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CAPITOLO PRIMO

ASSESSMENT E DIAGNOSI

Il termine inglese assessment sta a significare “valutazione”. Nella pratica clinico-


psicologica indica quella comprensione globale del funzionamento di un individuo.
Può essere orientata alla diagnosi, ma questa non rappresenta l’unico obiettivo della
valutazione psicologica.
Il termine diagnosi (dal greco δια “attraverso” - γνοσισ “conoscenza”) sta ad indicare
quel processo dinamico e complesso che consiste nell’osservazione, rilevazione,
discriminazione, valutazione ed interpretazione del comportamento di un soggetto. Il
termine comportamento va inteso nella sua accezione più ampia, ossia come qualsiasi
manifestazione, interna o esterna, implicita o esplicita dell’interazione dell’uomo con se
stesso, con gli altri o con l’ambiente in senso generico.
La diagnosi clinico-psicologica va ad indagare dunque i comportamenti interni (cognitivi,
emozionali ecc.), i comportamenti esterni (verbali, motori, gestuali, di relazione, ecc.), le
abitudini e gli stili di vita, i tratti stabili e le tipologie di personalità, il temperamento, oltre
ai sintomi e ai tratti psicopatologici, il quadro neuropsicologico, quello neuroendocrino e il
profilo psicofisiologico.
Fig. 1: Il paradigma di Hull Stimolo- Organismo- Risposta (SOR)

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Le metodiche d’indagine solitamente utilizzate per un corretto e approfondito esame del
caso consistono in:
• Anamnesi
• Colloquio
• Osservazione (comportamento, gestualità, mimica, ecc.)
• Somministrazione di test psicodiagnostici
• Valutazione dell’assetto psicofisiologico
• Integrazione dei dati con accertamenti clinici, di laboratorio o strumentali di tipo medico

1.1 Diagnosi categoriale


La diagnosi categoriale è finalizzata alla rilevazione e alla descrizione di una serie di
fenomeni riconosciuti come patologici e indica quella procedura orientata a ricondurre un
determinato fenomeno all’interno di una specifica categoria.
Il processo diagnostico, quindi, prevede l’utilizzo di diversi strumenti e tecniche per
un’adeguata valutazione dello stato di salute o malattia del paziente, specificando la
combinazione nota di sintomi e disturbi in riferimento al caso in esame. Clinici e ricercatori
necessitano di categorie diagnostiche che li aiutino a studiare e a trattare la malattia mentale
e a comunicare con altri professionisti. Ma categorizzare i disturbi mentali è una questione
delicata e nel campo della psicologia clinica si è lottato per sviluppare categorie in grado di
classificare i disturbi mentali in modo coerente e preciso.
Dare troppa importanza alla classificazione dei disturbi rischia di semplificare in modo
eccessivo problemi complessi e allontanarci dal comprendere pienamente le persone al di là
delle definizioni diagnostiche. In ambito psicologico è bene dunque che la diagnosi vada
oltre il concetto di un etichettamento finalizzato ad un unico linguaggio universalmente
condiviso, ma assume lo scopo di conoscere il funzionamento di un essere umano sotto
l’aspetto comportamentale, psicologico e psicopatologico grazie al quale è possibile la
messa a punto di una adeguata terapia.
Infatti, non sempre una semplice diagnosi di tipo categoriale è in grado di cogliere e
descrivere adeguatamente l’intero quadro sindromico e i meccanismi implicati nella sua
genesi, sviluppo e

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mantenimento. Inoltre, è da sottolineare che i sistemi internazionali di classificazione dei
disturbi mentali propongono criteri che, per quanto ormai validati, non sempre riescono a
assicurare l’inquadramento diagnostico di quelle condizioni psicopatologiche più
complesse e sfumate o che non posseggono tutti i requisiti richiesti dalla categoria
diagnostica, sottovalutando inoltre la grande variabilità sintomatologica che può
caratterizzare una stessa categoria. E’ chiaro come nella pratica clinica sia impossibile
trovare “casi da manuale”, che rispecchiano perfettamente tutti i criteri diagnostici di una
data patologia, e quanto invece è la norma trovarsi di fronte soggetti con sintomi non chiari
e specifici e che presentano comorbidità con altri disturbi.

1.2 Diagnosi funzionale


La diagnosi, definita funzionale, non fa semplicemente riferimento alla valutazione
sintomatica dello stato patologico di un individuo e dei suoi comportamenti disfunzionali,
ma va anche ad indagare ad esempio gli antecedenti e conseguenti che mantengono quel
determinato comportamento; indaga non solo il deficit e la gravità del problema, ma anche
il livello di funzionamento cognitivo, le potenzialità, le risorse del soggetto e il suo
possibile margine di miglioramento. L’indagine psicologica indaga l’assetto cognitivo del
soggetto, il suo stile di pensiero e valuta inoltre la capacità di rappresentazione mentale,
mediante l’analisi dei processi di valutazione e decisione e la presenza o meno di vissuti
emozionali psicopatologici che ne influenzano i suoi comportamenti. L’indagine storica
consiste nella ricerca di quelle dinamiche psicologiche e relazionali pregresse che
potrebbero rappresentare degli importanti antecedenti in grado di influenzare o meno il
vissuto attuale del soggetto. L’indagine sociale si concentra invece sulla valutazione di
quelle dinamiche situazionali (familiari, ambientali, sociali) che potrebbero determinare e
influenzare il funzionamento attuale dell’individuo e che, in associazione alle informazioni
ottenute mediante la valutazione storica e clinica, determina il quadro globale e unico di un
determinato soggetto (Gilson, 1994).
La diagnosi funzionale ha dunque il dovere di evidenziare e descrivere l’unicità
dell’individuo attraverso la comprensione dei suoi aspetti emotivi, cognitivi e
psicofisiologici, per poter proporre una strategia terapeutica personalizzata, ricordando che

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il percorso terapeutico può essere considerato un continuo “work in progress” in grado di
essere modificato sulla base dei cambiamenti che avvengono durante l’intervento
terapeutico.

1.3 L’approccio multidimensionale alla diagnosi


Come abbiamo voluto sottolineare la psicodiagnosi è un processo attivo e complesso di
raccolta, analisi ed integrazione di informazioni per una migliore comprensione della
condizione del soggetto (Krantz e Glass,1984). Secondo l’approccio multidimensionale
della diagnosi in psicologia clinica, le informazioni da raccogliere e analizzare debbano
provenire da differenti classi di indici, qualitativamente differenti e indipendenti (Pruneti,
2008). Una corretta procedura di valutazione, infatti, deve comprendere la raccolta e analisi
di dati:
- Soggettivi, utilizzando l’ auto-osservazione e auto-descrizione di sé da parte del
paziente, grazie al colloquio clinico, all’osservazione ma anche ai questionari di
autovalutazione o altri strumenti psicodiagnostici standardizzati;
- Motori e Comportamentali, raccolti attraverso l’osservazione da parte di un clinico
preparato; dati spesso organizzati e sistematizzati grazie a griglie e scale
semistrutturate, in cui i fenomeni da osservare vengono chiaramente
operazionalizzati, al fine di evitare equivoci ed interpretazioni;
- Psicofisiologici, rilevati attraverso un’ apposita strumentazione per la registrazione
di tutta una serie di parametri come ad esempio i potenziali elettromiografici, la
temperatura periferica, la frequenza cardiaca, l'attività elettrodermica, la frequenza
respiratoria, i potenziali elettroencefalografici evocati, ecc.
- Cognitivi ed emozionali, i dati più difficili da raccogliere durante una valutazione
psicodiagnostica. Di primaria importanza è cogliere le fluttuazioni umorali ed
emozionali del soggetto, per poi metterle in relazione col disturbo principale e con
le eventuali manifestazioni accessorie.

Occorre però sottolineare che il semplice utilizzo di più fonti di dati durante il processo
diagnostico non è garanzia di una completa comprensione del quadro clinico del soggetto,

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soprattutto se le informazioni raccolte vengono analizzate attraverso una visione
unidimensionale (Sanavio e Cornoldi, 2001).
E’ necessario integrare i punteggi ottenuti attraverso dati qualitativamente differenti e tra
loro e non interscambiabili, nella consapevolezza che non sempre il disagio riferito, ad
esempio, a livello verbale
coincide con quello manifestato a livello fisiologico, neuro-endocrino o comportamentale.
L’eventuale non concordanza tra gli indici fornirà comunque al clinico informazioni
ulteriori utili per la piena comprensione del soggetto suggerendo, ad esempio, la possibile
presenza di meccanismi di amplificazione o di negazione dei propri problemi (Fontana e
Pruneti, 2004).
E’ necessario comunque ricordare che in ogni individuo, i vari parametri possono variare,
modificandosi nel tempo o in base ai cambiamenti di un qualsiasi altro parametro. Per
esempio, frequente è la desincronia, nel corso del trattamento psicologico dell'agorafobia,
dove, in genere, i miglioramenti comportamentali precedono il miglioramento delle
autovalutazioni soggettive e queste, a loro volta, i cambiamenti dei dati psicofisiologici
(Mavissakalian e Michelson, 1982).

1.3.1 Assessment multidimensionale


Come abbiamo voluto sottolineare, per un assessment multidimensionale le informazioni da
raccogliere e analizzare devono provenire da differenti classi di indici provenienti da tre
sistemi di risposta qualitativamente differenti e relativamente indipendenti (Pruneti, 2008):
1. Canale cognitivo-verbale: indici soggettivi, ricavati mediante colloquio clinico, scale e
questionari di autovalutazione;
2. Canale comportamentale-motorio: comportamento manifesto, osservato mediante check-
list e griglie di auto-etero osservazione;
3. Canale psicofisiologico: analisi a valutazione mediante apposita strumentazione di
registrazione.

La relativa autonomia dei tre sistemi riflette la specifica configurazione che ciascuno di essi
ha assunto in funzione dei condizionamenti sociali, culturali e ambientali.

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1.3.2 Assessment comportamentale e cognitivo
L’assessment comportamentale e cognitivo, parte della valutazione multidimensionale di un
caso, consiste nell’individuazione e definizione operazionale dei comportamenti, siano
questi manifesti (overt) e/o comportamenti interni (covert), tra cui i pensieri e le emozioni,
e nella valutazione della gravità e intensità di tali comportamenti: frequenza, durata,
intensità, livello di compromissione del funzionamento intra e interpersonale (grazie anche
a schede di auto e/o eteromonitoraggio). E’ importante riuscire ad individuare quelli che
vengono definiti
•“antecedenti”, cioè quelle situazioni, stimoli, comportamenti immediatamente precedenti
all’emissione del comportamento e che ne influenzano la comparsa, frequenza di emissione
•“conseguenze”, ciò che avviene immediatamente dopo l’emissione del comportamento e
che ne influenza la probabilità di emissione; possono rappresentare i cosiddetti fattori di
mantenimento
•“establishing operation” (EO), eventi o condizioni, come la saturazione o la deprivazione,
che influenzano il potere rinforzante di uno stimolo e di conseguenza agiscono sugli
antecedenti e sul comportamento (probabilità e direzione); possono essere considerati come
fattori predisponenti o precipitanti
•importanza del passato, della storia del problema, come catena di
apprendimenti (eventi scatenanti, fattori predisponenti)

Partendo dalle conoscenze acquisite tramite questo assessment è importante evidenziare al


paziente i fattori protettivi, cioè le competenze, abilità e risorse possedute dal paziente, per
poterli incrementare e considerandolo punti su cui far leva al fine di raggiungere il
cambiamento auspicato. E’ anche bene individuare assieme al paziente gli obiettivi da
raggiungere a breve, medio e lungo temine, individuare i comportamenti-problema da
contenere/ridurre , estinguere e/o sostituire con comportamenti alternativi; rendere chiari i
comportamenti goal da incrementare se già presenti o da apprendere e sviluppare se non
presenti nel repertorio comportamentale e l’ apprendimento e/o potenziamento di

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competenze e abilità mediante training specifici (assertività, capacità di gestione dello
stress, problem solving, ecc)

1.3.3 Assessment psicofisiologico


L’ assessment psicofisiologico è invece quella parte della valutazione clinica
multidimensionale, rivolto all’esame della specifica configurazione dell’ attivazione
psicofisiologica (SNA). L’indice fisiologico permette di arricchire la conoscenza della
situazione globale, precisando le condizioni del sistema, antecedenti, concomitanti o
conseguenti a una determinata risposta. Fornisce inoltre informazioni utili per la diagnosi,
la programmazione dell’intervento e la verifica dell’efficacia dello stesso si ottengono, non
tanto dalla registrazione di indici isolati, quanto piuttosto dalla registrazione simultanea di
più variabili autonomiche al fine di evidenziare configurazioni di risposta neurovegetative
caratteristiche, sottostanti a determinati comportamenti espliciti (Fontana e Pruneti, 2004).
L’indagine psicofisiologia va solitamente a valutare:
• l’ attività elettrodermica (scr-l/gsr-l/spr-l)
• l’ elettromiogramma di superficie (EMG)
• la frequenza/ampiezza cardiaca (HR; HA)
• la frequenza/ampiezza respiratoria (RR; RA)
• l’ intervallo inter-battito (IBI)
• la temperatura periferica (PT)
• la pressione arteriosa media (PWV)
• l’ EEG bipolare

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CAPITOLO SECONDO
L’ANSIA

L’ansia viene definita come un’emozione spiacevole associata ad un senso generale di pericolo, è la
percezione soggettiva che qualcosa di brutto possa accadere. L’esperienza dell’ansia non è solo emotiva, ma
ha anche componenti cognitive, comportamentali e fisiologiche (Tab.2) (Seligman, Walker & Rosenhan,
2001).

Tabella n. 2 - Le componenti dell’ansia

COMPONENTE COMPONENTE COMPONENTE COMPONENTE


EMOTIVA COGNITIVA COMPORTAMENTALE FISIOLOGICA

Paura Iper-vigilanza Risposta di attacco o fuga Tensione muscolare

Nervosismo Scarsa concentrazione Congelamento Palpitazioni

Irritabilità Ruminazione Comportamento evitante Bocca secca

L’ansia, che svolge la funzione di “segnale d’allarme”, può generare una iper-attivazione
del sistema nervoso autonomo e più precisamente del sistema simpatico. Questa attivazione
è comunemente definita di tipo "attacco o fuga" (fight or flight), in cui è come se
l'organismo si preparasse ad affrontare una minaccia.
A livello fisiologico, infatti, aumenta la frequenza cardiaca, di conseguenza anche la
pressione arteriosa, mentre diminuisce l’afflusso sanguigno periferico per essere
incrementato invece quello diretto ai muscoli scheletrici. Oltre ad un aumento del livello di
glucosio sia a livello dei muscoli, sia a livello cerebrale, l’incremento della circolazione
sanguigna fornisce ossigeno al cervello, sede dei processi cognitivi e delle funzioni
sensoriali; le pupille infatti si dilatano e l’udito diviene più acuto. I processi digestivi invece
possono essere accelerati o del tutto interrotti, in base alla fase di digestione,ed è per questo

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che è possibile avere un’elevata sensazione di dover urinare, defecare e occasionalmente
vomitare. Esternamente i segni somatici dell'ansia possono quindi includere pallore della
pelle, piloerezione, sudore e tremore. Solitamente inoltre è possibile osservare palpitazioni,
dolori al petto e/o respiro corto e nausea.
La preparazione dell’organismo ad un comportamento di attacco o fuga non è il solo
possibile in risposta all’ansia. Esistono infatti episodi in cui è possibile riscontrare un
comportamento simile alla paralisi, il cosiddetto “freezing”, un’immobilità cioè del corpo
di fronte ad una sensazione di pericolo. Anche questa reazione dell’organismo, osservabile
in molte specie animali, è un comportamento ancestrale che si è mantenuto nel corso
dell’evoluzione per il suo valore adattivo.

Un ruolo fondamentale legato all’ansia è quello dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA),


che pare avere un compito chiave nella trasformazione dello stress psicologico in una
risposta fisiologica. Le esperienze emotive, processate dall’ipotalamo, attivano l’ipofisi che
a sua volta attiva il surrene, causando la secrezione di ormoni adrenocorticali, come
l’adrenalina e il cortisone. Il rilascio di questi ormoni causa sensazioni soggettive di
attivazione e ansia. Studi hanno evidenziato che eventi stressanti, come traumi infantili,
possono predisporre un individuo a un’iperattività dell’asse HPA per tutta la vita, con
conseguente ansia cronica (Bremner e Vermetten, 2001).
I circuiti neurali che stanno alla base dell’ansia sono l'amigdala, importante centro del
circuito limbico preposto alla memoria emozionale, e l'ippocampo, implicato nei processi di
apprendimento (Rosen & Schulkin, 1998). Quando i soggetti vengono sottoposti a stimoli
spiacevoli e potenzialmente dannosi come odori o gusti ripugnanti, le
scansioni PET eseguite su di loro mostrano flussi sanguigni aumentati nell'amigdala (Zald
& Pardo, 1997; Zald, Hagen & Pardo, 2002). In questi studi, i partecipanti riportarono
anche un'ansia moderata. Questo potrebbe indicare che l'ansia sia un meccanismo protettivo
progettato per prevenire comportamenti potenzialmente dannosi per l'organismo come
nutrirsi di cibo avariato.

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L’ansia dunque è una reazione dell’organismo che possiamo facilmente sperimentare nella
vita di tutti i giorni; è una risposta naturale e adattiva che ci è stata tramandata attraverso
l’evoluzione per fronteggiare eventuali pericoli provenienti dall’esterno. Data l’universalità
della risposta ansiosa, si ritiene che essa abbia un importante ruolo nei meccanismi di
adattamento e di sopravvivenza. Pare infatti che individui che presentano livelli molto bassi
di ansia, hanno più probabilità di intraprendere attività e condotte rischiose (Zuckerman,
1991) compromettendo il raggiungimento dell’età adulta.
Quando è provata a livelli moderati, l’ansia può inoltre essere utile a motivare e stimolare
l’individuo, migliorarne l’attenzione e la memoria (Rovetto, 1996) e aiutarlo ad apprendere
comportamenti sociali appropriati.
E’ possibile però che vengano a presentarsi comportamenti, volontari o involontari, diretti
all' evitamento della fonte dell'ansia. Questi comportamenti, spesso non-adattivi, possono
diventare frequenti e intensi, fino a giungere alla compromissione delle attività e del
benessere psichico e fisico dell’individuo, come può accadere nei casi di disturbi d'ansia.

2.1 I Disturbi d’ Ansia


Tenendo sempre ben presente che esiste un continuum tra comportamento normale e
patologico, per definire un disturbo d’ansia, è necessario prendere in considerazione sia il
contesto in cui l’ansia si manifesta, sia la sua intensità e quanto questa comprometta il
normale funzionamento della vita. Le persone che soffrono di disturbi d’ansia infatti
provano ansia e paura in contesti che non giustificano tali sensazioni: esse sperimentano
elevati livelli di ansia e di terrore anche di fronte a minacce minime o assenti.
Esistono inoltre due forme di ansia, che gli psicologi definiscono “ansia di tratto” e “ansia
di stato” (Endler e Kocovski 2001). L’ansia di tratto viene considerata quella
predisposizione individuale a rispondere a un’ampia varietà di situazioni con più o meno
ansia. Le persone con alti livelli di ansia di tratto si sentono ansiose per gran parte del
tempo, a prescindere dalle circostanze esterne. Al contrario, le persone con bassa ansia di
tratto si sentono raramente ansiose, anche quando la risposta ansiosa sarebbe opportuna.
L’ansia di stato è invece definita come il livello individuale di ansia raggiunto in risposta a
una particolare situazione o stimolo.

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In definitiva l’ansia può venir considerata patologica quando questa si manifesta in contesti
non appropriati e quando ha un’intensità eccessiva, tanto da causare intenso disagio e una
compromissione significativa del funzionamento.
2.1.2 Fattori epidemiologici
I disturbi d’ansia sono tra i più diffusi a livello mondiale e colpiscono ogni anno tra il 10%
e il 15% della popolazione italiana (Organizzazione Mondiale della Sanità, 2008).
I fattori demografici come l’età, il genere e la classe sociale sono variabili che possono
influenzare la manifestazione dei disturbi d’ansia.
In base all’età si provano di solito diverse tipologie di ansia. Gli adulti infatti solitamente
descrivono la propria ansia in termini di esperienze emozionali (sentirsi nervosi, tesi),
esperienze cognitive ( mente vuota, pensieri accelerati) o reazioni fisiologiche (tachicardia,
sudorazione delle mani). I bambini, invece, incapaci di esprimere verbalmente le loro
sensazioni ansiose, manifestano paura o ansia attraverso il comportamento: piangendo,
immobilizzandosi, attaccandosi morbosamente all’adulto di riferimento. Inoltre i bambini
potrebbero non essere disturbati dai propri comportamenti ansiosi (Geller et al., 1998;
Silverman e Nelles, 1990) poiché raramente percepiscono le loro paure come eccessive.
Gran parte dei disturbi d’ansia può capitare a qualsiasi età. Fa eccezione il disturbo di
panico, raramente riscontrato nell’infanzia (Ollendick, Mattis e King, 1994). Questo
disturbo infatti solitamente esordisce a partire dalla tarda adolescenza ai 35 anni circa.
Diverso è ciò che riguarda il disturbo d’ansia generalizzato poiché circa il 30% delle
persone che ne soffrono riferiscono che l’esordio sia avvenuto durante l’infanzia e nella
prima adolescenza (Noyes e Hoehn-Saric,1998). Si ritiene, inoltre, che i disturbi d’ansia
siano ampiamente sottodiagnosticati tra gli anziani, malgrado il generale riconoscimento
che il declino dello stato di salute, delle risorse finanziarie, delle relazioni interpersonali e
delle capacità mentali contribuisca a far aumentare i livelli d’ansia (Blazer, 1997). La
ricerca suggerisce che, ai disturbi d’ansia nelle persone anziane, siano associati anche
particolari eventi negativi, come la morte del coniuge, e le diverse difficoltà quotidiane,
così che tali disturbi spesso si trovino in comorbidità con la depressione (Flint e Rifat,
2002).

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Una caratteristica demografica che spicca, in riferimento ai disturbi d’ansia, è che essi
colpiscono in maniera molto maggiore le donne. Il disturbo d’ansia generalizzato, il
disturbo di panico, le fobie specifiche e il DPTS sono da due a tre volte più comuni nelle
donne rispetto agli uomini (Fredrikson et al., 1996; Yonkers e Gurguis,1995). Studi
epidemiologici hanno inoltre indicato che sebbene la fobia sociale colpisca con più
frequenza le donne, sono gli uomini che tendono a richiedere il trattamento più spesso di
quanto facciano le donne (Weinstock,1999). Solo il Disturbo Ossessivo-Compulsivo
colpisce in egual misura uomini e donne (Douglas set al.,1995) anche se sembra
manifestarsi in maniera differente nei due sessi (Noshirvani et al., 1991; Rasmussen e
Eisen,1990).
Sono state proposte spiegazioni socioculturali per giustificare percentuali più elevate di
disturbi d’ansia fra le donne (Chambless e Mason, 1986); per alcuni disturbi, quali quello di
panico, studi si sono incentrati invece sulle differenze genetiche e ormonali tra uomini e
donne (Crowe et al.,1983). Il DPTS colpisce con una frequenza pari al doppio le donne
rispetto agli uomini (Kessler et al.,1994). Ciò potrebbe essere dovuto al fatto che e donne
sono più spesso vittime di violenza (Rothbaum et al., 1992), ma anche livelli di ansia e
depressione preesistenti, più alti nelle donne rispetto agli uomini, e probabilmente a
differenze ormonali (Breslau et al.,1997; Wong e Yehuda,2002).

2.1.3 I Disturbi d’ansia nel DSM-IV


Il Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM-IV-TR) identifica sei
principali disturbi d’ansia:
- Disturbo d’ansia generalizzato
- Disturbo di panico
- Fobia
- Disturbo ossessivo-compulsivo
- Disturbo post-traumatico da stress
- Disturbo acuto da stress

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L’affidabilità e la validità delle diagnosi dei disturbi d’ansia del DSM-IV-TR è
relativamente buona. Tuttavia tali disturbi risultano molto spesso in comorbidità con altre
diagnosi: Brown, nel 1996 ha osservato che a circa l’82% dei partecipanti a una ricerca con
DAG è stata assegnata almeno un’altra diagnosi del DSM. Anche se è possibile che queste
persone soffrano semplicemente di disturbi multipli, molte polemiche negli ultimi anni
sono insorte con l’intento di sottolineare come le categorie diagnostiche del DSM-IV-TR
possano dividere in modo arbitrario e artificiale condizioni cliniche complesse. In accordo
con questo, i clinici riscontrano spesso che molti pazienti con sintomi d’ansia non rientrano
pienamente in nessuna delle categorie del DSM-IV-TR e alcuni esperti si oppongono al
sistema descrittivo del DSM per classificare i disturbi d’ansia. Essi affermano che dal
momento che l’ansia è presente all’incirca in tutti i disturbi mentali, risulta arbitrario
classificare alcuni disturbi come “disturbi d’ansia”, solo perché alcuni pazienti enfatizzano
tali sintomi. (Hansell e Damour, 2005)

Anche il concetto di relativismo storico e culturale mette in evidenza i limiti del sistema
DSM-IV-TR nel classificare i disturbi d’ansia. Infatti, le caratteristiche di questo tipo di
disturbi non sono universalmente riconosciute e spesso culture differenti definiscono e
classificano i problemi legati all’ansia in modo diverso (Lopez e Guarnaccia, 2000). Inoltre,
i cambiamenti storici nella classificazione dei disturbi d’ansia suggeriscono che i sistemi di
classificazione sono sempre limitati dalla conoscenza, dai valori e dalle preoccupazioni del
particolare momento storico.

2.2 Il Disturbo Ossessivo-Compulsivo

“Uno psichiatra chiese ad un suo paziente che batteva


continuamente le mani: ‘Perché continui a battere le mani?’.
Il malato rispose: ‘Per scacciare gli elefanti’.
Lo psichiatra ribattè: ‘Ma non ci sono elefanti qui!’.
Il malato replicò, continuando a battere
le mani:‘Vedi che funziona!’.”

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Watzlawick (1989)

Il Disturbo Ossessivo-Compulsivo o DOC è un disordine psichiatrico caratterizzato da una


sintomatologia costituita da pensieri ossessivi ricorrenti associati a compulsioni (azioni e/o
pensieri particolari o rituali da eseguire) che hanno la funzione di neutralizzare l'ossessione.
Secondo il DSM-IV tali ossessioni e compulsioni devono essere riconosciute come
eccessive e irrazionali, occupano tempo e interferiscono con le normali attività
dell’individuo.
Almeno l'80% dei pazienti con DOC ha sia ossessioni che compulsioni, meno del 20% ha
solo ossessioni o solo compulsioni.

2.2.1 Fattori epidemiologici


Il disturbo ossessivo-compulsivo colpisce, indistintamente per età e sesso, dal 2 al 3% della
popolazione. Nonostante il Disturbo Ossessivo-Compulsivo colpisca ugualmente uomini e
donne, il disturbo sembra manifestarsi in maniera differente nei due sessi (Bogetto e Maina,
2006): le femmine tendono a sviluppare il DOC in età più avanzata ( tra i 20 e i 35 anni)
rispetto ai maschi ( tra i 5 e i 15 anni), ed è più probabile che manifestino depressione
insieme ai sintomi del DOC. I primi sintomi si manifestano nella maggior parte dei casi
prima dei 25 anni; il 15% ha esordio intorno ai 10 anni (Bogetto e Maina, 2006). L’esordio
precoce è associato ad una maggior gravità dei sintomi, soprattutto compulsivi, una peggior
risposta alla terapia con clomipramina o un SSRI (selective serotonine reuptake inhibitor),
una più frequente associazione con compulsioni di tipo ticcoso, fenomeni psicosensoriali e
comorbidità con disturbi da tic (Rosario-Campos et al, 2001). Inoltre, spesso i bambini
tendono a nascondere o a non essere consapevoli della sintomatologia ossessivo-
compulsiva e i genitori ne sono spesso a loro volta ignari (Rapaport et al, 2000). In
bassissima percentuale (5%) l’esordio si presenta dopo i 40 anni (Bogetto e Maina, 2006);
rarissima l’insorgenza in età geriatria e, in particolare dopo i 50 anni essa pare correlata a
lesioni cerebrali documentabili (Berthier et al, 1996; Weiss e Jenike, 2000).
Sebbene il contesto sociale e il supporto familiare possano influenzare l’insorgenza e il

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mantenimento dei disturbi d’ansia, i disturbi ossessivo-compulsivi si manifestano
indipendentemente dal ceto sociale a cui si appartiene o dalla professione che si svolge.

2.2.2 Modalità d’esordio


Il disturbo può comparire in modo acuto, con sintomi importanti e improvvisi, soprattutto
in seguito ad un evento stressante o, più frequentemente, in modo subdolo e graduale
(APA, 1994). Nella maggior parte dei casi le persone, infatti, non ricordano con esattezza
quando i primi sintomi siano comparsi: questi si manifestano generalmente in modo
insidioso, causando inizialmente solo una modesta sofferenza ed aggravandosi
progressivamente. In genere si accentuano azioni ripetitive che esistevano già
precedentemente all'esordio del sintomo.
La letteratura sul Disturbo Ossessivo-Compulsivo si è occupata di stabilire se eventi
psicosociali stressanti abbiano un ruolo rilevante nel determinare o far precipitare l’esordio
di un DOC (“triggering events”). Un recente studio confronta un campione di soggetti che
avevano un’ anamnesi familiare positiva per il DOC con un campione che invece non
presenta alcuna familiarità per il DOC, ricercando eventuali differenze cliniche. Non sono
risultate discrepanze tra i casi con o senza familiarità per DOC ad eccezione per la presenza
di eventi psicosociali stressanti precedenti l’esordio del disturbo, i quali risultavano più
frequenti e più gravi nei casi con anamnesi familiare negativa (Albert et al, 2002).
Nel sesso femminile sembrano poter assumere un ruolo importante gli avvenimenti relativi
alla riproduzione. Il post-partum risulta essere l’unico fattore di rischio significativamente
correlato all’esordio del DOC nella popolazione femminile (Maina et al, 2001). Sono stati
inoltre documentati sia un peggioramento della sintomatologia durante il periodo
premestruale in un 40% dei casi, sia un aumento della sintomatologia ossessiva - legata alla
paura della propria aggressività e di far male al proprio figlio - durante il puerperio,
specialmente in presenza di varie complicanze ostetriche (Williams e Koran, 1997; Maina
et al, 1999; Camarena et al, 2001). Anche l’aborto spontaneo è stato identificato come
fattore di rischio per lo sviluppo di un episodio iniziale o ricorrente di DOC (Geller et al,

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2001). Sono stati riportati anche nei maschi episodi ossessivo-compulsivi simili a quelli
femminili in concomitanza con gravidanza e puerperio delle rispettive compagne
(Abramowitz et al, 2001).

2.2.3 Decorso nel tempo


Vi sono due tipologie principali di decorso. Almeno nel 75% dei casi esso si presenta come
cronico: è più frequente nei maschi (con un rapporto di 3:2), con insorgenza prima dei 25
anni e rilevanza significativa della familiarità; dal punto di vista sintomatologico
prevalgono gli aspetti compulsivi; la depressione - qualora si presenti - è solitamente
secondaria al disturbo ossessivo-compulsivo ed è frequente la comorbidità con disturbi di
Asse II. Le forme croniche tendono ad essere poco responsive alla terapia (Ravizza et al,
1997). Questa tipologia di decorso trova poi al suo interno tre possibili sottocategorie a
seconda della stabilità della sintomatologia, potendo essere:
a) cronica fluttuante: nel 40-50% dei casi, caratterizzata da periodi di aggravamento
alternati a periodi di miglioramento, senza mai giungere a remissione completa;
b) cronica stabile: nel 20% circa dei casi, si distingue per la persistenza dei sintomi
ossessivo-compulsivi senza oscillazioni di intensità degne di nota;
c) cronica ingravescente (o DOC maligno): fino al 10% dei casi, è la forma più grave
con progressivo peggioramento, con un deterioramento che coinvolge le sfere
intellettive, cognitive, psicosociali. E’ frequente la compromissione progressiva
dell’insight fino alla perdita totale della consapevolezza di malattia.
Fino al 25% di casi il Disturbo Ossessivo-Compulsivo si presenta invece come episodico ed
è caratterizzato da un’alternanza di periodi con sintomatologia evidente e di intervalli liberi
da malattia. La durata media degli episodi è di circa un anno mentre gli intervalli liberi da
malattia possono andare da alcuni mesi fino ad anni interi (Bogetto e Maina, 2006). Il
decorso episodico è di più frequente riscontro nel sesso femminile (con un rapporto di 2:1)
ed esordisce solitamente dopo i 25 anni di età. Viene lamentata una componente ossessiva
predominante e non è infrequente la depressione all’esordio. La risposta alla terapia è
migliore.

17
2.2.4 Categorizzazione e sottotipi clinici del Disturbo Ossessivo-Compulsivo

Criteri diagnostici presenti nel Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders
(DSM-IV- TR), per il disturbo ossessivo-compulsivo (codice 300.30)

A. ossessioni e compulsioni

Le ossessioni sono definite da i seguenti criteri:


1. pensieri, impulsi o immagini ricorrenti e persistenti, vissuti, in qualche momento nel
corso del disturbo, come intrusivi o inappropriati, e che causano ansia o disagio marcati
2. i pensieri, gli impulsi, o le immagini non sono semplicemente eccessive preoccupazioni
per i problemi della vita reale
3. la persona tenta di ignorare o di sopprimere tali pensieri, impulsi o immagini, o di
neutralizzarli con altri pensieri o azioni
4. la persona riconosce che i pensieri, gli impulsi, o le immagini ossessivi sono un
prodotto della propria mente (e non imposti dall'esterno come nell'inserzione del
pensiero).

Le compulsioni sono definite dai seguenti criteri:


1. comportamenti ripetitivi (per es., lavarsi le mani, riordinare, controllare), o azioni
mentali (per es., pregare, contare, ripetere parole mentalmente) che la persona si sente
obbligata a mettere in atto in risposta ad un'ossessione, o secondo regole che devono
essere applicate rigidamente

18
2. i comportamenti o le azioni mentali sono volti a prevenire o ridurre il disagio, o a
prevenire alcuni eventi o situazioni temuti; comunque questi comportamenti o azioni
mentali non sono collegati in modo realistico con ciò che sono designati a neutralizzare
o a prevenire, oppure sono chiaramente eccessivi.

B. In qualche momento nel corso del disturbo la persona ha riconosciuto che le ossessioni o
le compulsioni sono eccessive o irragionevoli. Nota Questo non si applica ai bambini.

C. Le ossessioni o compulsioni causano disagio marcato, fanno consumare tempo (più di 1


ora al giorno), o interferiscono significativamente con le normali abitudini della persona,
con il funzionamento lavorativo (o scolastico), o con le attività o relazioni sociali usuali.

D. Se è presente un altro disturbo di Asse I, il contenuto delle ossessioni o delle


compulsioni non è limitato ad esso (per es., preoccupazione per il cibo in presenza di un
Disturbo dell'Alimentazione; tirarsi i capelli in presenza di Tricotillomania; preoccupazione
per il proprio aspetto nel Disturbo da Dismorfismo Corporeo; preoccupazione riguardante
le sostanze nei Disturbi da Uso di Sostanze; preoccupazione di avere una grave malattia in
presenza di Ipocondria; preoccupazione riguardante desideri o fantasie sessuali in presenza
di una Parafilia; o ruminazioni di colpa in presenza di un Disturbo Depressivo Maggiore).

E. Il disturbo non è dovuto agli effetti fisiologici diretti di una sostanza (per es., una droga
di abuso, un farmaco) o di una condizione medica generale.

Specificare se:
con scarso insight: se per la maggior parte del tempo, durante l'episodio attuale, la persona
non riconosce che le ossessioni e compulsioni sono eccessive o irragionevoli.

Nell’ICD-10 non viene riconosciuta la presenza di compulsioni mentali ma solamente dei


rituali comportamentali.

19
Nonostante i tentativi di creare delle sotto-categorie, tuttavia, le ossessioni e le compulsioni
possono essere molto varie. Ad ogni modo nella pratica clinica si possono distinguere con
relativa chiarezza sette tipologie di disturbo ossessivo-compulsivo, talvolta presenti in
concomitanza:
- Disturbi da contaminazione - Si tratta di ossessioni e compulsioni connesse a
improbabili (o irrealistici) contagi o contaminazioni. Le persone che ne soffrono sono
tormentate dall'insistente fissazione che loro stessi, o qualcuno dei loro familiari, possa
ammalarsi entrando in contatto con qualche invisibile germe o sostanza tossica. Sostanze
"contaminanti" diventano spesso non solo lo sporco oggettivo, ma anche urine, feci, sangue
e siringhe, carne cruda, persone malate, genitali, sudore, e persino saponi, solventi e
detersivi, contenenti sostanze chimiche potenzialmente "dannose". La contaminazione
temuta può essere anche relativa a "sporco" di natura sociale (il tossicodipendente, il
barbone, l'anziano, ecc.) o metafisica (il male, il diavolo, ecc.). In alcuni casi non vi è il
timore di malattia, ma soltanto un forte senso di disgusto nell'entrare in contatto con certe
sostanze. Vengono, per questo, accuratamente evitati qualsiasi oggetto o luogo
potenzialmente "infetto". Se la persona entra in contatto con uno degli agenti
"contaminanti", mette in atto una serie di rituali di lavaggio, pulizia, sterilizzazione o
disinfezione volti a neutralizzare l'azione dei germi e a tranquillizzarsi rispetto alla
possibilità di contagio o a liberarsi dalla sensazione di disgusto. Tali rituali, fra cui i più
comuni sono certamente il lavaggio ripetuto e particolareggiato delle mani e del corpo, dei
vestiti, dei cibi e di altri oggetti personali, e coinvolgono spesso i familiari.
- Disturbi da controllo - Si tratta di ossessioni e compulsioni implicanti controlli protratti e
ripetuti senza necessità, volti a riparare o prevenire gravi disgrazie o incidenti. Le persone
che ne soffrono tendono a controllare e ricontrollare sia per tranquillizzarsi riguardo al
dubbio ossessivo di aver fatto qualcosa di male e non ricordarlo, sia a scopo preventivo, per
essere sicuri di aver fatto il possibile per prevenire qualunque possibile catastrofe.
Controllano così di aver chiuso le porte e le finestre di casa, le portiere della macchina, il
rubinetto del gas e dell'acqua, di aver spento le luci in ogni stanza di casa ecc. Anche questo
tipo di rituali coinvolge spesso i familiari che sono oggetto di continue richieste di

20
rassicurazione ed ai quali viene talvolta chiesto di effettuare gli stessi controlli.
- Ossessioni pure - Si tratta di pensieri o, più spesso, immagini relative a scene in cui la
persona attua comportamenti indesiderati e inaccettabili, privi di senso, pericolosi o
socialmente sconvenienti (aggredire qualcuno, avere rapporti omosessuali o pedofili, tradire
il partner, bestemmiare, ecc.). Il disturbo ossessivo puro è caratterizzato dalla
preoccupazione costante riguardo all'avverarsi di certi eventi alquanto improbabili, ma
intollerabili per il soggetto, spesso seguita da un dialogo interno volto alla rassicurazione.
Per lo più queste persone non hanno né rituali mentali né compulsioni, ma soltanto pensieri
ossessivi.
- Superstizione eccessiva - Si tratta di un pensiero superstizioso portato all'eccesso. Chi ne
soffre ritiene che il fatto di fare o non fare determinate cose, di pronunciare o non
pronunciare alcune parole, così come di vedere o non vedere certi oggetti (es. carri funebri,
cimiteri, manifesti mortuari), numeri o colori, sia determinante per l'esito degli eventi. I
pensieri negativi e gli eventi sfortunati che potrebbero verificarsi possono, secondo questo
tipo di soggetti, essere scongiurati soltanto ripetendo particolari azioni il "giusto" numero di
volte o facendo qualche altro rituale "anti-iella".
- Ordine e simmetria - Chi ne soffre non tollera assolutamente che gli oggetti siano posti in
modo anche minimamente disordinato o asimmetrico, perché ciò gli procura una sgradevole
sensazione di mancanza di armonia e di logicità. Ogni tipo di oggetto, libri, penne,
asciugamani, abiti nell'armadio, tazzine, devono risultare perfettamente allineati, simmetrici
e ordinati secondo una sequenza logica (es. dimensione, colore, ecc.). Quando ciò non
avviene queste persone passano ore del loro tempo a riordinare ed allineare questi oggetti,
fino a sentirsi completamente tranquilli e soddisfatti. Le ossessioni di ordine e simmetria
possono riguardare anche il proprio corpo. Muscoli, pettinatura dei capelli, colletto e
polsini della camicia, orologio sul polso ecc.
- Accumulo/accaparramento - E' un tipo di ossessione piuttosto rara che caratterizza
coloro che tendono a conservare ed accumulare oggetti insignificanti e inservibili (riviste e
giornali vecchi, pacchetti di sigarette vuoti, bottiglie vuote, confezioni di alimenti), per la
paura di gettare via qualcosa che "un giorno o l'altro potrebbe servire..". Questo tipo di
comportamento, normale entro un certo limite finché si tratta di oggetti che hanno un valore

21
sentimentale, assume caratteristiche patologiche nel momento in cui lo spazio occupato
dalle "collezioni" diventa tale da sacrificare la vita della persona e dei suoi familiari. Questi
particolari collezionisti di cose inutili sono generalmente orgogliosi delle proprie raccolte e
non si rendono conto, se non parzialmente, dell'eccesso in cui incorrono, a differenza dei
pazienti con disturbi da contaminazione o da controllo, che sono solitamente critici
riguardo ai loro rituali. Sono le famiglie a non tollerare più l'invadenza di certi oggetti e a
richiedere il trattamento terapeutico. Questi pazienti, inoltre, non hanno pensieri ossessivi
particolari, ma sono terribilmente sconvolti nel momento in cui si chiede loro di gettar via
qualcosa.
- Compulsioni mentali - Non costituiscono una reale categoria a parte di disturbi ossessivi,
perché la natura delle ossessioni può essere una qualunque delle precedenti. Coloro che ne
soffrono, pur non
presentando alcuna compulsione materiale, come nel caso delle ossessioni pure, effettuano
precisi cerimoniali mentali (contare, pregare, ripetersi frasi, formule, pensieri positivi o
numeri fortunati) per scongiurare la possibilità che si avveri il contenuto del pensiero
ossessivo e ridurre di conseguenza l'ansia.

E’ stato notato come gli uomini si impegnano più frequentemente in rituali di controllo,
mentre i rituali da contaminazione sono predominanti tra le donne (Noshirvani et al., 1991;
Rasmussen e Eisen,1990).
La persona che soffre di disturbo ossessivo-compulsivo, in realtà, tende a mettere in atto
una sterminata serie di evitamenti di tutte quelle situazioni che innescano i pensieri
ossessivi, nel tentativo di controllarli e di non essere costretto a fare i rituali, siano questi
mentali o tradotti in azione. Inoltre, alcuni pazienti Disturbo Ossessivo-Compulsivo
tendono a fare costanti e insistenti richieste di rassicurazione ai familiari e agli amici
riguardo alle proprie preoccupazioni; rassicurazioni che assumono la funzione di un
comportamento tranquillizzante, al pari delle compulsioni.

22
Perturbante Risposta
(aspecifico) (specifica)
Idea
Compulsione mentale
Stimolo Immagine
Rituale
Impulso

insicurezza Figura n. 3 – Modello psicopatologico del Disturbo


REITERAZIONE Ossessivo-Compulsivo (modificato da Ravizza et al,
DELLA RISPOSTA
1997).

2.3 Eziopatogenesi
Non è possibile individuare una causa
singola alla base del disturbo
ossessivo-compulsivo. Nel corso
dei decenni sono state sviluppate varie ipotesi più o meno attendibili, alcune di carattere
psicologico, altre di carattere neurologico, che secondo una visione di causalità multipla dei
disturbi mentali, esse debbono essere considerate in una visione integrata e non
autoescludentesi.

2.3.1 Approccio Psicodinamico


Freud propose due teorie sulle cause dell’ansia. Inizialmente, attraverso l’osservazione dei
suoi pazienti, egli notò che vi fosse alta correlazione tra i disturbi d’ansia e l’astinenza
sessuale o la frustrazione, per cui sviluppò la teoria che l’energia degli istinti sessuali
rimossi si trasformasse in ansia (Freud, 1895). Solo successivamente rivisitò questa sua
prima teoria giungendo a sostenere che l’ansia è la causa della rimozione e non l’effetto.
Freud propose che l’ansia è la reazione dell’Io al pericolo percepito, proveniente dall’Es,
dal Super-Io e dal principio di realtà. L’ansia cioè sarebbe l’indicazione che impulsi
inaccettabili stanno per esprimersi; essa costituisce quindi un “segnale” di allarme per
innescare meccanismi di difesa come la rimozione di tali impulsi (Freud, 1926).
Per quanto riguarda il disturbo ossessivo-compulsivo, secondo la teoria psicoanalitica,
ossessioni e compulsioni sono due fenomeni analoghi, in quanto derivano da forze
istintuali, di natura sessuale o aggressiva, non controllabili a causa di una fissazione allo

23
stadio anale, causata da un addestramento troppo severo al controllo degli sfinteri. I sintomi
osservati rappresentano l’esito della lotta fra l’Es e i meccanismi di difesa; a volte sono gli
istinti dell’Es a prevalere, altre volte i meccanismi di difesa. Fu Freud, grazie al caso clinico
dell’ “Uomo dei topi” (1909) a postulare che i meccanismi di difesa messi in atto dai
pazienti ossessivo-compulsivi sono l’isolamento e l’annullamento. Il meccanismo
dell’isolamento fa si che gli impulsi e i pensieri indesiderati non vengano associati alle
proprie emozioni e sentimenti attuali o in riferimento a esperienze passate, ma sono solo
semplicemente intrusioni disturbanti. I sintomi osservati in pazienti con Disturbo
Ossessivo-Compulsivo sono perlopiù l’esito dell’azione parzialmente riuscita di questo
meccanismo di difesa, cosicchè essi si vedono costretti ad operare allora tramite il
meccanismo dell’annullamento, che consiste invece in azioni o pensieri che vengono messi
in atto per “cancellare” quei pensieri disturbanti che creano ansia.

Alfred Adler (1929) considerava invece il disturbo ossessivo compulsivo come il risultato
di un senso di incompetenza che si ritrova in quei soggetti con genitori eccessivamente
dominanti o iperprotettivi e che sviluppano per questo un senso di inferiorità. I rituali
compulsivi assumerebbero perciò l’aspetto di quello “spazio” che i soggetti si ritagliano per
sperimentare il senso di controllo e nel quale sentirsi pienamente competenti; la
compulsione è cioè la sensazione di dominare qualche cosa, qualsiasi cosa essa sia.

Sebbene sia ormai riconosciuta la debolezza delle basi teoriche dell’ipotesi psicoanalitica,
in molte delle osservazioni di Freud sono presenti concetti molto vicini alle teorizzazioni
attuali in riferimento alle ossessioni e compulsioni, come quello della difesa da contenuti
mentali inaccettabili, il pensiero magico o la percezione esagerata dell’influenza personale.

2.3.2 Approccio comportamentale


I primi studi in ambito comportamentista sulle condotte stereotipate, denominate “risposte
fissate”, furono condotti da Maier, ma il modello comportamentista che più si avvicina al
modello attuale del Disturbo Ossessivo-Compulsivo è quello proposto da Skinner (1953),
riguardo al comportamento superstizioso. Tale comportamento fu notato per la prima volta

24
in uno studio condotto sui piccioni. Secondo l’ipotesi di Skinner, quanti soffrono di DOC
mettono in atto comportamenti “superstiziosi”, perché questi comportamenti sono stati
casualmente associati ad una condizione di benessere e rassicurazione ( in questo caso
abbassamento dell’ansia), esattamente come i piccioni degli esperimenti di Skinner, ai quali
il cibo sarebbe stato dato con la stessa frequenza anche se non avessero fatto niente.
Diverse infatti sono state le condizioni sperimentali e le tecniche per studiare le risposte
fissate, o comportamenti superstiziosi, ma ciò che le accomuna è il fatto che quando
l’animale versa in una situazione difficile, che non può risolvere, esso riprende una risposta
che fa già parte del suo repertorio comportamentale felicemente sperimentata nel passato,
anche se questa non ha alcuna rilevanza, utilità o attinenza con la situazione in corso.

Secondo la teoria comportamentale, il disturbo ossessivo-compulsivo consiste quindi in


comportamenti appresi che vengono rinforzati dalle loro conseguenze (Meyer e Chesser,
1970). I rituali ossessivi nel Disturbo Ossessivo-Compulsivo non costituirebbero altro che
un caso particolare di un comportamento di evitamento, che provoca la diminuzione dello
stato di ansia e disagio provato dall’individuo (Hodgson e Rachman, 1972).
Gli impulsi ossessivi e lo stato di disagio sperimentalmente indotti, in genere presentano un
decadimento dopo circa un’ora dal loro inizio. Ciò confermerebbe l’ipotesi
comportamentale dei rituali e delle neutralizzazioni: qualunque atto compiuto dal soggetto
dopo l’impulso attivante può essere ritenuto responsabile del graduale e reale sollievo dalla
tensione e dal disagio, che invece è frutto di un processo spontaneo autonomo. Tale fatto
però produce un rafforzamento dell’atto compiuto dopo l’impulso attivante e quindi ne
aumenta la successiva probabilità di attuazione. Tale processo vale anche per le
neutralizzazioni covert, cioè effettuate solo mediante processi di pensiero, che quindi sono
molto simili ai cerimoniali compulsivi overt, cioè espressi nel comportamento manifesto.
Infatti anch’esse riducono l’ansia evocata da pensieri inaccettabili e, se vengono rimandate
o ritardate, l’ansia e la spinta a eseguirle decadono spontaneamente.

Sintetizzando il pensiero di Rachman (1978) è possibile schematizzare la seguente


sequenza di eventi:

25
1. stimolo iniziale ( interno o esterno)
2. formazione di immagine/pensiero
3. se il pensiero è accettabile, non vi è alcun disagio e tutto procede
normalmente
4. se il pensiero viene giudicato inaccettabile o ripugnante, si crea l’alterazione
fisiologica che porta a una riduzione della capacità di controllo,
accompagnata dalla persistenza di fantasie e di pensieri con sensazione di
incontrollabilità; ne risulta uno stato di disforia che aumenta la sensibilità ai
pensieri intrusivi e quindi il cerchio si chiude e si auto mantiene
5. le compulsioni, infine, costituiscono il tentativo di elusione del disagio, un
mezzo per cercare di conseguire un controllo, e, producendo un temporaneo
sollievo, si mantengono per rinforzo negativo, ma contemporaneamente
confermano l’inaccettabilità del pensiero, la necessità di un suo controllo e,
in ultima analisi, l’incapacità del soggetto di effettuare il controllo in modo
completo e definitivo.

Rachman e De Silva, condussero inoltre nel 1978, una sofisticata analisi dei pensieri
intrusivi negativi che caratterizzano le ossessioni. Questa indagine rivelò che i pensieri
intrusivi di tipo negativo sono comuni a quasi tutte le persone normali e che possono essere
altrettanto irrazionali, assurdi o sproporzionati rispetto alla realtà. Le ossessioni, quindi,
non sono un fenomeno circoscritto a chi presenta disturbi ossessivo-compulsivi, ma sono
comuni e frequenti in tutti gli individui. Non esistono infatti differenze di contenuto fra le
ossessioni cliniche, che si evidenziano nelle persone affette da Disturbo Ossessivo-
Compulsivo, e i pensieri intrusivi di comune riscontro; vi sono soltanto differenze
quantitative, nel senso che, nelle persone che soffrono di DOC, la frequenza delle
ossessioni è notevolmente superiore, persistono per periodi più lunghi, creano maggior
disagio e determinano maggiori difficoltà di allontanamento volontario. Da questo studio in
poi l’interesse dei ricercatori si è focalizzato sul tentativo di stabilire il motivo per cui in

26
certe persone le preoccupazioni intrusive siano un fenomeno occasionale e transitorio, che
decade spontaneamente, mentre in altre divengano vere e proprie ossessioni patologiche. La
risposta a questo interrogativo è stata individuata nella differente razione alla comparsa del
pensiero intrusivo. La persona “normale” non dà eccessiva importanza all’improvvisa
preoccupazione, la riconosce come insensata, anche se suscita terrore, la accetta e attende
che se ne vada spontaneamente. Chi soffre di disturbo ossessivo- compulsivo, viceversa,
prende molto sul serio i pensieri negativi che arrivano alla sua mente, è subito assalito
dall’ansia e, se riesce a fare qualcosa per tranquillizzarsi, in termini di comportamento
esplicito o di atto mentale, fa involontariamente sì che questo pensiero si fissi e tenda a
ripresentarsi in situazioni simili. Rende inoltre, progressivamente, sempre più necessaria
l’emissione del rituale, per “esorcizzare” il rischio che il contenuto del pensiero si avveri.
La compulsione, insomma, non evita che possa accadere qualcosa di terribile, ma riduce
rapidamente l’ansia che il pensiero ha prodotto. Produce sollievo e ripristina un senso di
relativa sicurezza, anche se per poco, innescando un circolo vizioso che rende le persone
sempre più dipendenti da comportamento compulsivo e sempre più assillate dal pensiero
ossessivo.

A quanto risulta da auto descrizioni (Hodgson e Rachman, 1972) e da risposte


psicofisiologiche (Carr, 1971) il comportamento compulsivo riduce effettivamente l’ansia.
Dalle ricerche, tuttavia, emerge anche che non tutte le azioni compulsive sono in grado di
ridurre l’ansia allo stesso modo. Hodgson e Rachman (1980) hanno rilevato che la
riduzione dell’ansia in seguito a rituali compulsivi era più frequente in pazienti affetti da
compulsioni di pulizia rispetto a quelli con compulsioni di controllo. La riduzione
dell’ansia non può spiegare però l’origine delle ossessioni, che sono piuttosto la causa
dell’ansia in questo tipo di pazienti.

Il modello della genesi e del mantenimento del Disturbo Ossessivo-Compulsivo che allo
stato attuale delle conoscenze si è rivelato come il più accreditato è, ancora oggi, quello
comportamentista. Le teorie cognitive si limitano soltanto ad arricchire e ad integrare
questo modello.

27
2.3.3 Approccio cognitivista
Le teorie cognitive sull’ansia si focalizzano sia sul contenuto dei pensieri negativi, cioè
pensieri automatici e schemi cognitivi disadattavi (l’insieme di credenze e presupposti che
vanno a costituire una schema di pensiero solitamente semplice, rigido e negativo), sia sui
processi che portano alla generazione di tali contenuti ansiogeni. I cognitivisti hanno infatti
identificato diverse comuni distorsioni cognitive o processi di pensiero viziosi, che
contribuiscono all’interpretazione disadattava degli eventi.

Negli anni ’90, alcuni teorici cognitivisti, tra cui P. Salkovskis e G. Steketee, hanno
individuato i particolari meccanismi di pensiero e di elaborazione dell’informazione che
stanno alla base dei processi cognitivi di chi soffre di Disturbo Ossessivo-Compulsivo:
 Eccessivo senso di responsabilità: le persone affette da DOC, in particolare coloro
che temono le conseguenze dannose delle proprie trascuratezze sugli altri, piuttosto
che su stessi, ritengono spesso che anche avere una minima influenza sull’esito di
un determinato evento negativo equivalga ad esserne totalmente responsabile.
 Eccessiva importanza attribuita ai pensieri: quasi tutte le persone ossessive
ritengono che avere certi pensieri negativi sia moralmente deplorevole, perché
significherebbe desiderare o augurarsi che essi si avverino, e pericoloso, in quanto
potrebbe avere un’influenza sul reale accadimento degli eventi.
 Sovrastima della possibilità di controllare i propri pensieri: le persone che soffrono
di DOC, non tollerando la presenza di pensieri negativi, fanno di tutto per
contrastarli e liberarsi la mente, senza considerare che in realtà abbiamo un
controllo soltanto parziale sul nostro flusso di pensieri.
 Sovrastima della pericolosità dell’ansia: l’ansia è uno stato normale e non
pericoloso; i sintomi fisici dell’ansia possono essere molto sgradevoli, ma non
portano mai alla perdita di controllo del proprio comportamento e, prima o poi,
tendono a scomparire spontaneamente, anche se la persona non fa niente per
tranquillizzarsi. Quanti sono affetti da DOC, invece, tendono ad interpretare lo
stato confusionale che l’ansia può indurre, come segno di un’imminente perdita di

28
controllo o di essere sul punto di impazzire. Essi ritengono che il malessere
fisiologico ad essa correlato aumenti all’infinito o rimanga stabile nel tempo, al
punto da diventare intollerabile o dannoso per l’organismo.

Questi fattori cognitivi spiegano meglio perché una persona con disturbi ossessivi-
compulsivi consideri pericolosi e intollerabili certi suoi pensieri negativi e faccia di tutto
per neutralizzarne l’effetto o per evitare di averli, innescando il circolo vizioso
comportamentale descritto prima. L’intervento di terapia cognitiva, nella psicoterapia
cognitivo-comportamentale del Disturbo Ossessivo-Compulsivo, si basa infatti sul tentativo
di ridimensionare queste credenze, per fare in modo che la persona accetti la presenza di
pensieri negativi, considerandoli assolutamente normali.

2.3.4 Fattori biologici


Vi sono delle prove a favore di una componente genetica del Disturbo Ossessivo-
Compulsivo (Kendler et al., 1992). Tassi elevati di disturbi d’ansia si riscontrano tra i
parenti di primo grado di pazienti affetti da DOC (McKeon e Murray, 1987). Lenane et al.
(1990) hanno rilevato che nel 30% dei casi i parenti di primo grado dei soggetti da loro
esaminati soffrivano anch’essi del disturbo. All’individuo può, però, essere trasmesso non
tanto il gene responsabile della malattia, ma piuttosto una certa vulnerabilità. Questa può
rimanere latente per tutta la vita, ma se intervengono fattori scatenanti, come per esempio
quelli traumatici, l’individuo corre il rischio di sviluppare un DOC.
Per quanto riguarda la correlazione del Disturbo Ossessivo-Compulsivo con altre patologie,
sembra accertata una base genetica con la sindrome di Gilles de la Tourette che si
caratterizza per diversi tic involontari, ricorrenti, sia motori che vocali (Rauch e Jenike,
1993).
L’encefalite, i traumi cranici e i tumori al cervello sono tutte condizioni che sono state
associate con lo sviluppo del disturbo ossessivo-compulsivo (Jenike, 1986). In particolare
l’interesse si è concentrato su due aree cerebrali che potrebbero essere interessate da tali
traumi: i lobi frontali e i gangli della base.

29
Prove neuropsicologiche
Kim e colleghi (2007) propongono che eventuali disfunzioni nella regione frontale
modifichino la risposta di inibizione nei soggetti affetti da Disturbo Ossessivo-Compulsivo.
Cavedini e colleghi (1998) hanno evidenziato a tal proposito come in effetti le alterazioni
cognitive che presentano i soggetti con Disturbo Ossessivo-Compulsivo siano correlate ad
un basso livello dell’attività inibitoria della corteccia frontale, che secondo Sanz e colleghi
(2001) è causata da alterazioni nei potenziali evocati in tale regione. Ciò causerebbe
rallentamento e indecisione nelle risposte ad un eventuale compito per i soggetti affetti da
DOC. I risultati positivi ottenuti grazie a un trattamento a base di farmaci serotoninergici,
evidenziano come le disfunzioni cognitive per questo tipo di pazienti possano dipendere da
un basso livello di serotonina nella regione frontale che si riflette in alterazioni dell’attività
inibitoria.
A conferma della tesi che sostiene l’importanza che assumono la corteccia frontale e i
gangli della base nel disturbo ossessivo-compulsivo, Rauch et al. (1994) hanno sollecitato i
sintomi del disturbo ossessivo-compulsivo presentando ai pazienti stimoli specificatamente
selezionati per loro, come un guanto contaminato da rifiuti oppure una porta non chiusa a
chiave. Il flusso sanguigno nel cervello aumentava nell’area frontale e in alcuni dei gangli
basali. Tali evidenze sono state confermate dagli studi di Lacerda e colleghi (2003) che
utilizzando una tomografia ad emissione di singoli fotoni (SPECT) ha anche mostrato come
esista una correlazione positiva tra la gravità dei sintomi (misurata attraverso i punteggi del
Clinical Global Impression) e il flusso sanguigno cerebrale nei lobi frontali e nei gangli
della base destri. In tutte queste strutture i neuroni hanno un’attività prevalentemente
serotoninergica.
Studi effettuati con tomografia ad emissioni di positroni (PET) hanno inoltre come una
maggiore attività nei lobi frontali dei pazienti ossessivo-compulsivi sia probabilmente un
riflesso della loro eccessiva concentrazione sui propri pensieri (Mavrogiorgou et al., 2002).
In particolare Yucel e colleghi (2007) hanno registrato un incremento dell’attivazione nella
corteccia frontale mediale e postulano che sia una risposta compensatoria ad un'altra
disfunzione che coinvolge la capacità, in questi soggetti, di inibire pensieri e
comportamenti sgradevoli.

30
Roth e colleghi (2007) hanno anche dimostrato, attraverso risonanza magnetica funzionale,
che durante la risposta di inibizione comportamentale i soggetti ansiosi mostrano
un’attivazione più diffusa a livello bilaterale, che include sia i giri frontali inferiori sia altre
strutture frontali e posteriori.
Chamberlain e colleghi (2008) in particolare, osservarono un’anomala riduzione
dell’attivazione della corteccia orbito-frontale in pazienti ossessivo-compulsivi, durante un
compito che implicava la presentazione di una stimolazione a valenza negativa. Una
eventuale disfunzione o malfunzionamento della corteccia orbito-frontale, area cerebrale in
relazione alla flessibilità, infatti impedirebbe una corretta modulazione delle reazioni
cognitive e comportamentali in risposta a eventi negativi.

Prove neuroanatomiche
In riferimento all’area orbito-frontale sinistra sono state anche trovate anomalie strutturali;
essa si presenta con minori dimensioni nei soggetti affetti da DOC (Kang et al, 2004).
Inoltre la grandezza della corteccia orbito-frontale è stata correlata negativamente alla
gravità della sintomatologia.
Alterazioni strutturali sono state trovate anche da Pujol et al. (2004), in particolare sono
emerse una riduzione del volume della sostanza grigia nella parte mediale del giro frontale,
la corteccia orbito-frontale mediale e la regione insulare sinistra. Mentre un relativo
incremento del volume della materia grigia è stato osservato nella parte più ventrale del
putamen e nella parte anteriore del cerebellum. Questi autori tuttavia non hanno trovato
correlazione tra queste alterazioni e la gravità, natura dei sintomi e comorbidità. Comunque
pazienti con una notevole gravità dei sintomi mostrano anche un volume ridotto
dell’amigdala nell’emisfero destro. In particolare, come ha potuto osservare van den
Heuvel e colleghi (2004) grazie a studi effettuati con tomografia ad emissioni di positroni
(PET), i soggetti con disturbo ossessivo-compulsivo, presentano un incremento dell’attività
nella parte sinistra dell’amigdala e una sensibilizzazione della parte destra.
Inoltre anomalie strutturali sono state rilevate anche in riferimento alla struttura
dell’ippocampo Hong et al. (2007) in soggetti che presentavano Disturbo Ossessivo-
Compulsivo. Hashimoto e colleghi (2008) hanno invece osservato alterazioni nei potenziali

31
evocati. Ciò va a confermare il coinvolgimento dell’ippocampo nel Disturbo Ossessivo-
Compulsivo, anche se sono necessarie ulteriori ricerche per stabilire le modalità di questo
coinvolgimento.

Prove neurotrasmettitoriali
La ricerca sui fattori neurochimici si è concentrata sull’implicazione del sistema
serotoninergico nei disturbi ossessivo-compulsivi. E’ stato confermata, infatti, una
riduzione della sintomatologia ossessivo-compulsiva, in quei pazienti a cui era stato
somministrato un precursore della serotonina, rinforzando le evidenze cliniche che
mostravano l’efficacia dei farmaci ansiolitici e antidepressivi SSRIs nel trattamento del
Disturbo Ossessivo-Compulsivo (Zohar et al., 2000; Dell’Osso et al., 2006; Denys et al.,
2006).
In realtà la relazione della serotonina con questo disturbo non è ancora stata compresa
appieno, una possibile spiegazione potrebbe essere che il DOC sia causato da un sistema
neurotrasmettitore accoppiato alla serotonina. Quando subisce l’influsso degli
antidepressivi, il sistema della serotonina provoca dei cambiamenti in quest’altro sistema,
che è il luogo dove realmente si esercita l’effetto terapeutico (Barr et al. 1994). La
dopamina e l’acetilcolina sarebbero i trasmettitori accoppiati alla serotonina e
giocherebbero quindi un ruolo fondamentale nel disturbo ossessivo-compulsivo (Rauch e
Jenike, 1993). Studi con neuroimmagini hanno permesso di osservare l’esistenza di un’alta
concentrazione sinaptica di dopamina nei gangli della base. Questi dati sembrano
confermare l’ipotesi di un’iperattività striatale responsabile dei comportamenti ripetitivi
caratteristici del Disturbo Ossessivo-Compulsivo. Tuttavia ancora troppo pochi sono i dati a
nostra disposizione per poter formulare delle conclusioni ampiamente condivisibili sul
ruolo della dopamina nel Disturbo Ossessivo-Compulsivo.

32
CAPITOLO TERZO
TRATTAMENTO DEL DISTURBO OSSESSIVO-
COMPULSIVO

Per lungo tempo, il Disturbo Ossessivo-Compulsivo è stato considerato un disturbo


caratterizzato da un decorso tipicamente cronico e difficilmente modificabile con i
trattamenti disponibili. Basti pensare, che, ancora negli anni Sessanta, l’unico trattamento
con documentate evidenze di efficacia, peraltro solamente in una percentuale limitata di
casi selezionati, era la psicochirurgia. Questo desolante scenario si modificò sensibilmente
con l’introduzione della terapia comportamentale basata sull’esposizione e prevenzione
della risposta negli anni Settanta, e del trattamento farmacologico con clomipramina negli
anni Ottanta. Progressivamente, si sono accumulate ampie evidenze a favore dell’efficacia
di trattamenti psicologici come la terapia comportamentale e la psicoterapia cognitiva (Roth
et al, 1996), e di trattamenti farmacologici come la clomipramina e gli inibitori selettivi
della ricaptazione della serotonina (SSRI) (Hollander et al, 2000). I risultati di numerosi
studi clinici controllati e di varie metanalisi (Kobak et al, 1998) documentano chiaramente
l’efficacia di questi due tipi di trattamento, che rappresentano certamente un enorme
progresso rispetto a quanto possibile fino a non moltissimo tempo addietro. Tuttavia,
ancora oggi il trattamento del DOC non è agevole, e solo in un numero limitato di casi si
ottiene una remissione completa e durevole della sintomatologia. In molti pazienti il

33
disturbo assume un decorso cronico (Ravizza et al, 1997), e alcuni recenti studi
epidemiologici di follow-up hanno mostrato che, pur essendo il decorso del DOC molto
migliorato rispetto a quanto osservato in studi retrospettivi condotti negli anni Cinquanta e
Sessanta, tuttavia le riesacerbazioni della sintomatologia sono frequenti e solamente un
numero limitato di pazienti beneficia di una remissione completa.

3.1 Trattamento psicoterapeutico


A partire dalle considerazioni di Freud sul Disturbo Ossessivo-Compulsivo, diverse sono
state le metodiche psicoterapeutiche utilizzate per il trattamento di questo disturbo. Dopo
primi approcci, di base psicodinamica, che indagavano i conflitti inconsci, come abbiamo
già detto, negli anni Settanta sono venute invece a diffondersi le tecniche comportamentali
e cognitive, che si sono rivelate più efficaci.

3.1.1 Approccio psicodinamico


I terapeuti ad orientamento psicodinamico considerano l’ ansia patologica come il risultato
di conflitti emozionali inconsci, e tendono ad utilizzare tecniche psicodinamiche di base per
trattare molti dei disturbi d’ansia (Abend, 1996). I pazienti, incoraggiati a parlare il più
liberamente possibile, vengono aiutati a comprendere le radici dei propri sintomi, a
migliorare la propria auto-accettazione e diminuire l’utilizzo di meccanismi di difesa
disadattavi attraverso l’analisi delle diverse forme di resistenze e transfert che avvengono
durante il processo terapeutico.
Nel caso del disturbo ossessivo-compulsivo, data la difficoltà di concentrare l’intervento
terapeutico sui pensieri invasivi e i comportamenti compulsivi che hanno la funzione di
difendere l’Io, le tecniche psicoanalitiche non hanno riscontrato risultati accettabili nel
trattamento dei DOC. L’approccio psicoanalitico orientato alla cura di tale disturbo può
configurarsi semplicemente come strumento per ottimizzare l’adesione da parte del
paziente e la sua compliance ad altre tecniche terapeutiche, quali quella cognitivo-
comportamentale.

34
3.1.2 Approccio comportamentale
In accordo con la teoria comportamentale, il DOC si sviluppa quando i rituali compulsivi
riescono a ridurre l’ansia causata dai pensieri disturbanti, rinforzando negativamente il
comportamento rituale (Foa e Kozak, 1996). Diverse sono tecniche comportamentali come
la desensibilizzazione sistematica , il modeling, il condizionamento operante, il flooding,
l'esposizione immaginativa, il blocco del pensiero, il condizionamento avversivo,
l'esposizione in vivo con prevenzione della risposta (EPR); nonostante tutte queste siano
state utilizzate nel trattamento dei DOC l’ esposizione graduale e prevenzione della risposta
(exposure and response prevention, ERP) più di ogni altra hanno evidenziato la loro
efficacia clinica. Queste due tecniche furono applicate per la prima volta da Meyer, nel
1966, ai pazienti che ricorrevano a rituali di lavaggio e di pulizia. In questo programma si
tentava di prevenire le compulsioni chiedendo al paziente di toccare ripetutamente oggetti
che evocavano ansia di “contaminazione”. In questo modo venivano sollecitate le
ossessioni e il bisogno compulsivo di lavarsi impedendogli però di farlo. Ai pazienti con
DOC viene cioè proibito di mettere in atto i rituali compulsivi finalizzati a ridurre l’ansia
anche se invasi da pensieri ossessivi, questi ultimi possono anche essere gradualmente
sollecitati grazie all’utilizzo di stimoli o situazioni soggettivamente ansiogene. Questo
intervento interrompe il rituale compulsivo e contemporaneamente previene il rinforzo
derivante dalla riduzione dell’ansia, dando anche al paziente la possibilità di constatare che
tale ansia è infondata, tollerabile e che decresce spontaneamente.
Tra i diversi tipi di esposizione, risulta più efficace quella in vivo piuttosto che quella
immaginativa. L’abbinamento dei due tipi di esposizione migliora l’efficacia a lungo
termine del trattamento nei pazienti con rituali di controllo e con sovrastima delle
conseguenze del danno (Foa et al., 1980). L’esposizione prolungata è più efficace di quella
breve, e quella graduale è più gradita ai pazienti piuttosto di quella immediata.
Nelle tecniche comportamentali di esposizione alle situazioni temute e di prevenzione della
risposta è necessario progettare accuratamente l’intervento. La scelta della tecnica si basa
su un’attenta analisi delle caratteristiche del caso. Dalla terapia saranno esclusi
preliminarmente pazienti con gravi disturbi di personalità.

35
Quando sia le ossessioni e le compulsioni sono processi mentali, si può far ricorso a quella
che viene definita risposta nascosta preventiva, che potrebbe essere utilizzata per spezzare
il circolo vizioso. Consiste nel richiedere di non mettere in atto quei processi mentali che
fungono da rituale in risposta all’ossessione.
Un accenno merita anche il metodo della tecnica di “arresto del pensiero” che si è rivelato
utile con i pazienti ossessivi puri, vale a dire senza compulsioni. Questa tecnica richiede
solo quindici minuti per essere insegnata. Si chiede al paziente, generalmente in stato di
rilassamento, di concentrarsi a occhi chiusi sui pensieri che inducono ansia e di segnalare
con un dito quando ciò accade. A questo punto, con tecniche relativamente semplici, gli si
insegna a interrompere la catena delle ossessioni bloccando il pensiero con un deciso
“stop”. Questa tecnica è molto coinvolgente perché nelle prime applicazioni funziona molto
bene e dà l’impressione di consentire una rapida guarigione. Peccato, però che abbia
un’efficacia limitata nel tempo. Il paziente, infatti, si abitua ben presto agli “stop” suoi o del
terapeuta. A livello di ossessioni pure, privi quindi di componenti compulsive, le terapie
cognitive o i farmaci sembrano produrre risultati più duraturi rispetto alle terapie
comportamentali.
E’ stato invece provato che l’esposizione e le terapie di risposta preventiva sono efficaci
nell’intervento e nel trattamento dei DOC (Franklin et al., 2000).
Studi con l’utilizzo di neuro-immagini hanno evidenziato correlazioni tra l’efficacia della
terapia comportamentale e i cambiamenti nell’attività dei circuiti frontali-subcorticali in
pazienti con Disturbo Ossessivo-Compulsivo. Partendo dalla conoscenza che i pazienti che
soffrono di DOC presentano elevata attivazione nella corteccia frontale mediale (Yucel et
al, 2007), Yamanishi e colleghi (2009) hanno valutato che dopo un trattamento di terapia
cognitiva per 12 settimane il flusso sanguigno nella corteccia prefrontale mediale sinistra e
nel giro frontale mediale bilaterale era minore nei soggetti che avevano risposto
positivamente alla terapia, rispetto ai “non-responders”.

3.1.3 Approccio cognitivista


Attraverso gli interventi cognitivi si procede a modificare, non tanto il pensiero ossessivo
quanto piuttosto la valutazione che ne fa il paziente. Saltuari pensieri ossessivi e irrazionali

36
possono venire a tutti, senza che vengano però presi troppo sul serio. Nell’ossessivo la
patologia non sta tanto nell’avere questi pensieri, quanto invece nel considerarli come rischi
reali. Da ciò deriverebbero questi pensieri negativi rapidissimi, intensi, quasi automatici.
La terapia è diretta ad aiutare il paziente a sviluppare considerazioni alternative e
interpretazioni meno negative. Il focus della terapia dovrebbe essere quindi centrato “non
sulla modifica delle intrusioni…ma sui pensieri automatici che si generano di conseguenza
e sulle credenze che da questi prendono corpo” (Salkovskis, 1989).
In psicoterapia cognitiva questi pensieri sono messi in discussione e gradualmente svuotati
del loro riscontro emotivo. Occorre però seguire dei metodi d’intervento ben strutturati
(Salkovskis, 1989); i terapeuti cognitivi assumono una posizione attiva e direttiva verso il
paziente e i suoi problemi (Leahy, 1997). Le prime sedute sono dedicate alla formulazione
degli obiettivi, al paziente vengono poi fatte presenti le prove razionali che contrastano con
i pensieri negativi, per giungere alla modificazione dei processi di pensiero automatici e
disfunzionali; in particolare, sull'eccessivo senso di responsabilità, sull'eccessiva
importanza attribuita ai pensieri, sulla sovrastima della possibilità di controllare i propri
pensieri e sulla sovrastima della pericolosità dell'ansia, che costituiscono le principali
distorsioni cognitive dei pazienti con Disturbo Ossessivo-Compulsivo.
Gli interventi cognitivi sono più efficaci se usati in combinazione a tecniche
comportamentali.

3.2 Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale


La psicoterapia cognitivo-comportamentale (CBT) costituisce il trattamento
psicoterapeutico più indicato per bambini, adolescenti e adulti affetti da Disturbo
Ossessivo-Compulsivo. Aiuta le persone ad interiorizzare strategie adattive per fronteggiare
il disturbo con effetti benefici a breve e a lungo termine. La psicoterapia cognitivo-
comportamentale, come chiaramente suggerisce il termine, combina due forme di terapia
estremamente efficaci: la psicoterapia comportamentale che permette l’apprendimento di
nuove modalità di reazione emotiva e comportamentale in situazioni ansiogene, oltre che
l’apprendimento di tecniche di rilassamento; e la psicoterapia cognitiva, che si dedica

37
all’individuazione ed eliminazione di schemi di pensiero disadattavi correggendoli con
modelli cognitivi più funzionali al benessere della persona.
Quando sono combinate nella Terapia Cognitivo-Comportamentale, queste due forme di
trattamento diventano un potente strumento per risolvere in tempi brevi forti disagi
psicologici.

Melli (2006) ci tiene a descrive la psicoterapia cognitivo-comportamentale come:


Pratica e concreta. Lo scopo della terapia si basa sulla risoluzione dei problemi psicologici
concreti. Essa infatti si pone l’obiettivo riscontrabile di riduzione o eliminazione dei rituali
compulsivi, l’eventuale diminuzione dei sintomi depressivi o compromissioni a livello
sociale e lavorativo.
Centrata sul "qui ed ora". Il ricordo del passato, così come il racconto dei sogni e l’analisi
della relazione terapeutica instauratasi possono essere in alcuni casi utili per comprendere
come gli attuali problemi del paziente si siano strutturati, ma molto difficilmente possono
aiutare a risolverli, soprattutto nel caso di Disturbo Ossessivo-Compulsivo. La Terapia
Cognitivo-Comportamentale non utilizza tali metodi, strumenti tipici della terapia
psicodinamica, ma si preoccupa di attivare piuttosto tutte le risorse del paziente stesso, e di
suggerire valide strategie che possano essere utili a liberarlo dalle proprie difficoltà,
indipendentemente dalle cause. La CBT è infatti centrata sul presente e sul futuro mirando
ad ottenere dei cambiamenti positivi, ad aiutare il paziente a uscire dal proprio problema
piuttosto che a spiegargli come ci è entrato.
A breve termine. La terapia cognitivo-comportamentale è a breve termine, ogni qualvolta
sia possibile. Il terapeuta è comunque generalmente pronto a dichiarare inadatto il proprio
metodo nel caso in cui non si ottengano almeno parziali risultati positivi, valutati dal
paziente stesso, entro un numero di sedute prestabilito. La durata della terapia varia di
solito dai tre ai dodici mesi, a seconda del caso, con cadenza il più delle volte settimanale.
Problemi psicologici più gravi, che richiedano un periodo di cura più prolungato, traggono

38
comunque vantaggio dall'uso integrato della terapia cognitiva, degli psicofarmaci e di altre
forme di trattamento.
Orientata allo scopo. La Terapia Cognitivo-Comportamentale è più orientata ad uno scopo
rispetto a molti altri tipi di trattamento. Il terapeuta cognitivo-comportamentale, infatti,
lavora insieme al paziente per stabilire gli obbiettivi della terapia, formulando una diagnosi
e concordando con il paziente stesso un piano di trattamento che si adatti alle sue esigenze,
durante i primissimi incontri. Si preoccupa poi di verificare periodicamente i progressi in
modo da controllare se gli scopi sono stati raggiunti.
Attiva e collaborativa. Paziente e terapeuta lavorano insieme per capire e sviluppare
strategie che possano indirizzare il paziente alla risoluzione dei propri problemi. Sia il
paziente che il terapeuta giocano un ruolo attivo nella terapia. Il terapeuta cerca di
insegnare al paziente ciò che si conosce dei suoi problemi e delle possibili soluzioni ad essi.
Il paziente, a sua volta, lavora al di fuori della seduta terapeutica per mettere in pratica le
strategie apprese in terapia, svolgendo dei compiti che gli vengono assegnati di volta in
volta.
Scientificamente fondata. È stato dimostrato attraverso studi controllati che i metodi
cognitivo-comportamentali costituiscono una terapia efficace per numerosi problemi di tipo
clinico. E’ stato dimostrato che la CBT è efficace quanto e anche di più degli psicofarmaci
nel trattamento della depressione e dei disturbi d’ansia, ma assai più utile nel prevenire le
ricadute.

La psicoterapia cognitivo-comportamentale costituisce il trattamento psicoterapeutico d’


elezione per la cura del disturbo ossessivo-compulsivo (Foa et al, 2005). Le tecniche
comportamentali, infatti, hanno la funzione di contrastare il rinforzo derivante dalla
compulsione messa in atto per ridurre l’ansia, dando anche al paziente la possibilità di
constatare che tale ansia è irrazionale, sopportabile e che decresce spontaneamente.
L’intervento cognitivo, invece, lavora sul fronte delle ossessioni, rimodellando le credenze
sui pensieri intrusivi, gli schemi cognitivi disadattavi e i pensieri automatici.

3.3 Farmacoterapia

39
La terapia farmacologica per il Disturbo Ossessivo-Compulsivo si è basata da subito
sull’impiego della clomipramina (Anafranil), un antidepressivo triciclico. La clomipramina,
infatti, si è dimostrata significativamente efficace fin dai primi studi clinici degli anni ’60,
efficacia che ha spinto poi i ricercatori ad interessarsi ad un’altra famiglia di farmaci
antidepressivi, gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI). La US Food
and Drug Administration ha approvato fra questi la fluovoxamina (Maveral, Dumirox,
Fevarin), , la sertralina (Zoloft), la fluoxetina (Prozac, Fluoxeren, Fluoxetina) e la
paroxetina (Sereupin, Seroxat).
I risultati ottenuti nel Disturbo Ossessivo-Compulsivo con l’utilizzo dei farmaci
antidepressivi SSRI e della clomipramina è attualmente ben documentata, anche se circa il
40 - 50% delle persone non risponde positivamente. Anche per quanti rispondono in
maniera significativa al trattamento farmacologico, la dimensione della risposta è
solitamente incompleta e pochi raggiungono la totale assenza di sintomi. Va poi ricordato
che la terapia farmacologica antiossessiva debba essere considerata una terapia a lungo
termine, preferenzialmente prolungata, una volta che si sia ottenuto un risultato clinico
soddisfacente, per un periodo di almeno due anni (March et al., 1997; Bogetto et al., 2002).

L’efficacia del trattamento farmacologico è attualmente determinata attraverso i


cambiamenti nel punteggio nella Yale-Brown Obsessive Compulsive Scale (Y-BOCS). La
Y-BOCS è una scala di valutazione costituita da 10 items, molto utilizzata in clinica, con
un range totale che va da 0 a 40 comprovante la gravità delle ossesioni e delle compulsioni
(Goodman et al., 1989). In molti casi, i pazienti vengono classificati come “responsivi” o
“responders” quando è presente un abbassamento dei punteggi nella Y-BOCS dal 25% al
35% (Pallanti et al., 2002). Un recente articolo riporta che una riduzione del 30% è ottimale
per prevedere un miglioramento nella Scala Clinica di valutazione dell’Impressione
Globale (CGI) (Tolin et al., 2005).

3.3.1 I Triciclici

40
Gli antidepressivi triciclici sono quegli agenti preposti a bloccare il processo di ricaptazione
delle amine (noradrenalina e/o serotonina), cioè il meccanismo che permette l’interruzione
della neurotrasmissione aminergica.

Clomipramina
Come evidenzia l’articolo pubblicato nel 2006 da Damiaan Denys et al., nonostante l’arrivo
di molti altri farmaci anti-ossessivi più specifici, la Clomipramina resta un efficace
trattamento per il Disturbo Ossessivo-Compulsivo. La clomipramina, il primo medicinale
che è stato approvato dalla FDA per il trattamento del Disturbo Ossessivo-Compulsivo, ha
mostrato di essere un valido agente antiossessivo in molti studi controllati randomizzati
(Thoren et al.,1980; Katz et al.,1990; Dell’Osso et al.,2006). Infatti, la clomipramina mostra
il raggiungimento di chiari miglioramenti, se comparato con gli effetti seguenti la
somministrazione di placebo, con una differenza di 8.20 punti sulla scala Y-BOCS
(Ackerman et al., 2002). I successivi studi di comparazione e meta analisi di ricerche
randomizzate controllate con farmaci (Dell’Osso et al., 2006) hanno mostrato che nessun
farmaco è superiore alla clomipramina. Infatti, quest’ultima sembrerebbe essere sempre più
efficace degli SSRI nel trattamento del Disturbo Ossessivo-Compulsivo, sebbene con una
peggiore tollerabilità. Per questo, l’utilizzo di clomipramina potrebbe essere preso in
considerazione se un paziente ha fallito una serie di terapie con gli SSRI. Il numero di
coloro che rispondono alla clomipramina varia dal 40% al 50% dei pazienti. Sebbene in
molti casi bassi dosaggi di clomipramina per un breve periodo di tempo potrebbe portare
insignificanti miglioramenti dei sintomi, il trattamento con la clomipramina alla fine di un
periodo minimo che va dalle 10 alle 12 settimane con un dosaggio dai 250 ai 300 mg/d
dimostra la sua piena efficacia.
Per pazienti che si sono mostrati non rispondenti o intolleranti alla somministrazione orale
di clomipramina, la somministrazione intravenosa potrebbe essere considerata una valida
alternativa, come è stato dimostrato in diversi studi controllati (Fallon et al.,1998. Koran et
al., 1997).
Per quanto riguarda gli effetti collaterali, il trattamento con clomipramina può causare
secchezza delle fauci, stipsi, ritenzione urinaria, ipotensione ortostatica, tachicardia o

41
sedazione. Esiste, inoltre, un effetto a livello cardiaco, con possibilità di aritmie e
modificazioni elettrocardiografiche. E’ sconsigliabile la prescrizione della clomipramina
agli anziani e alle persone con problemi cardiovascolari, ipertrofia prostatica o glaucoma.
La clomipramina ha un’elevata azione anticolinegica, è potenzialmente cardiotossica ed è
altamente dannosa in sovradosaggio.
Dopo aver portato i sintomi ossessivo-compulsivi sotto controllo con una terapia a dosi
elevate, un programma di mantenimento a dosi ridotte sembra essere la strategia
raccomandata per prevenire ricadute e minimizzare gli effetti collaterali.

3.3.2 Selective Serotonine Reuptake Inhibitors (SSRI)


Il meccanismo d’azione di questo tipo di farmaci è la
possibilità di potenziare la trasmissione nervosa
mediata dalla serotonina.
Gli SSRI rappresentano la linea d’eccezione per il
disturbo ossessivo-compulsivo, con convincenti
evidenze che supportano la loro efficacia da parte di
studi effettuati su larga scala,randomizzati e controllati
con placebo (Zohar et al., 2000). Una maggior
tollerabilità e accettazione rispetto alla clomipramina
rendono gli SSRIs la prima scelta nel trattamento del
Disturbo Ossessivo-Compulsivo, mentre l’utilizzo di
clomipramina è riservato per coloro che non sono tolleranti agli SSRI o che non rispondono
ad essi. La scelta tra fluoxetina, fluvoxamina, citalopramina, paroxetina e sertralina è
difficile e solitamente dipende da preferenze personali, dato che i loro effetti sono
pressoché simili. Le dosi consigliate degli SSRIs per il trattamento del Disturbo Ossessivo-
Compulsivo sono mostrati in Table 1. Per la maggior parte dei pazienti, il trattamento con
SSRI ottiene un lento e graduale miglioramento; necessita di tempi lunghi e le dosi
potrebbero aumentare per ottenere risultati consistenti. I pazienti che non rispondono al
primo tipo di SSRI utilizzato, potrebbero sostituirlo con uno differente: il 25% dei pazienti

42
che falliscono con un composto potrebbero rispondere in modo più favorevole ad un altro;
resta comunque impossibile prevedere quale SSRI sarà più efficace per un dato paziente
(Greist et al., 2003).
Per quanto riguarda gli effetti collaterali gli SSRI sono sostanzialmente omogenei, anche se
non esattamente sovrapponibili tra composto e composto. I più frequenti sono quelli di tipo
gastrointestinale, nausea, anoressia, diarrea, cefalea, disturbi sessuali (riscontrabili, in modo
più evidente, anche con l’assunzione di clomipramina ) o disturbi del sonno (Bisserbe et al.,
1997). Va detto, comunque, che sono farmaci ben tollerati, caratterizzati da una bassa
tossicità e da una relativa sicurezza nel sovradosaggio.

Fluvoxamina
La fluvoxamina si è dimostrata più efficace rispetto al placebo in quattro studi controllati ed
equipotente alla clomipramina in 5 studi comparativi (Dell’osso et al., 2005). Le differenze
della fluvoxamina comparata con il placebo in questi esperimenti è di 4.8 punti sulla scala
Y-BOCS (Ackerman et al., 2002). La fluvoxamina non è mai stata studiata in una ricerca
con dosaggi fissi ma sembra esserci efficacia a dosaggi che vanno dai 150 ai 300mg/d.
Recentemente Hollander e colleghi (Hollander et al., 2003) hanno analizzato la
fluvoxamina nella formulazione CR in uno studio di 12 settimane controllato con placebo.
Il punteggio nella Y-BOCS diminuisce di 8.5 punti nel trattamento con la fluvoxamina CR
rispetto ai 5.6 punti del gruppo placebo. Il 32% dei pazienti trattati con fluvoxamina CR
ebbero benefici, rispetto al 21% di coloro a cui era stato dato il placebo.

Fluoxetina
Fluoxetina si è dimostrata efficace in tre esperimenti controllati con placebo e equipotente
alla clomipramina in due studi comparativi. Le differenze della fluoxetina comparata al
placebo sulla scala Y-BOCS è di 1.6 punti (Ackerman et al., 2002). Il numero di coloro che
rispondono alla fluoxetina varia dal 25% al 30% dei pazienti. Due studi con dosaggio fisso
hanno esaminato l’efficacia delle dosi di fluoxetina da 20-,40-, e 60-mg/d nei disturbi
ossessivi-compulsivi. La dose di 60 mg/d fu significativamente più efficace della dose di
20-mg/d, che nello studio di Montgomery e colleghi (Montgomery et al., 1993) non si è

43
dimostrato superiore neppure al placebo. Evidenze anedottiche suggeriscono che 80mg/d
siano ulteriormente più efficaci.

Sertralina
La sertralina fu efficace in quattro studi controllati con placebo e fu equipotente alla
clomipramina in uno studio comparato. Le differenze della sertralina in riferimento al
placebo in questi studi fu di 2.5 punti sulla scala Y-BOCS (Ackerman et al., 2002).
50 mg/d e 200mg/d si sono dimostrate le dosi più efficaci rispetto al placebo, mentre non è
così per 100 mg/d. Bogetto e colleghi hanno comparato l’efficacia di un programma
denominato “rapido” (150 mg/d raggiunti il quinto giorno dall’inizio della terapia) rispetto
a un programma denominato “lento” (150 mg/d raggiunti al quindicesimo giorno) (Bogetto
et al., 2002). Entrambi i programmi sono ben tollerati; mentre il programma “rapido”
avrebbe effetti in maniera più veloce, i punti nella scala Y-BOCS mostrano un’effettiva
riduzione dei sintomi del DOC invece da parte del programma “lento”.

Paroxetina
Per molto tempo, la paroxetina si è mostrata efficace in una sola ricerca controllata con
placebo ed equipotente alla clomipramina nello stesso studio (Zohar et al., 1996. Ackerman
et al., 2002. Ninan et al.,2003). La differenza tra la paroxetina e il placebo fu di 3.1 punti
nella Y-BOCS. Dosi di 40 e 60 mg/d furono significativamente migliori rispetto al placebo,
mentre non lo sono 20mg/d. Un recente studio controllato con placebo su pazienti
giapponesi ha confermato l’efficacia della paroxetina con una riduzione media nella
Y_BOCS di 8.1 punti nel gruppo sperimentale rispetto ai 3.5 punti nel gruppo placebo
(Hollander et al.,2003. Kamijima et al.,2004). Valutata la paroxetina in una ricerca
controllata con placebo e a dosi fisse, si è mostrato che la riduzione media nella Y-BOCS è
stata del 16% al dosaggio di paroxetina di 20mg/d, del 25% al dosaggio di 40 mg/d e del
29% al dosaggio di 60 mg/d, paragonata alla riduzione del 13% con il placebo.

44
Ci sono inoltre alcune ricerche che suggeriscono come l’escitalopramina (Entact) (Fineberg
et al., 2007), la citalopramina (Mundo et al., 1997; Montgomery, 2001), la mirtrazapina
(Koran, 2005) e la venlafaxina (Effexor) (Phelps et Cates., 2005) come altrettanto efficaci
nel trattamento del Disturbo Ossessivo-Compulsivo, ma ulteriori studi sono necessari.

Escitalopram
Per valutare l’efficacia e la tollerabilità dell’escitalopram nella prevenzione della ricaduta
in pazienti con DOC, 468 soggetti furono trattati in uno studio aperto con escitalopram (10
mg/d o 20 mg/d) per 16 settimane. I 320 responders (74%), coloro cioè che avevano
mostrato un incremento al punteggio Y-BOCS del 25%, senza evidenziare differenze tra
sesso, età, anni del disturbo, trattamenti precedenti o dosi, furono in modo randomizzato
assegnati ad un gruppo placebo e a un gruppo con escitalopram, per un periodo di
trattamento in doppio-cieco della durata di 24 settimane. La proporzione dei pazienti che
ebbero una ricaduta fu in modo significativo statisticamente alta nel gruppo placebo (52%)
rispetto al gruppo sperimentale (23%). Il rischio di ricaduta era quindi 2.74 volte più
elevato per il placebo se comparato con l’escitalopram. Questo farmaco si dimostrò ben
tollerato e i miglioramenti dei sintomi ossessivi-compulsivi riportati lungo il periodo dello
studio aperto furono confermati durante il prolungamento nel trattamento doppio-cieco con
il farmaco. Questi risultati dimostrano che l’escitalopram è efficace nel trattamento a lungo
termine del Disturbo Ossessivo-Compulsivo e nella prevenzione della ricaduta per pazienti
con DOC che non presentano comorbidità con altri disturbi (Fineberg et al. 2007).

Citalopramina
L’efficacia della citalopramina (Celexa) nella cura del DOC è stata recentemente mostrata
in uno studio controllato con placebo in cui erano presenti 401 pazienti assegnati in modo
randomizzato a ricevere 20 mg/d, 40 mg/d, 60 mg/d di citalopramina o il placebo per 12
settimane (Montgomery et al., 2001). La differenza del farmaco rispetto al placebo è stato
di 3.6 punti nella Y-BOCS. Il più alto numero di coloro che hanno risposto (65%) definito
con un miglioramento del 25% del punteggio nella Y-BOCS, è stato osservato nel gruppo
che ha ricevuto 60mg/d di citalopramina, paragonata al 52% nel gruppo che ha ricevuto

45
40mg/d e al 57% nel gruppo che ha ricevuto 20mg/d. Con sorpresa, coloro che hanno
risposto al placebo è stato del 36.6% con una diminuzione media nel punteggio della Y-
BOCS di 5.6 punti. Questo alto miglioramento con il placebo, non comune nel Disturbo
Ossessivo-Compulsivo, è stato spiegato come il risultato della presenza di casi atipici più
leggeri in cui una spontanea remissione è più frequente. I pazienti da lungo tempo affetti da
DOC, con sintomi più gravi o che hanno utilizzato in precedenza SRI avranno meno
probabilmente una risposta alla citalopramina, mentre pazienti che hanno ricevuto adeguati
dosaggi del farmaco per un periodo sufficiente di tempo avranno più probabilmente una
risposta (Stein et al., 2001). In un breve studio, il miglioramento clinico però non sembra
essere in relazione alle concentrazioni di citalopramina nel plasma (Bareggi et al., 2004).

Mirtazapina
L’azione farmacologica principale della mirtazapina è l’antagonismo sui recettori α2-
adrenergici; essa inoltre blocca tre tipi di recettori serotoninergici. Quando gli eterocettori
α2-presinaptici sono bloccati, aumenta il rilascio presinaptico della serotonina, la cui azione
si concentra su un tipo di recettore serotoninergico poiché gli altri sono bloccati dal
farmaco.
La mirtazapina venne testata come monoterapia per il Disturbo Ossessivo-Compulsivo in
uno studio condotto in aperto su un campione di 30 soggetti, trattati con mirtazapina a
partire da 30 mg/die fino a 60 mg/die per 12 settimane. Al termine dello studio 16 pazienti
(53,3%) erano considerati responders. Gli effetti collaterali più importanti osservati furono
sonnolenza, astenia e incremento ponderale. Una seconda fase dello studio sottopose i
soggetti responsivi a una randomizzazione in doppio cieco per ricevere placebo o
continuare la terapia con mirtazapina per altre 8 settimane. I pazienti che proseguirono la
terapia con mirtazapina ricaddero in percentuale minore rispetto a quelli trattati con placebo
(29% vs. 62%) tuttavia la differenza non risultò statisticamente significativa (Koran et al.,
2005).

3.3.3 Oppioidi

46
I risultati di alcuni studi suggeriscono che ci possa essere una sottopopolazione di pazienti
con Disturbo Ossessivo-Compulsivo la cui sintomatologia è modulata in parte dal sistema
oppioide. In uno studio in cui venne impiegato il naloxone (antagonista dei recettori per il
sistema oppioide) in doppio-cieco, controllato con placebo, 2 soggetti con DOC non
mostrarono alcun cambiamento significativo con placebo, riportando invece un
peggioramento dei sintomi quando ricevevano il naloxone (Insel et al., 1983). Uno studio
analogo confermò in parte l’osservazione che il naloxone è in grado di peggiorare i sintomi
ossessivo compulsivi in alcuni pazienti (Keuler et al., 1996).

Per quanto riguarda agenti farmacologici ad azione sul sistema oppioide utilizzati nel DOC
sono presenti in letteratura alcuni dati riguardo alla morfina (Koran et al., 2005) e
all’agonista oppioide tramadolo idroclorato (Goldsmith et al., 1999). In uno studio in
aperto, 7 pazienti con DOC resistente agli SSRI completarono un trattamento di 6 settimane
con dosi di tramadolo comprese tra i 200e i 400 mg/die. Il punteggio medio alla Y-BOCS
di tutto il campione subì un miglioramento significativo. Gli effetti collaterali più
frequentemente riportati sono stati anoressia, insonnia, prurito e sonnolenza (Shapira et
al.,1997).
Gli studi sull’efficacia dell’intervento da parte di oppioidi ha dato sì risultati incoraggianti
ma che necessitano di replicazioni in ampi studi controllati.

E’ stato ipotizzato che gli agonisti degli oppioidi facciano decrescere i sintomi ossessivi-
compulsivi attraverso l’inibizione del rilascio di glutammato nella corteccia cerebrale,
disinibizione dei neuroni serotoninergici nel rafe dorsale e incremento della trasmissione
dopaminergica nello striato (Koran et al.,2005). Il glutammato è emerso come un nuovo
elemento per il trattamento del Disturbo Ossessivo-Compulsivo; farmaci che attenuano la
trasmissione di glutammato, come il riluzole (Coric et al., 2005), la memantina (Pasquini et
al., 2006) e l’ N-acetylcysteine (Lafleur et al., 2006) hanno mostrato risultati interessanti.

3.3.4 Altri Principi Attivi

47
L’inositolo è un isomero del glucosio, che interviene in modo complesso nelle sinapsi, tra
cui quelle serotoninergiche. Un recente studio ha indagato l’efficacia dell’inositolo nel
trattamento del Disturbo Ossessivo-Compulsivo in un campione di 14 soggetti affetti da
DOC trattati per 12 settimane in aperto con 18 g/die di inositolo. Tra i pazienti, 8 su 14
(57%) sono stati considerati responsivi al trattamento. La riduzione della sintomatologia
ossessivo-compulsiva di tutto il campione misurata alla Y-BOCS è stata significativa
(Carey et al., 2004). L’inositolo sembrerebbe quindi un principio efficace contro una serie
di disturbi psichiatrici normalmente responsivi agli SSRI quali, oltre la depressione, e il
disturbo di panico, anche il disturbo ossessivo-compulsivo, sebbene ulteriori studi siano
necessari. L’inositolo non è però disponibile come farmaco prescrivibile (Maina et al.,
2007).

Benzodiazepine: alprazolam, clonazepam


Le benzodiazepine sono farmaci che si legano a una componente del recettore per l’acido γ-
amino-butirrico (GABA) di tipo A situato sulle membrane di neuroni del sistema nervoso
centrale. Modulano quindi la funzione recettoriale facilitando l’azione del GABA. Esistono
in letteratura alcuni case report riguardo all’impiego dell’alprazolam nel Disturbo
Ossessivo-Compulsivo, ma i dati sono ancora insufficienti per suggerirne un uso regolare
nel trattamento del DOC (Tollefson et al., 1985).
Maggiori dati sono disponibili per il clonazepam, una 7-nitro-benzodiazepina dotata di
alcuni effetti anche sul sistema serotoninergico. Sebbene ci sia buona parte della letteratura
a supportare l’uso della clonazepamina come monoterapia per il trattamento del DOC
(Hewlett et al., 1992), le ricerche a favore non sono ancora consistenti e concordanti.
Hollander et al. impostarono uno studio randomizzato, in doppio cieco, controllato con
placebo su un campione di 27 pazienti affetti da DOC. Non si rilevò una significativa
differenza tra i due gruppi nella diminuzione dei sintomi. Due pazienti trattati con placebo
risultarono responder, solo uno tra quelli trattati con clonazepam rispose alla terapia
(Hollander et al., 2003).

48
Bisogna ricordare comunque che le benzodiazepine (Tavor, Xanax, Lexotan), anche se
danno una momentanea attenuazione dell’ansia soddisfacendo l’esigenza primaria di chi
soffre di disturbi ossessivo-compulsivi, sono raramente utilizzati nel trattamento di tale
disturbo, perché, oltre a dare dipendenza e assuefazione (con conseguente necessità di
aumentare costantemente il dosaggio per avere un’efficacia significativa), impediscono la
comparsa dell’ansia durante l’esposizione a stimoli ansiogeni e non consentono il processo
di estinzione del condizionamento.

3.4 I pazienti non-responders


In letteratura, i pazienti non-responder alla farmacoterapia vengono distinti in parzialmente
rispondenti o resistenti, e refrattari. Viene considerato DOC resistente al trattamento
farmacologico un disturbo che non presenta un miglioramento apprezzabile dopo un trial
con un trattamento di prima scelta adeguato. Il DOC refrattario viene definito invece come
un disturbo che non risponde dopo tre tentativi con farmaci anti-ossessivi, di cui uno con
clomipramina.
È necessario distinguere la resistenza alla farmacoterapia dalla pseudofarmacoresistenza.
Quest’ultima rappresenta il caso di un paziente non responsivo ad un trattamento non
adeguato. Le possibili cause della pseudofarmacoresistenza possono essere una diagnosi di
Disturbo Ossessivo-Compulsivo non corretta, un’ inadeguatezza del trattamento (non
corretta scelta del farmaco utilizzato o all’insufficienza del dosaggio o della durata del
trattamento) o la scarsa compliance del paziente alla terapia.
Il riconoscimento della pseudofarmacoresistenza è indispensabile per una giusta
valutazione della risposta del paziente al trattamento di prima scelta e, di conseguenza, per
una corretta applicazione di strategie terapeutiche alternative.
Ci sono molte diverse linee di intervento per i pazienti con Disturbo Ossessivo-
Compulsivo, parzialmente rispondenti o refrattari (Fineberg et al., 2005).

49
3.4.1 I posibili trattamenti per i pazienti partial responders
Per coloro che rispondono in maniera parziale ai primi
trattamenti solitamente viene preso in considerazione l’aumento
del dosaggio o l’aggiunta di un antipsicotico, quali il risperidone
(Risperdal, Belivon) (Hollander et al., 2003) e l’olanzapina
(Zyprexa) (Shapira et al.,2004) o la quetiapina (Seroquel). Questi
ultimi in associazione con clomipramina ed SSRI, vengono
utilizzati più frequentemente nelle persone affette da Disturbo
Ossessivo-Compulsivo che hanno scarsa consapevolezza della
malattia o che soffrono anche di un disturbo da tic. La
valutazione della presenza di eventuali comorbidità quindi
potrebbe orientare il clinico nella scelta. L’Haloperidol è un
efficace antipsicotico da aggiungere quando il DOC è in
comorbidità con tic e disturbi schizotipici (McDougle et al.,
1994).
La clonazepamina è solitamente utilizzato, invece, per pazienti
con alti livelli di agitazione, ansia e insomnia, o che presentano
comorbidità con disturbo da panico (Koran et al., 1999).

Non ci sono convincenti evidenze che mostrino l’efficacia di altri farmaci comunemente
combinati con gli SRIs, come il litio,il buspirone e la desipramina (Fineberg et al.,2005).

3.4.2 I possibili trattamenti per i pazienti resistenti


Per quanti invece non rispondono, dopo due o tre trattamenti con SRI differenti, possono
provare un trattamento a base di inibitori della ricaptazione della serotonin-noradrenalina
(SNRIs), la clomipramina somministrata per via endovenosa, che ha dimostrato di essere
una terapia efficace per quanti non rispondono al trattamento per via orale (Fallon et
al.,1998), o anche altissimi dosaggi di sertralina (250-400mg/d) (Ninan et al.,2006). Può
essere utilizzato infatti l’uso in combinazione di clomipramina e di un farmaco SSRI

50
(Simeon et al.,1990. Figueroa et al.,1998) o l’aggiunta di riluzole, un farmaco
antiglutaminergico (Coric et al., 2005).

Molte strategie terapeutiche sono state sperimentate per i disturbi ossessivo-compulsivi


refrattari: queste includono gli inibitori delle mono-amino-ossidasi (IMAO), il trazodone, il
pindolol, la fenfluramina e il triptofano. Anche gli antiepilettici come la valproatina, la
carbamazepina, la lamotrigina e la gabepentina sono stati sperimentati, ma tutti questi sono
stati valutati largamente inefficaci (Pallanti et al., 2006).
Altri farmaci che sono stati sperimentati quali la nicotina (Pasquini et al., 2005), la
psilocybina (Moreno et al.,1997) e gli acidi grassi omega-3 (Fux et al., 2004) non hanno
trovato però supporti nella pratica clinica.

Serotonin-Norepinephrine Reuptake Inhibitors (SNRI)


Ci sono prime evidenze sull’efficacia degli SNRI in pazienti con Disturbo Ossessivo-
Compulsivo resistenti al trattamento (Dell’Osso et al., 2006). Gli SNRI sono una classe di
antidepressivi che combinano le proprietà degli inibitori della ricaptazione serotoninergica
(SRI) che quella degli inibitori della ricaptazione della noradrenalina. Una prova a favore
dell’efficacia degli SNRI nel trattamento del DOC può arrivare dall’osservazione del fatto
che la Clompramia, triciclico antidepressivo che possiede importanti proprietà
antiossessive, è un inibitore anche della noradrenalina oltre che della serotonina (Dell’Osso
et al., 2006). Gli SNRI, comunque, differiscono dai triciclici poiché hanno effetti più forti
sulla serotonina (Roseboom and Kalin, 2000) e non bloccano i recettori α -adrenergici,
colinergici e istaminergici, con una conseguente migliore tollerabilità.

Venlafaxina
Nel 2003 Denys et al. condussero uno studio di confronto randomizzato in doppio cieco
della venlafaxina con la paroxetina, su un campione totale di 150 pazienti. Sia nei pazienti
trattati con venlafaxina (300 mg/die) sia in quelli trattati con paroxetina (60 mg/die) si
assistette a una diminuzione del punteggio alla Y-BOCS di circa il 40% dalla condizione
iniziale. Non vi erano differenze significative tra i due gruppi neppure per quanto

51
riguardava la proporzione di pazienti responsivi al trattamento: nel gruppo della
venlafaxina 28 pazienti (37%) erano parzialmente responsivi, 18 pazienti (24%) erano
responsivi al farmaco; nel gruppo della paroxetina 33 pazienti (44%) erano parzialmente
responsivi, 17 pazienti (22%) erano responsivi al farmaco 35. In un secondo studio
condotto dagli stessi autori sullo stesso campione 36, dopo un periodo di washout
farmacologico, 16 pazienti resistenti alla paroxetina vennero trattati con venlafaxina e a 27
pazienti resistenti alla venlafaxina fu somministrata la paroxetina. Al termine dello studio,
la percentuale dei pazienti responsivi al trattamento fu del 56% per la paroxetina e del 19%
per la venlafaxina. Tali dati suggerirebbero una minore efficacia della venlafaxina nel
trattamento di pazienti con DOC non responsivi agli SSRI.
Nello stesso anno, Marazziti, ha riportato una serie di cinque casi di pazienti con Disturbo
Ossessivo-Compulsivo, precedentemente resistenti a trattamenti con SSRI, che mostrarono
un miglioramento dei sintomi con dosaggi di venlafaxina di 150-225 mg/die. Tutti i
pazienti mantennero una risposta clinicamente significativa per l’anno successivo senza
riportare importanti effetti collaterali.
Hollander e colleghi (2003), hanno riportato i risultati di uno studio aperto nel quale
trattarono 39 pazienti con DOC, inclusi 29 dei quali si erano mostrati resistenti a precedenti
trattamenti con SRI, per un periodo di 18 mesi con dosi di venlafaxina superiori a
450mg/die. Alla fine dello studio, il 69% di coloro che completarono il programma rispose
positivamente al trattamento. Da notare che quasi l’82% di coloro che in precedenza non
aveva ricevuto benefici da trattamenti con uno o più SRI divennero responders alla
venlafaxina. Tale studio fu interessante perché fu condotto per un periodo lungo di tempo e
utilizzando dosaggi molto elevati, nonostante i quali la venlafaxina mostrava un’ottima
tollerabilità.
Attualmente la venlafaxina è l’unico SNRI non triciclico che è stato sperimentato in
pazienti con Disturbo Ossessivo-Compulsivo (Dell’Osso et al., 2006; Denys et al., 2003).
La maggior parte degli studi con venlafaxina, sebbene condotti per lo più senza un gruppo
placebo di controllo, suggeriscono l’efficacia di questo composto sia nei pazienti
parzialmente rispondenti sia nei pazienti non rispondenti (Dell’Osso et al., 2006).

52
Duloxetina
La Duloxetina, un bilanciato e selettivo SNRI, è stato recentemente approvato per il
trattamento della depressione da parte della FDA. Dell’Osso e colleghi, in un articolo del
2008 hanno osservato gli effetti di questo composto nel trattamento del disturbo ossessivo-
compulsivo.
E’ stata testata infatti l’efficacia della duloxetina al dosaggio di 120 mg/d per 12 settimane
su quattro pazienti parzialmente o non rispondenti a precedenti trattamenti con SRIs. Alla
fine del trattamento, tre dei quattro pazienti hanno mostrato un significativo miglioramento,
con la riduzione dei sintomi del 35% al punteggio Y-BOCS.
Potrebbe essere ipotizzato, dunque, che la duloxetina possa essere di aiuto ai pazienti con
Disturbo Ossessivo-Compulsivo non responsivi, sebbene ampi e controllati studi siano
necessari per confermare questa osservazione preliminare.

3.4.3 No-Drug Options


Per i casi più refrattari o farmacologicamente intrattabili, è da valutare l’utilizzo delle
tecniche di stimolazione del cervello. Queste sono principalmente rappresentate dalla
stimolazione magnetica trans-cranica transcranial magnetic stimulation (TMS) e dalla
stimolazione profonda del cervello deep brain
stimulation (DBS). La TMS è una tecnica non invasiva che consiste nella stimolazione
elettrica di un’area specifica del cervello attraverso l’induzione di campi magnetici. Di
solito, le sessioni di TMS durano approssimativamente 30 minuti e vengono ripetute 5 volte
a settimana per 2 o 3 settimane. La DBS potrebbe essere considerata come meno invasiva,
reversibile e come una procedura neurochirurgica modificabile. Essa consiste nell’impianto
di 2/4 elettrodi, generalmente nei limbi anteriori della capsula interna, connessi attraverso
conduttori subcutanei a un generatore di impulsi collocato nella parte anteriore della scatola
cranica (Bernabid et al.,1991). Ad alte intensità, la DBS inibisce la trasmissione
neurale,imitando l’effetto dell’ablazione di tessuti e quindi interruzione dei circuiti
iperattivati coinvolti nella patogenesi del disturbo ossessivo-compulsivo.
Per quanto riguarda la terapia con elettrocovulsioni (ECT) la sua efficacia clinica non è
ancora stata comprovata. Studi pubblicati, per lo più una serie di casi singoli, hanno

53
mostrato risultati contrastanti (Dell’Osso et al., 2005) e potrebbe essere che l ECT migliori i
sintomi ossessivo-compulsivo trattando piuttosto le condizioni in comorbidità con essi,
come ad esempio schizofrenia, depressione, sindrome di Tourette, piuttosto che curare
direttamente il DOC. In aggiunta alle tecniche di stimolazione del cervello, tradizionali
interventi chirurgici, come la capsulotomia la cingolotomia, hanno mostrato risultati
positivi in pazienti con Disturbi Ossessivo-Compulsivi gravi e refrattari.

Sempre più numerosi studi evidenziano che la combinazione della farmacoterapia e della
psicoterapia cognitivo-comportamentale si mostri essere più vantaggiosa rispetto a
entrambe se considerate in modo singolo (Tenneij et al. 2005; Tundo et al. 2007).

54
CAPITOLO QUARTO
APPROCCIO INTEGRATO AL TRATTAMENTO DEL
DISTURBO OSSESSIVO-COMPULSIVO

La terapia cognitivo-comportamentale e la psicofarmacologia hanno avuto un notevole


ampliamento e sviluppo negli ultimi quarant’anni. Si è trattato di un progresso non facile
ma molto produttivo che ha portato ad aumentare notevolmente le nostre conoscenze sui
meccanismi fondamentali riguardanti le strategie e le tecniche efficaci per favorire la
modificazione del comportamento e dell’attività cognitiva dell’essere umano.

4.1 Vantaggi e i limiti del trattamento Cognitivo-Comportamentale

55
Diverse sono le evidenze che hanno appoggiato l’efficacia dell’approccio cognitivo-
comportamentale nella cura del Disturbo Ossessivo-Compulsivo. Kozak e colleghi (2000)
hanno valutato che circa il 70% dei pazienti che soffrono di Disturbo Ossessivo-
Compulsivo rispondono positivamente al trattamento, con una riduzione dei sintomi del
25% sulla scala Y-BOCS.
Anche Foa e colleghi (2005) hanno osservato che lo stesso risultato era stato raggiunto da
una percentuale che va dal 62 al 68% dei pazienti, di età compresa tra i 18 e i 70 anni, che
soddisfavano i criteri del DSM-IV-TR per il disturbo ossessivo-compulsivo, e con casi di
comorbidità con altri disturbi, dopo 12 settimane di trattamento con esposizione e
prevenzione della risposta.
Yamanishi e colleghi (2009) inoltre hanno valutato che dopo un trattamento di terapia
cognitiva di 12 settimane su un campione di 45 pazienti giapponesi con DOC, i soggetti
che avevano risposto positivamente alla terapia presentavano un minor flusso sanguigno
nella corteccia prefrontale mediale sinistra e nel giro frontale mediale bilaterale, aree
preposte ai processo di decision making, solitamente iper-attivate nei soggetti con Disturbo
Ossessivo-Compulsivo.
Per quanto riguarda i possibili limiti della psicoterapia cognitivo-comportamentale,
indipendentemente da considerazioni relative alla possibile indisponibilità in zona di
terapeuti competenti, al costo o alla durata, si presenta innanzitutto il problema del
consenso e dell’adesione del paziente al trattamento. Negli studi clinici, numerosi pazienti
assegnati alla psicoterapia cognitivo-comportamentale non completano lo studio: fino al
25% dei pazienti non è disponibile a intraprendere il trattamento (Greist et al.,1994) , e,
inoltre, il 13- 17% dei pazienti lo interrompe prematuramente (Abramowitz et al, 1997;
Kobak et al., 1998), soprattutto nelle prime fasi di esposizione. Un altro limite è che gli
studi clinici mostrano che un numero non trascurabile dei pazienti che si sottopongono al
trattamento, compreso tra il 10 e il 30%, non risponde o risponde in misura insufficiente
(Kozak et al., 2000), mentre in altri casi la risposta è solo parziale.
Inoltre, anche se le tecniche cognitive hanno esteso il campo di applicazione della
psicoterapia anche ai casi di Disturbo Ossessivo-Compulsivo con prevalente o esclusiva
componente ideativa, alcuni pazienti presentano una grave depressione secondaria o

56
un’ansia estremamente marcata, e in questi casi può risultare difficile effettuare un
trattamento esclusivamente psicologico: la psicoterapia comportamentale può essere meno
efficace in presenza di un disturbo depressivo (Buchanan et al, 1996), mentre un’ansia
troppo intensa può rendere difficile l’esposizione e aumentare il rischio di un’interruzione o
abbandono del trattamento.
In riferimento invece al mantenimento dell’efficacia nel tempo, la psicoterapia può vantare
una superiore tenuta nel tempo dei benefici ottenuti rispetto al trattamento farmacologico,
come evidenziato da vari follow-up prolungatisi per periodi da uno a sei anni (Cottraux et
al, 2001; van Oppen et al, 2005).

4.2 Vantaggi e limiti del trattamento farmacologico


L’efficacia del trattamento farmacologico è attualmente ben documentata. Denys e colleghi
(2006) hanno realizzato una completa ed interessante review in cui hanno valutato
l’efficacia di diversi inibitori della ricaptazione serotoninergica (SSRI) e della
clompramina, in studi randomizzati e controllati con placebo. La clomipramina viene
considerata ad oggi il miglior farmaco per il trattamento del Disturbo Ossessivo
Compulsivo (Dell’Osso et al, 2006), sebbene abbia poca tollerabilità. E’ proprio per gli
importanti effetti indesiderati di questo triciclico che spesso la scelta della cura per questo
tipo di disturbo ricade sugli SSRI che presentano una miglior tollerabilità. Studi effettuati
su larga scala, randomizzati e controllati con placebo hanno mostrato la grande efficacia di
questa famiglia di farmaci (Zohar et al, 2000). Per i pazienti che non rispondono
inizialmente ad un primo trial farmacologico, possono provare l’uno o l’altro farmaco, o la
loro combinazione (Fineberg et al., 2005). Recentemente inoltre anche l’utilizzo di diversi
principi attivi, come ad esempio oppioidi (Koran et al., 2005) e l’ isitolo (Carey et al.,
2004) si sono dimostrati efficaci.
Per quanto riguarda i problemi che si pongono in riferimento al trattamento farmacologico
sono innanzitutto il consenso e l’adesione del paziente. Fino al 20% dei pazienti è riluttante
a prendere farmaci (Rasmussen et al, 1993), e, inoltre, negli studi clinici il 20-25% dei
pazienti interrompe il trattamento farmacologico cui è stato assegnato, nel 10% dei casi per
gli effetti indesiderati, soprattutto sul lungo termine (Kobak et al, 1998).

57
Approssimativamente è il 50-60% dei pazienti con DOC a rispondere ai farmaci, e anche
coloro che possono essere considerati “responders”, possono raggiungere una riduzione dei
sintomi che si aggira intorno al 40%, ma nella realtà possono continuare a presentare
sintomi clinicamente significativi che possono disturbare il funzionamento e la qualità della
loro vita (Bystritsky et al, 1999; Koran et al., 2000). E’ poco frequente ottenere una
remissione completa.
Un altro aspetto delicato è costituito dal mantenimento dell’efficacia nel tempo. Se è vero
che il trattamento farmacologico è efficace nella prevenzione delle ricadute fino a quando
viene mantenuto (Greist et al 1998), numerosi studi hanno tuttavia messo in risalto elevate
percentuali di ricadute nei mesi seguenti alla sospensione, dal 32% all’89%, anche dopo un
trattamento prolungato e una riduzione graduale del dosaggio (Koran et al 2002). Gli studi
epidemiologici suggeriscono comunque che una parte di queste ricadute rientri nel tipico
decorso del disturbo (Eisen et al, 1999).
L’assunzione a tempo indeterminato di farmaci ad azione serotoninergica, può in alcuni
casi rappresentare l’unica soluzione per fronteggiare la sofferenza elevata che il disturbo
comporta. Essa tuttavia non sembra essere una soluzione ottimale, sia in termini di costi, sia
in termini di possibili effetti sull’organismo, che in caso di assunzione a lunghissimo
termine è difficile escludere completamente, allo stato attuale delle conoscenze. Anche la
strategia alternativa di sospendere periodicamente per breve tempo il trattamento
farmacologico potrebbe presentare dei rischi: infatti, in un ampio gruppo di pazienti nei
quali si era verificata una ricaduta dopo la sospensione del trattamento farmacologico, è
stata in seguito notata una minore efficacia del medesimo trattamento (Maina et al, 2001).

4.3 Integrazione tra approccio psicologico e biologico


La maggior parte dei clinici e dei ricercatori si trovano d’accordo sul fatto che sia fattori
psicologici che quelli biologici giochino ruoli rilevanti nel Disturbo Ossessivo-Compulsivo,
ma spesso lavorano basandosi su una spiegazione o esclusivamente psicologica o
esclusivamente biologica del disturbo, mentre una visione integrativa sarebbe non solo
probabilmente più adeguata, ma anche maggiormente utile (Foster e Eisler, 2001). Sarebbe
ideale evitare che il paziente con DOC riceva definizioni rigide e contrastanti sulle cause

58
del proprio disturbo e sui meccanismi di azione dei trattamenti, per evitare che venga a
crearsi l’idea secondo cui la psicoterapia e il trattamento psicofarmacologico vengano a
competere tra loro anziché agire sinergicamente. Soltanto tramite il riferimento a una teoria
unitaria è possibile cercare di fare in modo che i risultati del trattamento non siano
semplicemente visti come la somma dei singoli interventi andando piuttosto a sottolineare
la loro integrazione. E’ per questo motivo che nella pratica clinica si preferisce l’utilizzo
del termine “trattamento integrato” ad altre denominazioni, come “trattamento associato” o
“trattamento combinato”.
Per una valida integrazione fra trattamento farmacologico e psicoterapia dunque è
indispensabile il superamento dell’idea che esista una rigida dicotomia tra mente e corpo e
che i due trattamenti vengano sempre più considerati come sinergici piuttosto che in
competizione. E’ sempre più evidente come eventi, ricordi e significati con alto valore
emozionale possano avere un substrato biologico a livello cerebrale (Biondi, 1995).
D’altronde, varie linee di ricerca stanno mostrando sempre più chiaramente che i fattori
emozionali hanno effetti sulla regolazione della crescita dei circuiti cerebrali, e che
l’organizzazione del sistema nervoso centrale viene fortemente influenzata dall’esperienza
e dalle relazioni interpersonali (Siegel, 1999).
Per quanto riguarda in particolare il Disturbo Ossessivo-Compulsivo, appaiono
estremamente suggestivi i risultati di alcuni studi di neuroradiologia funzionale, i quali
hanno mostrato in pazienti trattati con terapia cognitivo-comportamentale una riduzione del
metabolismo del glucosio nel nucleo caudato e una diminuzione della forte correlazione
rilevata prima del trattamento tra il metabolismo del nucleo caudato destro e quello della
corteccia orbitaria, del giro del cingolo e del talamo ipsilaterale, similmente a come
osservato nei pazienti trattati con fluoxetina (Schwartz et al, 1996). In un altro studio, in
pazienti che avevano risposto alla psicoterapia cognitivo-comportamentale sono state
riscontrate modificazioni del metabolismo del triptofano a livello della corteccia prefrontale
dorsolaterale che suggeriscono un incremento della sintesi locale di serotonina, similmente
a quanto osservato in pazienti che avevano risposto al trattamento con sertralina (Benkelfat
et al, 2001). In uno studio più recente Yamanishi e colleghi (2009) hanno inoltre valutato
che dopo un trattamento di terapia cognitiva i soggetti che avevano risposto positivamente

59
alla terapia presentavano un minor flusso sanguigno nella corteccia prefrontale mediale
sinistra e nel giro frontale mediale bilaterale, che solitamente si presenta iperattivata nei
soggetti che soffrono di Disturbo Ossessivo-Compulsivo.
Va rimarcato dunque che il dominio dello psichico e il dominio del biologico, che possono
a un primo esame superficiale apparire come separati, siano in realtà soltanto livelli
differenti di analisi degli stessi fenomeni, che si pongono in un rapporto reciproco di
complementarità piuttosto che di contrapposizione. Le scienze naturali e le scienze umane
utilizzano differenti metodologie di indagine e differenti criteri esplicativi, che però non si
escludono vicendevolmente (Arciero, 2002).

4.4 Trattamento Integrato


Che il trattamento del Disturbo Ossessivo-Compulsivo sia difficile è suggerito dalla
frequente osservazione di pazienti che ricevono un trattamento farmacologico a termine
lungo o indefinito, o che restano in psicoterapia altrettanto indefinitamente, in entrambi i
casi con costi elevati ed esiti non sempre brillanti. Poiché i punti deboli e i punti di forza
del trattamento farmacologico e della psicoterapia sono in parte diversi, una nuova strategia
che viene in considerazione è quella di valutare se la loro associazione possa migliorare
l’efficacia del trattamento.
Nella pratica clinica, una simile associazione non è sempre vista di buon occhio. Alcuni
psichiatri tendono a sottovalutare l’efficacia della psicoterapia rispetto ai trattamenti
biologici, a dispetto delle ampie evidenze dell’efficacia dei trattamenti psicoterapeutici.
Alcuni psicoterapeuti, anche se medici, sono riluttanti a prescrivere farmaci, ad inviare un
paziente a un collega per un intervento farmacologico, o persino ad accettare in terapia un
paziente che stia assumendo farmaci. L’intervento psicofarmacologico è spesso stato
accusato, partendo da considerazioni superficiali, di essere caratterizzato puramente da un
effetto biochimico, quasi meccanico, ma è ben chiaro che non abbiamo farmaci miracolosi.
Esistono sicuramente farmaci che aiutano a ridurre l’ansia e la depressione o che
permettono di portare sotto controllo il delirio e le ossessività, ma è ovviamente assurdo
pensare che con essi possano cambiare preconcetti irrazionali e pensieri così radicati da
diventare automatici, modificabili invece unicamente con tecniche terapeutiche cognitivo-

60
comportamentali. Comunque, anche se a lungo contestata in vari ambiti, da qualche tempo
l’associazione di trattamento farmacologico e psicoterapia riceve crescente attenzione.
L’associazione dei due trattamenti potrebbe avere numerosi vantaggi: estensione del
trattamento psicoterapeutico a quei pazienti che presentano un livello di depressione o di
ansia così alto da rendere difficile l’inizio della psicoterapia, conseguimento sia di un
alleviamento della sintomatologia sia di un miglioramento del funzionamento
interpersonale e sociale, riduzione delle ricadute dopo la sospensione del trattamento
farmacologico.
Dunque, la rapidità, la prevedibilità e la costanza dell’intervento psicofarmacologico
possono ovviare alla lentezza, alla difficoltà e all’impegno caratteristici dell’intervento
psicoterapico. Allo stesso modo quest’ultimo può aiutare il paziente a trovare la forza, la
capacità, la motivazione per intraprendere il trattamento farmacologico e soprattutto per
mantenerlo nel tempo. Il trattamento psicofarmacologico e la terapia cognitivo-
comportamentale possono quindi quasi essere considerati complementari: un tipo di
intervento giunge dove l’altro non può arrivare. (Rovetto, 1996)
Inoltre, la combinazione di trattamento farmacologico e psicoterapia potrebbe avere uno
“spettro di azione” più ampio e risultare efficace anche nei pazienti non rispondenti, o
rispondenti solo in parte, ai singoli tipi di trattamento.

4.4.1 Gli studi sull’approccio integrato


Non sempre concordanti si sono mostrati gli studi clinici controllati che avevano l’obiettivo
di valutare l’efficacia dell’associazione di psicoterapia e trattamento farmacologico rispetto
all’efficacia di uno solo dei trattamenti.

Marks e colleghi hanno comparato l’efficacia della clomipramina o del solo placebo,
somministrati per 7 settimane con la successiva aggiunta della terapia cognitivo-
comportamentale per 3 mesi. Sebbene si sia osservata una superiore efficacia del
trattamento integrato rispetto alle due monoterapie, questa superiorità si è mostrata
veramente minima. Risultati simili sono stati confermati da studi successivi (Marks et
al.1988) e riportati anche da parte di Cottraux e colleghi (1990), che hanno rilevato una

61
discreta superiorità del trattamento integrato rispetto alla monoterapia con fluvoxamina o
CBT. Hohagen e colleghi (1998) hanno mostrato una miglior efficacia dell’integrazione
della CBT con la fluvoxamina rispetto alla sola CBT, ma i risultati ottenuti da van Balkom
e colleghi (1998) contrastavano con ciò.
Infine, recentemente, Foa e colleghi (2005), in uno studio randomizzato, controllato con
placebo, sebbene i gruppi sperimentali si siano dimostrati tutti chiaramente superiori
rispetto al gruppo placebo, il gruppo trattato con l’approccio integrato non ha mostrato
risultati particolarmente
Tab. n. 4.1.
migliori rispetto agli altri gruppi (Tabella n. 4.1.). Gli stessi
risultati sono stati ottenuti da O’ Connor e colleghi (2006),
che hanno evidenziato come gli psicofarmaci, più che essere
direttamente coinvolti nel miglioramento del Disturbo
Ossessivo-Compulsivo, permettono piuttosto cambiamenti
positivi nel caso fosse presente depressione, permettendo
dunque una maggior compliance dei pazienti.
4.4.2 Il raggiungimento della remissione con il trattamento
integrato
Sono pochi gli studi che si sono invece focalizzati sui pazienti con DOC che hanno
raggiunto la “remissione”, una condizione che è stata definita da Frank e colleghi (Frank et
al., 1991) secondo cui il paziente per lungo tempo non soddisfa i criteri per il disturbo e al
massimo presenta solo sintomi minimi (indicati con un punteggio sulla scala Y-BOCS
inferiore o uguale a 12).

E’ tenendo in considerazione il raggiungimento della remissione che è nato lo studio di


Tenneij e colleghi (2005). I pazienti partecipanti a questo studio hanno ricevuto la terapia
integrata dopo aver risposto ad una cura farmacologica e hanno mostrato significativi
miglioramenti nel punteggio Y-BOCS rispetto a coloro che hanno continuato il trattamento
con i soli farmaci. L’efficacia della terapia integrata è chiaramente dimostrata dalla
percentuale di pazienti in remissione: 11% per chi ha seguito il solo il trattamento
farmacologico contro il 53% del gruppo della terapia integrata. Ciò è clinicamente

62
significativo in vista del fatto che la maggior parte dei pazienti trattati farmacologicamente
presentano sempre sintomi e una piccolissima parte può considerarsi in remissione.
I dati mostrano anche l’importanza della tempistica nell’applicazione della Terapia
Cognitivo-Comportamentale. Quando la CBT è stata aggiunta 3 mesi dopo gli effetti della
farmacoterapia si è ottenuta un’efficacia maggiore rispetto a quando è stata aggiunta 9 mesi
dopo. I migliori risultati quindi sono raggiungibili quando immediatamente dopo la risposta
ai farmaci, che solitamente si avvicina alla 12esima settimana di trattamento.
Questo studio ha così dimostrato che i pazienti con Disturbo Ossessivo-Compulsivo da
moderato a grave che hanno risposto positivamente al trattamento farmacologico
potrebbero ottenere ulteriori benefici aggiungendo la Terapia Cognitivo-Comportamentale.
La tempistica del combinare la CBT con i farmaci ha un ruolo limitato, ad ogni modo i
migliori risultati sono stati osservati se aggiunta subito dopo la risposta ai farmaci, che
solitamente si aggira intorno ai 3 mesi.
A tale conclusione sono giunti anche Picardi e Biondi (2004). Il loro studio sul trattamento
sequenziale integrato, sebbene presentasse un molto ristretto numero di soggetti, ha
mostrato che 10 sui 13 pazienti osservati hanno raggiunto una remissione della
sintomatologia mantenutasi per un periodo da 1 a 12 anni dopo il trattamento.

Uno studio con follow up, per verificare l’efficacia del trattamento integrato nel tempo è
stato effettuato anche da Rufer e colleghi (2004). Rappresenta una ricerca su 30 pazienti
che presentavano un Disturbo Ossessivo-Compulsivo da subclinico a grave, rivalutati dopo
6-8 anni dopo la fine del trattamento con CBT integrata con fluvoxamina o placebo in un
disegno randomizzato. Coloro che avevano risposto positivamente al trattamento furono il
67% nel post-trattamento e i significativi miglioramenti dei sintomi ossessivi-compulsivi
raggiunti (con una riduzione del 41% sulla scala Y BOCS) sono rimasti stabili nel follow
up per il 45% dei pazienti responders. I sintomi depressivi diminuirono enormemente non
solo subito dopo il trattamento ma anche durante il follow up. La remissione completa dei
sintomi in follow up fu raggiunta da 8 pazienti (27%).
Una ricerca eseguita da van Oppen e colleghi (2005) però, oltre a non evidenziare grande
superiorità in efficacia della terapia integrata in uno studio con follow up di 5 anni,

63
evidenziò che il gruppo sperimentale a cui era stata somministrata fluvoxamina oltre alla
CBT continuò a utilizzare l’antidepressivo anche negli anni seguenti, a differenza degli altri
due gruppi che invece erano stati trattati con la sola esposizione e prevenzione della
risposta o la sola terapia cognitiva.
Resta comunque difficile poter considerare tutte le variabili che potrebbero essere
intervenute negli anni, dal momento della prova sperimentale al controllo follow up,
controllo in cui è difficile rintracciare la totalità dei pazienti che si erano prestati al
trattamento.
Ad oggi, dunque, restano contrastanti i risultati degli studi che mostrano l’immediata
superiorità dell’ efficacia del trattamento integrato nel breve termine; l’integrazione della
terapia cognitivo comportamentale e della farmacoterapia sembra piuttosto essere una
buona strategia sul lungo termine. Ad ogni modo, sebbene verifiche in follow up effettuate
molti anni dopo il trattamento integrato forniscano dati incoraggianti sulla sua efficacia nel
mantenimento dei risultati ottenuti e nel contrastare le ricadute, indubbiamente sono
necessari ulteriori studi controllati e campioni di soggetti più grandi al fine di poter trarre
conclusioni in qualche modo definitive.

4.4.3 Trattamento integrato per non-responders


Dati più univoci e positivi sembrano invece derivare dagli studi che hanno investigato la
validità di integrare il trattamento farmacologico con la Terapia Cognitivo-
Comportamentale per quei pazienti che non hanno risposto ad una precedente cura
farmacologica.
Simpson e colleghi (1999) hanno pubblicato uno studio aperto sul trattamento cognitivo
comportamentale, usando l’esposizione e prevenzione della risposta per sei pazienti che
non avevano risposto ad un adeguato trattamento con SRI. I risultati hanno mostrato che
l’aggiunta di 17 sessioni di ERP al trattamento farmacologico ha portato a una riduzione
significativa dei sintomi. Risultati simili sono stati raggiunti da Kampman (2002) in uno
studio aperto su 14 pazienti che non avevano risposto a 12 settimane di fluoxetina
(60mg/d). L’aggiunta di 12 sessioni di CBT al
trattamento farmacologico hanno mostrato una

64

Tab. n. 4.2.
consistente riduzione dei sintomi. Inoltre Tolin e colleghi (2004) hanno mostrato che 15
sessioni di esposizione e prevenzione della risposta hanno rappresentato un aiuto per 20
pazienti non-responders a diversi adeguati trattamenti con SRI (tab. n. 4.2.). Questi risultati
sono incoraggianti ma probabilmente non possono essere generalizzati a tutti i pazienti con
disturbo ossessivo-compulsivo non-responders che vengono trattati nella pratica clinica.
Infatti i tre studi sopra citati escludono pazienti che presentano comorbidità con l’asse I o
con uso/dipendenza da alcol e/o sostanze e solo lo studio di Tolin comprende pazienti con
DOC grave che non hanno risposto a diversi trattamenti farmacologici.
Lo studio di Tundo e colleghi (2007) si propone l’obiettivo di valutare l’efficacia
dell’integrazione della CBT e della farmacoterapia per pazienti ossessivo-compulsivi gravi,
farmacologicamente non rispondenti. Questo studio utilizza un campione composto da
ventiquattro pazienti con DOC, tra cui anche coloro che presentavano comorbidità con
disturbi d’ansia, dell’alimentazione, di depressione maggiore o disturbo bipolare. Tutti i
pazienti, che non hanno precedentemente risposto ad uno o più adeguati trattamenti
farmacologici, sono stati trattati per quattro anni e mezzo con un approccio terapeutico che
integra il trattamento farmacologico con l’ERP. Tutti i quattro studi dimostrano l’efficacia
della Terapia Cognitivo-Comportamentale in aggiunta alla cura farmacologica per i pazienti
non responder, sebbene i risultati dello studio di Tundo mostrano percentuali più basse
(42%) di coloro che rispondo positivamente al trattamento integrato, rispetto ai tre
precedenti studi (Simpson et al.86%; Kampman et al. 77%; Tolin et al. 66%), e una minor
riduzione dei sintomi misurati sulla scala Y-BOCS (19%) rispetto agli altri studi che
presentano un miglioramento dal 40% al 50%. I miglioramenti riscontrati, anche se
osservati in tempi più ampi, molto probabilmente a causa della gravità dei sintomi e di
comorbidità presenti, evidenziano quindi l’efficacia del trattamento integrato per pazienti
non-responders anche per queste tipologie di pazienti, comuni nella pratica clinica.

4.4 Procedura per il trattamento integrato


La psicoterapia può iniziare sia contemporaneamente al trattamento farmacologico, mentre
questo è in corso, o anche dopo che questo si è concluso. In quest’ultimo caso, si parla di

65
“terapia sequenziale”, un approccio che si sta diffondendo soprattutto grazie alle ricerche
condotte dal gruppo di Giovanni Fava (Fava, 1999).
Ad ogni modo, studi (O’Connor, 1999; Albert et al, 2003; Tenneij, 2005) suggeriscono che
in numerosi pazienti già stabilizzati in un regime di trattamento farmacologico
l’associazione di una psicoterapia possa condurre a ulteriori miglioramenti, sia a breve sia a
lungo termine.
Picardi e Biondi (2004) suggeriscono infatti che, per ottimizzare l’efficacia
dell’associazione di psicoterapia comportamentale e trattamento farmacologico, sarebbe
meglio non iniziare e concludere i due trattamenti insieme; la terapia farmacologica
andrebbe, poi, gradualmente sospesa prima che la psicoterapia si concluda, in modo tale da
far completare ai pazienti il trattamento senza l’ausilio del farmaco (Foster e Eisler, 2001).
D’altronde, già più di vent’anni fa Isaac Marks e i suoi collaboratori (Marks et al, 1980)
avevano raccolto dati compatibili con un possibile effetto di facilitazione dell’esposizione
da parte della clomipramina, e avevano suggerito che, poiché l’effetto del farmaco era
risultato massimo tra la decima e la diciottesima settimana, avrebbe potuto essere meglio
iniziare l’esposizione in quel periodo, anziché far coincidere l’inizio dell’esposizione con
l’inizio del trattamento farmacologico.

Pare dunque che per ottenere la miglior efficacia possibile per il trattamento integrato
sarebbe auspicabile procedere secondo le seguenti fasi:
fase 1: inizialmente, per un periodo di alcuni mesi, soltanto trattamento farmacologico, che
dovrebbe condurre a una riduzione della sintomatologia e a un miglioramento del quadro
clinico;
fase 2: se il caso lo permette, inizio della psicoterapia, con mantenimento del regime di
trattamento farmacologico raggiunto;
fase 3: riduzione graduale del dosaggio del farmaco fino alla sua sospensione, mentre
prosegue l’intervento psicoterapeutico;
fase 4: successivamente, soltanto psicoterapia per alcuni mesi.

66
Considerata la difficoltà del trattamento e della gestione clinica del Disturbo Ossessivo-
Compulsivo, è chiaro che questo schema non vada inteso in modo rigido, e che esigenze
cliniche potranno consigliare deviazioni da tale schema in ogni suo passaggio; esso
rappresenta semplicemente una traccia esemplificativa di come sia possibile integrare
fruttuosamente il trattamento farmacologico con la psicoterapia nei pazienti con Disturbo
Ossessivo-Compulsivo.
Il primo incontro con il paziente prevede una valutazione psichiatrica approfondita che
comprenda un’accurata anamnesi e un esame sistematico dello stato psichico, in modo da
confermare la diagnosi di DOC e identificare la presenza di eventuali altri disturbi, in
particolar modo di un disturbo depressivo. Può essere utile avvalersi di strumenti di
valutazione standardizzati, come la scala Y-BOCS, per disporre di una valutazione basale
rispetto alla quale valutare i progressi compiuti nel corso del trattamento. Il trattamento
integrato ha, dunque, inizio con la prescrizione di un farmaco efficace, il cui dosaggio
andrà incrementato gradualmente fino a raggiungere una dose giornaliera adeguata,
gestendo nel modo più consono gli effetti collaterali. Va rimarcato che, anche se il
trattamento integrato inizia con la prescrizione di un farmaco, è fondamentale che venga
assunto fin dall’inizio un atteggiamento psicoterapeutico. È buona norma presentare fin da
subito al paziente il trattamento farmacologico come un trattamento che agirà in sinergia
con un trattamento psicologico che potrà avere inizio successivamente. Questa continua e
attenta opera di informazione del paziente può essere preziosa per motivare al trattamento
psicoterapeutico anche le persone troppo rigidamente orientate verso una visione puramente
organica del proprio disturbo. È anche importante spiegare che l’azione del farmaco,
essendo relativamente rapida, può condurre in tempi ragionevolmente brevi a un
alleviamento dei sintomi, e facilitare così il successivo lavoro psicoterapeutico. In effetti,
almeno in alcuni casi, un iniziale trattamento farmacologico può favorire la compliance del
paziente ad esempio in quei casi in cui è presente ansia molto marcata, comorbidità con
depressione o altri disturbi, oppure scarsa motivazione iniziale alla psicoterapia (Biondi et
al. 1998). Un altro accorgimento importante è quello di fornire al paziente una chiara
definizione delle finalità dell’impiego del farmaco, dei suoi vantaggi e dei suoi limiti, allo
scopo di evitare che ogni eventuale miglioramento venga attribuito esclusivamente al

67
farmaco. Dopo un periodo di tempo variabile, compreso per lo più fra 3 e 6 mesi, quando
cioè il trattamento farmacologico dà i suoi effetti, viene introdotta nel trattamento la
psicoterapia.
Le tecniche cognitive della CBT si baseranno sulla necessità di contrastare i pensieri
negativi del paziente, per giungere alla modificazione dei processi di pensiero automatici e
disfunzionali; in particolare, si dovrà lavorare sull'eccessivo senso di responsabilità,
sull'eccessiva importanza attribuita ai pensieri, sulla sovrastima della possibilità di
controllare i propri pensieri e sulla sovrastima della pericolosità dell'ansia, che
costituiscono le principali distorsioni cognitive dei pazienti con Disturbo Ossessivo-
Compulsivo. Le tecniche comportamentali che invece verranno messe in atto saranno
soprattutto l’esposizione graduale e la prevenzione della risposta. Verranno cioè sollecitati
pensieri ossessivi grazie all’utilizzo di stimoli o situazioni soggettivamente ansiogene e
verrà proibito al paziente di mettere in atto i rituali compulsivi. Questo intervento
interrompe il rituale compulsivo e contemporaneamente previene il rinforzo derivante dalla
riduzione dell’ansia, dando anche al paziente la possibilità di constatare che tale ansia è
infondata, tollerabile e che decresce spontaneamente. Un recente studio (Simpson et al,
2008) infatti ha evidenziato come la ERP sia la miglior strategia terapeutica nel trattamento
dei DOC, rispetto ad altre tecniche cognitivo-comportamentali.
A mano a mano che la psicoterapia progredisce e il paziente viene coinvolto nel
trattamento, diviene possibile valutare l’opportunità di procedere a una progressiva
sospensione, lenta e molto graduale, del trattamento farmacologico, da attuare con prudenza
e nell’arco di un periodo di tempo non inferiore a 2-3 mesi. La sospensione dovrebbe
avvenire durante la fase di prevenzione della risposta, dopo che la fase di esposizione è
stata portata a termine con successo. Una volta che il trattamento farmacologico è stato
sospeso, la psicoterapia deve proseguire ancora per alcuni mesi, in modo che il paziente
possa consolidare e incrementare i miglioramenti conseguiti, e percepirli sempre più come
propri. Ciò è probabilmente importante per ridurre il rischio di ricaduta.
Una volta concluso il trattamento può essere comunque molto utile effettuare, almeno per
un certo periodo di tempo, delle valutazioni di follow-up, possibilmente di persona o

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quantomeno telefoniche, allo scopo di mantenere un sottile filo di legame terapeutico che
può rivelarsi di grande aiuto per il paziente.

CONCLUSIONI

In questo lavoro è stata esaminata la letteratura ad oggi disponibile sui possibili trattamenti
del Disturbo Ossessivo-Compulsivo. La terapia Cognitivo-Comportamentale sembra essere
una metodologia di trattamento ottima per questo tipo di disturbo: gli aspetti cognitivi della
terapia permettono un cambiamento negli schemi di pensiero e una percezione differente
delle paure dei soggetti che soffrono di DOC, con le loro ansie esagerate e irrazionali. Allo
stesso tempo l’approccio comportamentale, in particolare l’utilizzo della tecnica
dell’esposizione e prevenzione della risposta, insegna a questo tipo di soggetti a gestire,
appunto, l’ansia, e a comprendere che essa può diminuire da sola nel tempo, anche senza
mettere in atto compulsioni. Permette di verificare, inoltre, che nulla di terribile accade
anche senza la messa in atto dei rituali, andando così a inificiare quel circolo vizioso che si
crea attraverso il rinforzo negativo delle compulsioni che alleviano l’ansia. Sebbene la
terapia cognitivo comportamentale si sia dimostrata indubbiamente efficace sia
immediatamente dopo il trattamento, sia nel mantenimento della sua efficacia nel lungo

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tempo, presenta comunque alcuni limiti, soprattutto nel caso di scarsa compliance, molto
probabile nel caso l’ansia da gestire sia eccessiva o il paziente presenti comorbidità con
altri disturbi, quali ad esempio disturbi dell’umore.
Anche la farmacoterapia si è dimostrata un validissimo trattamento per il Disturbo
Ossessivo-Compulsivo. Gli psicofarmaci andrebbero per lo più ad aumentare la presenza di
serotonina e noradrenalina all’interno delle sinapsi cerebrali (clomipramina; SSRI),
neurotrasmettitore indubbiamente implicato in questo disturbo, anche se non sono ancora
chiarissimi tutti i meccanismi neurotrasmettitoriali e che ruolo abbiano nel DOC. Inoltre
ricerche recenti, grazie anche alle sempre più nuove tecnologie di neuro-immagini, si
stanno inoltre muovendo alla ricerca di altri principi attivi che abbiano una funzione anti-
ossessiva, tra i quali oppioidi e anti-glutaminergici.
Sono oggi tantissimi gli studi effettuati sui diversi farmaci e principi attivi analizzati nella
loro efficacia contro questo il Disturbo Ossessivo-Compulsivo. Sono veramente tanti i
farmaci disponibili e le loro combinazioni possibili; il paziente che non rispondesse ad un
primo trial farmacologico può testarne diversi al fine di trovare il farmaco migliore per sè,
ovviamente ricordando che è sempre necessario far passare diverse settimane dall’inizio del
trattamento affinché sia possibile osservare i primi miglioramenti. I limiti del trattamento
farmacologico, consistono però innanzitutto negli effetti collaterali dei farmaci, che nel
tempo possono anche essere poco tollerati e gravi, ma anche l’elevato pericolo che vi siano
ricadute dopo la sospensione del trattamento.
Negli ultimi anni, infine, l’attenzione degli esperti nella ricerca della miglior strategia
possibile per il trattamento di un disturbo grave e invalidante, quale il Disturbo Ossessivo-
Compulsivo, si sta rivolgendo all’integrazione della psicofarmacologia e della psicoterapia
cognitivo-comportamentale. Quest’integrazione permetterebbe di ovviare ai limiti dell’uno
e dell’altra tipologia di trattamento a cui abbiamo fatto accenno. Le prove empiriche ad
oggi disponibili sono però contrastanti e osservate su piccoli campioni di soggetti. Sebbene
non sia chiaramente comprovata una superiorità dell’efficacia del trattamento integrato nel
breve termine rispetto alle monoterapie, si sta attualmente indagando se esista una chiara
superiorità per quanto riguarda il mantenimento dell’efficacia nel tempo, evitando il rischio
di ricadute. Ad ogni modo, sicuramente l’integrazione della farmacoterapia e della

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psicoterapia ha benefici chiari per i pazienti che si sono mostrati parzialmente o per nulla
rispondenti a precedenti trials farmacologici, anche per quei soggetti che presentano
sintomi gravi o comorbidità con altri disturbi.
E’ ad ogni modo chiaro che ulteriori studi siano necessari al fine di trovare maggior
chiarezza e generalizzabilità dell’efficacia del trattamento integrato per la cura del Disturbo
Ossessivo-Compulsivo.

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