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Lezione N.

1 Sviluppo della psicologia della salute


La psicologia della salute ha radici lontane, sin dai tempi dell’antica Grecia, ma è solo negli ultimi
decenni che è stata maggiormente presa in considerazione.
Negli anni ‘70 si sono manifestati dei segnali di rinnovamento culturale sui temi della salute,
sottolineando la caratteristica di bene non solo individuale, ma collettivo.
Alcune date importanti da ricordare:
-1976 primo gruppo di lavoro all’interno dell’American Psycological Association (APA).
-1979 creazione della sezione 38 dell’APA: Health Psychology.
-1980 definizione di Matarazzo del nuovo ambito di studio che costituisce il punto di partenza di
qualsiasi presentazione della disciplina anche oltre i confini statunitensi: “La psicologia della salute
è l’insieme dei contributi specifici della disciplina psicologica alla promozione e al mantenimento
della salute, alla prevenzione e trattamento della malattia e all’identificazione dei correlati eziologici,
diagnostici della salute, della malattia e delle disfunzioni associate. Un ulteriore obiettivo consiste
nel miglioramento del sistema di cura della salute e nella elaborazione delle politiche della salute”.
-1987 congresso internazionale a Roma sul tema: “Il ruolo della psicologia della salute: riflessioni e
proposte a confronto tra realtà europee”.
-1988 istituzione di un corso di perfezionamento post – laurea di psicologia della salute
-1997 viene costituita la Società italiana di psicologia della salute, avente come finalità “la
promozione e lo sviluppo in Italia della ricerca empirica e teorica, e delle applicazioni, in psicologia
della salute, e lo scambio delle informazioni fra i suoi membri e quelli di altre associazioni nazionali
e internazionali.
-1998 la Società dà vita ad una rivista “Psicologia della Salute” che funge da punto di riferimento per
un aggiornamento su queste tematiche.
Secondo Maes, uno dei fondatori della Psicologia della Salute europea, tre sono i fattori rilevanti che
hanno favorito lo sviluppo della disciplina:
1. Cambiamento delle cause principali di mortalità: non più malattie infettive, ma croniche dovute a
comportamenti non sani.
2. Ci si è resi conto che la spesa sanitaria era troppo elevata pertanto era meglio prevenire che curare.
3. Sviluppo della psicologia che offre metodi di intervento efficaci che consentono l’applicazione di
nuove conoscenze all’ambito della salute.
L’auspicio di quanti si occupano di psicologia della salute è di privilegiare la pista della promozione
della salute, intesa come benessere complessivo della persona nel suo contesto socioecologico.

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Amerio ritiene che nell’ambito della psicologia della salute si registra una progressiva marcia in tre
direzioni:
1. autonomizzazione rispetto al modello medico tradizionale
2. allargamento dell’ottica dall’individuale al sociale
3. attenzione all’intersezione tra l’operare dello psicologo e le politiche del settore della prevenzione
e della salute.
Le aree più studiate sono quelle relative all’assessment, allo stress e al coping, alla valutazione degli
aspetti psicologici in medicina generale e in cardiologia, nonché quelle relative al ciclo di vita e quelle
legate ai comportamenti a rischio.
Ancora scarsi sono i contributi sui modelli di prevenzione e promozione della salute, e la qualità dei
servizi.

MODELLI TEORICI IN PSICOLOGIA DELLA SALUTE IL MODELLO


BIOPSICOSOCIALE

La psicologia della salute si propone di superare la concezione riduzionista del modello biomedico,
per la quale la malattia è intesa come una deviazione del sistema di variabili biologiche misurabili, in
cui esiste quindi una causa biologica primaria, oggettivamente identificabile, per ogni malattia,
espressione di dicotomia mente-corpo, si fa quindi poca prevenzione, si pensa più alla cura. Nel
modello biopsicosociale di Engels (1977) la diagnosi e il trattamento devono tenere in considerazione
aspetti biologici, psicologici, sociali, superare la dicotomia mente-cervello, sottolineando
l’interazione dinamica dei diversi fattori nell’insorgenza della patologia, é un sistema
multidisciplinare. Aspetti problematici: mancanza di una metodologia appropriata, mancanza di
chiarezza concettuale tra i diversi livelli. In questo modello gli aspetti sociali della salute indicano le
norme sociali del comportamento (non fumare), le pressioni che mirano a cambiare il comportamento
(famiglia), il valore sociale della salute, classe sociale, appartenenza etnica ecc. Per sociale si intende
uno scenario, che fa riferimento alla social cognition.

L'APPROCCIO DELLA SOCIAL COGNITION

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Il modello delle credenze sulla salute1
Detto anche healt belief model di Rosenstock, Becker, Maiman, è stato creato allo scopo di capire
perché le persone non si sottoponevano ad esami diagnostici, e se seguissero le raccomandazioni di
prevenzione. La probabilità che una persona adotti dei comportamenti sani è una valutazione del
grado della minaccia associato alla malattia, influenzata dalla percezione della vulnerabilità alla
malattia e sulle percezioni della gravità delle conseguenze. Quando la minaccia raggiunge un certo
livello, la possibilità di adottare uno specifico comportamento dipenderà comunque dai benefici
maggiori dei costi e degli ostacoli. Il modello comprende anche fattori demografici, sociopsicologici
che agiscono in quanto moderatori della percezione della malattia, e i fattori induttori di azione,
necessari per stimolare il comportamento, possono avere origine interna (scomparsa dei sintomi) ed
esterna (mass media). Nel modello integrato che ne risulta, si considera che le informazioni di
attribuzione influenza o le spiegazioni o le credenze relative alla salute, e queste modificano il
comportamento adottato dal soggetto. Punti deboli: ricerche trasversali ma non prospettiche, non
considera gli aspetti cognitivi, non fa differenze tra gli antecedenti cognitivi del comportamento.
La teoria della motivazione a proteggersi
Protection motivation theory di Rogers, per analizzare gli effetti dei messaggi di persuasione
sull’adozione di comportamenti di protezione. La motivazione a proteggersi, deriva dalla percezione
della gravità della minaccia, della vulnerabilità personale e dell’efficacia della risposta di coping nella
riduzione della minaccia; la versione modificata comprende anche l’influenza negativa dei costi della
risposta e dai benefici delle risposte non adattive. Da una parte abbiamo quindi la valutazione della
minaccia della malattia (differenza benefici potenziali e percezione gravità), dall’altra valutazione
della risposta di coping (differenza tra efficacia della risposta di coping, costi ed autoefficacia) è
proprio questo il punto di svolta il pensiero di essere in grado di applicare un certo comportamento,
esiste inoltre un’interazione tra la valutazione della minaccia della malattia e la valutazione della
risposta di coping. In entrambi i modelli la percezione del rischio e della vulnerabilità personale sono
credenze centrali nei comportamenti legati alla salute. Gli individui creano un’analisi individuale dei
rischi in base a costi e benefici, nozioni alla base delle campagne per la prevenzione. Biases: il
cosiddetto ottimismo irrealista, le persone credono di essere sempre meno soggette ai rischi rispetto
agli altri. Questa illusione di invulnerabilità deriva da percezioni di controllo, stereotipi cognitivi, o
meccanismi motivazionali. I modelli formali non tengono conto degli aspetti dinamici che possono
variare da un momento all’altro.

1
Zani, B., Cicognani, E., Psicologia della salute, ed. Il Mulino

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La teoria del comportamento pianificato
L’assunto di base della teoria è che le decisioni relative al comportamento da adottare si basano su
una valutazione ragionata delle informazioni disponibili, va introdotto il concetto di intenzione di
mettere in atto un comportamento, che a sua volta è risultato di atteggiamenti verso il comportamento
e delle norme soggettive. I primi sono influenzati dalle credenze delle persone rispetto alle
conseguenze del comportamento e dalla valutazione. Le norme invece raggruppano le credenze
riguardo a quello che le altre persone sia aspettano da lui, sono legate a motivazioni a comportarsi
secondo le aspettative altrui, questo modello è utile nei comportamenti come smettere di fumare,
donare il sangue, usare contraccettivi. Dalla teoria dell’azione ragionata a quella del comportamento
pianificato si include un nuovo elemento di percezione del controllo sul comportamento, credenze
del soggetto rispetto alle azioni da compiere, simile all’autoefficacia, tramite fattori esterni o interni.
Critiche: alto tasso di varianza spiegata nel suo insieme.

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Lezione N.2. -MODELLI PROCESSUALI DI CAMBIAMENTO DELLA CONDOTTA2
Tutte le teorie ora sviluppate non tengono conto né della dimensione temporale, né del processo
dell'azione da compiere. Sono perciò̀ modelli statici. Le teorie di stadi o processi creano un quadro
più dinamico del processo, le variabili che influenzano le transizioni non determinano
necessariamente la fase finale di esecuzione del comportamento.
Modello transteorico
Creato da Di Clemente e Prochaska, è un processo suddiviso in cinque fasi per mezzo del quale un
individuo decide di agire; la capacità di modificare il comportamento è determinata dallo stadio
raggiunto.
1. fase precontemplativa: i soggetti non sono consapevoli o interessati alle conseguenze del loro
comportamento a rischio, non vogliono cambiare.
2. fase contemplativa: considerano la possibilità di modificare il comportamento, ma senza azione
3. fase di preparazione: intenzione di agire su un futuro prossimo.
4. fase dell’azione: processi di liberazione e rivalutazione di sè, il soggetto si convince che è capace
di cambiare.
5. mantenimento: l’azione si prolunga abbastanza.
Il processo di cambiamento da una fase all’altra è facilitato da dieci processi di cambiamento, durante
cui crescono le credenze positive.
Approccio del processo di azione sulla salute
Basato anch’esso sul modello sociocognitivista, vuole determinare lo statuto causale delle credenze
sull’efficacia personale rispetto alle altre variabili relative alla salute, relazione tra intenzioni
comportamentali e azioni effettive. L’adozione, l’apparizione e il mantenimento dei comportamenti
salutari sono concettualizzati in un processo di 2 fasi: fase di motivazione (intenzione) e fase
volontaria (azione) questa si svolge a 3livelli: cognitivo (elaborazione di piani d’azione e controllo),
comportamentale (azione) e situazionale (ostacoli e risorse esterni). Il concetto di autoefficacia è
fondamentale non solo perché influenza la decisione, ma perché rappresenta l'inizio e la continuità
dell'azione. Il processo da compiere è identico: prevede il passaggio da una fase precontemplativa ad
una motivazionale, e infine ad una di azione e mantenimento.

2
Fischer, N.-G., Trattato di psicologia della salute, ed. Borla

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MODELLI INTEGRATI
A partire da queste critiche, alcuni autori hanno cercato di sviluppare altri processi per approfondire
gli aspetti trascurati dai modelli sociocognitivi, per colmare alcune lacune e per costruire modelli in
grado di: precisare gli aspetti dinamici già analizzati nei modelli dei processi, soffermandosi sulle
variabili che spiegano il passaggio da intenzione a comportamento.
Il modello di Norman e Conner
La loro proposta è quella di definire le componenti di base di un modello integrato. Nella prima fase
(precontemplativa), l’individuo non considera di modificare il proprio comportamento, tuttavia alcuni
stimoli induttivi possono portare il soggetto ad iniziare a pensarci. Nella seconda fase (di motivazione
o decisione) il soggetto inizia a pensare di modificare davvero il suo atteggiamento. L’intenzione è
determinata da: aspettativa di risultati e anticipazione di reazioni affettive, influenze normative e
percezione del sostegno sociale, autoefficacia. Influenza indiretta può essere data da valori morali ed
esperienza passata del soggetto. La terza fase (pianificazione) riguarda il passaggio dall’intenzione
all’azione, quindi si mettono in atto “piani d’azione” o “intenzioni di passare all’ azione”. Nelle ultime
fasi (azione e mantenimento) il soggetto si impegna a controllare il suo comportamento, i processi di
autoefficacia, identità e impegno intervengono anche in questa fase.
Il modello di Rutter, Quine e Chesham
Hanno proposto un altro modello per integrare i risultati dei modelli tradizionali. Il modello cerca di
specificare le variabili di mediazione tra le categorie sociali e gli stati di salute. Queste variabili
possono essere di due tipi: socioemotive (esperienze di vita, sostegno, esperienza diretta sulle
emozioni, generare ansia, depressione ecc); variabili cognitive (accesso alle informazioni,
conoscenze e disposizioni cognitive, coping). Si ritiene che queste variabili influenzino le risorse e le
strategie grazie alle quali le persone affrontano le difficoltà. È stato rilevato che le caratteristiche
sociali agiscono sul comportamento per mezzo di atteggiamenti e aspettative.
LE TEORIE DEL SENSO COMUNE
La rappresentazione cognitiva della malattia
Approccio elaborato da Leventhal, Meyers e Narenz, costituisce una prospettiva relativamente nuova
all’analisi del modo in cui le persone percepiscono la malattia e i pericoli per la salute. Il modello
prende spunto dallo scarto tra la sintomatologia delle persone e la tendenza a rivolgersi al medico, e
anche la scarsa volontà a conformarsi con le cure prescritte. Secondo il modello i comportamenti dei
soggetti alle minacce della salute sono conseguenze delle loro teorie implicite sulla malattia, quindi
in questo modello si dà ruolo centrale alla rappresentazione della malattia che si compone di:

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1) identità, nome dato alla malattia e sintomi;
2) causa, ragione per cui la persona è malata
3) dimensione temporale, durata presunta;
4) effetti, esito della malattia e postumi;
5) trattamento, azioni che il soggetto intraprende per ristabilirsi.
Altri autori hanno utilizzato il concetto di prototipo per descrivere il modo in cui il soggetto organizza
le informazioni sulla malattia dal punto di vista cognitivo, e di come le estrae dalla memoria.
L’interpretazione attribuita alla malattia influenzerà le decisioni sui comportamenti futuri. Un altro
elemento importante è la credenza che i soggetti hanno sui soggetti malati, che riguarda contagiosità
e gravità, la prima influenzerà la volontà dei soggetti di interagire con le persone coinvolte. Le
ricerche dimostrano che questi dati derivano dalla cultura di appartenenza.

La teoria delle rappresentazioni sociali


Teoria di Moscovici, che si interessa particolarmente all’articolazione tra fattori individuali e sociali
più generali. Contrariamente agli approcci precedenti, questa teoria insiste sulla natura sociale e
collettiva della comprensione che ha la gente di sé stessa e del mondo, e si concentra sulle concezioni
condivise, sul modo in cui queste vengono comunicate e si modificano. Le rappresentazioni sociali
sono delle teorie spontanee, delle forme di conoscenze tipiche del senso comune o profano, che si
dividono da forme di conoscenza più formali e servono ad organizzare la percezione del mondo,
costruire un codice comune, per comunicare la comunicazione sociale e gli scambi interpersonali.
Herzlich ha esaminato gli elementi relativi alla struttura e al contenuto delle rappresentazioni,
mettendo in evidenza uno schema figurativo di base, secondo il quale il rapporto salute-malattia è
considerato come una metafora del legame di opposizione tra individuo e società. L’individuo è
intrinsecamente sano, la società come portatrice di patologia. La genesi della patologia è messa in
evidenza tra la lotta individuo-salute e modo di vivere la malattia: è attraverso il carattere pericoloso
del modo di vivere che si manifesta l’oppressione della società sull’individuo. Vi sono tre concezioni
di salute:
1) malattia in quanto distruzione, ovvero come annientamento personale e relazionale;
2) liberazione, come un evento eccezionale che rompe la routine;
3) professione, quando diventa parte integrante della vita.

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Lezione N.3 VERSO UN MODELLO INTEGRATIVO3

Il modello biomedico
modello ancora dominante nella medicina moderna, secondo questo approccio la malattia riguarda il
corpo e corrisponde ad una disfunzione organica causata da vari agenti patogeni, si basa sulla
separazione mente-corpo, quindi l’attenzione è più sulla malattia che sulla persona malata, è un tipo
di approccio “troppo semplicistico” di causa-effetto, molto utile nel combattere malattie infettive ecc,
ma insufficiente per trattare alcune patologie (cardiovascolari e tumori).
La corrente psicosomatica
secondo questo approccio, lo sviluppo di alcune malattie (respiratorie, digestive, cardiovascolari,
tumorali) è associato ad alcuni fattori psicologici: conflitto psichico e profilo di personalità particolare
per Alexander e scuola di Chicago; funzionamento psichico particolare, con pensiero operatorio;
discorso incentrato sul concreto e sul presente per Marty e istituto di Parigi. Modello non
inconfutabile, in quanto non ha permesso di stabilire il ruolo eziologico di alcune esperienze infantili.
Approccio epidemiologico
ricerca tutto ciò che distingue i gruppi di soggetti malati da quelli sani in base a fattori ambientali,
psicologici, sociali. Agli studi retrospettivi (ricostruire il passato) si sono susseguiti quelli prospettivi,
in cui, alla fine del tragitto di anni, si ricercano i fattori iniziali che differenziavano i soggetti che si
sono ammalati da quelli che sono rimasti in buona salute. Le ricerche dimostrano l’esistenza ad
esempio comportamenti a rischio, ma bisognerebbe integrare i risultati con studi ipotetici-deduttivi,
non solo empirici.
Modello biopscicosociale
nasce in psichiatria con Engels, secondo cui gli aspetti relativi a salute e malattia sono organizzati in
modo gerarchico. Se ogni sistema può essere studiato in modo autonomo e appropriato si sottintende
un’interdipendenza tra i livelli. Modello troppo generale, è un meta modello, troppo “semplice”, in
quanto la malattia implica una storia e quindi delle relazioni non lineari tra fattori.

Modello transazionale
Di Lazarus e Folkman, alla base dell’approccio vi sono transazioni uomo e ambiente, ovvero tra gli
sforzi cognitivi, emozionali, comportamentali che egli dispiega per adeguarsi ad una situazione
sfavorevole specifica, queste si svolgono in due fasi: valutazione e elaborazione di strategie di

3
Fischer, N.-G., Trattato di psicologia della salute, ed. Borla
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aggiustamento. Questi processi modulano l’impatto degli antecedenti ambientali e disposizionali
sullo stato di salute. Modello che minimizza gli aspetti situazionali e disposizionali.

Modello integrativo e multifattoriale


Modello che analizza separatamente fattori ambientali, individuali e processuali(transazionali).
Questo modello si adatta a ricerche trasversali e longitudinali (prospettici o semi) che possono mettere
alla prova le ipotesi causali. I fattori ambientali e individuali sono antecedenti o predittori, le variabili
transazionali sono mediatori, e la salute, valutata alla fine è l’esito o il criterio da prevedere. Questi
esiti possono essere biomedici o psicologici. Modello molto flessibile per adattarsi alla predizione di
conseguenze molto diverse, implica una successione di sequenze temporali, (antecedenti, mediatori,
risultati) fattori di rischio (predicono il principio di una patologia) e fattori di prognosi(fattori ulteriori
di una malattia preesistente).
1. FATTORI AMBIENTALI: le teorie classiche dello stress hanno diffuso la credenza secondo la
quale la malattia deriva da agenti patogeni esterni che indeboliscono l’organismo.
–EVENTI DI VITA: sono state costruite scale di eventi di vita stressanti, in cui ognuno è mercato da
un peso proporzionale alla sua gravità supposta. In realtà la correlazione tra eventi di vita avversi e
mortalità o morbilità è modesta, perché il ruolo degli eventi sembra quello di aggravare una malattia
e non scatenare una patologia ex novo. Ancor di più degli eventi oggettivi, ciò che conta è come
vengono percepiti dal soggetto.
–RETE SOCIALE: è l’insieme delle persone con le quali l’individuo è in relazione, una rete sociale
importante protegge l’individuo, l’isolamento invece dà alto rischio di morbilità e mortalità, anche
qui non conta con quante persone l’individuo ha a che fare, ma come percepisce e valuta l’aiuto
ricevuto. La rete sociale ha maggiori effetti indiretti che diretti. l’approccio situazionale stretto (eventi
di vita e rete sociale) può essere integrato con l’approccio transazionale.
2. FATTORI PERSONALI -Stili di vita a rischio:
-TIPO A: configurazione di caratteristiche che viene valutato o con un’intervista strutturata o con una
autovalutazione. impazienza, ostilità, vigore di gesti, voce si associerebbero a maggior rischio di
cardiopatia; oggi si pensa che esista al suo interno un nucleo “tossico” che comprende ostilità cinica.
Questi soggetti percepiscono l’ambiente come noncurante, perseguono obiettivi elevati, si circondano
di un clima conflittuale, particolare stile di interazione in situazioni percepite come sfide che
indeboliscono il sistema cardiovascolare.
–TIPO C:” personalità dei soggetti colpiti da tumore”, per gli psicosomatici si tratta di storia specifica,
per gli epidemiologi di una costellazione composita, talvolta chiamata tipo c e talvolta tipo I, si
caratterizza per: difficoltà di identificazione e manifestazione di emozioni negative, cognizioni

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negative latenti. Non è una caratteristica disposizionale, ma uno stile transazionale adattato da alcuni
individui di fronte ad eventi percepiti come perdite. come repressione di eventi negativi (fattore di
rischio) e impotenza-disperazione (fattore di disperazione). Tratti patogeni:
- OSTILITA’: è basata su convinzioni negative che riguardano il mondo e gli altri, che vengono
percepiti come ostacolo, fonte di frustrazione, capaci di nuocere. All’interno possono esserci
componenti cognitive (ostilità cinica), componenti affettive, o comportamentali; esiste una relazione
positiva tra collera repressa e mortalità coronarica.
– NEVROSI: fattore bipolare di personalità ad un livello generale (1 dei 5 fattori), comprende vari
affetti negativi, e implica labilità del sistema nervoso autonomo. La sua associazione con alcuni
sintomi somatici è costante quindi è un tipo di personalità predisposta allo sconforto.
– DEPRESSIONE: insieme eterogeneo di disturbi dell’umore che dipendono da fattori psicologici e
biochimici, aspetto associato a malattie croniche ,10-30%pazienti somatici sono depressi.
Caratteristiche salutogene: caratteristiche protettrici della personalità. Sono credenze e stili cognitivi:
- OTTIMISMO: fattore disposizionale, caratteristica stabile della personalità, buona salute fisica ed
emozionale. Modera l’impatto soggettivo degli eventi, il suo effetto è mediato da strategie di
fronteggiamento attive e stili di vita sani.
– LOCUS OF CONTROL: l’internità specifica o relazionale è associata a benessere emozionale e
fisico, attenua l’impatto degli eventi stressanti, porta stili di vita sani.
– AUTOEFFICACIA: credenza nelle proprie capacità di mobilitare le risorse necessarie per
controllare una situazione, effetti salutogeni, buona adesione terapeutica.
Nozioni composite:
-CAPACITA’ DI RESISTENZA: Kobasa, comprende l’impegno o coinvolgimento nelle proprie
attività, il controllo cioè il credere di poter influenzare gli eventi e la sfida, considerare i cambiamenti
come occasioni per migliorare. Modera la relazione esistente tra eventi stressanti e sviluppo di una
patologia.
–SENSO DI COERENZA: Antonovsky, studio sui sopravvissuti nei campi di concentramento, un
individuo coerente percepisce gli eventi esterni e la propria vita come comprensibili, controllabili, e
dotati di significato. ciò attenua l’impatto degli eventi stressanti sulla salute.
– RESILIENZA: insieme delle caratteristiche psicosociali considerate protettrici. nonostante la vita
difficile l’individuo resiliente ha saputo elaborare valide strategie, ha saputo vivere esperienze
gratificanti, sostenute da un legame affettivo stabile e ha un sistema stabile di valori. Hanno in comune
controllo percepito, implicazione delle situazioni, ricerca di significato.
Fattori di personalità:

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-AFFETTIVITA’ POSITIVA E NEGATIVA: l’AN raggruppa alcune emozioni spiacevoli come
tristezza, sconforto, nervosismo, collera, inquietudine, l’AP raggruppa entusiasmo piacere, curiosità,
energia, attenzione, determinazione. Questa è associata alla qualità di vita, (strategie funzionali,
rivalutazione positiva, strategie di coping) ma non alla salute fisica.
–FIVE FACTOR MODEL: il procedimento fattoriale, esplorativo e induttivo è diverso. Si parte dai
5 fattori rendono conto del 29% della varianza comune tra personalità e comportamenti sani, dovuti
soprattutto a coscenziosità e piacevolezza.
3. PROCESSI TRANSAZIONALI:
modello integrativo: effetto diretto di alcuni fattori ambientali e psicologici su diversi criteri di
adattamento (benessere, qualità di vita, soddisfazione…) o non adattamento (depressione, affettività
negatività, patologia, peggioramento). Ma questi possiamo avere anche effetti indiretti, un ruolo di
mediatore, modulando l’effetto degli antecedenti ambientali e individuali sulla salute fisica e mentale.
Lazarus e Folkman mostrano la fondamentale importanza dell’attività del soggetto di fronte ad una
perturbazione. Secondo il nuovo comportamentismo, le variabili mediatrici sono i processi tramite i
quali si esprime e transita l’influenza delle variabili indipendenti su quelle dipendenti in base a
valutazione e fronteggiamento o coping.
1)VALUTAZIONE: in base a ciò che l’individuo subisce abitualmente valuterà situazione (natura,
significato, gravità, durata) e le proprie risorse per fronteggiarla. Processi transazionali:
-STRESS PERCEPITO: non è la situazione oggettiva stressante, ma le sue ripercussioni emozionali,
e fisiologiche, specifiche per ogni individuo, a modulare il contesto sfavorevole e lo stato di salute.
Vi sono agenti stressanti oggettivi: morte, malattia, troppe ore di lavoro, ma rispetto alle misure
oggettive lo stress percepito ha maggior potere predittivo.
–CONTROLLO PERCEPITO: credere di disporre delle risorse personali che permettono di
affrontare e controllare gli eventi, essendo un processo valutativo specifico e transitorio, è quindi
diverso dal locus of control, che è invece una credenza generalizzata e durevole. Spesso gioca un
ruolo protettivo e di prognosi della salute, al contrario il senso di perdita del controllo comporta un
peggioramento di alcune malattie.
–SOSTEGNO SOCIALE PERCEPITO: si deve distinguere la rete sociale dal sostegno sociale,
questo gioca un ruolo funzionale, diminuisce il rischio di mortalità e morbilità, migliora la prognosi
e la qualità di vita. Un sostegno emozionale è benefico quando proviene da partner famiglia o amici.
Ma il sostegno sociale non è sempre positivo, perciò bisogna considerare tipo natura, fonte e
adeguatezza percepita dal destinatario. Esso influenza la vita sia in modo indiretto come moderatore,
attenuando lo stress percepito e aumentando il controllo percepito, sia in modo diretto attivando il
funzionamento di alcuni sistemi.

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2) STRATEGIE DI COPING:
GENERICHE: il coping incentrato sul problema corrisponde agli sforzi cognitivi e comportamentali
del soggetto per modificare la situazione, comprende varie strategie: elaborazione di piani d’azione,
rivalutazione positiva, ricerca di informazioni, spirito combattivo, è un tipo di coping attivo o
vigilante. Il coping incentrato sull’emozione invece comprende i diversi tentativi del soggetto di
gestire la tensione emozionale indotta dalla situazione, comprende l’evitamento, distrazione,
negazione, drammatizzazione, autoaccusa; è un coping evitante o passivo. talvolta la ricerca di
sostegno sociale viene indicata come terza strategia globale e corrisponde agli sforzi del soggetto per
ottenere la simpatia e l’aiuto degli altri. Valutate tramite WCCS E CISS. –SPECIFICHE: il coping
incentrato sul problema si traduce in spirito combattivo, il coping incentrato sull’emozione si
suddivide in fattori distinti: impotenza-disperazione, autoaccusa, evitamento emozionale, espressione
o repressione emozionale o distrazione. Scala CHIPS. EFFIACCIA RELATIVA: è pù utile disporre
di una strategia, piuttosto che nessuna, e avere strategie varie e flessibili., ma quelle incentrate sul
problema sono efficaci a medio e lungo termine per eventi controllabili. Quelle incentrate
sull’emozione sono disfunzionali ma possono proteggere il soggetto a breve termine.
MODELLI ESPLICATIVI: il modello proposto da Engel, risulta troppo semplicistico. Per questo
vengono oggi usati modelli che tengano conto di effetti diretti, moderatori e indiretti. La
psiconeuroimmunologia è una disciplina nuova che si colloca tra psicologia, neuroscienze
comportamentali, neuroendocrinologia e immunologia. L’obiettivo è chiarire i cofunzionamenti tra i
fattori psicosociali e biologici coinvolti nello sviluppo di tumori, artriti, malattie autoimmuni.
Sappiamo oggi che alcuni processi transazionali peggiorano l’evoluzione del tumore: assenza di
espressione delle emozioni e impotenza, disperazione. Le transazioni più efficaci sarebbero invece il
controllo e il sostegno sociale percepiti.

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Lezione N.4. APPROCCIO CLINICO IN PSICOLOGIA DELLA SALUTE4:

A Partire dal 1955 Lagache sostiene la necessità di una psicologia medica, disciplina con un certo
numero di argomenti vicini alla psicologia della salute, come verrà definita negli Usa negli anni 80.
Essa deve: sostenere psicologicamente i pazienti affetti da malattie somatiche, analizzare gli effetti e
le conseguenze del rapporto medico/malato/famiglia; descrivere i tratti psicologici in base alle forme
di malattia; capire il peso dei valori e delle credenze dei gruppi e le loro influenze sugli esiti delle
prescrizioni, le direttive sulle prevenzioni ecc. Ma questa disciplina non può rinunciare al metodo
clinico, differenziandosi cosi dalla sociologia, Lagache sostiene che l’attività del soggetto nel proprio
mondo interiore ed esteriore non può essere ignorato. La psicologia medica deve in effetti mettere in
risalto l’interdipendenza tra organismo ed ambiente, da un punto di vista pratico, fin dalle sue origini,
gli psicologi clinici investirono il campo della psicologia medica di Lagache, imponendo un
approccio psicoanalitico e/o psicosomatico creando cosi confusione tra metodo clinico e teoria
psicoanalitica, perciò questa disciplina si è estesa poi tra i medici. La psicologia della salute si
sviluppa negli Usa negli anni 80, corrente fondata su metodi oggettivi e quantitativi di matrice
cognitiva, in Italia e Francia sembra essere biologista. Per Matarazzo: la psicologia della salute
analizza i saperi fondamentali della psicologia applicati alla salute e alla malattia.
Per Serafino: la psicologia della salute deve promuovere stili di vita sani, prevenire e curare le
malattie, migliorare la presa in carico dei pazienti, come diceva già Lagache. Quindi l’approccio
clinico, si riferisce ai metodi clinici, che possono essere utilizzati da tutte le sottodiscipline della
psicologia, la psicolgia clinica è una sottodisciplina della psicologia.
–PERCORSO CLINICO IN PSICOLOGIA DELLA SALUTE:
La corrente quantitativa dominante da 30 anni asserisce che gli esperimenti in psicologia non
differiscono da quelli delle scienze naturali, l’esistenza umana quindi è come un oggetto naturale, si
passa da psicologia concreta ad oggettiva. Ma le scienze naturali non ammettono soggettività, è
lontana da logiche soggettive e sociali perciò non si possono utilizzare gli stessi metodi e gli stessi
strumenti utilizzati con gli oggetti naturali. Da qui scende la conclusione logica, sostenuta dagli autori
della corrente qualitativa, che gli individui come le istituzioni e le culture, a seconda degli obiettivi,
possono essere riportati a modelli qualitativi o quantitativi. Il modello cognitivo voleva
scoprire i significati che l’essere umano crea a contatto col mondo per capirne i processi sottostanti,
ma è stato sconvolto dalla predominanza concessa alla metafora della macchina pensante, dalla

4
Fischer, N.-G., Trattato di psicologia della salute, ed. Borla

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dipendenza della psicologia dalle rivendicazioni sociali, dalla tendenza a ridefinire l’uomo in
funzione delle rivendicazioni sociali.
Postulati trasversali nelle metodologie qualitative:
1) primato della psicologia concreta del soggetto esaminato sempre in una situazione;
2) linguaggio, come mediatore dell’esperienza umana;
3)analisi fenomenologica dell’esperienza umana, in un quadro sistemico, dove l’atto primeggia
sull’oggetto;
4) rifiuto di ridurre lo spazio psicosociale ad un soggetto fuori dal contesto;
5) analisi del ruolo del ricercatore nel lavoro di ricerca;
Postulati fondamentali del metodo clinico in psicologia:
1) primato del legame con la pratica;
2) primato della relazione e della domanda, fenomeno intersoggettivo alla base;
3) attività mediatore tra soggetto e società;
4) linguaggio e simbolizzazione alla base;
5) analisi del ruolo del ricercatore nella costruzione della ricerca e dei suoi risultati.
–POSTULATI FONDAMENTALI IN UN METODO CLINICO IN PSICOLOGIA DELLA
SALUTE:
-la norma non è necessariamente l’ideale: l’OMS definisce la salute come benessere psicologico e
sociale, ma lo studio sulle teorie soggettive rileva che la salute non si riferisce solo alla definizione
medica, molte persone non si ritengono in buona salute anche se lo sono fisiologicamente o viceversa.
Quindi questo concetto dipende da norma, biologia e ambiente di espressione.
–ruolo dell’intersoggettività nell’affermazione di salute o malattia: lo stato di malattia affligge il
soggetto, che ne ricerca una spiegazione, una causa, esprime il suo bisogno di comunicare, bisogno
distinguere l’essere malato dal bisogno di scambio intersoggettivo che ne risulta. Essere malato e
sentirsi malato rimandano a due posizioni soggettive diverse, che possono avere in comune il concetto
di sentirsi in buona salute.
–partecipazione alla co-costruzione di un sistema di cure: il percorso di cura entra nella vita del
malato, trasformando il loro rapporto col mondo, perciò ogni metodologia non può ignorare gli effetti
dell’interdipendenza sociale e culturale.
–attività creatrice di significati e ricostruzione dell’essere nel mondo del soggetto malato: l’autonomia
espressa nella malattia cronica non risponde agli ideali razionali, logici, è tipica di un soggetto
indebolito, poiché maggiormente cosciente dei meccanismi di equilibrio che lo muovono, essa
risponde a modi di ristrutturazione corporeo-psicosociale che la ps della salute deve studiare. –
PSICOLOGIA FENOMENOLOGICA NEL SETTORE DELLA SALUTE?

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Lagache sosteneva che la psicologia della salute doveva mettere in rilievo l’interdipendenza
dell’organismo e dell’ambiente rifiutando la dicotomia tra organismo e situazione, egli propone il
concetto di campo psicologico. Per Merlau-ponty questa nozione rinvia ai lavori di koffka, che
distingue l’ambiente circostante geografico (realtà effettive in cui il soggetto si muove) e ambiente
circostante di comportamento (realtà nelle quali l’individuo crede di muoversi) quest’ultimo definisce
il campo psicologico che corrisponde ad un rapporto di forze, tensioni, reazioni, la cui
rappresentazione è la condotta umana. Non vi è passività dell’organismo di fronte agli stimoli, al
contrario è l’attività creatrice di formazione di senso attribuito al mondo esterno e interno. Il metodo
fenomenologico discende da questo e descrive le strutture che caratterizzano il modo in cui gli oggetti
si presentano al mondo.si deve andare oltre la semplice introspezione. Per questo, questo tipo di
psicologia sembra la migliore opzione teorica che differenzia i postulati della psicologia classica da
quelli dell’approccio clinico. In quest’ottica il termine concreto si riferisce allo studio del fenomeno
vissuto, in relazione all’intenzionalità. La descrizione degli stati intenzionali, insieme a quella degli
stili cognitivi della vita da malato sembra approfondire le conoscenze sulle credenze soggettive alla
malattia. L’analisi della struttura dell’esperienza, della descrizione del vissuto, può farci accedere al
senso tenendo sempre conto della pluralità e delle trasformazioni dell’attività riflessiva. Per
l’approccio clinico e fenomenologico l’uomo è caratterizzato dall’essere nel mondo che ingloba corpo
mente e inconscio, non esistono soggetti e oggetti divisi.
DESCRIVERE IL FENOMENO: Husserl privilegiava l’atto a scapito della rappresentazione e della
mentalizzazione. Egli si riferisce all’esperienza di conferimento di senso, considerando che il senso
del fenomeno risiede nell’atto di esperienza e non nell’oggetto percepito. Gli oggetti vengono
percepiti dagli organi di senso e non sperimentati, mentre le sensazioni vengono provate. Le
esperienze intenzionali possono essere considerate come atti della coscienza. Si deve descrivere il
fenomeno cosi come si presenta, evitare la spiegazione, la costruzione e l’interpretazione, non si cerca
causa-effetto, ogni fenomeno soggettivo deve essere considerato solo nel mondo in cui esiste. –
intenzionalità della coscienza e creazione di significato: l’intenzionalità è l’orientamento della mente
verso il suo oggetto, la coscienza è intenzionale, sempre orientata verso un oggetto, sempre
intenzionale, l’atto di coscienza e l’oggetto di coscienza sono sempre legati. La fenomenologia dà
alla coscienza il primato dell’essere, essa è aperta al mondo, strutturata e organizzata.
–ricerca delle essenze e orizzontalizzazione delle prospettive: la fenomenologia rifiuta un approccio
riduttivo, privilegiando lo studio del dramma umano. E’ necessario definire le invarianti (essenze)che
sottendono l’insieme di esperienze di pensiero, sensazione ecc... la comprensione che emerge da uno
stesso oggetto, attraverso diverse angolature è l’orizzonte di questo oggetto. Il processo di
orizzontalizzazione ingloba tutti i punti di vista percettivi che si aggiungono per dare profondità e

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senso all’esperienza. Non esiste un senso rigido e persistente, ma sempre una dinamica del campo
psicologico.
–ruolo del ricercatore e messa tra parentesi del giudizio: consiste nella sospensione del giudizio, il
ricercatore mette da parte i suoi a priori sul fenomeno, cosi come egli frena il suo giudizio e si astiene
dal fare ricorso alle sue conoscenze preliminari sull’esistenza del fenomeno. Favorisce cosi il lavoro
intuitivo.
–limiti dell’introspezione e spiegazione riflessiva: l’introspezione rinvia alla percezione interiore, alla
rilevazione del soggetto dello svolgimento del suo flusso interiore, dal punto di vista metodologico,
la conoscenza del singolo vale quanto quella quantitativa.
-soggetto dell’inconscio e/o soggetto della cultura? Da un punto di vista pratico questo approccio
richiede un tempo di edificazione importante, ricercatori formati al colloquio, alla metodologia
fenomenologica e all’analisi dei dati. Da un punto di vista epistemologico spesso si rischia di sfociare
in una clinica della soggettività/interiorità piuttosto che quella di un soggetto esistente nel mondo.
Questo discorso ha rappresentato un dibattito tra Freud e Binswanger nel 1907, quest’ultimo ci lascia
una riflessione ancorata alla pratica e all’esperienza, una metodologia a confronto con la psicoanalisi.
Egli riconosce a Freud di studiare l’uomo con oggettività, invece Freud critica Binswanger sui limiti
della storicità e dell’ermeneutica. Il soggetto di Binswanger non si riduce né al soggetto dell’inconscio
freudiano, né al soggetto della coscienza valutativa del cognitivismo, il suo è un soggetto essere di
incontro dell’altro, di senso e di coscienza intenzionale, responsabile delle sue scelte di vita. L’homo
cultura, contrapposto all’ homo natura di freud, è essenza della comunità e della separazione e
dell’isolamento.
L’approccio clinico rifiuta le costruzioni fenomenologiche che esaltano il soggetto nel suo vissuto
ineffabile, nella sua incomunicabilità innata. Nel campo della malattia cronica il soggetto non è
soggetto a determinismo né conscio né inconscio, questo conferisce al soggetto l’impressione che una
forza si è impossessata di lui, come il destino. Questi concetti possono essere analizzati dalla
fenomenologia, pur tenendo conto degli insegnamenti della psicoanalisi.

Lezione N.5. -STRESS E MALATTIA5

È lecito domandarsi se lo stress sia un fenomeno “nuovo” legato all'evoluzione della società; in realtà
lo stress e sempre esistito e a seconda delle epoche, i nostri antenati hanno sempre e comunque avuto
a che fare con eventi stressanti.

5
Fischer, N.-G., Trattato di psicologia della salute, ed. Borla

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Al giorno d'oggi lo stress e legato alla complessità del nostro modo di vivere:
- per le richieste di tenere a mente un alto numero di informazioni (numeri di telefono, carte
di credito, ecc.)
- per la complessità degli ambienti che ci circondano (lavoro, rumore, trasporto, ecc.)
- per l'impressione di riuscire sempre meno a controllare questi ambienti.
Descritto come una delle grandi malattie della nostra epoca, lo stress sarebbe all'origine delle malattie
coronariche e cardio-vascolari, delle ulcere allo stomaco, depressione nervosa ed altre patologie.
Non esiste una definizione chiara ed univoca di stress; e comunque un fenomeno molto complesso.
Il suo ruolo nella genesi ed evoluzione di molte malattie e ancora in discussione: per alcuni
consentirebbe l'insediamento della malattia, mentre, per altri, ne sarebbe il fattore scatenante.
Gli eventi della nostra vita vengono percepiti ed analizzati da tutto il nostro organismo per consentirci
un adattamento ad essi: quando percepiamo un evento pericoloso (agente stressante) l'organismo si
mette in stato di difesa mettendo in atto diverse modalità di risposta (reazioni di stress) per ristabilire
l'equilibrio.
Lavoro e stress
In alcuni paesi lo stress può essere addirittura mortale: in Giappone la sindrome da esaurimento
nervoso e definita Karoshi.
È una malattia temibile, provocata da esaurimento fisico e nervoso causato dal lavoro.
Colpisce i lavoratori modelli che lavorano 24 ore su 24, eccessivamente coinvolti nei loro compiti, e
che ad un certo punto sprofondano nell'apatia fino, in alcuni rari casi, alla morte.
Il neodiplomato inizialmente mostra molto entusiasmo ed energia, ma dopo un po' di tempo inizia ad
accusare segni di stanchezza, insonnia, eccessiva irritabilità e le capacita iniziali si affievoliscono.
Infine si ha un vero e proprio esaurimento fisico e nervoso che può sfociare in diverse patologie.
Si potrebbe accostare questo stato alla “sindrome degli yuppies”.
Il prezzo pagato a causa dello stress e molto alto: per le cure mediche, l'assenteismo sul lavoro e per
il calo della produttività.
In realtà le figure professionali più stancanti e stressanti non sono i manager o gli uomini d'affari
come si sente spesso dire, ma quelle inserite in un ambiente rumoroso (meccanica, acciaieria),
ripetitivo ed anche quei mestieri ad elevato coinvolgimento emotivo (infermieri, insegnanti,
controllori, ecc.).

Gli aspetti generali dello stress: legame fra stress ed emozione

Un fenomeno emozionale: il concetto di stress prima di Selye

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Prime teorie sul ruolo del cervello nell'espressione dell'emozione sono state fornite da Darwin e Freud
(inizio XIX secolo).
Psicologi William James e Carl Lange (1884): la risposta fisiologica precede e causa lo stato emotivo
(siamo tristi perché piangiamo).
I nostri organi di senso informano il cervello sullo stato del corpo, ed il cervello risponde modificando
il funzionamento degli organi. La reazione fisiologica degli organi trasduce una sensazione che
corrisponde all'emozione.
Fisiologo americano Cannon (1927): “teoria Cannon-Bard” per cui non vi e alcuna correlazione tra
esperienza emozionale e stato fisiologico: le emozioni possono essere sentite senza che si
percepiscano modificazioni fisiologiche (esperimento: animali con midollo spinale sezionato
continuavano ad avere reazioni emotive).
Ruolo del talamo e della corteccia nella percezione delle emozioni: non c'è bisogno di essere tristi, e
sufficiente l'attivazione del talamo come risposta alla situazione.
Le reazioni fisiologiche non sono specifiche delle emozioni.
Neurologo francese Paul Broca (1878): ruolo del lobo limbico nei comportamenti emotivi,
rappresentato dalla corteccia che circonda il corpo calloso (in particolare giro cingolato e corteccia
della superficie mediana del lobo temporale).
James Papez (1930): sistema dell'emozione detto “circuito di Papez” (parte mediana del cervello che
collega corteccia e ipotalamo).
John Harlow (1848- 1868): caso Phineas Gage, evidenzio un legame tra lesione di parte dei lobi
frontali con disturbi del comportamento, in particolare emozionali.
Kluver e Bucy: effetti della lobectomia sulle risposte di scimmie in un contesto stressante: turbe
emozionali, diminuzione della reazione di paura e delle reazioni emozionali.
Amigdalectomia → comporta una diminuzione e anche sparizione dell'espressione e del
riconoscimento della paura.
La concezione di Selye
Lo stress e una reazione di adattamento normale di fronte ad una minaccia, ma se questa perdura
troppo a lungo, lo stress diventa negativo e portare ad alcuni disfunzionamenti.
Le ricerche sullo stress si sono sviluppate a partire dal XX secolo con Walter Cannon e Hans Selye
(osservazione delle reazioni di attacco fuga di gatti minacciati da un cane e delle conseguenti
manifestazioni fisiologiche).
Selye (1936) definì separatamente lo stress, l'agente stressante e la reazione allo stress (in seguito
definita come una sindrome generale di adattamento SGA).

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Per Selye lo stress e una pressione esterna in grado di modificare il funzionamento dell'organismo, e
l'insieme di reazioni aspecifiche date dal confronto fra organismo e situazioni che deve affrontare.
Reazioni della risposta allo stress:
- Reazione di allarme: si attivano sistema simpatico e midollo-surrenale (liberazione di
adrenalina e noradrenalina) ed il sistema ipotalamo-ipofisi-surrene (glucocorticoidi). Una
loro eccessiva risposta porta a sintomi per il sovraccarico della capacita di adattamento (fase
di esaurimento).
- Reazione di resistenza e di adattamento: insieme di reazioni non specifiche per la prolungata
esposizione dell'organismo agli stimoli nocivi ai quali si è adattato.
- Fase di esaurimento (patologica): insieme di reazioni non specifiche date dal fatto che
l'organismo non può più adattarsi allo stimolo. Si ha quindi un esaurimento che porta alla
malattia e possibilmente, alla morte.
Jean Delay (psichiatra francese, 1959) introduce la nozione di stress in psicologia.
Propone un approccio comportamentalista: l'individuo può adattarsi ad uno stress e costruire modalità
adattive a delle costrizioni specifiche.
Le concezioni attuali
Critiche al concetto di stress:
- il termine stress indica allo stesso tempo l'agente aggressore e la reazione dell'organismo ad
esso;
- i mediatori implicati nella risposta dell'organismo all'aggressore sono numerosi e poco
conosciuti, soprattutto sul piano funzionale.
Omeostasi: ogni organismo, per il buon funzionamento del suo stato biologico e fisiologico, deve
mantenere un equilibrio in cui i marcatori fisico-chimici, biologici e fisiologici hanno valori nella
norma.
Di fronte ad un ambiente minaccioso dovrà rispondere innalzando i livelli di questo equilibrio
(reazione di allarme), con una modificazione biologica e fisiologica che genera un livello energetico
più elevato.
Stress positivo → reazione normale e naturale allo stress; al momento in cui l'ambiente minaccioso
scompare, l'organismo ritrova il suo livello normale di omeostasi.
Se lo stimolo stressante perdura, il nuovo livello di equilibrio omeostatico deve rimanere inalterato
finche esso e presente, generando un notevole dispendio energetico.
Negli animali non ci sono differenze interindividuali in questa fase.

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Nell'uomo, invece, le strategie di adattamento (coping) non sono sempre le stesse: la durata di
resistenza dell'organismo, quindi, e molto variabile e dipende sia da fattori genetici, che cognitivi e
psicosociali.
L'organismo può raggiungere un livello di stress patologico se la fonte della minaccia (agente s.) e
allo stesso tempo:
- inevitabile;
- indesiderabile;
- ripetitiva (cronica).
Adattamento allo stress
Chapouthier (1997), Jouvent (1998) → hanno evidenziato il ruolo dei geni nell'ansia nel topo.
L'influenza dell'ambiente si manifesta già dalla gravidanza (piccoli di ratte stressate durante la
gestazione, sono predisposti allo stress nello stesso momento in cui ne hanno bisogno; ad es. sono più
sensibili ed assuefatti alla nicotina).
L'ambiente influenza anche dopo la nascita: esempio del figlio di una portiera che cresce in un
ambiente rumoroso, sarà dipendente dagli stimoli e, una volta cresciuto, se avrà un lavoro monotono,
cadrà probabilmente in depressione (privazione di stimoli → stress).
Stress: mancanza di adattamento fra la nostra natura e l'ambiente.

Gli aspetti neurofisiologici dello stress


Durante lo stress sono attivati numerosi meccanismi neurofisiologici che interessano sia le
componenti nervose, che quelle endocrine ed immunologiche.
Ruolo del sistema neuro-endocrino
Adrenalina: primo ormone ad essere stato ricollegato alle emozioni.
Sistemi nervoso ed endocrino → funzionano in sinergia per mantenere l'omeostasi.
Ipotalamo: principale regione coinvolta nella regolazione delle funzioni fisiologiche; regola la
secrezione di fattori chimici (ossitocina, ecc.) che regolano la sintesi dei corticoidi, coinvolti
nell'infiammazione. Sorregge anche le funzioni del sistema nervoso autonomo che regola la pressione
arteriosa, la frequenza cardiaca, la motilità del tubo digestivo all'origine della nausea e della diarrea.
In risposta allo stress l'ipotalamo libera la corticoliberina (CRF) che stimola la liberazione di ACTH
(corticotropina), che, a sua volta, stimola quella dei corticoidi da parte delle ghiandole surrenali
(cortisolo, corticosterone).

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Ipotalamo → vasopressina
ossitocina
corticoliberina (CRF) → corticotropina (ACTH) → corticoidi (cortisolo,
corticosterone).
Questi meccanismi vanno direttamente a modificare la risposta infiammatoria.
CRF → principale via di attivazione dell'asse corticotropo; liberata in alcune zone del cervello in
seguito a stress acuti o emozionali legati all'ambiente, provoca delle risposte comportamentali
(reazione di evitamento).
Turbe fisiologiche
Stress acuto → abbiamo quindi meccanismi di adattamento coordinati dal SNC, l'asse HPA ed il
sistema nervoso simpatico efferente.
Vi sono neuroni specializzati nella liberazione di CRH dal nucleo paraventricolare dell'ipotalamo e
delle altre regioni del SNC, il locus coeruleus ed il sistema vegetativo centrale simpatico.
Stress prolungato → aggressioni meno intense ma ripetute sollecitano in parte questi stessi sistemi
provocandone un'attività cronica che può indurre ad un sovraccarico e ad una vulnerabilità: vi saranno
quindi difficolta di adattamento con sudore, turbe digestive, sintomi cardiovascolari, irritabilità,
ansietà, depressione.
Turbe delle funzioni digestive: diarree, vomito, nausee sono associati allo stress.
Nell'animale: lo stress può indurre ulcerazioni gastriche e aggravare lesioni infiammatorie del colon.
Nell'uomo: il ruolo dello stress nell'infiammazione rimane discusso.
Sia nell'uomo che nell'animale lo stress provoca alterazioni della motilità gastro-intestinale.
Queste turbe sono simili a quelle provocate dalla somministrazione centrale di CRF nei roditori. Lo
stress provoca inibizione della secrezione acida dello stomaco e aumento di quella del bicarbonato
duodenale e lo stress acuto stimola la motilità colica.
Topi immobilizzati → importanti ulcere gastriche.
Porcellini d'India → erosioni gastriche e duodenali.
Uomo → lo “stress da rianimazione” può provocare emorragie di origine ulcerosa.
Malattie infiammatorie croniche dell'intestino (MICI): durante una situazione stressante si aggrava il
processo infiammatorio, per una riduzione dell'attivazione dell'asse corticotropo.
Il morbo di Crohn e retto-colite emorragica: sono classificate come affezioni psicosomatiche, anche
se in molti casi la malattia si presenta o si aggrava nonostante il paziente non abbia particolari
preoccupazioni.
Ovviamente il tubo digerente di chi ha queste malattie e più sensibile ai fattori esterni, quindi la
liberazione di vari ormoni e citochine possono, su un terreno predisposto, scatenare una spinta

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evolutiva della malattia. Quindi e possibile che lo stress non sia la causa, ma uno dei tanti fattori
responsabili.
Paradontite nell'adulto: (Miller) lo stress sarebbe coinvolto nella distruzione dei tessuti paradontali.
Deficit comportamentali: nell'animale a seconda dell’intensità ansiogena della stimolazione: reazioni
di avvicinamento, attacco e aggressione, di evitamento o di fuga, comportamento di agitazione,
freezing (immobilità). In generale c'e una diminuzione di mobilita e della capacita di esplorazione.
Risposta immunitaria: lo stress, a seconda della sua intensità, modifica numerosi parametri.
Attivazione diretta dell'asse corticotropo con liberazione periferica di corticoidi; attivazione sistema
simpatico periferico, maggiore liberazione di linfociti.
Liberazione di citochine e mediatori pro-infiammatori (prostaglandine) che stimolano la liberazione
del CRF.
Stress acuto → aumenta la percentuale di linfociti TCD8 (soppressori/citotossici) e di cellule NK
(Natural Killer).
Stress psicologico (calcolo mentale e rumore) → aumento numero e citotossicità delle cellule NK,
dei linfociti TCD8 e dell'adrenalina.
Cancro: non è stata stabilita in modo oggettivo una relazione diretta fra eventi stressanti e apparizione
del cancro. Prendere coscienza della malattia e di per se un evento stressante che contribuisce
all'indebolimento del sistema immunitario. E' possibile che il cancro possa essere indotto o aggravato
da un evento stressante, indesiderabile, cronico e inevitabile, ma anche la malattia stessa può
diventare un agente stressante (poiché indesiderabile, cronico, inevitabile). Topo: stress psicologico
da isolamento incide sulla velocità di sviluppo del tumore alla mammella, ne aumenta la dimensione
e l’attività delle cellule NK.
Malattie infettive (HIV o HCV): come per il cancro non e stata stabilita una relazione diretta fra
eventi stressanti ed evoluzione di queste malattie. Prendere coscienza della malattia e anche in questo
caso un evento stressante che indebolisce il sistema immunitario.
Coinvolgimento dei neuro-ormoni: somministrazione esogena e diretta della B-endorfina su una
mistura di cellule immunitarie non modifica l’attività di cellule NK, al contrario del cortisolo e
dell'ACTH.
Malattie cardiovascolari: Friedman e Rosenman (1959): gli individui di tipo A sono più
frequentemente vittime di queste malattie rispetto agli individui di tipo B.
Attivazione asse ipotalamo-ipofisario e delle ghiandole surrenali in una situazione stressante libera
adrenalina, noradrenalina e cortisolo che agiscono sul tasso di renina, angiotensina e aldosterone. La
presenza cronica di questi neuro-ormoni aumenta la frequenza cardiaca e la pressione arteriosa,

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portando anche all'insufficienza coronaria, angina pectoris, infarto del miocardio, incidenti vascolari
cerebrali, artriti, ipertensione arteriosa cronica, insufficienza cardiaca.
Altre patologie: turbe psicologiche e neurologiche (depressione, demenza senile di tipo Alzheimer,
Parkinson); turbe metaboliche (diabete, obesità); respiratorie (asma); dermatologiche (psoriasi).
Stress cronico, cortisolo e degenerazione neuronale: la somministrazione quotidiana di corticosterone
(quello che nell'uomo e il cortisolo) nel ratto, provoca un deperimento dei neuroni che possiedono
recettori per il corticosterone. Il cortisolo, quindi, sarebbe responsabile della loro morte per eccito-
tossicità.

Lezione N.6 LA PERCEZIONE DELLA SALUTE E DELLA MALATTIA

La psicologia della salute trova nei concetti di salute, malattia e cure dei capisaldi del proprio
interesse.
Dato lo stato di malattia, il soggetto attiva dei comportamenti di salute a volte funzionali, a volte
disfunzionali. Per spiegare la variazione di questi, la psicologia della salute tira in ballo sia fattori
situazionali (ambiente, stress), sia disposizionali (tipo di personalità) che socio-culturali.
In questa lezione saranno presentati i più importanti modelli e le principali teorie che mirano a
descrivere il modo in cui gli individui percepiscono sia le problematiche della salute che della
malattia.
Va premesso che questa attenzione è recente: i primi tentativi di promozione della salute
incorporavano dei messaggi destinati ad evocare paura, credendo che questi, sarebbero riusciti a
indurre la pratica di azioni pro-salute. In realtà, questa tipologia di messaggio aveva solo effetti a
breve termine scaturendo condotte di evitamento del problema, anziché di approccio. Urgevano
strategie più efficaci.
I modelli che vedremo centrano il loro ragionamento sulla forza di alcune credenze, o di alcune
valutazioni del rischio, sull’autoefficacia (Bandura).
Il valore della salute (Lau e coll., 86)
Più che un modello si tratta di un concetto generale che descrive il valore che gli individui
riconoscono alla salute in relazione ad altre variabili come la ricchezza e/o la felicità. Coloro che

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concepiscono la salute come valore essenziale e superpartes sono in grado di prevedere il
comportamento di salute che adotteranno.
Dai 20 ai 40 soggetti su 100 indagati, non collocano la salute tra le prime cinque posizioni, in
termini di importanza, determinando così la sottovalutazione del costrutto “salute”.
Il modello di credenza in materia di salute (Janz e Becker, 84)
Tale modello risulta bene esplicativo nell’ambito della prevenzione. L’assunto di base è che la
disposizione degli individui a mettere in atto un comportamento di salute specifico (indossare cintura
di sicurezza) dipende dalla loro percezione del rischio in questione (incidenti stradali), dei benefici
(non mi tolgono punti della patente) e dei costi (sto più scomodo). La percezione del rischio si basa
su ciò che soggettivamente si crede, essere la gravità del problema di salute che ne deriva e la propria
vulnerabilità.

Teoria della pianificazione del comportamento (Arzeni, 91)


Questa teoria nasceva, inizialmente, con uno scopo diverso da quello attuale: doveva spiegare i legami
tra credenze e comportamento. Le prime non sono in grado di predire il comportamento in modo
diretto, ma passando per un’intenzione comportamentale.
Le intenzioni comportamentali sono determinate da tre variabili chiave di credenza e di
atteggiamento:
- l’atteggiamento verso il comportamento (“fare ginnastica è una cosa buona”) ossia il grado di
sfavore/favore verso il comportamento in questione;
- la norma soggettiva (“le persone a me care pensano che dovrei fare attività fisica”) quindi le
pressioni che ci arrivano dall’ambiente sociale;
- la percezione del controllo comportamentale ossia il grado di controllo che il soggetto crede di avere
sul comportamento di salute.
Le credenze relative all’autoefficacia (Bandura, 94)
Le credenze concernenti l’autoefficacia si riferiscono all’aspettativa dell’individuo sulla propria
capacità di effettuare un’azione specifica (“fare regolarmente attività fisica”).
Tali pensieri riescono in modo notevole a modificare il comportamento di salute poiché, come
prodotto esperienziale, sono ben radicati.
Le credenze relative al locus of control (Norman e Bennett, 96)
Tali credenze fanno capo alla valutazione individuale dei fattori (sé stesso, l’altro, il caso) che il
soggetto crede di controllare, o che egli crede possano influenzare le questioni della salute.
Coloro che manifestano un locus of control interno hanno un livello di manipolazione dei
comportamenti di salute più elevato.

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Le credenze di attribuzione
Per credenze di attribuzione intendiamo l’insieme di quelle convinzioni che il soggetto adotta per
spiegare la causa degli eventi accaduti. È stato dimostrato che, in conseguenza a un infarto del
miocardio, chi attribuiva la colpa al loro stile di vita (fattore interno instabile/modificabile) rispetto a
quelli che accusavano la genetica (fattore interno stabile) erano più predisposti a modificare il loro
comportamento di salute.
Il modello di adozione di precauzione (Weinstein, 88)
I modelli fino ad ora descritti riguardano comportamenti di salute “deliberati”, ossia legati a delle
credenze che influenzano le scelte che un individuo compie rispetto alla sua salute; questo, invece, si
basa sull’idea che gli individui modificano il loro agire passando attraverso degli stadi precisi e in
rapporto di consequenzialità.
Prima di pianificare qualsiasi intervento sarebbe opportuno valutare come si posiziona il soggetto
rispetto alle fasi proposte.
Ecco le fasi previste da questo modello:
-consapevolezza del rischio;
-credenza di vulnerabilità;
-decidere di agire;
-agire;
-attenersi alla modificazione del comportamento.
Modelli cognitivi della malattia e del trattamento
I pazienti si sforzano attivamente di comprendere i loro sintomi e la loro malattia generando vere e
proprie rappresentazioni cognitive. Tali costruzioni guidano il paziente a gestire la sintomatologia,
aderire al trattamento e fronteggiare i rischi del caso.
I pazienti raggruppano le loro idee sulla malattia attorno a cinque temi o elementi coerenti detti
“percezioni della malattia”:
- l’identità che consiste nel nomi-nare ed etichettare la malattie/i sintomi;
- la causa che include idee personali, convinzioni, fattori semplici o multipli; - la durata della malattia
(acuta, cronica o episodica);
- le conseguenze ossia i risultati attesi dalla malattia;
- la guarigione/controllo ovvero fino a che punto, per il paziente, è possibile guarire o controllare la
patologia. La convinzione di una possibile guarigione è associata a quadri sintomatologici lievi/acuti.
Inoltre, secondo questo modello, la risposta cognitiva e quelle emozionali associate sono trasformate
mediante processi paralleli divisi in tre stadi: la rappresentazione, i processi di gestione e le
valutazioni.

PSICOLOGIA DELLA SALUTE C.A. PROF. LORENZO CAMPEDELLI


n.b. Il contenuto del presente modulo è stato formulato e rielaborato sulla base delle informazioni, dati, teorie e
postulati, ivi compresi i rimandi bibliografici indicati dagli autori. Per eventuali approfondimenti si consiglia la
lettura integrale dei suddetti testi:
Zani, B., Cicognani, E., Psicologia della salute, ed. Il Mulino
Fischer, N.-G., Trattato di psicologia della salute, ed. Borla

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Lezione N.7 Il modello di autoregolazione (adattato da Leventhal e coll. 92)1
Nerenz, Leventhal e Love (1982) osservarono che pazienti sottoposti a chemioterapia rispondevano
alla malattia in termini di teorie implicite sulla malattia e sul suo trattamento. Lo sconforto era più
forte nei pazienti con linfonodi piccoli e a remissione più rapida, paradossalmente perché convinti
che i linfonodi più gonfi e palpabili fossero meglio controllabili. Questo aneddoto chiarisce come la
mancanza di un metodo utile che permettesse loro di valutare l’efficacia del trattamento.
L’autoregolazione è un processo che si basa sulle credenze e schemi di malattia che il soggetto matura
per esperienza diretta o indiretta. L’autoregolazione può essere una buona strategia di coping se
affiancata a un processo d’intellettualizzazione.
La valutazione delle percezioni di malattia
I modelli cognitivi che i pazienti possiedono sono, per loro natura, personali.
I pazienti spesso esitano a condividere questi schemi per timore di essere giudicati mal informati o
perché i tempi di durata del colloquio medico sono insufficienti.
Per ovviare a questo problema, è stato concepito il “Questionario della percezione di malattia” che è
valido e affidabile per varie malattie. Inoltre è stato messo a punto un sistema di scala per valutare le
credenze dei pazienti sia sulla medicazione che sulla funzione generale dei farmaci.
Le percezioni dei pazienti, la richiesta di aiuti, il ritardo
Le risposte degli individui ai sintomi fisici hanno elevata variabilità individuale.
Bishop ha dimostrato che i soggetti tentano di capire i loro sintomi ricollegandoli ai loro prototipi di
malattia; l’interpretazione dei sintomi data dal paziente influenza la contingenza della richiesta di
aiuto.
L’infarto del miocardio è un caso emblematico: se il paziente non identifica i sintomi alla malattia,
un ritardo nell’intervento può comportare conseguenze molto gravi.
La ricerca sugli stadi di attesa prima della richiesta di aiuto sanitario ha messo in luce tre stadi:
1. Attesa di valutazione. Tempo che intercorre tra la comparsa dei sintomi e il sospetto di malattia;
2. Attesa di malattia. Tempo che intercorre tra che l’individuo realizza il suo stato di malattia e quello
in cui decide di ricorrere a un medico;
3. Attesa di utilizzo. Periodo che va dall’arrivo in ospedale e il contato col personale medico.
Le percezioni dei pz e l’adesione al trattamento
C’è una profonda differenza tra l’aderenza al trattamento e l’osservanza dei consigli medici.
L’incidenza della non-aderenza varia (4-92%) e converge al 30-50% nel caso di malattie croniche.

1
Leventhal H, Scherer K (1987) The relationship of emotion to cognition: a functional approach to a semantic
controversy. Cognition and Emotion 1:3–28

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Da cosa dipende?
Sia L’Health Belief Model che la Teoria di pianificazione del comportamento concepiscono come
necessarie all’aderenza certe convinzioni di base: come la percezione del rischio è elevata se medico
e paziente condividono le stesse percezioni di malattia, gli stessi criteri di valutazione del risultato e
se sono d’accordo sul percorso da intraprendere. Gli scarti tra le opinioni dei pazienti e quelle dei
medici sono stati individuati in due settori:
- livello sintomatologico;
- interpretazione differente sull’esito positivo degli esami.
Ciò che si frappone tra il paziente e la malattia sono le sue percezioni. La psicologia della salute non
può trascurare quest’ ambito! Vari sono i modelli che hanno cercato di dare corpo e sostanza al ruolo
della cognitività nella salute.
Il riconoscimento, da parte del clinico, dell’importanza di questa componente permetterà un lavoro
più efficace sulla manipolazione dei comportamenti pro-salute e sull’aderenza.

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Lezione N.8. -SALUTE, MALATTIA E IDENTITÀ2

La psicologia della salute non va ridotta a una psicologia della malattia. Per lavorare sul tema della
prevenzione e dell’educazione alla salute occorre un approccio olistico sulla persona, che abbracci
componenti bio-psico-sociali, e che la consideri nell’arco della vita.
Conta sia un’attenzione rivolta agli effetti brutali e invalidanti che la malattia ha sull’individuo che è
vittima, ma anche un’attenzione alle sue modalità di reazioni.
La psicologia della salute deve occuparsi di sofferenza e difficoltà della vita, sviluppando in parallelo
un interesse verso qualità e valore della vita.
Esaminando le relazioni tra salute (valori, condotte e rappresentazioni), malattia (valori,
rappresentazioni e condotte) e identità poniamo il soggetto in una posizione dinamica, attiva e
responsabile del proprio stare, in possibile relazione con la sua identità di paziente e il suo ruolo di
malato.
La salute e la dinamica identitaria
Nell’Encyclopaedia Universalis il termine “salute” e “identità” compaiono insieme in 148 rubriche,
“malattia” e “identità” in 170. In Bioetica l’identità personale è l’insieme delle caratteristiche
umane che ci distinguono dal mondo animale. L’isteria, infatti, è spiegata come l’identità che non si
lascia definire, la molteplicità dell’essere, la non costruzione del sé. Definire l’identità sembra dunque
non impossibile ma complesso.
La nozione di qualità di vita è stata introdotta per la prima volta nel 1960 negli Stati Uniti nella
“Commissioni on National Goals” dove il legame tra salute, qualità di vita, benessere e soggettività
sono posti in rilievo. Va precisato che la qualità di vita, in Europa, è stata innanzitutto associata alle
cure palliative, e quindi in parte ridotta alla qualità di sopravvivenza.
L’OMS ha efficacemente definito la quality of life come “la percezione che ha un individuo del suo
posto nell’esistenza, nel contesto della cultura e del sistema dei valori nei quali vive, in relazione con
i propri obiettivi, le sue aspettative, le sue norme e le sue inquietudini. La qualità di vita è associata
in modo complesso con: la salute fisica, lo stato psicologico, il livello di indipendenza, le relazioni
sociali, la relazione con l’ambiente, la cultura e la politica”.
È chiaro che nella definizione sono compresenti aspetti soggettivi ed ecologici. L’identità come
ancoraggio e l’identizzazione come illusione vitale.
L’identità è il sistema di rappresentazioni, immagini e sentimenti, che hanno una funzione difensiva
e costruttiva, per mezzo dei quali la persona si definisce, si riconosce ed è riconosciuta da altri.

2 Fischer, N.-G., Trattato di Psicologia della Salute, ed. Borla

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Sono state rilevate una serie di funzioni riconosciute al sistema identità:
- Ancoraggio. Facilita l’illusorio sentimento di continuità, ossia permette di sentirsi uguali,
nonostante i cambiamenti indotti;
- Coerenza. Genera il sentimento di unità;
- Positività. Funzione fondamentale dell’autostima.
Tutti i sentimenti suddetti hanno un contenuto illusorio. Anche la Reversal Theory di Apter ha
sottolineato che i cosiddetti “capovolgimenti” di cui sono oggetto i nostri atteggiamenti, le nostre
motivazioni e i nostri comportamenti sono espressione di una normalità.
L’identizzazione è quel processo che consolida sia il sentimento di continuità (“rimanere lo stesso”)
di unità (“essere te stesso”) nonostante il cambiamento, la vecchiaia e la malattia. Tale processo è
funzionale ai meccanismi di adattamento e integrazione.
Vediamo ora il ruolo delle strategie identitarie nell’adattamento e nell’integrazione.
Una strategia psicologica implica un triplo controllo (interno): delle azioni, dei pensieri e delle
emozioni. Alla messa in atto di questa, intervengono tre tipi di controlli/pressioni:
- La pressione situazionale (ostacoli, opportunità, esigenze);
- La pressione socio-normativa legata al bisogno di conformità, coesione e consenso; - La pressione
assiologica costituita da significati, valori e credenze.
Le strategie identitarie sono delle risposte più o meno rigide, più o meno adattate, più o meno
consapevoli che cercano di mantenere l’identità personale (o collettiva) considerando le pressioni
evocate.
L’identità, le reti, il sostegno sociale
L’identità non si costruisce a partire dall’isolamento; ma grazie alla strutturazione di plurimi
attaccamenti e in un clima cooperativo. Non a caso, condizione necessaria per avere una buona salute
è l’esistenza di relazioni amorose, professionali e/o di svago positive. La costruzione di reti sociali
favorisce la formazione di valori stabili e orientativi che indirizzano l’individuo verso un sano
sviluppo bio-psico-sociale.
Il bisogno di partecipare, altrimenti detto di affiliazione si manifesta a ogni età, ma è stato studiato
nei bambini e negli adolescenti e soprattutto nelle persone anziane, nella misura in cui queste ultime
dipenderebbero di più, per le loro esigenze, dalla cerchia. A questa sociabilità si ricollega la questione
del supporto sociale.
L’identità è in stretta relazione con l’immagine di sé, alla base della quale risiede l’autostima che
spinge verso il processo di autorealizzazione e di ben-essere. L’autostima indica l’atteggiamento più
o meno favorevole che ogni individuo ha di sé stesso, il rispetto che si porta, il sentimento che del

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proprio valore come persona. Maisonneuve la definisce come “la valutazione intima del soggetto di
fronte a sé stesso”.

Lezione N. 9. -L’identità e le malattie croniche3

3
Fischer, N.-G., Trattato di Psicologia della Salute, ed. Borla

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Come altri potenziali stressors (divorzio, disoccupazione, lutto…) la malattia può provocare fratture,
squilibri interni e conflittualità vissute come crisi puntuali, se acute o prolungate, se croniche.
La malattia si configura così sia come un life event che come una contraddizione che mette a rischio
il soggetto esponendolo a una pressione a carico dell’identità. Dato lo stato di malattia, il soggetto
opera molte prese di coscienza, cerca di sopportare elaborando strategie di coping e testando la sua
resilienza. La resilienza è data da due capacità in continuo articolarsi: quella di “tenere duro”
malgrado gli imprevisti e quella di “rimbalzare”, di rilanciarsi elasticamente.
La malattia provoca degli sconvolgimenti non solo sugli aspetti esterni, ma anche all’interno
dell’individuo. Uno degli aspetti sorprendenti delle malattie è la loro capacità di incentrare
l’attenzione sulle attività fisiche (camminare, mangiare, correre) e le funzioni corporali date fino
allora per scontate. Il diabete, il cancro e l’AIDS possono comportare altri effetti, essendo all’origine
di vere e proprie crisi esistenziali. I soggetti sperimentano uno stato di vulnerabilità determinato dalle
deformazioni dell’immagine corporea e dalla rappresentazione che il soggetto ha della sua malattia.
Spesso la soluzione è data dalla ri-composizione di un “sé possibile” immaginato (Markus & Nurius,
‘86), l’adozione di un nuovo sé.
La malattia grave, non necessariamente mortale (sieropositività) fa perdere i valori anteriori
all’evento, fa vacillare e avvertire la diagnosi come una sentenza di morte. Al momento dell’annuncio
il soggetto e il suo schema di sé vanno incontro a un’alterazione; le reazioni possono essere
essenzialmente due:
- Il soggetto sprofonda in un terribile sconforto;
- Il soggetto padroneggia la notizia con un coping funzionale.
A più o meno lungo termine, la sopravvivenza dei malati richiede forme di adattamento, che passano
attraverso aggiustamenti identitari. Dal punto di vista relazionale la malattia grave cronica sconnette
l’individuo, lo isola e lo allontana dal reale, determinando così un circolo vizioso.
Talcott Parsons è stato il primo a scrivere a proposito del “ruolo di malato”, nel 1951. Si tratta di uno
status particolare, un concetto teorico che concepisce diritti e doveri che alcuni malati accettano
inconsapevolmente:
- Le persone sono esentate dalle loro funzioni e responsabilità ordinarie;
- Sono motivate a guarire e uscire dal loro stato di malattia;
- Cooperano con l’istituzione medica e si collocano in un rapporto di sottomissione;
- Non si sentono colpevoli della loro malattia.
Attribuire al malato un ruolo sociale può portare all’emergere di risentimenti perché i pazienti colpiti
dalla malattia sono anche lavoratori, genitori, sposi quindi lo status di malato può essere

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soppiantato; a meno che la malattia sia di una tale intensità da logorare la loro esistenza. I malati
cronici spesso evitano di agire o di sentirsi “male”, dichiarano di stare “bene”.
È sovente incontrare pazienti con diagnosi infausta che raccontano la loro storia senza disfattismi e
catastrofismi, bensì presentando scenari logici e consapevoli. Parlano di apprendimento e non di
distruzione. La storia diventa un mezzo per cercare di raggiungere eventi opprimenti e di ricomporli
in qualcosa di comprensibile. Chi ascolta queste narrazioni sente il bisogno di chi parla di dare
certezza all’incerto, di riscostruire un’ identità e rendere reale la malattia.
Ritornando alla questione autostima, che è una delle componenti basilari dell’identità, sappiamo che
dipende sia dalla percezione che il soggetto ha dell’immagine che l’altro gli invia sia dalle sue
aspirazioni. E la valutazione del malato? L’irruzione della malattia grave frattura l’identità personale,
riduce l’autostima perché crea una discontinuità tra l’io passato e l’io presente. La durata della
malattia, la gravità, la resilienza, la personalità sono tutti fattori che intervengono attivamente nella
risposata al precedente quesito.
Vari ricercatori hanno mostrato che la malattia grave determina un calo dell’autostima, tuttavia, anche
le persone in “buona salute” non ne sono del tutto escluse (Bedell e coll., 77). Gli individui non
adottano un’immagine di sé malato, ma piuttosto un’immagine positiva che rivela la combattività del
soggetto.
La progettualità è una dimensione relazionale che porta il soggetto verso una realizzazione.
Pianificare è possibile se si padroneggia passato, presente e futuro poiché il progetto è inscritto in un
rapporto di tempo personale, sociale e tempo che mi resta da vivere. Quest’ultima concezione del
tempo è cruciale nel malato cronico. La malattia modifica drammaticamente la concezione del tempo
che vive l’individuo: l’orizzonte temporale si riduce, il futuro diventa immediato e la proiezione si
interrompe e il soggetto si immobilizza. Secondo alcuni autori, gli individui che hanno imparato a
vivere con gradi variabili di perturbazioni sviluppano una tolleranza alle situazioni induttrici di
emozioni.

Lezione N.10 -LA RICERCA IN PSICOLOGIA DELLA SALUTE: I METODI


QUANTITATIVI.

1. IL PROCESSO DI RICERCA

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Una volta scelto un argomento di ricerca, bisogna esaminare il modo in cui è stato trattato; è
indispensabile una rassegna della letteratura esistente, per fare il punto sullo stato attuale delle
conoscenze. Secondo Mitchell e Jolley, partire da un'idea di ricerca anteriore è più semplice che
partire da zero, perché in questo modo è più facile conseguire i risultati che convalidano le ipotesi.
Per informarsi adeguatamente sull'argomento della ricerca, sono molto utili le ricerche in biblioteca:
procedendo per argomento, parola chiave, autore, rivista o per anno di pubblicazione e usando gli
abstract che riassumono l'informazione di una vasta gamma di opere si può ottenere l'informazione
necessaria. Inoltre sarebbe opportuno conoscere quali sono i periodici che si riferiscono al settore
preso in esame (ad es. per la psicologia della salute, i principali giornali sono Health Psychology o
Psychology and Health). Attraverso la rassegna critica della letteratura esistente, si possono
raccogliere informazioni relative al quadro teorico, alle domande della ricerca, alle argomentazioni e
le correnti di pensiero, ai partecipanti, ai processi utilizzati, alle variabili, al tipo di analisi effettuata
e ai principali risultati ottenuti. Una volta ottenute queste informazioni, bisogna considerare le
limitazioni e i suggerimenti in vista di ulteriori studi e confrontare tutti gli studi esaminati, dandone
una rilettura in chiave critica. A questo punto, si possono definire le proprie domande di ricerca,
creando uno studio che possa sopperire alle debolezze delle ricerche già presenti in letteratura.

2.LA PIANIFICAZIONE DELLA RICERCA


Nella pianificazione di un progetto di ricerca, bisogna tener conto del suo valore e dell'utilità, ma
anche della sua realizzabilità dal punto di vista sia etico che pratico. Il piano di lavoro prevede quattro
fasi:
-prima fase: oggetto e condizioni della ricerca;
-seconda fase: il modo in cui verrà condotto lo studio, le procedure previste;
-terza fase: la natura del campionamento;
-quarta fase: inquadrare l'evidenza a cui si vuole arrivare, ossia il tipo di analisi che permette di
verificare l'ipotesi.
La tipologia dei soggetti, le loro caratteristiche, la loro disponibilità e il numero di partecipanti di cui
abbiamo bisogno, sono alcuni degli aspetti pratici della ricerca, soprattutto per l'analisi statistica. Il
campione dovrebbe essere abbastanza ampio, perché alcuni partecipanti potrebbero abbandonare lo
studio prima della fine; è importante assicurare loro totale confidenzialità e anonimato dei risultati; è
necessario che il benessere degli individui sia considerato primario; infine, i partecipanti dovranno
essere informati degli obiettivi dello studio e delle procedure da seguire.

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Prima di iniziare lo studio, è consigliato eseguire un'indagine pilota per verificare le definizioni
operazionali delle variabili, esaminare l'affidabilità delle misure e valutare la pertinenza dei metodi
scelti.
Infine, è necessario farsi un'idea precisa del tempo che occorrerà per portare a termine la ricerca,
tenendo conto di tutte le fasi.

3.LA DEFINIZIONE DELLE DOMANDE E DELLE IPOTESI DI RICERCA


Le domande devono essere molto specifiche e chiaramente redatte. In psicologia della salute esistono
due tipi fondamentali di domande di ricerca: le domande descrittive (es. Quali sono gli atteggiamenti
delle persone per proteggere la propria salute?) e le domande predittive (es. Che interpretazione danno
i pazienti colpiti da un infarto dei loro segni di guarigione?).
Un'ipotesi è un enunciato che deve essere specifico, verificabile e quantificabile e deve far
riferimento alle differenze fra le variabili o alle loro associazioni. Bisogna specificare se l'ipotesi è a
una coda (monodirezionale), o a due code (bidirezionale). L'ipotesi nulla indica che non vi sarà né
differenza né associazione, mentre l'ipotesi alternativa è il contrario, perciò è quella che va verificata.
La variabile è qualcosa che varia, che può assumere valori diversi, è quello che si andrà a misurare e
che quindi deve essere definito per lo scopo della ricerca. Per misurare le variabili, è necessario
ricorrere a definizioni operazionali dei concetti compresi nella ricerca (definizione operazionale:
modo di definire come il concetto sarà misurato per la finalità dello studio), incluse le informazioni
riguardo la scala di valutazione, l'ampiezza e il significato dei punteggi.
Esistono due tipi di variabili: le variabili dipendenti (VD) e le variabili indipendenti (VI). La VD è la
misura adottata dal ricercatore per esplorare l'effetto di della VI, ovvero il ricercatore predice che il
valore della VD dipende dalla VI. La VI può anche essere una caratteristica particolare dei
partecipanti e quindi non può essere manipolata (es. status professionale).
Un'altra distinzione è tra variabili moderatrici e mediatrici. Le variabili moderatrici intensificano,
affievoliscono o invertono il rapporto tra altre due variabili, non modificano l'effetto, ma lo modulano
(es. nel rapporto fra lo stress chirurgico e la velocità di guarigione, il sesso può essere una variabile
moderatrice). In psico della salute possono essere considerate variabili moderatrici il sesso o la classe
sociale. Una variabile mediatrice è il meccanismo mentale o biologico per mezzo del quale uno
stimolo provoca una risposta, ovvero uno stimolo può avere un effetto modificando innanzitutto
alcune variabili mediatrici nel partecipante, con un conseguente cambiamento nel suo comportamento
(es. il coping può essere mediatore nella convalescenza, nel senso che se lo stress è legato al
peggioramento della malattia, il coping può essere mediatore di questo effetto).

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Una volta che una variabile è stata definita, bisogna scegliere il livello di misurazione da usare. Il
miglior sistema di classificazione conosciuto è quello di Stevens che identifica quattro livelli di
misurazione:
-NOMINALE (o categorico) si riferisce alle differenze qualitative fra categorie e le condizioni
necessarie sono quelle di mutua esclusività ed esaustività.
-ORDINALE si riferisce alle scale di misura dotate di scarti la cui dimensione non è conosciuta in
modo certo, le categorie sono classificate in termini di criterio che va dal più elevato al meno elevato
-A INTERVALLO rappresentano il livello più elevato di misurazione, è simile a una scala ordinaria
con la distinzione chiave dell'ipotesi di equidistanza dei numeri sulla scala di misura. Non comporta
lo zero assoluto
-A RAPPORTO differisce da quella a intervallo solo perché̀ comporta uno zero assoluto a partire dal
quale si comincia a contare.

4.LA COSTRUZIONE DEL QUESTIONARIO


Il questionario è lo strumento più usato nella ricerca per raccogliere le informazioni. La costruzione
del questionario comprende due procedure importanti: la pianificazione e il pilotaggio. Nella fase di
pianificazione, bisogna identificare i punti chiave e stabilire una lista di tipologie di domande,
seguendo gli obiettivi dello studio. Nella fase di pilotaggio, è importante discutere con esperti del
settore per accertare la validità degli argomenti e delle domande nel campo di applicazione.
Successivamente una bozza del questionario deve essere testata su un piccolo gruppo di individui e
infine deve essere sviluppato e validato su un campione selezionato dalla popolazione target. Deve
essere facile da capire, attraente ma allo stesso tempo funzionale, bisogna considerare il contesto delle
informazioni, le istruzioni, la lunghezza, il tipo di domande e l'ordine. Ci sono fattori che possono
mettere in discussione l'utilità del questionario: la natura dei soggetti, il luogo di compilazione, il
tempo, l'argomento, il questionario stesso. I vantaggi invece sono: la grande quantità di dati che è
possibile raccogliere, la facile organizzazione, l'anonimato e la possibilità di velocizzare l'analisi dei
dati con l'uso di una trama codificata. Il principale inconveniente è dato dal fatto che i soggetti
potrebbero trovare troppo restrittive le opzioni di risposta, oppure pensare di rispondere come
conviene socialmente.
Le informazioni fornite da un questionario possono essere: fatti (età, sesso, nazionalità..), quindi
esatte e oneste relative all'ambiente e alla demografia, e opinioni (atteggiamenti, sentimenti,
credenze...).
Normalmente gli strumenti di ricerca usati in psico della salute, sono strumenti standardizzati che
servono ad ottenere dati relativi ad un argomento particolare; ad esempio, in un punteggio individuale,

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una misura standardizzata è una misura della sua prestazione paragonata ad un gruppo di individui
interrogati in precedenza. Il Measures in Health Psychology: A User's Portfolio è uno strumento
prezioso in psicologia della salute. Per usare uno strumento standard bisogna tener conto di diversi
aspetti: la descrizione generale della misura, la modalità di somministrazione, lo status psicometrico
dello strumento e la traduzione e l'adeguatezza a un contesto diverso.

Lezione N.11. -LA VALIDITA' E L'AFFIDABILITA'


È fondamentale conoscere il grado di affidabilità e validità delle misure. La validità si riferisce al
grado con cui lo strumento o la procedura misura ciò che si prefigge di misurare. L'affidabilità si
riferisce alla coerenza o alla stabilità della misura da un uso a un altro. L'affidabilità è una condizione
necessaria alla validità, nel senso che le misure valide sono affidabili; tuttavia non garantisce la
validità, nel senso che non sempre le misure affidabili sono valide.
Per valutare l'affidabilità di una misura, si può utilizzare il test-retest, che consiste nell'applicare la
stessa misura allo stesso gruppo in momenti diversi e produce un coefficiente di fedeltà che varia da
+1 a -1. Un altro metodo di valutazione dell'affidabilità è lo split-half, con cui il test viene diviso in

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due parti (pari e dispari) e gli elementi delle due serie vengono correlati per produrre un coefficiente
che va da 0 a 1 (alfa di Cronbach).
Uno strumento è considerato valido se, dopo essere stato ripetutamente testato, sono ottenuti dei
risultati consistenti, nelle popolazioni o nei gruppi ai quali era destinato. Questa è la validità interna,
a cui si contrappone la validità esterna, che riguarda la generalizzazione delle conclusioni. Esistono
altre forme di validità: di facciata (in riferimento alla valutazione soggettiva relativa alla pertinenza
delle domande e al loro contenuto), di contenuto (quanto la misura contiene le dimensioni pertinenti
a ciò che si vuole misurare), di criterio (correlazione della misura con un altro criterio di misura che
viene accettato come valido), di costrutto (quanto lo strumento ha rapporti attesi con altre misure
considerate teoricamente simili) ed ecologica (quanto riflette equivalenze nella vita reale).

6. I TIPI DI MODELLI DELLA RICERCA


Un aspetto importante della ricerca è la scelta del disegno dello studio. I due disegni di base sono
quelli fra i soggetti ed entro i soggetti. Nel primo caso gli individui vengono ripartiti a caso nelle
diverse condizioni (gruppo sperimentale e di controllo), poi si confrontano i risultati fra i gruppi
(gruppi indipendenti). Il disegno entro i gruppi è chiamato anche disegno a misure ripetute, perché
ciascun partecipante è valutato più di una volta. In questo tipo di disegno bisogna considerare: l'effetto
dell'ordine, gli effetti della pratica e gli effetti della fatica.
Uno studio che comporta delle variabili misurate sia tra i soggetti che entro i soggetti è definito
disegno misto.
Se un disegno comporta più di una VI, viene definito disegno fattoriale.
Il confronto fra campioni di diverse culture è chiamato studio interculturale.
I sondaggi sono metodi non sperimentali i cui dati vengono raccolti in una forma standardizzata; ci
sono i sondaggi descrittivi (correlazionali) e analitici. I sondaggi descrittivi (studi trasversali) sono
ottenuti da un campione di popolazione target in un momento preciso e vengono utilizzati per stimare
alcuni parametri della popolazione, testare delle ipotesi e formulare delle ipotesi sulle cause e gli
effetti possibili fra le variabili. Numerosi sondaggi sono retrospettivi. I sondaggi analitici (studi
prospettici) esaminano gli eventi in momenti differenti. Un altro tipo di sondaggio è conosciuto come
studio di coorte , il cui tratto principale è quello di includere una caratteristica in comune (ad es.
persone nate nello stesso anno) e possono essere: trasversali e retrospettivi, longitudinali e
retrospettivi o longitudinali e prospettivi.

7. IL CAMPIONAMENTO

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Un campione è una porzione della popolazione target. Esistono due tipi di tecniche di
campionamento, a seconda che il campione sia casuale o meno:
-il “campionamento a valanga”, in cui il ricercatore chiede ad un gruppo iniziale, con delle cure
mediche specifiche, di reclutarne altri che conoscono e se trovano nella loro stessa situazione; è poco
probabile che questo campione sia rappresentativo, ma è molto utile quando gli argomenti di ricerca
sono delicati e rari
-il “campionamento per quote”, in cui il ricercatore identifica dei sottogruppi con delle caratteristiche
particolari che, considerate nel loro insieme, sarebbero rappresentative della popolazione, quindi
seleziona in ogni sottogruppo un certo numero di persone (una quota) con le caratteristiche importanti
per lo studio.
A volte è difficile reclutare un campione con queste tecniche, perciò può succedere che i ricercatori
includano nello studio tutti gli individui di uno stesso ospedale colpiti dalla stessa malattia
(campionamento di comodo, o opportunistico).
L'ampiezza del campione è molto importante e bisogna tener conto: della concezione dello studio
(trasversale o longitudinale), del livello di significatività e del tipo di ipotesi (a una o due code).
L'approccio statistico che permette di determinare l'ampiezza del campione è il calcolo della potenza
(potenza statistica: misura della probabilità che lo studio produca risultati statisticamente significativi
per una differenza fra gruppi di una data grandezza). Si tratta del potere del test di rivelare un effetto,
quando ne esiste uno, e dipende dalla grandezza del campione, dal livello di significatività e
dall'ampiezza della differenza. La dimensione del campione è importante al fine di ridurre due tipi
d'errore:
-di tipo I, che consiste nel rigettare l'ipotesi nulla, quando in realtà è vera (rischio minore)
-di tipo II, che consiste nell'accettare l'ipotesi nulla quando in realtà è falsa (rischio maggiore).

8. L'ANALISI DEI DATI


L'analisi è guidata dalle domande della ricerca e prevede diverse tappe:
-smistare dei dati per determinare il tipo di distribuzione delle variabili
-scegliere del test statistico corretto (parametrico o non parametrico)
-definire se l'analisi riguarda le differenze o le associazioni fra variabili, calcolare il numero delle
variabili e identificare VI e VD.
Ci sono due tipi di analisi statistica: descrittiva e per induzione. La prima descrive le variabili in
termini di misura di tendenza centrale (es. media, deviazione standard). La seconda procede per
induzioni partendo da un campione della popolazione target.

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9. IL RAPPORTO DELLA RICERCA
Il processo della ricerca termina nel momento in cui vengono redatte le conclusioni. Nel rapporto di
ricerca, il ricercatore deve scrivere in terza persona e al passato. La struttura deve comprendere: titolo,
riassunto, introduzione, risultati, discussione/conclusione, riferimenti ed appendici. Il titolo deve
essere semplice, corto e contenere una breve dichiarazione relativa al rapporto fra le variabili. Il
riassunto descrive in poche righe la ricerca. L'introduzione spiega lo scopo della ricerca. La sezione
sulla metodologia descrive il modo in cui è stata condotta la ricerca in termini di concezione,
procedura, partecipanti e misure. La sezione dei risultati deve essere il più chiara possibile per
permettere al lettore di coglierne il senso. Infine, la discussione, discute ed analizza i risultati in
riferimento alle teorie e alle domande che hanno fornito il contesto all'indagine.
Esistono delle linee guida sulle norme di redazione (cf. Manuel de Publication dell'APA, 1994).

Lezione N. 12. - LA RICERCA IN PSICOLOGIA DELLA SALUTE: I METODI


QUALITATIVI

Da una quindicina d'anni si può osservare uno sviluppo dei metodi qualitativi, che, a differenza dei
metodi quantitativi, si focalizzano su ricerche contestualizzate attraverso lo studio di casi
particolari, l'analisi del discorso, l'osservazione naturale e la descrizione dei dati. Distinzione tra il
termine metodo e metodologia: il termine metodologia rinvia ai legami fra la teoria della realtà sociale
ed il metodo usato da uno studio per rendere conto di un aspetto della realtà, il termine metodo rinvia
alle tecniche di raccolta e analisi dei dati.

1. CENNI STORICI E PROBLEMATICHE EPISTEMOLOGICHE


Nel XIX secolo, Dilthey, propose la distinzione tra la ricerca “esplicativa”, specifica delle scienze
della natura e la ricerca “comprensiva”, più compatibile con la ricerca delle scienze dello spirito.
Nelle scienze dell'uomo capire significa rifiutare la ricerca di formule e di leggi universali e cercare

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di cogliere la soggettività. Dilthey introdusse il concetto di “esperienza vissuta”, che insiste
sull'intreccio tra condizioni interne ed esterne dell'esistenza umana.
A partire dall'inizio del XX secolo, comprese tutte le discipline, si possono distinguere almeno 4
grandi periodi della ricerca qualitativa. Durante il primo periodo, i metodi comprensivi qualitativi
sono legati dapprima alla sociologia con la scuola di Chicago e attirarono l'attenzione sull'importanza
del contesto sociale in cui si collocano gli individui. Anche in psicologia si assiste ad un loro uso (es.
Wundt), ma la loro visibilità sparì rapidamente. La loro tradizione è tuttavia proseguita attraverso le
pratiche e le varie correnti della psicologia fenomenologica e umanista degli anni '40-'50.
Il secondo periodo riguarda la fine degli anni '60, quando, negli USA, Garfinkel, Goffman e Cicourel,
criticarono fortemente il metodo sperimentale e quantitativo per lo studio dei fatti sociali umani,
dando vita alla corrente etnometodologica, l'interazionismo simbolico e il paradigma costruttivista.
Negli anni '70 gli approcci qualitativi ritornarono in Europa, e dalla fine degli anni '70, inizi '80, si
svilupparono abbondantemente i modelli teorici, gli oggetti studiati e le metodologie proposte. Negli
anni '90 un certo numero di ricercatori cognitivisti si interessarono agli approcci contestualizzati ed
estesero i loro studi ai sistemi aperti. Per studiare questi oggetti, soggettività, significazione e co-
costruzione del senso, l'approccio qualitativo sembra essere particolarmente adatto.
Solo negli ultimi quindici anni c'è stato un reale interesse degli autori psicologi nei confronti di un
metodo di ricerca qualitativa, con una rimessa in discussione delle teorie e degli approcci sociologici,
estesa rapidamente ai lavori qualitativi della psicologia clinica e sociale.
Le aspettative e gli obiettivi della ricerca qualitativa si differenziano in funzione dei settori di
intervento, per cui non è possibile opporre un “paradigma qualitativo” ad uno “quantitativo”; ma si
può rendere conto delle due grandi posizioni della ricerca attuale nelle scienze sociali e umane
seguendo tre grandi criteri (Guba e Lincoln): i presupposti ontologici, che interrogano la natura della
realtà ed il modo in cui le cose funzionano, la posizione epistemologica, che si interessa alla relazione
fra il soggetto e il ricercatore, e le scelte metodologiche che determinano l'interesse del ricercatore ed
il modo in cui egli troverà quello che pensa possa essere scoperto. Concretamente, anziché opporsi,
le ricerche possono essere collocate in un lungo continuum, in funzione dei loro oggetti. A grandi
linee, l'insieme dei lavori può essere classificato in uno dei due grandi sistemi in
competizione: l'asse positivista e oggettivista e l'asse concreto e costruzionista.
Caratteristiche dell'approccio positivista ed oggettivista dominante:
All'interno di questo approccio è necessario distinguere le correnti positiviste classiche e le correnti
post-positiviste apparse negli ultimi vent'anni. Dal punto di vista ontologico, hanno lo stesso
presupposto: nelle scienze umane esiste una realtà osservabile al di fuori dell'osservatore e può
essere studiata per estrarre delle leggi causali e predittive. Dal punto di vista epistemologico, il

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positivismo mantiene il dualismo tra soggetto e ricercatore, afferma l'obiettività possibile del
ricercatore e mira ad edificare delle strategie per neutralizzare la sua influenza; il post-positivismo
abbandona la posizione dualista, l'obiettività è garantita e i risultati replicabili sono “sicuramente
veri”, ma l'obiettivo della scienza è quello di sottometterli alla falsificazione piuttosto che replicarli.
Dal punto di vista della scelta dei metodi, nel positivismo il metodo rimane sperimentale, quindi
quantitativo; nel post-positivismo si assiste ad una maggiore flessibilità delle posizioni, con a
possibilità di usare approcci multipli, sia qualitativi che quantitativi, e vengono introdotte delle
ricerche dette “quasi sperimentali”, svolte però sul campo e non in laboratorio.
Quali sono le caratteristiche dell'approccio concreto e/o costruzionista emergente?
Si possono dividere i lavori in due grandi correnti: quelle concrete e situate culturalmente
(neomarxiste, femministe, materialismo dialettico, ecc.) e quelle maggiormente costruzioniste e
discorsive, che si focalizzano sulla co-costruzione del mondo. Dal punto di vista ontologico, nelle
correnti concrete e situate culturalmente, la realtà esiste in quanto condivisa, ma è sempre in
movimento e formata dall'attività degli attori socio-psicologici e può essere cristallizzata solo a
posteriori nella riflessione dialogica per estrarre strutture considerate reali per ragioni pratiche; nelle
correnti costruzioniste e discorsive, la realtà in sé non esiste (nel mondo umano, da distinguere da
quello degli oggetti), ma esistono insiemi co-costruiti di realtà multiple e in movimento, quindi rientra
nel campo della costruzione mentale, sociale e collocata nell'esperienza locale. Dal punto di vista
epistemologico, in entrambe le correnti, la realtà è formata da transazioni che implicano la
soggettività e la cultura, perciò l'oggetto di ricerca e il ricercatore sono sempre considerati in
interazione; nelle correnti concrete, i risultati vengono considerati mediatizzati attraverso i valori
portati dall'oggetto della ricerca, dal ricercatore, dal soggetto e dalla cultura; nelle correnti
costruzioniste, i risultati sono una creazione emergente del dispositivo di ricerca attraverso
l'interazione tra soggetto e ricercatore. Dal punto di vista dei metodi, entrambe le correnti privilegiano
quasi sempre la produzione discorsiva, alla quale può aggiungersi l'osservazione partecipante e non;
nelle correnti concrete, si usano principalmente metodi dialogici e dialettici; nelle correnti
costruzioniste i metodi sono ermeneutici e/o dialettici. In entrambe le correnti, i valori danno forma
alla ricerca dall'inizio alla fine.
Per quanto riguarda la psicologia della salute, il modello biopsicosociale classico, che mira ad una
valutazione oggettiva e domina da una trentina d'anni, da una decina d'anni è stato criticato non tanto
per quello che afferma di essere, ma per le pratiche di ricerca che vi si riferiscono e che
sembrano essere più simili al modello biomedico che a quello psicosociale. In questo modello, troppo
spesso l'ambiente è considerato solo come variabile da aggiungere e non da articolare. L'approccio
riduzionista che si dedica sempre più alle interazioni tra psicologia e SNC, sembra sempre più

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incapace di rispondere ai quesiti della psicologia della salute. La corrente detta classica in psicologia
della salute, ha il merito di aver attirato l'attenzione sul ruolo degli elementi “moderatori”, ma mostra
i suoi limiti nel momento in cui si svuota l'analisi individuale che passa dal percepito al vissuto e il
significato della malattia nell'essere umano. Perciò la psicologia della salute dovrebbe tener conto sia
degli insegnamenti della seconda rivoluzione cognitiva che di quelli di un approccio concreto e
qualitativo in psicologia.

2. PRINCIPALI CORRENTI QUALITATIVE IN PSICOLOGIA DELLA SALUTE


Si possono distinguere tre grandi orientamenti pertinenti per la psicologia della salute, ognuno dei
quali introduce gruppi di metodi specifici (senza che gli uni escludano gli altri):
-l'attenzione particolare accordata ai dati orali raccolti in situazione concreta e quotidiana; i metodi
mettono in evidenza il ruolo delle interazioni verbali nel dialogo (approcci etnometodologici ed
analisi del discorso)
-il rifiuto di ridurre lo spazio temporale umano ad un soggetto fuori contesto e storicizzazione; i
metodi devono permettere la raccolta dei dati capaci di spiegare i processi in gioco nella co-
costruzione sperimentale (interazionismo simbolico)
-l'interesse per lo studio concreto dei casi singoli studiati nel loro contesto naturale; i metodi devono
essere adattati per esplicitare il senso del vissuto delle esperienze umane (approcci fenomenologici).
Analisi del discorso e co-costruzione di senso
Tutti gli approcci qualitativi si interessano al discorso e al modo in cui il soggetto esprime il suo
mondo in parole, ma l'analisi del discorso in senso stretto si riallaccia allo studio dei legami tra
l'espressione sociale del linguaggio ed il potere, inteso come capacità di persuasione dell'altro che si
manifesta nelle relazioni sociali. Si possono presentare due tipi di analisi, da sole o combinate: una
microanalisi per lo studio delle negoziazioni di potere nelle conversazioni ed una macroanalisi per
l'analisi del discorso in quanto sistema che struttura la società attraverso il linguaggio. Dal punto di
vista della costruzione delle realtà sociali in psicologia, si tratta di analizzare i repertori interpretativi
di ogni partecipante e i discorsi che egli produce per costruire versioni particolari della realtà. Per i
ricercatori di questa corrente, ogni tentativo di analisi e comprensione di una situazione deve passare
attraverso la considerazione del fatto che l'attività e il contesto influiscono, non solo sul nostro

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pensiero sociale e sulla sua espressione verbale, ma soprattutto sugli aspetti concreti della nostra
esistenza.
Interazionismo simbolico: etnometodi, polisemia del linguaggio e forma (e) culturale (i) Questi
approcci si focalizzano principalmente sul significato sociale dei simboli quotidiano, comportamenti
e altri riti in cui azioni e parole implicite sono scambiate fra i partecipanti all'interazione. Secondo
l'interazionismo simbolico, l'oggetto principale delle scienze sociali
dovrebbe essere lo studio delle credenze e del senso che i soggetti danno agli eventi e
l'etnometodologia sembra essere la corrente sociologica più adatta a questo scopo. Gli etnometodi si
focalizzano sui saperi pratici legati all'azione utilizzati quotidianamente dagli autori sociali, tramite
l'osservazione partecipante e l'analisi delle interazioni. La psicologia qualitativa vede il postulato del
discorso come parte di una catena significante a più livelli; quindi il senso appare come “emergenza-
creativa” tramite opposizioni linguistiche lungo la catena semantica (es. malattia implica salute,
grande implica piccolo, ecc.), ma anche tramite accostamento di un insieme di immagini metaforiche
culturalmente significative (la connotazione proveniente da “grande” rinvia ad una gerarchia, ad un
livello raggiunto, ecc.). Quindi il senso non è fisso ma sempre ambiguo e proviene dalle parole
utilizzate e dal contesto in cui si utilizzano, che include l'intenzione e le conoscenze del soggetto
parlante. Questa corrente afferma che bisogna interrogarsi sulle parole che vengono usate nella
psicologia della salute, per mostrare che la relazione tra fattori biologici, psicologici e sociale è in
continua tensione dialettica, fra “essere” un corpo e “avere” un corpo. Analisi fenomenologiche:
dall'esperienza percepita all'esperienza vissuta
I diversi approcci fenomenologici si basano sul rifiuto dell'illusione oggettivante, secondo la quale
esisterebbe un'unica “vera” percezione del mondo. Il percepito, il vissuto sperimentale ed empatico
sono esaminati in parti uguali. Si tratta di interrogazioni cliniche sul vissuto (e non solo percepito)
degli individui nella vita quotidiana, in situazione e in sviluppo. L'approccio fenomenologico si
interessa all'elaborazione dell'esperienza cosciente. L'obiettivo non è ottenere una “verità rivelata”
esterna al soggetto, dato che questa, percepita e vissuta, si trova in movimento dinamico
incessantemente ricostruito attraverso i discorsi e gli atti. Alcuni autori di questa corrente qualitativa
mettono in evidenza una fenomenologia della trasformazione del corpo, del tempo e dello spazio,
ovvero cercano di capire come cambia la percezione del mondo nel passaggio dalla salute alla malattia
grave.

3. CONCLUSIONE: VALIDITA', LIMITI ED INTEGRAZIONI POSSIBILI?


La ricerca qualitativa ha diversi limiti:

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-la mancanza di riproducibilità della maggioranza dei lavori, dovuta alla focalizzazione
sull'esperienza concreta dei soggetti
-la debolezza della generalizzazione delle ipotesi qualitative, dovuta alla grande contestualizzazione
delle ricerche
-la limitazione alla descrizione comprensiva, che evita qualunque ricerca esplicativa che produca
conoscenze generali.
Allo stesso modo, anche validità e fedeltà sono a rischio; per questo motivo, un certo numero di lavori
ricorre al criterio di “credibilità”, che risponde alle critiche metodologiche relative alla validità
interna. Però questo criterio è oggetto di indicatori variabili a seconda degli autori, tra cui 5 si
ritrovano più frequentemente nei lavori che riguardano la validità della ricerca qualitativa: -l'impegno
prolungato nella ricerca, che permette di giustificare una conoscenza approfondita del
campo e del materiale raccolto
-la triangolazione, che presuppone che le informazioni siano ottenute da diverse fonti e addirittura
con diversi metodi
-il controllo dei pari, che permette un'analisi delle pratiche e un'analisi incrociata del materiale -
l'analisi dei casi negativi, ovvero prendere in esame anche i fatti che contraddicono le ipotesi di lavoro
-il confronto con i soggetti della ricerca (meno frequente), che richiede una restituzione dei risultati
ai soggetti che hanno preso parte allo studio.
All'interno degli approcci qualitativi, la questione della validità della ricerca non è risolta, ma ci sono
ancora diverse modalità di controllo in via di formalizzazione. Quindi sembra che ci sia in ballo una
possibile integrazione dei due approcci, qualitativo e quantitativo, o almeno un'articolazione tra loro.
Per Ponterotto e Grieger, si tratta di una differenza basata su fondamenti filosofici, piuttosto che
pratici; le due visioni non saranno mai sovrapponibili ed è proprio lo scarto tra queste due grandi
correnti metodologiche che non permette a ciascuno dei due gruppi di ammettere la visione del mondo
altrui. Perché la loro articolazione sia effettivamente integrativa, l'approccio qualitativo deve essere
integrato dall'inizio alla fine della ricerca, così come i risultati devono rendere conto del vissuto del
soggetto e del peso delle costrizioni interattive nei suoi aspetti concreti. La psicologia della salute,
riguardo quest'integrazione, sembra uno dei settori più fecondo, in quanto la necessità di articolare i
dati oggettivi con quelli soggettivi è particolarmente importante, perché la psicologia dell'uomo non
può avanzare nelle proprie conoscenze senza prendere in considerazione il legame corporeo-
psicosociale.
n.b. Il contenuto del presente modulo è stato formulato e rielaborato sulla base delle informazioni, dati, teorie e
postulati, ivi compresi i rimandi bibliografici indicati dall’autore. Per eventuali approfondimenti si consiglia la
lettura integrale del seguente testo:
Fischer, N.-G., Trattato di Psicologia della Salute, ed. Borla
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Lezione N.13 IL CANCRO: ASPETTI BIOMEDICI E PSICOLOGICI

Durante il secolo scorso sono stati fatti molti progressi nel campo della lotta contro il cancro, grazie
all'intervento di più fattori:
1) ottimismo dovuto ai traguardi terapeutici raggiunti dalla chirurgia, la radioterapia e dai trattamenti
medici,
2) approccio pluridisciplinare alla malattia nelle sue varie fasi (oncologo, chirurgo, psicologo, ecc),
3) nuovo dialogo tra paziente e medico che pone le basi della relazione attorno alla malattia,
4) miglioramento delle cure complementari,
5) ridefinizione delle cure palliative,
6) definizione dei diritti dei pazienti.

1. IL CANCRO: ASPETTI FONDAMENTALI


L'aspetto istologico
Con i prelievi istologici si possono rilevare quattro tipi di tumori:
– i carcinomi, sviluppati a scapito degli epiteli,
– i sarcomi, sviluppati a scapito dei tessuti congiuntivi,
– i tumori germinali, sviluppati a scapito di alcune cellule dei testicoli o delle ovaie,
– i tumori celebrali.
La classificazione TNM
In funzione dello stadio di sviluppo della malattia, è stata riconosciuta una classificazione basata su:
– T: le dimensioni del tumore primitivo e l'invasione eventuale degli organi vicini,
– N: l'invasione o meno delle ghiandole di drenaggio del tumore primitivo,
– M: l'esistenza o meno di metastasi a distanza.
Malattia localizzata, malattia metastatica
La metastasi risulta dalla disseminazione del tumore primitivo verso gli organi, per via sanguigna o
linfatica. Essa può essere presente al momento della diagnosi iniziale o apparire in un secondo
momento.
Alcuni tumori apparentemente localizzati al momento della diagnosi iniziale presentano delle
metastasi a distanza non individuabili con esami ordinari, dette micrometastasi (fonti di ricaduta in
assenza di trattamento generale attivo).
La prognosi del tumore dipende:
1) in assenza di metastasi, dalla dimensione del tumore,

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2) in caso di attacco alle ghiandole di drenaggio, la prognosi è correlata al numero di ghiandole invase
dalla malattia,
3) in caso di individuazione di metastasi, la prognosi è molto oscura non essendo la malattia
generalmente trattabile con un trattamento curativo.
La carcinogenesi
La trasformazione di una cellula normale in una cellula tumorale è dovuta all'influenza di diversi
fattori:
– gli agenti chimici, fonti di modificazione del DNA della cellula (amianto);
– i virus, all'origine della modificazione e dell'alterazione del DNA della cellula normale
(papilloma virus);
– i fattori genetici o ereditari, che trasmettono geni alterati che creano una suscettibilità agli altri
fattori;
– fattori psicologici;
– fattori ambientali (inquinamento, dieta);
– fattori ormonali.
Lo sviluppo di un tumore non può essere ricondotto ad uno solo di questi fattori, ma ad una vera e
propria cascata di eventi che confluiscono in un'alterazione di uno o più geni.

Il fenomeno metastatico
La biologia ci permette oggi di suddividere le diverse tappe che permettono ad una cellula di migrare
dal tumore primitivo verso altri organi per permettere lo sviluppo di metastasi.
La crescita tumorale. Numerosi fattori di crescita stimolano il tumore primitivo. Questi fattori attivano
la proliferazione della cellula per mezzo di segnali intracellulari, segnali che possono essere lanciati
all'esterno della cellula e andare a stimolare altre cellule vicine che posseggono un recettore sulla
propria membrana.
L'invasione. Le cellule, provenienti dal tumore primitivo, vanno a erodere i tessuti vicini per
aumentare il volume del tumore primitivo, ma soprattutto per avvicinarsi ai vasi, aprire o distruggere
la loro parete, e passare nella circolazione generale.
La circolazione sanguigna. Con l'apertura della parete dei vasi, la cellula tumorale può circolare nei
vasi sanguigni o linfatici. E qui sarà sottomessa ad attacchi che causeranno molte morti cellulari (a
causa dei linfociti NK, e della distruzione meccanica nei piccoli vasi).
L'aggregazione. La cellula tumorale cerca ora di attaccarsi alla parete del vaso per mezzo di complessi
sistemi di aggregazione cellulare.

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L'invasione. La cellula apre di nuovo la parete dei vasi e alcune cellule esaminano le capacità di
accoglienza del nuovo tessuto ospite per decidere se impiantarsi o meno.
La crescita. Essendo penetrata in un nuovo organo, la cellula consente lo sviluppo della metastasi
sotto l'influenza di fattori di crescita e di sviluppo di nuovi piccoli vasi per procurargli le sostanze
necessarie allo sviluppo.
Le varie strategie terapeutiche
I trattamenti locali
La chirurgia
La chirurgia rimane uno dei trattamenti fondamentali per il cancro, e principalmente per il tumore
primitivo.
La chirurgia può ugualmente essere indicata per tumori a stadio avanzato, al fine di ridurre il volume
tumorale, per facilitare l'efficacia della chemioterapia.
Infine la chirurgia può essere suggerita per resecare una metastasi quando il numero di metastasi è
alquanto ridotto, e la malattia è ben controllata dal trattamento generale.
La radioterapia
È indicata nel caso di impossibilità di resezione chirurgica del tumore primitivo, per preparare un
intervento chirurgico (preoperatoria) o per completarlo (postoperatoria). Per alcuni tumori,
soprattutto, la radioterapia si rivela un'interessante alternativa alla chirurgia, allo scopo di preservare
gli organi (preservazione della laringe nei tumori ORL).
I trattamenti generali
La chemioterapia
Si tratta della somministrazione, spesso endovena, di molecole che hanno un’attività sulle cellule in
divisione e dunque sulle cellule tumorali.
Queste molecole, spesso combinate, sono somministrate sotto forma di cicli, spesso a distanza di 15
o 20 giorni.
Le chemioterapie vengono sempre più spesso somministrate in ambulatori, a domicilio, allo scopo di
migliorare la qualità di vita del paziente.
Queste molecole, purtroppo, producono effetti secondari legati all'azione sui tessuti sani e, in
particolare, la diminuzione dei globuli bianchi e delle piastrine, la perdita dei capelli (alopecia),
nausee e vomito.
Le indicazioni chemioterapeutiche sono di 2 ordini:
– a titolo curativo, la chemio accompagna il trattamento locale, riduce il volume del tumore e tratta
rapidamente anche eventuali micrometastasi associate. Oppure viene somministrata dopo il
trattamento locale al fine di ridurre il rischio di recidiva.

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– a titolo palliativo, la chemio è diretta contro le metastasi e prolunga la durata di sopravvivenza dei
pazienti con una malattia in stato avanzato.
La cellula tumorale può resistere all'azione della chemio, può adattarsi e proteggersi contro
l'aggressione della molecola antitumorale.
La terapia ormonale
È utilizzata nel tumore al seno e alla prostata per bloccare i recettori ormonali delle cellule tumorali.
L'immunoterapia
Essa fa ricorso a più prodotti e modalità terapeutiche. L'Interleucina e l'Interferon sono sostanze che
stimolano il sistema immunitario del paziente al fine di lottare contro le cellule tumorali con
l'attivazione delle sotto-popolazioni di linfociti (soprattutto NK).
Tipo di trattamento usato essenzialmente nei tumori al seno e nei melanomi in stadio avanzato.

Lezione N.14. IL CANCRO: ASPETTI PSICOLOGICI


Gli aspetti psicologici vengono descritti tenendo conto di due aspetti:
1) l'impatto psicologico del cancro e dei suoi trattamenti sui pazienti, il suo ambiente e i curanti;
2) le risonanze potenziali degli interventi psicologici sul tumore, soprattutto sulla sua prognosi e su
alcuni parametri biologici.
L'impatto psicologico del cancro

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Uno sconforto psicologico è indotto dall'annuncio della diagnosi di cancro e delle varie conseguenze
potenziali di questa malattia: possibile morte, dolore, dipendenza, mutilazioni fisiche, perdita del
lavoro, ecc.
Il paziente dovrà far fronte a questa aggressione violenta e adattarvisi per prevenire reazioni
patologiche.

I fattori legati alla malattia


Di fronte alla malattia, numerose tappe saranno fonte di sconforto. Ci sono molti punti di crisi e
tensione morale: l'annuncio della diagnosi, l'inizio del trattamento, la recidività, la transizione da
trattamento curativo a palliativo, l'entrata nella fase terminale.
Il ruolo dell'oncologo è spesso difficile soprattutto in due circostanze:
– alla prima consultazione;
– all'annuncio di cattive notizie;
Il medico non conosce il suo paziente, le sue reazioni, né la sua disposizione a conoscere la verità
sulla sua malattia.
1960: più del 90% dei chirurghi americani non annunciava la diagnosi di cancro ai propri pazienti,
pensando che questa avrebbe compromesso il risultato medico.
Oggi più del 90% degli specialisti annunciano la diagnosi al paziente.
Una relazione diretta col paziente, in un ambiente calmo e isolato, ricercando quello che il paziente
sa e vuole sapere, dando info chiare e precise, con parole semplici, rispondendo ai dubbi, è la base
per un'informazione di qualità, il cui impatto verrà così attenuato.
I fattori legati al paziente
Le capacità di adattamento psicologico del paziente alla malattia sono variabili.
Le personalità stabili, senza precedenti psichiatrici, sono pazienti che a priori affronteranno la
diagnosi e inizieranno attivamente il trattamento.
Le risposte psicologiche "normali" al cancro sono alquanto stereotipate: impossibilità di credere alla
diagnosi, una sensazione di frattura.
La tappa successiva è spesso un miscuglio di ansia e sensazioni depressive generate dalle
conseguenze della malattia.
Atteggiamento mentale, cancro e prognosi
Pettingale (1985) ha studiato l'influenza della risposta psicologica alla diagnosi di cancro sulla
sopravvivenza di questa malattia. Hanno preso un campione di pazienti portatrici di tumore al seno e
la relativa prognosi a 5 anni. Il campione è stato suddiviso in 4 gruppi individuati in base alle
caratteristiche psicologiche (gli altri parametri erano equivalenti):

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– rifiuto della malattia;
– atteggiamento combattivo;
– accettazione stoica;
– sensazione di impotenza;
Dai risultati emerse che la sopravvivenza senza ricaduta a 10 anni era superiore nei gruppi che
reagiscono al cancro e alla diagnosi (rifiuto e att. combattivo, 55%) rispetto alle pazienti con
atteggiamento passivo (22% di sopravvivenza).
Questo risultato pone quindi delle domande sull'influenza di una azione psico-educativa e la
modificazione della prognosi attraverso la modifica potenziale dell'atteggiamento mentale.
Gli approcci teorici
In via generale alcuni modelli cercano di spiegare le relazioni fra i fattori psichici e i processi o
l'evoluzione del cancro, giungendo ad una conclusione comune, ovvero che gli effetti di questi fattori
psicologici si manifestano in una diminuzione della competenza immunitaria e, in particolare,
dell'attività citotossica dei linfociti NK.
Contrada e coll. (1990) creano un modello emozionale del cancro che stabilisce un legame tra fattori
psicologici e diminuzione delle difese immunitarie. Secondo questo modello un evitamento
emozionale costituirebbe un fattore capace di generare dei processi cognitivi quali una percezione
tergiversata dei sintomi o un ritardo della consultazione che può condurre ad uno sviluppo della
malattia in assenza di trattamento medico.

3. PROGRAMMA DI INTERVENTO PSICO-EDUCATIVO E MODIFICAZIONI DELLA


PROGNOSI
Metodi che permettono di migliorare la gestione emozionale di fronte alla diagnosi e al trattamento.
I risultati di questi interventi possono avere un impatto su due aspetti:
1) il miglioramento della situazione psicologica del paziente;
2) il miglioramento dei parametri fisici;
Questi programmi fanno appello a vari interventi basati soprattutto sull'educazione e la terapia
comportamentale.

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Lezione N.15. LA COMPLIANCE E LA RELAZIONE MEDICO-PAZIENTE

La compliance, od osservanza terapeutica, è un aspetto importante dei comportamenti di salute legati


ai trattamenti medici. Questo concetto, che proviene dai lavori di psicologia della salute, ha messo in
evidenza l’esistenza di vari tipi di reazioni alle prescrizioni mediche, al tipo e alla durata dei
trattamenti terapeutici.
La compliance rientra tra i comportamenti dei pazienti che rimangono sconosciuti ai medici, è un
argomento difficile da trattare a causa di idee precostituite.

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In seguito ad una presentazione generale del concetto di compliance e delle diverse terminologie
associate, affronteremo le problematiche relative alla sua valutazione.
1) Presentazione generale del concetto di compliance
La compliance indica il comportamento di un paziente che segue il trattamento che gli è stato
prescritto, tenendo conto delle raccomandazioni mediche, quindi comprende più fattori, non solo
medicinali.
La compliance è completata da altri comportamenti legati alla salute, come presentarsi alle visite dal
medico, seguire un’alimentazione sana, fare attività fisica, ecc...
Si stima attualmente che più dell’80% dei pazienti colpiti da una malattia cronica non seguano il loro
trattamento in modo sufficiente da raggiungere un beneficio terapeutico ottimale.
Questo è uno dei problemi più seri ai quali la pratica medica moderna deve far fronte, perché tali
comportamenti di salute hanno almeno due conseguenze: innanzitutto finanziaria, in seguito sulla
salute, perché costituiscono potenzialmente una causa importante di morbilità.
Origini e terminologia
Il termine compliance è apparso nel lessico medico nel 1975, per sostituire l’espressione “fuga del
paziente” ma, sul piano storico sembrerebbe che l’interesse per la compliance possa essere attribuito
ad almeno tre fattori:
1) L’evoluzione delle terapie
la scoperta di farmaci moderni (es. antibiotici, analgesici ecc...) ha permesso un miglior controllo di
alcune malattie. Così, i regimi di trattamenti complessi a lungo termine hanno condotto i ricercatori
a interrogarsi sulla qualità di vita dei pazienti e sul loro atteggiamento generale nei confronti della
malattia;
2) Un cambiamento di mentalità
Nel XVIII e XIX secolo, la popolazione si prendeva cura della sua salute autonomamente, poi lo
sviluppo della medicina scientifica ha affermato sempre di più l’autorità medica e la sottomissione
del paziente, questo come aspetto dell’efficacia terapeutica.
Recentemente si è assistito a un cambiamento di prospettiva, lasciando uno spazio sempre maggiore
all’autonomia del paziente, le opinioni pubbliche e professionali favorendo la partecipazione attiva
ed il partenariato dei pazienti nel trattamento;
3) Un campo aperto
Nel corso di tutti questi cambiamenti scientifici e sociali, altri specialisti della salute (farmacisti,
psicologi, sociologi, epidemiologici ecc...) furono non solo associati in modo attivo alla comprensione
del comportamento dei malati, ma anche sollecitati per partecipare al trattamento, aprendo così la
strada a nuovi sentieri di ricerca.

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Non c’è omogeneità sul significato del termine compliance, per alcuni autori è una valutazione
globale dell’adesione, per altri quest’ultimo aspetto è associato all’approvazione riflettuta mentre la
compliance rinvia direttamente alla conformità, altri ancora usano il termine compliance come
sinonimo di “osservanza terapeutica”.
Il termine osservanza (Salicrù, 1997) definisce la capacità di assumere correttamente il trattamento
come viene prescritto dal medico nelle prove cliniche, per altri autori questo termine ingloba anche il
grado con il quale un paziente segue le prescrizioni mediche relativo anche alla dieta, all’esercizio
fisico oltre all’assunzione di farmaci.
Nonostante il termine compliance sia largamente diffuso nel vocabolario medico internazionale, molti
ricercatori di scienze sociali preferiscono il termine osservanza, mettendo l’accento sull’adesione
personale ai trattamenti terapeutici.
Alcuni psicologi francesi utilizzano, a seconda dei casi, adesione od osservanza terapeutica. In
quest’ottica, la compliance non andrebbe considerata come fenomeno omogeneo per tutti i
pazienti, e sarebbe necessario distinguere almeno due processi.
1) Nel primo caso la compliance è una sorta di credito accordato a priori all’autorità medica, è risaputo
che se degli agenti influenti posseggono delle conoscenze in un settore, essi possono esercitare
un’influenza sui comportamenti di salute.
È dunque la fiducia accordata al medico, al suo sapere e al suo status che condurrà i pazienti alla
compliance.
2) Il secondo tipo di compliance è legata a una forma di percorso cognitivo dei pazienti, che li
condurrebbe ad essere sensibili alla qualità degli argomenti, alla loro portata in materia di salute,
piuttosto che all’autorità medica in quanto tale. Questi soggetti tenderebbero, più degli altri, a
ricercare delle informazioni o a riflettere su quelle che vengono date loro a proposito della loro
malattia, al fine di comprendere meglio il loro stato di salute e di fronteggiarlo.
Uno studio (Rost 1989) distingue quattro tipi di pazienti: quelli che rispondono alle domande del
medico(a), quelli che cercano l’informazione(b), quelli che interrompano il medico(c) e quelli che
fanno domande(d).
I tipi (b) e (d) hanno migliori comportamenti di compliance.
Questo processo si riferisce al “Modello delle Credenze”, il fatto di disporre o di ricercare
informazioni sulla sua malattia o sul suo trattamento può essere percepito dal paziente come un fattore
di efficacia sulla sua salute o sulla sua malattia.
Applicata alla compliance, una tale credenza permetterebbe di comportarsi in modo adeguato in
materia di salute; questa variabile può essere considerata un fattore di efficacia della compliance
terapeutica. Maggiore è il bisogno di cognizione elevata (bisogno di conoscenza), maggiore è la

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tendenza alla compliance. In quest’ultimo caso conviene parlare di osservanza per indicare l’adesione
personale ai trattamenti terapeutici, mentre nel primo caso si può usare il termine compliance, riferito
a una maggiore o minore sottomissione.
2) Metodologie generali utilizzate nello studio della compliance
Due tipi di misure:
- Misure dirette: marcatori biologici presenti nell’organismo del paziente, come le analisi del sangue
e delle urine, per verificare la presenza di sostanze mediche prescritte nel corso del trattamento.
Questi dosaggi hanno il vantaggio di essere oggettivi, ma presentano l’inconveniente di essere vissuti
in modo intrusivo dal paziente.
La presenza di dati oggettivi standard e affidabili, sganciati dalla soggettività del paziente, hanno la
loro utilità, però la loro oggettività può essere messa in discussione nella misura in cui gli organismi
reagiscono differentemente in funzione degli individui (es. assorbimento, distribuzione e
metabolismo del farmaco), in questi casi il medico può aggiustare le quantità prescritte e diminuire
gli effetti secondari indotti dai sovradosaggi che comportano essi stessi una cattiva compliance.
Infine l’identificazione di sostanze mediche nell’organismo non dice nulla sulla frequenza e regolarità
delle assunzioni.
Quindi sono vissuti in modo intrusivo, necessitano di tempo e danno meno informazioni relative ai
vari aspetti della compliance.
- Misure indirette: all’interno di questi metodi abbiamo in primo luogo il questionario ed il colloquio
semi-direttivo. Nel quadro di misure realizzate presso i pazienti stessi, noi le abbiamo disegnate con
il termine “autovalutazione” per distinguerle dalle “etero-valutazioni” della compliance, realizzate
presso delle equipe mediche chiamate ad indicare i loro sentimenti sulla compliance dei pazienti. Le
tecniche di rilevazione (conteggio) rientrano in queste misure, la compliance dei pazienti viene
valutata in base alla differenza fra il numero di dosi prescritte e le dosi rimaste nei contenitori, dotati
di apparecchi elettronici sofisticati.
Molti professionisti hanno usato questo metodo, es. Kass inventò il MEMS (Medication Event
Monitoring System), dispositivo che registra quante volte un paziente apre la scatola delle pillole e la
durata dell’apertura.
Le misure indirette sono meno oggettive ma più facili da applicare per equipe mediche e non e
consentono dio ottenere dati più ampi, in particolare su cosa pensa il soggetto, così come sulla
percezione che hanno le equipe curanti della compliance dei pazienti.
3) Credenze e Rappresentazioni del malato associate alla compliance
Numerosi modelli teorici hanno cercato di spiegare le variazioni di comportamento relativi alla
compliance a partire dalle credenze e dalle rappresentazioni dei malati.

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Il Health Belief Model (Rosenstock 1974) sottolinea l’importanza delle valutazioni che fanno i
pazienti delle prescrizioni e del trattamento medico, nella misura in cui si sviluppano, nel quadro e
nel rispetto alla compliance, delle credenze relative alla pertinenza dell’intervento terapeutico e alla
minaccia rappresentata dalla malattia stessa.
Nonostante numerose ricerche abbiano mostrato la pertinenza di questo modello, pochi lo hanno
utilizzato nella costruzione di dispostivi che tendono a migliorare la compliance.
Secondo il modello dell’azione ragionata (Ajzen 1985,1991), l’atteggiamento deriva dalle credenze
e dall’informazione disponibile per il soggetto, questo modello sostiene l’idea che le intenzioni
comportamentali sono influenzate dagli atteggiamenti e dalle norme soggettive dei pazienti.
Il sentimento di efficacia personale è un’altra credenza spesso studiata in relazione ai comportamenti
di compliance, questo sentimento permette a un individuo di creare la propria realtà. Il nostro modo
di percepire le nostre proprie capacità per far fronte ad un evento e di controllarle è considerato come
influente sulla nostra maniera di reagire di fronte alla malattia.
Per Bandura questa nozione poggia su due credenze:
a) I risultati che si possono ottenere sono legati agli sforzi personali.
b) La convinzione di avere a disposizione le risorse necessarie per raggiungere uno scopo.
L’efficacia personale è la più importante, colui che crede nelle proprie capacità le svilupperà tanto
più quando si troverà di fronte a ostacoli.
Il modello di autoregolazione della salute (Lehenthal 1980) sostiene che i comportamenti dei
pazienti vengono intesi come il risultato dell’interpretazione e della valutazione che questi ultimi
fanno a proposito della loro malattia, in quest’ottica comportamenti di compliance vs non compliance
sono messi in atto non per far fronte alla malattia, ma alla rappresentazione di malattia. Questo
modello nasce dai lavori sull’impatto delle comunicazioni allarmanti sui comportamenti di salute,
solo quando queste comunicazioni sono stati accompagnati da istruzioni chiare su alcuni piani
d’azione hanno realizzato nuovi comportamenti di salute.
Weinman (1996) a partire da tale modello ha ideato un questionario di valutazione sulle
rappresentazioni di salute dei pazienti, facilitando le ricerche sul legame tra rappresentazione della
salute e compliance.
Ciò che interessa ai ricercatori, tanto nel settore delle ricerche sulle attribuzioni causali, quanto nel
settore delle ricerche sul locus of control, è il modo in cui la gente rende conto di ciò che fa (i propri
comportamenti) o di ciò che le succede (i propri rinforzi).
Ciò che contraddistingue i due tipi di causalità (interna o esterna) è il ruolo conferito all’attore come
fattore causale dell’evento, ruolo che può essere accentuato (l’evento dipende dalle persone),
minimizzato o negato (l’evento deriva da fattori ambientali). Il legame esistente tra questi due modelli

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e la compliance è lontano dall’essere chiaro e i risultati sono spesso contradditori. In teoria, un
soggetto malato dovrebbe essere tanto più osservante quanto più egli si percepisce responsabile della
sua salute.
La relazione tra compliance e sistemi di spiegazione, in alcuni studi è stata evidenziata e in altri no.
In generale: le credenze e le rappresentazioni si impongono al malato come dato percettivo, queste
sono socialmente determinate, quest’ultime si elaborano a partire dai propri codici di interpretazione
dei malati, che sono culturalmente segnati, cosa che costituisce un fenomeno sociale in sé che andrà
a influire sul vissuto dei pazienti.

Lezione N.16. -Il vissuto della malattia


L’inizio di un trattamento, per molti pazienti significa l’ingresso nella malattia, che implica
modificazione identitarie e adattamento.
Questa fase è accompagnata da uno sconvolgimento emotivo che può influire su una buona
compliance, il paziente passa da uno stato in cui l’attesa è tacita (mettere a distanza la malattia), alla
necessità di un’assunzione farmacologica coercitiva che riattiva il trauma legato alla malattia.
È necessario attribuire un’importanza particolare a questo momento e tener conto del contesto sociale
nel quale si trovano i pazienti.
Le malattie sono portatrici di dimensioni psicosociali, lo sguardo che la società ha su certe patologie
incide sullo sguardo che i malati portano su loro stessi.
Il rigetto o il sostegno sociale percepito crea le condizioni del suo adattamento e, dunque, della sua
compliance (es. inserire la persona in nuovi contesti relazionali per promuovere comportamenti di
salute). Determinate situazioni possono dare valori diversi alla vita, che si manifesta spesso in una
rivalutazione spesso radicale di ciò che è importante e di ciò che non lo è per vivere.
Un tale contesto nello studio della compliance sposta l’attenzione non tanto sulla compliance stessa,
ma sui processi adattivi psichici e sociali a monte che la determinano e la orientano.
La questione dell’informazione sulle conseguenze della malattia non è mai semplice da affrontare,
quale che sia il trattamento. Tuttavia essa permetterà di ancorare la relazione medico-paziente sulla
fiducia, nella quale l’avvento dell’inaspettato (effetti secondari) e la mancanza di anticipazione
possono condurre al sospetto e rigetto di una relazione che deve essere la base della compliance dei
pazienti.
5) Le relazioni medico-paziente come fattore di compliance
Una buona comprensione dei processi di compliance deve tener conto del: a) Livello d’informazione
b) Dimensione affettiva

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L’aspetto informazione-comprensione
È stato riscontrato che una cattiva compliance è legata a una mancanza di spiegazione da parte dei
medici e di comprensione da parte dei pazienti.
Nonostante la diffusione dei media del linguaggio medico nella popolazione, il linguaggio troppo
anatomico usato dai medici non è facilmente comprensibile e i medici sottostimano troppo spesso il
bisogno dei pazienti di disporre informazioni.
Studio di Ley (1975) il 40% di ciò che viene detto durante consultazione medica è immediatamente
dimenticato.
Compliance, soddisfazione, ricordo delle informazioni e comprensione sembrano interdipendenti.
È importante che i medici forniscono istruzioni precise (orari, numero di compresse, restrizioni
alimentari ecc...) anche se questi dati sono spesso poco memorizzati.
Una situazione negativa conduce a un sentimento di insoddisfazione da parte dei pazienti: da una
parte perché il fatto di non comprendere e dunque di dipendere dall’expertise del medico li sottomette
al controllo sociale del corpo medico, dall’altra, possono essere diffidenti nei confronti dei trattamenti
e quindi, verso il medico e la medicina in generale.
L’attenzione del medico sembra focalizzarsi essenzialmente sui dati biomedici del paziente, piuttosto
che sull’ascolto della sua sofferenza psicologica.
Si possono distinguere due atteggiamenti nei medici: 1. Indiretto e 2. Diretto.
Il primo consiste nel fare domande precise ai pazienti sulla loro compliance (cause e conseguenze),
il secondo affronta in modo più evasivo l’argomento.
Il primo atteggiamento sembra migliorare il tasso di compliance del 20%, parlare direttamente della
compliance permette al paziente di sentirsi preso in carico dal medico in quanto malato, se la
compliance non è un argomento tabù per il medico, non vi è alcuna ragione che lo sia per il paziente.
Se il medico non ha tempo può comunque orientare i pazienti verso altri membri dell’equipe, es.
psicologo.
La dimensione affettiva
La compliance dei pazienti è determinata dalla soddisfazione tratta dalla visita medica e dal modo di
interagire e di comportarsi del medico con i loro malati.
Due fattori molto importanti favoriscono nel paziente la responsabilità verso il proprio benessere:
l’atteggiamento positivo del medico verso il paziente e il fatto di mostrargli che se ne preoccupa
realmente. La dimensione affettiva è importante perché più il medico incoraggia e supporta il paziente
dimostrando calore ed empatia, più il paziente sarà osservante.

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Studi hanno evidenziato che anche i medici possono provare frustrazione di fronte a comportamenti
di non-compliance dei pazienti che li conducono a mantenersi sulle difensive ed attuare determinate
strategie come:
- “Medical threat” insistenza dei medici sulle conseguenze mediche della non-osservanza;
- Invitare i pazienti a esprimere il loro punto di vista e poi non integrarlo nella nuova pianificazione
dei trattamenti;
- Assumere una posizione di dominio.
Purtroppo nella realtà, l’atteggiamento dei medici raramente considera un paziente come un partner
ma come “oggetto” o “soggetto obbligato” della medicina, in questa realtà la compliance non è solo
responsabilità del paziente ma costituisce una porta d’ingresso inaspettata per riflettere sui
trattamenti.
ADERENZA ≠ COMPLIANCE

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Lezione N.17. - ASPETTI PSICHICI E TRATTAMENTO DEL DOLORE

Nelle società protostoriche il dolore era considerato come qualcosa di esterno e "malvagio" che
attaccava il corpo, una punizione, un segno degli dei.
Questo approccio permane fino alla nascita della medicina greca introdotta da Ippocrate, che definisce
il dolore come uno stato che va contro l'armonia naturale. In seguito, il Medio Evo rappresentò circa
mille anni di oscurantismo scientifico per l'Occidente.
Le concezioni attuali sul dolore, così come i primi progressi nella lotta al dolore, appaiono solamente
nel XIX secolo.

1. ALLA RICERCA DI UNA DEFINIZIONE DEL DOLORE E DELLE SUE DIMENSIONI


Nel 1974 viene creata la IASP (International Association for the Study of Pain), e nel 1975 compare
il primo numero della rivista scientifica Pain.
Si stabilisce un consenso unanime nel definire il dolore come una "esperienza sensoriale ed
emozionale sgradevole associata ad una lesione tessutale reale o potenziale, o descritta in termini tali
da evocare siffatta lesione" (1974, IASP).
Questa definizione ricollega le dimensioni organica e psicologica, e soprattutto pone in primo piano
l'individuo che soffre e, in particolare, la sua personale percezione del dolore.
DOLORE ACUTO: Il dolore acuto è generalmente provocato da stimolazioni dannose per i tessuti,
è intenso e avviene in modo brutale ed è da considerare come il semplice sintomo o "segnale di
allarme" di un disfunzionamento sottostante. Il dolore acuto è utile quando segnala l'esistenza di una
lesione.
DOLORE CRONICO: Un dolore quotidiano che tende a persistere per più di tre/sei mesi non è più
da considerare un segnale di allarme, ma un fenomeno multidimensionale, considerato come Il dolore
è di natura polimorfa: può essere indotto da fattori periferici, centrali , neurologici o psicologici.
Distinguiamo 3 tipi di meccanismi che generano il dolore:
• l'eccesso di stimolazioni nocicettive, dolore di origine nocicettiva;
• le disfunzioni a livello del sistema nervoso periferico o centrale, dolore di origine neurogena;
• le difficoltà sociali e psicologiche, dolore di origine psicogena;

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2. NEUROFISIOLOGIA DEL DOLORE
Ricezione e trasmissione del dolore
I principali recettori del dolore (nocicettori) sono delle terminazioni libere disseminate in tutti i tessuti
e organi (tranne che nel cervello).
Le lesioni tissutali indotte dagli stimoli nocicettivi, liberano ioni e molecole che attivano sostanza
dette algogene. Queste andranno non solo ad agire sui nocicettori stessi, ma anche a provocare una
reazione infiammatoria di vicinanza.
I messaggi nocicettivi sono generati a livello delle terminazioni libere di fibre Aδ e C. Aδ: fibre
mielinizzate di calibro fine, alta velocità di conduzione.
C: fibre senza guaina mielinica, di calibro molto fine ma a conduzione lenta.
Le fibre nocicettive terminano negli strati superficiali (I e II) del corno dorsale del midollo spinale.
L'informazione viene diffusa o verso la parte anteriore del midollo che contiene i motoneuroni che
comandano le attività riflesse, o verso il cervello.
Proiezione del dolore
Gli influssi dolorosi sono distribuiti nell'insieme dell'encefalo:
– sulle regioni parietali, capaci di riconoscere la topografia e il tipo di dolore;
– verso l'ipotalamo, sede della reazione vegetativa (sudore, nausee, tremolii, ecc);
– verso le varie strutture, come il lobo frontale e il sistema limbico, responsabili della componente
affettiva della sensazione dolorosa e della sua memorizzazione;
È chiaro che le vie di conduzione dei messaggi nocicettivi sono multiple, e che non esiste un centro
specializzato del dolore.
Modulazione del dolore
L'aspetto mutevole del dolore nell'essere umano lascia pensare all'esistenza di meccanismi inibitori
della trasmissione nocicettiva, in particolare a livello midollare.
Il corno posteriore del midollo spinale non sarebbe solo una zona di passaggio della sensazione
dolorosa, ma anche un filtro neurofisiologico di questa sensazione grazie a due meccanismi:
1) Meccanismi di controllo segmentario: chi non ha mai sperimentato il sollievo ottenuto sfregandosi
con la mano il punto sbattuto? Agendo in questo modo, i sistemi di controllo segmentari annullano la
trasmissione del messaggio nocicettivo tramite stimolazione delle neurofibre Aα e Aβ (responsabili
della trasmissione delle sensazioni tattili e propriocettive).

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2) Meccanismi di controllo di origine sovraspinale: gli influssi nocicettivi all'arrivo nel midollo sono
sottomessi a controlli di origine sovraspinale in provenienza del cervello. Inibizione legata a 3
mediatori chimici: serotonina, noradrenalina, morfine endogene (endorfine e encefaline).
Teoria della porta- controllo del dolore
Negli anni '60, Melzack e Wall, con la teoria del gate-control of pain, hanno suggerito che la
trasmissione dei messaggi nocicettivi dipende da interazioni fra messaggi inibitori e messaggi
eccitanti. Il dolore sarebbe provocato da squilibrio nella bilancia eccitazione-inibizione, o per eccesso
di stimolazione o per difetto di controlli inibitori. Il trattamento quindi non mira più soltanto a alla
soppressione dei messaggi eccitanti, ma anche al rinforzo dei controlli inibitori.
Se il cancello è aperto l'info è trasmessa al cervello, mentre se esso non lo è che parzialmente una
minore info, o nessuna, arriverà a livello del SNC. Se la quantità di informazioni che passano il
cancello superano una certa soglia vi è attivazione nel cervello delle zone responsabili
dell'interpretazione del dolore.

Lezione N.18. - VALUTAZIONE DEL DOLORE


3.1 Intensità del dolore

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La scala visuale analogica (SVA) è una specie di termometro del dolore, ha la forma di una barra di
cui un'estremità rappresenta l'assenza di dolore e l'altra il dolore massimo.
Al paziente viene chiesto di indicare il livello di intensità del suo dolore.
Localizzazione del dolore
Con l'aiuto di uno schema che rappresenta il corpo umano di fronte e di spalle il paziente deve
localizzare le zone dolorose, l'utilizzo di colori permette di esprimere le varie intensità.
Descrizione verbale del dolore
– Melzack (1975): Mac Gill Pain Questionnaire (MPQ), comporta 82 qualificativi che permettono di
definire il dolore.
– Boureau, Luu, Gay, Doubrere (1984): Questionario di Dolore di Sant'Antonio (QDSA), di 58
qualificativi raggruppati in sedici classi, 9 classi riguardano gli aspetti sensoriali del dolore, le altre 7
valutano la dimensione affettiva.
Valutazione della componente cognitivo-comportamentale del dolore
L'approccio cognitivo-comportamentale permette di comprendere le credenze personali e le strategie
di coping relative al dolore; queste ultime influenzano in modo notevole l'adattamento dei pazienti.
Tuttavia, nelle valutazioni rimane difficile scindere nettamente i processi cognitivi dalle strategie di
adattamento al dolore.
Valutazione delle credenze legate al dolore
Tali credenze possono essere in discordanza con le conoscenze scientifiche e colpire negativamente
l'osservanza terapeutica dei trattamenti del dolore cronico.
Williams e Thorn: Pain Beliefs and Perceptions Inventory, scala che valuta quattro dimensioni delle
credenze personali legate al dolore:
– la colpevolezza, sentimento di responsabilità verso il dolore;
– la percezione del dolore come mistero, assenza di comprensione del dolore;
– le credenze relative alla durata del dolore;
– la perpetuità del dolore, la sua presenza permanente;
I pazienti che credeono nella durevolezza e nella misteriosità del dolore adottano strategie male adatte
e poco efficaci.
Inoltre la perennità del dolore sarebbe associata all'intensità, la durata all'ansietà, il mistero allo
sconforto e la colpevolezza ai sintomi depressivi.
Valutazione dell'ansietà legata al dolore
Pain Anxiety Symptoms Scale, o PASS; l'ansietà relativa al dolore si esprime attraverso 3 tipi di
risposta: fisiologica, comportamentale e cognitiva.
3.4.3 Valutazione della paura del dolore

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Waddell e coll. Propongono un modello esplicativo dei processi responsabili dell'inattività nel
paziente lombalgico cronico. Nella lombalgia cronica, il dolore e l'inattività appaiono spesso
associati; influenzati da una patologia organica, ma anche da processi cognitivi quali le credenze.
Secondo questi autori il paziente immagina per anticipazione che una certa attività andrà ad
aumentare il suo dolore e la sua sofferenza, e la ripetizione di questa anticipazione comporterà
l'evitamento. L'evitamento della paura è una forma di condizionamento operante.
Vlayen e coll. suggeriscono che la ferita responsabile dell'esperienza dolorosa comporterà nel
paziente un livello di drammatizzazione più o meno alto, se il livello è basso il paziente potrà
confrontarsi col dolore e impegnarsi nella riabilitazione, al contrario, se è alto, questo favorirà
l'adozione di un comportamento di evitamento responsabile dell'inattività.
In realtà, l'evitamento deriva da credenze che si basano sul modo in cui gli individui considerano le
attività fisiche e il loro impatto sulla malattia, tale concetto potrebbe essere quindi assimilato ad una
forma di errore cognitivo.
Valutazione delle strategie di adattamento di fronte al dolore
• Coping Strategies Questionnaire: comprende 5 strategie cognitive (utilizzo di monologhi
rassicuranti, drammatizzazione, distrazione, reinterpretazione delle sensazioni dolorose, ignoranza
delle sensazioni); e 2 strategie comportamentali (preghiera, aumento dell'attività);
• Chronic Pain Coping Inventory: 75 item che misurano undici strategie diverse (di cui 8: 3 incentrate
sulla malattia, 4 sul benessere, 1 sulla ricerca di sostegno sociale);

4. MEMORIA DEL DOLORE E DOLORE-MEMORIA


È possibile riconoscere con precisione uno stimolo nocicettivo già percepito, cosa che prova che l'info
è stata immagazzinata. La memoria esplicita di tipo episodico conserva e richiama tutte le info
contestuali che permettono di descrivere a distanza un dolore acuto.
L'evocazione di un dolore a distanza però non sarà mai limitata all'intensità nocicettiva: si può infatti
rivivere la situazione contestuale ed emozionale del dolore senza risentire la sensazione fisica. La
memorizzazione è molto più della sofferenza quindi che non quella della nocicezione.
Dolore-memoria: in assenza di stimolazioni periferiche, il sistema nervoso genere lui stesso il dolore-
memoria. L'esempio che illustra bene questo concetto è quello dell'arto fantasma, ci permette di
comprendere lo stoccaggio corticale di qualunque dolore che si credeva cancellato.
Lo stoccaggio mnestico, utile a riconoscere e combattere il dolore, è tanto più importante quanto più
lo stimolo nocicettivo è intenso e ripetuto.

5. TRATTAMENTI DEL DOLORE

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È necessario, dopo aver definito l'intensità e la causa del dolore, dopo averlo riposto nel contesto di
vita del paziente, della sua malattia, della sua sensibilità personale e della sua biografia, precisare i
fattori timici che gli sono associati: dalla semplice ansietà fino alla depressione.
Solo dopo tutte queste investigazioni un trattamento appropriato potrà essere proposto al paziente.
Nei centri "antidolore" la presa a carico del paziente è globale. Tutti i pazienti dolorosi presi a carico
in queste strutture non vedono dileguarsi il proprio dolore, ma la maggior parte di loro è sollevata,
impara a controllare il dolore e recupera una migliore qualità di vita.

n.b. Il contenuto del presente modulo è stato formulato e rielaborato sulla base delle informazioni, dati, teorie e
postulati, ivi compresi i rimandi bibliografici indicati dall’autore. Per eventuali approfondimenti si consiglia la
lettura integrale del seguente testo:
Fischer, N.-G., Trattato di Psicologia della Salute, ed. Borla

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Lezione N.19. -IL COPING NELLA MALATTIA CRONICA1

La vita è un processo in continua trasformazione, la salute risulta in un equilibrio provvisorio che


può essere minacciato dall’insorgenza di una malattia.
La malattia può essere definita come lo sgretolamento del processo vitale che genererà una situazione
specifica di lotta fra gli agenti patogeni che tendono a distruggere il vivente e le forze di riparazione
e di adattamento proposte alla guarigione.
Vari ricercatori hanno cercato di chiarire il processo di adattamento alla malattia cronica con il quale
il malato cerca di fronteggiarla, sopportarla e quando è possibile, superarla.
Stanton, Collins e Sworowski (2001) rilevano cinque criteri di adattamento positivo alla malattia
cronica: a) successi ai comportamenti adattivi alla malattia cronica
b) assenza di sconforto psicologico
c) esperienze affettive positive e poche negative (es. paura della malattia)
d) rispetto del ruolo in vari ambiti (es. ritorno a lavoro)
e) soddisfazione per la vita
1) Prospettive teoriche sui fattori di adattamento alla malattia cronica
Le teorie sull’adattamento alla malattia cronica provengono da lavori generali sull’adattamento a
situazioni stressanti.
La teoria cognitiva dello stress di Lazarus e Folkman (1984)
Per questi autori lo stress è una “transizione specifica fra la persona e l’ambiente che è valutata dalla
persona come debordante le sue risorse e che può mettere in pericolo il suo benessere”.
In quest’ottica viene sottolineato che la valutazione personale della situazione stressante ha un
impatto maggiore sull’organismo che non i fatti stessi.
In questo approccio, lo stress è descritto come processo che include gli stimoli stressanti e le risposte
generate, ma anche la relazione fra la persona e l’ambiente.
Questa relazione dinamica è in continuo cambiamento, bidirezionale fra la persona e l’ambiente ed è
modulata da due processi spiegati in seguito:
2 I processi di valutazione cognitiva
Lazarus descrive due forme principali di valutazione, la primaria e la Secondaria (vedi lezioni
precedenti).

1
Fischer, N.-G., Trattato di Psicologia della Salute, ed. Borla

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Una stessa situazione è valutata diversamente da persona a persona, quando un evento è valutato
come stressante, può trattarsi di una perdita, di una minaccia o di una sfida. Le valutazioni di perdita
o di minaccia generano emozioni negative: ansia, collera, paura ecc...
Le valutazioni di sfida o di challenge generano emozioni positive: ardore, gioia, esaltazione...
Dopo la valutazione primaria, subentra la secondaria, cioè quanto una persona si reputa capace di
controllare la situazione, questa dipende sia dalle credenze personali, sia alle possibilità reali di
controllo sulla transizione specifica.
Le strategie di adattamento o Coping
Il concetto di Coping fa riferimento al modo di adattarsi alle situazioni stressanti e alla messa in atto
di una risposta per farvi fronte, le strategie di coping sono processi che la persona interpone fra Sé e
la situazione percepita come minacciosa.
Definizione di Lazarus e Folkman “insieme di sforzi cognitivi e comportamentali destinati a
controllare, ridurre o tollerare le esigenze interne o esterne che minacciano o eccedono le risorse di
una persona”.
Lavoro più recente di Lazarus e Smith (1990): in questo modello introducono da una parte l’influenza
dei bisogni, degli impegni e degli scopi di vita personali e, dall’altra, l’influenza delle conoscenze,
degli atteggiamenti e delle credenze sui processi di valutazione cognitiva.
La teoria dello stress e del coping di Moos e Schaefer (1993)
Ci sono diversi tipi di fattori che modulano la transizione in riferimento al sistema ambientale, sistema
personale e sistema di crisi. Le risorse e le rotture che provengono dall’ambiente (eventi di vita,
sostegno ecc..) e della persona stessa (personalità, stili di vita, credenze...), così come i fattori relativi
alle situazioni di crisi e di transizione nella vita, completano le nozioni della teoria di Lazarus e
Folkman, offrendo una concezione più ampia dei fattori che influenzano lo stress e il coping.
Il modello esteso dello stress e del coping
Le valutazioni e gli sforzi di coping sono modulati dalle risorse e dalle fratture personali, così come
dalle fratture indotte dal contesto, queste ultime (del contesto) le possiamo raggruppare tra:
4) Risorse tangibili (soldi, tempo...)
5) Eventi di vita importanti (Lutto, divorzio...) e noie quotidiane (spostamento con mezzi...)
6) Sostegno sociale (ricevuto e percepito).
I processi di valutazione e di coping sono influenzati anche da fattori più personale, come
caratteristiche biologiche (sesso, età) e fisiologiche (costituzione fisica), patrimonio genetico, fattori
di personalità, stili di vita, affettività generale negativa e positiva.
Il modello di adattamento alla malattia cronica di Maes, Leventhal e De Rridder

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La messa in atto di determinate strategie di adattamento alla malattia cronica dipende dalla
combinazione di:
7) Fattori contestuali
8) Caratteristiche della malattia*
9) Caratteristiche del Trattamento*
10) Caratteristiche Personali
11) Eventi primordiali di vita indipendenti dalla malattia (es. comuncazione della diagnosi dopo il
decesso di un familiare o la perdita di lavoro).
I due fattori contrassegnati (*) sono quelli che hanno un impatto maggiore sui processi di valutazione
e di adattamento, quindi: tipo di malattia, sintomi associati, durata della malattia, le cause, le
conseguenze e gli effetti del trattamento.
Inoltre sono importanti gli scopi personali di vita (es. diabetico che gli piace avere ospiti a cena),
maggiori sono gli scopi personali minacciati dalla malattia e dall’osservanza del trattamento,
maggiore sarà il rischio di una dissonanza che genererà uno sconforto emozionale e dei tentativi
infruttuosi di aggiustamento.

2) Ricerche empiriche sui fattori di adattamento alla malattia cronica


Tra i vari studi in psicologia e medicina sull’adattamento alla malattia cronica, è stato enfatizzato
molto il concetto di coping negli ultimi 20 anni e integrato nel settore della salute.
Le strategie di coping
Ci sono due principali tipologie di risposta di coping che possono essere messe in atto, queste sono
state distinte da Lazarus e Folkman in:
12) Coping incentrato sull’emozione
Risposte orientate verso le reazioni emozionali, verso lo stato interno della persona che hanno come
funzione principale la regolazione delle emozioni.
13) Coping incentrato sul problema
Risposte orientate verso l’evento stesso che hanno come funzione principale la risoluzione del
problema.
Gli stili di coping
In letteratura è possibile trovare un’altra distinzione.
Alcuni autori (es. Endler e Parker 1992) sostengono “Stili di Coping”: le persone non affrontano le
situazioni stressanti in modo neutro, ma preferiscono mettere in piedi stili di coping relativamente
invarianti nel tempo e attraverso una moltitudine di situazioni.

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Altri autori (es. Lazarus e Folkman) sostengono che il Coping deve essere pensato come un processo
dinamico, che cambia natura nel corso della transazione stressante, la persona deve essere libera e
flessibile per adattare le sue risposte in funzione delle situazioni mutevoli.
La psicologia della salute si interessa dei due tipi di approcci inter-individuale e intra-individuale che
non sono necessariamente contraddittori.
Nel quadro della prevenzione è pertinente identificare gli stili di coping più stabili ed usuali: essi
possono rivelarsi più o meno funzionali e hanno un impatto particolare sulla salute a lungo termine.
Quando compare una malattia (situazione stressante di primo ordine) , il paziente deve fronteggiare
e, spesso, mette in atto delle strategie che non utilizzava prima, in questo caso parliamo di strategie
di coping elaborate dalla persona per rendere tollerabile la tensione emozionale indotta dalla malattia,
o per tentare di migliorare la situazione.
La misura del coping
Dagli anni ’80 sono state messe a punto varie tecniche e vari test per misurare il coping.
- Lazarus e Folkman hanno sviluppato due scale, la Ways of Coping Checklist (WCC 1984, WCC-R
1985) e la Ways of Coping Questionnaire (WCQ 1988).
In francese esistono due adattamenti a queste due scale, per quanto riguarda la WCC, la nuova
versione proprone 3 fattori: Coping centrato sul problema, Coping centrato sull’emozione e Coping
centrato sulla ricerca di sostegno sociale.
Un secondo adattamento è stata fatta alla WCC-R, questo adattamento propone 10 fattori di cui i
primi 3 più importanti: risoluzione dei problemi, evasione, ricerca di sostegno sociale e autocontrollo,
fuga/evitamento, ripianificazione, accettazione, diplomazia, confronto, evoluzione personale.
- Endler e Parker hanno sviluppato il questionario Coping Inventory for Stressful Situations (CISS
1990) in un modello di interazione fra l’ansietà, lo stress e il coping.
Un adattamento (1998) francese di Rolland prevede un questionario diviso in 3 scale: la scala di
“coping orientato verso il compito”, la scala di “coping orientato verso l’emozione”, la scala di
“coping orientato verso l’evitamento” . Il CISS può essere influenzato da variazioni situazionali.
- Endler, Parker e Summerfeldt (1998) propongono una scala specifica ai problemi di salute, la scala
CHIP (Coping with Health Injuries and problems), che valuta 4 tipi di strategie di coping:
3) Il coping incentrato sul problema
4) Il coping incentrato sulla distrazione
5) Il coping incentrato su sé stesso
6) Il coping incentrato su delle preoccupazioni angoscianti
- Carver crea il Brief COPE (1997), un inventario breve di valutazione delle strategie di coping,
l’autore ne elenca 14:

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1. Il coping Attivo, simile al coping incentrato sul problema di Lazarus.
2. La pianificazione, definire delle tappe da seguire e un modo migliore di agire sul problema.
3. La ricerca di sostegno sociale per ragioni strumentali, ricerca di assistenza, informazioni e consigli,
strategia incentrata sul problema.
4. La ricerca di sostegno sociale per ragioni emozionali, ricerca di sostegno sociale e comprensione,
strategia incentrata sull’emozione.
5. L’espressione dei sentimenti, nel breve termine o al momento che la diagnosi viene comunicata
può essere utile, ma a lungo andare allontana l’instaurarsi di un coping attivo.
Risposte di coping che possono diventare disfunzionali in alcune circostanze:
6. Il disimpegno comportamentale, riduzione degli sforzi per fronteggiare la malattia.
7. La distrazione, attività che distraggono la persona dai pensieri sulla malattia.
8. Il biasimo, sentimento di colpevolezza per la malattia e minore aggiustamento.
9. La reinterpretazione positiva, gestire lo sconforto emozionale piuttosto che combattere l’agente
stressante, reinterpretare una situazione spiacevole positivamente dovrebbe permettere alla persona
di continuare la sua lotta contro la malattia.
10. L’umorismo, non prendere sul serio per mettere a distanza la malattia.
11. Il diniego, rifiuto dell’esistenza della malattia.
12. L’accettazione, (opposta al diniego), accettare per impegnarsi ad affrontare la malattia, è una
risposta di coping funzionale.
13. La religione, tattica di coping che compare in molte persone e in diverse forme.
14. Il consumo di sostanze, ridurre le angosce.
Nonostante siano utilizzate spesso, le scale di coping precedentemente elencate non sono specifiche
al settore della salute. Oggi ci si orienta ad affrontare la valutazione del coping in funzione della
specificità delle patologie (misure specifiche per ogni tipo di malattia), del momento della vita (la
malattia nelle diverse età) e più recentemente anche della cultura (gli studi sull’adattamento a una
malattia grave in paesi con culture non occidentali sono rari).
Per concludere, questa profusione di scale specifiche permette l’approfondimento di conoscenze, ma
rende spesso difficile il confronto dei risultati.

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Lezione N. 20. -Adattamento a malattie croniche specifiche

Adattamento alla Malattia Tumorale


Negli anni ’80, prima della scoperta di molti trattamenti (es. chirurgici, chemioterapia...), questa
malattia prevedeva la consultazione, la necessità o meno di comunicare la diagnosi,
accompagnamento alla fine della vita.
Attualmente gli studi si focalizzano su vissuto di malattia del paziente e della sua famiglia, sul
riadattamento e sulla riabilitazione del paziente.
Secondo Razavi e Delvaux (1998) esistono dei momenti cardine che vive il paziente:
1) Fase di crisi esistenziale (primi sintomi, ricerca e diagnosi)
2) Fase del trattamento medico (sforzo di aggiustamento che richiede la malattia)
3) Fase di ricaduta (con perdita di speranza)

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4) Fase pre-terminale e terminale (con deterioramento fisico)
5) Fase di remissione e guarigione (spesso accompagnata da crisi che nascono da ciò che può essere
assimilato ad un periodo di recupero).
Ogni persona ha il proprio modo di vivere la malattia, ci sono varie scale ideate per valutare
l’adattamento alla malattia cancerosa, per es. la MAC ( Mental Adjusted to Cancer) di Watson (1988),
questa scala comprende 5 strategie di coping: lo spirito combattivo, l’evitamento, il fatalismo, la
rassegnazione/sconforto e le preoccupazioni ansiose.
Un altro concetto importante in psico-oncologia è il Diniego, un modo di minimizzare o annullare
consciamente o inconsciamente una parte o la totalità della significazione di un evento per diminuire
la paura, l’ansia o qualsiasi altro affetto sgradevole, quindi è un meccanismo psichico che rende le
minacce esistenziali più tollerabili e gestibili.
Il diniego permette all’individuo di misurare la gravità della situazione, evitandogli di essere
sommerso dall’impatto psichico della malattia e delle sue conseguenze.
Fischer (1999) distingue: DINIEGO ≠ EVITAMENTO.
Nell’evitamento l’individuo rifiuta liberamente di pensare o parlare di un evento stressante senza
negare l’esistenza.
Per spiegare il diniego Dorpat (1985) propone l’ipotesi di un “meccanismo di arresto cognitivo”.
Molti autori hanno provato a spiegare il meccanismo del diniego, in generale questo ha la sua utilità
perché in situazioni di passività obbligata, diniegare risulta essere più adattivo del voler affrontare le
esigenze della realtà. In psicologia della salute il diniego è una strategia di aggiustamento, un processo
cognitivo più o meno ben adattato alla situazione, conferendo al concetto un’estensione più positiva
e ampia di quella del meccanismo di difesa.
Naturalmente a lungo termine, il diniego rischia di indurre a comportamenti non appropriati (negare
la gravità della malattia può comportare la non-osservanza del trattamento terapeutico).

Adattamento alla Malattia Cardio-vascolare


Studio (1999): ricerca degli effetti di 2 tipi di Coping (Vigilante e Evitante) sull’ansia, la depressione
e il benessere nei pazienti coronarici valutati in tre tempi (1 mese, 3 mesi e 12 mesi) dopo l’incidente
cardiaco sia in studi longitudinali che trasversali.
Risultati dello studio trasversale: Coping vigilante ha una relazione positiva con l’ansia e negativa
con il benessere.
Risultati dello studio longitudinale: Coping vigilante a T1 e T2 correlava positivamente con il
benessere a T3.

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In conclusione, malgrado non sia benefico a breve termine, il coping vigilante attenua lo sconforto
emozionale a lungo termine. La valutazione delle conseguenze psicologiche delle malattie
coronariche e la messa a punto d’interventi non sono fondati solo su studi trasversali, ma anche su
studi longitudinali fra le strategie di coping sviluppate e lo svolgimento psicologico di queste
patologie.
Gli interventi psicologici sono importanti e anche la specificità del paziente (sesso, età, difficoltà di
aggiustamento...) ha un impatto temibile sulla qualità di vita del paziente cardiaco.

4) Interventi che migliorano le strategie di aggiustamento


Gli interventi basati sul migliorare il coping incentrato sul problema cercano di incrementare la
capacità del paziente di gestire i problemi di salute Educazione del paziente o autogestione
Questi programmi cercano di fornire al paziente un ruolo attivo nel controllo della malattia e
nell’impedimento di conseguenze e complicazioni.
I cambiamenti di comportamenti richiesti sono diversi variano nelle diverse malattie, ma in generale
includono:
14) Osservanza terapeutica
15) Abbandono di comportamenti a rischio per la salute (es. fumo e sale)
16) Adottare abitudini sane (es. attività fisica, momenti di relax)
17) La volontà di privilegiare i comportamenti di autogestione (es. controllo glicemia)
Tra le tecniche di autogestione proposte ai pazienti colpite da malattia croniche abbiamo:
Autosorveglianza
Valutare il numero di volte in cui compaiono il comportamento mirato, le cause e le conseguenze
di tale comportamento (es. annotare il n. di sigarette, le circostanze che spingono a fumare ecc...)
Contratto
Il paziente comunica degli obiettivi personali (es. perdere 2kg in un mese) all’equipe curante che lo
aiuterà a raggiungerli. Già il fatto di porsi degli obiettivi, sottintende un processo di cambiamento,
questo deve essere fatto tramite tappe realizzabili e specifiche.
Apprendimento per osservazione
Il paziente può imparare tecniche di autogestione osservando quelli che l’hanno avuta (es.
assunzioni di insulina).
I programmi di autogestione sono una combinazione di queste tecniche, le malattie croniche
principalmente oggetto di tali programmi sono l’ipertensione arteriosa, i problemi cardiaci, l’asma, il
diabete, i reumatismi e i disturbi renali.

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Arborelius (1996) ha formulato 7 principi necessari quando si tratta di consigliare un paziente per la
messa in atto di strategie:
1) considerare l’opinione del paziente invece di imporre obiettivi prestabiliti
2) far riflettere il paziente sul suo comportamento, incoraggiarlo e aiutarlo
3) valutare quanto il paziente è davvero motivato a cambiare (ci sono vari livelli di motivazione)
4) interessarsi al comportamento reale del paziente, aiutarlo ad auto-osservarsi, assicurargli un
feedback e un rinforzo agli sforzi compiuti
5) fornire informazioni sulle conseguenze del suo comportamento senza imporgli cosa deve fare
6) analizzare i vantaggi e gli svantaggi del comportamento insieme al paziente
7) sottolineare le credenze sulla salute, la malattia e i trattamenti.
Gli interventi che ricercano uno sviluppo del coping incentrato sull’emozione sono volti ad aiutare il
paziente a controllare le fastidiose reazioni emozionali
Programmi di gestione dello stress
Questi programmi stimolano i processi di accettazione della malattia e di adattamento psicologico. Il
loro scopo è ridurre le conseguenze psicologiche e sociali della malattia e/o dei trattamenti,
neutralizzare i cambiamenti negativi, cambiamenti che spesso alterano le prospettive future, ridurre
lo stress e i problemi incontrati nel compimento di attività quotidiane (es. lavoro/famiglia). Questi
interventi, descritti anche come palliativi, includono:
Programmi di allenamento fisico
Programmi di questo tipo specifici sono proposti a gruppi di pazienti cardiaci, respiratori e
reumatici.
Programmi di gestione dello stress
Sono incluse tecniche di rilassamento e/o ristrutturazione cognitiva, alcuni interventi danno al
paziente un supporto emozionale che gli permette di ridurre il suo livello di stress e di aiutarlo ad
accettare la cronicità della malattia. Questi sono indicati per pazienti in grave sconforto o durante lo
stadio terminale della malattia. Più studi mostrano che programmi ben elaborati possono migliorare
la qualità della vita dei pazienti, rallentare la progressione della malattia, veder diminuire la mortalità
in pazienti cancerosi o cardiaci.
Tecniche di allenamento all’autoaffermazione
Queste tecniche mirano a ridurre l’ansia e/o a sviluppare dei comportamenti alternativi a scapito
delle reazioni di disfunzionamento sociale.
Forme di assistenza alla vita sociale
Anche se esiste una distinzione fra interventi di autogestione e interventi di gestione dello stress,
nella pratica la maggior parte degli interventi meritano di essere combinati.

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Il coping incentrato sul problema ha delle ripercussioni sul coping incentrato sull’emozione e
viceversa.
Es. paziente asmatico in piena crisi prende i farmaci (coping incentrato sul problema), quest’azione
ha ripercussioni positive sull’ansia; controllare il proprio panico associato a una crisi (coping
incentrato sull’emozione) aumenterà la probabilità di assumere il medicinale.

Lezione N.21. QUALITÀ DELLA VITA IN SALUTE E IN MALATTIA

1. Storia ed evoluzione del concetto di qualità di vita


Il concetto di qualità di vita è un concetto ampio riconducibile a quattro approcci:
1. Approccio filosofico: partendo dalle nozioni di felicità, piacere e desiderio, i filosofi, sono giunti
al concetto di benessere, che è parte integrante della qualità di vita. E' necessario però non confondere
la qualità di vita con la felicità, il piacere, la salute e il benessere, anche se ne costituiscono delle
componenti importanti.
2. Approccio psicologico: il termine “qualità di vita” è stato introdotto da Bradburn nel 1976 con i
suoi lavori sulla struttura psicologica del benessere. Secondo questo approccio, il concetto di qualità
di vita, rimane legato alla salute e permette un'analisi del livello di stress, delle motivazioni,
dell'adempimento degli scopi di vita e della qualità delle relazioni (sociali e familiari).
3. Approccio politologico: secondo questo approccio, la nozione di qualità di vita non è individuale
ma collettiva. Nell'elaborazione della Costituzione degli Stati Uniti, Jefferson, chiese che figurasse
tra i diritti inalienabili dei cittadini americani il “diritto alla felicità”.
4. Approccio medico: nel 1947, l' Organizzazione Mondiale della Sanità (OSM) fornì una definizione
di salute molto vicina a quella di benessere. Nel 1948, Karnofsky propose una scala di performance

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correlata con il benessere psicologico e il funzionamento sociale. In questo approccio il primo ad
utilizzare il termine “qualità di vita” fu Elkinton, nel 1966, in una pubblicazione medica. Le scale di
valutazione della qualità di vita sono numerose, e possono rappresentare uno strumento clinico a sé
stante, se associate ad altri strumenti clinici validati.

2. Approcci oggettivi e soggettivi di qualità di vita


In primo luogo occorre distinguere la qualità di vita da un punto di vista collettivo e individuale. Gli
autori convengono, che da un punto di vista collettivo, l'idea di qualità di vita sia legata all'ambiente
naturale, economico, sociale e politico in cui vive la persona. Da un punto di vista individuale, invece,
la qualità di vita implica anche l'idea che esista, per ogni essere che persegue i propri progetti, un
giudizio sulla qualità della sua vita.
Occorre distinguere poi la qualità di vita soggettiva da quella oggettiva:
• qualità di vita soggettiva: le misure soggettive o valutative della qualità di vita rinviano agli item o
alle scale che tendono a determinare come l'individuo valuta le ripercussioni della malattia sul suo
funzionamento fisico, sociale e/o affettivo, o in che misura egli è soddisfatto dalle diverse esperienze
di vita.
• qualità di vita oggettiva: rinviano agli item o alle scale che mirano a determinare il numero o
l'intensità di esperienze osservabili nella vita di una persona. Corrisponde alle condizioni di vita del
soggetto così come appaiono ad un osservatore esterno.
3. Definizioni
A seconda degli autori, il concetto di qualità di vita non ricopre gli stessi campi; quando gli studi
vengono condotti dai medici la qualità di vita si riferisce principalmente ai segni di miglioramento
fisico, quando invece l'equipe comprende psicologi e psichiatri la qualità di vita include anche gli
aspetti psicologici.
In funzione dei diversi approcci, esistono numerose definizioni di qualità di vita:
OMS: percezione soggettiva che un individuo ha della propria posizione nella vita, nel contesto di
una cultura e di un insieme di valori nel quale egli vive, anche in relazione ai propri obiettivi,
aspettative e preoccupazioni. È un concetto che integra la salute fisica della persona, il suo stato
psicologico, il suo livello di indipendenza, le sue credenze personali, le sue relazioni sociali, così
come la sua relazioni con gli elementi essenziali del suo ambiente.
È fondamentale non circoscrivere la qualità di vita alla salute: a differenza della qualità di vita globale,
quella correlata alla salute rinvia all'insieme degli aspetti qualitativi della vita dell'individuo
correlabili ai domini della malattia e della salute, e pertanto modificabili con la medicina. La

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definizione di salute data dall' OMS è “completo benessere fisico, psicologico e sociale e non
solamente assenza di malattia.”
La maggior parte dei teorici della salute riconosce che uno studio sulla qualità di vita dovrebbe
permettere di valutare almeno cinque aspetti della vita di un individuo:
1. Dimensione biologica
2. Dimensione psicologica
3. Dimensione interpersonale
4. Dimensione sociale
5. Dimensione economica

4. La valutazione della qualità di vita


Le diverse problematiche legate alla misura della qualità di vita
Le misure della qualità di vita rivestono un'importanza notevole nella presa in carico clinica, in quanto
hanno un valore di prognosi legato alla sopravvivenza paragonabile a quello che si ottiene
applicando l'indice di Karnofsky, che misura lo stato fisico generale ed è utilizzato in oncologia come
fattore di prognosi della sopravvivenza nei trattamenti dei tumori. Rimangono da rilevare le
problematiche etiche negli studi della qualità di vita. Zittoun sottolinea il fatto che ogni studio deve
rispondere alle stesse alle stesse esigenze etiche di qualsiasi altro studio clinico, soprattutto con il
consenso informato del paziente chiamato a fornire elementi di informazione che toccano la sua sfera
intima.
I metodi
Esistono diverse scale che misurano la qualità di vita e possono essere suddivise in due categorie:
• Scale generiche: possono essere utilizzate con tutti i pazienti a prescindere dalla patologia. Si tratta
di scale multidimensionali, il cui principale svantaggio è quello di essere troppo generiche.
• Scale specifiche: sono adatte ad una malattia specifica. Sono di due tipi: scale di autovalutazione e
scale di etero-valutazione. Questi due tipi di scale permettono una valutazione standardizzata e
uniforme, qualunque sia il tipo di paziente e in tutte le circostanze.
Nel settore della valutazione della qualità di vita correlata alla salute, esistono scale utilizzabili per
tutti i pazienti qualunque sia la patologia. È il caso del questionario di salute SF-36 (Short Form-36
Health Survey Questionnary) che rimane uno standard del settore, nonostante l'aspetto psicologico
della qualità di vita sia poco affrontato.

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Molti autori propongono di associare una valutazione generica ad una specifica.

5. Patologie e qualità di vita


Il termine qualità di vita è un concetto che comprende le conseguenze fisiche, psicologiche e sociali
di una malattia, in opposizione alle sue ripercussioni strettamente cliniche (Launois, 1992).
La valutazione della qualità di vita è essenziale oltre che nel campo della salute, anche nel campo
della patologia.

La qualità di vita nel campo della cancerologia.


Prima degli anni '80 non esistevano strumenti specifici per la valutazione della qualità di vita nei
pazienti malati di cancro. Uno dei primi strumenti è il FLIC (Functional Living Index-Cancer) di
Shipper. Molti studi mostrano che i pazienti cancerosi possono avere una valutazione relativamente
positiva della loro vita. Il fatto di vivere un'esperienza negativa può portare l'individuo a modificare
i valori nei confronti dei quali egli valuta la qualità della sua vita. La valutazione della qualità di vita
è influenzata da dall'evoluzione personale, la modificazione dei valori, la rivalutazione della
situazione e i fattori affettivi. La conoscenza di questi ultimi è un presupposto fondamentale per
aiutare il paziente canceroso nelle difficoltà che incontra nel corso della malattia. Una migliore
conoscenza del paziente deve permettere di individuare le persone ad alto rischio di sconforto
emozionale, al fine di proporgli interventi psicologici.
La qualità di vita nel campo delle affezioni cardiache.
Lo studio della qualità di vita nel campo delle affezioni cardiache si riferisce a due aspetti distinti:
• Preventivo: ad esempio nel caso dell'ipertensione, in cui il paziente deve assumere una terapia
antiipertensiva, la cui osservanza è condizionata in larga parte dalla qualità di vita degli ipertesi. La
costrizione di un'assunzione giornaliera e a vita del farmaco, il sentimento di “essere malato”
associato a questa assunzione, la soggettività degli effetti secondari sono elementi che incidono sulla
qualità di vita del paziente iperteso. Dunque, le aspettative dei pazienti relativamente ai benefici del
trattamento incidono sulla valutazione positiva della qualità di vita.
• Curativo: ad esempio nel caso dell'insufficienza cardiaca o dell'infarto del miocardio, i quali hanno
un maggiore impatto sulla qualità di vita, soprattutto sotto forma di dolori /malesseri cronici
diminuzione delle attività, di effetti secondari dei farmaci, di reazioni psicologici, di effetti sulla
dinamica e sulla vita sociale. Fra le scale che valutano la qualità di vita correlata alla salute, Hillers e
coll. (1994), proposero uno strumento di misura specifico per la valutazione della qualità di vita dopo

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un infarto del miocardio, il Quality of Life after Myocardial Infarctus (QLML). Questa scala permette
un approccio specifico e valuta cinque settori:
◦ sintomi fisici
◦ diminuzione delle attività
◦ fiducia in sé
◦ autostima
◦ emotività.

La qualità di vita nel campo delle malattie croniche invalidanti


Diabete: malattia cronica molto grave il cui obbligo di iniezioni quotidiane ha un forte impatto sulla
qualità di vita dei pazienti. Si è visto che il livello di qualità di vita è inversamente proporzionale alla
costrettività del trattamento
Reumatologia: la maggior parte delle patologie in questo settore sono croniche e comportano spesso
delle incapacità funzionali. La qualità di vita di questi pazienti si valuta in termini di dolore, di disturbi
dell'umore, del ritiro dalle attività sociali.
Affezioni respiratorie → tra queste, l'asma è una malattia cronica che tende a protrarsi per tutta la vita
del paziente, obbligandolo a seguire un trattamento di lunga durata e talvolta a cambiare il suo stile
di vita. Juniper e coll. (1999) hanno sviluppato un questionario specifico per la qualità di vita degli
asmatici, che permette di valutare i cambiamenti che compaiono nel corso del tempo in una persona.
Vengono valutati quattro ambiti principali: fisico (i sintomi), occupazionale (limitazione delle
attività), sociale (relazioni interpersonali) ed emozionale (ansia, depressione, distimia).
In una parte di questi pazienti, la crisi di asma è fortemente legata ad un'ansia eccessiva e, talvolta,
ad attacchi di panico. In queste situazioni è consigliabile associare alla terapia farmacologica un
programma per la gestione dello stress.
Qualità di vita nel campo psichiatrico
I primi studi sulla qualità di vita in psichiatria sono apparsi negli Stati Uniti negli anni '60, in seguito
al movimento di deistituzionalizzazione. In Francia, Pinel diventa il precursore della qualità di vita
in psichiatria. Attualmente esistono numerosi studi sulla qualità di vita che vertono su pazienti con
disturbi psicotici, anche se ci si chiede il grado di pertinenza di questi studi su questo tipo di pazienti
che hanno una grave perdita di contatto con la realtà. Tuttavia si ritiene che questi pazienti siano in
grado di porre una valutazione sulla qualità della loro realtà e del loro ambiente.
Alcuni psichiatri, come Backer e Lehman, si sono interessati alla misura della qualità di vita in questi
pazienti, integrandovi varie nozioni relative alla vita quotidiana. In seguito, gli studi sulla qualità di

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vita in psichiatria si sono orientati più sui pazienti schizofrenici. Osserviamo che gli studi che
misurano la qualità di vita in psichiatria si limitano alla valutazione oggettiva della qualità di vita. Per
questo motivo l'equipe di Lione ha elaborato un auto-questionario di qualità di vita modulabile,
applicabile alla popolazione specifica della psichiatria: il profilo di qualità di vita soggettivo (PQVS),
uno strumento che è stato validato in pazienti psicotici cronici e che si colloca al di fuori di qualsiasi
riferimento nosografico. Il PQVS si focalizza unicamente sul vissuto del soggetto e sulle sue
aspettative, indipendentemente dalle condizioni somatiche o oggettive.
Esistono numerose scale di misura della qualità di vita in psichiatria, la cui analisi tende a mostrare
che gli indicatori scelti sono estremamente vari:
• capacità fisiche
• ambiente sociale e familiare
• produttività
• attività professionali
• risorse finanziare
• attività di svago
• caratteristiche delle condizioni di residenza
• stato di salute
• condizioni oggettive di vita
• adattamento sociale
• vita interiore
• adattamento interpersonale
Tuttavia sarebbe necessario creare nuovi strumenti, piuttosto che continuare a tradurre e validare
strumenti stranieri che non corrispondono interamente all'approccio socioculturale del nostro paese.

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Lezione N. 22. –LE RISORSE PSICHICHE E IL CAMBIAMENTO DEI VALORI NELLA
MALATTIA GRAVE

Ogni malattia si definisce come uno stato di salute caratterizzato da una perturbazione più o meno
grave dei processi vitali dell’organismo, provocata da agenti patogeni. L’esperienza della malattia
grave rappresenta il momento in cui si fa ricorso a risorse psichiche insperate per far fronte alla
situazione; questo perché la malattia grave sconvolge non lo solo lo stato di salute, ma anche la vita
psichica, facendo precipitare il soggetto in condizioni di vita radicalmente diverse e minacciandone
l’esistenza stessa.
Nessuno è pronto ad affrontare tali sconvolgimenti, poiché gli apprendimenti anteriori e le
acquisizioni dell’esperienza sono impotenti nel loro insieme ad affrontare l’impensabile. Durante
queste situazioni drammatiche, la persona realizza che il rischio di morire realmente ad una certa data
è del tutto diverso dal sapersi mortale.
Ogni malattia introduce un insieme di fratture nell’esperienza stessa di vivere, e fra queste in
particolare la rottura dell’identità precedente. I malati si trovano spogliati dei gusci tranquillizzanti
che gli assicuravano stabilità e autostima, risultando in una distruzione dell’immagine personale che
si erano creati; la finalità di quest’identità sarebbe di adattarci socialmente e di non renderci
completamente responsabili della nostra vita, ma il confronto con la malattia fa esplodere di nuovo
questo conflitto. Essere malato significa entrare in una nuova identità sociale, imposta da nuove
regole di conformità. È un’esperienza di de socializzazione e risocializzazione che si basa
particolarmente sul sistema dei valori. Per far fronte alla situazione e sopravvivere, bisogna inventarsi
nuovi valori laddove al momento non ce ne sono.
Il coping è definito come l’insieme degli sforzi cognitivi e comportamentali destinati a controllare,
tollerare o ridurre le esigenze interne o esterne che ci sembrano intollerabili e che minacciano od
oltrepassano le risorse di un individuo; è fondamentalmente un modo di far fronte allo stress. Le
strategie di coping sembrano dunque utili a gestire lo squilibrio o le perturbazioni provocate da un
evento o da una situazione stressante, sviluppando dei mezzi cognitivi ed emozionali tali da
controllarne o diminuirne gli effetti negativi. Si presuppone con questa definizione che il
comportamento umano sia a priori dotato di un potenziale di risposte per far fronte agli eventi

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minacciosi, ma questo non è assolutamente certo nella realtà di tutti i giorni; difatti, nel caso delle
malattie gravi, l’efficacia dell’adattamento è incerta, addirittura aleatoria.
L’adattamento in caso di malattia grave non è più un semplice aggiustamento, ma un vero e proprio
meccanismo di sopravvivenza. Si parla di “molla invisibile” poiché si fa ricorso in queste situazioni
a risorse psichiche che normalmente il soggetto non pensa neanche di possedere.
Nel corso di questa mobilitazione di risorse, vi è una trasformazione di sé che porta ad un altro modo
di vivere, grazie al cambiamento dei valori.
I valori non sono solo dei giudizi sulla realtà esterna o su sé stesso, né delle semplici credenze
percepite come desiderabili e alle quali si aderisce; queste sono solo le dimensioni che fanno parte di
ciò che si chiama “scala di valori”. In realtà, i valori appaiono come delle ragioni di vivere che
organizzano le emozioni, le percezioni, le credenze degli individui e attorno alle quali si costruisce
l’immagine di loro stessi, il sentimento che hanno nei confronti della vita ed i loro progetti. Nelle
malattie gravi, un certo numero di questi valori essenziali va in frantumi, ed il ricorso a nuovi valori
diventa l’espressione stessa dell’adattamento.
Sono stati condotti dei colloqui con due gruppi di malati:
- dieci malati di AIDS (otto uomini, due donne) di età compresa tra i 24 ed i 38 anni, due mesi dopo
la comparsa di una malattia opportunista;
- dieci malati con diverse patologie tumorali. Avevano già subito un intervento chirurgico e
cominciato la chemioterapia.
Questo studio ha permesso di redigere una serie di dati qualitativi dai quali estrapolare informazioni
riguardo alcune dimensioni che si sono rivelate tra quelle più scosse e ridefinite nel passaggio da
“prima della malattia” a “dopo la malattia”. È stato possibile grazie ad un questionario riempito due
volte di seguito: alla prima somministrazione era chiesto loro di dire che importanza davano agli item
prima della malattia (condizione “prima”), nella seconda che importanza vi davano da quando erano
malati (condizione “dopo”).
Da questi dati emerge ciò che l’evoluzione della malattia rende essenziali per ciascun individuo.
Nel gruppo “malati di cancro” si osserva un’altra filosofia dell’esistenza (godersi la vita, l’affetto,
avere fiducia), e questa è più orientata sul prendersi cura di sé. Si assiste al ritiro di alcuni valori la
cui dimensione valorizzata è socialmente manifesta (riuscita professionale, essere competitivo e
competente…).
Nel gruppo “malati di AIDS”, come per lo studio precedente, si trova una maggiore ricerca di
equilibrio e di una forma di pace interiore (gioia, armonia, comodità di vita). Stesso ritiro di valori
sociali come nel caso dell’altro gruppo; in compenso, se il primo gruppo tende ad incentrarsi più su
sé stesso, questo secondo gruppo mostra un maggiore investimento rispetto all’impegno sociale.

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Questo è probabilmente legato alla natura stessa dell’AIDS, tradizionalmente associato a una forma
particolare di militantismo e di rivendicazioni.
In conclusione, 4 sono gli aspetti che si sono modificati con l’arrivo della malattia:
- Immagine del corpo: è un valore essenziale toccato in pieno attraverso la perdita dell’identità fisica.
Dal momento in cui lo stato di malattia comporta delle trasformazioni importanti, si osserva una
modificazione dei valori. In alcuni casi, l’adattamento si traduce in un modo cognitivo che opera una
dissociazione fra l’immagine del corpo e l’immagine di sé. Si parla di “io interiore”, vissuto come
qualcosa che trascende il valore del corpo percepito in passato come prioritario.
- Rapporto con il tempo: la maggior parte dei pazienti afferma di non avere più lo stesso rapporto con
il tempo, nel senso che non fanno più progetti a lungo termine. Coloro che hanno figli hanno paura
di non vederli crescere, e quelli che non ne hanno dicono che ormai “è troppo tardi”. Questo può
trasformarsi in un valore positivo qualora si riuscisse a valorizzare le piccole scadenze e quindi
progetti a breve termine.
- Filosofia della vita: viene stravolta dalla malattia, che spesso opera un capovolgimento radicale e si
traduce nella relativizzazione o addirittura nel crollo dei valori tangibili e materiali (casa, lavoro,
tenore di vita) a favore di altri, più immateriali, che diventano essenziali (amicizia, affetto...)
- Relazione con il morire: si rivela qui la fragilità dell’esistenza, realizzando che si morirà, ma con
una dilazione che permette di realizzare delle cose ed allo stesso tempo “voltarsi” in senso psichico,
ovvero fare del tempo che resta un’esperienza di mollare la presa.

Lezione N.23. –LA MORTE E IL LUTTO2

2
Fischer, N.-G., Trattato di Psicologia della Salute, ed. Borla
PSICOLOGIA DELLA SALUTE C.A. PROF. LORENZO CAMPEDELLI
La perdita del conosciuto e l’angoscia del dopo sono sicuramente i tormenti più manifesti di coloro
che vivono i loro ultimi momenti. Queste persone possono ricevere un’ancora di salvezza
dall’esterno, ma è necessario che il loro corpo non sia eccessivamente dolorante perché possano
accettarla: da qui, l’importanza delle cure palliative affiancate ad un aiuto psicologico. Un buono
numero di pazienti ci mostra che la limitatezza di tempo intensifica i legami affettivi, i rapporti con
gli altri; al contrario, per la larga maggioranza, la mancanza di tempo è percepita come un intralcio
all’elevazione di sé. Le delusioni ed i rimpianti sono immensi, e l’ansia sembra persistere quando una
grande quantità di progetti rimane incompiuta: in particolare, quello di amare. Molti pazienti quindi
soffrono di un’ansia persistente, provocata dai morsi del non detto, che porta ad un morire nostalgico.
La psicologia clinica cerca di trasformare quest’ansia in pacificazione, malgrado il tempo ridotto,
grazie ad un incontro segnato dalla compassione e dalla bontà.
In molti casi, questi pazienti finiscono nella depressione e nell’ansia, che sono indici di conflitti non
risolti prima della fase terminale; questi conflitti sono imputabili a difficoltà di comunicazione,
all’impatto della malattia e dei trattamenti ed all’adattamento al cambiamento di ruolo.
L’accompagnamento di questi malati grave nella sofferenza globale agirà come fonte inestimabile di
conforto di fronte all’inevitabile.
La depressione è quattro volte più frequente nei pazienti colpiti da cancro rispetto alla popolazione
generale. Spesso è condita da un atteggiamento letargico o di ritiro, in particolare nei pazienti malati
da lungo tempo. L’ansia è riconoscibile nei pazienti che sollecitano un’attenzione eccessiva, che
soffrono d’insonnia o incubi e che, al tempo stesso, negano la gravità della loro malattia o
l’importanza delle loro preoccupazioni personali. Ma se contattano un medico e ammettono il loro
stato d’ansia, avranno la fortuna di camminare verso il conforto. La medicazione combinata con la
psicoterapia puntuale e intensiva per rialzare l’umore, favoriscono l’addomesticamento agli impatti
della malattia. Dopo la depressione, l’ansia è infatti il sintomo psicologico più comune nei malati
gravi. La minaccia della morte riattiverebbe l’angoscia delle separazioni vissute e cumulate nella vita.
Il paziente sarebbe tanto più vulnerabile quanto più ha vissuto nella sua infanzia una perdita
traumatizzante o se non si è totalmente ripreso da un recente lutto.
Barraclough (1999) ha identificato una personalità di “tipo C” per descrivere la tendenza dei pazienti
cancerosi a negare o reprimere le emozioni negative per paura che la loro espressione sia giudicata
socialmente inaccettabile. Queste persone esternano una grande gentilezza e amano far piacere agli
altri, ma quando la malattia esplode, una parte importante di loro crolla, e si congelano psichicamente.
Un sostegno assicurato da una piccola equipe, idealmente composta da un medico, un’infermiera e

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uno psicologo, potrebbe diminuire le conseguenze del disastro e in questo modo prevenire l’aumento
dell’ansia dovuta all’isolamento. Quando il trattamento medico fallisce, idealmente la guarigione
psichica, affettiva o spirituale inizia, continua o si completa a bordo del processo di morte.
Gli auto-rimproveri scaturiscono da una perdita brutale di autostima, perché la malattia è percepita
socialmente come una sconfitta. L’abbattimento dei ruoli e la perdita di autonomia sono in netto
contrasto con i valori sociali modernisti che sono incentrati sulla giovinezza, la ricchezza, la salute,
la prestazione, la riuscita ed il baratto dell’intimità con la virtualità.
Attualmente la rete della salute incoraggia il paziente a resta a casa, indirizzandolo ai servizi
ambulatoriali esterni. Ma spesso la sicurezza non è la stessa offerta dall’ospedale, né si hanno gli
strumenti o gli spazi equivalenti; quindi finisce che a casa si vive solo la malattia, ma si torna in
ospedale poco prima di morire (mediamente 15-20 giorni di cure palliative e poi la dipartita).
Un problema ulteriore è quello di colui o colei che si prende in carico il malato e decide di assisterlo
nel periodo in cui questo deve essere curato a casa; questo aiutante naturale, bruscamente incaricato
di un ruolo in cui il senso di responsabilità trionfa e domina, si scopre sommerso non solo dai
numerosi compiti, ma anche dal sovraccarico di emozioni che devono lasciare spazio ad una presa in
carico di molteplici cure. La sua promessa di curare l’essere significativo a casa, senza imperfezioni
e senza pausa fino alla fine, si vede disfatta dalla dura realtà dell’esigenza dei compiti, da questa
incapacità di continuare da sola con l’altro.
L’ospedalizzazione tardiva dei pazienti a causa del loro lungo soggiorno a casa, limita l’elaborazione
di un lavoro per fasi. I servizi di psicologo a domicilio sono pochi, se non rarissimi. L’approccio
quindi andrà basato sull’accompagnamento in cui l’offerta della propria presenza come punto di
appoggio sarà innanzitutto finalizzata a contenere l’angoscia del paziente all’idea di attraversare gli
ultimi passi della sua vita. Nel processo stesso della fase terminale, il morente adotta inevitabilmente
una posizione di distacco. Al contrario, i parenti scoprono da parte loro l’intensità del loro
attaccamento definitivo e l’insostenibile timore di esserne privati a breve.
Lo psicologo potrà dapprima offrire le proprie parole al malato taciturno, per evitare questo silenzio
terrorizzato dall’atto di morire. La comunicazione si formulerà in seguito sotto una domanda
esplorativa del tipo “quali sono attualmente le vostre preoccupazioni principali?”. Questa domanda,
al tempo stesso diretta, ampia e poco minacciosa, favorisce la libertà di espressione su un tema che
non avremmo immaginato. In tempo opportuno, poi, si dovrà descrivere l’atto di morire come un
evento abitualmente pacificamente vissuto.
Gli interventi psicologici non devono più essere considerati come opzionali, ma come parte integrante
di un piano di gestione delle cure di ogni paziente. L’elasticità e la flessibilità del terapeuta sono
essenziali all’adattamento di fronte all’ambivalenza dei sentimenti ed alla fluttuazione dell’umore del

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paziente, che può essere imprevedibile e destabilizzante. Lo sguardo di bontà posato su colui o colei
che soffre conta fra le primissime operazioni di recupero, così come l’atteggiamento rispettoso.
Capita che dei pazienti rifiutino di affrontare l’argomento “Morte”, perché non possono descriversi
come soggetti morenti. Il diniego-speranza riemerge nei momenti peggiori, ma può essere considerato
un meccanismo di difesa non patologico. Spesso confondiamo il diniego con un una fuga dalla realtà,
e non con una sana speranza. Il medico che dovrà confermare al suo paziente la presenza o meno di
una diagnosi fatale, non indurrà per forza la speranza al momento di comunicargli le buone notizie,
così come non ritirerà questa stessa speranza dandogli delle cattive notizie. La speranza emana dal
proprio stato interiore!
Decifrare le parole della fine richiede una sensibilità elevata, infatti non vanno sempre prese alla
lettera (esempio: non voglio visite = non abbandonatemi; sono oppresso = ho paura di soffocare).
Ogni parola prefabbricata da parte del terapeuta non porterà a niente, perché il miglior intervento
resta quello che vi stupirà formulandolo, quello nato grazie alla fluidità relazionale. Lo psicologo
deve, lavorando in maniera parallela col paziente, costruire un senso alla sofferenza, intercettare
l’angoscia, identificare le forze insospettabili del paziente e facilitarne la comunicazione con le
persone significative. Questo incontro con l’altro, permetterà l’incontro con sé.
La parola famiglia, qui, indica i parenti o qualunque persona importante per il paziente. La persona
cara comprende la morte dell’essere amato sin dal momento della diagnosi. Come lui, vada fra la
speranza e lo sconforto, la fede e la perdita delle sue credenze, le aspettative e le delusioni. La lotta
del paziente invita la persona cara a scortarla nei rischi di questo percorso. Essere testimone della
sofferenza globale di una persona cara tocca colui o colei che si investe come mai prima d’ora, perché
i pazienti hanno questo potere imprevisto e inconscio di risvegliare il senso della vita nell’altro.
Purtroppo la scomodità e l’imperizia di fronte all’intimità dell’incontro sono palesi; i gesti e gli
scambi spontanei sono inibiti, il paziente evita di essere un peso per i suoi cari e la famiglia sembra
risparmiare il malato reprimendo i propri sentimenti. Ma mentre il paziente sembra spesso scettico di
fronte ai servizi psicologici, le famiglie al contrario ne fanno grande richiesta, con domande precise:
- Se durante le ore preziose tengo la mano del mio caro, potrebbe capire da questo che cerco di
trattenerlo?
- Se piango di fronte a mia madre, questo rischia di deprimerla?
- È preferibile o sconsigliabile affrontare l’argomento morte con un soggetto morente?
Prendere la mano del morente gli conferma che è sempre vivo, ma allo stesso tempo simbolizza un
appoggio grazie al quale potrà lasciarsi scivolare nella propria morte. Le lacrime del prossimo sono
generalmente espressione dello sconforto, ed è curioso che i pazienti in fase terminale raramente
piangano, o quantomeno ostentano una “pena secca”. Le lacrime prendono il posto della parola

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mancante, mentre i pianti celati nascondono tanto i ricordi felici quanto quelli che uccidono. Per
quanto riguarda l’argomento “Morte”, per molti resta innominabile anche all’ultimo stadio, poiché
persiste il pensiero magico “non parlare della morte permette a tutti di eliminarla”.
Un ultimo argomento concerne le reazioni dei congiunti alla morte dell’essere significativo; spesso,
il diniego della morte si trasforma in un diniego della perdita, come strategia difensiva per contrastare
l’impatto della scomparsa dell’essere amato. Il sentimento di colpevolezza di sopravvivere all’amato
comporta la scomodità di non averlo mantenuto intatto, per cui spesso finiscono per dire “sarei dovuto
partire con lui”. Allo stesso modo, il rimpianto per non aver verbalizzato a sufficienza i “ti amo,
perdonami, segui la tua strada”, comporta il rischio di rovinare o perdere una parte importante
dell’autostima. Il perdono viene infatti identificato come un modo di non lasciare niente in sospeso,
al fine di non appesantire la durata del lutto. La netta impressione di non aver amato a sufficienza lo
scomparso lascia un’immagine di amputazione al proprio corpo sopravvissuto. Inoltre, la
colpevolezza serve come pretesto per nominare ancora il nome dello scomparso, sebbene non tornerà
più.
Fenomeni recenti che banalizzano i riti funebri, figli della modernità, sembrano complicare
ulteriormente l’elaborazione del lutto. Le nuove tendenze incoraggiano la spedizione rapida del corpo
e il tentativo di eliminare il lutto in tempo record. Un esempio è la cremazione; contrariamente al
lutto normale, che si svolge in tre tappe principali (lo choc, la disorganizzazione e la
riorganizzazione), la dispersione delle ceneri in luoghi inusitati intralcia, in alcuni casi, lo
svolgimento normale del lutto, perché i morti non riposano più con i morti, vengono lanciati qui e li
senza epitaffio per arbitrare la loro identità.
Uno dei rischi di chi è sopravvissuto al congiunto è la possibilità di progettare un suicidio per
rispondere a questa perdita. Bisogna aiutare queste persone a mettere in parole ciò che è diventata la
vita occupata dalla perdita, stabilire una relazione di fiducia, esplorare la perdita e gli eventi che
ruotano intorno al decesso, ricostruire la storia che esisteva fra l’individuo in lutto e la persona
deceduta.
I volontari presso le unità di cure palliative sono i più indicati ad individuare i lutti a rischio, grazie
ad indizi legati allo sconforto del sopravvissuto. La sofferenza si accentua con l’isolamento,
l’attaccamento eccessivo al defunto, un sentimento esasperato di colpevolezza, propositi
autodistruttivi e pensieri suicidi, persistenza di disturbi del sonno e dell’appetito. In tali situazioni, lo
psicologo assicurerà un intervento di terapia in base alla complessità del lutto, per un periodo adatto
a ciascuno. L’accompagnamento professionale del lutto facilita la reintegrazione nella vita senza
l’altro e porta l’assicurazione dell’importanza dei suoi ricordi nei confronti dello scomparso.

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Lezione N.24. -L'APPROCCIO INTERAZIONISTA E DEI FATTORI EZIOLOGICI
NELL’ALCOLISMO

La medicina della metà del XX secolo si basava quasi esclusivamente sulla concezione strettamente
biomedica (riduttrice) di un dato disturbo, dando poca importanza a fattori come i comportamenti
adattivi del soggetto, il suo stile di vita, ecc. Ma quando hanno cominciato a farsi largo dimostrazioni
secondo cui, ad esempio, per eliminare l'alcolismo non serviva solo ed esclusivamente curare una
cirrosi epatica, si sono accorti che il carattere unitario e singolare di una malattia non implicava la
stessa univocità eziologica. Così, una malattia con diagnosi semplice e non ambigua può rinviare a
fattori eziologici multipli, mentre una malattia complicata come la polmonite, si scompone in più stati
di morbilità le cui cause sono più "facili" da circoscrivere. Inoltre è da sottolineare, da un lato, come
il limite tra la normalità e la patologia volte sia veramente sottile (ipertensione, alcolismo, ecc..) e,
dall'altro, come questi disturbi spesso siano "sensibili al contesto". Infine, va presa in considerazione
anche la natura primaria vs secondaria di ogni disturbo, così come la loro eventuale comorbilità.

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La Psicologia della Salute nasce da questa evoluzione, cercando di mettere in risalto l'importanza dei
"moderatori" psicologici e psicosociali nella comparsa, o meno, di un disturbo; prestando particolare
attenzione agli scambi che il soggetto opera con il suo ambiente e alle strategie di coping che mette
in atto per fronteggiare le avversità, si può meglio comprendere come alcuni comportamenti,
insignificanti per alcuni, si dimostrino invece a rischio per altri. L'interesse dello psicologo per
l'eziologia non è giustificato solo a livello teorico e curativo, ma è altrettanto necessario per la
prevenzione della malattia, per la riduzione dei danni e per la promozione della salute.
L'approccio eziologico dei fattori di rischio associati all'uso di alcol
Il largo spettro dei problemi di alcol
Nel prendere in esame i fattori di rischio nella comparsa dell'alcolismo, bisogna liberarsi dei punti di
vista dicotomici sulla salute e sulla malattia, ed adottare il principio duale ma non contraddittorio
"della diversità del problema di alcol" e di "un continuum possibile ma non obbligato fra questi
problemi e i tipi di uso del prodotto": dato questo, è l'insieme dei dati eziologici che porta dei
chiarimenti sia in relazione alla prevenzione che alle cure e al sostegno delle persone in difficoltà con
l'alcol.

1.2 La variabilità individuale dei percorsi "a rischio"


Alla complessità dello spettro dei problemi legati all'alcol, è necessario aggiungere la variabilità
individuale dei percorsi a rischio che possono poi sfociare o meno in uno stato patologico. Secondo
una serie di studi longitudinali, su 630 uomini osservati dall'adolescenza fino all'età adulta, dal 1940
al 1980, Vaillant afferma: "Per la maggioranza degli alcolisti il tempo trascorso tra il primo bicchiere
e l'incapacità accertata di controllare il loro consumo di alcol è un processo di formazione ed abitudine
che va dai 5 ai 30 anni". Questo deve essere anche accompagnato dall'idea che il prodotto non è la
causa essenziale delle dipendenze e che non è sistematicamente vero che chi beve troppo o troppo
spesso sia per forza dipendente, come spesso non si è rivelata vera la formula "più alcol, più alcolisti",
né quella "chi ha bevuto, berrà".
Date le conseguenze spesso molto gravi e numerose dovute all'alcolismo (incidenti, violenze, ecc…),
l'azione degli specialisti dovrebbe essere rivolta maggiormente verso le strategie di riduzione dei
danni piuttosto che nei confronti della prevenzione dell'alcolismo in senso stretto (decantando
l'astinenza terapeutica, per es.).
Distinzione tra cause necessarie e sufficienti
Se il consumo elevato di alcol è una causa necessaria della cirrosi alcolica, questo non significa che
sia sufficiente. Esempio di politiche sanitarie poco efficaci è la "legge del quadrato" di Ledermann,

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secondo cui: "la proporzione dei bevitori eccessivi sembra crescere secondo il quadrato del consumo
medio, pro capite, della popolazione alla quale appartengono. Fra questi bevitori eccessivi viene
reclutata la quasi totalità dei decessi per alcolismo cronico o acuto e per cirrosi epatica." Questa
affermazione va contro, però, ad altre tipologie di osservazioni, tipo questa: “nel sud-ovest degli stati
uniti ci sono gli Hopis (indiani) che vivono in una piccola riserva circondata dai Navajos; ora,
nonostante gli Hopis siano molto più sobri, il loro tasso di cirrosi alcolica è molto più elevato rispetto
a quello del Navajos, quest’ultimi ben conosciuti per i loro eccessi con l'alcol”. Quindi, anche in
questo caso si osserva che il danno somatico è il risultato di una interazione fra fattori di origine
diversa.

2. La matrice biopsicosociale del rischio di alcolismo: l'approccio dello sviluppo di Zucker


Secondo Zucker "il concetto di eziologia fa riferimento ad un processo di cambiamento che va da uno
stato che comprende il rischio ad uno stato che implica l'emergenza dell'entità di malattia." Egli critica
la "teoria della pallottola magica", secondo cui quando la pallottola viene sparata essa va direttamente
a percuotere il bersaglio e a causare i danni; secondo lui, è necessario utilizzare un modello eziologico
probabilistico che concepisca il rischio come una variabile "fluida" piuttosto che "statica".
Una concezione "fluida" del rischio
La distinzione tra il rischio e la diagnosi è semplicemente questione di soglia, che riguarda la variabile
dipendente del modello. In un tale modello, infatti, il movimento che conduce dal rischio alla
patologia è uno spostamento che va da un livello di rischio collocato al di sopra o al di sotto di una
certa soglia; a questo livello, un numero sufficiente di sintomi è ormai presente, sono stati identificati
e formano un insieme stabile da un periodo di tempo sufficientemente lungo.
Il rischio implica una "dimensione" mentre la diagnosi implica una "frontiera discreta" fra la malattia
o l'assenza di essa, e il grado di rischio varia in funzione delle tappe della vita. Quando
sopraggiungono somme, sottrazioni o interazioni, il rischio opera un movimento di flusso e riflusso.
Zucker contesta il modello dicotomico (binario), secondo cui la variabile indipendente sarebbe il
rischio e quella dipendente lo stato patologico, che tutt'ora prevale in ambito clinico, ma che
comunque nel corso del tempo ha subito cambiamenti reali di pensiero.
Questo modello della "carica eziologica"di Zuckerpostula quindi un principio di continuità fra rischio
e danno.
La dimensione temporale dei fattori di rischio
Lo schema eziologico esposto da Zucker è allo stesso tempo multifattoriale, probabilistico e dello
sviluppo. Esso non è incompatibile con quei modelli detti a "cascata", sia che si tratti di modelli a
progressioni gerarchiche (dove il modello predice la realizzazione irrevocabile di una sequenza

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quando le condizioni necessarie sono riunite senza per questo postulare un passaggio automatico da
una tappa all'altra) che di modelli a progressioni embrionali (più vicino al modello a cascata a
sequenze fisse, la cui progressione è automatica e dove le influenze contestuali giocano un ruolo
limitato).
Come esempio di modello gerarchico relativo all'uso a cascata di droghe, Zucker cita i lavori di
Kandel e Yamaguchi che mostrano come il consumo di droghe pesanti implica l'assunzione
precedente di marijuana, ma lo stesso consumo di quest'ultima non predice la progressione verso il
consumo di droghe pesanti.
Qualunque modello eziologico complesso deve tenere di conto della combinazione di fattori specifici
al disturbo (es, attese o aspettative nei confronti dell'alcol) e di fattori non specifici (es, tratto
antisociale di personalità) o di fattori di età associati a delle caratteristiche etniche.

3. Il ruolo della famiglia e dei pari nello sviluppo dei problemi di alcol: verso una concezione
integrata di fattori in causa
La famiglia, come il gruppo dei pari, non sono degli strumenti di persuasione o di modellamento
infallibili, che impongono i loro messaggi pro o contro l'alcol ad un recettore passivo; il fatto di
entrare in una relazione problematica con una sostanza psicoattiva (e di sviluppare eventualmente
una dipendenza) dipende da un insieme di relazioni particolari che indeboliscono l'essere in fase di
sviluppo facendone un soggetto a rischio.
L'influenza della famiglia
Prima di tutto, i ricercatori hanno distinto più livelli di influenza per studiare l'impatto familiare sui
comportamenti di alcolismo:
-per quanto riguarda l'influenza individuale, cioè l'impatto di un individuo della famiglia su un altro,
sono stati messi in rapporto essenzialmente i comportamenti del figlio nei confronti dell'alcol e, per
quanto siano un fattore importante, i modelli parentali di alcolizzazione non forniscono una
spiegazione esaustiva delle condotte adolescenziali nei confronti dell'alcol;
-studi su campioni di famiglie con parenti alcolizzati mostrano che gli apprendimenti sull'alcol
cominciano prima di quando non si creda e che lo sviluppo di schemi interiorizzati sull'alcol potrebbe
variare in funzione degli usi parentali di esso;
-sull'influenza delle interazioni genitori/figli, secondo Jacob e Leonard sono due le dimensioni
maggiori dell'azione genitoriale che strutturano i modi di interazione in causa: da una parte
l'educazione (nurturance) e dall'altra il controllo (control). Disfunzioni gravi nell'uno o nell'altro
causano gravi danni e duraturi a livello dello sviluppo emozionale e cognitivo nel bambino (ovvero,

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i comportamenti antisociali ed aggressivi nei bambini possono discendere da mancanza di affetto/alto
livello di critica e ostilità/lassismo educativo/ecc).
-in relazione ai problemi di coppia dei genitori, essi sembrano meno collegabili direttamente ai
problemi osservati nel bambino o nell'adolescente; la loro influenza è modulata dalla relazione
genitore/figlio e dipende dagli effetti secondari del disaccordo coniugale;
-per quanto riguarda l'effetto diadico del rapporto tra fratelli, nonostante i pochi studi, sono stati
individuati 3 modi di influenza:
1. attraverso l'esempio e l'identificazione, dove il maggiore influenza il minore;
2. la similitudine tra fratelli si spiega con fattori genetici comuni;
3. l'influenza positiva di un fratello maggiore su quello più piccolo può essere esercitata attraverso
una relazione veramente educativa e priva da ogni rivalità;
-sui gemelli omozigoti vs dizigoti sono state studiate le similitudini tra consumo di tabacco e alcol:
sono state riscontrate somiglianze modestamente correlate all'esistenza di un patrimonio genetico
comune ed altrettanto correlate all'esperienza di una socializzazione più o meno condivisa;
-sull'influenza del sistema familiare nel suo complesso, è stato osservato un rischio alto di
trasmissione dell'alcolismo tra le generazioni, quando la patologia alcolica ha invaso il sistema
familiare e quando ormai ne ha perturbato il funzionamento, e questo indipendentemente dalla gravità
dell'etilismo.
Inoltre, da diverse ricerche è stato evidenziato che nei bambini direttamente coinvolti dall'alcolismo
genitoriale l'intensità dei sentimenti di vittimizzazione e di vulnerabilità variava in funzione del
numero di genitori alcolizzati; quando uno di loro non veniva considerato come alcolizzato, i bambini
tendevano a fargli tenere il ruolo di "scudo" e dichiaravano di essere meno colpiti dall'alcolismo
genitoriale, essendo anche più inclini a perdonare il genitore alcolizzato.
Fra le constatazioni eziologiche più appurate, queste relazioni in particolare sono sottolineate:
-tra disturbi del comportamento del bambino, la delinquenza ed il comportamento antisociale adulto;
-fra il comportamento antisociale adolescenziale e l'iniziazione all'abuso di alcol;
- fra il comportamento antisociale dell'adulto e l'alcolismo adulto.
La sindrome di "alcolismo adulto antisociale" è stata oggetto di numerose ricerche, anche se non tutte
le forme di alcolismo si possono ricondurre a questo tipo. Zucker, in particolare, dice:
-una forma di sviluppo e limitata di alcolismo che si differenzia dall'alcolismo antisociale
essenzialmente per il suo carattere non duraturo e circoscritto all'adolescenza;
-un alcolismo associato a degli effetti negativi interni (depressione, ansia, ecc…), ma i cui studi
longitudinali non hanno potuto mettere in luce le cause primarie e secondarie;

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-forme primarie di alcolismo reazionali ed episodiche, legate a fattori scatenanti non specifici e prive
di comorbilità.
L'influenza dei pari
Numerosi studi hanno confermato una relazione statisticamente significativa tra le difficoltà precoci
di relazione con i pari e la natura antisociale e delinquenziale del comportamento futuro
dell'adolescente; inoltre, il coinvolgimento in un gruppo deviante è stato spesso associato all'abuso di
alcol.

L'influenza del rigetto dei pari


Il legame osservato tra il rigetto del gruppo dei pari ed il comportamento antisociale e/o
delinquenziale successivo è stato spiegato, da alcuni, come se all'origine delle difficoltà relazionali
come delle condotte delinquenziali più tardive ci fossero dei disordini psicologici primari. Secondo
altri, invece, l'esperienza del rigetto darebbe vita ad un deficit di socializzazione e di apprendimento,
oltre che ad un sentimento di solitudine, disadattamento e di collera. Il rigetto allora sarebbe causa
diretta del disadattamento sociale e dei comportamenti antisociali. Una terza spiegazione sostiene che
il gruppo dei pari può giocare un ruolo mediatore tra vulnerabilità del soggetto e le sue modalità di
adattamento future, quindi è come se il soggetto venisse"protetto" dai danni nel caso in cui il gruppo
dei pari gli fornisce un supporto sociale adeguato (viceversa in negativo).
In conclusione, sulla base della letteratura, Jacob e Leonard affermano che:
-l'aggressività precoce del bambino è un fattore predittivo del comportamento antisociale migliore
del rigetto dei pari alla stessa età;
-l'aggressività precoce nel bambino è un antecedente maggiore del rigetto dal gruppo dei pari; -
quando l'esclusione dal gruppo dei pari diventa effettiva, per il soggetto aumentano i potenziali rischi
in cui incorrere.
La partecipazione ai gruppi devianti
I fenomeni di influenza non sono unilaterali, quindi è possibile che un soggetto sia influenzato dal
proprio gruppo ma che questa influenza non dipenda necessariamente dalle aspettative che questo
soggetto ha nei confronti del gruppo.
Il modello di socializzazione alla marijuana di Becker rimane il paradigma funzionalista che
meglio valorizza l'impatto del gruppo sui gusti e gli atteggiamenti del consumatore individuale: di
fronte ad un certo messaggio che contiene informazioni pro o contro un dato oggetto, ogni soggetto
fa riferimento ai propri atteggiamenti e comportamenti (associazione selettiva); quindi, l'affiliazione

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ad un gruppo di pari deviante risponderebbe allora a delle aspettative anteriori del soggetto basate sui
suoi atteggiamenti antisociali e sul suo bisogno interno di consonanza. Da questo punto di vista, l'uso
eccessivo di alcol o sostanze praticato all'interno del gruppo discenderebbe più da un processo di
selezione individuale che da uno di socializzazione; gli adolescenti che condividono dei punti di vista
anteriori tendono ad affiliarsi fra loro e ad influenzarsi reciprocamente. Secondo Dishion,il processo
di associazione selettiva potrebbe iniziare già all'età di 6 anni e portare di conseguenza ad un rigetto
del gruppo dei pari dovuto alle condotte aggressive del bambino in difficoltà.

n.b. Il contenuto del presente modulo è stato formulato e rielaborato sulla base delle informazioni, dati, teorie e
postulati, ivi compresi i rimandi bibliografici indicati dall’autore. Per eventuali approfondimenti si consiglia la
lettura integrale del seguente testo:
Fischer, N.-G., Trattato di Psicologia della Salute, ed. Borla

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Lezione N.25. - Un modello teorico delle influenze eziologiche dovute ai genitori e ai pari 1

Newcomb afferma che sia possibile costruire un modello ad equazioni strutturali (MES) che tenga di
conto dei costrutti caratteristici del campo biopsicosociale; l'effetto di influenza di queste variabili
latenti potrà essere poi testato sulle variabili risultati, sia a livello di fattore comune che a livello di
parti specifiche giocate da ognuna delle componenti del costrutto. Nel "modello ipotetico" di
Newcomb (1994), il costrutto latente definito come "disfunzione familiare" contiene diversi aspetti
comuni a vari indicatori di problemi familiari (conflitto genitoriale, deficit di comunicazione nella
famiglia, ecc…), però questo modello tende a separare la parte comune delle variabili da quella
specifica che fa capo ad ogni componente del costrutto, in modo tale che ogni tipo di problema
familiare possa essere utilizzato come predittore a tutti gli effetti. Inoltre, la parte comune propria a
più variabili può essere interpretata come un costrutto latente di devianza generale.
Nel caso di questo modello, Newcomb individua quattro "percorsi causali":
1. da un costrutto latente ad un altro latente;
2. da un costrutto latente ad una misura residuale specifica;
3. da una variabile caratterizzata dalla sua misura residuale ad un costrutto latente;
4. da una variabile residuale ad un'altra residuale.
5. Le rappresentazioni profane delle cause dell'alcolismo: interessi e limiti del punto di vista "in prima
persona"
Per introdurre a questo paragrafo si fa riferimento ad uno studio su 1000 alcolizzati, scelti su un
campione di 5000 in riferimento ad un gruppo di mutua assistenza per malati alcolizzati, divisi in 794
uomini e 206 donne.
L'eziologia profana dell'alcolismo femminile
La popolazione delle alcoliste donne si divide in due tipi di alcolismo. Nel primo caso, il ricorso
all'alcol si presenterebbe in tempi tardivi, significativamente associato all'esperienza detta del "nido
vuoto", per cui si assiste allo spopolamento dell'universo familiare percepito come la causa degli
affetti negativi (es, depressivi); spesso sembra comparire nelle donne le quali assistono all'abbandono
da parte del figlio ormai grande della sfera familiare ed in concomitanza con un coniuge spesso
assente ed impegnato in attività esterne alla famiglia. La rappresentazione di queste donne del loro
alcolismo è come se fosse fondata su una sorta di "trauma esistenziale" che, secondo loro, indurrebbe
degli affetti negativi con conseguente ricorso compensatorio all'alcol.

1
Fischer, N.-G., Trattato di Psicologia della Salute, ed. Borla

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Nel secondo caso, invece, l'ingresso nel mondo dell'alcolismo è precoce, poiché spesso fa riferimento
ad almeno un familiare alcolizzato che ha pesato sullo sviluppo del soggetto (spesso dall'infanzia).
L'influenza poi ulteriore del gruppo di amici identificati come dei fattori di rischio è chiaramente
evocata da queste persone. La sintomatologia associata a questo caso rinvia a dei comportamenti
antisociali piuttosto che a dei disturbi affettivi; i disturbi di alcol sono spesso precoci (< 20 anni) ed
anche in questo caso viene sospettata l'esistenza di difficoltà di socializzazione nell'infanzia, oltre
all'associazione tra comparsa di problema gravi di alcol con una storia precoce di antisocialità.

L'eziologia profana dell'alcolismo maschile


Negli uomini l'organizzazione bipolare degli schemi rappresentativi pare essere ancora più netta.
Si osserva che un evento scatenante unico e senza precedenti psicologici, culturali o biografici è
sufficiente per indurre all'alcolismo. Molti uomini riferiscono, invece, del ruolo patogeno
dell'ambiente professionale e dell'allenamento" come fattori di ricaduta; in questo caso ci si riferisce
a degli uomini che entrano nella sfera dei problemi di alcol in età avanzata (quarantina), già inseriti
nella vita professionale e la cui vita collettiva rimane per lo più rilevante, che non manifestano
conseguenze antisociali del loro alcolismo.
Lo schema organizzativo delle teorie profane dell'alcolismo
Le teorie profane sull'alcolismo, come su altre tipologie di disturbi, si basano su logiche
semplificatrici e bipolari che contrappongono le cause esogene del male a quelle endogene;
importante è anche sottolineare che queste teorie non contaminano solo il senso comune, ma spesso
si insinuano anche all'interno del ragionamento scientifico, soprattutto quando il problema di salute
rientra negli interessi della sfera politica e delle sfide sociali.

6. L'eziologia psicosociale dei comportamenti problematici nei giovani


Secondo Edwards, la dipendenza da sostanze psicoattive corrisponde ad una perdita di plasticità
comportamentale, un'incapacità di affidare il comportamento alla situazione. A partire da Lewin, la
psicologia sociale ha invece portato avanti il concetto per cui il comportamento sarebbe il risultato di
un'interazione tra la persona e il suo ambiente (Cpt = f(P-A)). Savada, inoltre, afferma come
"l'interazionismo moderno" degli anni 70 sia rimasto come incatenato nei limiti dell'analisi della
varianza a 2 fattori (ANOVA) perché, nonostante quest’ultima abbia permesso di distinguere tra
variabili disposizionali stabili (tratti) e delle variazioni prodotte in determinate situazioni (stati) e di
verificare le ipotesi sulla base del modello tratto-stato, offre una visione limitata della realtà sia a
livello strutturale (sottostimando la natura multidimensionale della personalità e dell'ambiente) che
temporale (limitando gli studi ad eventi puntuali). Inoltre, le variabili discrete prese in considerazione

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in questo modello sono di difficile comparazione con una realtà che è sempre più di natura continua,
piuttosto che discontinua.

La concezione interazionista dei comportamenti problematici


Savada propone una "psicologia morale interazionale", più appropriata allo studio dei tipi di
comportamenti e ai problemi complessi iscritti nella durata. In questo modello si ritrovano i lavori di
Jessor relativi all'eziologia psicosociale dei comportamenti problematici, tra cui la "teoria del
comportamento-problema", la quale considera che il consumo di alcol si collochi in un insieme più
ampio di comportamenti e di variabili psicosociali. Il concetto di "comportamento-problema", per
Jessor, indica da un lato i comportamenti dei giovani considerati dalla società globale come
inappropriati o indesiderati e, dall'altro, come una disposizione generalizzata e come classe di
comportamenti soggetti a covariare per formare una sindrome specifica.
Il modello di Jessor è costituito da cinque sistemi in interazione, di cui tre sistemi interni al soggetto:
1.il sistema di personalità, che comprende a sua volta 3 sotto-insiemi (motivazioni credenze e valori,
atteggiamenti e sentimenti di controllo di fronte alla devianza);
2. il sistema dell'ambiente percepito, formato da 2 sotto-insiemi (la struttura distale, che include il
supporto genitoriale percepito, la natura delle relazioni percepite fra gli amici e i genitori, e la struttura
prossimale, che tiene conto dell'atteggiamento percepito dei genitori nei confronti del
comportamento-problema e l'atteggiamento percepito degli amici);
3. il sistema comportamentale, che riunisce la struttura dei comportamenti problematici (uso di
droghe, precocità rapporti sessuale, ecc…) e la struttura dei comportamenti convenzionali (profitto
scolastico, ecc.);
Ognuno dei tre sistemi è abitato da "forze" opposte che manifestano l'orientamento convenzionale o
anticonvenzionale del soggetto.
A questi 3 sistemi interni, si aggiungono poi altre 2 strutture esterne, considerate come antecedenti
(es, caratteristiche socio-demografiche) o fondamento (es, modalità di socializzazione della famiglia).

La validità euristica del modello di Jessor


Il modello precedentemente esposto è stato utilizzato in uno studio longitudinale, su 637 studenti
liceali, dai 13 ai 30 anni, su un periodo di 12 anni. La ricerca ha fortemente convalidato il concetto di
comportamento-problema, mostrando forti covariazioni tra i comportamenti problematici degli

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adolescenti:
-forte covariazione tra uso prodotti psicoattivi, precocità condotte sessuali e condotte devianti in
generale; inoltre, i problemi di alcol generalmente tendono a venir fuori dopo l'uso iniziale di
marijuana e prima dell'uso di droghe pesanti;
-la transizione verso lo status di bevitore accompagna una transizione psicosociale più globale; così,
l'uso iniziale di alcol è accompagnato (se non preceduto) da una diminuzione dei valori convenzionali
(es, interessi accademici), un aumento dei valori di indipendenza e una più forte tolleranza verso la
devianza. Questo cambiamento è ancora più accentuato quanto più l'ingresso nell'abuso è precoce.
Queste considerazioni portano inoltre a distinguere tra profili di risposta predittori di problemi
(problem proneness pattern) e quelli che traducono l'evoluzione del soggetto adolescente (transition
proneness pattern);
-il passaggio dall'adolescenza alla giovane età adulta mostra che, di per sé, questo non conduce ai
problemi di alcol, anche per coloro che nell'adolescenza mostrano problemi con esso; la tendenza
globale è piuttosto quella del ritorno ai modi convenzionali. Inoltre, i soggetti classificati come
bevitori problematici in età adulta non mostrano, nell'adolescenza, problemi specificatamente legati
alla sostanza quanto, piuttosto, ad una predisposizione generale ai comportamenti problematici;
-lo sviluppo psicosociale normale dell'adolescente è contraddistinto dall'ingresso in alcuni "status
simbolici" (bevitore, non più vergine, ecc) per cui questi possono fungere da rinforzo per alcuni fattori
di rischio.
Conclusione
L'esempio dell'alcolismo offre un buon esempio di complessità disviluppo e di eziologia. Come detto
precedentemente, per alcuni soggetti il rischio nascerà poco dopo l'incontro con un prodotto, per altri
il rischio esiste già prima di qualsiasi consumo effettivo o, per altri ancora il rischio si manifesterà
dopo anni di consumo controllato oppure, dopo svariati episodi etilici acuti, torneranno ad un
consumo controllato. Il concetto di rischio "fluido" proposto da Zucker si incastra bene con la realtà
di un fenomeno in movimento e sensibile ai processi di assimilazionee accomodamento, permettendo
inoltre di affrontare lo studio sui fattori di resilienza che proteggono alcuni soggetti "ad alto rischio".

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Lezione N.26. -CAMBIAMENTO DEI COMPORTAMENTI DI SALUTE

Cambiare un comportamento legato alla salute non è un compito facile. In via generale, un
comportamento è prima di tutto un’azione osservabile, ma non sono le motivazioni personali che
permettono di qualificarlo come comportamento legato alla salute; sono piuttosto le conseguenze,
positive o negative che può avere sulla salute.

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TEORIE PREDIZIONE CAMBIAMENTO

Generali -Teoria azione ragionata -Modello transteorico


-Teoria del comportamento
pianificato
-Teoria sociale cognitiva
-Teoria dei comportamenti
interpersonali

Specifiche del settore della -Modello credenze relative -Modello del processo
salute alla salute prudenza adattamento
-Teoria della motivazione a -Modello di riduzione del
proteggersi rischio di AIDS
-Modello informazione,
motivazione e comportamento

I principali quadri teorici


Molte teorie che tendono a comprendere il processo sottostante l’adozione e il mantenimento dei
comportamenti sono state applicate nel settore della salute (Godin, 1991). Secondo Sutton (2000), vi
sono le teorie di predizione e quelle del cambiamento.

LE TEORIE DI PREDIZIONE
- Il modello delle credenze relative alla salute (Health Belief Model, HBM):
comparso verso il 1950 (Rosenstock, 1974). Originariamente è stato formulato allo scopo di spiegare
perché le persone accettavano/ non accettavano di fare un test di individuazione delle malattie
asintomatiche (es. cancro ai polmoni). In seguito, il modello è stato utilizzato per comprendere i
comportamenti associati alla prevenzione delle malattie (es. vaccinazione) e all’osservanza
terapeutica. Le applicazioni che riguardano lo studio dei comportamenti legati alla salute (es.
abitudini di vita) sono più recenti. L’ HBM asserisce che un individuo può effettuare delle azioni per
prevenire una malattia (o una condizione sgradevole) se possiede le conoscenze minime in materia di
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salute e se considera quest’ultima come una dimensione importante confrontando i vantaggi e gli
svantaggi per prevenire la malattia.
Esempio: dopo aver abbandonato l’uso del tabacco, il soggetto arriva alla conclusione che questa
azione ha più lati buoni che cattivi, quindi conclude che smettere di fumare è una misura preventiva
efficace per preservare la qualità dei suoi polmoni. L’HBM quindi mette essenzialmente l’accento
sulle credenze legate alla salute o alla malattia.
- Teoria sociale cognitiva di Bandura (1986). Secondo questa teoria, le differenze individuali nel
modo di compiere un’azione o di adottare un comportamento significativo si spiegano in larga parte
con 2 credenze: la credenza nell’efficacia del comportamento e quella dell’autoefficacia.
Secondo questa teoria, un individuo adotta un comportamento di salute se considera che quest’ultimo
contribuisce al raggiungimento dei risultati previsti ma, prima di tutto, se ha sufficientemente fiducia
nella sua capacità di realizzarlo al momento di eseguirlo.
- Le teorie dell’azione ragionata (Fishbein e Ajzen, 1975): secondo questi autori l’adozione di un
comportamento controllato dalla volontà dipende solo dalla motivazione, la quale, a sua volta,
canalizza tutti gli atteggiamenti e le regole che un individuo segue nei suoi confronti in un contesto
ben definito. Gli atteggiamenti raggruppano, da una parte, le risposte cognitive ed emozionali che
sorgono spontaneamente al pensiero di adottare un comportamento e, dall’altra, la valutazione
soggettiva delle conseguenze dell’agire sulla vita. Le norme soggettive informano sull’importanza
che l’individuo attribuisce all’opinione delle persone che lo circondano, riguardo al suo
comportamento.
Sebbene interessante, la teoria dell’azione ragionata include solo i comportamenti sorretti dalla
volontà. Capitano, tuttavia, delle situazioni nella vita in cui il controllo volontario è limitato.
Per ovviare a questa lacuna Ajzen ha introdotto la teoria del comportamento pianificato (1991).
Questa componente riflette la capacità di un individuo di adottare un comportamento o in un contesto
generale o al momento di superare alcune eventuali difficoltà. Come gli atteggiamenti e le norme
soggettive, la percezione del controllo comportamentale può influenzare l’intenzione e, inoltre, può
agire direttamente sul comportamento. Tuttavia, il valore predittivo o la forza di associazione fra le
variabili di queste teorie saranno dipendenti dai 4 elementi seguenti: l’azione, l’oggetto, il contesto e
il tempo. Secondo Ajzen e Fishbein (1980) la predizione del comportamento sarà tanto più esatta
quanto più il contesto nel quale si svolge ed il momento in cui potrà realizzarsi saranno stati
specificati.
- La teoria dei comportamenti interpersonali (Triandis, 1980): considera che il comportamento risulta
da 3 fattori: la forza dell’abitudine, l’intenzione di adottare il comportamento e la presenza di
condizioni che ne facilitano l’adozione. I 2 primi fattori variano a seconda della novità del

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comportamento studiato. La forza dell’intenzione è determinante per l’adozione di un nuovo
comportamento, mentre quella dell’abitudine aumenta con il grado di automatismo che può risultare
dalla realizzazione ripetuta di questo comportamento.
Le condizioni che facilitano (CF) l’adozione del comportamento includono contesti e situazioni varie
che possono favorire l’adozione del comportamento. È chiaro che sono le intenzioni e le sue
determinanti, così come i fattori facilitanti, che devono essere presi in considerazione nel corso della
pianificazione di interventi che mirano all’adozione di un comportamento. L’intenzione o la
motivazione associata all’adozione del comportamento si definisce attraverso 4 costrutti:
1 componente cognitiva dell’atteggiamento
2 dimensione affettiva dell’atteggiamento
3 determinanti sociali
4 convenzioni personali
- Modello integrativo (Godin, 1996): Secondo questo quadro integrativo, il comportamento sarebbe
predetto dall’intenzione sempre che le condizioni siano favorevoli alla concretizzazione di
quest’ultima. Perché ciò accada, devono essere presenti le risorse necessarie e i fattori facilitanti
l’azione. A titolo di esempio, è facile immaginare che non è possibile andare in bicicletta senza
bicicletta.
Intenzione definita da 8 variabili raggruppate in 3 categorie:
Categoria 1: atteggiamento delle persone nei confronti del comportamento da adottare.
L’atteggiamento è suddiviso in componente cognitiva (è il risultato di un’analisi soggettiva dei
vantaggi e degli svantaggi che risulterebbero dall’adozione del comportamento nei confronti del
comportamento da adottare) e dimensione affettiva (è la risposta emozionale di una persona all’idea
di avere un dato comportamento).
Categoria 2: Norme percepite che esercitano un’influenza sulla motivazione ad agire. Le norme
possono essere sociali (che è il riflesso della nostra percezione delle attese delle persone del nostro
ambiente sociale riguardo all’adozione di un comportamento) che sono definite dalle credenze
normative (fanno riferimento alla percezione del grado di approvazione di altre persone importanti
per un individuo riguardo l’adozione di un comportamento) e dalle pressioni avvertite (rappresentano
la percezione delle persone che gli altri esercitano su di lui perché adotti quel comportamento); poi
vi sono le norme comportamentali (che prevale nel nostro ambiente sociale; essa si esprime nella
prevalenza di questo comportamento); abbiamo anche la credenza nei ruoli sociali (è la percezione di
un individuo di ciò che deve fare qualcuno che occupa una posizione simile alla sua nella struttura
sociale, riguardo a quel dato comportamento); infine vi è la norma morale (la persona valuta fino a
che punto il comportamento è in accordo o meno con i suoi principi). Questa norma si differenzia

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dalla norma sociale: essa non dipende direttamente dalla percezione di quello che pensano gli altri,
ma piuttosto dai principi personali riguardo al comportamento da adottare.
Categoria 3: rappresenta la nostra capacità di adottare il comportamento, ossia il controllo percepito
che si ha sull’adozione di un dato comportamento. Questa capacità è formata dalle barriere percepite
(Ajzen, 1991; Triandis, 1980) e dall’efficacia personale (Bandura, 1994). Le barriere percepite,
fisiche o psicologiche, rappresentano ciò che impedisce l’adozione di un comportamento. Per quel
che riguarda l’efficacia personale, essa rappresenta il sentimento di capacità di adottare un dato
comportamento malgrado la presenza di difficoltà che potrebbero insorgere. Bisogna aggiungere che
l’importanza relative delle categorie, così come quella di fattori all’interno di queste categorie, varia
in funzione dei comportamenti e delle popolazioni studiate. Infine, le variabili dette “esterne” come
l’età, il sesso, il livello di educazione e diversi tratti della personalità esercitano la loro influenza
sull’intenzione per mezzo dell’una o dell’altra delle 3 categorie di fattori.

TEORIA DEL CAMBIAMENTO


Una persona può riconsiderare a più riprese il suo modo di agire prima di procedere all’azione.
Durante questo cammino, che può durare mesi o addirittura anni, essa integra nuovi elementi che
possono influenzare la sua decisione. L’originalità del modello trans-teorico suggerito da Pochaska
(1995) è effettivamente la messa in luce di questo processo dinamico. Secondo questa teoria, il
percorso attraverso i vari stadi di cambiamento non è necessariamente lineare.
Proposto il percorso a spirale (include 5 stadi):
- 1 precontemplazione: periodo in cui l’individuo non intende cambiare il proprio comportamento e
in cui esso lo può anche negare;
- 2 contemplazione: il soggetto prende coscienza della situazione e considera di trovare una soluzione
per modificarla;
- 3 preparazione: l’individuo avvia alcuni tentativi di cambiamento in modo molto puntuale per poi,
nel corso del del quarto e quinto stadio, passare realmente all’azione e mantenere la sua nuova
condotta. Se quest’ultima tappa dura abbastanza a lungo per non pensare più all’antico modo di agire,
allora il cambiamento di comportamento avrà raggiunto la fase finale.

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Lezione N.27. -IL SOSTEGNO SOCIALE E LA PRESA IN CARICO

La nozione di sostegno sociale è stata introdotta in psicologia della salute per indicare l’ambiente
sociale del malato, inteso non solo nelle sue caratteristiche oggettive, ma anche nel modo in cui gli
individui lo percepiscono. Degli studi (Dressler e Bindon, 2000; Seeman 2001) hanno mostrato che
qualcuno può percepire una situazione come stressante e non avere reazioni di ansia e sconforto se
beneficia di un sostegno sociale. Al contrario, un debole sostegno sociale sembra costituire un fattore
di vulnerabilità di fronte ad un evento stressante. L’importanza e la specificità del sostegno sociale
non risiedono nella somma delle relazioni, ma piuttosto nella qualità dei supporti affettivi che queste
rappresentano per il malato. Ciò che sembra importante è il modo in cui l’individuo percepisce questo
sostegno sociale. Per questo è stata apportata un’ulteriore distinzione in diversi studi fra sostegno
sociale percepito (che rappresenta la valutazione fatta dall’individuo del sostegno affettivo che gli
viene dato, in relazione all’adeguatezza o meno del sostegno) e il sostegno sociale ricevuto (che
corrisponde alla rete relazionale che si sviluppa attorno a questo individuo). Per Schumaker e
Brownell (1984), il sostegno sociale può definirsi come uno scambio fra 2 persone allo scopo di
migliorare la qualità di vita di una di loro. Kobasa (1985), il sostegno sociale è una risorsa psicologica

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che definisce le percezioni di un individuo rispetto alla qualità delle sue risorse sociali. Siegel (1993)
considera che la funzione principale del sostegno sociale è quella di fornire delle informazioni ad una
persona nel quadro di una rete di comunicazione formale o meno. I pazienti devono essere in grado
di identificare le fonti potenziali di sostegno sociale all’interno del loro ambiente, al fine di poterle
utilizzare efficacemente. I membri della famiglia e l’ambiente diretto del malato hanno talvolta
bisogno di essere guidati nei loro percorsi di sostegno, per far si che le loro “buone intenzioni” non
abbiano un effetto nocivo. È risaputo che l’atteggiamento iniziale delle persone che desiderano
incoraggiare un malato è quello di essere di umore gaio e positivo. Un tale atteggiamento può
paradossalmente avere un effetto negativo, ponendo il paziente nell’impossibilità di condividere il
proprio sconforto con gli altri. Inoltre, la natura dell’aiuto di cui hanno bisogno i malati può essere
diversa in relazione alle fasi della malattia. Un aiuto tangibile, concreto, come quello di condurre ed
accompagnare un malato alle varie visite mediche, può rilevarsi importante in alcuni momenti.
Mentre, in altri momenti, sarà preferibile il sostegno emozionale. I gruppi di sostegno rivolti ai malati
possono essere di importante aiuto per evitare il ripiego dei malati su loro stessi. Lo sviluppo della
comunicazione e la condivisione di esperienze, che sono al centro di tali gruppi, non potranno che
contribuire alla diminuzione del sentimento di isolamento sociale, alla creazione di legami sociali,
all’espressione delle emozioni e alla desensibilizzazione dei malati rispetto alle loro paure. Anche se
questi gruppi di sostegno riguardano più spesso i malati, essi possono anche rivolgersi alle famiglie.
I gruppi organizzati dagli specialisti della salute sono spesso proposti per promuovere il sostegno
emozionale, l’informazione e l’educazione dei malati. In un tale contesto, uno degli aspetti più
importanti rimane lo scambio di esperienze vissute fra i partecipanti. Questo permette ai pazienti di
identificare meglio i loro bisogni e limita il sentimento di alienazione di questi ultimi attraverso la
convalidazione ed il riconoscimento dei sentimenti e degli atteggiamenti provati. I gruppi organizzati
dai malati sono anche il luogo privilegiato della manifestazione e dell’espressione del sostegno
sociale. Questo sostegno non emana dagli individui che compongono la rete sociale o dall’ambiente
abituale dell’individuo, ma da individui che si raggruppano per aiutarsi reciprocamente quando hanno
a che fare con una difficoltà o un problema. Questi gruppi di aiuto reciproco raccolgono dei membri
che sono malati, vittime di una crisi o di uno sconvolgimento nella loro esistenza. I membri sono
percepiti tutti allo stesso modo e si aiutano a vicenda manifestando un sostegno morale reciproco,
condividendo le loro esperienze e discutendone insieme. La partecipazione dei membri a questi
gruppi è naturalmente libera e volontaria. Se la partecipazione attiva dei malati favorisce il loro
adattamento, i gruppi proposti dagli specialisti sembrano, al contrario, condurre ad una certa passività
dei malati. Si può dire che, complessivamente, i membri di questi gruppi seguono degli obiettivi che
possono essere classificati in 3 grandi categorie: cambiare sé stessi, adattarsi alla situazione o

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cambiare le relazioni della società. La famiglia dei pazienti potrà assumere un ruolo di sostegno
sociale a condizione di essere strutturata e solida; quando questo non accade viene proposta una presa
in carico globale dei malati e delle famiglie nel quadro di una terapia famigliare (Fishman, Andes e
Knowlton, 2001).
La comparsa della malattia non è priva di conseguenze sullo stato psicologico delle famiglie che
hanno spesso bisogno di un aiuto esterno per comunicare, reagire, capire e far fronte alla situazione
nuova e destabilizzante provocata dalla malattia. Gli obiettivi dei gruppi di sostegno alle famiglie
sono quelli di aiutare queste ultime a non ripiegarsi su loro stesse, di portarle a creare nuove relazioni
e di favorire la comunicazione con il malato. Questi interventi hanno un obiettivo di prevenzione e di
trattamento. Essi permettono, da una parte, di agire rapidamente quando si sviluppano dei disturbi
psicologici e talvolta psichiatrici e, dall’altra, di rendere più resistenti i membri della famiglia che
potenzialmente possono confrontarsi con il decesso del malato. Le famiglie dei pazienti hanno spesso
la sensazione che, rispetto a quella del malato, la loro sofferenza non è legittima e che, talvolta, essa
è addirittura indecente. Esse provano spesso, nei confronti del malato, dei sentimenti ambivalenti a
causa della frattura che rappresenta la malattia per una famiglia. I sentimenti di pudore, colpevolezza,
vergogna e solitudine provati dalle famiglie fanno si che esse si sentano spesso sprovvedute e inutili.
Il tipo di sostegno familiare rimane, ben inteso, legato alla maturità psichica della famiglia, alla quale
il terapeuta dovrà adattarsi. Tuttavia, il fatto di permettere e favorire l’espressione di tali emozioni,
di riconoscerle, non potrà che avere un effetto positivo. La riconoscenza sociale della sofferenza dei
cari ha come effetto quello di ripristinare il loro una certa autostima.
Un’attenzione particolare deve essere rivolta ai bambini, quando sono molto vicini al malato. Essi
hanno infatti un’immaginazione particolarmente fervida che può dar luogo a rappresentazioni
fantasmatiche terrificanti o colpevolizzanti. In una situazione ideale, l’informazione può essere data
dai genitori precedentemente informati e preparati. In caso contrario, l’assenza di informazione non
fa che prolungare lo sconforto del bambino, cosa che può intralciare o addirittura rallentare il suo
sviluppo (Brown, 1987).
Il sostegno individuale
- Interventi psicoterapeutici brevi: molti di questi interventi sono stati proposti per alleviare lo
sconforto emozionale dei pazienti colpiti da una malattia cronica. Dire al paziente che l’angoscia è
una risposta normale allo stress della malattia cronica, o che la depressione è una conseguenza
abituale di certi disturbi, può dare sollievo ai pazienti e ai membri della famiglia. Questa specie di
comunicazione personale con il paziente può migliorare l’individuazione dei disturbi dell’umore e
favorire la circolazione delle informazioni. È risaputo che la rassegnazione, e cioè il fatto di
sviluppare dei sentimenti di impotenza di fronte ad un evento percepito come incontrollabile, inibisce

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la mobilitazione di risorse per far fronte alla malattia. Così, il ristabilirsi del sentimento di controllo,
che può assumere diverse forme, deve essere considerato come un obiettivo specifico della presa in
carico dei malati.
- Strategie di sostegno: Il sostegno deriva da un atteggiamento positivo, di non giudizio e di
accettazione del malato da parte del curante. In relazione agli atteggiamenti, il modo non verbale è
spesso utilizzato nella strategia di sostegno. Esso offre ai pazienti la possibilità di esprimere le loro
emozioni, di essere riconosciuti e di restaurare una certa forma di autostima. Tuttavia, quando il
curante è in grado di assumere questa funzione di sostegno al paziente, egli gli deve mostrare di essere
presente fisicamente e psichicamente per mezzo di vari comportamenti non verbali adottando una
postura che esprima interesse e apertura. Il curante deve dunque essere attento ai messaggi trasmessi
dal suo corpo nelle interazioni e chiedersi se il paziente sente la sua presenza, se il suo comportamento
non verbale esprime i suoi atteggiamenti interiori. Nelle situazioni di cura, il tatto e lo sguardo
occupano naturalmente un posto importante. Per quanto riguarda l’ascolto, esso richiede un
atteggiamento empatico che crea un clima di fiducia così che il paziente possa esprimere le sue
emozioni. L’empatia sia nella relazione di cura sia nella relazione psicoterapeutica, permette di
testimoniare della sua comprensione dei sentimenti del paziente e di cogliere la situazione emozionale
nella quale il paziente si trova.
- Identificazione proiettiva (una forma di sostegno patogena):
Nella relazione di cura, il meccanismo di identificazione proiettiva è un tentativo da parte del curante
di dissolvere integralmente le distanze fra curante e curato da una presa in carico attiva e globale della
sofferenza del malato. Questo meccanismo definito da Klein (1952) come il fatto, per il soggetto, “di
introdurre la propria persona nell’oggetto per nuocergli, possederlo, controllarlo”, è un meccanismo
di natura psicotica. Secondo Ruszniewski (1995), nel quadro della relazione di cura, il curante si
sostituisce al malato e trasferisce su di lui alcuni aspetti della sua personalità, prestandogli per ogni
condotta da tenere di fronte alle situazioni di crisi i suoi sentimenti e le sue reazioni, i propri pensieri
e le proprie emozioni. Il curante fa corpo con il suo malato, operando così una vera e propria simbiosi.
Con questa stretta fusione, egli acquisisce la convinzione che lui solo sa ciò che conviene al malato,
lui solo percepisce l’atteggiamento adeguato e appropriato per il benessere del paziente. Egli si sforza
allora di inculcare nel paziente le sue istruzioni, il percorso da seguire più efficace per venirgli in
aiuto, senza mai dubitare che in questo modo egli non fa altro che proiettare sul malato i propri
desideri e le proprie aspirazioni.

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Lezione N.28. - LA RELAZIONE MEDICO-PAZIENTE E LA SOFFERENZA
La relazione medico-paziente e la non adesione terapeutica
Uno dei temi cruciali riguarda il fenomeno della compliance (obbedienza), cioè in quale misura le
persone svolgono le azioni raccomandate o prescritte e seguono i trattamenti medici.
I motivi di un basso grado di compliance sono stati individuati focalizzando l’attenzione sulle
caratteristiche individuali o sui fattori legati al sistema sanitario.
Nel primo caso le ricerche si sono quasi tutte riferite all’Healt belief model, che sottolinea il ruolo
delle credenze dei pazienti sulla percezione dei benefici e degli ostacoli; l’accettazione sarà maggiore
quando il paziente crederà di essere vulnerabile alla malattia.
Nel secondo caso l’attenzione è rivolta all’analisi di alcuni aspetti relazionali e strutturali, quali il
comportamento dello staff, la comunicazione insoddisfacente.
Recentemente si è passati dall’uso della parola compliance al termine adherence (adesione), che
implica uno sforzo volontario da parte dell’individuo. Mentre sembrava implicita la considerazione
della compliance come normativa e buona, le nuove concettualizzazioni sottolineano che non
accettare un regime terapeutico ritenuto inadeguato è legittimo per il paziente. Da qualche anno
l’interesse per i fenomeni di non osservanza si è rivolto all’ambito dell’infezione da HIV, in quanto i
processi terapeutici aumentano la sopravvivenza per i pazienti nei diversi stadi clinici e giustificando
un intervento sempre più precoce nei pazienti asintomatici, tendono a cronicizzare l’infezione e
quindi ad allungare il periodo che richiede l’adesione dei pazienti ad un regime prescritto.
Il dato più nuovo riguarda l’intervento sempre più attivo dei pazienti nelle scelte terapeutiche che li
coinvolgono in seguito all’accesso ad una informazione massiccia proveniente dai mass media.
I dati di alcune ricerche sembrano suggerire che sarebbe in atto una elaborazione di strategie
individuali, radicate in un contesto di appartenenza ad un gruppo.
Numerosi modelli in ambito psicosociale hanno cercato di spiegare la specificità dei problemi, cause,
effetti e variazioni degli scarti tra le aspettative degli operatori sanitari e le strategie dei pazienti. Le

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variabili socio demografiche (età, sesso), di rado appaiono associate all’osservanza, si è rivelato
impossibile identificare dei tratti di personalità predittivi di condotte osservanti.
Sono altri i fattori che influenzano l’osservanza terapeutica:
- Caratteristiche del regime di trattamento (durata, complessità, effetti sulla vita personale)
- Qualità dell’informazione
- Buona comprensione del protocollo.
Altro dato interessante è l’emergere di relazioni significative tra l’osservanza da un lato e le credenze
sulla salute dall’altro, nonché con l’autopercezione della propria capacità di azione.
Questi modelli si sono sforzati di integrare l’influenza dell’ambiente sociale sull’individuo in senso
favorevole o sfavorevole all’adesione al trattamento e all’osservanza di esso.
Inoltre c’è lo sforzo di tenere presente la dinamica temporale, a cominciare dall’idea che le
determinanti dell’adozione iniziale di un comportamento sono distinte da quelle che riguardano la
persistenza di tale comportamento nel tempo, in quanto possono intervenire fattori come situazioni
emotive negative, conflitti interpersonali o pressioni sociali che conducono all’abbandono
dell’osservanza rispettata fino a quel momento.
Nonostante la loro utilità, questi modelli hanno suscitato un numero crescente di osservazioni critiche,
i ricercatori hanno sottolineato la necessità di tenere conto di alcuni elementi come:
I processi di costruzione sociale delle rappresentazioni nella formazione e trasformazione dei
comportamenti di cura.
L’impatto dei processi di influenza nell’adesione o nel rifiuto delle direttive mediche: è stato
verificato che l’appartenenza ai gruppi di riferimento costituisce un mediatore importante nel rapporto
medico-malato.

Le caratteristiche della comunicazione medico-paziente


Sono almeno due le prospettive teoriche che hanno cercato di spiegare le relazioni tra
soddisfazione/insoddisfazione e compliance: una centrata maggiormente sugli aspetti affettivi
dell’interazione l’altra su quelli cognitivi.
La prima prospettiva è esemplificata dal lavoro di Korsch che aveva intervistato circa 800 madri che
avevano portato i figli in una clinica pediatrica. L’autrice mostra come la soddisfazione per la
consultazione medica fosse collegata alle valutazioni relative a tre aspetti del comportamento del
medico: essere amichevole, mostrare di capire i timori e essere dotato di abilità comunicative positive;
se mancano questi elementi i pazienti possono sentirsi insoddisfatti.
Secondo il modello cognitivo di Ley, perché la comunicazione sia efficace, il messaggio trasmesso
deve essere compreso e ricordato. Il fallimento nella comprensione può dipendere da: materiale

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presentato ai pazienti difficile da capire, conoscenze erronee dei pazienti; se i pazienti capiscono e
ricordano ciò che è stato detto loro saranno più soddisfatti.
Questo modello secondo Rutter ha un punto debole: non dice nulla su ciò che medico e paziente
portano nella relazione, cioè quello che si riferisce alla storia del loro rapporto e dei precedenti
incontri alle loro aspettative reciproche, alle credenze, agli atteggiamenti.
Pertanto non occorre solo analizzare ciò che succede durante l’interazione, ma tenere conto di alcune
variabili antecedenti (social inputs).
Nel modello di elaborazione delle informazioni di Frederikson, sono tre i livelli di analisi
dell’interazione comunicativa medico-paziente:
- Input: le aspettative, le conoscenze sia del medico che del paziente.
- Processo: ciò che succede durante le varie fasi conversazionali.
- Risultato: percezioni, diagnosi, soddisfazione.
Il modello si basa su una definizione allargata di informazione suggerendo che più è esplicito e aperto
il dialogo tra paziente e medico, più è efficace l’intero processo; in ogni fase è possibile trovare dei
problemi di comunicazione, a livello dell’input ci sono differenze legate alle conoscenze, alle
aspettative.
Un aspetto interessante del modello è l’insistenza sulla mutualità e reciprocità della relazione.
Buunk e Schaufeli sostengono che anche in una relazione chiaramente asimmetrica la mancanza di
reciprocità può contribuire a rendere la relazione molto impegnativa sul piano emotivo, tanto da
procurare all’operatore una sensazione di esaurimento emotivo, preludio della sindrome di burnout;
ricerche hanno evidenziato l’esistenza di una correlazione positiva tra scarsa reciprocità e dimensioni
del burnout.
Un altro modello è stato proposto da Hinckley, Craig e Anderson: l’analisi è centrata sulle relazioni
tra processi comunicativi, variabili mediatrici e risultati; questi ultimi sono definiti come il prodotto
dell’interazione tra i mediatori personali e contestuali, e i comportamenti verbali e non verbali. Le
variabili mediatrici comprendono le caratteristiche personali, quali sesso, età, credenze,
atteggiamenti, caratteristiche situazionali.
Le variabili di risultato, relative alla cura del paziente, possono essere distinte in tre categorie:
• Livello cognitivo (es. cambiamenti delle conoscenze di base del paziente)
• Livello comportamentale (es. attenersi alle prescrizioni terapeutiche)
• Livello affettivo/emotivo (es. soddisfazione per la visita medica).
Per quanto riguarda gli aspetti non verbali questi vengono considerati come regolatori della
conversazione o come modi alternativi delle forme verbali convenzionali, l’abilità del medico sta nel
decifrare questi messaggi.

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Per quanto riguarda le forme verbali soprattutto tre sono state oggetto di analisi:
• Scelta lessicale: la scelta di un linguaggio tecnico decreta la superiorità del medico.
• Fare domande: rivela la relazione di ruolo tra medico e paziente (es. aperte o chiuse); la difficoltà
nel fare domande dipende spesso dal fatto che la relazione medico-paziente è concepita da entrambi
come una richiesta offerta di aiuto, e non come una richiesta offerta di conoscenze.
 Spiegazioni fornite dal paziente riguardano dati anagrafici, motivazioni della visita, mentre
quelle fornite dal medico vengono date in replica o meno a domande, il problema di fornire
spiegazioni al paziente implica l’assunzione del punto di vista dell’altro, ciò consente di
entrare nella relazione terapeutica senza cerimoniali.

Implicazioni operative della comunicazione medico-paziente


Un aspetto importante del problema riguarda le implicazioni operative. Le prospettive delle due parti
interagenti sono spesso differenti, occorre perciò tenere conto di tali divergenze se si vuole migliorare
la comunicazione.
Nella percezione del paziente i problemi riguardano:
• Carenza quantitativa di informazioni (è necessario tenere conto di livelli d’ansia diversi)
• Lacune nella comunicazione (legate alla scarsa comprensione della terminologia usata)
• Difficoltà di memorizzare (la difficoltà a utilizzare le informazioni non sembra tanto legata alla
difficoltà di memorizzare, quanto al problema di interpretare delle conclusioni diagnostiche e alla
comprensione del nesso di queste con le prescrizioni)
• Scarsa partecipazione emotiva da parte del medico
• Ruolo passivo conferito al paziente.
Il paziente usa come strategia narrativa le storie, in cui le informazioni pertinenti si mischiano con
altre non rilevanti, in modo da sentirsi valutato come interlocutore dotato non solo di una storia
clinica, ma anche di una vita.
Nella percezione del medico i problemi riguardano:
• Reazioni di carattere controtransferale (irritazione, insofferenza per certi tipi di pazienti)
• Scarsità di informazioni fornite dal paziente
• Scarsa osservanza o adesione del paziente alle prescrizioni del medico.
L’acquisizione di abilità comunicative da parte del medico è desiderabile, tuttavia la formazione in
questo ambito è trattata come un argomento di scarsa rilevanza.
Tra gli obiettivi del futuro medico, oltre la comprensione dei sintomi, ci dovrebbe essere la capacità
di realizzare una adeguata comunicazione con il paziente; tre sono le capacità indicate come
importanti: capacità di ascolto, chiarezza di espressione, autoconsapevolezza.
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Se si considerano i pazienti come individui autonomi responsabili della loro salute e del loro
benessere, che ricorrono ai medici come fonti esperte di informazioni per giungere a una
comprensione condivisa del problema oggetto di analisi e per ottenere accesso a particolari servizi,
allora occorre incrementare la partecipazione dei pazienti alla consultazione. Il paziente deve
assumere un ruolo più attivo, anziché confinarsi al ruolo di fornire esclusivamente risposte.
Essere malato: fra sofferenza e malattia
Essere malato
Un tratto caratterizzante la relazione curante-curato è la sofferenza. La malattia infatti non è
soltanto il quadro nosografico che la definisce ma si diffonde in tutto ciò che siamo, modificando il
nostro rapporto col mondo. Essa genere due tipi di angoscia:
1. La prima si rapporta all’angoscia di castrazione. Questo orientamento fantasmatico universale nutre
le nostre paure consce e inconsce di essere castrati di un elemento fondamentale del nostro essere,
per punizione di un’ipotetica colpa (esperienza di perdita). La salute è una di questi elementi
fondamentali.
2. La seconda è legata all’angoscia di morte. La malattia le conferisce una potenzialità concreta che
fino a quel momento era rappresentata solo da un timore.
L’equilibrio psichico di una persona dipende dal modo in cui essa gestisce queste due variabili,
attivando diversi meccanismi difensivi.
Meccanismi adattivi
Per far fronte a queste angosce, i malati attivano dei meccanismi adattivi che permettono di far fronte
al rischio di crollo psichico.
L’adattamento alla malattia corrisponde ad un atteggiamento di reazione equilibrato che permette al
tempo stesso una presa di coscienza della patologia e un livello di regressione che consente la cura
(non è comunque la norma). Il diniego occulta totalmente la realtà del disturbo e il paziente continua
nonostante tutto a voler proseguire la propria vita come prima. Anche la negazione è simile, anche se
si tratta di evitare una presa di coscienza tuttavia già parzialmente innescata.
Con la persecuzione il paziente attribuisce ad un oggetto esterno la causa dei suoi mali, questa
reazione condivide la logica con la reazione paranoica che si basa sugli stessi meccanismi
interpretativi e proiettivi. L’isolamento si traduce nell’apparente assenza di emozioni legate alla
malattia, dovuta alla dissociazione tra la rappresentazione della stessa e l’affetto correlato. Questa
dissociazione permette agli elementi dolorosi di essere ascoltati, ripresi e trattati dal paziente da un
punto di vista asettico. L’annullamento consiste nel sopprimere la rappresentazione fastidiosa dal
campo della coscienza. Un esempio è l’ipomania, che lo fa attraverso l’iperattività. Con lo
spostamento il paziente invece trasferisce l’angoscia ad un altro problema meno grave (es. il lavoro).

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Infine con il controllo (maîtrise) il malato cerca compulsivamente di conservare il controllo degli
aspetti della sua malattia e della cura, non ascoltando le raccomandazioni terapeutiche e rifiutandosi
di “lasciarsi andare”.
La sofferenza: al cuore del legame
Non esistono buone o cattive difese. Il lato mortifero del loro utilizzo comincia quando si
irrigidiscono impedendo al paziente di vivere e di curarsi. La malattia prende e fa senso nella storia e
nella vita di un soggetto intaccato nella sua unità somatopsichica. Inoltre, i pazienti ci dicono di essere
malati e non di avere una malattia. Ed è questa unità che ci viene portata dal malato nella relazione
di cura.
I volti della sofferenza
Nella malattia, i malati si aspettano dai curanti due cose complementari: la guarigione della loro
malattia e la presa in carico della loro sofferenza.
Dal dolore alla sofferenza
La sofferenza comunque non è solo il dolore di quelli che hanno male; è anche il vissuto di quelli che
sono malati.
Il dolore viene percepito come una sensazione concreta che si distingue dall'emozionalità soggettiva
della sofferenza, e per questo è stato a lungo “ascoltato”, ma non “compreso”.
Il dolore fisico: aver male
Il dolore fisico è filtrato e adattato a nella sua int