figlio e il legame di coppia tra uomo e donna, che
si ha quando il maschio offre la sua paternità alla prole della femmina, stabilendo così il legame di
paternità.
Il sistema grafico convenzionale con cui nei testi di antropologia vengono indicati i componenti di
un gruppo parentale e le relazioni che intercorrono tra di loro prevede: il triangolo, ad indicare un
individuo di sesso maschile, il cerchio, per una persona di sesso femminile; il segno = per indicare
l’unione matrimoniale (affinità), una linea orizzontale che unisce due segni per indicare una
relazione fratello/sorella (consanguineità), una linea verticale per indicare discendenza (filiazione).

Uomo donna matrimonio = fratello/sorella discendenza |

Famiglia e matrimonio
La parola famiglia può assumere significati e forme diversi. Si parla di famiglia nucleare per indi-
care quella composta da genitori e figli. La famiglia allargata comprende invece, oltre a genitori e
figli, zii, nonni e cugini. La famiglia allungata è quella in cui i figli rimangono a vivere con i geni-
tori fino a un'età avanzata, mentre la famiglia monogenitore comprende i figli con un solo genito-
re. Non esiste dunque una ‘famiglia naturale’, ma sono gli esseri umani a creare i diversi tipi di fa-
miglia.

La famiglia è una creazione sociale derivata dal gruppo madre/figli, che il matrimonio serve a ren-
dere stabile e duratura nel tempo. Il matrimonio definisce le condizioni in cui un uomo e una donna
possono intrattenere relazioni sessuali. Con il matrimonio l’unione tra un uomo e una donna diventa
tale che i figli di questa sono considerati prole legittima di entrambi i coniugi. Il matrimonio deter-
mina la trasmissione di beni e di status dai genitori ai figli e stabilisce privilegi e doveri legati a
queste condizioni. Il matrimonio contribuisce infine ad allargare i legami parentali dalla sfera dei
consanguinei a quella dei parenti affini, acquisiti dopo il matrimonio; dà vita pertanto a una paren-
tela sociale, che si aggiunge a quella biologica.

La poligamia

In molte culture del nostro pianeta è presente la poligamia, cioè il matrimonio di un coniuge con
più partner. Il fatto che sia possibile non significa che sia obbligatoria: nel Mali all’atto del matri-
monio lo sposo può scegliere l’opzione poligamica, ma solo con il consenso della moglie. La poli-
gamia si divide in poliginia (un marito e diverse mogli) e poliandria (una moglie e diversi mariti).
La poliginia è più diffusa, sia perché in tutte le società sono i maschi ad avere maggiori diritti, sia
perché, soprattutto nelle società di interesse antropologico, si riscontra spesso un numero di donne
superiore a quello degli uomini. La poliginia serve pertanto ad assicurare a ogni donna la possibilità
di sposarsi, ma soprattutto garantisce molti figli, importanti in contesti economici nei quali le risor-
se principali sono umane. Il numero elevato di figli, che spesso caratterizza le popolazioni dei paesi
in via di sviluppo, ha inoltre l'obiettivo di assicurare una vecchiaia sicura.

I rapporti tra co-mogli (le diverse mogli di uno stesso marito) sono spesso conflittuali e fonte di
tensione, come dimostra il termine usato tra le popolazioni del Ruanda per indicare una delle mogli,
che significa “gelosia”. A regolare tale potenziale distruttivo vige solitamente tra le co-mogli una
sorta di gerarchia basata sull’età. La moglie più anziana ha uno status superiore e così via a calare.
Presso i tanga del Benin settentrionale ogni moglie cucina a turni di due giorni per il marito e per le
altre co-mogli e in quelle notti il marito dorme con lei.
La poliandria è invece assai rara; un caso è quello dei toda dell’India meridionale, mentre nel Tibet
vige un matrimonio poliandrico delfico. In questo caso una donna sposa un uomo e tutti i suoi fra-
telli. Spesso tra i fratelli c’è una forte differenza di età e il più anziano domina gli altri come se fos-
se il padre, regolando così l’accesso sessuale alla moglie.

Esogamia, endogamia e levirato

La scelta del coniuge può essere condizionata da regole sociali. In alcuni casi vige l'obbligo o la
preferenza di sposare una donna del gruppo sociale o territoriale di appartenenza (lignaggio, casta,
clan, ecc.). Questa pratica viene definita endogamia (Si pensi al vecchio proverbio italiano “Moglie
e buoi dei paesi tuoi”). Uno degli esempi più evidenti di endogamia è rappresentato dalle caste in-
diane, nelle quali il principio dell’endogamia contribuisce a determinare, rafforzare e mantenere la
separazione tra i diversi livelli grarchici della società e a istituzionalizzare i concetti di impurità e
purezza.
L'esogamia, molto più diffusa, indica invece la preferenza nel contrarre matrimonio con donne
esterne al proprio gruppo. L'esogamia stempera o annulla la competizione che nascerebbe tra i gio-
vani se dovessero contendersi le ragazze del gruppo stesso. Inoltre sposare i ‘propri nemici’ è un si-
stema per creare nuove alleanze. L’esogamia, infine, garantisce un maggiore successo riproduttivo.
In certe società al matrimonio si lega il prezzo della sposa, una sorta di rimborso in denaro, beni o
lavoro, che lo sposo dà alla famiglia della sposa per ricompensarla della perdita. Il prezzo della spo-
sa spesso è legato alle sue capacità procreative. La dote, tipica delle società più ricche, consiste in-
vece in una serie di beni, status o denaro, data alla sposa dalla propria famiglia. Tale pratica è legata
al criterio di trasmissione dell’eredità. Per mantenere in vita l’alleanza nata dal matrimonio, presso
alcune popolazioni vige il levirato, una pratica che prevede che nel caso in cui una donna rimanga
vedova possa ‘risposarsi’ con il fratello del marito defunto o con un suo figlio. Tale pratica è adotta-
ta in alcune società a discendenza patrilineare: i nuer del Sudan, i lodagaa del Ghana, i beduini del-
l’Arabia, gli Ebrei. Un'estensione più marcata del levirato è il ‘matrimonio con un defunto’. In que-
sto caso, se un uomo muore prima di avere avuto la possibilità di sposarsi e di avere figli, un suo
fratello più giovane sposerà sua moglie o quella che gli era stata destinata in moglie. La donna tutta-
via sarà sempre considerata moglie del defunto (che magari non ha mai incontrato) e così i suoi fi-
gli. Parallelo all'istituzione del levirato, anche se meno diffuso, è il sororato, secondo il quale un
uomo rimasto vedovo ha l'obbligo di sposare una sorella della moglie defunta.
L'incesto

In quasi tutte le culture l’incesto è proibito o evitato. Sono ovunque proibite le relazioni sessuali
tra genitori diretti e figli, e quelli tra fratelli e sorelle. Esistono però delle eccezioni riguardanti le
famiglie reali: era permesso quello tra fratello e sorella presso i tolomei d’Egitto, gli inca, gli hawa-
iani, i nyoro dell’Uganda; quello tra gemelli di sesso opposto a Bali, ecc. L’estensione della proibi-
zione varia a seconda delle culture, e a volte include anche parenti acquisiti. La teoria secondo la
quale il tabù dell'incesto nasce dalla constatazione che l'incrocio tra consanguinei porterebbe a ri-
sultati genetici disastrosi non è convincente, perché gli effetti di una mutazione genetica sono ri-
scontrabili solo dopo una decina di migliaia di anni. Una spiegazione può venire dall'esame della
società primitiva. All’inizio gli esseri umani vivevano in gruppi parentali privi di struttura organiz-
zativa definita, detti orde. Nell’orda primordiale, i maschi più anziani dominavano e mantenevano il
controllo sulle donne, i giovani erano pertanto spinti fuori dal gruppo e si vedevano costretti a cer-
care altrove compagne con le quali accoppiarsi. Teniamo presente che la vita media si aggirava in-
torno ai 35 anni e la pubertà si raggiungeva non prima dei 15 anni: quando i maschi raggiungevano
la pubertà, le loro madri avevano già superato l’età fertile o erano già morte. Lo stesso valeva per i
rapporti tra fratelli e sorelle: quando un ragazzo raggiungeva la pubertà, era probabile che la sorella
maggiore fosse già stata “presa” da qualcuno più vecchio, quando la sorella minore avesse raggiun-
to la maturità, il fratello era probabilmente già accoppiato. Dunque l’incesto era praticamente im-
possibile. In seguito, con l'affermarsi di gruppi famigliari stabili, nacque l'esigenza di porre il tabù
dell'incesto per mantenere i vantaggi selettivi e sociali procurati dall'evitare gli incesti.

La residenza

Dopo il matrimonio, nella nostra società gli sposi abbandonano le case paterne per abitare in una
loro casa (modello residenziale neolocale). Presso comunità molto piccole può trovarsi un modello
di residenza detto bilocale, secondo cui i coniugi vivono alternativamente per un periodo presso il
gruppo dello sposo e per un altro presso quello della sposa. E’ il caso tipico delle società di caccia-
tori-raccoglitori, come, per esempio, i khoi-san del deserto del Kalahari (Africa australe) noti anche
come boscimani. Una necessità fondamentale per chi vive di caccia-raccolta infatti è la flessibilità,
in quanto le risorse sulle quali si basa la loro sussistenza sono estremamente mobili e spesso di lo-
calizzazione variabile. Nella maggior parte dei casi è però la sposa a trasferirsi presso il gruppo dei
parenti del marito (residenza virilocale). Quando è l'uomo a lasciare la propria famiglia per trasfe-
rirsi presso il gruppo dei parenti della moglie si parla di residenza uxorilocale. E’ il caso dei mun-
durucu dell’Amazzonia, dove gli uomini sono spesso assenti per spedizioni di caccia e sono le don-
ne a rimanere stabili nei villaggi e a dover mantenere le relazioni di cooperazione tra i diversi grup-
pi parentali.

La discendenza

Una funzione del matrimonio è quella di stabilire una linea di discendenza, lungo la quale verrà
trasmessa l'eredità dei genitori ai figli. Per discendenza si intende l’insieme delle regole che deter-
minano la gerarchia dei membri della famiglia, le norme dell’eredità, la trasmissione dei compiti e
delle funzioni. La discendenza indifferenziata (detta anche cognatica o bilaterale) è quella in cui
si tiene conto della parentela su entrambi i lati, come accade nelle nostre società. In molte società
del Terzo Mondo domina invece il tipo di discendenza unilineare. Se i diritti sociali, il rango, il
nome, la religione, i beni sono trasmessi attraverso i parenti paterni, vale a dire per via agnatica, la
società è patrilineare; nel caso siano trasmessi attraverso la madre, cioè per via uterina, la società
è matrilineare. Nel caso della discendenza matrilineare, beni e status non vengono ereditati dai fi-
gli direttamente dalla madre, poiché in quasi tutte le società sono i maschi a detenere le ricchezze,
ma dal maschio consanguineo più vicino alla madre (suo fratello o il suo zio materno).
Esistono alcuni gruppi in cui la discendenza è doppia o bilineare, nella quale alcuni diritti vengo-
no trasmessi per via materna e altri per via paterna, come avviene tra gli aborigeni australiani, o
presso gli ashanti del Ghana, che ereditano il proprio “sangue” dal clan materno e il loro “spirito”
dal clan paterno.

Clan e lignaggi

Negli studi antropologici si indica con il termine clan un gruppo di discendenza unilineare (patri-
clan o matriclan) costituito da un certo numero di famiglie che si riconoscono come discendenti di
un antenato o di una coppia di antenati comuni. I membri si richiamano talvolta ad un totem comu-
ne (animale o pianta) che si presume legato all’antenato. L'origine di un clan non è storica, ma sim-
bolica: i suoi antenati sono infatti spesso mitici. Con il trascorrere del tempo, i gruppi di discenden-
za si fanno più ampi, si perdono i contatti e si vengono a formare dei segmenti di clan, distanti tra
loro. Questi segmenti vengono definiti lignaggi, cioè gruppi di discendenza (patrilineare o matrili-
neare), i cui membri possono ricostruire le proprie relazioni di discendenza con precisione. Si tratta
pertanto di gruppi che generalmente non superano le 4-5 generazioni. In ordine inclusivo decre-
scente si possono distinguere, riguardo ai gruppi di parentela: l’etnia, la tribù, il clan, il lignaggio,
la famiglia, la coppia di coniugi.
Parentela e matrimonio

Struttura delle relazioni parentali -> grammatica di una società

legame di filiazione (madre-figlio) + legame di coppia (uomo-donna) -> paternità.

uomo donna matrimonio fratello/sorella discendenza


affinità consanguineità filiazione

nucleare -> completa o monogenitore senza struttura coniugale


famiglia allargata -> genitori e figli, zii, nonni,cugini (fratelli/sorelle non sposati)
multipla -> orizzontale > 2 o + fratelli con mogli e figli /verticale > coppia + figlio con
complessa -> a domino (coppia+ figli di diversi matrimoni) / multietnica (coniuge

stabile nel tempo sostituzione dei membri /ricambio generazionale


formato da individui legati da regolazione del comportamento sessuale
gruppo ascendenza comune/matrimonio/adozione tabù dell’incesto
assunzione della responsabilità della prole > socializzazione, cura e protezione
unità economica > collocazione sociale

gerarchia dei membri della famiglia diritti sociali


discendenza regole norme dell’eredità rango nome
trasmissione dei compiti e delle funzioni religione

indifferenziata (cognatica o bilaterale) parentela su entrambi i lati (nostre società)

patrilineare parenti paterni via agnatica


discendenza unilineare beni e status ereditati
matrilineare madre via uterina dal maschio consanguineo
+ vicino alla madre (zio/frat)

bilineare o doppia alcuni diritti trasmessi per via materna e altri per via paterna
aborigeni australiani ashanti (Ghana)

“sangue” clan materno “spirito” clan paterno


LA FAMIGLIA

stabile nel tempo sostituzione dei membri


ricambio generazionale
formato da individui legati da
ascendenza comune / matrimonio / adozione regolamentazione del tabù
gruppo comportamento sessuale dellʼ incesto
assunzione della responsabilità
della prole socializzazione, cura e protezione

unità economica collocazione sociale

modelli familiari

forme di partner
matrimonio preferenziale

monogamico esogamia (esterno al gruppo)


poligamico endogamia (interno al gruppo)

poliandria poliginia

modelii di modelli modelli di


residenza di autorità discendenza

patrilocale patriarcale patrilineare


matrilocale matriarcale matrilineare
neolocale ugualitario bilaterale

FORME DI FAMIGLIA

completa (marito - moglie - figli)


nucleare
incompleta (un coniuge vedovo/ divorziato - figli)

di una sola persona


senza struttura coniugale (fratelli / sorelle non sposati)
coppie omossessuali stabili

“a domino” (coppia + figli di diversi matrimoni)

orizzontale (due o + fratelli con mogli e figli)


famiglie multipla
complesse verticale (coppia + figlio/a con coniuge)

multiculturali / multietniche

estesa (coppia + parenti conviventi)


Poligamia > matrimonio di un coniuge con più partner

poliginia marito + diverse mogli poliandria moglie + diversi mariti


+ diffusa -> maschi con maggiori diritti + rara -> toda India merid.
donne in numero superiore risp. uomini Tibet: matrimonio poliandrico delfico:
garantisce molti figli la donna sposa un uomo e i suoi fratelli
rapporti conflittuali tra co-mogli:
gerarchia basata sull’età Ruanda: “moglie” sinonimo di “gelosia”

tanga (Benin): ogni moglie cucina a turno, per il marito e le co-mogli, in quelle notti il marito dorme con lei.
Mali: lo sposo può scegliere l’opzione poligamica, ma solo con il consenso della moglie.

endogamia -> partner del proprio gruppo sociale “Moglie e buoi dei paesi tuoi”
(lignaggio, casta, clan) caste indiane
separazione tra i diversi
obbligo o preferenza di sposare livelli gerarchici della società

esogamia -> partner esterni al proprio gruppo sposare i ‘propri nemici’ > nuove alleanze
maggiore successo riproduttivo

prezzo della sposa capacità procreative


rimborso in denaro, beni o lavoro della moglie

dote (società più ricche) beni o denaro dati alla sposa dalla propria famiglia
trasmissione dell’eredità

levirato > la vedova può risposarsi con il fratello del marito defunto o con un suo figlio
società a discendenza patrilineare:
nuer (Sudan) lodagaa (Ghana) beduini (Arabia) Ebrei

sororato > il vedovo ha l'obbligo di sposare una sorella della moglie defunta
vedda (Sri Lanka) fuegini (Terra del Fuoco) Africa nera

neolocale > gli sposi abbandonano le case paterne per abitare in una loro casa

modelli di bilocale > gli sposi alternano la residenza gruppo dello sposo / della sposa
residenza cacciatori-raccoglitori: khoi-san, deserto del Kalahari (Africa)
virilocale > la sposa si trasferisce presso il gruppo dei parenti del marito

uxorilocale > lo sposo si trasferisce presso il gruppo dei parenti della moglie
mundurucu (Amazzonia): uomini cacciatori / donne stabili nei villaggi
Incesto

rapporto sessuale tra due persone fra le quali in quasi tutte le culture l’incesto è proibito o evitato
esistano determinati vincoli di consanguineità relazioni sessuali genitori diretti/figli fratelli/sorelle

eccezioni riguardanti le famiglie reali tabù (interdizione “sacra e proibita”)

fratello/sorella presso i tolomei (Egitto), la proibizione varia a seconda delle culture


gli inca, gli hawaiani, i nyoro (Uganda) può includere anche parenti acquisiti
gemelli di sesso opposto a Bali, ecc.
risultati genetici disastrosi dell’incrocio tra consanguinei
origine del tabù dell’incesto spiegazione ‘scientifica’ non del tutto convincente:
regola del- effetti di una mutazione genetica riscontrabili
l’esogamia talvolta dopo migliaia di anni

Una spiegazione dell’origine del tabù dell’incesto può venire dall'esame della società primitiva. All’inizio gli esseri umani vivevano
in gruppi parentali privi di struttura organizzativa definita, detti orde. Nell’orda primordiale, i maschi più anziani dominavano e
mantenevano il controllo sulle donne, i giovani erano pertanto spinti fuori dal gruppo e si vedevano costretti a cercare altrove com-
pagne con le quali accoppiarsi. La vita media si aggirava intorno ai 35 anni e la pubertà si raggiungeva non prima dei 15 anni: quan-
do i maschi raggiungevano la pubertà, le loro madri avevano già superato l’età fertile o erano già morte. Lo stesso valeva per i rap-
porti tra fratelli e sorelle: quando un ragazzo raggiungeva la pubertà, era probabile che la sorella maggiore fosse già stata “presa” da
qualcuno più vecchio, quando la sorella minore avesse raggiunto la maturità, il fratello era probabilmente già accoppiato.
Dunque l’incesto era praticamente impossibile. In seguito, con l'affermarsi di gruppi famigliari stabili, nacque l'esigenza di porre il
tabù dell'incesto per mantenere i vantaggi selettivi e sociali procurati dall'evitare gli incesti.

Clan e lignaggi

clan > gruppo di discendenza unilineare (patri-clan o matriclan) totem comune (animale o pianta)
famiglie che si riconoscono come discendenti di un antenato origine simbolica vs storica
o di una coppia di antenati comuni. antenati mitici

con il trascorrere del tempo, i gruppi di discendenza si fanno più ampi,


si perdono i contatti, si vengono a formare dei segmenti di clan, distanti tra loro:

lignaggi > gruppi di discendenza (patrilineare o matrilineare) ordine inclusivo decrescente


relazioni di discendenza ricostruibili con precisione dei gruppi di parentela:
generalmente non superano le 4-5 generazioni. etnia > tribù > clan > lignaggio
> famiglia > coppia di coniugi
Le parole dell'antropologia
caccia-raccolta: economia basata sullo sfrut-
agricoltura: modello di produzione basato tamento delle risorse naturali, raccogliendo
sullo sfruttamento di piante domesticate. Si bacche, frutti, piante (le donne) e cacciando
definisce coltivazione, quando è praticata con (gli uomini).
zappe e mezzi simìli; agricoltura, quando si capo: individuo che ad esempio in una tribù
utilizza l'aratro. detiene una funzione di comando e che pos-
allevamento: pratica economica basata sullo siede determinate prerogative e privilegi.
sfruttamento di animali domesticati. Si defi- casta: gruppo ordinato su base gerarchica a
nisce allevamento una pratica stanziale, men- cui si appartiene per nascita e non per affilia-
tre per pastorizia si intende una forma di al- zione.
levamento che prevede lo spostamento sta- circoncisione: pratica di modificazione geni-
gionale dei capi di bestiame. tale maschile che consiste nella rimozione del
ambienti antropizzati: ambiente prodotto di prepuzio. A seconda del contesto può signifi-
una lunga azione dell'uomo. care l'appartenenza religiosa o il passaggio al-
animismo: termine usato per indicare un va- l'età adulta.
sto insieme di religioni tradizionali non isti- clan: gruppo di discendenza i cui membri fan-
tuzionalizzate. no risalire la loro discendenza a un comune
antropologia marxista: prospettiva antro- antenato mitico.
pologica che cerca di individuare modi di commercio: pratica economica che prevede
produzione diversi da quello capitalista e di lo scambio di beni o servizi con l'interme-
studiare le questioni legate alla stratificazione diazione del denaro.
sociale, all'interrelazione tra modello econo- comparazione: metodo antropologico che
mico e struttura sociale, nonché ai rapporti tra consiste nel confronto tra diverse culture al
colonizzati e colonizzatori. fine di riscontrare elementi di similitudine o
antropopoiesi: secondo l'antropologo France- di differenza.
sco Remotti è quell'insieme di pratiche che le cultura: lnsieme di saperi, pratiche, tradizioni
società mettono in atto per rendere più umano condivisi da un gruppo umano, che vengono
il corpo, per costruire l'uomo secondo i propri trasmessi di generazione in generazione, ma
criteri di umanità. sempre suscettibili di cambiamenti e prestiti
aree culturali: aree geografiche abitate da da altre culture in seguito a incontri, scontri,
gruppi umani, che condividono tratti culturali migrazioni.
comuni. dialetti: sono dialetti le parlate non ufficial-
arte immateriale: l'insieme di forme espres- mente riconosciute da uno stato, ma non per
sive non plastiche, come danza, musica, poe- questo inferiori a una lingua.
sia, canto ecc. diffusionismo: prospettiva antropologica se-
arte materiale: l'insieme di forme espressive condo cui le diverse culture venivano irradiate
plastiche, come scultura, pittura ecc. da centri particolarmente importantì e si dif-
artigianato: attività di trasformazione con- fondevano alle società periferiche.
dotta con mezzi manuali e su piccola scala. discendenza bilineare: trasmissione di beni e
banda: la banda è la forma tipica di organiz- status per cui i figli ereditano da entrambi i
zazione di popolazioni di cacciatori-racco- genitori.
glitori, di piccole dimensioni (meno di cin- discendenza matrilineare: trasmissione di
quanta membri), con base fortemente egua- beni e status per cui i figli ereditano esclusi-
litaria. vamente per via materna. Poiché quasi sempre
baratto: forma dì scambio di beni o servizi sono gli uomini a detenere i beni, i figli della
senza la mediazione del denaro. Gli attori del donna erediteranno da suo fratello, lo zio ma-
baratto stabìliscono insieme il valore deì beni terno.
in oggetto.
discendenza patrilineare: trasmissione di be- evolutiva, che le avrebbe condotte ìnfine al
ni e status per cui i figli ereditano esclusiva- modello occidentale.
mente per via paterna. famiglia: insieme di parenti stretti, che vivo-
discendenza unilineare: trasmissione di beni no insieme. Si parla di famiglia nucleare,
e status per cui i figli ereditano o per via pa- quando è formata da genitori e figli; di fami-
terna o pervia materna. glia allargata quando oltre al nucleo, convivo-
domesticazione: selezione progressiva prati- no altri parenti (nonni, zii, cugini ecc. ).
cata dall'uomo su piante e animali fino a fatto sociale totale: aspetto particolare di una
renderli più produttivi e assoggettati all'uomo. cultura che è in relazione con tutti gli altri
La domesticazione non riguarda una sola aspetti di quella stessa cultura e attraverso il
pianta o un solo animale, ma le intere specie. quale è possibile leggere per estensione le di-
dote: beni o denaro che la sposa reca con sé al verse componenti di una società.
momento del matrimonio. feticcio: oggetto che materializza in sé la divi-
ecologia culturale: prospettiva antropologica nità e che funge da intermediario tra questa e
che pone l'accento sul rapporto tra le popola- gli uomini.
zioni e l'ambiente in cui vivono, analizzando- funzionalismo: prospettiva antropologica che
ne prevalentemente gli aspetti relativi all'adat- supponeva le società come un organismo in
tamento e all'economia. cui le diverse funzioni (economia, politica.
emico: il punto di vista di chi fa parte della religione ecc.) contribuiscono a mantenere
società in oggetto e che percepisce gli stessi l'equilibrio.
fatti con una prospettiva interna. genere: termine introdotto dalla critica fem-
endogamia: pratica matrimoniale in cui si minista per indicare il ruolo sociale attribuito
privilegìa il matrimonio con un partner in- a un individuo in quanto uomo o donna in una
terno al gruppo. determinata società.
esogamia: pratica matrimoniale in cui si pri- gerontocrazia: nelle società dove sono pre-
vilegia il matrimonio con un partner esterno al senti sistemi di classi d'età è il governo degli
gruppo. anziani, in cui gli anziani detengono il potere.
età anagrafica: nella nostra società l'età ana- gruppi di discendenza: gruppi basati sulla
grafica è la differenza tra l'anno corrente e il relazione di affiliazione: si definiscono a par-
nostro anno di nascita. È un dato che serve tire da un capostipite, che è l'antenato comu-
soprattutto a fini burocratici. ne. Si distinguono in gruppi a discendenza
età sociale: età che nasce dal legame tra l'età bilaterale o cognatica e a discendenza unili-
anagrafica e un determinato valore che ogni neare (patrilineare o patrilineare).
società attribuisce a quell'età. È la percezione gusto artistico: criteri artistici culturalmente
sociale dell'età anagrafica di un indivìduo in definiti e quindi variabili nel tempo.
una determinata società. gusto sociale: formulata da Pierre Bourdieu e
etico: il punto di vista dell'osservatore ester- Marvin Harris, questa espressione indica il
no, che spesso è altro rispetto alla comunità fatto che le esperienze percettive e gustative
che studia. sono influenzate dal contesto socioculturale di
etnocentrismo: atteggiamento opposto al re- riferimento. Pìù in generale si riferisce all'al-
lativismo, che prende come unico punto di ternarsi delle mode che secondo Bourdieu so-
riferimento e come metro di giudizio la pro- no dettate dalla classe dominante.
pria cultura. identità: l’identità è un dato relazionale, che
etnografia: pratica di raccolta e di registra- si costituisce e si negozia continuamente sulla
zione dei dati sulla base dell'osservazione base degli altri, del diverso. Noi siamo ciò che
partecipante. gli altri non sono, ma dobbiamo essere consci
evoluzionismo sociale o unilineare: pro- che ciò che crediamo di essere spesso è il frut-
spettiva antropologica sviluppatasi tra fine to di una scelta e non di un dato assoluto.
Ottocento e inizio Novecento, che conside- incesto: rapporto sessuale tra due persone fra
rava le diverse società poste su una scala le quali esistano determinati vincoli di con-
sanguineità.
infibulazione: nota anche come circoncisione nati, classificati, conservati ed esposti gli og-
faraonica o sudanese, è una forma di modifi- getti etnografici raccolti in varie parti del
cazione genitale femminile che comporta mondo.
l'asportazione del clitoride, delle piccole lab- neoevoluzionismo: prospettiva antropologica
bra, di parte delle grandi labbra vaginali con che riprende le teorie evoluzioniste, ma
cauterizzazione, a cui segue la cucitura della affermando che i modelli di evoluzione sono
vulva, lasciando aperto solo un foro per per- molti e non esiste una sola linea evolutiva.
mettere la fuoriuscita dell'urina e del sangue nomadismo: pratica pastorale, che prevede il
mestruale. Tale pratica è stata condannata continuo spostamento degli armenti in cerca
dall'OMS come la forma più grave di mutila- di pascoli favorevoli.
zione genitale femminile. nonluoghi: luoghi privi di connotazione cul-
interpretativismo: prospettiva antropologica turale che si ritrovano uguali in ogni parte del
che ritiene ogni cultura come un sistema a sé, mondo, ad esempio le stazioni del metrò, gli
che va studiato secondo i riferimenti simbolici aeroporti ecc.
di quella cultura e che non può essere compa- oggetto etnografico: oggetto esotico, raccolto
rato con altri sistemi. durante viaggi o esplorazioni in giro per il
lignaggio: gruppo di discendenza i cui mem- mondo, successivamente esposto in un museo.
bri fanno risalire la loro discendenza a un co- Un oggetto etnografico diventa opera d'arte
mune antenato storicamente definito. solo attraverso lo sguardo dell'osservatore oc-
lingua: un insieme organizzato di suoni, che cidentale; e il valore di un'opera d'arte si basa,
acquisiscono un significato dato loro dagli secondo il nostro criterio, sull'utilizzo di cate-
uomini che l'hanno codificato. Lo status di gorie predeterminate culturalmente.
lingua è connesso al riconoscimento ufficiale osservazione partecipante: pratica che pre-
di uno stato. vede un lungo soggiorno sul terreno, durante
linguaggio: sistema dì codici tale da permet- il quale l'antropologo conduce interviste, os-
tere a due o più esseri viventi di comunicare serva il comportamento dei locali e condivide
tra loro e di trasmettersi informazioni. con loro gran parte della loro esistenza.
materialismo culturale: prospettiva antro- parentela: sistema di relazioni tra individui
pologica teorizzata da Marvin Harris, che ri- legati fra di loro da vincoli di discendenza e
cerca leggi universali, basandosi sul presup- da vincoli matrimoniali.
posto che gli esseri umani agiscano sempre parenti affini: parenti acquisiti dopo il matri-
sulla base di un calcolo costi/benefici. monio (cognato, genero, nuora ecc.).
matrimonio: definisce le condizioni in cui un parenti collaterali: parenti legati da vincoli
uomo e una donna possono intrattenere rela- di discendenza (genitori, nonni, zii, fratelli).
zioni sessuali e la gestione dei loro beni, rego- poliandria: pratica che prevede il matrimonio
la il processo di allevamento dei figli e stabi- di una donna con più uomini.
lisce privilegi e doveri, serve a trasmettere al- poligamia: pratica che prevede il matrimonio
la prole uno status sociale e a determinare un con più partner.
legame socialmente significativo tra i gruppi poliginia: pratica che prevede il matrimonio
domestici del marito e della moglie. dì un uomo con più donne.
migrazioni: spostamenti da un luogo a un al- polimorfismi: differenze di carattere somati-
tro, in genere con carattere permanente, di una co, indicatìve del luogo di provenienza di un
popolazione o di un gruppo di uomini in cerca individuo, prodotte da lenti e complessi pro-
di nuove risorse per sopravvivere. cessi di adattamento dei diversi gruppi umani
mito: racconto dell'origine di cui non si cono- alle diverse condizioni ambientali.
sce l'autore, che narra come un gruppo o una politeisti: fedeli di religioni che contemplano
popolazione è venuta al mondo. più divinità.
monoteisti: fedeli di religioni che contempla- postmodernismo: prospettiva antropologica
no una sola divinità. in cui rapporti tra osservatori e osservati ven-
museo etnografico: nato nella prima metà gono messi in discussione, si analizzano i pro-
dell'Ottocento, è il luogo in cui vengono radu- cessi di scrittura, le retoriche descrittive, por-
tando l'antropologia su un terreno sempre più scambio di mercato: forma di scambio in cui
prossimo alla letteratura e trasformando l'ana- il valore dei beni scambiati è determinato dal-
lisi antropologica in una critica culturale sem- la legge della domanda e dell'offerta.
pre più rivolta alla nostra società. scarificazione: incisione sulla pelle a scopo
prezzo della sposa (o ricchezza della sposa): terapeutico o decorativo, spesso associata ai
beni o denaro che la famiglia dello sposo do- riti di iniziazione.
na a quella della sposa, per compensare la sciamano: specialista rituale, tipico delle po-
perdita di una donna e pertanto le sue capacità polazioni siberiane e dei nativi americani, do-
lavorative. tato di poteri particolari, il quale, attraverso la
razza: concetto sviluppato nel XVIII secolo: trance, spesso indotta dal ritmo di tamburi,
prevede la classificazione dell'umanità in riesce a entrare in contatto con le entità so-
gruppi, o razze, formati da individui che pre- vrannaturali.
sentano una serie di tratti somatici e fisici di- scrittura: pratica finalizzata a riportare l'ora-
stintivi. Nel corso del Novecento questa clas- lità su un supporto materiale. Esistono nume-
sificazione è risultata infondata dal punto di rosi tipi di scritture, basate su logiche diverse.
vista scientifico. La scrittura fu alla base della nascita degli sta-
razzismo: dottrina che si basa sul concetto di ti.
razza, che attribuisce a ogni razza determinate Scuola di Manchester: corrente di pensiero
caratteristiche fisiche, culturali e morali, iden- che tendeva a considerare le società come
tificando in quella di appartenenza un mag- meccanismi in continuo movimento e segnate
giore livello di evoìuzione rispetto alle altre. da perenni conflitti interni, che ne determina-
reciprocità: scambio tra due o più soggetti no i mutamenti.
alla pari. selezione naturale: teorizzato da Darwin nel
redistribuzione: pratica economica che pre- XIX secolo, è il processo attraverso cui la
vede un'autorità centrale, che raccoglie i con- natura selezìona gli organismi animali e vege-
tributi della popolazione e li ridistribuisce in tali più adatti all'ambiente in cui vivono. È il
forma di beni o servizi. meccanismo alla base dell'evoluzione delle
relativismo culturale: atteggiamento secondo specie.
il quale ogni espressione culturale deve essere sesso: legato all'anatomia, il sesso indica la
spiegata all'interno del quadro simbolico della differenza biologica alla base della distinzione
società che la produce. tra maschi e femmine. È un dato naturale e
religioni: sistemi di credenze più o meno isti- immutabile, se non con specifiche operazioni
tuzionalizzati, che prevedono l'esistenza di chirurgiche.
entità sovrannaturali e sovraumane. sfere di scambio: modello di scambio in cui i
riti di passaggio: espressione coniata da Van beni sono raggruppati in ‘sfere’ secondo il va-
Gennep nel 1909, indica i rituali che accom- lore morale cha la popolazione attribuisce a
pagnano le transizioni attraverso i diversi sta- essi. Tali beni possono solo essere scambiati
tus che segnano la vita di ogni individuo, co- con beni appartenenti alla stessa sfera.
me la nascita, il passaggio all'età adulta, la sistema di classi d'età: è un'istituzione cultu-
morte. rale e politica che mette in relazione età bio-
rito: pratica ripetitiva e collettiva, che serve a logica ed età sociale. I sistemi di classi d'età
rappresentare, a mettere in scena una pratica determinano un ordine sociale, creando cate-
legata alla religione o al potere, al fine di ren- gorie basate sull'età e sulla generazione.
derla visibile. società egualitarie: società in cui le decisioni
rituali: comportamenti simbolici, sociali, ri- non vengono prese da un capo, ma per lo più
petitivi e standardizzati che vengono praticati dal consiglio degli uomini, all'interno del qua-
in occasioni cerimoniali distinte dalla vita le il più anziano del gruppo esprime solita-
quotidiana. Possono avere numerosi signifi- mente una posizione di autorevolezza.
cati, sia laici sia religiosi. strutturalismo: prospettiva antropologica che
si pone come obiettivo di dimostrare l'unità
psichica del genere umano attraverso
l'individuazione di categorie universali della necessariamente parenti tra di loro. È un'orga-
mente. Le diversità culturali sarebbero, per gli nizzazione caratteristica di popolazioni di
strutturalisti, delle varianti di temi costanti, agricoltori e allevatori, e può essere guidata
ìnsiti nella struttura psichica umana. da un capo.
superorganica: definizione adottata dal so- visione olistica: visione totalizzante che tiene
ciologo francese Émile Durkheim per definire conto di vari elementi dì una società, di una
la cultura come realtà che sta al di sopra delle cultura, per poter analizzare anche uno solo di
individualità umane. essi.
surmodernità: evoluzione ulteriore rispetto
alla modernità: accelerazione della storia in
cui la rapidità ha annullato le distanze e per-
tanto il tempo prevale sullo spazio.
tabu alimentari: indicano gli alimenti che
non possono essere mangiati da determinati
gruppi, perché considerati impuri o perché
associati al totem del clan.
tatuaggio: pratica nata in Polinesia. Segno
indelebile e ornamentale sul corpo che può
trasmettere informazioni sullo status sociale,
gruppo etnico, genere ecc.
tempo ciclico: concezione del tempo che si
basa sulla ripetitività e circolarità degli eventi,
come per esempio lo scorrere delle stagioni o
il ciclo lunare. È caratterizzata da un'assenza
di direzionalità nel processo storico.
tempo lineare: concezione del tempo che si
basa sull'idea di progressione e che fornisce
quindi il senso del fluire del tempo e della sto-
ria.
thick description: definizione coniata da
Clifford Geertz per indicare una pratica etno-
grafica che non si limiti alla mera descrizione
dei fatti, ma che contenga già in sé l'interpre-
tazione di quei fatti.
totem: animale o personaggio simbolico che
rappresenta gli antenati mitici di un clan.
tradizione: l'insieme delle pratiche che una
popolazione ritiene fondate su un passato co-
mune. Secondo Hobsbawm e Ranger questo
passato può essere inventato o rielaborato a
partire dal presente attraverso un processo di
‘filiazione inversa’.
tradizione orale: processo di trasmissione
verbale intergenerazionale di conoscenze e
pratiche culturali di una determinata popola-
zione.
transumanza: pratica pastorale che prevede
lo spostamento dei capi di bestiame tra due
punti stabiliti.
tribù: la tribù è un insieme più grande della
banda, che comprende individui che non sono
STORIA DELLA
PEDAGOGIA
La scoperta dell’infanzia
Nel XII secolo vi fu una ripresa dei traffici e dei commerci, le città si ripopolarono, lo svi-
luppo demografico segnò un incremento notevole. Una tale rinascita indusse uno sviluppo
corrispettivo delle istituzioni scolastiche e diede origine alla nascita delle Università; i vari
contesti cittadini circostanti alle università dovevano accogliere un gran numero di studen-
ti. Vi erano anche molti studenti poveri. Dapprima furono creati ospizi appositi per dare
loro vitto e alloggio tramite delle specie di borse di studio. Nacquero così i primi collegi nei
quali i borsisti più anziani davano lezioni ai ragazzi più giovani, e le famiglie presero presto
l’abitudine di mandarvi i figli a studiare. Si costituirono così altri collegi come luogo di in-
segnamento interno, in forma prima di esternato e poi di internato. Si stabilì una disciplina
specifica per gli scolari, si pose fine alla promiscuità medioevale data dalla compresenza di
bambini ed adulti nella stessa scuola, si percepì in modo più preciso l’età infantile rispetto a
quella adolescenziale, si pensò ad una graduazione nella presentazione dei programmi e dei
contenuti, eliminando il tipico carattere medioevale di una simultaneità senza progressione
alcuna dello studio di tutte le discipline, fissando contemporaneamente i criteri di composi-
zione delle varie classi scolastiche per fasce di età.
Philippe Ariès (Padri e figli nell’Europa medievale e moderna,1960) sottolinea a que-
sto proposito che ci si sta avviando verso una prima scoperta dell’infanzia: «Il passaggio
dalla scuola libera del Medioevo al collegio regolamentato del quattrocento è l’inizio di un
movimento parallelo nel mondo dei sentimenti: esprime un atteggiamento nuovo che si
manifesta davanti all’infanzia e alla gioventù». Verso il ‘300 e il ‘400, infatti, cominciano a
manifestarsi segnali di attenzione e di considerazione verso i bambini e gli adolescenti, visti
nella loro condizione specifica diversa da quella adulta. Ariès mette in luce come la stessa
ritrattistica, che nell’alto medioevo raffigurava i bambini come dei piccoli adulti, soltanto
più bassi di statura, inizia a raffigurare soggetti con tratti infantili, a dare sempre più posto
alla comparsa di fanciulli nei ritratti di famiglia, nelle iscrizioni funerarie e nei quadri comme-
morativi. Sulla stessa linea di riconoscimento dell’infanzia, nel ‘500 e nel ‘600 si comince-
ranno a creare, presso i ceti alti, vestiti particolari per i bambini, diversi da quelli degli adulti.
Qualcosa di simile accade per certi giochi, e persino giocattoli, che vengono riservati sola-
mente ai bambini. Insomma, si inizierà lentamente a separare il bambino dall’adulto, a la-
sciargli attraversare alcune fasi di transizione prima di ‘mescolarlo’ del tutto alla società dei
grandi. Nel Medioevo, invece, il bambino, già a partire dai sei-sette anni, quando non aveva
più bisogno di essere accudito costantemente, veniva considerato del tutto un uomo adul-
to.In un primo tempo questa attenzione nascente per l’infanzia fu concepita nei termini del
divertimento che essa poteva procurare agli adulti. Il bambino cioè era occasione di scher-
zo e veniva trattato come una specie di giocattolo per adulti. Successivamente, pensatori e
moralisti spinsero a considerare il bambino come un essere fragile, debole e innocente, biso-
gnoso di essere protetto e aiutato a crescere, nell’ambito di una coscienza morale che si va
sviluppando secondo i principi del cristianesimo. Questa esigenza di moralità si afferma an-
che nei collegi, che introducono una disciplina più rigida, volta addirittura acontrollare ed
organizzare tutti i momenti e tutti gli atti della vita del giovane. Essa culminerà nella disci-
plina perfetta dei Gesuiti.
La famiglia medioevale era di grandi dimensioni, allargata da una parte a parenti non pros-
simi, aperta dall’altra a un contesto generale in cui tutto veniva fatto in comune. Si impone-
va una vita di relazione continua e serrata, spesso segnata da occasioni di feste, da ban-
chetti e cerimonie. Come sottolinea sempre Ariès, la vita familiare era dominata dal tratto di
una costante socievolezza. Questo impediva quel ripiegamento all’interno della vita fami-
liare che andrà invece sviluppandosi nei secoli successivi, facendo nascere così, con il
sentimento stesso del’infanzia, quello dell’intimità e della privatezza, culminante poi nel
modello della famiglia borghese del ‘700 e dell’ ‘800: dalla vita quasi sempre pubblica,
tipica della famiglia medievale allargata, finalizzata all’apprendimento di valori e di condot-
te adeguate all’integrazione in un grande gruppo, si passa ad una ‘educazione intenziona-
le’, una scelta di istruzione rivolta allo scopo di sviluppare nel giovane le sue capacità e le
sue attitudini.
UMANESIMO E RINASCIMENTO

Con il termine rinascimento si indica il complesso movimento artistico-culturale e di costume che


segna il passaggio dal Medio Evo all’Età moderna. L’umanesimo, la prima fase quattrocentesca e ita-
liana del periodo rinascimentale, rappresenta un aspetto importante di questo movimento: l’aspetto
filologico-letterario, caratterizzato dal rifiorire degli studi della lingua e della cultura classica, cioè
delle Humanae litterae. In realtà, circa i rapporti fra Medio Evo, Umanesimo e Rinascimento e la lo-
ro reciproca periodizzazione non vi è concordanza di opinioni: il dibattito storiografico tra ‘800 e
‘900 ha mostrato come tra medioevo e rinascimento vi sia frattura, ma anche continuità.
É comunque importante sottolineare che è il rapporto con i classici l’elemento centrale che defini-
sce l’Umanesimo e il Rinascimento in campo culturale. Centro del pensiero umanistico è la teoria del
primato della volontà e della dignità, cioè dell’azione volontaria come fondamento della libertà uma-
na. Così le humanae litterae e gli studia humanitatis consentono l’elevazione dell’umanità alla pro-
pria perfezione e formano l’uomo completo. Le stesse arti liberali vengono considerate non tanto
come proprie dell’uomo libero, ma come “liberatrici” dell’uomo.

LA PEDAGOGIA DELL’UMANESIMO

La centralità dell’uomo valorizzata dall’Umanesimo dà origine ad un nuovo modello antropologico,


connesso anche ad un nuovo modello sociale. La riscoperta del valore dell’individuo e l’esaltazione
della sua capacità di forgiare il proprio destino (homo faber ipsius fortunae) e di mutare il mondo,
pone in luce la necessità di una più attenta considerazione del suo ruolo nel processo formativo.
L’individuo deve essere riconosciuto nella sua unicità: da questo imperativo nasce l’attenzione alle
modalità di apprendimento, alla motivazione, agli interessi che diversificano enormemente i progetti
educativi, introducendo criteri come la gradualità, l’aderenza alla psicologia dell’alunno, lo stimolo
positivo. Ma dallo stesso imperativo nasce anche il riconoscimento della specificità del bambino:
non più piccolo adulto, ma qualitativamente diverso dall’adulto, con uno sviluppo che può differen-
ziarsi in fasi interne: l’elaborazione dei secoli successivi non farà che estendere i principi educativi
elaborati per pochi alla totalità dei soggetti da educare.
La nuova visione educativa deve però provare la propria validità, sia nei confronti del modello
medioevale, sia rispetto alle nuove esigenze sociali: occorre nuovamente affrontare il problema del
rapporto tra cultura pagana e spiritualità cristiana, ma anche chiedersi, nel contrasto con la società
del tempo caratterizzata sempre più dallo sviluppo della scienza, della tecnica e della specializza-
zione, se la cultura classica costituisca ancora un fattore formativo e come si possa risolvere il con-
trasto tra formazione retorico-letteraria e scietifico-matematica. Tende dunque a determinarsi anche
un contrasto tra il modello di uomo cui si ispira l’educazione umanistica e le esigenze di vita pratica
che si impongono sempre più nella nuova società umanistico-rinascimentale.

I trattati, le scuole e i programmi


Di pari passo con le trasformazioni avvenute in campo socio-politico, si modificano anche le strut-
ture scolastiche, i metodi di insegnamento, i rapporti tra le varie discipline e i libri di testo.
Autori come Paolo Vergerio, Maffeo Vegio, Guarino da Verona, Matteo Palmieri, Leon Battista
Alberti sono al centro di una vasta produzione trattatistica che affronta concretamente i problemi
del curriculum educativo. Destinatari di questa educazione sono anzitutto principi e aristocratici,
ma anche, più estesamente, i “cittadini” dello Stato rinascimentale.
Se nel corso del ‘400 prevale la tendenza a trattare della formazione dell’“uomo” in generale, nel
corso del ‘500 prevarranno invece - con autori come Machiavelli, Castiglione, Firenzuola - le disser-
tazioni sulla formazione del “tipo” umano particolare (il principe, il cortegiano, la donna, ecc).
Tra la molteplicità degli indirizzi educativi e la varietà di proposte, è possibile individuare alcuni
tratti comuni:

1) l’educazione mira alla formazione di un uomo completo, le cui virtualità e le cui molteplici atti-
tudini intellettuali, fisiche, tecniche vanno sviluppate armonicamente, nessuna esclusa. Sotto questo
punto di vista, la cultura generale è esattamente agli antipodi dell’enciclopedismo erudito. Lo stu-
dio delle lingue classiche risponde sia all’esigenza di comprendere e di assimilare meglio i valori del-
l’antichità sia allo scopo di adottare uno strumento più valido del volgare per poter discutere intor-
no a vari argomenti e socializzare la propria formazione;

(2) scegliere una sola via, sia pure allo scopo di giungere per essa alla perfezione in un singolo cam-
po, sarebbe, per l’umanista, come sottoporsi ad una mutilazione: l’educazione umanistica è contra-
ria alla specializzazione ed all’orientamento tecnico precoce;

(3) il modello dell’uomo che l’educazione umanistica aspira a creare è l’oratore dell’età ellenistico-
romana. Ancora una volta è l’ideale di Isocrate e Quintiliano che prevale contro quello, filosofico-
matematico, di Platone. Viene ribadito il primato della parola e dell’educazione estetico-letteraria:
la massima importanza viene assegnata, a fini formativi, agli studia humanitatis. Lo studio delle let-
tere riporta ai valori eterni, mentre gli studi di carattere tecnico si richiamano a valori transitori.
Il contatto con il mondo classico è più intenso e approfondito, grazie a una più ampia disponibilità
di testi e alla filologia per un approccio diretto con l’autore del passato. Guarino da Verona è il pri-
mo studioso a trasformare le arti del trivio in un solido organismo di cultura liberale, impostando co-
sì un curriculum di studi di stampo “classico”, che influenzerà la moderna istruzione classica;

4) il latino, considerato dagli umanisti uno strumento di espressione incomparabilmente più perfet-
to del volgare, viene studiato come “lingua viva” con riferimento a opere precise. Lo studio della
grammatica viene collegato allo studio dei testi e dei grammatici antichi;

(5) si afferma un modo diverso - addolcito - di intendere la disciplina, non più basato sulle puni-
zioni corporali, ma sulla comprensione maestro-scolaro e sulla considerazione della personalità del-
l’allievo, per adeguare ad essa il metodo di lavoro;

(6) un motivo di polemica contro la scuola medioevale è costituito dalla rivalutazione del mondo
fisico, manifestantesi attraverso le cure da concedere al corpo attraverso il gioco e la ginnastica, e
della osservazione della natura e delle “cose”; la rivalutazione della “fisicità” può in generale essere
intesa come insieme armonico di bellezza, qualità morali, vigoria del corpo e dello spirito;

(7) gli umanisti danno, agli studi da loro coltivati, l’attributo di “liberali”: da un lato il termine vuole
significare quegli studi che liberano l’uomo dall’irrazionalità e dall’animalità (“liberum hominem ef-
ficiunt”), dall’altro vuole indicare un tipo di cultura disinteressata, attraverso la quale l’uomo tende
al sapere e alla virtù, senza aspirare al guadagno o al vantaggio materiale.

(8) Nel suo complesso, l’ideale pedagogico rinascimentale conserva un carattere essenzialmente ari-
stocratico: per quanto la scuola diventi più consapevole della difficoltà e della delicatezza del suo
compito e gli istituti scolastici cominciano ad accogliere anche gli appartenenti alle classi meno agiate
(come avviene, ad esempio, nella scuola di Vittorino da Feltre), i pedagogisti dell’umanesimo mani-
festano una decisa tendenza “elitaria”, puntando alla formazione di un ristretto ordine di dotti, mi-
noranza privilegiata libera da ogni impegno di lavoro che non sia lo studio.
Vittorino da Feltre e la “scuola giocosa”

Vittorino nasce a Feltre nel 1373 e studia a Padova discipline matematiche, letterarie, scienze fisi-
che e astronomiche. Dopo aver insegnato a Venezia e a Padova, gli viene affidata dal principe Gian
Francesco Gonzaga di Mantova l’educazione dei suoi sei figli; per svolgere meglio il suo compito
trasforma una sontuosa residenza principesca - detta Zojosa - in una scuola destinata a divenire una
tra le più illustri istituzioni educative di questo periodo. Egli la ribattezza “La Giocosa” per dimo-
strare, anche nel nome, il motivo ispiratore della sua opera: “Libera e gioiosa espressione di ogni at-
tività fisica e spirituale”. Vittorino crea un collegio privato, le cui rette, adeguate alle disponibilità
economiche, servono anche a pagare gli studi di alcuni giovani poveri ma capaci, secondo il modello
che già aveva seguito a Padova. “La Giocosa” ospiterà anche alcune fanciulle e otterrà in breve tem-
po il riconoscimento universitario. Vittorino muore a Mantova nel 1446, senza lasciare, come Socra-
te, nulla di scritto (di lui restano solo sei lettere e un trattatello sull’ortografia latina): quanto cono-
sciamo di lui e del suo metodo lo dobbiamo alle memorie dei suoi numerosi discepoli. Tra questi,
Sàssolo da Prato, che nutrì per il maestro un amore vivissimo.

Gli obiettivi e i presupposti


Vittorino, ci informa Sàssolo, educa insieme più di settanta fanciulli in più materie poiché, soste-
nendo che non tutti possono essere versati in tutto, egli indirizza ognuno verso la disciplina che ri-
tiene più consona alla sua natura; adegua anche alle caratteristiche di ognuno il carico di lavoro e tut-
to questo nel pieno rispetto delle inclinazioni di ciascuno scolaro, secondo i principi della sponta-
neità e dell’armonia.
Come presupposto alla migliore realizzazione del metodo egli esige “ingenium, doctrina, exercita-
tio”: paragona l’ingegno a un campo e l’esercizio alla coltivazione, dalla quale deriva la fertilità; la
dottrina, però, è superiore a entrambi sia perché rende migliori gli uomini, sia perché in essa si può
trovare rifugio nella buona o avversa fortuna.

I contenuti e il metodo educativo


Per restituire dignità agli studi classici, Vittorino fa leggere ai giovani le opere di Virgilio, Omero,
Cicerone, Demostene, e su questi autori applica il metodo dei quattro compiti del grammatico: spie-
gare le parole e interpretarle, studiare ed esporre i poeti; erudirsi nella storia (alla quale Vittorino at-
tribuisce particolare importanza); esporre secondo le regole. Interiorizzati questi quattro principi,
ognuno può passare a lavori più impegnativi con facilità e profitto.
Esercita poi i giovani nella dialettica e in seguito nella retorica: circa la dialettica li abitua a definire
un argomento, a tirarne le conseguenze e a concludere. Una volta appresi i più elementari principi
della retorica, i giovani devono esercitarsi assiduamente in declamazioni oratorie fingendo di trattarle
in cause forensi o davanti al popolo o nei consigli comunali. Vengono affrontate in seguito la mate-
matica, l’aritmetica, la geometria, l’astrologia e la musica.
Vittorino vuole che i giovani imparino le arti del trivio e del quadrivio in forma ludica. Esercitando i
giovani secondo il loro buon grado, è anche più facile individuare le inclinazioni di ognuno. All’inse-
gnamento condotto sulle opere classiche Vittorino unisce l’esercizio fisico in forme gradevoli, quan-
to possibile sotto forma di gioco o di gara, badando sempre che gli alunni stiano insieme o con i mae-
stri. Conclusa questa prima parte del corso, i discepoli vengono avviati alle opere di Platone ed Ari-
stotele, che rappresentano il coronamento del corso di studi.
In vista dell’armonia e dell’equilibrio, Vittorino vuole organizzato tutto l’ambiente nel quale il gio-
vane vive: l’edificio signorile, la bellezza dei giardini, l’accurata pulizia, l’ordine dei campi da gioco,
tutto contribuisce, nella “Giocosa”, a far assumere un portamento, un tono di voce, un complesso di
atteggiamenti che non sono mera forma, ma coinvolgono la sostanza medesima della personalità.
UMANESIMO E RINASCIMENTO

pensiero umanistico -> teoria del primato della volontà e della dignità

azione volontaria come fondamento della libertà umana


elevazione dellʼ umanità alla propria perfezione -> uomo completo

LA PEDAGOGIA DELLʼUMANESIMO
trattati:
(1) Cultura generale vs Enciclopedismo erudito
P. PaoloVergerio
preparazione completa Maffeo Vegio
virtualità dellʼ essere umano armonicamente sviluppate Guarino da Verona
molteplici attitudini -> intellettuali, fisiche, tecniche Matteo Palmieri
L.Battista Alberti
(2) avversione alla specializzazione precoce -> gradualità dellʼinsegnamento

(3) modello ellenistico vs formazione scientifico-matematica


(Isocrate, Quintiliano) (Platone)

“humanae litterae” “studia humanitatis”

primato della parola -> educazione estetica - letteraria - artistica

(4) restaurazione del latino come lingua viva -> valori dellʼ antichità (filologia)
(vs volgare)

(5) aspirazione ad un addolcimento della disciplina


comprensione maestro - scolaro

(6) rivalutazione del mondo fisico

a) importanza del gioco e della ginnastica

b) osservazione della natura e delle “cose”

(7) studi “liberali” a) studi che “liberum hominem officiunt”


liberazione dallʼ irrazionalità-animalità (Aristotele)

b) cultura “disinteressata” (vs guadagno - vantaggio materiale)

(8) aristocraticismo e tendenza “elitaria” -> formazione di un “cenacolo di dotti”

(9) riconoscimento della specificità del bambino (non più piccolo adulto) “la scoperta dellʼinfanzia”
(P. Ariés)
(10) formalizzazione delle “buone maniere” (Della Casa, Erasmo da Rotterdam )

ʻ400 -> formazione dellʼ “uomo” in generale “homo faber ipsius fortunae”
(riscoperta del valore dellʼ individuo)
vs

ʻ500 -> formazione del “tipo” umano particolare (“principe”, “cortegiano”, “perfezione della donna”)
(Machiavelli, Castiglione, Firenzuola)
LA PEDAGOGIA DELLA RIFORMA PROTESTANTE

La pedagogia della Riforma protestante inizia con Martin Lutero (1483 - 1546), cui spetta la pa-
ternità della fase iniziale dello scisma e anche della sua nuova prospettiva educativa. Di origine con-
tadina, Martin Lutero si forma come monaco agostiniano, diviene magister artium e formula nel
1516 i fondamenti della sua concezione teologica (Scolii alla lettera ai Romani di S. Paolo). L’anno
dopo rende pubbliche le Novantacinque tesi, in cui attacca frontalmente la Chiesa su questioni prati-
che (come la vendita delle indulgenze) e teologiche. In seguito elabora gli elementi fondamentali della
nuova Chiesa e pubblica anche le sue opere a carattere più specificamente pedagogico (Ai consiglieri
di tutte le città della Germania, sul dovere di istituire e mantenere scuole cristiane, 1524 e il Sermo-
ne sul dovere di mandare i fanciulli a scuola, 1530).

Libertà interiore e educazione. La necessità che ogni credente si accosti alla lettura delle Sacre
Scritture autonomamente, senza intermediazione e interpretazione da parte della Chiesa (dottrina
del “libero esame”), porta Martin Lutero a richiamare la fondamentale importanza dell’educazione.
La libera interpretazione dei testi sacri richiede infatti la capacità di leggerli e comprenderli. Dunque
occorre fornire a tutti, in modo obbligatorio e gratuito, l’accesso all’istruzione elementare. L’ideale
del sacerdozio universale (ogni credente è sacerdote a se stesso nell’accostarsi alle Sacre Scritture)
porta inoltre l’istruzione al di fuori degli ambienti religiosi e richiede l’impegno dei laici per creare
scuole sostitutive a quelle ecclesiastiche.

Stato, famiglia e scuola. L’impegno diretto dello Stato nell’educazione (richiesto energicamente
da Lutero nella lettera “Ai consiglieri...”), al pari della gratuità e della obbligatorietà della scuola di
base, diverranno tratti caratterizzanti della modernità pedagogica. La dottrina del libero esame abbat-
terà anche le barriere educative fra i sessi: a tutti deve infatti essere impartita una medesima istruzio-
ne di base, il che non comporta solo - in contrapposizione netta all’aristocraticismo rinascimentale -
l’accesso alle istituzioni scolastiche delle classi popolari, ma anche quello delle donne, valorizzate in
primo luogo nel loro ruolo di future madri e quindi educatrici.
Benchè Lutero metta in luce l’inadeguatezza delle famiglie (insufficiente volontà, capacità, quantità
di tempo) per il compito educativo, egli ritiene però che la famiglia deve essere richiamata al suo
ruolo educativo (svolto per esempio per mezzo della lettura quotidiana di passi della Bibbia da par-
te del capofamiglia), ma soprattutto al suo dovere di far accedere i figli all’istruzione pubblica.

La scuola e il suo curricolo. Il curricolo della scuola popolare luterana si fonda anzitutto sulla
necessità di fornire l’alfabetizzazione necessaria per l’accostamento diretto al testo sacro. Pertanto
si provvederà alla didattica della lettura, da effettuarsi direttamente sulla Bibbia e nella propria lin-
gua (Lutero stesso traduce in tedesco l’Antico e il Nuovo Testamento).
Il programma della scuola luterana è ancora legato alla tradizione là dove prevede l’insegnamento
del latino, del greco, dell’ebraico; accanto a queste discipline è fatto posto anche alla retorica, alla
storia e alla matematica. Dal punto di vista didattico ci si serve ancora abbondantemente dell’ap-
prendimento mnemonico.
Un cenno particolare merita l’importanza attribuita alla musica. La musica polifonica della chiesa
cattolica è divenuto, attraverso i secoli, qualcosa di eccessivamente complesso; inoltre il canto grego-
riano, del quale essa è il monumentale sviluppo, è ormai lontano dalla sensibilità popolare. Lutero
introduce dunque nella liturgia, accanto alla lingua tedesca, il canto popolare, spontaneo, melodico.
Il nuovo tipo di canto religioso prenderà il nome di “corale”: alla musica e al canto corale verrà attri-
buita grande importanza anche nella scuola. Inconcepibile, per Lutero, un maestro che “non sappia
cantare”.
L’atteggiamento anticontemplativo della religiosità luterana porta a valorizzare nella scuola la di-
mensione del lavoro, inteso non più come strumento per acquistare meriti presso Dio (l’uomo, in-
fatti, per Lutero, non è in grado di guadagnarsi la salvezza con le proprie azioni), ma come attività a
cui Dio ci chiama per testimoniare la nostra fede. Questo nuovo modo di intendere l’ideale rinasci-
mentale dell’homo faber favorisce nel mondo luterano la nascita di scuole che coniugano l’alfabetiz-
zazione all’insegnamento di specifiche attività lavorative.

Il metodo. Promotore di una scuola di massa, Lutero auspica una scuola dove si impari “con pia-
cere e giocando” “per un’ora o due al giorno”. Solo i più dotati devono dedicarsi allo studio con mag-
giore intensità. Ed è importante che tutte le scuole abbiano maestri in grado di accostarsi ai fanciulli
con affetto e comprensione, allontanandosi da quei modelli che Lutero aveva ben presenti per la
propria esperienza infantile. Il bambino ha bisogno di aria, di sole, di gioia; perciò nella scuola lute-
rana si fa posto alla ginnastica e ai giochi.

LA PEDAGOGIA DELLA CONTRORIFORMA

La Controriforma è, nel suo insieme, una grande e complessa iniziativa pedagogica. La reazione del
cattolicesimo alla frattura col mondo della Riforma protestante si caratterizza infatti in campo cultu-
rale e religioso come ferreo controllo sulle produzioni intellettuali e artistiche, ma anche come sforzo
per indurre, attraverso una positiva azione educativa, al rispetto dell’ortodossia.
All’Inquisizione e all’Indice dei Libri Proibiti corrisponde così un rafforzamento della devozione
esteriore, che ha nel culto delle reliquie, nel fasto delle chiese, nei paramenti e nelle processioni, fina-
lità pedagogiche non diverse da quelle medioevali. Ma l’impegno educativo si traduce anche in una
migliore formazione del clero e della classe dirigente. Bisogna infatti, prima di tutto, educare gli edu-
catori, cioè i religiosi, scegliendoli con più severi criteri selettivi, formandoli ad una maggiore consa-
pevolezza della grave missione. Viene ribadito l’obbligo del celibato, è intensificata la sorveglianza,
sono precisati i compiti. Sorgono i Seminari, nuova fondamentale istituzione educativa dell’Occi-
dente europeo. Si cerca di combattere l’influsso della Riforma e del Rinascimento sul loro stesso ter-
reno: quello della scuola. Si fa obbligo ai sacerdoti di occuparsi dell’istruzione, almeno elementare,
dei fanciulli. Si concedono mezzi notevoli agli ordini insegnanti. Si creano collegi universitari catto-
lici, si istituiscono scuole popolari e orfanotrofi; si creano collegi per le classi dirigenti e la formazio-
ne degli intellettuali. Vengono pubblicati libri sacri e catechismi su cui basare un’ortodossa educazio-
ne alla fede, mentre religiosi di formazione umanistica redigono trattati pedagogici orientati al nuovo
spirito educativo. Si vuole ribadire l’autorità della Chiesa, rafforzare l’obbedienza e proporre model-
li culturali “approvati” (come la filosofia tomistica) per controbattere la diffusione delle dottrine ri-
formate. Vengono anche riaffrontati, in una nuova luce, i grandi problemi dell’educazione popolare e
femminile, considerati cruciali per arrestare la diffusione dell’ “eresia”.
Protagonisti di questo nuovo spirito formativo sono numerosi intellettuali che giungono alla vita
ecclesiastica nel quadro di un preciso impegno religioso e sociale e che, nella maggioranza dei casi,
approderanno all’istituzione di nuovi ordini religiosi che hanno nelle finalità educative e scolastiche
uno degli obiettivi principali: in Italia Girolamo Emiliani e Antonio Maria Zaccaria, fondatori dei
due ordini dei Somaschi e dei Barnabiti; Filippo Neri, fondatore degli Congregazione dell’Oratorio,
presente anche in Francia ad opera del cardinale Pierre de Bérulle; Carlo Borromeo, fondatore del
Seminario di Milano, Giuseppe Calasanzio, fondatore della Congregazione dei Padri delle Scuole
Pie, o Scolopi; Silvio Antoniano, ecclesiastico umanista che, col trattato in tre libri Dell’educazione
cristiana e politica dei figlioli (1584) influenzerà anche Jean-Baptiste de la Salle, fondatore in Fran-
cia dell’ordine dei Fratelli delle scuole cristiane.
IGNAZIO DI LOYOLA E L’EDUCAZIONE GESUITICA

L’esperienza educativa più importante nell’ambito controriformistico è legata alla fondazione della
Compagnia di Gesù (1534) da parte di Ignazio di Loyola (1491/1556), nobile capitano spagnolo
giunto alla fede durante la degenza per una ferita di guerra. Ignazio di Loyola volle fondare un ordine
con caratteristiche militari, sia nella forma, sia nella disciplina. Il primo requisito della Compagnia
era infatti l’obbedienza, che doveva essere cieca e assoluta (perinde ac cadaver, con la remissività di
un cadavere), proprio come quella di un soldato in battaglia. Ottimisti nei riguardi dell’umanità, i ge-
suiti rivelano un sostanziale pessimismo nei riguardi della personalità individuale, alla cui autonoma
iniziativa negano la capacità di raggiungere la perfezione morale e religiosa: il singolo può trovare la
salvezza solo mediante l’inserimento in una società perfetta, che assume il carattere di un sistema
rigidamente organizzato, gerarchizzato e accentrato. La via della restaurazione cattolica è quella del
successo terreno della Chiesa; lo strumento atto a garantire il recupero dell’egemonia politica e cul-
turale da parte della Chiesa, è fornito dalla filosofia tomistica. Dal tomismo i Gesuiti derivano la loro
attitudine a concedere apparentemente e resistere in sostanza, accogliendo taluni motivi della cultura
moderna, ma in modo del tutto estrinseco. Ciò permette loro di apparire “moderni”, aperti ad accet-
tare la mutevolezza e la progressività delle tecniche, pur rimanendo ancorati a valori immutabili.

La Ratio studiorum e la diffusione dei collegi. La pedagogia gesuitica può essere considerata una
“pedagogia di guerra”, in cui la cultura riveste il ruolo di uno strumento atto a favorire l’obbedienza
alla fede. Per Ignazio di Loyola la difesa della Chiesa contro l’eresia deve passare attraverso il con-
trollo sulle classi dominanti, dunque occorre anzitutto un’accurata formazione dei giovani in appo-
siti collegi. Il documento nel quale si condensano i principi educativi, didattici ed organizzativi dei
collegi gesuitici è la Ratio atque institutio studiorum (1599), che contiene un insieme organico di re-
gole per i Superiori, i professori e gli alunni, in una forma che resterà inalterata per più di due secoli
e che costituirà un esempio paradigmatico per la scuola europea dei Paesi cattolici.
La fioritura dei collegi (il primo collegio aperto anche alla frequenza dei laici nasce a Messina nel
1548) procede con notevole rapidità: per circa due secoli la scuola sarà, in gran parte d’Europa e del
mondo, o direttamente gestita o organizzata secondo le loro direttive. All’interno dei collegi gesuitici
si formerà anche la maggioranza di quegli intellettuali laici, come Cartesio e Voltaire, che approde-
ranno a posizioni di distacco o di esplicita polemica rispetto alla cultura gesuitica stessa.

Struttura e organizzazione dei collegi: i gradi dell’istruzione.


Come educatori della classe dirigente i Gesuiti non si preoccupano dell’istruzione di base, che solo
eccezionalmente, con il nome di “scuola abbecedaria”, è ammessa nei collegi; dedicano invece una cu-
ra straordinaria all’organizzazione degli studi superiori.
Organizzati prevalentemente in camerate, i collegi-convitto dei Gesuiti accolgono in massima parte
figli dell’aristocrazia e della ricca borghesia, che studiano insieme ai novizi, ma pagando rette il cui
ricavato viene in parte destinato all’ammissione di studenti poveri ma meritevoli. Nelle scuole gesui-
tiche non tutti gli allievi sono interni, anzi gli esterni costituiscono la maggioranza; tuttavia, i Gesuiti
sono decisi assertori di un’educazione totale, e ritengono che educazione ed istruzione possano riu-
scire efficaci solo per mezzo dell’internato: l’anno scolastico prevede vacanze abbastanza frequenti,
ma brevi, soprattutto per gli alunni dei corsi inferiori, più sensibili all’influsso diseducativo dell’am-
biente extrascolastico.
Il corso umanistico è costituito da cinque classi: tre di grammatica, la quarta di humanitas, la quinta
di retorica. Lo scopo di questo corso è la formazione all’eloquenza, e la cultura umanistica è incen-
trata sullo studio grammaticale del latino, su una certa erudizione e sulla conoscenza dei precetti re-
torici. Essa viene tuttavia depurata dei riferimenti considerati moralmente riprovevoli. In ognuna
delle cinque classi insegna un solo maestro. Dal punto di vista didattico, l’attività scolastica si arti-
cola nei momenti della prelezione (lettura e spiegazione di un passo dell’autore prescelto), la com-
posizione (l’alunno descrive, ad. esempio, un giardino imitando e riproducendo la descrizione letta e
studiata in Plinio, piuttosto che osservare e descrivere un giardino reale), la ripetizione (da effettuar-
si, da parte degli allievi fra di loro, il giorno stesso della prelezione, il giorno dopo, il sabato, alla fine
del mese, ecc), le dispute (tra singoli alunni o fra gruppi della stessa classe), la declamazione davanti
alla classe o ad un pubblico, anche in forma di azione scenica o teatro scolastico, infine l’accademia
(un gruppo di studio discute sotto la prsidenza di un padre gesuita, di problemi culturali al di fuori
degli schemi programmatici).
Analogo è l’obiettivo del corso filosofico, di tre anni, che ha funzione propedeutica alla teologia.
Regole precise impongono all’insegnante di basarsi sulla concezione aristotelico-tomistica, e di citare
le opinioni contrastanti con particolare cautela, senza concedere loro troppo spazio.
Infine il corso teologico, di quattro anni, è indirizzato alla formazione dei religiosi che diverranno i
futuri insegnanti dei collegi. Il passaggio da una classe all’altra avviene attraverso esami, sostenuti di
fronte ad una commissione di tre insegnanti. La prova può concludersi, oltre che con la promozione
o bocciatura, anche con l’ammissione alla classe successiva sub judice (cioè con possibilità di resti-
tuzione alla classe di provenienza) o infine con una dichiarazione di inettitudine.

Il metodo e la disciplina. Al di là dei contenuti, la Ratio è particolarmente attenta all’organizza-


zione pratica della vita della scuola: la divisione in classi, l’orario, i voti, le attività didattiche e di
studio, le modalità per gli esami, per le gare e le premiazioni sono rigorosamente programmati e con-
trollati: piani di lavoro e metodi didattici vanno sottratti all’arbitrio individuale dell’insegnante.
Coerentemente con la mentalità della classe dirigente, la scuola gesuitica è incentrata sul possesso
personale delle nozioni, ma soprattutto sull’emulazione; pertanto, anche se la memorizzazione e
la ripetizione costituiscono aspetti centrali della didattica, i Gesuiti ritengono positivo stimolare la
competizione fra gli studenti, in cui la capacità e l’iniziativa personale diventano fondamentali.
Tutta l’attività è trasformata in gara, tra individui e tra gruppi. Ogni scolaro ha il proprio “antago-
nista” che lo spia e che è pronto a mettere in rilievo errori e colpe, e nei riguardi del quale egli farà al-
trettanto.
Al fine di mantenere la disciplina e stimolare lo studio, si dividono le classi (che superano i cento
alunni) in decurie (gruppi di dieci), ognuna delle quali ha a capo un decurione ed è assegnata ad uno
dei due campi avversari, il romano e cartaginese. In base al merito scolastico, ogni allievo si vede as-
segnare un determinato titolo: soldato semplice, decurione, magistrato. L’impegno costante è quello
di dimostrare la propria superiorità sugli avversari: ognuno deve cercare di superare il suo avversario
diretto nell’altro campo e deve anche badare a non essere declassato da avversari di rango inferiore.
Le vittorie in questi confronti vengono premiate con oggetti tangibili (croci, medaglie, distintivi),
mentre le colpe, la cui segnalazione (delazione*) da parte dei compagni viene incoraggiata, vengono
punite con minuziosa ripartizione dei castighi, che vanno dal pensum (compito supplementare) ai
voti negativi, alle pubbliche reprimende, all’espulsione, fino ai castighi corporali come le “battiture”
per opera di un “correttore” esterno alla Compagnia di Gesù.
Nonostante la competizione continua, la delazione, il controllo, la vita del collegi per i laici non è
comunque particolarmente pesante: sono previsti periodi di riposo e di ricreazione, spettacoli tea-
trali, giochi e esercizi sportivi; non è richiesta l’obbedienza “perinde ac cadaver” che rappresenta il
motivo fondamentale nella formazione del futuro gesuita, bensì una moderata obbedienza, quale è
indispensabile in ogni ordinato collegio.
* Il fattore principale di disciplina è la vigilanza continua e reciproca e la delazione: l’alunno sa di essere
continuamente spiato dai compagni ed a sua volta continuamente li spia. La denuncia delle malefatte al-
trui è apprezzata e stimata. Chi abbia commesso una colpa sarà perdonato, qualora denunci un compa-
gno reo della stessa mancanza.
LA PEDAGOGIA DELLA RIFORMA PROTESTANTE

Martin Lutero (1483 - 1546)

Revisione globale del ruolo della cultura di fronte alle nuove necessità:

formazione del clero -> seminari


formazione degli intellettuali e delle classi dirigenti -> collegi
scuole popolari e orfanotrofi

libertà di coscienza -> libero esame dei testi sacri -> capacità di leggere

accesso obbligatorio e gratuito allʼistruzione elementare aristocraticismo


impegno dello Stato nellʼ educazione -> scuole popolari vs rinascimentale
istruzione di base uguale per tutti, uomini e donne

ruolo educativo della famiglia -> favorire lʼaccesso alla scuola

curricolo della scuola alfabetizzazione -> lettura della Bibbia nella propria lingua
popolare luterana
valorizzazione del lavoro -> insegnamento professionale

valorizzazione del canto corale: educazione musicale

LA PEDAGOGIA DELLA CONTRORIFORMA

risposta al protestantesimo / riforma cattolica


Impegno educativo: migliore formazione del clero e della classe dirigente
creazione di scuole nuove, maggiore attenzione per lʼeducazione religiosa
ribadire lʼautorità della Chiesa e rafforzare lʼobbedienza
fondazione di ordini religiosi insegnanti

Ignazio di Loyola (1491 - 1556) -> Compagnia di Gesù (1534) Costituzioni, Esercizi Spirituali
a) controllo sulle classi dominanti (aristocrazia e ricca borghesia)
b) accurata formazione dei giovani religiosi collegi -> Ratio Studiorum (1599)

interesse attivo
obbedienza assoluta massimo profitto emulazione
eccellenza
promozione
studi superiori: corso umanistico -> 3 classi di grammatica, 4° di humanitas, 5° di retorica bocciatura
corso filosofico 3 anni -> corso teologico 4 anni (formazione dei religiosi) ammissione
prelezione / composizione / ripetizione “sub judice”
organizzazione pratica minuziosa della vita della scuola -> sguardo “panottico”

controllo memorizzazione e ripetizione


delle coscienze competizione ed emulazione sorveglianza continua

dispute DELAZIONE

colpe e punizioni pensum classi organizzate


voti negativi in “decurie”:
pubbliche reprimende soldato semplice
espulsione decurione
battiture (correttore) magistrato
Michel Foucault: disciplina e tecniche educative nell’età moderna

I mezzi posti in atto all’interno della disciplina gesuitica erano costituiti da una sorveglianza conti-
nua su ogni momento della giornata. E’ Michel Foucault a offrire gli strumenti concettuali per com-
prendere tale dispositivo pedagogico, laddove tratta di uno sguardo “panottico”*, della richiesta isti-
tuzionalizzata di delazione, delle punizioni corporali e della loro metamorfosi in una “tecnologia del
corpo” capace di agire sull’anima, di un controllo capillare su tutti gli allievi e sui loro ‘scrupoli’:

“Tecniche minuziose sempre, spesso modestissime, ma tutte con una loro importanza: poichè de-
finiscono una nuova microfisica del potere; piccole astuzie dotate di grande efficacia di diffusione,
disposizioni sottili, di apparenza innocente, ma profondamente insinuanti (...) In questa tradizione
dell’eminenza del dettaglio verranno a collocarsi tutte le meticolosità dell’educazione cristiana, della
pedagogia scolare e militare, di tutte le forme di addestramento.”
“Nella disciplina l’unità non è né il luogo (unità di residenza) né il territorio (unità di dominazio-
ne), ma il “rango”: il posto occupato in una classificazione (...) La disciplina: arte del rango e tecnica
per la trasformazione delle destinazioni (...) Sia l’esempio della “classe”. Nei collegi dei gesuiti tro-
viamo una organizzazione binaria e massiva. Le classi, che potevano contare fino a due o trecento
allievi, erano divise in gruppi di dieci; ciascuno di questi gruppi con un suo decurione era assegnato
ad un campo, il romano o il cartaginese; ad ogni decuria corrispondeva una decuria avversaria. La
forma generale era quella della guerra e della rivalità; il lavoro, l’apprendimento, la classificazione
venivano effettuati sotto forma di torneo, attraverso l’affrontarsi di due eserciti; la prestazione di
ogni allievo era inscritta in quel duello generale e assicurava la vittoria o le disfatte di un campo. Gli
allievi si vedevano assegnare un posto che corrispondeva alla funzione di ciascuno ed al suo valore
di combattente nel gruppo unitario della sua decuria. Questa commedia romana permetteva di legare
agli esercizi binari della rivalità, una disposizione spaziale ispirata alla gerarchia ed alla sorveglianza
piramidale”. M. Foucault, Sorvegliare e punire, Einaudi, 1976

L’educatore gesuita si sforza di far vivere il bambino in un universo chiuso e controllato perchè lo
considera in preda ad una duplice minaccia: da una parte il bambino è talmente debole che qualsiasi
incontro, per quanto breve, con la ‘tentazione’ rischia di avere un effetto catastrofico. Dall’altra par-
te il bambino ha una tendenza “naturale” verso il male che rende necessaria una sorveglianza che ret-
tifichi la spontaneità infantile, depurandola da ogni tendenza deviante.
Foucault, che ha studiato l’evolversi delle tecniche disciplinari (e quindi delle tecniche educative)
nella storia moderna, ricorda come altro esempio significativo il caso dei Fratelli delle scuole cri-
stiane. La congregazione dei Fratelli delle scuole cristiane si diffuse in Francia verso il 1680, e si de-
dicò sia all’istituzione di scuole ed istituti per la formazione degli insegnanti, sia all’organizzazione
di una rete di scuole elementari popolari e di corsi di addestramento tecnico.
I rudimenti di lettura, scrittura e calcolo venivano insegnati a classi molto numerose, nelle quali la
preoccupazione fondamentale era quella di mantenere la disciplina affermando l’autorità del mae-
stro. Foucault prende la congregazione fondata da J. B. La Salle come paradigma del modo in cui il
potere si impossessa sempre più dell’individuo attraverso un processo nel quale, accanto alle forme
di disciplina basate sulle punizioni corporali, si passa ad un controllo più sottile, che irreggimenta i
corpi e le menti attraverso uno sguardo totalizzante sui singoli movimenti della persona nella sua
intimità:
“Il controllo disciplinare non consiste semplicemente nell’insegnare o nell’imporre una serie di ge-

*Panopticon (J. Bentham): edificio la cui pianta risulta costituita da corpi disposti radialmente intorno
ad un punto centrale, dal quale è possibile la vigilanza dell’ intero complesso (costruzioni carcerarie)
sti definiti; esso impone tra un gesto e l’attitudine globale del corpo la relazione migliore, che è con-
dizione di efficacia e di rapidità. Nel buon impiego del corpo, che permette un buon impiego del
tempo, niente deve rimanere ozioso o inutile; tutto deve essere chiamato a formare il supporto del-
l’atto richiesto. Un corpo ben disciplinato forma il contesto operativo del minimo gesto. Una buona
scrittura, ad esempio, presuppone un codice rigoroso che investe il corpo per intero, dalla punta del
piede alla punta dell’indice. Bisogna “tenere il corpo diritto, un pò girato e sciolto verso il lato sini-
stro, e sia pur poco inclinato sul davanti, in modo che, essendo il gomito poggiato sulla tavola, il
mento possa essere poggiato sul pugno, a meno che la portata della vista non lo permetta; la gamba
sinistra deve essere un poco più in avanti, sotto il tavolo, della destra. Bisogna lasciare una distanza
di due dita del corpo al tavolo, poichè non solamente si scrive con maggiore prontezza, ma perchè
niente è più nocivo alla salute del contrarre l’abitudine di appoggiare lo stomaco contro il tavolo. Il
braccio destro deve essere lontano dal corpo circa tre dita ed uscire di circa cinque dita dal tavolo sul
quale deve appoggiare leggermente. Il maestro farà conoscere agli scolari la posizione che essi devo-
no tenere scrivendo, e la correggerà con un segno o in altro modo, quando se ne allontanassero”.
(J.B. La Salle, Conduite des écoles chrétiennes). Un corpo disciplinato è il sostegno di un gesto
efficace.” (M. Foucault, op. cit.)

L’allievo, sostiene Foucault, viene sempre di più isolato nella sua individualità per controllarlo me-
glio. Per Foucault tutte le scienze psicosociali hanno avuto possibilità di esistere, in quanto scienze
pedagogiche, solo quando l’uomo non è stato più considerato all’interno del suo clan o in riferimen-
to ai suoi antenati, ma invece come ‘uomo calcolabile’, nel corso di appositi esami, in seguito alle
note che lo definiscono pezzo per pezzo, alle note comparative che su di lui si effettuano in ogni
settore. Questa nuova modalità educativa è chiamata da Foucault nuova tecnologia del potere; essa
utilizza un’analisi minuziosa delle possibilità gestuali, comportamentali e disciplinari del corpo stes-
so all’interno di un certo contesto sociale ed educativo (nei collegi l’allievo non è mai lasciato solo).
Uno di questi modi di controllo è costituito dall’esame:

“L’esame combina le tecniche della gerarchia che sorveglia con quelle della sanzione che normalizza.
E’ un controllo normalizzatore, una sorveglianza che permette di qualificare, classificare, punire. La
scuola diviene una sorta di apparato di esame ininterrotto (..) I Fratelli delle scuole cristiane voleva-
no che i loro allievi avessero una prova in ogni giorno della settimana: il primo di ortografia, il secon-
do di aritmetica, il terzo di catechismo al mattino e di calligrafia il pomeriggio, ecc. (...) L’esame co-
me fissazione, nello stesso tempo rituale e “scientifica” delle differenze individuali, come spillatura
di ciascuno alla propria singolarità (in opposizione alla cerimonia in cui si manifestano gli status, la
nascita, i privilegi, le funzioni, con tutto lo splendore dei loro segni) mostra bene l’apparizione di
una nuova modalità del potere in cui ciascuno riceve come status la propria individualità ed in cui è
statutariamente legato ai tratti, agli scarti, alle “note” che lo caratterizzano e fanno di lui, in ogni mo-
do, un caso”. (M. Foucault, op. cit.)
COMENIO

Jan Amos Komensky (Nivmitz 1592 /Amsterdam 1670), pastore del gruppo religioso dei Fratelli
Boemi e ministro della Chiesa hussita, ebbe una vita assai travagliata a causa della guerra dei trenta
anni e delle persecuzioni religiose contro il suo gruppo: il saccheggio delle truppe imperiali lo priva
della sua casa (nella città di Fulnek) e della sua biblioteca, i cui libri vengono bruciati in piazza.
Sarà più volte costretto a cambiare paese. Grazie ai suoi scritti (Janua linguarum reserata,1628-
31; Didactica magna,1638; Pansofia, 1645; Orbis sensualium pictus, 1658, ecc) diventa famoso e
viene visto quasi come incarnazione del modello rinascimentale di “uomo universale”, in quanto
maestro di fama internazionale, teologo, linguista e scienziato. Viene invitato in numerose nazioni
europee come l’Inghilterra, la Francia, la Svezia, per organizzare la riforma degli studi. Profugo in
Ungheria, si dedica ancora alla riforma della scuola. Nel 1656 è ancora costretto a fuggire: nell’incen-
dio della città di Lezno, in Polonia, perde nuovamente parte delle sue opere. Si rifugia ad Amster-
dam, dove trascorre gli anni che gli restano.
Filosofo e pedagogista, uomo di scuola e teologo, Comenio è l’ultimo e più grande erede della tradi-
zione rinascimentale e dello spirito religioso della riforma protestante; egli fu influenzato sia dalle ri-
vendicazioni riformatrici in campo educativo dei suoi predecessori (Ratke, Alsted, Andrëa) che cri-
ticavano l’educazione tradizionale per lo studio mnemonico, per l’astrattezza, per l’uso totalizzante
del latino cui contrapponevano l’introduzione delle lingue nazionali, sia dall’empirismo di Bacone.
Infatti Comenio fece proprio l’invito a partire dall’esperienza e dall’osservazione della natura per
quella che è, cercando di applicarlo alla pedagogia.

Educazione universale: pampaedia e pansofia

Comenio pose come prima istanza la necessità di un’educazione universale (pampaedia), cioè
un’educazione che deve essere data a tutti gli uomini di ogni razza, ceto, sesso, religione, età , che
deve riguardare ogni cosa e mirare alla diffusione universale del sapere (pansofia), che deve essere
impartita in ogni modo possibile.

“Noi bramiamo che tutti gli uomini siano pansofi e cioè: 1) comprendano le articolazioni delle cose,
dei pensieri e dei discorsi; 2) comprendano gli scopi di tutte le azioni, proprie e altrui, i mezzi e i modi
per realizzarli; 3) sappiano distinguere nelle azioni - come nei pensieri e nelle parole - che si diffondono
e si confondono, l’essenziale dall’accidentale, l’indifferente dal nocivo” (Comenio, Pampaedia).

Comenio propone una prospettiva che, contemplando l’insieme di tutti i saperi, sappia trapiantar-
lo “nelle menti, nelle lingue, nei cuori e nelle mani” di tutti gli uomini, per poter raggiungere la pace e
la concordia universale, la capacità di tolleranza reciproca, una convivenza umana armoniosa.

Il metodo e i contenuti

La riflessione di Comenio è mirata a istituire la specificità del discorso pedagogico come ambito di-
sciplinare caratterizzato dalla centralità del metodo, e quindi di una didattica capace di estendersi al-
l’intera organizzazione della prassi educativa. Comenio individua i principi da applicare all’arte del-
l’insegnamento, partendo dal presupposto che tutti gli uomini hanno in comune la stessa natura e gli
stessi fini educativi. Lo studio del mondo naturale ci permette dunque di individuare quei principi
comuni che si fondano sui criteri dell’universalità e della semplicità.
La formula comeniana del “tutto a tutti” (universalità) va intesa nel senso che tutti devono avere
l’opportunità di accedere fin dall’inizio ai fondamenti dei diversi saperi.
Per Comenio il metodo deve essere sempre semplice e facile: “tutto pratico e tutto gradevole e tale
che per mezzo di esso la scuola diventi veramente un gioco, cioè un dolce preludio a tutta la vita.
Ciò avverrà se tutte le attività della vita umana saranno ridotte alla portata dei ragazzi, non soltanto
in funzione dell’apprendimento, ma anche di un autentico diletto” (Comenio, Pampaedia).
La semplicità rimanda alla necessità di “partire dai sensi”. La mente umana, al momento della na-
scita, è una tabula rasa: Comenio afferma che la conoscenza inizia sempre dai sensi, i quali “sono le
porte attraverso le quali le cose, poste fuori dell’uomo, si aprono l’accesso alla sua anima”.
“Niente è nell’intelletto che prima non sia stato nel senso. Esercitare, quindi, i sensi a ben percepire le
differenze delle cose significa gettare le fondamenta di tutta la sapienza, di tutte le prudenti attività della
vita umana” (J. A. Comenio, Orbis sensualium pictus)
Solamente l’esperienza diretta offre dunque all’uomo conoscenze “certe”. La “regola aurea” degli
insegnanti sarà quella di presentare le cose “a tutti i sensi possibili”: se le cose possono essere per-
cepite da più sensi, “si presentino contemporaneamente a più sensi”. Comenio consiglia perciò ai
maestri di presentare agli alunni oggetti reali (“ben più facilmente - dice - resterà in me l’immagine
dell’elefante se lo avrò visto anche una sola volta che non se mi sarà stato descritto decine di volte”);
quando ciò non è possibile si devono utilizzare dei modelli o delle illustrazioni. A questo proposito
si parla generalmente di realismo gnoseologico e pedagogico.
Per poter insegnare tutto a tutti e in tutte le età occorre considerare le possibilità intellettive e le
capacità di apprendimento proprie di ciascuna età, e quindi osservare lo sviluppo progressivo della
natura del bambino, del giovane, dell’uomo, e del loro modo di apprendere dall’istruzione diretta
delle cose. Ne derivano i criteri della naturalità, della gradualità, della ciclicità. .
(1) Il criterio della naturalità comporta che l’educatore rispetti lo sviluppo progressivo della natu-
ra del bambino: come la natura prepara il terreno adatto alla crescita della pianticella, così il maestro
“prepara il terreno” per la crescita dell’alunno.
(2) La natura, inoltre, non procede per salti, ma passo dopo passo: tutto il curriculum di studi deve
così essere organizzato con gradualità. Occorre che al suo interno vi sia una successione di gradi
progressivi di approfondimento, partendo sempre dal semplice e dal generale per arrivare al com-
plesso e particolare. Il curriculum degli studi deve seguire tale ordine logico-evolutivo assecondando
le tappe dello sviluppo in relazione all’età ed agli interessi dell’educando.
Si partirà dunque dall’esercizio delle facoltà legate ai sensi esterni, si proseguirà con esercizio della
memoria e dell’immaginazione (sensi interni), per giungere all’attivarsi della volontà ed alla com-
prensione piena dell’uomo adulto.
(3) L’essere umano è “completo” a qualunque età: quindi anche la personalità del bambino è già
compiuta in sé, ed è solo diversa rispetto a quella dell’adulto. Partendo da questa premessa, Come-
nio ritiene che nell’insegnamento occorre esporre tutto il sapere nella sua globalità fin dall’infanzia,
presentandolo dapprima in forma molto semplice e generale e dandone poi nelle età successive una
presentazione via via più specifica, più completa e complessa. É il principio della ciclicità, secondo
il quale i vari momenti della vita scolastica sono scanditi da una “ciclica” riproposta di contenuti
uguali, ma diversamente approfonditi. Per Comenio è molto importante che vengano offerti elementi
di tutto il sapere fin dall’inizio della vita, in modo che poi più avanti la persona non debba mai tro-
varsi di fronte a oggetti culturali sconosciuti, ma sempre di fronte a qualcosa che gli è già noto, con
cui ha già familiarizzato fin dall’infanzia.
Comenio ritiene che nella scuola del suo tempo, elitaria e lontana da qualunque efficacia pratica, la
didattica tenda a trascurare ciò che è importante, determinando negli alunni scarso interesse per la
maggior parte delle materie. Il rimedio si può trovare: 1) insegnando solo argomenti di sicura utilità
e, comunque, collegandoli tra loro; 2) radicando profondamente gli argomenti, in modo che ogni inse-
gnamento successivo possa basarsi sul precedente; 3) usando tutte le descrizioni possibili; 4) rispet-
tando il criterio della consequenzialità e della contemporaneità; 5) facendo continui esercizi.
Istruire non significa quindi sovraccaricare la mente degli alunni di nozioni, fondandosi sull’imitazio-
ne, ma aprire la mente all’intelligenza, ricavando il sapere non dai libri, ma dalla natura, come faceva-
no gli antichi.

L’organizzazione scolastica

Tutti gli uomini necessitano di una regolare educazione, ogni uomo deve essere educato, qualunque
sia la sua funzione nel mondo: “tutti ugualmente i fanciulli e le fanciulle, nobili e no, ricchi e poveri”.
Comenio ritiene che “dovunque si devono far sorgere scuole pubbliche”: occorre accrescere il nume-
ro delle istituzioni scolastiche, affinchè ogni città, borgata o villaggio ne disponga. E a queste scuole
devono poter avere accesso tutti.
Al pari degli uomini, anche le donne devono ricevere l’educazione, in quanto sono anch’esse crea-
ture di Dio, dotate di mente sveglia e capace di sapienza, spesso più di quella degli uomini.
Anche le creature meno dotate possono trarre vantaggio dall’educazione. É indispensabile dunque
che la collettività stessa si prenda cura di tutti i suoi membri, anche di quelli ‘anormali’, affidi a per-
sone scelte e preparate l’incarico di maestro e riunisca insieme grandi gruppi di giovani, che attraver-
so l’esempio, l’emulazione, il mutuo aiuto imparino tutti insieme.
Per Comenio la scuola “deve essere un luogo bello che offra, dentro e fuori, piacevole spettacolo
alla vista. All’interno l’ambiente sia luminoso, pulito, adorno dappertutto di dipinti, effigi, di uomi-
ni illustri oppure mappe coreografiche, o memorie storiche, o emblemi. Di fuori, invece, adiacente
alla scuola, ci deve essere non solo uno spazio per giocare e camminare, ma anche un giardino ove
portare i fanciulli perchè essi possano ricrearsi gli occhi alla vista di alberi, fiori, erbe.”
Ogni fase nella scuola va organizzata e predisposta nel tempo, nello spazio, nei contenuti, nelle
prestazioni richieste. La scuola per Comenio riguarda tutta la vita e comincia dalla fase prenatale, in
cui occorre dare consigli ai genitori per la procreazione e per un buon rapporto della madre con il fi-
glio nel suo grembo, a cui succede la Schola materna, fino a sei anni, in cui l’educazione è data ai ge-
nitori che devono cominciare a mostrare al bimbo i primi semplicissimi elementi della pansofia.
Quest’ultima viene ripresa come ciclo successivo della Schola vernacula (fino ai 12 anni), in cui si
insegna la lingua nazionale e si avvicina il bambino alla natura esterna. Segue la Schola latina (o gin-
nasio), fino a 18 anni, in cui si introduce lo studio delle lingue classiche per capire il presente attra-
verso il confronto con il passato, e poi la grammatica, le scienze naturali, la fisica, la matematica, la
retorica, la dialettica, l’etica, ampliando sempre più la comprensione pansofica del mondo. I più ca-
paci proseguono nell’Accademia (fino a 24 anni), a cui segue da ultimo la Schola scolarum, cioè la
scuola che prepara a diventare maestro. Ma anche la maturità e la vecchiaia costituiscono per l’uo-
mo una scuola, quella in cui la vita stessa si fa scuola e si impara a vivere serenamente con le capa-
cità e le caratteristiche proprie di quella età. Per Comenio dunque l’uomo impara tutta la vita.

L’Orbis sensualium pictus: la didattica elementare fra parole e cose

L’Orbis sensualium pictus (cioè “Il mondo delle cose sensibili illustrato”) viene definito dall’autore
come un lucidarium, cioè come un sussidio figurato per lo studio delle lingue. In realtà, a buona ra-
gione esso può ritenersi una delle opere culminanti dell’attività pedagogica di Comenio, in cui si ma-
nifestano con chiarezza i motivi ispiratori della sua teoria: il realismo e la pansofia.
Il testo è rivolto a tutti i giovani e destinato a una prima educazione di base: si tratta di un riassun-
to chiaro e sistematico delle conoscenze dell’intero scibile umano. Le immagini (“figure”) di “ciò che
è visibile nel mondo”, sono accompagnate da un titolo (“nomenclatura”) che consente di afferrarne
sinteticamente il contenuto e da una didascalia (“descrizione”) che le descrive e spiega più ampia-
mente. Comenio inaugura così la tradizione manualistica ed enciclopedica del libro illustrato per l’in-
fanzia.
COMENIO (Jan Amos Komensky, Nivmitz 1592 - Amsterdam1670)

Pastore del gruppo religioso dei Fratelli Boemi (movimento hussita)


maestro di fama internazionale, teologo, linguista e scienziato
persecuzioni religiose / guerra dei trentʼanni
Ungheria: riforma della scuola locale

Didactica magna (1638) Janua linguarum reserata (1628-31) Orbis sensualium pictus (1658)

empirismo vs astrattezza dellʼeducazione tradizionale


lingua nazionale vs latino

centralità del metodo -> didattica capace di estendersi allʼintera organizzazione


della prassi educativa

Educazione -> tutti gli uomini di ogni razza, ceto, sesso, religione, età
(pampaedia)
universale riguardante ogni cosa, (pansofia) impartita in ogni modo possibile

prospettiva che sappia contemplare lʼinsieme di tutti i saperi -> Pace universale

Naturalità -> modo naturale di sviluppo del bambino:


a) esercizio delle facoltà legate ai sensi esterni
b) esercizio della memoria e dellʼimmaginazione (sensi interni)
c) attivarsi della volontà
d) comprensione piena -> uomo adulto

corrispondenza delle parole alle cose realismo


accostamento di un oggetto ad ogni termine gnoseologico e pedagogico

parola -> disegno illustrato figure/ nomenclature/ descrizioni

(Orbis sensualium pictus) (titoli)(spiegazioni)


universalità
metodo semplice, facile, gradevole, dilettevole, giocoso semplicità
scuola = preludio alla vita spontaneità

Gradualità -> il curriculum degli studi deve seguire un ordine logico-evolutivo che proceda dal
semplice al complesso, dal generico allo specifico, assecondando le tappe dello
sviluppo in relazione allʼetà ed agli interessi dellʼeducando

Ciclicità -> esporre tutto il sapere nella sua globalità fin dallʼinfanzia, dapprima
in forma semplice e generale, successivamente in forma via via più
specifica, completa e complessa

Scuola pubblica indispensabile la collettività si prende cura di tutti i suoi membri


( anche ʻanormaliʼ)

scuole per i futuri genitori

Infanzia Schola materna fino a sei anni

Puerizia Schola vernacula fino a 12 anni

Adolescenza Schola latina fino a 18 anni

Giovinezza Accademia fino a 24 anni

Futuri maestri Schola scolarum

scuole per adulti


Il ‘600: le buone maniere, l’apprendistato e l’educazione femminile

Sul piano della vita quotidiana e della formazione diffusa, si può osservare che nel Seicento conti-
nua quella tendenza secondo la quale si assiste progressivamente alla formazione del sentimento del-
l’individualità. Siamo in un periodo di transizione, in cui si sta passando dalle forme aggregative
amplissime del medioevo (quando la vita dell’individuo si svolgeva costantemente in mezzo agli al-
tri, si era sempre in gruppo e la socievolezza costituiva il principio esistenziale fondamentale) a mo-
di di vita nei quali l’individuo, in particolare il borghese, comincia a ritagliarsi spazi privati, vale a
dire a costituire nuclei familiari sempre meno allargati, a sviluppare così il senso della famiglia e pa-
rallelamente dell’infanzia, intesa progressivamente come un’età con valenze specifiche e con carat-
teristiche diverse da quella adulta.
Il Seicento, dopo il Cinquecento, è il secolo in cui più si sviluppa l’idea della necessità di imparare
e seguire le buone maniere, in cui si diffondono molti manuali su come ci si deve comportare a ta-
vola, riguardo ai bisogni corporali, nelle occasioni di incontro sociale, su come parlare e su quali ar-
gomenti conviene discorrere: “Le regole delle buone maniere - dice J. Revel, (Gli ‘usi’ delle buone
maniere, in Ariès, Duby, a cura di, La vita privata) - possono essere intese come un’operazione di
delimitazione, anzi come una negazione della vita privata. Si può così tentare di seguire, lungo tre
secoli, lo spostamento di quella frontiera che, progressivamente, riduce il privato all’intimo, poi l’in-
timo al segreto, anzi all’inconfessabile.”
A causa dell’imporsi delle buone maniere ciò che prima si faceva in pubblico ora si fa nel privato,
fino al punto in cui si ha vergogna (nasce infatti parallelamente anche il senso della vergogna e del
pudore) di compierlo anche nell’intimità, e quindi non si osa comunicarlo agli altri e neppure a se
stessi. Si assiste a una progressiva interiorizzazione sociale e individuale della norma, così che l’in-
dividuo ne diventa complice inconsapevole e si assume tutto il peso di corrispondere più che può a
tale aspettativa sociale, pena l’aumento intollerabile del senso di colpa.
Sembra di poter affermare che il dispositivo pedagogico presente nelle pratiche educative del Sei-
cento consista da una parte nella prosecuzione delle forme tradizionali di esperienza, in cui i giovani
si formavano essenzialmente attraverso la partecipazione precoce e piena alla vita sociale collettiva,
in cui stavano assieme promiscuamente giovani, adulti e anziani, in cui cioè la socializzazione diffu-
sa era il tramite fondamentale della riproduzione culturale e comportamentale a fini di integrazione
sociale. Dall’altra parte assistiamo allo svilupparsi di un dispositivo più specifico che, tramite i col-
legi, le scuole religiose, la nuova disciplina, i codici diffusi sulle buone maniere, indirizzano intenzio-
nalmente e programmaticamente le condotte, i comportamenti anche quotidiani, i saperi e le cono-
scenze, la vita morale, l’uso del tempo libero, insomma la formazione del giovane, verso modalità di
riproduzione e di integrazione sociale sempre più controllate e mirate.
Nel Seicento continua il fenomeno dell’apprendistato del giovane, se povero o piccolo-borghese,
presso famiglie dove impara un mestiere e una condotta adeguata, se ricco e nobile presso famiglie
aristocratiche o presso corti, anche straniere, dove acquisire le buone maniere e l’etichetta del pro-
prio rango. Per quanto riguarda l’educazione femminile, le ragazze per lo più continuavano a rimane-
re prive di una educazione approfondita, sia che restassero ad apprendere dalle donne di casa le tra-
dizionali funzioni femminili, sia che fossero destinate all’educazione conventuale. Varie le ragioni
dell’ingresso in convento: ci sono figlie di famiglie nobili o ricche che vengono destinate fin da bam-
bine alla monacazione, altre della medesima estrazione che rimangono in convento solo il tempo ne-
cessario a ricevere un’opportuna formazione, infine fanciulle delle classi popolari accolte per carità,
e quindi indotte a prendere i voti.
Molte le congregazioni che che nascono a scopi caritativi ma anche di alfabetizzazione delle bambi-
ne; emblematico il caso dell’ordine delle “Orsoline” (fondato nel 1535) al fine di “consolare le vergi-
nelle afflitte, istruire le ignoranti, sollevare le povere, visitare le malate e abbracciare ogni disagio”.
PEDAGOGIA
TEMI E PROBLEMI
EDUCAZIONE, EDUCABILITÀ E POTENZIALE FORMATIVO

Essere educati / autoeducarsi / educare


L’educazione è anzitutto una serie di eventi di cui tutti gli esseri umani fanno esperienza, come educa-
tori o destinatari di educazione. Tutti gli interventi educativi che superano il semplice addestramento a
comportamenti meccanici e il puro apprendimento di nozioni si realizzano tuttavia solo in corrispon-
denza di processi di autoeducazione, in cui l’individuo si appropria autonomamente di ciò che avverte
come coerente con il proprio “piano di vita”.
Secondo alcuni autori occorrerebbe a questo proposito distinguere fra azione formativa, in cui l’atten-
zione verte sull’offerta di educazione da parte di apparati, strutture, mezzi, operatori e così via, e pro-
cesso formativo, imperniato sul soggetto e sulla autonoma domanda di educazione. I caratteri generali del
processo formativo possono così essere riconosciuti nella naturalità, in quanto esso si produce in mo-
do spontaneo e talvolta inconsapevole; nella unitarietà, poichè per l’individuo le diverse componenti
della formazione sono inscindibilimente collegate e procedono assieme, nell’integrazione, per cui varia-
bili come eredità e ambiente, emozione e intelletto contribuiscono alla crescita dell’individuo in un unico
intreccio; e infine dell’evolutività, per cui esistono in ogni individuo una “tensione esplorativa” e una
capacità di immagazzinare e sistemare produttivamente i risultati dell’esperienza.

Educazione, istruzione, formazione


Intesa come insieme “di attività per mezzo delle quali gli uomini cercano di promuovere la personalità
(migliorare stabilmente le condizioni psichiche) di altri uomini sotto un qualche aspetto” (Brezinka),
l’educazione è collegata ad un complesso di attività sociali per le quali si usano anche espressioni come
socializzazione e inculturazione. E’ comune a questo proposito anche distinguere l’istruzione, come
processo orientato alla trasmissione e alla produzione guidata di nozionie comportamenti specifici, dal-
l’educazione, come processo indirizzato invece a sollecitare lo svolgimento “naturale”’ e globale della
personalità. Tale distinzione è però fonte di molte discussioni e viene variamente interpretata nelle di-
verse teorie. Così vi è stato chi, come Riccardo Massa, propone a questo proposito di superare il dua-
lismo fra educazione e istruzione con l’unificazione dei due termini nel concetto di formazione, che im-
plica sia l’idea di un’attività in cui qualcuno si indirizza a qualcun altro con fini pedagogici (colui che
“forma”) sia l’idea di un percorso autoformativo nell’esperienza, in cui qualcuno si “forma” autonoma-
mente.

Educazione e apprendimento.
L’insegnamento ha per gli esseri umani una base naturale, dimostrata dal fatto che si produce sponta-
neamente tra adulti e bambini. Allo stesso tempo, però, l’insegnamento assume presto le caratteristiche
“artificiali” di un processo razionalmente diretto e programmato (come avviene per esempio a scuola)
per ottenere la massima efficacia di apprendimento. E’ inevitabile, infatti, che l’attività dell’insegnare
comporti qualcosa che va al di là delle modalità naturali dell’apprendimento, perchè canalizza, prestabi-
lisce, programma situazioni che nell’apprendimento spontaneo potrebbero non prodursi. Quindi l’inse-
gnamento produce un tipo di apprendimento in qualche modo “artificiale”. Il rapporto tra insegnamento
e apprendimento spontaneo, o meglio ancora tra apprendimento spontaneo e apprendimento artificia-
le, è così uno delle grandi questioni della riflessione pedagogica. . Carl Rogers distingue due tipi di ap-
prendimento: un apprendimento che chiama in causa solo la mente, coinvolge l’individuo esclusiva-
mente “dal collo in sù”, che non tiene conto di sentimenti o significati personali; un apprendimento
significativo che, all’estremùo opposto, è basato sull’esperienza ed è capace di destare gli interessi vitali
del soggetto che apprende: “Quando il bambino che muove incerto i suoi primi passi tocca il termosifo-
ne acceso, impara da solo il significato di una parola: “caldo”; egli ha inoltre appreso una regola di
prudenza”.
Problematicità dell’educazione e potenziale formativo
L’efficacia dell’insegnamento e dell’attività formativa in genere dipendono anche dal potenziale forma-
tivo coinvolto. L’attività educativa ha al suo centro l’uomo nella sua realtà individuale e sociale, con i li-
miti che caratterizzano il suo potenziale formativo. L’espressione “potenziale formativo” indica anzi-
tutto la misura di ciò che nell’uomo può essere sviluppato mediante educazione; si tratta di un insieme
di potenzialità individuali che devono sempre, inevitabilmente, essere in parte ipotizzate, in mancanza
di conoscenze, strumenti e procedimenti in grado di fornire su di esse previsioni complete.
L’educazione contiene perciò un elemento di “scommessa” e “rischio”, che consiste nel compiere azioni
formative la cui efficacia dipende da caratteristiche dell’allievo “probabili” anzichè “certe”: si entra qui
nella riflessione sulla educabilità di ogni singolo uomo. Ma l’espressione “potenziale formativo” può
indicare anche la misura di ciò che determinate agenzie o azioni possono produrre nell’ambiente educati-
vo. Da questo punto di vista si può parlare di “potenziale formativo” della scuola, dei mass-media, della
famiglia, del gruppo dei pari.

Educazione e educabilità: il concetto e le forme


L’educazione occupa un posto così rilevante nello sviluppo della nostra specie grazie ad una serie di
caratteristiche che rendono gli esseri umani particolarmente recettivi all’apprendimento e all’insegna-
mento. Tale recettività, spesso indicata con il concetto di educabilità, è stata spiegata dalle scienze
umane con fatti come la prolungata infanzia, la neotenia (intesa come maggiore adattabilità del nostro
cervello ai cambiamenti), l’uso di un linguaggio simbolico, la socialità, e così via. Il termine “educabilità”
viene normalmente utilizzato nel dibattito pedagogico e sociale, per indicare l’ambito di efficacia delle
azioni educative (per cui determinati aspetti dell’individuo vengono considerati non educabili, o non più
educabili in una data fase della vita). Ogni modello educativo contiene al proprio interno non solo una
determinata idea dell’educazione e un’immagine dell’uomo, ma anche una concezione, variamente moti-
vata, dei limiti della sua educabilità.

I termini attuali del problema: natura e cultura


Numerosi studiosi dibattono tuttora sulla relazione fra natura e cultura, ossia sulla valutazione del-
l’importanza nello sviluppo dell’eredità e dell’ambiente. Sul problema dell’educabilità lo scontro fra
innatisti e ambientalisti dura dall’Ottocento con vistose oscillazioni. Attualmente si assiste ad un mas-
siccio ritorno di posizioni innatiste, favorite dall’aumento delle cognizioni sulla trasmissione genetica
dei caratteri. Il vero problema - una volta ammesso che i fattori innati e quelli ambientali incidonono in
maniera complementare sui processi di apprendimento - consiste tuttavia nel comprendere come si
verifica l’interazione tra eredità e ambiente.

Le forme dell’educabilità e il problema delle differenze innate


I modelli educativi della nostra cultura individuano l’educabilità su diversi fronti che concernono alme-
no la socialità, l’attività cognitiva, l’attività linguistico-comunicativa, la psicomotricità, la dimensione
emozionale ed espressiva e la dimensione della personalità. Le diverse teorie adottano però per ciascu-
no di questi ambiti differenti valutazioni, accentuando o diminuendo, di volta in volta, le possibilità di
intervento educativo.
La questione dei limiti dell’intervento educativo riguarda anche la reale efficacia dell’educazione rispet-
to alle differenze individuali e la possibilità dell’educazione di ridurre le disparità fra individui che gene-
rano disuguaglianza sociale. Data infatti l’assoluta unicità dei patrimoni genetici, ciascuno di noi è por-
tatore di differenze ereditarie o comunque innate rispetto agli altri.
Altrettanto problematico è il ruolo dell’educazione nel ridurre le differenze tra i diversi gruppi umani.
L’impostazione generale della discussione, piuttosto vecchia, risale da una parte al darwinismo e alle
teorie antropologiche razziali, dall’altro allo sviluppo dei test di misurazione dell’intelligenza. A partire
ligenza individuato attraverso una forma modificata del primo test applicato su popolazioni scolasti-
che). L’evoluzione degli studi sull’intelligenza ha portato a questo proposito ad una revisione critica
dell’uso dei test: attualmente si è passati dalla concezione “monolitica” che considerava l’intelligenza
come una singola capacità generale ad una visione che la frantuma in numerose capacità particolari e
diverse, nella cui definizione non sono escluse componenti culturali. Così, secondo Howard Gardner,
autore di numerosi studi sulla pluralità delle intelligenze, “Un’intelligenza è la capacità di risolvere pro-
blemi, o di creare prodotti, che sono apprezzati all’interno di uno o più contesti culturali”: pertanto la
valutazione di eventuali deficit dovrebbe essere attuata solo dopo l’analisi dei modelli di riferimento
utilizzati dal ricercatore rispetto al contesto culturale o agli “stili cognitivi” del gruppo esaminato.

Bisogni, motivazioni, interessi: educazione e “progetto” individuale


La riflessione sull’educazione e le sue finalità deve partire dalle finalità proprie dell’individuo e ante-
riori al processo educativo, considerando la problematicità della motivazione.
1. Motivazioni e bisogni
Se per motivazione si intende ciò che attiva e dirige un individuo verso una meta, allora l’efficacia del-
l’insegnamento può essere spiegata come risultato di una motivazione corrispondente ad apprendere.
Quando si propone di individuare i motivi alla base del comportamento umano, la psicologia parla gene-
ricamente di “motivazioni”, sebbene in numerose teorie psicologiche e pedagogiche si utilizzi con fre-
quenza il termine bisogni. Con questa parola si tende a sottolineare come i motivi del comportamento
siano legati alla presenza di carenze che l’individuo cerca di compensare attivandosi. L’analisi pedagogi-
ca della motivazione richiede il riconoscimento dei bisogni che ne sono alla base, soffermandosi in parti-
colare sulla distinzione tra bisogni naturalmente presenti nella nostra specie e bisogni indotti dai proces-
si sociali. Distinzione spesso non facile, a causa della profondità con cui la società organizza la persona-
lità e la visione del mondo degli individui (si pensi al fenomeno ben noto del consumismo).
Altra distinzione fondamentale, per quanto riguarda l’analisi pedagogica del campo delle motivazioni, è
quella tra motivazioni intrinseche ed estrinseche. Le prime sono interne all’individuo e producono ap-
prendimenti spontanei e finalizzati solo al piacere di aver appreso, mentre le seconde collegano il conte-
nuto dell’apprendimento ad altri eventi percepiti come piacevoli o spiacevoli (premi o castighi).
Il problema del rapporto tra apprendimento naturale e insegnamento diviene così anche il problema del
rapporto tra insegnamento e motivazioni: in che misura l’insegnamento può unirsi alle motivazioni in-
trinseche? In che misura le motivazioni estrinseche giovano all’apprendimento o interferiscono con le
motivazioni intrinseche?
Le motivazioni intrinseche sono state variamente classificate. I bisogni innati specie-specifici che
vengono solitamente riconosciuti come intrinseci dell’uomo sono: la curiosità, il need for competence,
l’affiliazione. Occorre ricordare in particolare, per quanto concerne l’analisi pedagogica, le tendenze
esporative mediante le quali, a partire dalla primissima infanzia, gli individui raccolgono stimoli e cono-
scenze sull’ambiente che li circonda. A partire da questa premessa la psicologia ha studiato i diversi
modi in cui si esprime la nostra predisposizione alla ricerca a all’apprendimento; già nel comportamento
dei neonati, come ha osservato Jerome Bruner, si manifesta una forte curiosità, prima episodica e poi
progressivamente più sistematica, su cui si innesta un desiderio di competenza.
D’altra parte, l’attività educativa è stata spesso fondata su motivazioni estrinseche, secondo pratiche
che privilegiano il controllo degli stimoli esterni in grado di far produrre all’allievo un dato apprendi-
mento indipendentemente dalla sua motivazione interna.
2. Gli interessi.
Bisogni e motivazioni intrinseci si esprimono, di solito, con comportamenti consapevoli e rivolti ad
una meta specifica. A proposito di ciò che organizza ed indirizza questi comportamenti si parla generi-
camente di interesse. Secondo l’opinione del grande pedagogista belda Ovide Decroly, gli interessi
rispondono alla sollecitazione dei bisogni ma richiedono anche al mediazione dell’intelligenza e della
mentale per la disponibilità ad apprendere nel rapporto educativo: come già nell’800 notava Herbart,
gli interessi forniscono la chiave per l’efficacia del metodo educativo, in quanto consentono sia l’orga-
nizzazione interna di ciò che è stato appreso, sia l’apertura verso nuove acquisizioni. La pedagogia del-
l’età contemporanea ha poi cercato di classificare gli interessi generali ritenuti comuni a tutti gli esseri
umani. A questo proposito molte teorie educative del novecento (si pensi, oltre a Decroly, ad autori
come Claparède, Neill, Rogers), hanno cercato di fondare interamente l’attività educativa su bisogni ed
interessi, riconosciuti come presupposto ineliminabile per la disponibilità all’apprendimento.

Interagire e integrare: educazione e progetto sociale


La società umane si è evoluta attraverso la trasmissione di quell’insieme di linguaggi, tradizioni, strate-
gie, valori ed usi che viene raggruppato sotto il nome di “cultura”. Questa trasmissione fornisce al nuo-
vo membro di una comunità una serie di strumenti indispensabili all’interazione, all’integrazione con gli
altri e alla sua sopravvivenza: allo stesso tempo è utile anche alla società per poter mantenere la propria
continuità tra passato e futuro. I sociologi designano spesso gli aspetti di questo processo come socia-
lizzazione, gli antropologi preferiscono parlare di “inculturazione”; gli studiosi di pedagogia, a loro vol-
ta, usano a questo proposito l’espressione educazione sociale.
Se intendiamo l’educazione sociale come totalmente coincidente con la socializzazione, allora le
“agenzie” individuate dalla sociologia alla base di questo processo possono essere pienamente equipa-
rate ad “agenzie educative”. L’analisi dell’educazione nella società contemporanea dovrà di volta in vol-
ta confrontarsi con il ruolo educativo della famiglia, della scuola, del gruppo, della comunità, dei mass-
media, dell’ambiente lavorativo, delle associazioni e delle istituzioni e così via.
Secondo Schaffer nella nostra società sono presenti tre diversi modelli di socializzazione. Il meno dif-
fuso di essi intende la socializzazione come un processo simile al “modellamento della creta”, in cui il
bambino deve semplicemente ricevere ed accettare passivamente l’azione delle agenzie educative.
Troviamo poi il modello conflittuale, sostanzialmente accettato anche dalla psicoanalisi freudiana, se-
condo cui la socializzazione esercitata dagli adulti nei confronti dei bambini consisterebbe soprattutto in
un contenimento e in una canalizzazione degli impulsi antisociali presenti in modi innato nella natura
infantile. Infine, il modello più recente è basato sull’idea di una reciprocità fra l’adulto e il bambino, do-
ve quesrt’ultimo partecipa attivamente con il primo alla costruzione di interazioni non conflittuali ma
reciprocamente gratificanti. Quest’ultimo modello afferma che l’individuo non è semplice recettore pas-
sivo, ma partecipa attivamente sulla base di bisogni ed interessi personali al processo di socializzazione,
già a partire dalla sua prima realizzazione nell’ambito familiare.

Bisogni e interessi sociali.


La valutazione del versante sociale dell’educazione richiede l’analisi dei bisogni e degli interessi della
società nel suo complesso che ne sono alla base. E’ possibile osservare alcune caratteristiche comuni ad
ogni società. L’educazione è produttrice di consenso, e quindi di mantenimento dei rapporti e dell’or-
ganizzazione sociale nella sua forma costituita, ma esiste anche la possibilità per i sistemi educativi di
fornire elementi di conflitto, cioè di parziale o totale rottura dell’ordine sociale in cui sono inseriti.
L’educazione può quindi esssere usata socialmente come semplice riproduzione dell’esistente, come
elemento di promozione della trasformazione, come elemento rivoluzionario.
Inoltre l’educazione sociale è caratterizzata anche rispetto al suo rapporto con l’individuo: può essere
infatti volta ad integrare il singolo all’interno di una data condizione o a emanciparlo da essa. Possiamo
definire psicocentrica un’educazione in cui l’importanza attribuita alla autoformazione dell’individuo
sopravanza la spinta al suo conformarsi alle aspettative e alle norme sociali, mentre sociocentrica è
l’educazione in cui questa tendenza a conformarsi è assolutamente prioritaria rispetto ai valori dell’indi-
viduo.
Di volta in volta l’educazione sociale compie scelte verso l’uno o verso l’altro di questi estremi, nella
EDUCAZIONE ED ESPERIENZA

EDUCAZIONE

azione formativa processo formativo


(agenzie educative) soggetto

socializzazione crescita personale naturalità


unitarietà
istituzioni educative integrazione
(testo: Mario Lodi) evolutività

EDUCAZIONE, EDUCABILITAʼ E POTENZIALE EDUCATIVO

azione formativa
1. educazione, istruzione, formazione
processo formativo

2. insegnamento e apprendimento spontaneo vs artificiale


(testo: Carl Rogers)
misura di ciò che nellʼuomo
3. Problematicità dellʼ educazione e potenziale formativo può essere sviluppato
tramite lʼeducazione

4. Educabilità recettività degli esseri umani allʼ apprendimento ed allʼ insegnamento;


ambito di efficacia delle azioni educative.

a) natura e cultura: “innatisti” e “ambientalisti”


b) le differenze individuali; incidenza dei patrimoni genetici;
differenze tra i diversi gruppi umani;
lʼ uso dei test per la misurazione del Q. I. :
dalla concezione monolitica allʼ intelligenza “multipla” (Howard Gardner)

5. Motivazioni ciò che attiva e dirige un individuo verso una meta


bisogni naturali e “culturali” (motivazioni primarie e secondarie)
motivazioni estrinseche ed intrinseche;
bisogni innati specifici: la curiosità e la tendenza allʼ esplorazione
interessi: motivazioni consapevoli indirizzate ad una meta specifica (O.Decroly)

6. Educazione e
progetto sociale integrazione e trasmissione culturale
antropologia => inculturazione
pedagogia => educazione sociale famiglia
scuola
agenzie educative gruppo dei pari
mass-media
ambiente di lavoro
modelli di socializzazione associazioni e istituzioni
(Rudolph Schaffer: testo)

“modellamento modello modello


della creta” conflittuale della reciprocità

produttrice di consenso (riproduzione dellʼ esistente)


educazione
bisogni ed promozione della trasformazione (elemento rivoluzionario)
interessi
della società psicocentrica autoformazione dellʼ individuo
educazione
sociocentrica conformazione alle aspettative
ed alle norme sociali
EDUCAZIONE, EDUCABILITAʼ E POTENZIALE EDUCATIVO

insegnamento -> processo razionalmente diretto e programmato per


e ottenere la massima efficacia di apprendimento
apprendimento spontaneo vs artificiale (testo: Carl Rogers)

Problematicità dellʼ educazione misura di ciò che nellʼ uomo


e può essere sviluppato
potenziale formativo tramite lʼ educazione
(agenzie e azioni)

recettività degli esseri umani allʼ apprendimento ed allʼ insegnamento


“neotenia”: adattabilità mentale ai cambiamenti / infanzia prolungata
Educabilità ambito di efficacia delle azioni educative (possibilità e limiti)
socialità - attività cognitiva - attività linguistico-comunicativa
psico-motricità - dimensione emozionale espressiva - personalità

natura e cultura: differenze individuali


“innatisti” e “ambientalisti”
interazione eredità - ambiente differenze tra i diversi gruppi umani

uso dei test per la misurazione del Q. I.


concezione monolitica -> intelligenza “multipla” (H. Gardner)

Motivazioni => ciò che attiva e dirige un individuo verso una meta “need” -> “drive”
bisogno impulso
primarie -> bisogni naturali (carenziali)
vs
secondarie -> bisogni “culturali” (indotti)

estrinseche -> dipendenti da premi e castighi


vs
intrinseche -> legate allʼ appagamento interno per lʼazione compiuta

1. la curiosità (tendenza allʼ esplorazione)


bisogni innati specie-specifici 2. “need for competence”
3. affiliazione 4. autorealizzazione

interessi: motivazioni consapevoli indirizzate ad una meta specifica (O.Decroly)

Educazione e integrazione e trasmissione culturale


progetto sociale sociologia => socializzazione
antropologia => inculturazione
pedagogia => educazione sociale
famiglia
scuola
agenzie educative gruppo dei pari
mass-media
ambiente di lavoro
modelli di socializzazione associazioni e istituzioni
(Rudolph Schaffer: testo)

“modellamento modello modello


della creta” conflittuale della reciprocità

produttrice di consenso (riproduzione dellʼ esistente)


educazione
bisogni ed promozione della trasformazione (elemento rivoluzionario)
interessi
della società psicocentrica autoformazione dellʼ individuo
educazione
sociocentrica conformazione alle aspettative
ed alle norme sociali
I MODELLI FORMATIVI

L’educazione tra dimensione formale e informale


La nostra società, a elevata complessità tecnologica, tende a potenziare l’aspetto intenzionale
dell’educazione, e a sviluppare e moltiplicare le agenzie specificamente indirizzate all’educazione
formalizzata, vale a dire ad una modalità di educazione caratterizzata da una programmazione con-
sapevole del processo formativo. A questo riguardo il fenomeno più significativo è lo sviluppo di
istituzioni come la scuola, la quale costituisce un ambiente di apprendimento a sé, con tempi e com-
piti prefissati per un “periodo di preparazione” oltre il quale la società ritiene sostanzialmente com-
pletata la formazione dell’individuo.
Peraltro il fenomeno educativo attualmente più significativo a livello mondiale è l’estensione delle
attività programmate di educazione. Nate in ambito scolastico in riferimento alle prime fasi della vi-
ta, tali attività sono state via via ampliate in riferimento all’età (educazione permanente), agli am-
bienti (educazione extrascolastica), ai gruppi (educazione sociale), alla personalità (educazione inte-
grale); in rapporto a determinati interessi economici, politici, culturali e religiosi. Questo scenario è
ricco di sviluppi e di conseguenze che richiedono una riflessione approfondita sull’esperienza edu-
cativa.

Dall’attività educativa ai modelli formativi.


Il pedagogista Remo Fornaca ha proposto (L’educazione, matassa intricata, 1980) la distinzione
fra fenomeni educativi, modelli educativi e modelli pedagogici.
Fenomeni educativi. Premesso che che non esistono fenomeni educativi “naturali”, giacché tutta
l’esperienza umana viene in qualche modo filtrata attraverso significati individuali e prodotti dalla
cultura di appartenenza, Fornaca ritiene che si debba attribuire il titolo di “educativo” a un evento (o
fenomeno) collegato ad un significato che risulti orientato verso la modificazione di condotte e di
modi di essere individuali o collettivi. Da questo punto di vista l’educazione riguarda sia lo spazio
delle attività scolastiche e formalizzate sia la dimensione dell’extrascolastico e dell’informale.
I modelli educativi. Ogni processo educativo comporta delle azioni orientate da concezioni che
possono andare da una visione generale dell’uomo fino al valore attribuito a pratiche minute come
l’educazione all’igiene personale. La condivisione sociale di questi modelli educativi non è tuttavia
identica, poichè vi sono, all’interno della stessa società, modelli dominanti, emergenti o subalterni,
spesso contrastanti o parzialmente conflittuali. Dato poi che i fatti educativi vengono controllati
parallelamente da diverse agenzie (famiglia, scuola, Chiesa, gruppo dei pari...), le cui concezioni non
sono mai del tutto omogenee, risulta inevitabile che un individuo membro di una società complessa
venga sottoposto, in genere, all’azione di modelli educativi diversi.
I modelli pedagogici. Quando un modello educativo possiede una giustificazione esplicita dei
propri contenuti riferita a teorie, ideologie*, concezioni operative, scientifiche o sperimentali, può
essere definito ‘modello pedagogico’. É proprio dei modelli pedagogici “di giustificare, secondo
specifici criteri, il valore, la validità delle proposte, degli interventi, delle finalità perseguite” con
obiettivi sia descrittivi che prescrittivi, cioè tendenti a modificare in una data direzione i fenomeni
educativi. Troviamo perciò anche una molteplicità di modelli pedagogici, di volta in volta collegabili
a concezioni ideologiche, politiche, religiose, filosofiche, scientifiche e sperimentali. Si potranno in-
contrare, come modelli pedagogici presenti e tra loro contrastanti nell’educazione contemporanea, i
modelli tradizionalista, tecnocratico, progressista (A. Linares, 1972), oppure i modelli moderno e
postmoderno (C. Volpi, 1993).
* Ideologia. Il termine ideologia può essere inteso per indicare la “visione del mondo” di un particolare
gruppo (o di una particolare classe) sociale, una credenza sociale che serve a orientare e controllare i
comportamenti collettivi.
modello modello modello
tradizionalista tecnocratico progressista

concetto di arte analisi psicologica, enciclopedia


pedagogia apprendimento delle scienze umane

rapporto comunicazione comunicazione comunicazione


pedagogico di spiriti informativa psico-sociologica

comunicazione culto del maestro culto della scienza biunivoca


amore dello scolaro controllo dell’alunno rispetto per lo scolaro

situazione chiusa aperta alla aperta a tutta


pedagogica produzione economica la realtà sociale

problemi basso livello alunni, carenza preparazione ins. obiettivi, metodi,


dell’istruzione loro fini utilitaristici insufficienze materiali contenuti insegnamento

contenuti tradizione utilità pratica istanze e interessi reali

alunno scolaro ideale alunno medio ogni alunno

codice il problema non si pone codice standard codici differenziati

insegnamento = potere politico, carriera, mezzo di professione-chiave


economico, culturale promozione

formazione insegnante si nasce, professione “facile” formazione accurata


dell’insegnante non si diventa

valori ordine, silenzio efficacia, rendimento libertà, arricchimento


educativi disciplina, rispetto didattico delle funzioni relazionali

Secondo alcuni studiosi, come ad esempio Jerome Bruner, i modelli educativi e pedagogici sono
culturalmente condizionati e condizionanti, nel senso che tendono a creare la realtà che descrivono.
Tali caratteristiche non sono solo proprie di quei modelli che dipendono esplicitamente da ideologie
o concezioni religiose, ma appartengono anche alle concezioni qualificate come “scientifiche”, am-
piamente diffuse nella pedagogia dell’ultimo secolo. La riflessione contemporanea ha infatti ormai
scartato l’idea di una scienza capace di fornire una descrizione della realtà come è effettivamente in
sé, pertanto nessuna teoria può essere considerata “vera” in senso assoluto e definitivo. Quindi an-
che i modelli pedagogici di derivazione più spiccatamente scientifica non possono essere considerati
di per sé “veri”, analogamente ai modelli educativi che si sviluppano nelle pratiche sociali e nella
“psicologia ingenua” degli individui. Occorre perciò valutare attentamente il significato di ciascun
modello rispetto ai risultati che si intende produrre.

La trasmissione dei modelli educativi

La trasmissione dei modelli educativi dipende in primo luogo dal loro essere parte integrante di una
cultura. Ciò significa che essi sono saldamente collegati alle concezioni ed alle forme di organizzazio-
ne di ciascuna società. La loro trasmissione non può dunque essere distinta dal processo globale di
trasmissione della cultura e può essere prevalentemente informale e non-intenzionale senza per que-
sto diminuire di efficacia. Particolarmente significative sono, a questo proposito, le indagini a carat-
tere storico-sociologico condotte sulle immagini della nostra cultura e sulle pratiche educative da es-
se generate (si pensi, ad esempio, alle osservazioni di Philippe Ariès sulla nascita del senso dell’”in-
nocenza” infantile nell’età moderna).
É stato invece merito di esponenti della Scuola di Francoforte come T. W. Adorno ed E. Fromm, di
psicoanalisti come Alice Miller, Erik Erikson, l’aver messo in luce il rapporto esistente fra partico-
lari strutture sociali e familiari e lo sviluppo, mediante pratiche educative, di personalità particolari e
patologiche. Secondo questi studiosi i meccanismi che portano alla “persecuzione del bambino”, alla
genesi di “personalità autoritarie” sono profondamente connessi con l’organizzazione di base della
società e con la sua cultura, e si riproducono con esse. Sulla scia di simili concezioni ci si è dunque
preoccupati di delineare il rapporto fra le trasformazioni storico-culturali della società contempora-
nea e i modelli educativi che ad esse si accompagnano.
Molte riflessioni si sono incentrate sulle implicazioni pedagogiche del passaggio fra moderno e
postmoderno, delineato a partire dagli anni ottanta come categoria interpretativa della nostra epoca.

Il modello educativo moderno

L’analisi dei modelli educativi generali della nostra società è oggi particolarmente complessa, a cau-
sa anche della transizione fondamentale che caratterizza il presente. Il punto di partenza di questa
transizione è quello della società industriale. Se già nel 1970 Walter Richmond proponeva di accet-
tare, come verità evidenti e interdipendenti, che l’educazione è un processo sociale e che “viviamo in
una società industriale”, a circa quarant’anni di distanza le “parole d’ordine” della società contempo-
ranea continuano ad essere caratterizzate da immagini economiche ed imprenditoriali: il “mercato”,
la “managerialità”, la “redditività”, la “spendibilità” e così via. Si parla sempre più spesso di “scuola
come impresa” e di “managerialità educativa”. Inoltre lo sviluppo degli apparati industriali e del si-
stema economico del nostro secolo ha prodotto una mentalità dominante caratterizzata dal ricono-
scere in essi “valori” a sé stanti. Secondo questa visione l’educazione è efficace quando viene gestita
con le stesse modalità di un processo produttivo in campo economico. I fini del processo educativo
sono così nella formazione di soggetti dotati di capacità funzionali alle richieste del sistema produt-
tivo, specialisti capaci di dominare i saperi particolari di volta in volta ritenuti necessari. I mezzi
consistono nella programmazione e nella pianificazione razionale di obiettivi e percorsi, nella co-
struzione di una adeguata tecnologia educativa fondata su valutazioni concrete e impersonali della
produttività e delle azioni formative. In una società caratterizzata dall’esplosione demografica, dalla
scolarizzazione di massa, dalla professionalizzazione del lavoro e dal moltiplicarsi delle aspettative,
il modello educativo dello “specialista” viene perciò ritenuto non solo adatto a una positiva integra-
zione, ma capace anche di promuovere quell’uguaglianza di opportunità e quell’emancipazione che
sono gli obiettivi fondamentali della pianificazione politica del XX secolo.

Il modello educativo postmoderno

Oggi bisogna però riconoscere che il paradigma scientifico-tecnologico e moderno-industriale è in


crisi. La pianificazione sociale ed educativa in nome dell’uguaglianza e dell’emancipazione non è sta-
ta realizzata o è fallita; la realtà dominante della società dell’informazione si impone come nuovo
paradigma. Sorge così il paradigma postmoderno, il quale richiede una trasformazione corrisponden-
te dei modelli educativi, capaci di integrare anche gli aspetti di relazionalità, emotività, espressività,
crisi del pubblico e del collettivo che lo caratterizzano.
Il postmoderno implica una inevitabile pluralità di modelli, un indebolimento della fede in una ra-
gione e in una scienza assolute e capaci di pianificare il futuro, una sovrabbondanza di informazioni.
Il modello umanistico tradizionale, preindustriale e staccato dalla contemporaneità, è a sua volta ina-
datto. Sorge dunque la necessità di un nuovo modello educativo, che Volpi definisce “dell’uomo
polivalente”, capace di coniugare umanesimo e specialismo, in modo da tenere assieme i saperi par-
ticolari e i vari “punti di vista”. L’uomo polivalente è anzitutto colui che non accetta passivamente
il dato della tradizione, ma se ne appropria in una personale ricerca critica, incentrata sul riconosci-
mento dell’instabilità dei valori; è colui che sa considerare, di volta in volta i problemi sia sotto la
luce particolare che in’ottica globale, capace di tradursi in valutazioni e decisioni autonome; è colui
che raggiunge questi obiettivi perchè è in grado di coinvolgere la propria personalità nella sua inte-
rezza, senza scindere la dimensione razionale da quella emotiva.
La formazione dell’uomo polivalente non deve perciò essere considerata una contrapposizione to-
tale rispetto ai modelli precedenti, ma una loro sintesi nuova. Del resto, modelli culturali moderno-
industriali e postmoderni si intrecciano profondamente nell’attuale realtà sociale che, proprio per
questa caratteristica, può essere definita complessa. Il paradigma interpretativo della complessità
presuppone infatti una realtà sociale multiforme e instabile, in cui il tentativo di controllo e pianifi-
cazione assoluta è puramente illusorio, mentre la comprensione richiede lo sviluppo di nuovi para-
digmi teorici, nel quadro di un passaggio ‘dalla certezza alla complessità’.
La dominanza dell’informazione nella società contemporanea fa però sì che in questa educazione
alla complessità debba anche essere presente la distinzione tra l’uomo “informato” e l’uomo “for-
mato”. “Informato” può essere lo specialista che sa selezionare e servirsi di volta in volta delle in-
formazioni che gli sono utili; “formato” è l’uomo polivalente che possiede queste capacità in un
quadro più ampio, che gli permette non solo di rispondere efficacemente alle innovazioni, ma anche
di comprenderle e controllarle attraverso una cultura personale che va al di là delle esigenze dell’im-
mediato.

I modelli formativi

moderno postmoderno

modello ed. tipico della società moderno-industriale modello ed. tipico della società postmoderna dominata
dominata da scienza e tecnologia. Per esso i fini del dall’informazione e dalla comunicazione. Per esso i fini
processo educativo sono nella formazione di soggetti del processo educativo sono nella formazione di un
dotati di capacità perfettamente funzionali alle richieste “uomo polivalente”, capace di coniugare umanesimo e
del sistema produttivo, specialisti capaci di dominare i specialismo in modo da tene re assieme i saperi parti-
saperi particolari di volta in volta ritenuti necessari. colari e i vari “punti di vista”, di saper rispondere effi-
cacemente alle innovazioni, comprenderle e controllarle
attraverso una cultura personale che va al di là delle
esigenze dell’immediato.

specialista personalità polivalente

descrizione comprensione
informazione “understanding”
produttività demistificazione

certezza complessità

programmazione pluralità di punti di vista

coerenza disponibilità
metodologica al cambiamento
I MODELLI FORMATIVI

ATTIVITA’
FORMATIVA

non modelli modelli


intenzionale intenzionale educativi pedagogici

informale formale

formazione
“diffusa”
tradizionalista tecnocratico progressista

MODELLI FORMATIVI

MODERNO POSTMODERNO

DISCORSI PEDAGOGICI

ufficiale contestatario

umanista innovatore

funzionale
I MODELLI FORMATIVI
informale -> formazione diffusa “discorsi”:
non intenzionale
modelli educativi umanista
attività formativa tradizionalista ufficiale

intenzionale formale -> modelli pedagogici tecnocratico funzionale


moderno
progressista innovatore
contestatario

postmoderno

educazione informale: modalità di educazione caratterizzata da interventi formativi non programmati e


legati alle occasioni che scaturiscono casualmente nella vita quotidiana comune
di educatore ed educando.
educazione formale: modalità di educazione caratterizzata da una programmazione consapevole del
processo formativo.
modelli educativi : concezioni che guidano le pratiche educative e che possono andare da una visione
generale dellʼ uomo fino al valore attribuito a interventi educativi specifici. Allʼ interno
della società complessa coesistono modelli educativi egemonici, emergenti o subalterni,
contrastanti o parzialmente conflittuali, legati alle differenti visioni del mondo dei diversi
gruppi sociali.
modelli pedagogici: modelli educativi dotati di una giustificazione esplicita dei propri contenuti riferita a teorie,
ideologie, concezioni operative, scientifiche o sperimentali. Eʼ proprio dei modelli peda-
gogici, giustificare, secondo specifici criteri, la validità delle proposte, degli interventi,
delle finalità perseguite; allʼ interno di essi vengono definiti infatti i fini, i mezzi ed i
destinatari dellʼ educazione.
discorso pedagogico: insieme delle affermazioni che vertono sullʼ educazione allo scopo di legittimare
o condannare suoi determinati aspetti, attraverso prese di posizione, progetti e
valori condizionati da premesse ideologiche ben precise.

modello modello modello


tradizionalista tecnocratico progressista

concetto di arte analisi psicologica, enciclopedia


pedagogia apprendimento delle scienze umane

rapporto comunicazione comunicazione comunicazione


pedagogico di spiriti informativa psico-sociologica

comunicazione culto del maestro culto della scienza biunivoca


amore dello scolaro controllo dellʼ alunno rispetto per lo scolaro

situazione chiusa aperta alla aperta


pedagogica produzione economica a tutta la realtà sociale

problemi basso livello alunni, carenza preparazione ins. obiettivi, metodi,


dellʼ istruzione loro fini utilitaristici insufficienze materiali contenuti
insegnamento
contenuti tradizione utilità pratica istanze e interessi reali

alunno scolaro ideale alunno medio ogni alunno

codice il probl. non si pone codice standard codici differenziati

insegnamento = potere politico, carriera, mezzo di professione-chiave


economico, culturale promozione

formazione i. si nasce, professione “facile” formazione accurata


dellʼ insegnante non si diventa

valori ordine, silenzio efficacia, rendimento libertà, arricchimento


educativi disciplina, rispetto didattico delle funzioni relazionali
I MODELLI FORMATIVI

extrascolastica
potenziamento degli aspetti estensione delle
intenzionali dellʼ educazione attività programmate educazione permanente

integrale / sociale
modelli educativi e pedagogici
i modelli come “mondi possibili”:
“nessuna teoria è “vera” in senso assoluto”

psicoanalisi
la trasmissione dei contributi
modelli educativi della
microsociologia.

I modelli formativi

moderno postmoderno
m. e. tipico della società moderno-industriale domi- m. e. tipico della società postmoderna dominata
nata da scienza e tecnologia. Per esso i fini del dallʼ informazione e dalla comunicazione.
processo educativo sono nella formazione di Per esso i fini del processo educativo sono nella
soggetti dotati di capacità perfettamente funzio- formazione di un “uomo polivalente”, capace di
nali alle richieste del sistema produttivo, specialisti coniugare umanesimo e specialismo in modo da tene-
capaci di dominare i saperi particolari di volta in re assieme i saperi particolari e i vari “punti di vista”,
volta ritenuti necessari. di saper rispondere efficacemente alle innovazioni,
comprenderle e controllarle attraverso una cultura per-
sonale che va al di là delle esigenze dellʼ immediato.

specialista personalità polivalente

descrizione comprensione
informazione “understanding”
produttività demistificazione

certezza complessità

programmazione pluralità di punti di vista

coerenza disponibilità
metodologica al cambiamento

def. scientifiche, generali di tipo convenzionale, descrittivo o


definizioni programmatico, untilizzate prevalentemente per scopi pratici

Il lessico pedagogico slogan forniscono una riunione simbolica delle idee chiave e delle attitu-
(Israel Scheffler) educativi dini fondamentali delle tendenze educative, a scopo persuasivo

metafore mettono in luce analogie senza solitamente precisare esplicita-


mente in cosa consistono (es. plasmazione, crescita, pianta, ecc.)

Olivier Reboul => carattere “ideologico” dei discorsi pedagogici

ufficiale verità precostituite difese


i cinque tipi di umanista con argomentazioni retoriche,
discorso funzionale attraverso slogan educativi,
pedagogico innovatore a scopo persuasivo e pratico,
contestatario più che dimostrativo.
I DISCORSI PEDAGOGICI

Insieme delle affermazioni che vertono sull’educazione allo scopo di legittimare


e condannare suoi determinati aspetti; in essi ricorrono prese di posizione,
progetti e valori condizionati da premesse ideologiche ben precise

DISCORSO PEDAGOGICO

contestatario innovatore funzionale umanista ufficiale

centralità del cultura classica;


caratteri precisione
rifiuto globale fanciullo; primato dei ottimismo
essenziali efficienza
dell’istituzione continuità contenuti; riformismo
pedagogia
vita - scuola; pedagogia sincretismo
scientifica
pedagogia fratturista
globale

società senza sviluppo autonomia consenso


fini della potere dell’uomo
classi o individuale; del giudizio; della nazione;
educazione sulla natura;
“convivialità” cooperazione, conservazione formazione
integrazione
democrazia del patrimonio culturale e
sociale
culturale professionale

“repressione” “creatività” “distinzione” dipendenti


termini obiettivo
manipolazione “spontaneo” “qualità” dalle mode
caratteristici comportamento
“inserito” “apertura” “sforzo” pedagogiche
operativo
“vita” “modello”
misurabile
“cambiamento” “chiarezza”

marxista neo-roussoiano reazionario governativo


varietà psico -pedagogico
libertario non-direttivo progressista internazionalistico
economista
psicoanalitico psicoanalitico cristiano regionalistico
laico

nichilismo elitismo verbalismo


tendenza scientismo
atteggiamento elitismo classismo volontarismo
tecnocrazia
oppositivo e/o eclettismo conservatorismo
distruttivo pedagogico

Olivier Reboul
discorso pedagogico:
“il più ideologico di tutti i discorsi”
I discorsi pedagogici

Olivier Reboul intende per discorso pedagogico l’insieme delle affermazioni che vertono sull’edu-
cazione allo scopo di legittimare o condannare suoi determinati aspetti; egli afferma (Il linguaggio del-
l’educazione, 1986) che il discorso sull’educazione è il più ideologico di tutti i discorsi; si può notare
che in esso ricorrono prse di posizione, progetti e valori condizionati da premesse ideologiche ben
precise. A parere di Reboul è possibile su questa base individuare cinque tipi fondamentali di discor-
so pedagogico: il discorso contestatario, il discorso innovatore, il discorso funzionale, il discorso uma-
nista, il discorso ufficiale. Ciascuno di questi tipi contiene una “verità” precostituita che viene difesa
con argomentazioni retoriche spesso senza che coloro che la sostengono se ne rendano neppure conto.
Parole come apprendimento, educazione, maturazione, trasmissione vengono quindi usate in modo da
legittimare l’opinione pedagogica di chi se ne serve. A loro volta, slogan come “democratizzare la scuo-
la” o “imparare ad imparare”, possono, data la loro brevità e la loro forza espressiva, essere utilizzati
in modo equivoco e, allo stesso tempo, efficace nel produrre consenso. Occorre tuttavia riconoscere,
secondo Reboul, che i vari discorsi pedagogici hanno il pregio di mettere in evidenza elementi del fatto
educativo realmente importanti per gli educatori.

DISCORSI PEDAGOGICI

contestatario innovatore funzionale umanista ufficiale


centralità del cultura classica;
caratteri fanciullo; precisione primato dei ottimismo
rifiuto globale
essenziali continuità efficienza contenuti; riformismo
dell’istituzione
vita - scuola; pedagogia pedagogia sincretismo
pedagogia scientifica fratturista
globale

sviluppo autonomia consenso


società senza
fini della individuale; potere dell’uomo del giudizio; della nazione;
classi o
educazione cooperazione, sulla natura; conservazione formazione
“convivialità”
democrazia integrazione del patrimonio culturale e
sociale culturale professionale

“distinzione”
“creatività” obiettivo “qualità” dipendenti
“repressione”
termini “spontaneo” comportamento “sforzo” dalle mode
manipolazione
caratteristici “apertura” operativo “modello” pedagogiche
“inserito”
“vita” misurabile “chiarezza”
“cambiamento”

neo-roussoiano reazionario governativo


marxista
varietà non-direttivo psico -pedagogico progressista internazionalistico
libertario
psicoanalitico economista cristiano regionalistico
psicoanalitico
laico

nichilismo elitismo
tendenza elitismo scientismo classismo verbalismo
atteggiamento
eclettismo tecnocrazia conservatorismo volontarismo
oppositivo e/o
distruttivo pedagogico
LA FAMIGLIA

La famiglia è la più importante e la più antica di tutte le istituzioni e in tutte le società essa resta
l’unità sociale fondamentale. Che cos’è esattamente una famiglia? Le nostre idee al riguardo tendono
probabilmente ad essere piuttosto etnocentriche, perché spesso si basano sulla “famiglia ideale” del-
la classe media, quella che la pubblicità dei mass-media assiduamente ci propina, ma questo modello
non è molto rappresentativo ed è comunque piuttosto recente. Per avere una definizione più corret-
ta della famiglia occorre tener conto delle numerose forme di famiglia che sono esistite e che esistono
ancora nelle diverse culture.
La prima caratteristica della famiglia è quella di essere un gruppo di individui in qualche modo im-
parentati tra loro. In secondo luogo i suoi membri vivono insieme per lunghi periodi di tempo. In
terzo luogo, gli adulti del terzo gruppo assumono la responsabilità di tutta la prole. Infine i membri
formano un’unità economica, in molti casi per la produzione di beni e servizi (per esempio quando
tutti partecipano ai lavori agricoli) e in ogni caso ai fini del consumo di beni e servizi (per esempio
per quanto riguarda il vitto e l’abitazione).
Possiamo dunque affermare che la famiglia è un gruppo relativamente stabile di individui legati tra
loro da un’ascendenza comune, dal matrimonio o dall’adozione, che convivono formando un’unità
economica e i cui membri adulti assumono la responsabilità dei piccoli.
In tutti i modelli di famiglia esiste una norma universale: un individuo non può accoppiarsi con
qualsiasi altra persona di suo gradimento. In tutte le società esiste un tabù dell’incesto che proibisce
i rapporti sessuali nell’ambito di certi rapporti di parentela. Il tabù si applica quasi universalmente
ai rapporti tra genitori e figli e tra fratello e sorella, ad eccezione delle famiglie al trono delle società
dell’antico Egitto, delle Hawaii e degli Inca e di alcune etnie africane.
Secondo la prospettiva funzionalista (Murdock, 1949, Parsons e Bales, 1955), la famiglia svolge
diverse funzioni fondamentali in tutte le società.
a) Regolamentazione del comportamento sessuale. Nessuna società permette che i suoi membri
possano accoppiarsi casualmente; il sistema matrimoniale rappresenta uno strumento atto a regola-
mentare il comportamento sessuale dei suoi membri.
b) Sostituzione dei membri e ricambio generazionale. Una società non riesce a sopravvivere se
non dispone di un sistema mediante il quale possa sostituire i suoi membri da una generazione all’al-
tra. la famiglia rappresenta uno strumento stabile, istituzionalizzato, mediante il quale si assicura il
ricambio generazionale.
c) Cura, protezione e socializzazione dei bambini. I bambini hanno bisogno di calore, di cibo, di
protezione e di affetto, e la famiglia costituisce un’atmosfera intima e costituisce al tempo stesso
un’unità economica che permette di soddisfare tutti questi bisogni. I genitori ripongono generalmen-
te una particolare attenzione nel controllare il comportamento dei figli e nel trasmettere loro il lin-
guaggio, i valori, le norme e le credenze propri della loro cultura; in altre parole, essi si pongono co-
me agenti della socializzazione dei figli. La famiglia resta il primo ed il più importante agente della
socializzazione.
d) Collocazione sociale. La nascita legittima nell’ambito di una famiglia conferisce agli individui
una posizione stabile nella società. dalla famiglia di orientamento si ereditano non soltanto oggetti
materiali, ma anche lo status sociale.

I modelli familiari

Forme di matrimonio
Il matrimonio può essere monogamico, ossia circostritto ad un solo uomo e a una sola donna, o
poligamico, quando una persona si sposa simultaneamente con due o più persone dell’altro sesso.
La forma di matrimonio prende il nome di poliginia se è l’uomo ad avere più di una moglie; se inve-
ce è la moglia ad avere più di un marito, si chiama poliandria. Quest’ultima si verifica soltanto in
condizioni eccezionali, come ad esempio presso i Toda (India), che, praticando l’infanticidio femmi-
nile, si trovano ad avere un forte soprannumero di maschi.

Partner preferenziale
Alcuni gruppi si attendono o esigono che i loro membri si sposino al di fuori del gruppo: questo
modello prende il nome di esogamia. Gli Aranda australiani, per esempio, dividono la loro società in
due sezioni e ciascun individuo può sposarsi soltanto con qualcuno che appartiene all’altra sezione.
Altri gruppi invece si attendono e esigono che i loro membri si sposino all’interno del gruppo: que-
sto modello prende il nome di endogamia. Generalmente i gruppi religiosi, razziali ed etnici pratica-
no l’endogamia, sia a causa dei pregiudizi, sia per la mancanza di contatti con gli altri gruppi, sia
perché viene usata come strumento per conservare la coesione del gruppo.

Modelli di residenza
Una coppia appena sposata può andare a vivere con la famiglia estesa del padre dello sposo, se-
guendo così il modello patrilocale, oppure può andare a vivere con la famiglia della sposa, seguendo
il modello matrilocale. Ma oggi è sempre più diffusa la consuetudine di formare una famiglia nucle-
are che va a stabilirsi in una propria residenza, seguendo il modello neolocale.

Modelli di autorità
Pur essendo influenzati dalla personalità degli sposi, i modelli di autorità che regolano i rapporti tra
marito e moglie seguono le norme imposte dalla società. In quasi tutte le società il modello dominan-
te è quello patriarcale, in cui l’ultima parola su tutto ciò che riguarda la famiglia spetta sempre al
marito. Non esiste oggi un vero e proprio sistema matriarcale che assegni alle donne una posizione
di autorità definitiva, pur esistendo diverse società nelle quali in certi settori della vita domestica la
moglie ha un potere maggiore del marito. Un terzo modello apparso in tempi recenti è quello della
famiglia ugualitaria. Si tratta di un fenomeno che sta diventando sempre più comune nel mondo
moderno e che vede marito e moglie più o meno su un piano di parità per ciò che riguarda le faccen-
de della famiglia.

Modelli di discendenza
Le forme principali di discendenza e di trasmissione ereditaria sono tre. Nel sistema patrilineare la
discendenza e l’eredità seguono la linea maschile della famiglia; i congiunti della madre non sono con-
siderati parenti e alle femmine non spetta alcun diritto di successione nella proprietà.
Nel sistema matrilineare accade l’inverso: i congiunti del padre non sono considerati parenti e la
proprietà si trasmette solo in linea femminile.
Nel sistema bilaterale, il tipo più comune per noi, ma seguito da meno della metà della popolazio-
ne mondiale, la discendenza e l’eredità seguono sia la linea maschile che quella femminile. Sono con-
siderati parenti i congiunti di tutti e due i genitori e la proprietà si trasmette sia ai maschi che alle
femmine.
FORME DI FAMIGLIA

Usando una categorizzazione approssimativa, i sociologi suddividono tradizionalmente tutti i si-


stemi familiari in due tipi principali. Nella famiglia estesa, più di due generazioni appartenenti allo
stesso ceppo parentale vivono nella stessa casa o in abitazioni contigue. Capo di tutta la famiglia di
solito è il maschio più anziano, mentre tutti gli adulti partecipano in varia misura all’allevamento dei
bambini ed all’esecuzione di altri compiti. Nella famiglia nucleare il gruppo si compone dei genito-
ri e della prole da loro dipendente e vive in una residenza separata da quella degli altri congiunti.
Peter Laslett e il Cambridge Group for the study of Population hanno elaborato, nel corso dei loro
studi demografici, una tipologia che prevede cinque diversi tipi di famiglia.
1. Vi è innanzitutto la famiglia semplice o nucleare, formate da una sola unità coniugale, sia essa
completa (marito, moglie e figli) o incompleta (madre vedova o divorziata con figli, oppure padre
vedovo o divorziato con figli).
2. Vi è in secondo luogo la famiglia dei solitari, costituita da una sola persona.
3. Il terzo tipo è quello della famiglia senza struttura coniugale, priva cioè di un’unità coniugale, e
formata da persone con altri rapporti di parentela (fratelli o sorelle non sposati).
4. Il quarto è quello della famiglia estesa, costituita da un’unità coniugale ed uno o più parenti con-
viventi. É estesa, ad esempio, una famiglia formata dal marito capofamiglia, la moglie, i figli, la madre
del capofamiglia.
5. Il quinto tipo è quello della famiglia multipla, formata da due o più unità coniugali. Le famiglie
multiple possono essere verticali o orizzontali. É multipla verticale, ad esempio, la famiglia compo-
sta da marito, moglie, figlio e moglie di quest’ultimo. É invece orizzontale una famiglia formata da
due o più fratelli con le rispettive mogli e i figli. Per semplicità si parla di famiglie complesse quando
si considerano insieme quelle estese e quelle multiple.
Fanno parte delle famiglie complesse anche: a) quelle denominate “a domino”, costituite dalla cop-
pia coniugale e da figli di diversi matrimoni; b) le famiglie multiculturali e multietniche, divenute
negli ultimi anni più frequenti anche in Italia.
(da: Ian Robertson, Sociologia, Zanichelli, Bologna, 1988, pp.374-385)

Famiglia e educazione sociale

La famiglia, prima le cosiddette “agenzie di socializzazione”, presenta alcune caratteristiche di


grande rilievo educativo:
- come primo ambiente sociale in cui il singolo individuo è inserito e permane per la maggior parte
dei casi per tutto l’arco della vita, la famiglia adempie un compito di socializzazione primaria e se-
condaria: fornisce buona parte degli strumenti fondamentali per l’interazione sociale, per l’inseri-
mento e l’integrazione nella comunità più vasta;
- per le stesse ragioni, la persistenza della famiglia lungo l’arco di vita degli individui fa sì che essa
condizioni il rapporto con le altre agenzie di socializzazione, sostituisca o integri il contributo di al-
tre istituzioni sociali, assuma di volta in volta funzioni diverse in relazione alla situazione in cui si
inserisce.
Complessivamente oggi si può definire la famiglia una realtà in transizione, all’interno della quale
si possono ritrovare concezioni, modelli e progetti educativi spesso contrastanti, che variano col va-
riare dei contesti sociali, dei tipi di famiglia, delle visioni del mondo presenti nei loro membri.
Attualmente molti studiosi propongono di partire dal concetto di un ciclo di vita della famiglia, che
va dalla formazione della coppia fino alla morte dei suoi membri. L’educazione dei figli rientrerebbe
perciò all’interno di un vasto processo educativo, che riguarda anche gli adulti in ogni età della loro
vita. Secondo questa prospettiva è possibile individuare le tappe del ciclo della vita sulla base di
quelli che la psicologa Eugenia Scabini definisce come eventi critici: la formazione della coppia, la
nascita dei figli, la loro adolescenza e la loro uscita dal nucleo familiare, il pensionamento, la malattia
e la morte. A ciascuno di essi corrisponde una fase della vita famigliare contrassegnata da una crisi
che definisce per i suoi membri dei “compiti di sviluppo”, intesi come obiettivi di un percorso di
educazione reciproca e autoeducazione. Tra questi obbiettivi risulta fondamentale l’assunzione dei
ruoli parentali, che riguardano il modo in cui i genitori svolgono i loro compiti educativi ed affettivi
nei confronti dei figli.
Gli stili educativi

Il modo in cui una famiglia affronta l’educazione dei figli è soggetto a numerose variabilità e può
essere descritto in una tipologia che comprende:
a) uno stile autoritario, basato su un sistema rigido di norme stabilite dai genitori, cui il figlio deve
adeguarsi passivamente;
b) uno stile autorevole (democratico) in cui i valori stabili e la responsabilità educativa dell’adulto
vengono calati in una serie di norme flessibili e incentrate sui bisogni di tutti i membri della famiglia;
c) uno stile permissivo che si fonda sul tenativo di eliminare tutte le occasioni di frustrazione e di
soddisfare tutte le richieste dei figli;
d) uno stile incoerente in cui si oscilla tra autoritarismo e permissività a seconda delle codizioni
emotive dell’adulto. (U. Avalle - M. Maranzana, Problemi di pedagogia, Paravia, Torino, 2001)

Clima della famiglia e ambiente educativo

La condotta prevalente e le caratteristiche più evidenti dei genitori concorrono al “clima educati-
vo”, ossia all’habitat mentale in cui si formeranno le prime esperienze del bambino.
I rapporti tra genitori e figli sono molteplici e articolati sulle esigenze del vivere nella comunità fa-
miliare: la personalità dei genitori, le lore tendenze e le modalità acquisite di adattamento al vivere
sociale dovranno misurarsi con le varie esigenze e con i tratti di temperamento proprie dei figli.
Se i genitori, con lo stile di vita e di comportamento contribuiscono a formare la personalità dei figli,
dall’altro i figli agiscono sul piano interattivo, modificando le aspettative e contribuendo alla forma-
zione di un “clima” particolare che distingue nel suo essere una famiglia da un’altra. Tali modalità in-
terattive potranno risultare determinanti nello sviluppo delle differenze individuali.
Recenti e numerosi studi sulle dinamiche tipiche del rapporto che si instaura tra genitori e figli so-
no stati effettuati da psicologi sociali e tra essi vanno citati quelli di Schaefer, che propone una se-
rie di correlazioni per evidenziare quattro climi educativi tipo: il primo basato sulla dipendenza del
rapporto tra affetto e controllo, il secondo tra affetto e autonomia, il terzo tra ostilità e controllo, il
quarto tra ostilità e autonomia. L’autore propone due dimensioni bipolari in cui si manifestano le in-
terazioni familiari: la prima varia dalle forme di controllo fino a giungere al grado massimo di autono-
mia, l’altra tiene in considerazione i fattori che vanno dall’ostilità sino all’affetto; queste due dimen-
sioni dinamiche sottolineaano i rapporti di reciprocità tra genitori e figli. L’asse autonomia-controllo
rappresenta il ventaglio delle caratteristiche generali elargite dai genitori; l’asse affetto-ostilità indica
l’interazione affettiva mediante la quale genitori e figli vengono emotivamente in contatto tra loro.
Schaefer sintetizza le variazioni caratteristiche dei climi familiari proponendo uno schema (noto
come quadrante di Schaefer) che permette praticamente una correlazione tra i vari fattori.

controllo autonomia

affetto sottomissione, dipendenza attività, creatività


buone maniere, obbedienza buon adattamento sociale
scarsa creatività, conformismo aggressività moderata
rispetto acritico delle regole indipendenza

ostilità problemi nevrotici, forte aggressività


scarso adattamento sociale disadattamento sociale
timidezza, scarsa autonomia trasgressione ed anticonformismo
auto-aggressività immaturità affettiva

tabella 2 clima educativo e tratti infantili della personalità: quadrante di Schaefer


La correlazione affetto-autonomia, la più auspicabile, soprattutto se sottolineata da rapporti
cooperativi o democratici, è tipica di un clima familiare in cui il bambino si apre alla socialità e alla
collaborazione: il futuro adulto sarà tendenzialmente attivo, dotato di spirito creativo e capace di
adattamento alle esigenze della vita, portato all’amicizia, generalmente estroverso, possiederà doti
direttive, maturo e libero da regole eccessivamente vincolanti, con un temperamento moderatamente
aggressivo che gli consentirà di affrontare le più svariate situazioni.
La correlazione affetto-controllo darà luogo ad un minore grado di indipendenza nel bambino che
farà spesso riferimento ai genitori, sarà ordinato, pulito, rispettoso delle regole e delle gerarchie; la
creatività risulterà meno evidente del primo caso; sarà buon organizzatore, si orienterà nella vita a li-
velli di adattabilità; pur non manifestando uno spiccato senso di indipendenza, sarà mite e disponi-
bile verso gli altri.
La correlazione ostilità-autonomia può suscitare nel bambino una notevole aggressività, con riper-
cussioni negative sull’adattamento sociale; sarà trasgressivo e anticonformista, avrà difficoltà di ma-
turazione nella sfera affettivo-emotiva.
La correlazione ostilità-controllo, la più negativa rispetto al raggiungimento dell’autonomia ed in
generale per l’educazione del bambino, potrà provocare l’insorgenza di eventuali disturbi psicoso-
matici; il bambino potrà essere ansioso, rinunciatario con i superiori, litigioso con i pari, ombroso e
introverso, spesso autolesionista, generalmente nevrotico.
(Andrea Rocca, Psyché, Oberon, Roma, 1994, pp. 184 - 187)

LA COMUNICAZIONE FAMILIARE

La comunicazione familiare è stata studiata più da un punto di vista patologico che non pedagogi-
co, seguendo il riflesso di quella concezione della “crisi della famiglia” che costituisce uno dei grandi
modelli interpretativi dell’istituzione famigliare del nostro secolo. La scuola psicologica di Palo Al-
to, ad esempio, ha messo in luce nei suoi studi sulla pragmatica della comunicazione umana in che
modo all’interno della famiglia, considerato come il principale dei “gruppi-vitali-con-storie”, le atti-
vità comunicative producano conseguenze a vasto raggio, in cui sono presenti anche versanti distrut-
tivi. La differenza tra la famiglia capace di realizzare positivi progetti educativi e la famiglia psicolo-
gicamente distruttiva sta soprattutto nella capacità della prima di assorbire i cambiamenti attraverso
una ristrutturazione complessiva delle relazioni, a confronto con la tendenza della seconda a cercare
di negare le trasformazioni o a scaricare gli effetti sui membri più deboli o esposti. Secondo i teorici
di Palo Alto, è all’interno delle famiglie patologiche che si sviluppano frequentemente interazioni a
doppio legame1 , forme di risposta tangenziale2 e mistificazioni dell’Io3 .
La considerazione delle relazioni famigliari come sistemi educativi e comunicativi induce a conside-
rare la loro diversa validità nella creazione di sistemi aperti (cioé famiglie capaci di interagire con i
mutamenti interni ed esterni, così da favorire la crescita psicologica di tutti i propri membri) e siste-
mi chiusi (ovvero famiglie strutturate tanto rigidamente da impedire gli adattamenti e l’apertura ver-
so l’esterno e da mantenere i propri equilibri al prezzo del disadattamento dei propri membri rispet-
to ad altri sistemi).

(1) Il doppio legame è un’ingiunzione paradossale (illusione delle alternative) all’interno della quale compare: a) una
relazione profonda tra due persone (vita familiare, dipendenza materiale, amicizia, amore); b) un messaggio strutturato
in modo da: 1) affermare qualcosa (contenuto); 2) metacomunicare sulla propria asserzione (relazione); 3) determinare
una contraddizione reciproca tra i due livelli di comunicazione; c) un impedimento al ricettore del messaggio (solita-
mente in rapporto complementare subordinato con l’emittente) di rifiutarlo o metacomunicare su di esso.
(2) La risposta tangenziale (con effetto di disconferma) è una risposta adulta inadeguata rispetto all’intervento del
bambino di cui non si prende in considerazione la richiesta effettiva di attenzione.
(3) La mistificazione dell’io consiste in una attribuzione all’altro di desideri, bisogni, stati d’animo in realtà non
espressi, con fini di controllo.
Analisi psicologica dei gruppi familiari: tipologie della famiglia
Sono state condotte numerose ricerche sui gruppi familiari, con metodologie molto diverse tra loro
(strumenti psicodiagnostici, analisi delle conversazioni, osservazione) e con l’intento comune di per-
venire alla formulazione di “tipologie” familiari.
Dalla fine degli anni sessanta, in particolare, gli schemi concettuali ispirati all’approccio sistemico
sono stati utilizzati nella ricerca sulle tipologie familiari: il criterio dominante è diventato quello dei
modelli di relazione, con una migliore focalizzazione delle relazioni interpersonali (diadiche e non) e
della struttura dei gruppi familiari.
L’analisi dei gruppi familiari centrata sulla “struttura” e l’individuazione di tipologie differenziate
tende a privilegiare i criteri della coesione-integrazione tra i vari componenti. Particolarmente rap-
presentativa in questo senso è la contrapposizione proposta da Minuchin (1967) tra famiglia “in-
vischiata” (enmashed) e famiglia “disimpegnata” (desengaged). La prima si caratterizza infatti per
la stretta interconnessione esistente tra i membri componenti: ogni tentativo di cambiamento da par-
te di uno di essi provoca un’immediata risposta di “resistenza” da parte degli altri; nella seconda, in-
vece, i movimenti dei singoli componenti appaiono come indipendenti l’uno dall’altro e le relazioni
complessive risultano molto debolmente interconnesse. Questa tipologia ricalca, sintetizzandole, le
riflessioni teoriche sulla struttura familiare di altri autori: Bowen (1966) parla infatti di famiglia “in-
differenziata” o “differenziata” a seconda della chiarezza con cui i singoli componenti giungono a de-
finire i contorni del proprio sé; Stealin (1972) descrive come “centripeti” o “centrifughi” i principi
delle famiglie di adolescenti da lui studiate, Ashby (1969) distingue sistemi familiari “altamente” o
“scarsamente interconnessi”.
Reiss (1970, 1981) sviluppa una tipologia basata sulle relazioni interne al sistema familiare e su
quelle intercorrenti tra famiglia e ambiente. Facendo riferimento all’integrazione tra un triplice ordine
di fattori - coesione interna al gruppo, indipendenza personale, permeabilità alle stimolazioni ester-
ne - questo autore distingue tre diversi tipi di famiglia, in funzione del diverso grado di “sensibilità”
manifestata rispetto al “consenso”, alla “distanza interpersonale”, all’ “ambiente”.
La famiglia “sensibile al consenso” è quella in cui la dinamica predominante si caratterizza nella
ricerca di vicinanza, unione ed accordo tra i membri, mentre l’ambiente esterno viene vissuto come
minaccioso e pericoloso.
La famiglia “sensibile alla distanza interpersonale” è quella i cui componenti appaiono disaggre-
gati tra loro; i confini tra il gruppo familiare e l’ambiente esterno non risultano marcati in maniera
netta e precisa.
La famiglia “sensibile all’ambiente” si trova invece in equilibrio ottimale tra l’esigenza di coesione
interna e l’indipendenza personale dei singoli membri; si caratterizza per flessibilità, è sensibile ai
bisogni ed aperta ai contributi interni, ma anche alle novità ed ai cambiamenti esterni.
(Renzo Canestrari, Psicologia generale e dello sviluppo, Clueb, Bologna, 1984, p. 564)

La coppia

La coppia può essere considerata come sistema relazionale fondato su un’autoeducazione e una
educazione reciproca dei suoi membri. Nell’antichità l’educazione alla relazione di coppia e ai ruoli
genitoriali era intesa a senso unico, come educazione che prima la famiglia d’origine e poi il marito
dovevano fornire alla donna. Oggi la tendenza verso la parità dei sessi e il riconoscimento della cen-
tralità dei sentimenti, derivante dalle evoluzioni culturali e sociali maturate nel XX secolo, richiedo-
no piuttosto una coeducazione realizzata assieme dai membri della nuova coppia. L’opportunità di
quest’opera sembra sottolineata dalla diffusione di un modello di “coppia coniugale instabile” e dal
notevole aumento delle separazioni e dei divorzi. La stabilità della coppia dipende certamente da
premesse psicologiche profonde, ma anche da relazioni concretamente gestibili ed educabili. Molti
studiosi sottolineano l’importanza di una intimità affettiva in cui ciascuno dei due membri della
coppia è in grado di sviluppare empatia verso i sentimenti dell’altro senza rischiare di “fondersi”
con esso. Accanto all’intimità è importante l’esistenza di un progetto comune: in questo senso
l’armonia di coppia non viene intesa come “miracolo”, quanto piuttosto come il risultato di una
ricerca in cui i partner puntano tanto ad affinare il senso di biunivocità e reciprocità (“amarsi allo
stesso modo”) quanto a coindirizzarsi verso scelte condivise (“amare le stesse cose”).

Il paradosso del fondamento “romantico” della famiglia nucleare

Il paradosso che balza all’occhio di chi si pone ad osservare la famiglia nucleare, nasce dalla consta-
tazione che, una volta liberata dai vincoli esterni e istituita sul solo fondamento del consenso e del-
l’amore, la famiglia si è fatta più fragile, esposta come mai in passato alla sua rapida dissoluzione;
con la conseguenza evidente dell’aumento costante del numero di bambini ed adolescenti che vivono
le tensioni dei loro genitori o mancano di una delle figure parentali. Il matrimonio resta l’ideale più
ampiamente condiviso dalle giovani coppie le quali istituiscono la famiglia ubbidendo alla sola moti-
vazione dell’amore; quelle stesse coppie, però, consumano di frequente in tempi rapidi e in numero
crescente sia il loro ideale che la sua base affettiva.
Sulla coppia non pesano più, come in passato, vincoli di origine esterna, (come le strategie familiari
delle alleanze tra parentele fondate su calcoli economici o d’altro tipo): preminente su ogni altra mo-
tivazione è la logica secondo la quale “ci si sposa per amore, e per amore si rimane sposati”, formula
che gli studiosi di sociologia della famiglia hanno ricondotto al modello dell’ “amore romantico”.
La famiglia contemporanea è fondata sull’amore, e dunque si vede arricchita dai valori dell’intimità,
dell’auto-espressione, dell’affettività, dunque di motivi che si collocano nell’interiorità. L’amore,
però, evidentemente non basta, altrimenti non si spiegherebbero le proporzioni del fenomeno delle
separazioni e dei divorzi. É qui che che compare il “paradosso” dell’amore romantico: è infatti per-
fettamente spiegabile che, una volta posto l’amore romantico - come rapporto amoroso-passionale -
a fondamento unico della costituzione della coppia e quindi della famiglia, il venir meno dell’amore
legittimi la separazione e lo scioglimento della famiglia medesima.
L’amore, assolutizzato e vissuto come “esclusivo”, tende a diventare edonistico, l’autoespressione
affettiva tende a precipitare nell’egocentrismo. Ciò che spesso non è presente è un progetto di vita
familiare che trascenda la coppia per estendersi ai figli, che peraltro vengono ricercati come “com-
pletamento” della famiglia, ma che nella realtà vengono trascurati nel momento in cui l’amore roman-
tico dovrebbe tradursi in amore per la famiglia, esteso a tutti i suoi membri.
La famiglia nata nel segno della libertà sembra in definitiva restare prigioniera dell’individualismo e
del consumismo della società contemporanea: l’amore - non oblativo - si consuma per effetto dello
scorrere del tempo, e poichè i coniugi vivono solo nel presente, la famiglia non riesce a costituire una
sua storia, spesso lasciando dietro di sé un cumulo di macerie. L’effetto di un amore che non sa rin-
novarsi è costituito dall’aumento notevole delle famiglie monogenitore, con la presenza, nella misura
del 90%, delle madri. La vittima resta, così, quella di sempre: ieri “angelo del focolare domestico”,
ma oggetto di sfruttamento; oggi quasi sempre lavoratrice “fuori di casa” e “donna di servizio” in fa-
miglia; coi rischi aggiuntivi della solitudine, della povertà conseguente al divorzio, della responsabili-
tà educativa dei figli.
L’istanza che emerge è quella, ineludibile, di una pedagogia della famiglia, che si ispiri non già al
motivo “moralistico” della cura dovuta ai figli, ma che punti sui motivi forti della formazione della
personalità, aperta, disponibile a raccordarsi ad un vasto orizzonte di valori metaindividuali, che de-
nunci l’egocentrismo come il segno di un’insufficiente maturazione personale.
(Renzo Tassi, Itinerari pedagogici, Zanichelli, Bologna, 1993, vol 1b, p. 82-83)
La difficoltà di essere “buoni” genitori

Come afferma John Bowlby, “è sempre più facile educare i figli degli altri che non i propri”. L’in-
tensità del legame affettivo fa infatti sì che la relazione richieda un’elaborata gestione di emozioni e
sentimenti. É evidente che la ricchezza dei legami emotivi presenti nella relazione famigliare renda
molto difficile essere “genitori perfetti”. Così lo psicoanalista Bruno Bettelheim ha dedicato all’edu-
cazione famigliare un libro, Un genitore quasi perfetto, basato sull’idea che, piuttosto che affidarsi
agli “specialisti”, “è alla portata di tutti essere genitori passabili, vale a dire genitori che educano be-
ne i figli. Occorre però che gli errori che commettiamo nell’educarli (...) siano più che compensati
dalle molte occasioni in cui ci comportiamo in modo giusto con loro”. Il “genitore quasi perfetto” è
dunque colui che è in grado di amare il figlio e dialogare con lui sulla base del “progetto” di cui que-
st’ultimo è portatore e che trascende la volontà dell’adulto. Naturalmente questo progetto non è
chiaro fin dall’inizio, ma necessita di strumenti (che spetta appunto al genitore fornire) per costru-
irsi, in modo che il figlio possa scoprire “chi essere e come esserlo”.

Claudio Volpi: Immagini dell’infanzia e strategie educative famigliari

Secondo Claudio Volpi esistono nella società contemporanea tre distinte immagini dell’infanzia e
tre distinte strategie della socializzazione infantile, alle quali corrispondono tre modelli di interventi
familiari:
a) l’immagine della “continuità”, in rapporto alla quale l’infanzia è concepita in funzione della ri-
produzione culturale e dell’inserimento del bambino nella società dell’adulto, si regge sulla “socializ-
zazione oggettiva” e postula una famiglia di tipo “patriocentrico”, in modo di foggiare e assicurare
modelli di comportamento ben definiti e ascritti normativamente;
b) l’immagine della “discontiuità”, in rapporto alla quale l’infanzia è concepita in funzione della li-
berazione individuale e del ruolo rivoluzionario del bambino nei confronti della società degli adulti, si
fonda sulla “socializzazione soggettiva” e richiede una struttura familiare di tipo “puerocentrico”, in
grado di assicurare la crescita infantile secondo parametri prettamente individualistici;
c) l’immagine della “continuità nell’autonomia”, in rapporto alla quale l’infanzia è concepita sia in
funzione dell’inserimento critico che in funzione dell’autorealizzazione, si regge sulla socializzazio-
ne transattiva e postula un modello di famiglia di tipo “paidocentrico”, in grado di far crescere tanto
il bambino quanto i genitori in ordine a progetti di vita possibili ma anche auspicabili, che partono
dal presente ma assumono il divenire storico come ipotesi di lavoro razionalmente controllabile.
(C. Volpi, La famiglia e l’educazione, oggi, in AA. VV. Un educazione possibile, La Nuova Italia,
Firenze, 1988, pp. 114-115)

L’evoluzione familiare e il problema dei ruoli educativi

L’evoluzione della famiglia nella società contemporanea, unito alla trasformazione della divisione
tradizionale del lavoro fra i sessi, ha prodotto vistose conseguenze educative, fra cui anche la diffi-
coltà di molti genitori ad assicurare nei primi anni di vita una presenza famigliare estesa e regolare.
Nella famiglia tradizionale questo problema toccava in genere solo la figura paterna. Oggi è invece
frequente il lavoro di entrambi i genitori, con la necessità di individuare già nel primo anno di vita
istituzioni, come l’asilo-nido, o figure, come i nonni o le baby-sitter, in grado di svolgere una funzio-
ne sostitutiva.
Per al psicologia del XX secolo il rapporto tra il bambino e la madre è stato uno degli argomenti
più affrontati: da un lato è stato infatti considerato dal punto di vista proprio della teoria dell’attac-
camento, che presupponeva un ruolo fondamentale della madre nello sviluppo emotivo della 1ª in-
fanzia e, spesso, di tutta la vita (Bowlby, Winnicott, Brazelton). Peraltro le implicazioni sociali e
pedagogiche di questi approcci sono anche state sottoposte a critiche da parte di coloro che hanno
visto, almeno in alcune di esse, un tentativo di ribadire il ruolo femminile di “moglie e madre” con-
tro l’emancipazione della donna. Secondo pedagogisti come Elena Gianini Belotti o pedopsichiatri
come Stella Chess e Alexander Thomas, ad esempio, quella di considerare le madri le principali re-
sponsabili di un’ampia serie di difficoltà comportamentali dei figli è una vera e propria moda, in-
fluenzata da pregiudizi sessisti e cresciuta sul tronco di teorie come quella di John Bowlby, orien-
tate a sopravvalutare il ruolo delle interazioni precoci fra l’adulto (inteso sostanzialmente come
“madre biologica”) e il bambino. Mentre lo stereotipo di madre è rimasto, nonostante tutto, piutto-
sto stabile, la figura paterna è andata incontro, nella nostra civiltà, ad una evoluzione considerevole,
che ha portato a notevoli oscillazioni dei ruoli educativi, variamente rappresentati con figure come
quelle del padre-autoritario, del padre-assente, del padre-amico, del padre-infantilizzato, del padre-
madre, e così via. Connessa a tutto ciò vi è certamente una maggiore flessibilità dei ruoli famigliari e
un cambiamento dei rapporti di autorità. La flessibilità dei ruoli richiede al padre la capacità di conti-
nuare ad essere una figura di riferimento autorevole senza per questo fissarsi sugli stereotipi dell’au-
toritarismo tradizionale.

Le “nuove” famiglie: adozione e affidamento

L’adozione è l’istituto giuridico che permette ad un minore, dichiarato adottabile per assenza o in-
capacità della famiglia naturale, di diventare figlio legittimo di chi lo adotta. La legge italiana prevede
l’istituto dell’adozione. Il diritto ad avere una famiglia, stabilito dalle carte costituzionali, dalle di-
chiarazioni e dalle convenzioni internazionali, è stato più volte ribadito anche da coloro che profes-
sionalmente si occupano dei bambini. Noti psicologi come René Spitz o John Bowlby, ad esempio,
hanno messo in luce gli effetti delle carenze affettive conseguenti a uno stato di abbandono.
L’adozione diventa così la soluzione per queste carenze sia nel caso di bambini orfani che in quello
in cui, per varie ragioni, la famiglia naturale venga giudicata, con provvedimento del tribunale minori-
le, incapace di “mantenere, istruire ed educare” i propri figli.
L’adozione rappresenta, per genitori e figli, un’importante “crisi” i cui esiti positivi o negativi di-
pendono in larga parte dalla capacità di gestione dei nuovi genitori. Peraltro i genitori adottivi hanno
nei confronti del nuovo figlio aspettative che possono risultare anche frustrate e deluse; avvertendo
l’insicurezza della nuova situazione, possono temere di non riuscire a gestirla. Ciò dipende in parte
dall’incapacità di distinguere tra procreazione (biologica) e filiazione (il legame psicologico che uni-
sce un figlio ai propri genitori). La psicoanalista Françoise Dolto afferma che “bisogna che i genitori
adottino i loro figli: purtroppo molto spesso non lo fanno”, intendendo con questo sottolineare che
un bambino, anche se procreato, diventa autenticamente figlio solo a condizione di una scelta e di
una volontà di affetto e di cura che non dipendono dalla procreazione biologica.
Secondo René Hoksbergen, tra i fattori necessari a evitare il fallimento dell’adozione troviamo, ol-
tre all’essere buone genitori: a) il rispetto dell’identità (genetica, culturale, etnica) dell’adottato, e
quindi del suo diritto a conoscere le proprie origini; b) la capacità di affrontare i problemi psicologi-
ci che possono caratterizzare il rapporto con tranquillità emotiva. Esiste una vera e propria “ango-
scia pedagogica” del genitore adottivo, il quale teme che il figlio non cresca secondo le proprie aspet-
tative, e che le esperienze precedenti o l’eredità genetica prendano il sopravvento.

La presenza dei minori in comunità socioassistenziali assume spesso la forma dell’affidamento a


tempo pieno o parziale. L’affidamento è un istituto giuridico che permette l’assegnazione per un
periodo più o meno lungo a una famiglia, a una comunità o ad una persona, di minori temporanea-
mente privi di assistenza o in condizioni di grave difficoltà familiare. Lo scopo di questo dispositivo
sociale è quello di favorire la ricostituzione di condizioni accettabili per la vita del minore nella sua
famiglia di origine. L’affidamento si differenzia dall’adozione per la sua temporaneità: vi si ricorre
quando i bambini, per varie ragioni, vengono staccati pe un periodo a termine dalla loro famiglia na-
turale, nella quale potranno rientrare appena le condizioni lo rendano possibile. La famiglia affidata-
ria non è quindi concepita come fonte di distacco rispetto a quella naturale: i genitori affidatari - que-
sta è la loro grande responsabilità pedagogica - devono essere in grado di dare affetto e attenzione in
modo non esclusivo e con la consapevolezza dei limiti temporali del legame, che peraltro possono
allungarsi o accorciarsi al di là delle aspettative. D’altra parte, benché il bambino possa disporre al-
l’interno della nuova famiglia di due figure genitoriali presumibilmente più positive di quelle della
famiglia naturale, mantiene nei confronti dei genitori naturali un legame affettivo che può dar luogo a
reazioni negative nei confronti della seconda famiglia, la quale dovrà farsi trovare preparata - tanto
sul piano emotivo che su quello educativo - di fronte a tale evenienza.

Famiglia e vita sociale

La famiglia è a tutti gli effetti un’istituzione che si assume compiti educativi inerenti la trasmissio-
ne dei valori sociali e l’integrazione dei suoi membri nella società. Sulla validità di questa azione esi-
ste un dibattito antico, ma ancora attuale: riesce la famiglia ad assolvere pienamente la propria fun-
zione di trasmissione e integrazione? É in grado di foggiare individui che corrispondano al modello
d’uomo su cui si basa il “progetto sociale” della propria comunità? É nota a questo proposito la ri-
sposta di Platone, il quale credeva che esistesse un conflitto tra famiglia e società, che la famiglia
potesse essere un ostacolo per la crescita politica dell’individuo. La sua concezione è diventata il
prototipo di tutte le proposte pedagogiche incentrate su una socializzazione precoce nell’educazio-
ne dei bambini. Aristotele, viceversa, era convinto che il contributo della famiglia fosse ineliminabile
e sostanzialmente integrabile con quello della società. Al di là della generale propensione per questa
seconda soluzione, la problematica di fatto è complessa. Essa concerne in primo luogo la misura in
cui la famiglia si identifica con i modelli sociali dominanti e riconosce il destino dei propri membri
nel destino collettivo della società. Schematizzando, si potrebbe dire che ogni famiglia colloca le pro-
prie scelte educative fra gli estremi di una perfetta adesione a un progetto sociale esterno (il quale, se
corrisponde a quello dei gruppi dominanti, rischia di produrre individui acriticamente “integrati”), e
di un completo familismo* indifferente ai bisogni sociali e orientato esclusivamente verso la forma-
zione di soggetti indirizzati a perseguire gli interessi del proprio ambito particolare di vita.
Il familismo può anche implicare che il successo del compito educativo della famiglia venga identi-
ficato con il raggiungimento di determinati obiettivi (di successo sociale, professionali, ecc..) giudica-
ti validi solo da alcuni dei suoi membri. Si può citare ad esempio il caso tipico del sacrificio dei pro-
getti dei figli a favore del progetto dei genitori (come accadeva tradizionalmente nei “matrimoni d’in-
teresse”) o alla rinuncia all’autonomia economica della moglie in nome del suo compito di “angelo
del focolare” per la carriera del marito. La crisi di questo orientamento si è espressa nei conflitti in-
trafamigliari, negli scontri generazionali e nei movimenti di emancipazione femminile.
Molte proposte per il superamento della crisi educativa della famiglia indicano la sua attuale situa-
zione di chiusura familistica come segnale della necessità di una “apertura” all’interno di forme di ag-
gregazione più ampie (Vance Packard, Bruno Bettelheim). Si tratta di mantenere o ricostruire la co-
munità, nella quale la famiglia possa inserirsi senza per questo cadere nella dissoluzione della pro-
pria identità.
* il familismo è la concezione secondo la quale la solidarietà tra i membri della famiglia deve prevalere
sui legami sociali più generali

(U. Avalle - M. Maranzana, Problemi di pedagogia, Paravia, Torino, 2001, pp. 8-22)
LA FAMIGLIA

stabile nel tempo sostituzione dei membri


ricambio generazionale
formato da individui legati da
ascendenza comune / matrimonio / adozione regolamentazione del tabù
gruppo comportamento sessuale dellʼ incesto
assunzione della responsabilità
della prole socializzazione, cura e protezione

unità economica collocazione sociale

modelli familiari

forme di partner
matrimonio preferenziale

monogamico esogamia (esterno al gruppo)


poligamico endogamia (interno al gruppo)

poliandria poliginia

modelii di modelli modelli di


residenza di autorità discendenza

patrilocale patriarcale patrilineare


matrilocale matriarcale matrilineare
neolocale ugualitario bilaterale

FORME DI FAMIGLIA

completa (marito - moglie - figli)


nucleare
incompleta (un coniuge vedovo/ divorziato - figli)

di una sola persona


senza struttura coniugale (fratelli / sorelle non sposati)
coppie omossessuali stabili

“a domino” (coppia + figli di diversi matrimoni)

orizzontale (due o + fratelli con mogli e figli)


famiglie multipla
complesse verticale (coppia + figlio/a con coniuge)

multiculturali / multietniche

estesa (coppia + parenti conviventi)


IL RAPPORTO GENITORI-FIGLI
la famiglia nucleare e la difficoltà di essere “buoni” genitori

autoritario sistema rigido di norme / adeguazione passiva


gli stili educativi autorevole-democratico norme flessibili incentrate sui bisogni effettivi / autonomia
permissivo eliminazione delle frustrazioni, soddisfacimento delle richieste
incoerente oscillazione tra autoritarismo e permissivismo

B. Bettelheim -> “un genitore quasi perfetto” -> errori educativi compensati dal dialogo / amore

patriocentrico continuità (riproduzione culturale) socializzazione


inserimento nella società dellʼ adulto oggettiva

C. Volpi -> modello puerocentrico discontinuità (liberazione individuale) socializzazione


crescita infantile / individualismo soggettiva

paidocentrico continuità nellʼ autonomia socializzazione


inserimento critico / autorealizzazione transattiva

Lʼ evoluzione famigliare e il problema dei ruoli educativi


asilo-nido
difficoltà dei genitori ad assicurare nei primi anni di vita una presenza regolare “reti sociali primarie”
baby-sitter

la teoria dellʼ attaccamento: il ruolo della madre nello sviluppo emotivo della 1° infanzia (J. Bowlby)
le critiche (S. Chess & A. Thomas): i pregiudizi sessisti

evoluzione della figura paterna: padre autoritario / assente / amico / infantilizzato / padre-madre

La separazione dei genitori / la “società fraterna” / figure significative nella “famiglia estesa”

adozione : istituto giuridico che permette ad un minore, dichiarato adottabile per


assenza o incapacità della famiglia naturale, di diventare figlio legittimo
di chi lo adotta.

Françoise Dolto: “procreazione” e “filiazione”


la filiazione è il legame psicologico che unisce un figlio
ai propri genitori: al di là della procreazione biologica
le “nuove” o dellʼ adozione, un bambino diventa psicologicamente
famiglie “figlio” di un adulto solo se questʼ ultimo decide di ricono-
scerlo affettivamente come proprio.
René Hoksbergen: a) rispetto dellʼ identità (genetica, culturale, etnica)
b) capacità di affrontare i problemi psicologici

affidamento (a tempo pieno o parziale): istituto giuridico che permette lʼ assegnazione


per un periodo più o meno lungo a una famiglia, a una comunità o ad una
persona, di minori temporaneamente privi di assistenza o in condizioni
di grave difficoltà familiare

Famiglia e vita sociale: il conflitto famiglia-società

identificazione con i modelli sociali dominanti / progetto sociale esterno


individui acriticamente integrati

famiglia nucleo affettivo aperto / sistema formativo complesso

familismo: la solidarietà tra i membri della famiglia prevale sui legami sociali più generali
soggetti indirizzati a perseguire gli interessi del proprio ambito particolare di vita
I MUTAMENTI PROFONDI E LA CRISI DELLA FAMIGLIA NEL XX SECOLO

Famiglia e educazione sociale


socializzazione primaria e secondaria
famiglia = agenzia dei socializzazione condizionamento nel rapporto con le altre agenzie di socializz.
centro di una molteplicità di progetti educativi

formazione della coppia modo in cui i genitori svolgono


nascita dei figli ruoli parentali i loro compiti educativi ed affettivi
ciclo di vita adolescenza dei figli nei confronti del figlio
familiare uscita dei figli dal nucleo familiare
pensionamento
malattia - morte

la dimensione affettiva e relazionale -> lʼ analisi del “sistema famiglia” (gruppo-vitale-con-storia)

PATOLOGIE DELLA COMUNICAZIONE FAMILIARE

(1) DOPPIO LEGAME ingiunzione paradossale / illusione delle alternative

a) relazione profonda tra due persone vita familiare, dipendenza materiale, amicizia, amore

b) messaggio strutturato in modo da: 1) affermare qualcosa (contenuto)


2) metacomunicare sulla propria asserzione (relazione)
3) determinare una contraddizione reciproca tra i due
livelli di comunicazione

c) impedimento al ricettore del messaggio (solitamente in rapporto complementare subordinato


con lʼ emittente) di rifiutarlo o metacomunicare su di esso

(2) RISPOSTA TANGENZIALE risposta adulta inadeguata rispetto allʼ intervento


(con effetto di disconferma) del bambino di cui non si prende in considerazione
la richiesta effettiva di attenzione

(3) MISTIFICAZIONE DELLʼ IO attribuzione allʼ altro di desideri, bisogni, stati dʼ animo in realtà
non espressi, con fini di controllo

aperta -> capace di interagire con i mutamenti interni ed esterni in modo flessibile
famiglia
chiusa -> strutturata tanto rigidamente da impedire gli adattamenti e lʼ apertura verso lʼ esterno

coeducazione
la coppia parità dei sessi intimità affettiva -> sviluppo di sentimenti empatici senza “fusione”
centralità dei sentimenti progetto comune

la “coppia coniugale instabile” e il “paradosso dellʼ amore romantico”

Sulla coppia non pesano più, come in passato, vincoli di origine esterna (come le strategie familiari delle
alleanze tra parentele fondate su calcoli economici o dʼ altro tipo): preminente su ogni altra motivazione è la
logica secondo la quale “ci si sposa per amore, e per amore si rimane sposati” (formula riconducibile al modello
dellʼ “amore romantico”) . La famigli contemporanea è fondata sullʼ amore, e dunque si vede arricchita dai valori
dellʼ intimità, dellʼ auto-espressione, dellʼ affettività, dunque di motivi che si collocano nellʼ interiorità; ma una volta
liberata dai vincoli esterni e istituita sul solo fondamento del consenso e dellʼ amore, la famiglia si è fatta più
fragile, esposta come mai in passato alla sua rapida dissoluzione; una volta posto lʼ amore romantico a
fondamento unico della costituzione della coppia, il venir meno dellʼ amore legittima la separazione e lo
scioglimento della famiglia medesima; lʼ amore, vissuto come “esclusivo”, rischia di diventare edonistico,
lʼ autoespressione affettiva tende a precipitare nellʼ egocentrismo, la famiglia, nata nel segno della libertà,
sembra restare prigioniera dellʼ individualismo e del consumismo della società contempo- ranea: lʼ amore (non
oblativo) si consuma per effetto dello scorrere del tempo, e poichè i coniugi vivono solo nel presente, la famiglia
non riesce a costituire una sua storia, con la conseguenza evidente dellʼ aumento costante del numero di
bambini ed adolescenti che vivono le tensioni dei loro genitori o mancano di una delle figure parentali.
MODELLI DI COMUNICAZIONE FAMILIARE

Scuola di Palo Alto

RELAZIONI

(1) (2) (3)


SIMMETRICA COMPLEMENTARE RECIPROCA

rigida rigida flessibile


rifiuto disconferma ( alternanza simmetria -
(escalation) (doppio legame) complementarietà)

Minuchin

famiglia

“invischiata” “disimpegnata”
(enmashed) (desengaged)

resistenza ai debolezza delle


cambiamenti interconnessioni

“centripeta” “centrifuga”

Stealin

(1) al consenso (vicinanza vs esterno pericoloso)

Reiss famiglia sensibile (2) alla distanza personale (disaggregazione)

(3) allʼ ambiente (equilibrio coesione - indipendenza)

flessibilità, apertura al cambiamento

Schaefer Clima educativo e tratti infantili della personalità

controllo autonomia

affetto sottomissione, dipendenza attività, creatività


buone maniere, obbedienza buon adattamento sociale
scarsa creatività, conformismo aggressività moderata
rispetto acritico delle regole indipendenza

ostilità problemi nevrotici, forte aggressività


scarso adattamento sociale disadattamento sociale
timidezza, scarsa autonomia trasgressione ed anticonformismo
auto-aggressività immaturità affettiva

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