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Riassunto psicologia clinica

psicologia clinica (Università telematica Universitas Mercatorum di Roma)

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CAPITOLO 1: EZIOLOGIA, DIAGNOSI, TRATTAMENTO E PREVENZIONE DEI PROBLEMI PSICHICI E


COMPORTAMENTALI
La disciplina denominata “psicologia clinica” è intesa come quella disciplina della psicologia che studia i
metodi di valutazione e di intervento finalizzati a definire l’eziologia, la diagnosi, il trattamento e la
prevenzione dei problemi psichici e comportamentali. La psicologia clinica è strettamente legata alla
psicologia dinamica. Il corso utilizza nei confronti della psicologia clinica un approccio basato sulla
letteratura scientifica più accreditata e condivisa a livello internazionale, ovvero riconosciuta dalla comunità
scientifica internazionale secondo criteri oggettivi condivisi. La psicologia clinica si può applicare in ambito
clinico, forense, penitenziario, socioeducativo, scolastico e aziendale, presso strutture o enti pubblici e
privati. Il corso consentirà agli studenti di conoscere i fattori di rischio dei problemi psichici e
comportamentali, i criteri e le metodologie tecniche più appropriate per formulare una corretta diagnosi.
La psicologia clinica fa riferimento a diversi approcci che hanno in comune lo studio dei processi e
meccanismi psichici che caratterizzano la personalità e il comportamento.
Il presente corso offrirà complessivamente un approccio contenutistico che privilegia la trattazione dei
singoli fenomeni al fine di fornire una visione complessiva e il più possibile unitaria.
È possibile considerare tre impianti teorici nettamente distinti e oggettivamente distinguibili nei loro
principi di analisi dell’agire umano e dei suoi stati d’animo.
La teoria psicoanalitica rappresenta il primo di tali impianti teorici. Tale teoria, nella proposizione originaria
di Freud e nelle sue elaborazioni successive, afferma che la condotta umana, l’esperienza affettivo-
relazionale e la sofferenza psichica risentono delle esperienze nelle prime fasi di vita.
Nel corso dei decenni, dalla teoria psicoanalitica hanno preso origine diverse teorie complessivamente
denominate “psicodinamiche”, alcune delle quali hanno avviato dei filoni autonomi che hanno talvolta
intrapreso strade e posizioni anche molto distanti rispetto all’impianto teorico originario e che sono state
catalogate anche in maniera distinta e indipendente.
Il comportamentismo rappresenta il secondo grande impianto teorico totalmente autonomo in psicologia.
Tale teoria operò una netta rottura rispetto alla psicoanalisi, in quanto scelse come oggetto di analisi
esclusivamente il comportamento osservato e misurabile, trascurando volutamente ogni fenomeno
intrapsichico in quanto non direttamente osservabile.
Il cognitivismo costituisce il terzo impianto teorico. Tale teoria ha adottato l’approccio fortemente empirico
del comportamentismo per studiare non solo il comportamento direttamente osservabile ma anche i
fenomeni mentali il cui funzionamento è possibile comunque indirettamente dedurre dall’osservazione e
misurazione di variabili oggettive come il comportamento, le emozioni, le relazioni, ecc.

CAPITOLO 2: L’ASSESSMENT IN PSICOLOGIA CLINICA


L’assessment in psicologia clinica si riferisce alla raccolta e integrazione di dati che vengono effettuate nel
processo di valutazione che lo psicologo compie in ambito clinico o forense nei confronti di una persona a
livello individuale, o di due o più persone in contesti relazionali o di gruppo, al fine di rintracciare i fattori di
rischio di un potenziale problema che ancora non si è sviluppato e, quindi, individuare gli interventi
preventivi più idonei ed efficaci o, qualora il problema si sia già manifestato, giungere ad una diagnosi e
spiegare origini e cause di quel problema e, quindi, individuare gli interventi di trattamento più idonei ed
efficaci e prevedere la prognosi. In pratica, l’assessment in psicologia clinica avviene attraverso uno o più
colloqui, i test e l’esame eventuale di documentazione o referti di test o di altri esami complementari svolti
in precedenza. Attraverso uno o più colloqui si esplora il problema del paziente con il coinvolgimento attivo
di quest’ultimo. Attraverso i colloqui, inoltre, si raccoglie l’anamnesi, ossia la storia del paziente, sia la sua
storia personale, sia la sua storia familiare come anche la sua storia clinica. Infine, attraverso i colloqui si
effettua l’esame obbiettivo che comprende l’esame delle funzioni psichiche e del comportamento della

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persona così come appare ai colloqui o durante l’esecuzione dei test. I test si collocano all’interno
dell’esame psicodiagnostico in quanto utensili che potenziano il lavoro di esplorazione ed analisi del singolo
caso. L’obiettivo dello psicologo clinico è comprendere come è fatto il problema della persona che ha
davanti, ovvero i sintomi e altre caratteristiche associate, la storia e l’evoluzione del problema, le ricadute
che quel problema ha sulla vita quotidiana di quella persona, ovvero gli effetti di quel problema che
influiscono sul normale svolgimento delle varie attività e funzioni di quella persona nei vari contesti della
sua vita (famiglia, relazioni, lavoro, ecc.).
L’assessment in psicologia clinica può essere effettuato attraverso metodi e strumenti che possono essere
più o meno strutturati e standardizzati. La valutazione quanto più è altamente strutturata tanto più è
formale, sino al punto di consistere esclusivamente in batterie standardizzate di test e interviste cliniche
composte da una lista preordinata e rigida di domande con possibilità di risposta molto chiusa. La
valutazione quanto più è informale tanto più assume un tono completamente diverso. L’utilizzo bilanciato
di strumenti di valutazione standardizzati e non standardizzati è il modo più efficace per uno psicologo
clinico di comprendere e aiutare i pazienti. Strumenti di valutazione standardizzati consentono la raccolta di
informazioni specifiche, come i sintomi o notizie storico-cliniche. Strumenti di valutazione non
standardizzati possono aiutare lo psicologo clinico a fare valutazioni più personalizzate e aiutare a meglio
comprendere ciò che potrebbe potenzialmente essere un tipo di problema molto complesso e unico. Lo
psicologo clinico adotta nel corso dei colloqui, un approccio empatico, volto a comprendere il punto di vista
unico e speciale della persona che ha di fronte, in particolare sforzandosi di mettersi contemporaneamente
nei panni e nella testa di quella persona, immedesimandosi nella sua situazione, con quel tipo di problemi
raccontati e anche con il modo che quella persona ha di ragionare, percepire, emozionarsi, comportarsi,
ecc., al fine di comprendere in maniera autentica, per esempio, cosa è che è far star male quella persona,
quanto ci sta male e perché sta male.
Il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM) è un manuale pubblicato dall’American
Psychiatric Association (APA) utilizzato per classificare e diagnosticare i disturbi psichici sia negli adulti che
nei bambini per mezzo di un linguaggio comune e di criteri standard condivisi dalla comunità scientifica
internazionale. Nel 2013 è stata rilasciata l’ultima versione del DSM, nota come “DSM-5”. A livello
internazionale esiste un altro manuale autorevole per la classificazione e la diagnosi dei disturbi psichici,
ovvero l’International Classification of Diseases (ICD) pubblicato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.

CAPITOLO 3: I TEST IN PSICOLOGIA CLINICA


I test psicodiagnostici sono strumenti utilizzati per la “quantificazione” o “misurazione” di determinate
caratteristiche psicologiche di una persona cui i test vengono rivolti. I test si propongono come strumenti di
valutazione psicologica “oggettivi”, in quanto fanno riferimento a parametri uguali per tutti e producono
risultati interpretabili sempre allo stesso modo. Un buon test deve possedere alcune caratteristiche.
Innanzitutto, una caratteristica psicometrica molto importante nota come “validità”: un buon test deve
essere un test valido, ossia un test che effettivamente misura ciò che si propone di misurare. Esistono vari
tipi di validità:
 Validità di contenuto: gli elementi di cui è fatto il test producono risposte che costituiscono un
campione rappresentativo dell’universo di contenuti che quel test vuole esplorare;
 Validità rispetto ad un criterio esterno: le risposte dei soggetti agli stimoli del test sono validi
indicatori della variabile psicologica che si vuole misurare. Se il criterio viene misurato
simultaneamente alla costruzione del test si parla di “validità concorrente”; se invece il criterio
viene misurato dopo un certo intervallo di tempo si parla di “validità predittiva”;
 Validità del costrutto: la variabile oggetto della misurazione deve essere più o meno strettamente
connessa con il metodo usato per misurarla.

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Oltre ai vari tipi di validità, un buon test deve possedere una caratteristica psicometrica molto importante
nota come “attendibilità”, ovvero una misurazione applicata ad uno stesso oggetto o ad una stessa realtà
psichica deve dare sempre gli stessi risultati anche quando viene compiuta da persone diverse, in situazioni
diverse.
All’interno del processo di assessment psicologico i dati provenienti dai test vengono integrati tra loro e
analizzati in maniera critica insieme a tutti i dati e informazioni raccolte. Tali integrazioni e analisi di dati e
informazioni nel processo di valutazione psicologica vengono effettuati in maniera critica all’interno di un
processo attivo di problem solving e decision-making che procede per esclusione e falsificazione di ipotesi.
Il vantaggio più immediato dell’utilizzo dei test psicodiagnostici nel processo di assessment psicologico è
costituito dalla possibilità di raccogliere in maniera relativamente rapida una mole di dati che sono sia
quantificabili e sia facilmente comunicabili.
L’uso dei test in psicologia clinica è finalizzato alla valutazione quantitativa e qualitativa della personalità
nel suo complesso. Esistono due grandi approcci nei confronti della misurazione testistica:
 L’approccio psicometrico auspica una misurazione quanto più obbiettiva possibile, che escluda
l’intervento di variabili soggettive e anche la possibilità di ipotesi e interpretazioni formulate dallo
psicologo;
 L’approccio clinico rivolge la propria attenzione all’individuo nel suo insieme e nella sua unicità e
non esclude, anzi considera informazioni preziose quelle extra-testistiche.
Quando la valutazione testistica riguarda esclusivamente la misurazione da un punto di vista meramente
quantitativo di una o più funzioni, condizioni o caratteristiche psicologiche lo psicologo testista ha un ruolo
prevalentemente di rilevatore-misuratore, con l’obiettivo di tradurre dei dati in diagnosi. Quando invece la
valutazione testistica riguarda la valutazione della struttura della personalità, chi somministra e interpreta i
test è il professionista cui è deputato il compito di fornire una valutazione psicologica complessiva della
persona. Probabilmente non esiste un approccio in assoluto migliore dell’altro. La scelta viene fatta in base
agli obiettivi che lo psicologo clinico ha in mente e alle ipotesi che intende verificare. Di solito l’uso di una
batteria di test, anziché di un singolo test permette di avere un quadro più completo del funzionamento del
soggetto. Una buona batteria è composta da almeno un test di funzioni cognitive o di intelligenza, un test di
personalità e uno o più test clinici o di valutazione di sintomi.
Test di personalità:
 Test proiettivi per un quadro globale della personalità;
 Scale e inventari o questionari autodescrittivi per la misurazione di tratti e stati di personalità.
Rating scales per classificare e quantificare caratteristiche cliniche:
 Scale per la valutazione diagnostica di più disturbi o aree;
 Scale per la valutazione diagnostica di singoli disturbi.
Test neuropsicologici:
 Valutazione dell’intelligenza;
 Valutazione della memoria;
 Valutazione delle funzioni linguistiche;
 Valutazione delle funzioni esecutive;
 Valutazione delle funzioni visuo-spaziali;
 Valutazione della demenza;
 Batterie per la valutazione di funzioni neuropsicologiche multiple.

CAPITOLO 4: I TRATTI DI PERSONALITÀ


È possibile definire i tratti di personalità come modelli abituali di comportamento, pensiero ed emozione,
in quanto sono caratteristiche personali relativamente stabili che determinano ciò che le persone

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abitualmente fanno, il perché si comportano in un determinato modo nonché le loro reazioni


comportamentali ed emotive in determinati momenti e situazioni. I tratti di personalità hanno le seguenti
caratteristiche: sono relativamente stabili nel tempo; differiscono tra individui; sono relativamente coerenti
rispetto alle situazioni; influenzano il comportamento.
In quanto relativamente stabili nel tempo e relativamente coerenti rispetto alle situazioni, i tratti sono
profondamente diversi dai cosiddetti “stati” che sono invece disposizioni personali più transitorie nel
tempo e meno coerenti rispetto alle situazioni. Alcune caratteristiche personali possono essere sia “di
stato”, quando costituiscono disposizioni personali presenti nella persona solo in certi momenti e contesti,
sia “di tratto”, quando costituiscono modelli abituali presenti nella persona quasi sempre nel corso della
giornata e in quasi tutti i contesti in cui la persona si ritrova. I tratti possono essere:
 I tratti cardinali sono tratti che dominano l’intera vita di un individuo;
 I tratti centrali sono le caratteristiche generali che formano le basi fondamentali della personalità e
si trovano in una certa misura in ogni persona;
 I tratti secondari sono i tratti visibili solo in determinate circostanze e che a volte sono legati ad
atteggiamenti o preferenze.
I 16 tratti chiave della personalità, denominati “fattori”, vanno intesi in maniera dimensionale, per cui ogni
fattore rappresenta una dimensione lungo la quale una persona potrebbe collocarsi ed essere in alto o in
basso (o nel mezzo) rispetto ad un particolare tratto. Ogni persona possiede tutti questi 16 tratti in una
certa misura.
Modello di personalità basato su solo tre fattori o dimensioni universali:
 estroversione/introversione;
 stabilità emotiva/instabilità emotiva o nevroticismo;
 psicoticismo.
La teoria dei “Big Five” prevede cinque ampie dimensioni della personalità, cinque tratti fondamentali che
interagiscono per formare la personalità umana. Ogni dimensione esiste come un continuum e la
personalità di un individuo può trovarsi in qualsiasi punto di quel continuum per quel particolare tratto. Le
persone possono avere alti livelli di una dimensione e bassi livelli di un’altra dimensione. Le dimensioni
descritte sono le seguenti: l’estroversione, la gradevolezza, la coscienziosità, il nevroticismo e l’apertura.
Confrontando tratti, dimensioni e stati, le dimensioni, rispetto ai tratti, sono un continuum, mentre gli stati
sono disposizioni transitorie.
Per misurare i tratti di personalità si fa ricorso a specifici strumenti. I più diffusi sono il Big Five Inventory,
basato sulla teoria dei Big Five, e il 16PF Questionnaire, basato sulla teoria di Cattel. Il 16PF Questionnaire
permette di misurare il grado in cui un individuo presenta i seguenti 16 tratti chiave della personalità:
espansività, ragionamento, stabilità emozionale, dominanza, vivacità, coscienziosità, audacia sociale,
sensibilità, vigilanza, astrattezza, prudenza, apprensività, apertura al cambiamento, fiducia in sé,
perfezionismo e tensione.
Il Big Five Inventory permette di misurare il grado in cui un individuo presenta i seguenti cinque tratti
fondamentali della personalità, intesi in maniera dimensionale:
 Apertura: comprende caratteristiche di personalità come l’immaginazione, l’intuizione, la
creatività.
 Coscienziosità: comprende caratteristiche di personalità come premura, controllo degli impulsi,
pensieri e comportamenti diretti agli obiettivi.
 Estroversione: comprende caratteristiche di personalità come eccitabilità, socievolezza, loquacità,
assertività ed espressività emotiva.
 Gradevolezza: comprende caratteristiche di personalità come la fiducia, l’altruismo, la gentilezza,
l’affetto e altri comportamenti prosociali.

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 Nevroticismo: comprende caratteristiche di personalità come la tristezza, il malumore e l’instabilità


emotiva.
Secondo il DSM, quando i tratti di personalità comportano modi disfunzionali di percepire, rapportarsi e
pensare nei confronti dell’ambiente e di se stessi, tali da causare una sofferenza soggettiva o una
compromissione funzionale significativa in un ampio spettro di contrasti sociali o personali, essi
costituiscono “disturbi di personalità”.
I disturbi di personalità sono raccolti in tre gruppi:
A. Il disturbo paranoide di personalità è caratterizzato da diffidenza e sospettosità.
Il disturbo schizoide di personalità è caratterizzato da isolamento sociale e indifferenza nei
confronti delle relazioni sociali.
Il disturbo schizotipico di personalità è caratterizzato da distorsioni cognitive e percettive ed
eccentricità.
B. Il disturbo antisociale di personalità è caratterizzato da tendenza a mentire o a manipolare gli altri
e a non conformarsi alle norme.
Il disturbo borderline di personalità è un pattern pervasivo di instabilità delle relazioni
interpersonali, dell’immagine di sé e dell’umore e una marcata impulsività.
Il disturbo istrionico di personalità è un pattern pervasivo di emotività eccessiva e di ricerca di
attenzione.
Il disturbo narcisistico di personalità è un pattern pervasivo di grandiosità, necessità di
ammirazione e mancanza di empatia, caratterizzato da una considerazione distorta di sé e degli
altri, con una visione esagerata di sé come speciali e superiori.
C. Il disturbo evitante di personalità è un pattern pervasivo di inibizione sociale, sentimenti di
inadeguatezza e ipersensibilità al giudizio negativo.
Il disturbo dipendente di personalità è caratterizzato da una tendenza pervasiva alla dipendenza e
alla sottomissione.
Il disturbo ossessivo-compulsivo di personalità è un pattern pervasivo di preoccupazione per
l’ordine, perfezionismo e controllo.

CAPITOLO 5: IL RUOLO DELLE CREDENZE E DEGLI SCOPI


Una credenza è lo stato mentale nel quale una persona pensa che qualcosa sia vera, anche senza la
presenza di prove empiriche che dimostrino che la cosa sia vera con certezza assoluta. Le persone hanno un
bisogno interiore di assicurare che le loro credenze siano coerenti. Le credenze incoerenti o conflittuali
portano alla disarmonia, che le persone cercano di evitare. Quando una delle credenze è in conflitto con
un’altra credenza le persone provano sentimenti di tensione o disagio, uno stato emotivo che è stato
denominato “dissonanza cognitiva”.
Uno scopo è una rappresentazione di uno stato del mondo da parte di un individuo che regola il
comportamento dell’individuo stesso, selezionando e controllandone le azioni, in modo da adattare il
mondo a quella rappresentazione. Le decisioni e le azioni di un individuo sono guidate o regolate dagli
scopi.
Le credenze sono suscettibili ad essere distorte portando alla luce pregiudizi o bias cognitivi che fanno
apparire le persone irrazionali e illogiche nelle decisioni, nei comportamenti, e nei giudizi che compiono
ogni giorno. Alcuni tra i bias più noti sono:
 Bias di conferma: tendenza a selezionare le informazioni che confermano le credenze che già si
hanno;
 Bias retrospettivo o “del senno di poi”: tendenza delle persone a credere, erroneamente, di aver
saputo prevedere un evento correttamente, una volta che l’evento è ormai noto;

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 Bias di ancoraggio: tendenza a credere alla prima cosa che si è vista o ascoltata e a cui si è creduto;
 Falso consenso: tendenza a credere che le altre persone siano d’accordo con le proprie credenze;
 Effetto alone (noto anche come “stereotipo dell’attrattività fisica”): tendenza delle persone ad
essere influenzate nei propri pensieri e credenze su di una persona dalla sua impressione iniziale;
 Euristica della disponibilità: tendenza delle persone a credere più o meno probabile un evento
sulla base della vividezza e dell’impatto emotivo di un ricordo, piuttosto che sulla probabilità
oggettiva;
 Bias dell’ottimismo: tendenza delle persone ad essere eccessivamente ottimisti nella vita,
credendo più probabile che accadano cose buone e meno probabile eventi negativi.
Oltre alla possibilità che si vengano a creare credenze distorte, esiste anche la possibilità che si vengano a
creare credenze false. Una persona è solitamente portata a correggere le proprie credenze false dinanzi ad
evidenze che dimostrino in maniera inconfutabile che sono oggettivamente errate. Tuttavia, in alcuni casi,
le persone difendono le proprie credenze false da ogni evidenza come se fossero vere. In questi casi le false
credenze sono chiamate “deliri”. I deliri sono caratterizzati da una varietà di modelli e problemi cognitivi.
Al di là della suscettibilità ad essere distorte, le credenze possono funzionare male ed essere, dunque,
disfunzionali. Le credenze sono disfunzionali quando sono tali da portare sofferenza emotiva e problemi,
insuccessi e insoddisfazione in uno o più ambiti della propria vita.
 Credenze disfunzionali su se stessi: le persone con questi disturbi hanno spesso la tendenza a
considerarsi in una luce negativa.
 Credenze disfunzionali sugli altri: piuttosto che vedere le persone in generale come
potenzialmente amichevoli, non giudicanti e cordiali, tendono a rispondere loro con apprensione,
rigidità o distacco.
 Credenze disfunzionali sul mondo: vedono spesso il mondo come un posto insicuro o minaccioso
oppure ostile, piuttosto che come un posto pieno di opportunità.
 Credenze disfunzionali sul futuro: vedono spesso il futuro in maniera incerta e nebulosa.
 Credenze disfunzionali sul passato: vedono il passato come una fonte di informazioni molto
importante su se stessi, sugli altri in relazione a loro e sul loro mondo.
 Credenze disfunzionali sul presente: vedono spesso il presente come fonte di tensione costante, in
quanto possono temere di potersi trovare da un momento all’altro in una delle situazioni che crea
loro tristezza, ansia, rabbia o paura.
 Credenze disfunzionali su questioni esistenziali: hanno spesso difficoltà a vedere e pensare oltre il
proprio mondo immediato in modo trascendente, a comprendere il significato della propria vita, a
desiderare uno scopo più grande per la propria vita.
 Credenze disfunzionali sulle opportunità: spesso non cercano opportunità o non riconoscono le
opportunità che li circondano.

CAPITOLO 6: IL RUOLO DELLE EURISTICHE


Le cosiddette “euristiche” sono scorciatoie mentali alle quali tendono a ricorrere le persone quando
devono prendere decisioni e giudizi rapidamente, soprattutto in casi di rischio, ambiguità o incertezza.
Soprattutto per alcune decisioni complesse e importanti, è più probabile che investiamo molto tempo,
ricerca, impegno ed energie mentali per arrivare alla giusta conclusione. Il processo decisionale adotta
alcune strategie decisionali principali:
 Approccio con caratteristica singola: questo approccio coinvolge la nostra decisione
esclusivamente su un singolo fattore. L’approccio a singola caratteristica può essere efficace in
situazioni in cui la decisione è relativamente semplice e si ha poco tempo a disposizione.

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 Approccio con caratteristica additiva: questo metodo comporta il prendere in considerazione tutte
le caratteristiche importanti delle possibili scelte e, quindi, valutare sistematicamente ciascuna
opzione. Tale approccio tende ad essere un metodo migliore quando si prendono decisioni più
complesse.
 Approccio di eliminazione per aspetti: questo metodo consiste nel valutare ogni opzione, una
caratteristica alla volta, a partire da qualunque caratteristica si ritenga essere la più importante.
Le euristiche sono utili in molte situazioni e hanno come punto di forza il fatto di essere veloci e
solitamente abbastanza corrette e accurate nella loro validità ed efficacia. L’euristica gioca un ruolo
importante sia nella risoluzione dei problemi sia nel processo decisionale. Il nostro cervello, per far fronte
all’enorme quantità di informazioni che incontriamo e per accelerare il nostro processo decisionale, si
affida a queste strategie mentali per semplificare le cose in modo da non dover trascorrere infinite quantità
di tempo analizzando ogni dettaglio. Nel momento in cui ci si pone un dilemma e c’è una certa quantità di
rischio, ambiguità o incertezza, le euristiche consentono di pensare rapidamente ai possibili risultati e di
arrivare a una soluzione efficace per risolvere il problema.
 L’euristica della disponibilità implica prendere decisioni sulla base di quanto sia facile portare
qualcosa in mente.
 L’euristica della rappresentatività implica prendere una decisione confrontando la situazione
presente con il prototipo mentale più rappresentativo. Nel momento in cui stiamo cercando di
decidere se qualcuno è affidabile, possiamo confrontare gli aspetti dell’individuo con altri esempi
mentali che abbiamo in mente. Un esempio è quello di una donna anziana che potrebbe ricordarci
nostra nonna, quindi potremmo immediatamente supporre che sia premurosa.
 L’euristica affettiva implica fare scelte fortemente influenzate dalle emozioni che un individuo sta
vivendo in quel momento. La ricerca ha dimostrato che le persone, quando sono di umore positivo,
hanno maggiori probabilità di considerare le decisioni come aventi maggiori benefici e minori rischi.

CAPITOLO 7: ASPETTI CLINICI DELL’IRRAZIONALITÀ


Il termine irrazionalità è usato, di solito in modo negativo, per descrivere quei pensieri e quei
comportamenti che sono, o sembrano essere, meno utili o più illogici di altri pensieri e comportamenti che
sono considerati invece più razionali da chi giudica o dalla maggior parte delle persone. L’irrazionalità è
associata al pensiero, alla cognizione e all’intelletto. Il ragionamento è uno dei modi attraverso cui il
pensiero si sposta da un’idea ad un’idea correlata. Le persone a volte ragionano in accordo con la logica,
altre volte ragionano basandosi su esperienze specifiche. Spesso, le persone ragionano non usando né
regole sintattiche d’inferenza indipendenti dal contesto, né il ricordo di esperienze specifiche. Piuttosto
ragionano usando strutture di conoscenza astratte indotte dalle ordinarie esperienze della vita, come
“permesso”, “obbligo” e “causalità”. Tali strutture di conoscenze sono denominate “schemi pragmatici di
ragionamento”. Uno schema pragmatico di ragionamento consiste di un set di regole generalizzate sensibili
al contesto le quali sono definite in termini di classi di scopi e relazioni a questi scopi. In tale processo
l’esperienza precedente esercita il ruolo facilitante nell’induzione ed evocazione di certi tipi di schemi.
 Il ragionamento astratto implica pensare e gestire idee e concetti.
 Il ragionamento concreto implica la capacità di analizzare le informazioni e risolvere i problemi su
un livello letterale. Un esempio di ragionamento concreto è quello utilizzato da un bambino per
risolvere un puzzle.
 Il modo in cui gli esseri umani ragionano formalmente attraverso la discussione e le argomentazioni
è il ragionamento logico. Il ragionamento logico può assumere tre forme: ragionamento deduttivo,
ragionamento induttivo, ragionamento abduttivo:

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 Il ragionamento induttivo è una forma di ragionamento che permette di generare ampie


generalizzazioni da casi o osservazioni specifici.
 Un’altra forma di ragionamento è il ragionamento deduttivo. Si tratta di una forma basilare
di ragionamento valido, in cui una persona inizia con un’affermazione nota o una credenza
generale e da lì chiede cosa segue da queste basi o in che modo queste premesse
influenzano le altre credenze. Il ragionamento deduttivo è presente nel metodo scientifico.
Una forma di ragionamento deduttivo è il sillogismo. Nel sillogismo due affermazioni
raggiungono una conclusione logica. Il sillogismo è un concatenamento di proposizioni (due
premesse e una conclusione) atto a stabilire con certezza che la conclusione deriva
necessariamente dalle premesse. Dei casi particolari di sillogismo sono i cosiddetti
sillogismi lineari o problemi seriali a tre termini. Essi si compongono di due premesse, che
indicano la posizione dei termini in una serie o su una linea, e di una conclusione, che è
precisamente la soluzione richiesta.
 Un’altra forma di ragionamento è chiamata ragionamento abduttivo. Questo tipo di
ragionamento si basa sulla creazione e sulla verifica di ipotesi utilizzando le migliori
informazioni disponibili. Un esempio di ragionamento abduttivo può essere visto nel
mondo reale quando i medici prendono decisioni sulla diagnosi da una serie di risultati.
 Altre modalità di ragionamento considerate più informali sono il ragionamento intuitivo e il
ragionamento verbale o discorsivo.
In psicologia clinica, il termine irrazionalità è usato come la tendenza delle persone a pensare ed agire in
modi che sono inflessibili, irrealistici, assolutistici e, soprattutto, controproducenti, autolesionistici e
socialmente distruttivi. I pensieri irrazionali sono basati su schemi disadattivi e sono formati da credenze
irrazionali o disfunzionali, direttamente associate a distorsioni nei processi psichici e funzionano come frasi
interne che si generano in maniera automatica, senza la volontà apparente dell’individuo e talvolta anche
senza apparente consapevolezza. Tutto ciò porta ad avere risposte emotive e comportamentali
inappropriate e disfunzionali. Le distorsioni cognitive sono:
 Astrazione selettiva: tendenza a concentrare l’attenzione su aspetti particolari della situazione in
esame, tralasciandone altri più importanti.
 Bisogno di certezza: tendenza a focalizzarsi sempre e solo su cose certe.
 Catastrofizzazione: tendenza a soffermarsi sulle conseguenze peggiori di una situazione e
sovrastimare la possibilità che queste si verifichino.
 Deduzione arbitraria: tendenza a trarre conclusioni in assenza di prove.
 Doverizzazioni: tendenza a pensare che le cose debbano essere proprio in un certo modo.
 Etichettamento: tendenza a definire le cose con un’etichetta globale invece che facendo
riferimento a cose specifiche.
 Filtri mentali: tendenza a filtrare mentalmente la realtà, focalizzandosi su alcune cose e
trascurandone altre.
 Generalizzazione eccessiva: tendenza a fare una regola dopo un singolo evento o una serie di casi
isolati.
 Inferenza arbitraria: tendenza a trarre conclusioni in mancanza di evidenze sufficienti.
 Ingigantire/Minimizzare: tendenza ad esaltare o ridurre l’importanza di eventi e situazioni.
 Intolleranza al disagio emotivo. tendenza a non tollerare stati d’animo negativi.
 Lettura del pensiero: tendenza ad essere convinti che le persone stiano pensando in un certo
modo.
 Minimizzare il positivo: tendenza a svalutare o squalificare gli aspetti positivi.

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 Pensiero assolutistico (“tutto o niente”): tendenza a dare ampi giudizi categorici, ad attribuire alle
esperienze significati estremi, unidimensionali e assoluti.
 Pensiero dicotomico (o pensiero “bianco o nero”): tendenza a pensare in modo estremo e a
considerare eventi, situazioni, ecc. come appartenenti ad un estremo oppure all’altro.
 Pensiero magico: tendenza a credere che un evento accade come risultato di un altro senza un
legame plausibile di causalità.
 Personalizzazione (o autoriferimento): tendenza ad essere convinti di essere al centro di tutto.
 Presupporre una causalità temporale: tendenza a fare previsioni sulla base di prove insufficienti.
 Ragionamento emotivo: tendenza ad interpretare e giudicare gli eventi e se stessi e a vedere le
situazioni sulla base delle proprie emozioni in quel momento e, quindi, non sulla base di come sono
realmente.
 Responsabilità eccessiva: tendenza ad assumersi tutta la responsabilità in determinate situazioni,
in particolare per tutte le cose negative, senza considerare il concorso di colpa o responsabilità da
parte di altri.
La psicoterapia dovrebbe avere l’obiettivo di aiutare i pazienti a identificare, sfidare e modificare le loro
credenze irrazionali e gli schemi di pensiero negativi.

CAPITOLO 8: ERRORI E BIAS ATTRIBUZIONALI


Errori e bias attribuzionali hanno un’influenza importante sui sentimenti delle persone e sul modo in cui
esse si rapportano tra loro. L’attribuzione è il processo attraverso il quale gli esseri umani tendono ad
inferire le cause degli eventi che li circondano e dei comportamenti propri e degli altri individui. Le
attribuzioni sono “predittive” quando sono utilizzate dalle persone per interpretare gli eventi e i
comportamenti in modi che permettano alle persone di fare previsioni future.
 L’attribuzione esterna consiste nell’interpretare il comportamento proprio o altrui come causato
dalla situazione in cui la persona si trova.
 L’attribuzione interna, viceversa, consiste nell’individuare la causa di un comportamento in fattori
interni della persona, piuttosto che in fattori ambientali.
Le attribuzioni esterne e interne possono essere compiute secondo tre tipi di informazioni sul
comportamento di un individuo:
 informazione sul consenso: in quale misura altre persone si comportano allo stesso modo nella
stessa situazione davanti a quel determinato stimolo;
 informazione sulla differenziazione: in quale misura la persona che ha agito in quel modo si
comporta allo stesso modo nella stessa situazione davanti a stimoli diversi;
 informazione sulla costanza: in quale misura la persona che ha agito in quel modo si comporta allo
stesso modo con stimoli simili ma in situazioni diverse.
Le attribuzioni sulle cause di un evento o di un comportamento possono essere compiute secondo tre
parametri:
 locus of control: la modalità con cui una persona ritiene che gli eventi della sua vita siano prodotti
dalle sue azioni oppure da cause esterne indipendenti dalla sua volontà;
 stabilità della causa;
 controllabilità della causa;
In generale, le attribuzioni sono chiamate “esplicative” quando sono utilizzate dalle persone per dare un
senso al mondo che le circonda. Le attribuzioni ottimistiche permettono di inferire gli eventi positivi a
cause stabili, interne e globali, mentre gli eventi negativi vengono interpretati come dovuti a cause instabili,
esterne e specifiche. Le attribuzioni pessimistiche portano le persone ad inferire gli eventi positivi a cause
esterne, stabili e specifiche, mentre gli eventi negativi a cause interne, stabili e globali.

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Alcuni tra gli errori e i bias attribuzionali più noti sono:


 Attribuzione interpersonale: tendenza delle persone a raccontare un fatto collocando se stessi nel
racconto nella migliore luce possibile.
 Bias self-serving: tendenza “egoistica” delle persone a proteggere l’autostima rintracciando le
cause dei propri fallimenti e insuccessi a fattori esterni.
 Errore fondamentale di attribuzione: tendenza delle persone a rintracciare la causa di un
comportamento in fattori interni come le caratteristiche della personalità, sottostimando
l’influenza che l’ambiente o il contesto possono avere nel determinare tale comportamento.
 Bias attore-osservatore: tendenza delle persone a rintracciare la causa dei propri comportamenti
in fattori esterni ambientali o del contesto, mentre quando si tratta dei comportamenti degli altri la
causa viene rintracciata in caratteristiche interne personali delle altre persone.
I bias attribuzionali hanno un legame molto stretto con le idee deliranti tipiche degli individui con disturbi
psicotici. Infatti, il pensiero psicotico e, in particolare, il pensiero delirante, rispetto a quello non delirante,
sono strettamente legati a diversi bias estremi: bias egocentrico (tendenza a focalizzarsi preventivamente
su se stessi), locus of causality esterno (tendenza ad attribuire la causa degli eventi a fattori esterni alla
propria persona), bias di conferma (considerare selettivamente solo stimoli che convalidano le proprie
convinzioni) ed errore fondamentale di attribuzione (attribuire un evento avverso a fattori esterni
personali).

CAPITOLO 9: DEFICIT DI AUTOSTIMA E AUTOEFFICACIA


L’autostima descrive il senso generale di valore personale di una persona. In altre parole, indica quanto ci
apprezziamo e ci piacciamo. L’autostima è il risultato del processo di valutazione che l’individuo formula nei
confronti di se stesso e rivela il grado di competenza, importanza, capacità e valore che egli si attribuisce.
Il bisogno di autostima gioca un ruolo importante nella gerarchia dei bisogni personali e rappresenta una
delle motivazioni umane fondamentali. Le persone hanno bisogno sia della stima riconosciuta da parte di
altre persone sia di rispetto interiore verso se stessi. Entrambi questi bisogni devono essere soddisfatti
affinché un individuo possa crescere come persona e raggiungere l’autorealizzazione.
L’autoefficacia si riferisce alla credenza nella propria competenza o capacità di mettere in atto con
successo un particolare comportamento in determinate situazioni. Il senso di autoefficacia viene attinto
dagli individui da quattro principali fonti:
 Esperienze di padroneggiamento: l’esecuzione di un compito rafforza con successo il nostro senso
di autoefficacia.
 Modellamento sociale: vedere altre persone che completano con successo un compito accresce le
convinzioni degli osservatori che anche loro possiedono le capacità per padroneggiare attività
comparabili.
 Persuasione sociale: l’incoraggiamento verbale da parte degli altri aiuta le persone a superare
l’insicurezza e a concentrarsi sul dare il massimo sforzo per il compito da svolgere.
 Risposte psicologiche: umore, stati emotivi, reazioni fisiche e livelli di stress possono avere un
impatto sul modo in cui una persona prova le sue capacità personali.
Ogni individuo, nell’esercizio dei vari ruoli, compiti e funzioni quotidiane, tende ad essere influenzato dalla
sua autostima e dal suo senso di autoefficacia, in particolare dalla sua autostima specifica e dalla sua
autoefficacia specifica riferite al ruolo o al compito che sta svolgendo, in quanto informano circa la
sicurezza di se stessi in quel particolare ambito e, quindi, predicono la qualità delle prestazioni e il successo
o il fallimento nel compito specifico che si sta svolgendo. In maniera meno diretta, anche l’autostima
globale e l’autoefficacia globale di un individuo possono influenzare l’esercizio dei vari ruoli, compiti e
funzioni quotidiane per due motivi fondamentali. In primo luogo, l’autostima globale e l’autoefficacia

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globale sono indicative dell’accettazione e del rispetto complessivo di se stessi e quindi sono in grado di
predire il benessere psicologico dell’individuo, che è strettamente correlato alla qualità delle sue
prestazioni generali. In secondo luogo, l’autostima globale e l’autoefficacia globale, riferendosi al valore
totale della persona nella sua interezza, possono influenzare l’autostima specifica e l’autoefficacia specifica
e, quindi, condizionare le prestazioni e il successo nei vari ruoli e compiti specifici. L’autostima specifica e
l’autoefficacia specifica sono in grado di influenzare l’autostima globale e l’autoefficacia globale. Quando
esiste poca discrepanza tra le proprie autovalutazioni e le proprie aspirazioni si ha alta autostima. Allo
stesso modo, quando esiste poca discrepanza tra le proprie credenze nelle proprie capacità e le proprie
aspirazioni si ha alto senso di autoefficacia. È necessario che l’alta autostima e l’alto senso di autoefficacia
siano stabili (ossia che si mantengano elevati in tutte le situazioni, anche in conseguenza degli insuccessi),
sufficientemente realistici (ossia, aderenti ai fatti) e autentici (ossia, composti da autovalutazioni e
credenze che la persona ritiene corrispondenti a verità).
Gli individui con depressione, disturbi d’ansia o disturbi di personalità hanno spesso bassa autostima e
basso senso di autoefficacia. Si ha bassa autostima quando esiste notevole discrepanza tra le proprie
autovalutazioni e le proprie aspirazioni. Allo stesso modo, si ha basso senso di autoefficacia quando esiste
notevole discrepanza tra le proprie credenze nelle proprie capacità e le proprie aspirazioni. Una bassa
autostima e un basso senso di autoefficacia comportano una sensazione di “impotenza appresa”, ossia la
convinzione di non essere in grado di controllare personalmente gli eventi della propria vita. Avere troppa
autostima e troppa autoefficacia può compromettere i rapporti personali. I livelli di autostima e di
autoefficacia all’estremità superiore e inferiore dello spettro possono essere dannosi, quindi idealmente, è
meglio trovare un equilibrio da qualche parte nel mezzo.

CAPITOLO 10: SCHEMI DI SÉ E SCHEMI RELAZIONALI


Gli schemi sono strutture cognitive costituite da insiemi di concetti correlati tra loro attinenti a particolari
stimoli che si presentano all’attenzione, agli eventi che accadono, agli altri con cui ci si relaziona, a se stessi,
ecc. Gli schemi organizzano le idee, le credenze e gli assunti di ciascun individuo e modellano la percezione
e l’interpretazione soggettive degli eventi e della realtà e l’elaborazione cognitiva delle informazioni
relative a sé, agli altri e al mondo e le conseguenti strategie di comportamento pianificate e messe in atto
sulla base delle previsioni generate sugli effetti del proprio comportamento e delle reazioni degli altri.
Gli schemi di sé sono un tipo particolare di schemi che sono coinvolti nell’elaborazione di informazioni
relative a sé e sono focalizzati sulla nostra conoscenza di noi stessi. Ciò può includere sia quello che
sappiamo sul nostro sé attuale sia le idee sul nostro sé idealizzato o futuro. Queste categorie di conoscenze
riflettono le aspettative che abbiamo sul nostro modo di pensare, comportarci e le emozioni che potremmo
provare in particolari situazioni o condizioni.
Gli schemi interpersonali o relazionali sono coinvolti nell’elaborazione di informazioni e nelle strategie di
comportamento concernenti i rapporti interpersonali e permettono agli individui di relazionarsi tra loro in
quanto contengono concetti riguardanti le modalità di stabilire e mantenere relazioni con gli altri individui,
ovvero rappresentazioni generalizzate e gerarchicamente organizzate delle relazioni sé-altri, ossia di
rappresentazioni circa se stesso e l’altro con cui egli si relaziona. Ogni individuo ha diversi schemi relazionali
che riguardano la stessa relazione o relazioni differenti.
Gli schemi influenzano ciò a cui prestiamo attenzione. Le persone tendono a prestare maggiore attenzione
alle cose che meglio si conformano ai loro schemi attuali. Apprendono le informazioni più velocemente
quando tali informazioni meglio si conformano agli schemi esistenti. Grazie agli schemi esistenti, le persone
sono in grado di assimilare queste nuove informazioni velocemente in modo automatico. Quando
apprendono nuove informazioni che non si adattano agli schemi esistenti, a volte le persone distorcono o
modificano le nuove informazioni per adattarle a ciò che già sanno.

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Gli schemi di sé si sviluppano a partire dalla prima infanzia sulla base del feedback di genitori e caregivers.
Grazie ai meccanismi di assimilazione e accomodamento, gli schemi relazionali vengono continuamente
rivisti e riadattati. Attraverso l’assimilazione le nuove informazioni vengono incorporate in schemi pre-
esistenti. Attraverso l’accomodamento schemi esistenti possono essere modificati o nuovi schemi possono
essere formati quando una persona apprende nuove informazioni e compie nuove esperienze. Attraverso le
nuove esperienze gli schemi esistenti vengono modificati e vengono apprese nuove informazioni. Un
esempio è rappresentato dai modelli operativi interni. Sulla base delle esperienze in generale, e in
particolare di quelle relazionali la mente elabora sia schemi di sé sia schemi relazionali via via più complessi
che influenzano la produzione e il corso dei pensieri, l’espressione emotiva e il comportamento. Una volta
che gli schemi di sé e gli schemi relazionali si sono costituiti, vanno a modellare la percezione e
l’interpretazione di esperienze successive, dando luogo a distorsioni di conferma. L’individuo, infatti, tende
a fare in modo selettivo esperienze compatibili con i suoi preconcetti, producendo distorsioni
nell’interpretare le esperienze, così da confermare questi preconcetti. In questo modo, sia gli schemi di sé
sia gli schemi relazionali, una volta strutturati, finiscono col funzionare come profezie che si autoavverano.
Essi spingono l’individuo ad agire secondo modalità che siano compatibili con i propri modelli, al fine di
cercare continue conferme ai propri schemi.
Gli schemi di sé e gli schemi relazionali giocano un ruolo importante, in quanto strettamente legati a
comportamenti, emozioni e processi psichici disfunzionali. Young, autore della schema-therapy, ha
identificato 18 schemi tipici dei disturbi di personalità, raggruppati in cinque vaste categorie chiamate
“domini”: isolamento e rifiuto; scarsa autonomia e capacità di azione; mancanza dei limiti; dedizione agli
altri; ipervigilanza e inibizione. Gli individui con disturbi di personalità compiono errori di percezione e
interpretazione degli eventi che sono sistematici, dando luogo a risposte seriamente inadeguate e
disadattive. Ciò è dovuto al fatto che tali individui presentano “schemi disadattivi precoci”, ossia pattern
permanenti e autodistruttivi che tipicamente maturano nel corso dello sviluppo psicologico, causano
pensieri distorti e disfunzionali. Il contenuto di questi schemi è costituito da credenze di base disfunzionali.
Gli schemi dell’individuo alterano la percezione degli eventi in modo che le esperienze in contraddizione
con le convinzioni dell’individuo vengano fraintese, trascurate o ridimensionate mentre, allo stesso tempo,
la sua interpretazione degli eventi e il suo comportamento si traducono in esperienze che sembrano
confermare i suoi schemi disfunzionali. Schemi relazionali disadattavi portano l’individuo ad innescare cicli
interpersonali disfunzionali.

CAPITOLO 11: IL RUOLO DEI SISTEMI COMPORTAMENTALI


I sistemi comportamentali rappresentano la base biologica su cui è fondata gran parte dell’azione umana, in
quanto sono disposizioni o tendenze innate che organizzano il repertorio comportamentale degli esseri
viventi. Tra i differenti sistemi comportamentali vi sono i sistemi comportamentali interpersonali:
 sistema dell’attaccamento: regola la ricerca di aiuto e vicinanza protettiva ad altri individui;
 sistema dell’accudimento: accogliere le richieste di vicinanza, protezione e aiuto di altri individui al
fine di proteggerli;
 sistema agonistico: competizione per il rango sociale, finalizzata al dominio su altri individui;
 sistema cooperativo: perseguire con altri individui obiettivi comuni;
 sistema sessuale: corteggiamento e coito per la formazione della coppia sessuale;
 sistema affiliativo o sociale: socievolezza verso altri individui finalizzati all’affiliazione ad un
gruppo;
 sistema del gioco sociale: comportamenti di gioco e finzione, finalizzati ad imparare
comportamenti utili in futuro.
Le operazioni dei sistemi di regolazione fisiologici sono estranee alla coscienza.

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I sistemi comportamentali più complessi e sofisticati e maggiormente strutturati, come quelli


interpersonali, sono corretti secondo lo scopo e necessitano di una complessa rappresentazione mentale di
proprietà rilevanti di sé, del proprio comportamento e dell’ambiente. Un sistema comportamentale
corretto secondo lo scopo è caratterizzato da un sistema di feedback, secondo il principio caldaia-
termostato. Il sistema viene attivato da uno scopo che viene rappresentato nella mente e che trae origine
da un qualche stimolo interno o ambientale. Nel momento in cui viene attivato il sistema, vengono messi in
atto diversi comportamenti che sono strumentali rispetto allo scopo, in quanto la loro funzione è
unicamente quella di raggiungere la meta finale del sistema. Nel momento in cui il sistema percepisce che
la discrepanza tra lo scopo fissato e lo stato dell’organismo è ridotta a zero, vuol dire che lo scopo è stato
raggiunto, e la sequenza comportamentale viene disattivata. In questi casi, la fase di innesco (parzialmente
consapevole) del sistema è seguita da una complessa elaborazione cognitiva (parzialmente o del tutto
consapevole). Il comportamento effettivo dipenderà dalla scelta (realmente e totalmente consapevole) di
metterlo in atto. La scelta di agire o meno, dipenderà da numerosi fattori, tra cui la possibilità materiale di
agire, le risorse disponibili, le condizioni ambientali, ecc. Tali fattori necessitano di un’elaborazione
cognitiva, che può avvenire anche in maniera automatica. Tali processi cognitivi sono il risultato del
percorso di maturazione del sistema legato prevalentemente allo sviluppo cognitivo dell’individuo oltre
all’influenza esercitata dall’esperienza. Ogni qualvolta due individui interagiscono, l’attivazione di un
sistema comportamentale in un individuo stimola l’attivazione di un sistema comportamentale analogo o
complementare nell’altro individuo.
In psicologia clinica i sistemi comportamentali giocano un ruolo importante, in quanto strettamente legati a
comportamenti, emozioni e processi psichici disfunzionali riscontrabili in molti disturbi psichici, in
particolare nei disturbi d’ansia e nei disturbi di personalità. I disturbi di personalità sono tipicamente
associati ai sistemi comportamentali interpersonali. Alcuni sistemi comportamentali deputati, per esempio,
alla vigilanza, alla reazione di attacco (o lotta) o di fuga, alla regolazione fisiologica (che regolano, ad
esempio, la respirazione, la sudorazione, il battito cardiaco, la pressione arteriosa, ecc.) sono tipicamente
associati all’ansia in generale, e in particolare al disturbo d’ansia generalizzata, al disturbo ossessivo-
compulsivo, al disturbo di panico, all’agorafobia, all’ansia sociale, alle fobie specifiche, al disturbo da stress
post-traumatico e ai disturbi da sintomi somatici.

CAPITOLO 12: PSICOTERAPIA COGNITIVO-COMPORTAMENTALE


La psicoterapia cognitivo-comportamentale è così chiamata perché si rifà ai principi della scienza cognitiva
e adotta tecniche terapeutiche che da tali principi direttamente derivano insieme a tecniche
originariamente nate all’interno del comportamentismo. La psicologia cognitiva studia la cognizione. Il
cognitivismo adotta un approccio positivista e la convinzione che la psicologia possa essere in linea di
principio pienamente spiegata dall’uso del metodo scientifico. Un obiettivo chiave della psicologia cognitiva
è quello di applicare il metodo scientifico allo studio della cognizione umana per testare le teorie sui
processi mentali umani in un ambiente di laboratorio. La psicologia cognitiva riguarda lo studio dei processi
psichici, come la percezione, la memoria, l’attenzione, il linguaggio, la risoluzione dei problemi,
l’apprendimento, la motivazione, la decisione, il ragionamento, l’intelligenza, la coscienza, le emozioni e,
soprattutto, i meccanismi interni del pensiero umano e i processi di conoscenza. La psicologia cognitiva
riguarda soprattutto lo studio dei meccanismi interni del pensiero umano.
I fondamenti filosofici della terapia cognitivo-comportamentale enfatizzano il ruolo della ragione, della
logica e dell’accettazione. Uno dei concetti chiave della terapia cognitivo-comportamentale è che le
risposte tipiche delle persone agli eventi di vita sono mediate dalla cognizione (ipotesi della mediazione). In
particolare, il pensiero di una persona è il principale determinante delle risposte emotive e
comportamentali agli eventi della vita. La terapia cognitivo-comportamentale sostiene che il modo in cui le

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persone pensano o interpretano le loro esperienze ha un profondo impatto sul modo in cui si sentono
riguardo a tali esperienze. La terapia cognitivo-comportamentale afferma che una valutazione del mondo
realistica o accurata e la capacità di adattarsi al mondo reale sono indicatori di buona salute mentale.
Viceversa, valutazioni disadattive o disfunzionali della realtà portano a una visione distorta del mondo e a
maggiori problemi emotivi e comportamentali. Il modello cognitivo-comportamentale sostiene che quando
un evento attivante (A) si verifica nell’ambiente circostante, la persona ha una credenza (B) su quell’evento
e la credenza di quella persona suscita una conseguenza o una risposta emotiva (C). Il contenuto e il
processo del nostro pensiero sono conoscibili e, con adeguata formazione e attenzione, le persone possono
diventare consapevoli del proprio pensiero (ipotesi dell’accesso). Poiché le cognizioni sono conoscibili e
mediano la risposta a situazioni diverse, è possibile modificare intenzionalmente il modo in cui le persone
rispondono agli eventi (ipotesi del cambiamento). Riconoscimento e comprensione delle reazioni emotive
e comportamentali porta a risposte più funzionali e adattive. La terapia cognitivo-comportamentale utilizza
strategie cognitive e comportamentali per aiutare le persone a identificare e sostituire comportamenti,
emozioni e cognizioni disadattivi e disfunzionali con comportamenti, emozioni e cognizioni più adattivi e
funzionali. La terapia cognitivo-comportamentale ha lo scopo di aiutare i pazienti a cambiare i pensieri
automatici, a capire come la distorsione cognitiva o il pensiero negativo influenzano sentimenti e
comportamenti, a sviluppare una valutazione più realistica di situazioni ed eventi e a modificare credenze e
assunti disfunzionali che predispongono a distorsioni cognitive. La terapia cognitivo-comportamentale aiuta
una persona ad intraprendere passi progressivi verso un cambiamento comportamentale. Per combattere i
pensieri e i comportamenti distruttivi, un terapeuta cognitivo-comportamentale inizia aiutando la persona
ad identificare le convinzioni problematiche. Questo stadio, noto come analisi funzionale, è importante per
imparare come pensieri, sentimenti e situazioni possano contribuire a comportamenti disadattivi.

CAPITOLO 13: TRATTAMENTO PSICOANALITICO E PSICODINAMICO


Il trattamento psicoanalitico e psicodinamico è una forma di psicoterapia che si basa su un insieme di teorie
comprese nel sistema complessivo caratterizzato dalla teoria psicoanalitica e dalle teorie psicodinamiche.
Nella sua concezione originaria (Sigmund Freud), la teoria psicoanalitica concepisce che alcuni pensieri, le
paure, ecc., vengono repressi, ovvero nascosti e resi non disponibili alla riflessione consapevole poiché
incompatibili con pensieri consci oppure in conflitto con altri pensieri inconsci. Secondo questo modello
psicologico, i problemi psicologici derivano da emozioni e pensieri repressi che derivano da esperienze
passate (risalenti di solito all’infanzia), e come risultato di questa repressione, un comportamento
alternativo sostituisce ciò che è stato represso. Il paziente guarisce quando riesce ad ammettere ciò che è
stato represso. I Neo-Freudiani esaltano l’influenza dell’ambiente e l’importanza del pensiero cosciente.
Una corrente di studio importante è rappresentata dalla cosiddetta “Psicologia dell’Io” che pone in risalto il
ruolo dell’Io e dell’influenza dell’ambiente, per cui l’individuo interagisce con il mondo esterno tanto
quanto risponde alle forze interne. In particolare, Anna Freud focalizzò la sua attenzione sulle operazioni
difensive dell’Io (meccanismi di difesa). Heinz Hartmann esaltò alcuni elementi innati dell’Io e le sfere
dell’Io libere da conflitti. Spitz identificò l’importanza della reciprocità emotiva non verbale madre-
bambino; Mahler ha perfezionato le tradizionali fasi dello sviluppo psicosessuale aggiungendo il processo di
separazione-individuazione; secondo Erikson l’individuo è spinto dai propri impulsi biologici e da forze
socio-culturali. Una serie di importanti studiosi è stata coinvolta nella nascita e nello sviluppo della Teoria
delle relazioni oggettuali, secondo la quale la motivazione primaria del bambino non è la gratificazione di
un impulso e la soddisfazione di un bisogno, bensì la ricerca di un “oggetto” relazionale, ovvero di qualcuno
con cui relazionarsi, tanto che il processo di sviluppo avviene proprio in relazione agli altri nell’ambiente
durante l’infanzia.

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Ai confini della teoria psicoanalitica si collocano le cosiddette teorie relazionali psicodinamiche o teorie
interpersonali psicodinamiche, le quali differiscono dalla classica teoria freudiana in quanto enfatizzano
ulteriormente l’aspetto interpersonale dello sviluppo della personalità. Le relazioni sono concepite come
esperienze di sé con gli altri, importanti per lo sviluppo del sé. Oltre la teoria psicoanalitica, pur
discendendo da questa, ma con posizioni molto distanti, si collocano un insieme di teorie
complessivamente denominate umanistiche, esistenziali o esperienziali, che hanno come fondamento
comune l’enfasi sulla motivazione, sul potenziale di crescita personale e sul successo e la realizzazione
personale. Le terapie umanistico-esistenziali hanno la convinzione che un individuo si stia sempre
muovendo verso un senso di completezza, a meno che non sia bloccato in questa impresa dalla paura o da
ostacoli ambientali.
Il trattamento psicoanalitico e psicodinamico è fondato sulla concezione della condotta umana e
dell’esperienza affettivo-relazionale, e in particolare della sofferenza psichica, come derivante dalla
complessa interazione tra una serie di meccanismi, forze e processi psichici prevalentemente
inconsapevoli alla persona e risultato dello sviluppo psicologico e delle influenze ambientali soprattutto
relazionali nelle prime fasi di vita. La teoria psicoanalitica concepisce l’uomo come guidato da forze
irrazionali e spinte sessuali e aggressive. A partire dagli eventi di vita precoci la personalità si sviluppa
attraverso stadi o fasi (orale, anale, fallico, latenza, genitale) che rappresentano la parte del corpo verso cui
è diretta la spinta sessuale. Nel bambino molto piccolo, sebbene la soddisfazione di un bisogno sia
importante, la motivazione primaria è la ricerca di un “oggetto” relazionale, ovvero di qualcuno con cui
relazionarsi, tanto che il processo di sviluppo avviene proprio in relazione agli altri nell’ambiente. Le
esperienze relazionali precoci portano alla creazione di oggetti interni che influenzano le relazioni
successive. Le prime relazioni plasmano le proprie aspettative sul modo in cui i propri bisogni sono
soddisfatti. Gli individui tentano di ricreare queste prime relazioni apprese in relazioni in corso che
potrebbero avere poco o nulla a che fare con quelle relazioni iniziali (enactment). L’inconscio è la parte
della mente di cui una persona non è consapevole e rappresenta i sentimenti, le emozioni e i pensieri
dell’individuo. La struttura psichica viene rappresentata come costituita da tre differenti elementi:
 L’Es è l’aspetto della personalità guidato da forze e bisogni basilari e interni tipicamente istintuali,
come la fame, la sete e l’impulso sessuale (libido). L’Es agisce secondo il principio del piacere.
 Il Super-io è guidato dal principio di moralità. Il Super-io agisce in connessione con la morale del
pensiero superiore e dell’azione.
 L’Io è guidato dal principio di realtà e cerca di bilanciare Es e Super-Io sforzandosi di ottenere il
controllo dell’Es razionalizzando l’istinto dell’Es e compiacendo le pulsioni benefiche per la persona
nel lungo periodo. L’Io aiuta a riconoscere ciò che è veramente reale, distinguendo la realtà dalle
pulsioni dell’Es e dagli standard del Super-Io.
Il trattamento psicoanalitico e psicodinamico utilizza tecniche per comprendere l’interazione tra elementi
consci e inconsci della mente al fine di riportare alla luce a livello conscio quel materiale represso, come
paure, pensieri, ecc., ovvero nascosto e reso non disponibile alla riflessione consapevole poiché
incompatibile con pensieri consci oppure in conflitto con altri pensieri inconsci. Il trattamento psicoanalitico
e psicodinamico cerca di accedere all’inconscio della persona attraverso l’interpretazione dei sogni, le libere
associazioni e l’ipnosi. I problemi psicologici vengono affrontati attraverso l’analisi dei meccanismi di
difesa, ovvero delle operazioni difensive ognuna delle quali è collegata ad un particolare stadio dello
sviluppo psicosessuale ed è prevalente in una particolare formazione di compromesso psicopatologico.

CAPITOLO 14: IL RUOLO DEI MECCANISMI DI DIFESA


I meccanismi di difesa sono dei meccanismi psicologici inconsci che permettono di gestire lo stress nelle
situazioni sociali. Scopo dei meccanismi di difesa è quello di ridurre l’ansia derivante da stimoli inaccettabili

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o potenzialmente dannosi. Nella teoria psicoanalitica, i meccanismi di difesa sono strategie psicologiche di
risposta all’ansia messe in gioco dall’inconscio per manipolare, negare o distorcere la realtà al fine di
difendersi da sentimenti di ansia o da impulsi inaccettabili. È possibile classificare i meccanismi di difesa su
quattro livelli:
 Livello I - Difese patologiche o psicotiche (negazione psicotica, proiezione delirante, distorsione): i
meccanismi di difesa appartenenti a questo livello portano ad una riorganizzazione delle esperienze
esterne al fine di eliminare la necessità di far fronte alla realtà, tanto da far apparire le persone che
utilizzano tali meccanismi come irrazionali, strane, bizzarre o pazze agli occhi degli altri. In effetti,
questi meccanismi di difesa sono le difese che tipicamente utilizzano i pazienti affetti da un
disturbo psicotico. A questo livello i meccanismi di difesa, quando sono predominanti, sono quasi
sempre gravemente patologici. Tuttavia, si possono ritrovare normalmente anche nei sogni e
durante l’infanzia pur in assenza di disturbi psichici.
 Livello II - Difese immature (fantasia schizoide, proiezione, ipocondria, aggressione passiva o
comportamento passivo-aggressivo, acting-out): i meccanismi di difesa appartenenti a questo
livello riducono l’angoscia e l’ansia prodotta dal rapporto con persone percepite come minacciose o
da situazioni reali scomode. Un loro uso eccessivo è considerato come socialmente non
desiderabile, in quanto si tratta di difese difficili da gestire e fortemente fuori dal contatto con la
realtà e porta quasi sempre a seri problemi nella capacità di una persona di far fronte alla realtà in
modo efficace. Questi meccanismi di difesa sono spesso utilizzati da persone affette da disturbi
depressivi o da disturbi della personalità.
 Livello III - Difese nevrotiche (intellettualizzazione, formazione reattiva, dissociazione,
spostamento, repressione): i meccanismi di difesa appartenenti a questo livello adottano un
approccio più socialmente desiderabile al fine di ridurre l’ansia e lo stress che quotidianamente
emergono nelle situazioni lavorative, familiari e relazionali. Tali difese hanno vantaggi a breve
termine nel far fronte alla realtà, ma possono causare problemi a lungo termine nelle relazioni, nel
lavoro e nel godersi la vita quando vengono utilizzate come stile primario nel rapportarsi agli altri e
al mondo.
 Livello IV - Difese mature (umorismo, sublimazione, soppressione, altruismo, anticipazione): i
meccanismi di difesa appartenenti a questo livello adottano un approccio socialmente desiderabile
e sono stati adattati negli anni per aumentare il piacere e le sensazioni di controllo, integrando
emozioni e pensieri contrastanti, al fine di ottimizzare il successo nella società umana e nelle
relazioni. Questi meccanismi di difesa, anche se a volte hanno la loro origine in uno stadio di
sviluppo immaturo, sono comunemente presenti in età adulta tra quelle persone emotivamente
sane che sono considerate dagli altri come persone mature e virtuose.
I meccanismi di difesa possono comportare conseguenze normali o patologiche a seconda delle circostanze
e della frequenza con cui vengono utilizzati. Un meccanismo di difesa dell’Io diventa patologico solo
quando il suo uso persistente porta a comportamenti disadattivi tali da pregiudicare la salute fisica o
mentale dell’individuo.
Meccanismi di difesa maturi:
 Accettazione. L’assenso di una persona alla realtà di una situazione, riconoscendo un processo o
una condizione senza tentare di cambiarla, di protestare o di abbandonarla.
 Altruismo. Mettersi al servizio degli altri in maniera costruttiva e provando piacere e soddisfazione
personale.
 Anticipazione. Pianificazione realistica dei problemi e dei disagi futuri al fine di poterli gestire e
ridurne la portata.

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 Autoregolazione emotiva. La capacità di rispondere alle continue richieste di esperienza con la


gamma di emozioni, modificando il tipo, l’intensità, la durata o l’espressione delle varie emozioni in
un modo socialmente tollerabile.
 Autosufficienza emotiva. Non essere dipendente dalla convalida da parte degli altri.
 Consapevolezza. Adottare un orientamento particolare, caratterizzato da curiosità, apertura e
accettazione verso le proprie esperienze nel momento presente.
 Coraggio. Capacità mentale e volontà di affrontare conflitti, paura, dolore, pericolo, incertezza.
 Gratitudine. Una sensazione di riconoscenza per una vasta gamma di persone ed eventi.
 Identificazione. Modellare inconsciamente se stessi sul carattere e sul comportamento di un’altra
persona.
 Misericordia. Comportamento compassionevole da parte di chi è al potere.
 Moderazione. Eliminare o attenuare gli estremi e rimanere entro limiti ragionevoli.
 Pazienza. Resistere a circostanze difficili per un po’ di tempo prima di rispondere negativamente.
 Perdono. Smettere di essere risentiti, indignati o arrabbiati come conseguenza di un disaccordo, di
un errore o di un’offesa percepita.
 Rispetto. Disponibilità a mostrare considerazione o apprezzamento nei confronti di sentimenti o
comportamenti di una persona.
 Soppressione. Decisione consapevole di ritardare l’attenzione su un pensiero, su un’emozione o su
un bisogno per fronteggiare la realtà presente, rendendo possibile accedere in seguito ad emozioni
scomode o angoscianti pur accettandole.
 Sublimazione. La trasformazione di emozioni o istinti disfunzionali o spiacevoli in azioni,
comportamenti o sentimenti sani.
 Tolleranza. Permettere o consentire deliberatamente una cosa che in realtà si disapprova.
 Umiltà. Un meccanismo attraverso il quale una persona, considerando i propri difetti, ha un’umile
opinione di sé.
 Umorismo. Espressione aperta di idee e sentimenti che dà piacere agli altri.
In psicologia clinica, in particolare nel modello di psicoterapia psicodinamica, sono degni d’attenzione quei
meccanismi di difesa che sono da considerarsi patologici in quanto nevrotici, immaturi o francamente
psicotici, poiché legati a patologie che vanno dallo spettro ansioso a quello psicotico. Per esempio,
l’organizzazione borderline della personalità è caratterizzata dall’uso di meccanismi primitivi di difesa.
Meccanismi di difesa nevrotici:
 Annullamento. Cercare di “annullare” un pensiero malsano, distruttivo, inaccettabile o minaccioso.
 Confronto sociale. Gli individui guardano ad un altro individuo o ad un gruppo di confronto di cui
hanno una considerazione inferiore al fine di dissociarsi dalle somiglianze percepite e per sentirsi
meglio con se stessi o con la loro situazione personale.
 Dissociazione. Modifica drastica e temporanea della personalità o dell’identità personale per
evitare la sofferenza emotiva.
 Formazione reattiva. Agire nel modo opposto, spesso in maniera esagerata o compulsiva, rispetto
al modo secondo cui una persona sarebbe portata a comportarsi dal suo inconscio.
 Intellettualizzazione. Una forma di isolamento con separazione delle emozioni dalle idee,
concentrandosi sulle componenti intellettuali di una situazione in modo da evitare le emozioni
associate che provocano angoscia.
 Isolamento. Separazione dei sentimenti dalle idee e dagli eventi.
 Razionalizzazione (trovare scuse). Convincere se stessi, attraverso il ragionamento errato e falsato,
che non è stato fatto alcun torto e che è andato tutto bene.

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 Regressione. Temporanea ricaduta dell’Io in uno stadio di sviluppo mentale o fisico precedente,
considerato come più sicuro in quanto meno impegnativo, meno faticoso e meno esigente in
termini di responsabilità e di impegno psicofisico, per non dover gestire impulsi inaccettabili in un
modo più adulto.
 Repressione. Spostare e riporre forzatamente nell’inconscio un sentimento o desiderio nel
tentativo di impedire che entri nella coscienza perché tale sentimento o desiderio è considerato
socialmente inaccettabile o minaccioso; l’emozione è consapevole, ma l’idea alla base è assente.
 Ritiro. Tirarsi fuori da eventi, stimoli e interazioni per paura che facciano ricordare pensieri e
sentimenti dolorosi.
 Spostamento. Spostare gli impulsi sessuali o aggressivi verso obiettivi più accettabili o meno
minacciosi.
Meccanismi di difesa immaturi:
 Aggressione passiva o comportamento passivo-aggressivo. Aggressività o ostilità verso gli altri,
espresse indirettamente o passivamente, spesso attraverso procrastinazione.
 Acting-out. Espressione diretta in azione di un impulso o di un desiderio inconscio, senza
consapevolezza cosciente dell’emozione che guida il comportamento espressivo.
 Fantasia schizoide. Tendenza a ritirarsi nella fantasia per risolvere conflitti interni ed esterni.
 Idealizzazione. Percepire un’altra persona come possessore di qualità più desiderabili di quanto
possa effettivamente avere.
 Identificazione proiettiva. Una particolare forma d’identificazione secondo cui l’oggetto della
proiezione evoca nella persona una versione dei pensieri, dei sentimenti o dei comportamenti
proiettati.
 Introiezione. Identificarsi con qualche idea, oggetto o attributo di un’altra persona in modo così
profondo che quell’idea, quell’oggetto o quell’attributo diventa parte della persona che compie il
processo d’identificazione.
 Ipocondria. Un’eccessiva preoccupazione per una grave malattia o l’ossessione di poter avere una
qualche malattia grave.
 Pensiero illusorio. Prendere decisioni in base a ciò che potrebbe essere piacevole da immaginare
invece di fare appello alla realtà.
 Proiezione. Vedere nelle azioni delle altre persone un sentimento o un bisogno inconscio concepiti
come socialmente inaccettabili quando in realtà tale sentimento o bisogno inconscio appartiene a
noi e non riusciamo ad affrontarlo o gestirlo.
 Somatizzazione. La trasformazione di sentimenti spiacevoli verso gli altri in sentimenti di disagio
verso se stessi, come dolore, malattia e ansia.
Meccanismi di difesa psicotici:
 Conversione. L’espressione di un conflitto intrapsichico come sintomo fisico.
 Distorsione. Un rimodellamento grossolano della realtà esterna al fine di soddisfare i bisogni
interni.
 Negazione psicotica. Rifiuto di accettare la realtà esterna perché ritenuta troppo minacciosa.
 Proiezione delirante. Idee deliranti sulla realtà esterna, di solito di natura persecutoria.
 Scissione. Gli impulsi dannosi e gli impulsi benevoli sono scissi e non integrati. La persona divide le
esperienze in categorie tutto-buono e tutto-cattivo.

CAPITOLO 15: INCONSCIO E DISTURBI DELLA COSCIENZA


La mente conscia è l’insieme di tutti quei fenomeni della mente che avvengono spesso in maniera
intenzionale e che sono disponibili alla capacità di introspezione. In tal senso, la mente conscia è concepita

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come “coscienza”, ovvero come consapevolezza di sé, dell’ambiente e di sé in rapporto all’ambiente. Così
intesa, la coscienza ha tre dimensioni: vigilanza (vs. sonnolenza); lucidità (vs. ottundimento); coscienza di sé
(vs. disturbi del sé). La mente inconscia (o inconscio) è l’insieme di tutti quei fenomeni della mente che
avvengono in maniera automatica e che non sono disponibili alla capacità di introspezione da parte della
persona. Tali fenomeni mentali comprendono abitudini e reazioni automatiche, abilità automatiche,
percezioni subliminali, processi di pensiero, interessi, motivazioni, fobie nascoste, desideri, sentimenti e
ricordi repressi. Anche se questi fenomeni mentali sono collocati ben al di sotto della superficie della
consapevolezza cosciente, si crede che essi siano comunque in grado di condizionare il comportamento e
anche la parte conscia della mente per quanto riguarda le funzioni psichiche superiori come il pensiero,
l’apprendimento, l’attenzione, la memoria, la percezione, il linguaggio. La prima grande teoria a studiare
l’inconscio è stata la teoria psicoanalitica già nella sua concezione originaria (Sigmund Freud). Lo studio
dell’inconscio per tale teoria è stato di tale importanza da costituire uno degli elementi essenziali della
psicoanalisi la quale, attraverso l’interpretazione dei sogni e le libere associazioni, cerca proprio di
comprendere l’interazione tra elementi consci e inconsci della mente al fine di riportare alla luce a livello
conscio quel materiale represso. Secondo Carl Gustav Jung l’inconscio collettivo contiene immagini con
significati universali che sono evidenti nell’uso dei simboli da parte della cultura.
Secondo la teoria psicoanalitica, i fenomeni inconsci sono rappresentati direttamente nei sogni, oltre che
nei lapsus e nelle battute di spirito. Secondo Freud, eventi psichici significativi avvengono “sotto la
superficie” nella mente inconscia, come messaggi nascosti all’inconscio, e sono tali da avere un significato
sia simbolico che reale. In termini psicoanalitici, l’inconscio non include tutto ciò che non è conscio, bensì
ciò che viene attivamente represso dal pensiero cosciente o ciò che una persona non è disposta a
conoscere consapevolmente. I problemi psicologici derivano da emozioni e pensieri repressi che derivano
da esperienze passate, e come risultato di questa repressione, un comportamento alternativo sostituisce
ciò che è stato represso. Il paziente guarisce quando riesce ad ammettere ciò che è stato represso. Col
termine cognizione inconscia si intende l’elaborazione della percezione, della memoria,
dell’apprendimento, del pensiero e del linguaggio. La mente inconscia svolge un ruolo attivo nel processo
decisionale e nell’analisi delle informazioni. I messaggi subliminali utilizzano il fenomeno della mente
inconscia che non solo elabora i messaggi più velocemente della mente cosciente ma anche nota nel campo
visivo o uditivo quei dati che rimangono al di sotto della soglia della mente cosciente.
Delirium: la caratteristica essenziale è un’alterazione di coscienza accompagnata da una modificazione
cognitiva che non può essere meglio giustificata da una demenza stabilizzata o in evoluzione. Il delirium è
spesso un’alterazione nei cicli sonno-veglia. Quest’alterazione può comportare sonnolenza diurna o
agitazione notturna. È frequentemente accompagnato da un’attività psicomotoria alterata. D’altra parte, il
soggetto può mostrare una diminuzione dell’attività psicomotoria, con rallentamento e letargia che si
avvicinano allo stupor. Può presentare turbe emotive, come ansia, paura, depressione, irritabilità, apatia,
euforia. Vi possono essere rapidi e imprevedibili passaggi da uno stato emotivo all’altro.
Disturbi dissociativi: è una categoria che include diversi disturbi la cui caratteristica è la sconnessione delle
funzioni solitamente integrate della coscienza, memoria, identità o della percezione dell’ambiente:
Amnesia dissociativa: incapacità di rievocare importanti notizie personali, che è usualmente di natura
traumatica e stressogena, e che risulta troppo estesa per essere spiegata con una normale tendenza a
dimenticare. Nell’amnesia circoscritta il soggetto non è in grado di rievocare eventi che si sono verificati
durante un periodo circoscritto di tempo. Nell’amnesia selettiva la persona può ricordare alcuni, ma non
tutti gli eventi; nell’amnesia generalizzata l’incapacità di ricordare riguarda l’intera vita della persona;
l’amnesia continuativa viene definita come l’incapacità di rievocare gli eventi da un certo momento in poi;
l’amnesia sistemizzata corrisponde alla perdita di memoria per certe categorie di informazioni.

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Fuga dissociativa: allontanamento improvviso e inaspettato da casa o dall’abituale posto di lavoro,


accompagnato dall’incapacità di ricordare il proprio passato e da confusione circa la propria identità
personale. Il tipo di viaggio può variare da spostamenti di breve durata, che di solito avvengono senza
disturbare nessuno, fino a casi in cui i soggetti attraversano molte miglia. Durante la fuga il soggetto appare
esente da patologia e non attira l’attenzione. Ad un certo punto egli arriva all’osservazione dei medici, di
solito a causa di un’amnesia per i fatti recenti o di una carenza di consapevolezza della propria identità. Una
volta che il soggetto ritorna allo stato che precedeva la fuga, può non esservi alcun ricordo degli eventi
accaduti durante la fuga.
Disturbo dissociativo dell’identità (precedentemente “disturbo da personalità multipla”): presenza di due
o più distinte identità o stati di personalità che, in modo ricorrente, assumono il controllo del
comportamento del soggetto. Il disturbo riflette il fallimento nell’integrazione dei vari aspetti dell’identità,
della memoria e della coscienza. Ognuno degli stati di personalità può essere vissuto come se avesse una
storia personale, immagine di sé e identità distinte, compreso un nome separato. Le transizioni da una
identità all’altra sono spesso scatenate da fattori psico-sociali stressanti.
Disturbo di depersonalizzazione: sentimento persistente o ricorrente di essere staccato dal proprio corpo o
dai propri processi mentali.
In qualche momento della vita, circa la metà degli individui adulti può aver sperimentato un singolo breve
episodio di tale genere, di solito precipitato da un periodo di stress. Può essere anche presente la
derealizzazione, che viene sperimentata come la sensazione che il mondo esterno sia strano o irreale.

CAPITOLO 16: DISTURBI DELLA MOTIVAZIONE


La motivazione è il processo che avvia, guida e mantiene comportamenti orientati al raggiungimento degli
scopi. La motivazione contiene tre componenti principali:
 L’attivazione comporta la decisione di iniziare un comportamento;
 La persistenza è lo sforzo continuo verso l’obiettivo anche se possono esserci degli ostacoli;
 L’intensità può essere vista nella concentrazione e nel vigore nel perseguire un obiettivo.
Ci sono molte forze diverse che guidano e indirizzano le nostre motivazioni e che interagiscono per
motivare il comportamento. A volte i comportamenti sono motivati da istinti, che sono schemi di
comportamento fissi e innati. In tali casi, le persone sono motivate a comportarsi in determinati modi
perché sono programmate biologicamente per farlo. A volte, le persone hanno delle pulsioni biologiche di
base e i loro comportamenti sono motivati dalla necessità di soddisfare tali pulsioni. In tali casi, i bisogni
non soddisfatti creano un senso di tensione interna che motiva le persone a intraprendere determinate
azioni al fine di ridurre la tensione interna causata dai bisogni non soddisfatti. A volte, le persone sono
motivate a impegnarsi in determinati comportamenti per diminuire o aumentare i livelli di eccitazione o
arousal al fine di mantenere il loro livello ottimale di eccitazione. In tali casi, siamo motivati a mantenere
un livello ottimale di eccitazione, sebbene questo livello possa variare in base all’individuo o alla situazione.
A volte, le persone sono motivate a fare le cose a causa di ricompense esterne. In tali casi, le persone
perseguono intenzionalmente determinate linee d’azione al fine di ottenere delle ricompense. Più grandi
sono le ricompense percepite, più fortemente le persone sono motivate a perseguire quei rinforzi. Altre
volte, le persone sono motivate a fare le cose sulla base delle aspettative che hanno, ovvero su ciò che
pensano possa accadere. Ciò porta le persone a sentirsi più motivate a perseguire quei risultati positivi che
vengono visti come probabili, grazie al valore che le persone attribuiscono al risultato potenziale (valenza).
La motivazione può nascere dall’esterno o dall’interno dell’individuo, per cui diversi tipi di motivazione
sono spesso descritte come estrinseche o intrinseche:
 Le motivazioni estrinseche sono quelle che nascono dall’esterno dell’individuo e spesso implicano
ricompense. La motivazione estrinseca si verifica quando siamo motivati a svolgere un

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comportamento o impegnarci in un’attività per guadagnare una ricompensa o evitare una


punizione. Le persone sono coinvolte in un comportamento non perché si divertono o perché lo
trovano soddisfacente, ma per ottenere qualcosa in cambio o evitare qualcosa di spiacevole.
 Le motivazioni intrinseche sono quelle che nascono dall’interno dell’individuo. La motivazione
intrinseca implica impegnarsi in un comportamento perché è personalmente gratificante,
essenzialmente, svolgendo un’attività fine a se stessa senza il desiderio di una ricompensa esterna.
Motivazione estrinseca e intrinseca possono differire in quanto ad efficacia nel guidare il comportamento.
Offrire ricompense esterne eccessive per un comportamento già gratificante internamente può portare ad
una riduzione della motivazione intrinseca, un fenomeno noto come “effetto di giustificazione eccessiva”.
La motivazione estrinseca può essere più utile in situazioni in cui una persona ha bisogno di completare
un’attività che trova spiacevole. In generale, i premi esterni possono indurre interesse e partecipazione a
qualcosa in cui l’individuo non ha avuto alcun interesse iniziale.
I disturbi della motivazione sono:
 L'abulia: indica letteralmente l'assenza di volontà e rappresenta un disturbo da diminuzione della
motivazione.
 L’apatia: indica letteralmente l'assenza di emozione e rappresenta una mancanza di sentimenti, di
emozioni, di interessi e di preoccupazioni per cose di grande importanza. L'apatia è uno stato di
indifferenza o anche la soppressione di emozioni come preoccupazione, eccitazione, motivazione o
passione. Un individuo apatico ha un'assenza di interesse o di preoccupazione per la vita emotiva,
sociale, spirituale, filosofica o fisica e per il mondo.
 L’anedonia: indica letteralmente l'assenza di piacere e rappresenta un deficit nella funzione
edonica, compresa motivazione o capacità ridotte nel provare piacere. Un tipo di anedonia è
l’anedonia sociale, definita come un disinteresse per il contatto sociale e una mancanza di piacere
nelle situazioni sociali.
 L’avolizione: indica letteralmente l'assenza di volizione. L’avolizione è la diminuzione della
motivazione ad avviare ed eseguire attività mirate autogestite. Tali attività che sembrano essere
trascurate di solito includono attività di routine, tra cui hobby, andare a lavorare, a scuola e,
soprattutto, impegnarsi in attività sociali. Le persone con avolizione spesso vogliono completare
determinati compiti ma non hanno la capacità di avviare i comportamenti necessari per
completarli.
 L’asocialità si riferisce alla mancanza di motivazione a impegnarsi nell'interazione sociale o alla
preferenza di attività solitarie. La mancanza di interesse nei rapporti sociali può portare ad una
tendenza verso uno stile di vita solitario, segretezza, freddezza emotiva e apatia.

CAPITOLO 17: DISTURBI DELL’ATTENZIONE


L’attenzione si riferisce a come le persone elaborano attivamente informazioni specifiche nel loro
ambiente. L’attenzione può essere suddivisa in due principali sistemi attenzionali:
 Il controllo esogeno funziona dal basso verso l’alto ed è responsabile della vigilanza,
dell’attivazione, del riflesso di orientamento, dell’attenzione focalizzata e degli effetti improvvisi.
 Il controllo endogeno funziona dall’alto verso il basso ed è il sistema di attenzione più deliberato,
responsabile dell’attenzione selettiva, dell’attenzione divisa, dell’attenzione locale e globale e
dell’elaborazione consapevole.
Secondo William James, l’attenzione è il prendere possesso da parte della mente di uno solo tra tutti i
numerosi oggetti o catene di pensieri simultaneamente possibili. Ciò implica la rinuncia ad alcune cose al
fine di occuparsi efficacemente di altre. Il nostro sistema attenzionale ci consente non solo di concentrarci
su qualcosa di specifico nel nostro ambiente, ma al tempo stesso di mettere a punto dettagli irrilevanti. Il

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cervello è in grado di gestire solo un piccolo sottoinsieme di queste informazioni, e ciò viene realizzato
attraverso i processi attenzionali. I nostri riflessi di orientamento ci aiutano a determinare quali eventi nel
nostro ambiente devono essere oggetto di attenzione.
L’attenzione è non solo selettiva ma anche e soprattutto limitata. Le variabili chiave che influiscono sulla
nostra capacità di rimanere in attività includono quanto siamo interessati allo stimolo e quanti elementi
distrattori ci sono. L’attenzione è limitata in termini sia di capacità e sia di durata. Poiché è una risorsa
limitata, dobbiamo essere selettivi su ciò su cui decidiamo di concentrarci. Dobbiamo concentrare la nostra
attenzione su un elemento specifico nel nostro ambiente, ma dobbiamo anche filtrare un numero enorme
di altri elementi. L’illusione che l’attenzione sia illimitata porta molte persone a praticare il multitasking.
Solo negli ultimi anni la ricerca ha evidenziato come il multitasking funzioni raramente perché la nostra
attenzione è, in realtà, limitata. L’attenzione divisa avviene quando gli individui prestano attenzione a più
fonti di informazioni o eseguono più di un compito. Il tentativo di eseguire due o più compiti
contemporaneamente si chiama multitasking. Tuttavia, la ricerca dimostra che quando si lavora in
multitasking le persone commettono più errori o eseguono i loro compiti più lentamente, perché
l’attenzione deve essere divisa tra tutte le attività contemporanee per essere eseguite bene. Ricerche
recenti che utilizzano paradigmi a doppio-compito sottolineano l’importanza del tipo di compiti nelle
risorse attenzionali. Nello specifico, in attività spaziali visivo-uditive e in attività spaziali visivo-tattili si
osserva l’interferenza dei due compiti. Al contrario, quando uno dei compiti coinvolge il rilevamento degli
oggetti, non viene osservata alcuna interferenza. In alternativa, la teoria delle risorse è stata proposta per
spiegare l’attenzione divisa su compiti complessi. La teoria delle risorse afferma che, dal momento che ogni
attività complessa è automatizzata, l’esecuzione di tale compito richiede meno delle risorse attentive
dell’individuo.
Disturbo da deficit di attenzione/iperattività
 È caratterizzato da almeno uno tra disattenzione, iperattività e/o impulsività:
 Disattenzione: sei (o più) dei seguenti sintomi persistono per almeno 6 mesi con
un’intensità incompatibile con il livello di sviluppo e che ha un impatto negativo diretto
sulle attività sociali e scolastiche/lavorative: spesso non riesce a prestare attenzione ai
particolari o commette errori di distrazione nei compiti scolastici, sul lavoro o in altre
attività; ha spesso difficoltà a mantenere l’attenzione sui compiti o sulle attività di gioco;
spesso non sembra ascoltare quando gli si parla; spesso non segue le istruzioni e non porta
a termine i compiti scolastici o i doveri sul posto di lavoro; ha spesso difficoltà a
organizzarsi nei compiti e nelle attività; spesso evita, prova avversione o è riluttante a
impegnarsi in compiti che richiedono sforzo mentale protratto; spesso è facilmente
distratto da stimoli esterni; è spesso sbadato nelle attività quotidiane.
 Iperattività e impulsività: sei (o più) dei seguenti sintomi persistono per almeno 6 mesi con
un’intensità incompatibile con il livello di sviluppo e che ha un impatto negativo diretto
sulle attività sociali e scolastiche/lavorative: spesso agita o batte mani e piedi o si dimena
sulla sedia; spesso lascia il proprio posto in situazioni in cui si dovrebbe rimanere seduti;
spesso scorrazza e salta in situazioni in cui farlo risulta inappropriato; è spesso incapace di
giocare o svolgere attività ricreative tranquillamente; spesso parla troppo; ha spesso
difficoltà nell’aspettare il proprio turno; spesso interrompe gli altri o è invadente nei loro
confronti.
 Diversi sintomi di disattenzione o di iperattività-impulsività erano presenti prima dei 12 anni.
 Diversi sintomi di disattenzione o di iperattività-impulsività si presentano in più contesti.

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CAPITOLO 18: DISTURBI DELLA PERCEZIONE


La percezione è l’organizzazione, l’identificazione e l’interpretazione delle informazioni sensoriali al fine di
rappresentare e comprendere le informazioni presentate o l’ambiente. La percezione coinvolge sia i sensi
fisici sia i processi cognitivi coinvolti nell’interpretazione di quei sensi. La percezione non è solo la ricezione
passiva di segnali, ma è anche modellata dall’apprendimento, dalla memoria, dalle aspettative e
dall’attenzione del destinatario. La percezione può essere suddivisa in due processi:
o elaborazione dell’input sensoriale, che trasforma le informazioni di basso livello, che derivano dalla
stimolazione fisica o chimica del sistema sensoriale, in informazioni di livello superiore;
o l’elaborazione che è collegata ai concetti e alle aspettative di una persona, ai meccanismi selettivi
che influenzano la percezione.
I sistemi percettivi del cervello consentono agli individui di vedere il mondo intorno a loro come stabile,
anche se le informazioni sensoriali sono tipicamente incomplete e rapidamente variabili.
Il processo di percezione inizia con un oggetto nel mondo reale, definito lo stimolo distale. Attraverso la
luce, il suono o un altro processo fisico, l’oggetto stimola gli organi sensoriali del corpo. Questi organi
sensoriali trasformano l’energia di input in attività neurale, un processo chiamato trasduzione. Questo
modello grezzo di attività neurale è chiamato stimolo prossimale. Questi segnali neurali sono trasmessi al
cervello e processati. La ri-creazione mentale risultante dello stimolo distale è il percetto. I diversi tipi di
sensazione come calore, suono e gusto sono chiamati “modalità sensoriali”. Uno stimolo ambiguo può
essere tradotto in più percezioni, in quella che viene chiamata “percezione multistabile”. Jerome Bruner ha
sviluppato un modello di percezione secondo cui le persone seguono un processo specifico che li porta a
formarsi delle opinioni su ciò che percepiscono dall’ambiente. In un primo momento, quando le persone si
imbattono in un oggetto sconosciuto dell’ambiente, sono aperte a diversi segnali informativi e vogliono
saperne di più su quell’oggetto distale. In un secondo momento, le persone cercano di raccogliere più
informazioni. Gradualmente, le persone incontrano alcuni segnali familiari che li aiutano a classificare
l’oggetto sconosciuto nel quale si sono imbattuti. In questa fase, i segnali diventano meno aperti e selettivi.
Le persone tentano di cercare più segnali che confermino la categorizzazione dell’oggetto distale. Secondo
Alan Saks e Gary Johns, ci sono tre componenti della percezione:
 Il percettore: la persona che diventa consapevole di qualcosa e arriva ad una comprensione finale.
Ci sono tre fattori che possono influenzare le sue percezioni: esperienza, stato motivazionale e
stato emotivo.
 Il bersaglio: è la persona o l’oggetto che viene percepito o giudicato.
 La situazione: influenza anche notevolmente le percezioni perché situazioni diverse possono
richiedere ulteriori informazioni sull’obiettivo.
La costanza percettiva è la capacità dei sistemi percettivi di riconoscere lo stesso oggetto da input sensoriali
molto variabili.
I principi del raggruppamento sono un insieme di principi per spiegare la tendenza a percepire gli oggetti
come modelli, oggetti organizzati, schemi basati su regole. I principi del raggruppamento sono organizzati
in sei categorie:
 Il principio di prossimità afferma che la percezione tende a raggruppare stimoli che sono vicini tra
loro come parte dello stesso oggetto e stimoli che sono distanti tra loro come due oggetti separati.
 Il principio di somiglianza afferma che la percezione si presta a considerare stimoli che fisicamente
si assomigliano tra loro come parte dello stesso oggetto e stimoli che sono diversi come parte di un
oggetto diverso.
 Il principio di chiusura si riferisce alla tendenza della mente a vedere figure o forme complete
anche se un’immagine è incompleta.
 Il principio di buona continuazione dà un senso agli stimoli che si sovrappongono.

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 Il principio del destino comune raggruppa gli stimoli sulla base del loro movimento.
 Il principio di buona forma si riferisce alla tendenza a raggruppare forme di forma, modello, colore
simili.
Effetti di contrasto. Una constatazione comune su diversi tipi di percezione è che la qualità percepita di un
oggetto può essere influenzata dalla qualità del contesto. Se un oggetto è estremo su alcune dimensioni, gli
oggetti vicini vengono percepiti come più lontani da quell’estremo. Il cosiddetto “effetto di contrasto
simultaneo” riguarda stimoli che sono presentati nello stesso momento. Il cosiddetto “effetto di contrasto
successivo” si riferisce agli stimoli che sono presentati uno dopo l’altro.
L’effetto dell’esperienza è quell’effetto che spiega perché con l’esperienza le persone possono imparare a
fare distinzioni percettive più sottili.
L’effetto di motivazione e di aspettativa consiste nella predisposizione a percepire le cose in un certo
modo.
I disturbi quantitativi sono:
 ipoestesia (ridotta percezione);
 iperestesia (percezione amplificata);
 estraneamento dal mondo delle percezioni.
I disturbi qualitativi si distinguono in: alterazioni non allucinatorie ed allucinatorie. Ci sono tre tipi principali
di alterazioni percettive non allucinatorie:
 illusioni;
 allucinosi;
 pseudoallucinazioni.
Le illusioni sono fenomeni in cui una percezione reale viene trasformata per la combinazione di elementi
non reali.
Le illusioni affettive sono quelle illusioni che si verificano in condizioni di particolare stato emotivo del
soggetto.
Anche l’allucinosi, come l’allucinazione, consiste nella manifestazione di una percezione in assenza di
oggetto. L’elemento che la distingue è la conservazione della capacità da parte del soggetto di riconoscerne
la natura abnorme.
La pseudoallucinazione è una forma particolarmente vivida e intensificata di rappresentazione mentale. È
riferita allo spazio interno del soggetto, che può descrivere di percepire "il proprio stomaco di vetro",
oppure descrive voci interne, immagini interne.
L’allucinazione è una percezione che avviene in assenza di oggetto. A differenza dall’allucinosi, non è
correggibile: l’individuo è convinto della realtà delle proprie percezioni e non può essere convinto del
contrario. La percezione allucinatoria ha caratteristiche analoghe a quelle di una percezione reale nella
fisicità, nella struttura. Un altro elemento che normalmente contraddistingue le allucinazioni è il carattere
autocentrico: le voci udite parlano al paziente, è lui che insultano, a lui danno ordini. Si possono distinguere
diverse allucinazioni a seconda dell’area sensoriale interessata: ciascuno dei cinque sensi può essere
interessato da fenomeni allucinatori.

CAPITOLO 19: DISTURBI DELLA MEMORIA


La memoria è la capacità di creare nuovi ricordi, memorizzarli per periodi di tempo e richiamarli quando
sono necessari. Ci sono tre principali processi coinvolti nella memoria: codifica, archiviazione e recupero.
 Per formare nuovi ricordi, le informazioni devono essere modificate in una forma utilizzabile, che
avviene attraverso il processo noto come codifica.
 Una volta che le informazioni sono state codificate correttamente, devono essere archiviate in
memoria per l’uso successivo.

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 Il processo di recupero ci consente di portare i ricordi immagazzinati alla consapevolezza cosciente.


La possibilità di accedere e recuperare informazioni dalla memoria ci consente di utilizzare effettivamente
questi ricordi per prendere decisioni, interagire con gli altri e risolvere problemi. Le informazioni sono
organizzate nella memoria in gruppi. Un modo di pensare all’organizzazione della memoria è il modello di
rete semantica. Questo modello suggerisce che determinati inneschi attivano i ricordi associati. Un ricordo
di un luogo specifico potrebbe attivare ricordi su cose correlate che si sono verificate in quel luogo. La
struttura e la funzione di base della memoria sono delineate lungo tre fasi separate della memoria:
memoria sensoriale, memoria a breve termine e memoria a lungo termine. Accanto a questi tre tipi di
memoria c’è la cosiddetta memoria di lavoro che, almeno in larga parte, si sovrappone alla memoria a
breve termine.
La memoria sensoriale è il primo stadio della memoria. È una memoria molto breve che consente la
registrazione di un’enorme quantità di informazioni. Lo scopo della memoria sensoriale è di conservare
impressioni di informazioni sensoriali da stimoli ambientali dopo che lo stimolo originale è cessato, per il
tempo necessario per poter essere riconosciute. I diversi sensi hanno diversi tipi di memoria sensoriale:
memoria iconica (memoria sensoriale visiva), memoria ecografica (memoria sensoriale uditiva), memoria
aptica (memoria tattile). Grazie alla memoria sensoriale possiamo trasferire alcune informazioni sensoriali
importanti nella fase successiva della memoria.
La memoria di lavoro può essere pensata come un contenitore di memoria temporaneo per le informazioni
necessarie per completare un’attività specifica. Implica la capacità non solo di ricordare le informazioni per
un breve periodo di tempo, ma anche di usarle, manipolarle e applicarle mentre si accede ad altre
informazioni archiviate. Ci sono tre componenti della memoria di lavoro:
 Il blocco per appunti visuo-spaziali è un luogo in cui si memorizzano informazioni visive e spaziali;
 Il circuito fonologico è un luogo in cui si registrano le informazioni uditive;
 L’esecutivo centrale elabora le informazioni, dirige l’attenzione, definisce gli obiettivi e prende le
decisioni.
La memoria a breve termine, nota anche come memoria primaria o attiva, è l’informazione di cui
attualmente siamo consapevoli o sulla quale stiamo pensando. La memoria a breve termine è limitata, può
contenere da cinque a nove elementi, ed è soprattutto molto breve. Quando i ricordi a breve termine non
vengono mantenuti attivamente, durano da pochi secondi a massimo un minuto. Il contenuto della
memoria a breve termine può diventare memoria a lungo termine attraverso i processi di associazione e
ripetizione. Mentre molti dei nostri ricordi a breve termine vengono rapidamente dimenticati, alcune
informazioni riescono ad accedere alla fase successiva.
La memoria a lungo termine si riferisce alla memorizzazione di informazioni per un periodo prolungato. I
ricordi di qualcosa che è accaduto più di pochi istanti fa, sia che si sia verificato qualche ora fa o decenni
prima, appartengono alla memoria a lungo termine. I ricordi a lungo termine possono durare da pochi
giorni fino a tanti decenni. Alcune informazioni sono più facili da richiamare mentre ad altri ricordi è molto
più difficile accedere. Le informazioni di maggiore importanza portano a un richiamo più forte. Anche i
ricordi a cui si accede frequentemente diventano molto più forti e facili da ricordare. La memoria a lungo
termine è solitamente divisa in due tipi: memoria dichiarativa (esplicita) e memoria non dichiarativa
(implicita).
o I ricordi espliciti, noti anche come ricordi dichiarativi, includono tutti i ricordi disponibili nella
coscienza. La memoria esplicita può essere ulteriormente suddivisa in memoria episodica (eventi
specifici) e memoria semantica (conoscenza del mondo).
o I ricordi impliciti sono quelli per lo più inconsci. Questo tipo di memoria include la memoria
procedurale, che coinvolge i ricordi del movimento del corpo e come utilizzare gli oggetti
nell’ambiente.

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I disturbi della memoria possono essere distinti in alterazioni organiche e alterazioni psicogene.
Le alterazioni organiche sono:
 Amnesia lacunare. Perdita di memoria spesso conseguente a trauma cranico che interessa uno
specifico periodo di tempo molto limitato.
 Amnesia anterograda/retrograda. Perdita di memoria in genere causata da trauma cranico o
intossicazioni da sostanze; possono essere perduti i ricordi precedenti (amnesia retrograda) oppure
successivi (amnesia anterograda) all’evento causale.
 Amnesia globale. Quadro clinico severo scatenato da gravi eventi patologici nel quale si riscontrano
sia l’amnesia anterograda che l’amnesia retrograda.
 Blackout alcolico. Blackout di memoria che interferisce con la capacità di ricordare eventi ed
episodi recenti finanche a cancellare del tutto la consapevolezza di quanto si è fatto o detto in stato
di ubriachezza.
 Sindrome di Korsakov. Malattia cerebrale degenerativa con conseguente amnesia anterograda e
retrograda.
 Confabulazione. Si verifica in stato di coscienza lucida in associazione con amnesia di origine
organica. Può esserci confabulazione di imbarazzo (alterazione transitoria, in cui la persona cerca
di coprire vuoti di memoria) e confabulazione fantastica (la persona descrive spontaneamente
esperienze non accadute, spesso avventurose).
 Perseverazione. Segno di malattia cerebrale organica, in cui una risposta appropriata al primo
stimolo viene mantenuta anche se lo stimolo cambia.
 Déja vu. Sentimento di familiarità associato a qualcosa che viene sperimentato per la prima volta.
 Jamais vu. Incapacità di riconoscere una situazione come familiare.
Le alterazioni psicogene sono:
 Dimenticanza selettiva. Tendenza all’oblio per eventi imbarazzanti, in cui l’evento viene mantenuto
ma il ricordo dell’emozione soggettiva legato ad esso è alterato.
 Falsificazione della memoria. Menzogna plausibile e disinvolta che si associa spesso a disturbi di
personalità.
 Cripto amnesia. Esperienza di non ricordare che si sta ricordando. Si riferisce alla generazione di
una parola, idea, soluzione che già esiste da tempo credendo che sia totalmente originale.
 Amnesia dissociativa. Incapacità a ricordare dati personali importanti.
 Fuga dissociativa. Restringimento del campo di coscienza con successiva amnesia per l’episodio di
allontanamento; spesso si accompagna a perdita dell’identità con assunzione di una nuova.
 Disturbo dissociativo dell’identità (personalità multipla). Amnesia completa o parziale per una o
più delle personalità assunte.
 Amnesia globale transitoria. Grave perdita di memoria spesso indotta da forte stress con un totale
e completo ripristino della funzione mnemonica dopo circa 24 ore.
 Sindrome di Ganser. Forma dissociativa con amnesia per il periodo nel quale si manifestano i
sintomi. Si verifica una produzione volontaria di sintomi psicologici che tende al peggioramento
quando il paziente è consapevole di essere osservato.
 Alterazioni di memoria in corso di disturbo da stress post-traumatico. L'evento traumatico viene
rivissuto persistentemente attraverso ricordi spiacevoli ricorrenti e intrusivi dell'evento.
 Vuoti di memoria indotti da ansia. Possono verificarsi in forma transitoria e occasionale in soggetti
sani.
 Confabulazione fantastica a contenuto persecutorio. Si verifica in corso di schizofrenia,
depressione, stati ossessivi.

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 False memory syndrome. Fenomeno spesso conseguente ai processi di recupero (ipnosi, casi
giudiziari).

CAPITOLO 20: DISTURBI DEL PENSIERO


Il pensiero è un processo mentale al pari dell'attenzione, della percezione, della memoria, ecc. Il pensiero
contiene a sua volta varie funzioni quali l'ideazione, l'immaginazione, il ragionamento, il giudizio, le
credenze. Il pensiero presenta un ordine formale, determinato dalla strutturazione, funzione che relaziona
tra loro le singole idee. Tale funzione è soggetta al ragionamento, che pone in relazione le idee attraverso
processi logici, e alla critica, che permette di discriminare al termine del ragionamento il vero dal falso. Sulla
base dei principi della logica, del legame con la realtà e del controllo della coscienza, vengono
comunemente riconosciuti tre tipi di pensiero:
 Il pensiero fantastico può essere di breve durata o può diventare uno stile di vita stabile. La
fantasia gioca un ruolo importante nel modo in cui ciascuno di noi conduce le proprie attività
quotidiane, ma può portare la persona a sfuggire o negare la realtà, oppure a convertire la realtà in
qualcosa di più tollerabile.
 Il pensiero immaginativo comprende stati psicologici come la fantasia, la nascita di idee innovative
e la produzione creativa. Gli elementi costitutivi dell’immaginazione sono le immagini mentali, il
ragionamento controfattuale (capacità di svincolarsi dalla realtà per pensare eventi ed esperienze
che non sono accaduti e che potrebbero non accadere mai) e le rappresentazioni simboliche.
 Il pensiero razionale o concettuale comprende il problem solving e il ragionamento.
Il flusso del pensiero è caratterizzato da una sequenza ininterrotta di pensieri, in modo tale che da ogni
pensiero possano scaturire una o più associazioni che danno vita ad ulteriori pensieri.
I disturbi del flusso del pensiero possono riguardare il ritmo oppure la continuità.
I disturbi del ritmo sono:
 L’accelerazione, caratterizzata da un’estremamente facilitata produzione di idee che si susseguono
rapidamente con una debole direzione generale e dominante. Di conseguenza il pensiero muta
spesso direzione e l’eloquio tende a risultare tanto ricco quanto irrefrenabile (logorrea). Quando
l’accelerazione ideativa è molto consistente si ha la cosiddetta fuga delle idee.
 Il rallentamento è caratterizzato da un’estremamente difficoltosa produzione spontanea di idee la
cui sequenza, benché diretta ad uno scopo, è estremamente lenta, con significativa povertà di idee
e immagini mentali prodotte. Quando il rallentamento delle idee è molto consistente si ha la
cosiddetta inibizione del pensiero.
 La circostanzialità è caratterizzata dall’incapacità di differenziare l’idea dominante da quelle
secondarie, per cui il pensiero procede lentamente con un eccesso di dettagli superflui, che
rendono prolisso ed eccessivamente articolato il discorso.
 La ridondanza procedurale è caratterizzata dall’indugiare oltre il necessario su idee di per sé utili,
per cui il pensiero procede lentamente ma in maniera pesante, in quanto eccessivamente retorico e
pedante.
I disturbi della continuità sono:
 La perseverazione è caratterizzata dalla ripetizione, in maniera stereotipata, di idee che persistono
anche dopo che si è esaurita la loro rilevanza.
 Il blocco del pensiero è caratterizzato dall’arresto improvviso e non intenzionale del flusso ideativo.
I disturbi della forma del pensiero si riferiscono a modificazioni della codifica e dell’articolazione del
pensiero e sono:
 Il deragliamento è caratterizzato dalla tendenza da parte delle idee a deviare spontaneamente in
direzioni scarsamente o per nulla collegate alla direzione cui erano destinate.

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 La tangenzialità è una forma di lieve deragliamento in cui le idee sono correlate tra loro
marginalmente. A differenza del deragliamento, che si manifesta nel corso di un discorso
spontaneo, la tangenzialità si manifesta come immediata risposta ad una domanda.
 L’incoerenza è caratterizzata da destrutturazione e scarsa coesione delle idee che sono totalmente
sconnesse tra loro.
 L’illogicità è caratterizzata dalla tendenza da parte del pensiero a non seguire le regole della logica
comunemente usata, in quanto possiede in alcuni o in tutti i passaggi premesse o inferenze
erronee.
 L’iperinclusione è caratterizzata dall’incapacità di selezionare, restringere ed eliminare dalla
struttura concettuale elementi non strettamente correlati.
 La fusione è caratterizzata dalla tendenza a concatenare le idee mettendo insieme elementi
eterogenei sino a formare una raccolta indiscriminata priva di una progressione logica in un
percorso che parte dalle premesse per arrivare alla tesi da dimostrare.
 La mistura (o miscuglio) rappresenta una forma estrema di fusione e deragliamento ed è
caratterizzato da un impasto di parti costitutive di un singolo processo di pensiero.
I disturbi del possesso (o del controllo) del pensiero si riferiscono alla sensazione che un individuo può
avere di perdita di controllo del pensiero, ovvero di non vivere il proprio pensiero come appartenente a se
stesso o di non poter dirigere i propri pensieri a proprio piacimento.
 Le ossessioni sono caratterizzate dalla comparsa persistente, ricorrente e involontaria di contenuti
psichici che la persona vive come assurdi e disturbanti, tanto da indurre nella persona ansia e senso
di colpa per il loro contenuto ripugnante nonostante compaiano contro la sua volontà.
 L’alienazione del pensiero è caratterizzata dalla tendenza a percepire un senso di influenzamento
sul proprio pensiero dall’esterno. A differenza del pensiero ossessivo, nell’alienazione del pensiero
la persona ha la sensazione che i suoi pensieri siano sotto il controllo di un’entità esterna o che
qualcuno dall’esterno stia influenzando il suo pensiero.
 L’inserzione del pensiero è caratterizzata dalla sensazione che un’entità esterna sia
responsabile dei propri pensieri.
 Il furto (o sottrazione) del pensiero è caratterizzato dalla sensazione che i propri pensieri
vengano sottratti da altre persone.
 La diffusione (o trasmissione) del pensiero è caratterizzata dalla sensazione che le altre
persone siano in grado di avvertire i propri pensieri.
I disturbi del contenuto del pensiero riguardano direttamente le idee e sono:
 Le idee prevalenti sono caratterizzate da idee comprensibili, accettabili e accessibili alla critica,
dunque non necessariamente false e nemmeno incorreggibili, strettamente associate a un’intensa
componente affettiva, che dominano la mente tanto che tutte le altre idee diventano secondarie.
 I deliri sono caratterizzati da idee false che la persona difende da ogni evidenza come se fossero
vere quando invece sono oggettivamente errate. I deliri sono dotati di tre caratteristiche essenziali:
 impossibilità (o falsità): evidente assurdità del contenuto o trasformazione soggettiva della
realtà basata su erronee deduzioni riguardanti la realtà esterna;
 certezza soggettiva: straordinaria convinzione con cui vengono mantenuti;
 incorreggibilità: inacessibilità alla critica e al ragionamento e non modificabilità di fronte ad
argomentazioni di tipo logico e di fronte all’evidenza.
I deliri sono comunemente distinti sulla base della loro tematica:
 Delirio di persecuzione. La persona crede di essere vittima di cospirazioni e molestie.

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 Delirio di riferimento. Gli avvenimenti esterni sono interpretati dalla persona in senso
autoreferenziale.
 Delirio di colpa. La persona crede di avere la colpa su determinati eventi.
 Delirio d’indegnità. La persona crede di essere indegna.
 Delirio di rovina. La persona crede di essere rovinata economicamente.
 Delirio di negazione. La persona crede che una parte di sé o del mondo non esistano.
 Delirio di grandezza. La persona si sente potente e nega i propri limiti.
 Delirio erotomanico. La persona ha la ferma convinzione che un’altra persona, in genere di
condizione sociale più elevata, sia innamorata di lui/lei.
 Delirio di gelosia. La persona ha la ferma convinzione che il partner sia infedele e lo/la tradisca.
 Delirio mistico. La persona crede di comunicare con Dio, di essere un suo messaggero o di essere la
sua reincarnazione.
 Delirio ipocondriaco. La persona crede di essere affetta da una grave malattia.
 Delirio di influenzamento. La persona crede di essere in vario modo controllata da persone o forze
esterne, nei propri pensieri, emozioni, impulsi o comportamenti.
 Delirio querulomane (o di rivendicazione). La persona ritiene di aver subito un danno per il quale
pretende di esser risarcita.
 Delirio somatico. La persona ha la convinzione che il proprio corpo, o una sua parte, sia in qualche
misura abnorme, distorto o violato.

CAPITOLO 21: DISTURBI DELLA COMUNICAZIONE E DEL LINGUAGGIO


Il linguaggio è un sistema sintatticamente organizzato di segnali, gesti o simboli scritti che comunicano
pensieri o sentimenti. Il linguaggio può essere distinto in: linguaggio ricettivo, ovvero la comprensione di
parole, e linguaggio espressivo, ovvero la produzione di parole che sottintende le capacità di
denominazione degli oggetti, word finding, fluenza, grammatica e sintassi. L’eloquio è la produzione di
parole, in quanto veicolo ed espressione del pensiero. La produzione del linguaggio comprende le seguenti
fasi:
 La fase della concettualizzazione, in cui il parlante sceglie un contenuto mentale da esprimere
linguisticamente.
 La fase della formulazione, in cui il materiale scelto per essere espresso viene organizzato in una
struttura adatta alle caratteristiche sequenziali del linguaggio.
 La fase dell’articolazione, in cui un programma articolatorio viene attivato a creare una struttura
pronta ad essere eseguita dall’apparato articolatorio.
La comunicazione è un processo che consente alle persone di scambiare informazioni al fine di esprimere i
propri bisogni, i propri desideri e altro. La comunicazione contempla alcune dimensioni principali:
 Contenuto: che tipo di cose sono comunicate;
 Fonte (o emittente): da chi sono comunicate le cose;
 Forma: in quale forma sono comunicate le cose;
 Canale: attraverso quale media sono comunicate le cose;
 Destinazione (o destinatario, target, ricevitore): a chi sono comunicate le cose;
 Obiettivo (o aspetto pragmatico): con che tipo di risultati sono comunicate.
La comunicazione verbale si avvale del linguaggio, ovvero di segnali organizzati.
La comunicazione non verbale è l’atto di scambiare pensieri, posture, opinioni o informazioni senza l’uso di
parole, usando invece gesti, linguaggio dei segni, espressioni facciali e linguaggio del corpo.

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La comunicazione simbolica si riferisce a cose alle quali abbiamo dato un significato e che rappresentano
una certa idea che abbiamo. La comunicazione simbolica è importante per quanto riguarda la
comunicazione interculturale.
La comunicazione aggressiva è tesa a soddisfare i bisogni e gli obiettivi del comunicatore trascurando quelli
degli altri ed è caratterizzata da sarcasmo, gesti aggressivi.
La comunicazione passiva è tesa ad evitare di dire direttamente ciò che si pensa ed è caratterizzata dall’uso
di toni generici o ambigui, dal parlare molto sottovoce.
La comunicazione assertiva è tesa a soddisfare i bisogni e gli obiettivi sia del comunicatore sia degli altri ed
è caratterizzata da parlare chiaramente e concretamente delle proprie opinioni, esigenze e sentimenti
senza violare i bisogni degli altri e senza essere giudicanti.
Il mutismo selettivo è un disturbo d’ansia caratterizzato da: costante incapacità di parlare in situazioni
sociali specifiche in cui ci si aspetta che si parli, nonostante si sia in grado di parlare in altre situazioni; la
condizione interferisce con i risultati scolastici o lavorativi o con la comunicazione sociale; la durata della
condizione è di almeno 1 mese; l’incapacità di parlare non è dovuta al fatto che non si conosce, o non si è a
proprio agio con il tipo di linguaggio richiesto dalla situazione sociale.
I disturbi della comunicazione:
Il disturbo del linguaggio è caratterizzato da: difficoltà persistenti nell’acquisizione e nell’uso di diverse
modalità di linguaggio dovute a deficit della comprensione o della produzione: lessico ridotto, limitata
strutturazione delle frasi, compromissione delle capacità discorsive.
Il disturbo fonetico-fonologico è caratterizzato da: difficoltà nella produzione dei suoni dell’eloquio che
interferisce con l’intelligibilità dell’eloquio o impedisce la comunicazione verbale di messaggi; l’alterazione
causa limitazioni dell’efficacia della comunicazione che interferiscono con la partecipazione sociale, il
rendimento scolastico o le prestazioni professionali; l’esordio dei sintomi avviene nel periodo precoce dello
sviluppo; le difficoltà non sono attribuibili a condizioni congenite o acquisite.
Il disturbo della fluenza con esordio nell’infanzia (balbuzie) è caratterizzato da: alterazioni della normale
fluenza e della cadenza dell’eloquio, che sono inappropriate per l’età dell’individuo e per le abilità
linguistiche. Persistono nel tempo: ripetizioni di suoni e sillabe, prolungamenti dei suoni delle consonanti
così come delle vocali, interruzione di parole, blocchi udibili o silenti, circonlocuzioni, parole pronunciate
con eccessiva tensione fisica, ripetizioni di intere parole monosillabiche.
Il disturbo della comunicazione sociale (pragmatica) è caratterizzato da: persistenti difficoltà nell’uso
sociale della comunicazione verbale e non verbale: deficit dell’uso della comunicazione per scopi sociali;
compromissione della capacità di modificare la comunicazione al fine di renderla adeguata al contesto o
alle esigenze di chi ascolta; difficoltà nel seguire le regole della conversazione e della narrazione; difficoltà
nel capire ciò che non viene dichiarato esplicitamente e i significati non letterali o ambigui del linguaggio.
Nei disturbi neurocognitivi una caratteristica essenziale è il declino, secondo diversi livelli di gravità, nella
capacità di linguaggio espressivo, in forma di produzione del linguaggio, word finding, denominazione degli
oggetti, grammatica o comprensione delle parole.
Nel disturbo dello spettro dell’autismo, una caratteristica essenziale è il deficit persistente della
comunicazione sociale sia di tipo verbale sia di tipo non verbale.
Infine, nei disturbi caratterizzati da episodi maniacali e nei disturbi psicotici in generale possono esservi:
o Alogia. Impoverimento del pensiero che si può riscontrare osservando i comportamenti inerenti il
linguaggio e l’eloquio. Possono esserci risposte brevi e concrete alle domande, e riduzione della
quantità di eloquio spontaneo (definito eloquio impoverito). Talora l’eloquio risulta adeguato per
quantità, ma fornisce poche informazioni in quanto troppo concreto, troppo astratto, ripetitivo o
stereotipato (definito povertà di contenuto).

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o Catatonia. È una marcata diminuzione della reattività all’ambiente. Ciò può comprendere anche la
completa mancanza di risposte verbali e motorie. Il comportamento catatonico può comprendere
anche l’ecolalia.
o Ecolalia. Ripetizione patologica, a pappagallo, e apparentemente insensata (eco) di una parola o
frase appena pronunciata da un’altra persona.
o Fuga delle idee. Flusso pressoché continuativo di eloquio accelerato, con bruschi passaggi da un
argomento all’altro, solitamente basati su associazioni incomprensibili.
o Incoerenza. Eloquio o pensiero che risulta sostanzialmente incomprensibile agli altri in quanto le
parole o le frasi sono messe insieme senza che abbiano un nesso logico o di significato.
L’alterazione si verifica all’interno delle proposizioni, a differenza del deragliamento, in cui
l’alterazione è tra una proposizione e l’altra. Questo fenomeno è stato talora denominato “insalata
di parole”, per dare l’idea del grado di disorganizzazione del linguaggio.
o Mutismo. Nessuna, o ridotta, risposta verbale.
o Pensiero disorganizzato (eloquio). L’individuo può passare da un argomento all’altro
(deragliamento o allentamento dei nessi associativi). Le risposte alle domande possono essere
correlate in modo marginale o completamente non correlate (tangenzialità). L’eloquio può essere
così gravemente disorganizzato da essere quasi incomprensibile (incoerenza o “insalata di
parole”).
o Pressione del discorso. Eloquio aumentato per quantità, accelerato e difficile o impossibile da
interrompere. Usualmente risulta anche di alto volume ed enfatico.
o Rallentamento psicomotorio. Rallentamento generalizzato visibile dei movimenti e dell’eloquio.

CAPITOLO 22: ASPETTI DISFUNZIONALI DELLE EMOZIONI


Un’emozione è uno stato psicologico complesso che coinvolge aspetti psicologici, fisici, comportamentali
ed espressivi. Tra tutte le emozioni esistenti, ci sono alcune che sono fondamentali negli esseri umani e
considerate “emozioni primarie” che sono universali in tutte le culture umane: paura, disgusto, rabbia,
sorpresa, felicità, tristezza. Tra tutte queste emozioni, ci sono 8 dimensioni emozionali primarie:
gioia/tristezza, rabbia/paura, fiducia/disgusto, sorpresa/anticipazione. Queste emozioni possono essere
combinate in una varietà di modi per ottenere una serie di emozioni considerate essere “emozioni
secondarie”. Tali emozioni secondarie possono spesso variare a seconda della cultura o della società.
Esperienza soggettiva: sebbene ci siano un certo numero di emozioni universali di base che sono vissute da
persone di tutto il mondo indipendentemente dal retroterra sociale o culturale, è pur vero che l’esperienza
dell’emozione è altamente soggettiva.
Risposta fisiologica: le emozioni causano forti reazioni fisiologiche. Molte delle reazioni fisiche che
sperimentiamo durante un’emozione sono controllate dal sistema nervoso simpatico, incaricato di
controllare le reazioni di lotta o fuga del corpo. L’emozione si ha quando il talamo invia un messaggio al
cervello in risposta ad uno stimolo, dando luogo ad una reazione fisiologica. Allo stesso tempo, il cervello
riceve anche segnali che innescano l’esperienza emotiva. L’amigdala svolge un ruolo importante.
Risposta comportamentale ed espressiva: l’espressione esteriore delle emozioni è la componente con cui
abbiamo più familiarità. Trascorriamo molto tempo interpretando le espressioni emotive delle persone che
ci circondano. La nostra capacità di comprendere accuratamente queste espressioni è legata a ciò che gli
psicologi chiamano intelligenza emotiva e queste espressioni svolgono un ruolo importante nel nostro
linguaggio corporeo complessivo.
Le emozioni sono il frutto dell’evoluzione. Si evolvono perché sono adattive e permettono agli uomini e agli
animali di sopravvivere e riprodursi. Uno stimolo porta a una risposta fisiologica che viene poi interpretata
ed etichettata cognitivamente e si traduce in un’emozione. In questi casi, il fattore critico è la situazione e

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l’interpretazione cognitiva è ciò che le persone usano per etichettare quell’emozione. Simili risposte
fisiologiche possono produrre emozioni diverse. Molto spesso è il pensiero (e la valutazione cognitiva) ad
avvenire prima di provare emozioni. Molto spesso la sequenza degli eventi coinvolge prima uno stimolo,
seguito da un pensiero che poi porta all’esperienza simultanea di una risposta fisiologica e dell’emozione.
Le emozioni sono chiamate in causa già nella definizione che fornisce il DSM-5 di disturbo mentale. Il DSM-
5, in particolare, annovera due condizioni emotive importanti, ovvero l’umore e l’affetto.
L’umore è un’emozione pervasiva e prolungata che colora la percezione del mondo. L’umore può essere
eutimico (nei limiti della norma), disforico (spiacevole), esaltato (sentimento esagerato di benessere,
euforia o esaltazione), espanso (mancanza di inibizione nell’esprimere i propri sentimenti, spesso
accompagnata da sopravvalutazione della propria importanza o significato) e irritabile (facilità a irritarsi e
ad arrabbiarsi).
L’affetto è una modalità di comportamento che è espressione di una condizione di sentimento
soggettivamente sperimentata
Le alterazioni dell’affettività comprendono: appiattimento affettivo (assenza di segni di espressione
affettiva), inadeguatezza affettiva (discordanza tra espressione affettiva e contenuto dei discorsi o
dell’ideazione), labilità affettiva (variabilità degli affetti, con cambiamenti ripetuti, rapidi e improvvisi
nell’espressione affettiva), restringimento o coartazione affettiva (riduzione nella gamma e nell’intensità
dell’espressione emotiva) e spegnimento affettivo (riduzione nell’intensità dell’espressione emotiva).
I disturbi depressivi sono caratterizzati da:
 affettività negativa: frequenti e intense esperienze di alti livelli di una vasta gamma di emozioni
negative;
 labilità emotiva: instabilità delle esperienze emotive e dell’umore;
 affettività ridotta: ridotta capacità di provare ed esprimere le emozioni.
I disturbi bipolari sono caratterizzati da euforia, esperienza di intensi sentimenti di benessere, esaltazione,
felicità, eccitazione e gioia.
I disturbi d’ansia sono caratterizzati da paura, risposta emotiva a una minaccia o a un pericolo.
Il disturbo oppositivo provocatorio e il disturbo esplosivo intermittente sono entrambi caratterizzati da
problemi di autocontrollo delle emozioni, della rabbia e scoppi d’ira.
Schizofrenia e disturbi psicotici sono associati ad appiattimento affettivo (assenza totale di segni di
espressione affettiva), restringimento affettivo o coartazione affettiva (lieve riduzione nella gamma e
nell’intensità dell’espressione emotiva), spegnimento affettivo (significativa riduzione nell’intensità
dell’espressione emotiva) e inadeguatezza affettiva (discordanza tra espressione affettiva e contenuto dei
discorsi o dell’ideazione).
Nel disturbo da stress post-traumatico vi sono alterazioni negative delle emozioni associate all’evento
traumatico.
Disturbi di personalità:
 il disturbo ossessivo-compulsivo di personalità, in cui la persona è a disagio con le emozioni
proprie e altrui;
 il disturbo istrionico di personalità, in cui c'è un’espressione esagerata, superficiale e rapidamente
mutevole delle emozioni;
 il disturbo borderline di personalità, in cui c'è un’espressione molto intensa delle emozioni ed una
forte instabilità emotiva, ovvero labilità affettiva;
 il disturbo schizoide di personalità, in cui la persona è indifferente agli aspetti emotivi e raramente
esprime emozioni forti, ovvero appiattimento affettivo.

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CAPITOLO 23: DISTURBI DELL’UMORE


Per la diagnosi di disturbo bipolare I è necessario soddisfare i criteri per almeno un episodio maniacale;
episodi ipomaniacali e depressivi maggiori possono esserci ma sono ininfluenti per la diagnosi.
Episodio maniacale: un periodo definito di umore anormalmente e persistentemente elevato, espanso o
irritabile e di aumento anomalo e persistente dell’attività finalizzata o dell’energia, della durata di almeno 1
settimana. Tre (o più) dei seguenti sintomi sono presenti a un livello significativo e rappresentano un
cambiamento evidente rispetto al comportamento abituale:
 Autostima ipertrofica o grandiosità;
 Diminuito bisogno di sonno;
 Maggiore loquacità del solito o spinta continua a parlare;
 Fuga delle idee o esperienza soggettiva che i pensieri si succedano rapidamente;
 Distraibilità;
 Aumento dell’attività finalizzata o non finalizzata;
 Eccessivo coinvolgimento in attività che hanno un alto potenziale di conseguenze dannose.
L’alterazione dell’umore è sufficientemente grave da causare una marcata compromissione del
funzionamento sociale o lavorativo o da richiedere l’ospedalizzazione per prevenire danni a sé o agli altri.
Episodio ipomaniacale: un periodo definito di umore anormalmente e persistentemente elevato, espanso
o irritabile e di aumento anomalo e persistente dell’attività finalizzata o dell’energia, della durata di almeno
4 giorni consecutivi. Tre (o più) dei seguenti sintomi sono stati presenti, rappresentano un cambiamento
evidente rispetto al comportamento abituale e si manifestano a un livello significativo:
 Autostima ipertrofica o grandiosità;
 Diminuito bisogno di sonno;
 Maggiore loquacità del solito o spinta continua a parlare;
 Fuga delle idee o esperienza soggettiva che i pensieri si succedano rapidamente;
 Distraibilità;
 Aumento dell’attività finalizzata o non finalizzata;
 Eccessivo coinvolgimento in attività che hanno un alto potenziale di conseguenze dannose.
L’episodio non è sufficientemente grave da causare una marcata compromissione del funzionamento
sociale o lavorativo o da richiedere l’ospedalizzazione.
Per la diagnosi di disturbo bipolare II è necessario soddisfare i criteri per almeno un episodio ipomaniacale
e un episodio depressivo maggiore. Non vi è mai stato un episodio maniacale.
Disturbo ciclotimico: per almeno 2 anni ci sono stati numerosi periodi con sintomi ipomaniacali che non
soddisfano i criteri per un episodio ipomaniacale e numerosi periodi con sintomi depressivi che non
soddisfano i criteri per un episodio depressivo maggiore. Durante questo periodo di 2 anni, i periodi
ipomaniacali e depressivi sono stati presenti per almeno metà del tempo e l’individuo non è stato senza
sintomi per più di 2 mesi. I sintomi causano disagio clinicamente significativo o compromissione del
funzionamento in ambito sociale, lavorativo o in altre aree importanti.
La categoria denominata “disturbi depressivi” comprende:
Disturbo da disregolazione dell’umore dirompente:
 Gravi e ricorrenti scoppi di collera manifestati verbalmente o in modo comportamentale che sono
grossolanamente sproporzionati nell’intensità o nella durata alla situazione o alla provocazione;
 Gli scoppi di collera non sono coerenti con lo stadio di sviluppo;
 Gli scoppi di collera si verificano, in media, tre o più volte la settimana;
 L’umore tra uno scoppio di collera e l’altro è persistentemente irritabile o arrabbiato.

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Disturbo depressivo maggiore: cinque (o più) dei seguenti sintomi sono stati contemporaneamente
presenti durante un periodo di 2 settimane e rappresentano un cambiamento rispetto al precedente livello
di funzionamento; almeno uno dei sintomi è:
 Umore depresso;
 Marcata diminuzione di interesse per tutte le attività;
 Significativa perdita di peso o aumento di peso, oppure diminuzione o aumento dell’appetito;
 Insonnia o ipersonnia;
 Agitazione o rallentamento psicomotori;
 Faticabilità o mancanza di energia;
 Sentimenti di autosvalutazione o di colpa eccessivi o inappropriati;
 Ridotta capacità di pensare o di concentrarsi, o indecisione;
 Pensieri ricorrenti di morte, ricorrente ideazione suicidaria senza un piano specifico di suicidio.
Disturbo depressivo persistente (distimia): umore depresso per la maggior parte del giorno, quasi tutti i
giorni, per almeno 2 anni. Nota: nei bambini e negli adolescenti l’umore può essere irritabile e la durata
deve essere di almeno 1 anno. Presenza di due (o più) dei seguenti sintomi: scarso appetito o iperfagia,
insonnia o ipersonnia, scarsa energia o astenia, bassa autostima, difficoltà di concentrazione o nel prendere
decisioni, sentimenti di disperazione.
Disturbo disforico premestruale: nella maggior parte dei cicli mestruali, almeno cinque sintomi devono
essere presenti nella settimana precedente le mestruazioni, iniziare a migliorare entro pochi giorni
dall’insorgenza delle mestruazioni e ridursi al minimo o scomparire nella settimana successiva alle
mestruazioni. Uno (o più) dei seguenti sintomi deve essere presente: marcata labilità affettiva, marcata
irritabilità o rabbia oppure aumento dei conflitti interpersonali, umore marcatamente depresso, sentimenti
di disperazione o pensieri autocritici, ansia marcata, tensione e/o sentirsi con i nervi a fior di pelle.
Uno (o più) dei seguenti sintomi deve essere presente, in aggiunta, per il raggiungimento del totale di
cinque sintomi quando combinati con i sintomi del criterio qui sopra: diminuito interesse nelle attività
abituali, difficoltà soggettiva di concentrazione, letargia, facile faticabilità o marcata mancanza di energia,
marcata modificazione dell’appetito, sovralimentazione o forte desiderio di cibi specifici, ipersonnia o
insonnia, senso di sopraffazione o di essere fuori controllo e sintomi fisici come indolenzimento o tensione
del seno, dolore articolare o muscolare, sensazione di “gonfiore” oppure aumento di peso.
Gli schemi depressivi influenzano la percezione e il ricordo di sé, del mondo, degli eventi, delle altre
persone e del futuro. Una volta attivati, gli schemi depressivi introducono distorsioni nel processo di
elaborazione delle informazioni, chiamate appunto distorsioni cognitive, ovvero dei modelli di pensiero
“difettosi” caratterizzati da pensieri negativi abituali. La psicoterapia cognitivo-comportamentale prevede
l’identificazione e la modifica di una serie di distorsioni cognitive che danno origine ai disturbi dell’umore:
o Astrazione selettiva: concentrare l’attenzione su aspetti particolari;
o Bisogno di certezza: focalizzarsi su cose certe;
o Catastrofizzazione: soffermarsi sulle conseguenze peggiori;
o Deduzione arbitraria: trarre conclusioni in assenza di prove;
o Doverizzazioni: le cose devono essere in un certo modo;
o Etichettamento: definire le cose con un’etichetta globale;
o Filtri mentali: focalizzarsi su alcune cose e trascurare altre (individuare mentalmente i cattivi eventi
nella propria vita);
o Generalizzazione eccessiva: fare una regola dopo singoli eventi;
o Inferenza arbitraria: inferire in mancanza di evidenze sufficienti;
o Ingigantire/Minimizzare: esaltare o ridurre l’importanza delle cose;
o Intolleranza al disagio emotivo: non tollerare stati d’animo negativi;

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o Lettura del pensiero: convinzione che altri pensino in un certo modo;


o Minimizzare il positivo: svalutare o squalificare gli aspetti positivi;
o Pensiero assolutistico: percepire come "tutto o niente" (dare ampi giudizi categorici);
o Pensiero dicotomico: percepire tutto come "bianco o nero";
o Pensiero magico: credere che le cose accadano senza ragioni;
o Personalizzazione: interpretare in relazione alla propria persona (interpretare gli eventi negativi in
relazione a sé);
o Presupporre una causalità temporale: fare previsioni avventate;
o Ragionamento emotivo: interpretare con le emozioni del momento;
o Responsabilità eccessiva: assumersi tutta la responsabilità.

CAPITOLO 24: DISTURBO DI PANICO E AGORAFOBIA


Il disturbo di panico è un tipo di disturbo d’ansia. Gli attacchi di panico sono tipicamente sperimentati
attraverso una combinazione di sensazioni fisiche spaventose e pensieri ed emozioni angoscianti. Questi
attacchi provocano gravi apprensioni e disagi, nonostante la mancanza di un pericolo reale.
Secondo il DSM-5 un attacco di panico consiste nella comparsa improvvisa di paura o disagio intensi che
raggiunge il picco in pochi minuti, periodo durante il quale si verificano quattro (o più) dei seguenti sintomi:
palpitazioni, cardiopalmo, o tachicardia; sudorazione; tremori fini o grandi scosse; dispnea o sensazione di
soffocamento; sensazione di asfissia; dolore o fastidio al petto; nausea o disturbi addominali; sensazioni di
sbandamento, di instabilità, di “testa leggera” o di svenimento; brividi o vampate di calore; parestesie
(sensazioni di torpore o di formicolio); derealizzazione (sensazione di irrealtà) o depersonalizzazione (essere
distaccati da se stessi); paura di perdere il controllo o di “impazzire; paura di morire.
Esistono attacchi di panico del tutto inattesi che si verificano senza alcuna causa scatenante o evidente.
Possono venir fuori dal nulla anche quando l’individuo è rilassato e riposato. Altre volte, gli attacchi di
panico sono attesi e si verificano quando si è esposti a una delle cause scatenanti. Gli attacchi di panico
attesi possono essere di due tipi: attacco di panico imbeccato dalla situazione in cui una persona sta
anticipando l’esposizione ad una particolare causa scatenante; attacco di panico predisposto dalla
situazione, in cui un attacco di panico non sempre si verifica quando esposto alla situazione temuta.
Le persone che soffrono di attacchi di panico possono essere così presi dalla preoccupazione e dalla paura
da iniziare ad evitare tutte quelle situazioni che pensano possano imbeccare o solo predisporre un nuovo
attacco. Questo può portare allo sviluppo di un altro disturbo denominato “agorafobia”, che è
caratterizzato dalla paura di avere uno di questi intensi attacchi di panico in un luogo o situazione in cui
sarebbe molto difficile o imbarazzante fuggire. Secondo il DSM-5 l’agorafobia è una paura o ansia marcate
relative a due (o più) delle seguenti cinque situazioni: utilizzo dei trasporti pubblici; trovarsi in spazi aperti;
trovarsi in spazi chiusi; stare in fila oppure tra la folla; essere fuori casa da soli. L’individuo teme o evita
queste situazioni a causa di pensieri legati al fatto che potrebbe essere difficile fuggire oppure che
potrebbe non essere disponibile soccorso nell’eventualità si sviluppino sintomi simili al panico o altri
sintomi invalidanti o imbarazzanti. Spesso, la paura associata all’agorafobia può portare a molti
comportamenti di evitamento, in cui le persone cercano di stare lontano da tutti i luoghi o situazioni in cui
possono avere un attacco di panico. I comportamenti di evitamento associati all’agorafobia possono
limitare notevolmente la vita di una persona.
Secondo la psicoterapia cognitivo-comportamentale, l’aumento dell’ansia, della paura e dei sintomi di
panico e agorafobici è determinato dall’interpretazione che la persona fa di sé, delle proprie esperienze di
vita o degli eventi, attuali o del passato, sia a livello individuale che interpersonale, e del futuro. Gli schemi
ansiogeni influenzano la percezione e il ricordo di sé, del mondo, degli eventi, delle altre persone e del
futuro. Le distorsioni cognitive sono pensieri negativi abituali. Alla base degli schemi ansiogeni ci sono

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credenze disfunzionali di base circa se stessi e le esperienze personali, circa gli altri e il mondo e circa il
futuro (triade cognitiva). Tali credenze si basano su presupposti specifici, per esempio: “Se dovessi
mostrare debolezze, la gente penserebbe male di me”. Sulla base di tali credenze disfunzionali e dei relativi
presupposti si attivano una serie di distorsioni cognitive che danno origine agli attacchi di panico e
all’agorafobia. Le credenze disfunzionali sono basate su imput di persone significative.
La psicoterapia cognitivo-comportamentale è il trattamento psicoterapeutico d’elezione degli attacchi di
panico e dell’agorafobia e prevede l’identificazione e la modifica di una serie di distorsioni cognitive che
danno origine a questi disturbi:
 Astrazione selettiva: tendenza a concentrare l’attenzione su aspetti particolari della situazione in
esame, tralasciandone altri più importanti;
 Bisogno di certezza: tendenza a focalizzarsi sempre e solo su cose certe;
 Catastrofizzazione: tendenza a soffermarsi sulle conseguenze peggiori di una situazione e
sovrastimare la possibilità che queste si verifichino;
 Deduzione arbitraria: tendenza a trarre conclusioni in assenza di prove o in contrasto con esse;
 Doverizzazioni: tendenza a pensare che le cose debbano essere proprio in un certo modo;
 Etichettamento: tendenza a definire le cose con un’etichetta globale invece che facendo
riferimento a cose specifiche;
 Filtri mentali: tendenza a filtrare mentalmente la realtà, focalizzandosi su alcune cose e
trascurandone altre;
 Generalizzazione eccessiva: tendenza a fare una regola dopo un singolo evento;
 Inferenza arbitraria: tendenza a trarre conclusioni in mancanza di evidenze sufficienti;
 Ingigantire/Minimizzare: tendenza ad esaltare o ridurre l’importanza di eventi e situazioni;
 Intolleranza al disagio emotivo: tendenza a non tollerare stati d’animo negativi;
 Lettura del pensiero: tendenza ad essere convinti che le persone nutrano sentimenti negativi verso
gli altri;
 Minimizzare il positivo: tendenza a svalutare o squalificare gli aspetti positivi, in quanto sono in
contrasto con la propria visione negativa;
 Pensiero assolutistico (“tutto o niente”): tendenza a dare ampi giudizi categorici, ad attribuire alle
esperienze significati estremi, unidimensionali e assoluti;
 Pensiero dicotomico (o pensiero “bianco o nero”): tendenza a pensare in modo estremo, e a
considerare eventi, situazioni, ecc. come appartenenti ad un estremo oppure all’altro;
 Pensiero magico: tendenza a credere che un evento accada come risultato di un altro senza un
legame plausibile di causalità;
 Personalizzazione (o autoriferimento): tendenza ad essere convinti di essere al centro di tutto, per
cui tutte le cose vengono interpretate in relazione alla propria persona;
 Presupporre una causalità temporale: tendenza a fare previsioni sulla base di prove insufficienti;
 Ragionamento emotivo: tendenza ad interpretare e giudicare gli eventi e se stessi e a vedere le
situazioni sulla base delle proprie emozioni in quel momento;
 Responsabilità eccessiva: tendenza ad assumersi tutta la responsabilità in determinate situazioni
senza considerare responsabilità da parte di altri (porta a pensare “I miei problemi di panico sono
colpa mia”).

CAPITOLO 25: DISTURBO D’ANSIA GENERALIZZATA


L’ansia generalizzata si riferisce ad un insieme di eccessive preoccupazioni, paure e tensioni verso una serie
di questioni della propria vita. Secondo il DSM-5 il disturbo d’ansia generalizzata è caratterizzata da: ansia e
preoccupazione eccessive, che si manifestano per la maggior parte dei giorni per almeno 6 mesi; la persona

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ha difficoltà nel controllare la preoccupazione; l’ansia e la preoccupazione sono associate con tre (o più) dei
sei seguenti sintomi: irrequietezza, o sentirsi tesi o “con i nervi a fior di pelle”, facile affaticamento,
difficoltà a concentrarsi o vuoti di memoria, irritabilità, tensione muscolare e alterazioni del sonno. L’ansia,
la preoccupazione o i sintomi fisici causano disagio clinicamente significativo o compromissione del
funzionamento in ambito sociale, lavorativo o in altre aree importanti.
Le persone con disturbo d’ansia generalizzata spesso si sentono ansiosi per la maggior parte del giorno. La
paura è un’emozione vissuta dopo una minaccia, ovvero in risposta a una minaccia imminente. L’ansia,
viceversa, è uno stato emotivo vissuto prima di una minaccia, ovvero in previsione di una potenziale
minaccia futura. La preoccupazione persistente, eccessiva e invalidante è la caratteristica distintiva del
disturbo d’ansia generalizzata. Un’eccessiva preoccupazione significa preoccuparsi anche quando non vi è
alcuna minaccia specifica presente o in un modo sproporzionato rispetto al rischio reale. La preoccupazione
è vissuta come molto difficile da controllare e può essere accompagnata da una ricerca di rassicurazioni
negli altri. Le caratteristiche della preoccupazione eccessiva includono: preoccuparsi anche quando non c’è
niente di sbagliato; preoccuparsi di una minaccia percepita in modo sproporzionato rispetto al rischio reale;
preoccuparsi di qualcosa per la maggior parte delle ore del giorno; ricerca di rassicurazioni negli altri su di
una questione oggetto di una specifica preoccupazione, ma continuando a preoccuparsi comunque, ecc.
L’ansia moderata può influire in maniera positiva nei seguenti processi psichici:
 Motivazione: a volte abbiamo bisogno di una dose di ansia per essere motivati a fare le cose. Se
non temessimo le conseguenze negative che ci hanno portato a provare ansia, sarebbe improbabile
per noi poter accettare delle regole, completare un lavoro o fare qualcosa che non ci sembra
piacevole. Ci spinge a fare le cose.
 Preparazione: se abbiamo un discorso importante da fare, un test o un evento in programma,
potremmo sentirci ansiosi man mano si avvicina. Questa ansia ci spinge a prepararci alla situazione,
in modo da avere le basi per poterla affrontare per bene riuscendo anche a prevedere cosa
dovremmo fare negli scenari peggiori.
 Attenzione: quando siamo ansiosi, la nostra attenzione si sposta su cose che sono importanti nella
nostra vita. Ci fa riconoscere le cose che meritano la nostra attenzione e quindi diventa strumentale
nella preparazione e nella motivazione.
 Protezione: poiché l’ansia è spesso correlata alla paura, è un modo per proteggerci dal pericolo.
Possiamo diventare ansiosi in situazioni che potrebbero causarci danni o addirittura ucciderci, e
questa sensazione di ansia naturale lo impedisce.
 Comunicazione: quando le persone sono ansiose sono costrette a comunicare e condividere questi
sentimenti. È un modo in cui il nostro organismo ci aiuta a trovare supporto.
Tuttavia, quando ci si preoccupa eccessivamente, al punto che le preoccupazioni interferiscono con le
attività quotidiane, si potrebbe avere il disturbo d’ansia generalizzata. Ci sono alcuni indicatori di gravità e
intensità che valutano il punto in cui l’ansia può essere un problema e costituire un vero e proprio disturbo
d’ansia:
o “Grave”: sebbene a volte l’ansia che tutte le persone provano possa essere alquanto grave, una
caratteristica del disturbo d’ansia generalizzata è che questa ansia è solitamente più intensa e
duratura.
o “Sproporzionata”: l’esperienza dell’ansia per la maggior parte delle persone è proporzionata
all’intensità della situazione. Le persone con disturbo d’ansia generalizzata tendono a diventare più
ansiose di quanto la situazione sembra giustificare.
o “Pervasiva”: quando le persone sperimentano l’ansia normale tendono a preoccuparsi di cose
legate alla situazione che provoca ansia o a molte altre cose che li rendono spaventosi. Le persone
con disturbo d’ansia generalizzata tendono a preoccuparsi per tutto il tempo.

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o “Incontrollabile”: la maggior parte delle persone può ridurre e controllare la propria ansia
attraverso una varietà di tecniche di coping e la capacità di calmarsi. Tuttavia, le persone con
disturbo d’ansia generalizzata hanno notevoli difficoltà a trovare relax, calma e tempo lontano dalle
loro preoccupazioni.
Gli schemi ansiogeni influenzano la percezione e il ricordo di sé, del mondo, degli eventi, delle altre
persone e del futuro. La psicoterapia cognitivo-comportamentale prevede l’identificazione e la modifica di
una serie di distorsioni cognitive che danno origine al disturbo d’ansia generalizzata.
 Astrazione selettiva: tendenza a concentrare l’attenzione su aspetti particolari;
 Bisogno di certezza: tendenza a focalizzarsi sempre e solo su cose certe;
 Catastrofizzazione: tendenza a soffermarsi sulle conseguenze peggiori;
 Deduzione arbitraria: tendenza a trarre conclusioni in assenza di prove;
 Doverizzazioni: tendenza a pensare che le cose debbano essere proprio in un certo modo;
 Etichettamento: tendenza a definire le cose con un’etichetta globale (“sono una persona
impacciata);
 Filtri mentali: tendenza ad individuare mentalmente i cattivi eventi trascurando quelli positivi;
 Generalizzazione eccessiva: tendenza a fare una regola dopo un singolo evento;
 Inferenza arbitraria: tendenza a trarre conclusioni in mancanza di evidenze sufficienti (credere di
non piacere ad una persona senza alcuna informazione reale);
 Ingigantire/Minimizzare: tendenza ad esaltare o ridurre l’importanza di eventi;
 Intolleranza al disagio emotivo: tendenza a non tollerare stati d’animo negativi;
 Lettura del pensiero: tendenza ad essere convinti che le persone stiano pensando in un certo
modo;
 Minimizzare il positivo: tendenza a svalutare o squalificare gli aspetti positivi, in quanto sono in
contrasto con la propria visione negativa;
 Pensiero assolutistico (“tutto o niente”): tendenza ad attribuire alle esperienze significati estremi,
unidimensionali e assoluti;
 Pensiero dicotomico (o pensiero “bianco o nero”): tendenza a considerare eventi, situazioni, ecc.
come appartenenti ad un estremo oppure all’altro;
 Pensiero magico: tendenza a credere che un evento accada come risultato di un altro senza un
legame plausibile di causalità;
 Personalizzazione (o autoriferimento): tendenza ad essere convinti di essere al centro di tutto, per
cui tutte le cose vengono interpretate in relazione alla propria persona;
 Presupporre una causalità temporale: tendenza a fare previsioni sulla base di prove insufficienti;
 Ragionamento emotivo: tendenza ad interpretare e giudicare gli eventi e se stessi sulla base delle
proprie emozioni in quel momento;
 Responsabilità eccessiva: tendenza ad assumersi tutta la responsabilità in determinate situazioni
senza considerare responsabilità da parte di altri.

CAPITOLO 26: DISTURBO D’ANSIA SOCIALE


Secondo il DSM-5 il disturbo d’ansia sociale è caratterizzato da: paura o ansia marcate relative a una o più
situazioni sociali nelle quali l’individuo è esposto al possibile esame degli altri (nei bambini l’ansia deve
manifestarsi in contesti in cui vi sono coetanei e non solo nell’interazione con gli adulti); l’individuo teme
che agirà in modo tale o manifesterà sintomi di ansia che saranno valutati negativamente; le situazioni
sociali temute provocano paura o ansia; le situazioni sociali temute sono evitate oppure sopportate con
paura o ansia; la paura o l’ansia sono sproporzionate rispetto alla reale minaccia posta dalla situazione
sociale e al contesto socioculturale.

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Le persone con disturbo d’ansia sociale hanno una paura irrazionale di essere osservate o giudicate o di
ritrovarsi in situazioni imbarazzanti o umilianti. Sono a disagio nei confronti di chiunque tranne i familiari e
gli amici più stretti. Sanno che la loro paura è irragionevole o sproporzionata rispetto alla situazione, ma
non riescono a controllare la loro ansia. L’ansia sociale può essere generalizzata quando le persone sono
preoccupate per la maggior parte delle situazioni sociali e di performance. L’ansia sociale può essere
specifica e riguardare solo le prestazioni quando una persona sperimenta ansia solo in situazioni di
performance. L’ansia sociale generalizzata è considerata più grave dell’ansia sociale specifica e di solito è
accompagnata da una maggiore compromissione del funzionamento quotidiano. Tuttavia, anche l’ansia
sociale specifica può comunque essere dannosa, in quanto potrebbe limitare opportunità lavorative o altri
risultati correlati alle prestazioni. Le persone con disturbo d’ansia sociale possono sperimentare una varietà
di sintomi su tre dimensioni: fisica, cognitiva e comportamentale.
Sintomi fisici: arrossire, vampate di calore, sudorazione, palpitazioni, cardiopalmo, tachicardia, tensione
muscolare, brividi, tremori, dolore o fastidio al petto, nausea, diarrea o altri disturbi addominali, parestesie,
voce tremante, nodo alla gola, ecc. Per alcune persone, questi sintomi fisici possono diventare così gravi da
degenerare in un vero e proprio attacco di panico.
Sintomi comportamentali: evitamento delle situazioni temute, fuga dalle situazioni temute,
comportamenti di sicurezza.
Sintomi cognitivi: un insieme di cognizioni negative su se stessi in relazione agli altri rispetto alle situazioni
temute, ovvero rimuginii, preoccupazioni, pensieri, credenze, ecc. sulla possibilità che le situazioni sociali, o
che una o più situazioni in cui è richiesta una performance, siano capaci di mettere in imbarazzo la persona
o di esporla a critiche, giudizi o rifiuti da parte degli altri.
 Credenze disfunzionali su se stessi: il disturbo d’ansia sociale è associato ad alta autocritica e bassa
autostima. Le persone con questo disturbo hanno la tendenza a considerarsi in una luce negativa.
Probabilmente hanno credenze come, “Sembro stupido”, “Tutti mi stanno guardando”, “Non riesco
a controllare la mia ansia”, ecc.
 Credenze disfunzionali sugli altri: gli individui con disturbo d’ansia sociale vedono gli altri in una
luce paurosa; piuttosto che vedere le nuove persone che incontrano come potenziali amici,
tendono a rispondere loro con ansia e distacco.
 Credenze disfunzionali sul mondo: gli individui con disturbo d’ansia sociale vedono il mondo come
un posto da evitare, piuttosto che come un posto pieno di opportunità.
 Credenze disfunzionali sul futuro: gli individui con disturbo d’ansia sociale vedono il futuro in
maniera nebulosa e pessimista. Si sentono come se le cose non cambieranno mai e non
miglioreranno mai.
 Credenze disfunzionali sul passato: gli individui con disturbo d’ansia sociale vedono il passato
come una fonte di informazioni molto importante su stessi, sugli altri in relazione a loro e sul loro
mondo. Vivono la propria vita oggi in base a quello che è successo in passato e tendono a
soffermarsi, in particolare, sugli errori del passato.
 Credenze disfunzionali sul presente: gli individui con disturbo d’ansia sociale vedono il presente
come fonte di ansia costante, in quanto possono temere di potersi trovare da un momento all’altro
in una delle situazioni sociali o prestazionali che temono.
 Credenze disfunzionali su questioni esistenziali: gli individui con disturbo d’ansia sociale hanno
difficoltà a vedere e pensare oltre il proprio mondo immediato in modo trascendente, a
comprendere il significato della propria vita, a desiderare uno scopo più grande per la propria vita.
 Credenze disfunzionali sulle opportunità: gli individui con disturbo d’ansia sociale non cercano
opportunità o non riconoscono le opportunità che li circondano. Avendo paura di situazioni sociali
o prestazionali considerano le opportunità come dannose, catastrofiche, piene di potenziali disastri.

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La psicoterapia cognitivo-comportamentale è il trattamento psicoterapeutico d’elezione del disturbo


d’ansia sociale; prevede l’identificazione e la modifica di una serie di distorsioni cognitive che danno origine
al disturbo d’ansia sociale.
 Astrazione selettiva: tendenza a concentrare l’attenzione su aspetti particolari della situazione in
esame, tralasciandone altri più importanti;
 Bisogno di certezza: tendenza a focalizzarsi sempre e solo su cose certe;
 Catastrofizzazione: tendenza a soffermarsi sulle conseguenze peggiori di una situazione e
sovrastimare la possibilità che queste si verifichino;
 Deduzione arbitraria: tendenza a trarre conclusioni in assenza di prove o in contrasto con esse;
 Doverizzazioni: tendenza a pensare che le cose debbano essere proprio in un certo modo;
 Etichettamento: tendenza a definire le cose con un’etichetta globale invece che facendo
riferimento a cose specifiche (definirsi inadeguato o inferiore);
 Filtri mentali: tendenza a filtrare mentalmente la realtà, focalizzandosi su alcune cose e
trascurandone altre;
 Generalizzazione eccessiva: tendenza a fare una regola dopo un singolo evento;
 Inferenza arbitraria: tendenza a trarre conclusioni in mancanza di evidenze sufficienti;
 Ingigantire/Minimizzare: tendenza ad esaltare o ridurre l’importanza di eventi;
 Intolleranza al disagio emotivo: tendenza a non tollerare stati d’animo negativi;
 Lettura del pensiero: tendenza ad essere convinti che le persone stiano pensando in un certo
modo;
 Minimizzare il positivo: tendenza a svalutare o squalificare gli aspetti positivi, in quanto sono in
contrasto con la propria visione negativa;
 Pensiero assolutistico (“tutto o niente”): tendenza a dare ampi giudizi categorici, ad attribuire alle
esperienze significati estremi, unidimensionali e assoluti;
 Pensiero dicotomico (o pensiero “bianco o nero”): tendenza a pensare in modo estremo, e a
considerare eventi, situazioni, ecc. come appartenenti ad un estremo oppure all’altro;
 Pensiero magico: tendenza a credere che un evento accada come risultato di un altro senza un
legame plausibile di causalità;
 Personalizzazione (o autoriferimento): tendenza ad essere convinti di essere al centro di tutto, per
cui tutte le cose vengono interpretate in relazione alla propria persona;
 Presupporre una causalità temporale: tendenza a fare previsioni sulla base di prove insufficienti;
 Ragionamento emotivo: tendenza ad interpretare e giudicare gli eventi e se stessi sulla base delle
proprie emozioni in quel momento;
 Responsabilità eccessiva: tendenza ad assumersi tutta la responsabilità in determinate situazioni,
senza considerare responsabilità da parte di altri (“i miei problemi di ansia sono colpa mia”).

CAPITOLO 27: DISTURBO DA STRESS POST-TRAUMATICO


Il disturbo da stress post-traumatico è caratterizzato da ricordi angosciosi o sogni ricorrenti, che insorgono
in seguito all’esposizione ad un fattore traumatico estremo e che possono essere rivissuti nella fantasia o
sentiti come se si dovessero ripresentare improvvisamente. Secondo il DSM-5 il disturbo da stress post-
traumatico è caratterizzato da:
o Esposizione a morte reale o minaccia di morte, grave lesione, oppure violenza sessuale in uno (o
più) dei seguenti modi: fare esperienza diretta dell’evento traumatico; assistere direttamente ad un
evento traumatico accaduto ad altri; venire a conoscenza di un evento traumatico accaduto ad un
membro della famiglia oppure ad un amico stretto; fare esperienza di una ripetuta o estrema
esposizione a dettagli crudi dell’evento traumatico.

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o Presenza di sintomi intrusivi associati all’evento traumatico: ricorrenti, involontari e intrusivi ricordi
spiacevoli dell’evento traumatico; ricorrenti sogni spiacevoli in cui il contenuto o le emozioni del
sogno sono collegati all’evento; reazioni dissociative in cui il soggetto sente o agisce come se
l’evento traumatico si stesse ripresentando; intensa o prolungata sofferenza psicologica
all’esposizione a fattori scatenanti che assomigliano a qualche aspetto dell’evento; marcate
reazioni fisiologiche a fattori scatenanti che assomigliano a qualche aspetto dell’evento.
o Evitamento persistente degli stimoli associati all’evento traumatico: evitamento di ricordi
spiacevoli, pensieri o sentimenti strettamente associati all’evento traumatico; evitamento di fattori
esterni che suscitano ricordi spiacevoli, pensieri o sentimenti strettamente associati all’evento
traumatico.
o Alterazioni negative di pensieri ed emozioni associati all’evento traumatico: incapacità di ricordare
qualche aspetto importante dell’evento traumatico; persistenti ed esagerate convinzioni o
aspettative negative relative a se stessi, ad altri o al mondo; persistenti, distorti pensieri relativi alla
causa o alle conseguenze dell’evento traumatico che portano l’individuo a dare la colpa a se stesso
oppure agli altri; persistente stato emotivo negativo (paura, vergogna, orrore): marcata riduzione di
interesse ad attività significative; sentimenti di distacco verso gli altri; incapacità di provare
emozioni positive.
o Marcate alterazioni dell’arousal e della reattività associati all’evento traumatico: comportamento
irritabile ed esplosioni di rabbia espressi nella forma di aggressione verbale o fisica nei confronti di
persone o oggetti; comportamento spericolato o autodistruttivo; ipervigilanza; esagerate risposte
di allarme; problemi di concentrazione; difficoltà relative al sonno.
All’interno del sistema cognitivo per l’elaborazione delle informazioni connesse al trauma esiste la
“tendenza al completamento”, che consente alla mente di accordarsi con la realtà presente.
Successivamente al trauma vi è il “crying out” o “reazione di stordimento”, durante la quale i pensieri, i
ricordi e le immagini del trauma non si conciliano con le immagini preesistenti. Si verifica quindi
un’incapacità a completare. A questo punto entrano in gioco le difese psicologiche dell’individuo per
mantenere l’informazione traumatica a livello inconscio. L’individuo sperimenta, così, un periodo
caratterizzato da anestesia affettiva e negazione nei confronti dell’evento. Attraverso la “memoria attiva”
le informazioni correlate al trauma irrompono nella coscienza dell’individuo sotto forma di flashback.
L’informazione traumatica rimane nella memoria attiva senza essere assimilata. È anche possibile
considerare il disturbo da stress post-traumatico come il risultato di una frantumazione di idee, di
preconcetti riguardo a sé e al mondo che non riescono ad essere mantenuti dopo aver vissuto
un’esperienza traumatica, generando intrusività, evitamento e iperarousal.
Un altro percorso parte dalla memoria a lungo termine in cui risiede il cosiddetto “fear network” che
comprende sia lo stimolo informativo sull’evento che l’informazione che tiene insieme questi elementi
stimolo-risposta. È anche possibile la presenza di un periodo iniziale caratterizzato da sintomi intrusivi che
compaiono in seguito all’attivazione di un fear network e al quale l’individuo si adatta facendo ricorso a
strategie difensive e di evitamento. L’elevato grado di intrusività può essere utilizzato come fattore
predittivo di un buon recupero.
Un altro percorso considera nella memoria l’esistenza di due livelli attraverso cui le informazioni correlate
all’evento traumatico vengono rappresentate. Il primo livello è rappresentato dalla memoria verbalmente
accessibile: le informazioni riguardanti i ricordi intrusivi e le emozioni che l’individuo possiede dopo aver
risposto e interpretato l’evento traumatico. Il secondo livello è costituito dalla memoria accessibile in base
alle situazioni: contengono informazioni accessibili solo quando elementi della situazione traumatica ne
stimolano l’attivazione. Gli individui devono integrare l’informazione verbalmente accessibile dei ricordi

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verbalmente accessibili con le proprie concezioni o i propri schemi del mondo per ridurre gli effetti negativi
del trauma.
Sempre a livello metacognitivo, è anche possibile sottolineare il ruolo delle emozioni. Se ad essere
minacciato è un obiettivo, verrà attivato un “fear module”, ossia una riconfigurazione del sistema cognitivo
per far fronte alla minaccia. Se l’obiettivo non viene raggiunto verrà attivato il “sadness module”, che
induce a ridistribuire le risorse per l’elaborazione del materiale associato alla perdita di memoria.
Le più recenti psicoterapie cognitivo-comportamentali per il trattamento del disturbo da stress post-
traumatico comprendono la combinazione di varie componenti, tra cui psicoeducazione, gestione
dell’ansia, procedure di esposizione e ristrutturazione cognitiva. Tali componenti scandiscono la struttura
del trattamento, il quale, pertanto, procede secondo quattro fasi principali: fase psicoeducativa; training
per la gestione dell’ansia, delle paure e dell’attivazione fisiologica; esposizione; ristrutturazione cognitiva.
La fase psicoeducativa ha come obiettivo principale quello di normalizzare nel paziente le reazioni negative
al trauma, come la paura, l’ansia e i comportamenti di evitamento.
Nella fase successiva vengono insegnate delle strategie per gestire e padroneggiare l’ansia, le paure e
l’attivazione fisiologica prodotte dall’esperienza traumatica ogni qualvolta queste si presentino, compreso
nella successiva fase di esposizione.
La terza fase del trattamento è basata sulle procedure di esposizione prolungata. L’esposizione prolungata
e ripetuta alla memoria traumatica permette di correggere le valutazioni e i significati errati attribuiti agli
eventi e le associazioni stimolo-risposta fallaci.
La fase di ristrutturazione cognitiva include l’individuazione, l’esplorazione e la revisione delle cognizioni
erronee e disfunzionali correlate all’esperienza traumatica e l’integrazione di informazioni correttive,
incompatibili con le strutture cognitive esistenti.

CAPITOLO 28: DISTURBO OSSESSIVO-COMPULSIVO


Secondo il DSM-5 il disturbo ossessivo-compulsivo è caratterizzato dalla presenza di ossessioni,
compulsioni o entrambi.
Le ossessioni sono definite da: pensieri, impulsi o immagini ricorrenti e persistenti, vissuti come intrusivi e
indesiderati e che causano ansia o disagio marcati; il soggetto tenta di ignorare o di sopprimere tali
pensieri, impulsi o immagini, o di neutralizzarli con altri pensieri o azioni (cioè mettendo in atto una
compulsione).
Le compulsioni sono definite da: comportamenti ripetitivi o azioni mentali che il soggetto si sente obbligato
a mettere in atto in risposta ad un’ossessione o secondo regole che devono essere applicate rigidamente; i
comportamenti o le azioni mentali sono volti a prevenire o ridurre l’ansia o il disagio o a prevenire alcuni
eventi o situazioni temuti; tuttavia, questi comportamenti o azioni mentali non sono collegati in modo
realistico con ciò che sono designati a neutralizzare o a prevenire, oppure sono chiaramente eccessivi.
Le ossessioni sono fenomeni mentali, quali pensieri, immagini o idee, indesiderati, che compaiono più o
meno frequentemente in una persona e che tendono a non andarsene via spontaneamente.
Le compulsioni sono attività reali o mentali messe in atto in seguito ad un’ossessione e finalizzate a
“neutralizzare” il contenuto negativo della stessa ossessione, in quanto attraverso di esse l’individuo cerca
di prevenire una delle situazioni che teme possano accadere così come immaginato o creduto in
precedenza, ovvero così come rappresentato nel contenuto dell’ossessione. La frequenza e l’intensità con
cui le ossessioni e le compulsioni ricorrono e persistono nel corso del tempo sono così debilitanti da andare
ad interferire in maniera fortemente significativa con la capacità dell’individuo di occuparsi di altre cose
importanti nella sua vita.
Secondo l’approccio cognitivo-comportamentale, il disturbo ossessivo-compulsivo è determinato sia da
schemi ansiogeni, credenze disfunzionali di base e distorsioni cognitive sia dal meccanismo di fusione

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pensiero-azione. Una volta attivati, gli schemi ansiogeni introducono distorsioni cognitive, ovvero dei
modelli di pensiero “difettosi”.
La fusione pensiero-azione è un processo psicologico attraverso cui le persone con disturbo ossessivo-
compulsivo tendono ad equiparare i loro pensieri con le loro azioni, credendo che il solo pensare a
un’azione sia equivalente alla realizzazione effettiva di quell’azione. Un individuo con disturbo ossessivo-
compulsivo può credere che avere il pensiero indesiderato di, ad esempio, fare del male ad una persona
cara è moralmente equivalente a fare del male realmente a quella persona. La fusione tra pensiero e azione
può anche portare a credere che anche il solo pensare a un evento indesiderato significa che succederà
sicuramente oppure renderà più probabile che l’evento accada, anche se non si vuole che tale evento
accada realmente. A sua volta, il percepire i propri pensieri come “pericolosi” può favorire un altro
processo psicologico chiamato soppressione del pensiero. In altri termini, la persona con disturbo
ossessivo-compulsivo cerca di sopprimere immediatamente questi pensieri “pericolosi”. Tuttavia, sebbene
sopprimere i pensieri “pericolosi” sembri avere un senso, questo li fa tornare indietro ancor peggio di
prima, in quanto li rende solo peggiori, portando a focalizzarsi ancora di più sul pensiero “pericoloso”.
La psicoterapia cognitivo-comportamentale prevede: in primo luogo di spiegare la pericolosità del
meccanismo della soppressione del pensiero al fine di portare la persona a non cadere nella tentazione di
farvi ricorso; in secondo luogo di spiegare il meccanismo di fusione pensiero-azione al fine di condurre la
persona a comprenderne il funzionamento e quindi a cercare di abbandonare il ricorso a tale meccanismo;
in terzo luogo di accompagnare la persona nella scoperta e modifica di credenze disfunzionali di base e di
distorsioni cognitive.
Credenze disfunzionali su se stessi: considerare se stessi in una luce negativa, con alta autocritica e bassa
autostima.
Credenze disfunzionali sugli altri: vedere gli altri in una luce paurosa e rispondendo loro con diffidenza e
distacco.
Credenze disfunzionali sul mondo: vedere il mondo come un posto da evitare, piuttosto che come un
posto pieno di opportunità.
Credenze disfunzionali sul futuro: vedere il futuro in maniera nebulosa.
Credenze disfunzionali sul passato: vedere il passato, in particolare gli eventi e le situazioni sociali negative
accadute in passato, come centrali per la propria identità e quindi come una fonte di informazioni molto
importante su stessi, sugli altri con cui si è in relazione a loro e sul futuro.
Credenze disfunzionali sul presente: vedere il presente come fonte di incertezza e allerta costante, in
quanto si teme di potersi trovare da un momento all’altro in una delle situazioni sociali o prestazionali
temute.
Credenze disfunzionali su questioni esistenziali: difficoltà a vedere e pensare oltre il proprio mondo
immediato in modo trascendente, a comprendere il significato della propria vita, a desiderare uno scopo
più grande per la propria vita.
Credenze disfunzionali sulle opportunità: non cercare opportunità o non riconoscere le opportunità
disponibili attorno.
Sulla base di tali credenze disfunzionali si attivano una serie di distorsioni cognitive:
 Astrazione selettiva: concentrare l’attenzione su aspetti particolari;
 Bisogno di certezza: focalizzarsi su cose certe;
 Catastrofizzazione: soffermarsi sulle conseguenze peggiori, porta a pensare di essere sopraffatti
dalle situazioni;
 Deduzione arbitraria: trarre conclusioni in assenza di prove;
 Doverizzazioni: le cose devono essere in un certo modo;
 Etichettamento: definire le cose con un’etichetta globale;

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 Filtri mentali: focalizzarsi su alcune cose e trascurarne altre;


 Generalizzazione eccessiva: fare una regola dopo singoli eventi;
 Inferenza arbitraria: inferire in mancanza di evidenze sufficienti;
 Ingigantire/Minimizzare: esaltare o ridurre l’importanza delle cose;
 Intolleranza al disagio emotivo: non tollerare stati d’animo negativi;
 Lettura del pensiero: convinzione che altri pensino in un certo modo;
 Minimizzare il positivo: svalutare o squalificare gli aspetti positivi;
 Pensiero assolutistico: percepire come "tutto o niente";
 Pensiero dicotomico: percepire tutto come "bianco o nero";
 Pensiero magico: credere che le cose accadano senza ragioni;
 Personalizzazione: interpretare in relazione alla propria persona;
 Presupporre una causalità temporale: fare previsioni avventate;
 Ragionamento emotivo: interpretare con le emozioni del momento;
 Responsabilità eccessiva: assumersi tutta la responsabilità, porta a pensare che una scelta produce
eventi negativi.

CAPITOLO 29: DISTURBI DA SINTOMI SOMATICI


Secondo il DSM-5, il disturbo da sintomi somatici è caratterizzato da: uno o più sintomi somatici che
procurano disagio; pensieri, sentimenti o comportamenti eccessivi associati a preoccupazioni relative alla
salute.
Secondo il DSM-5, il disturbo da ansia di malattia è caratterizzato da: preoccupazione di avere o contrarre
una grave malattia; i sintomi somatici non sono presenti o, se sono presenti, sono di lieve intensità. Se è
presente un’altra condizione medica o vi è un rischio elevato di svilupparla, la preoccupazione è
chiaramente eccessiva o sproporzionata; è presente un elevato livello di ansia riguardante la salute e
l’individuo si allarma facilmente riguardo al proprio stato di salute; l’individuo attua eccessivi
comportamenti correlati alla salute o presenta un evitamento disadattivo.
Il disturbo di conversione (disturbo da sintomi neurologici funzionali) è caratterizzato da: uno o più
sintomi di alterazione della funzione motoria volontaria o sensoriale; i risultati clinici forniscono le prove
dell’incompatibilità tra il sintomo e le condizioni neurologiche o mediche conosciute; il sintomo o il deficit
non sono meglio spiegati da un altro disturbo medico o mentale.
Il disturbo da sintomi somatici e il disturbo da ansia di malattia racchiudono nell’insieme il concetto classico
di ipocondria. L’ipocondria è la paura di avere una malattia, solitamente grave, non ancora diagnosticata. Si
tratta di preoccupazioni sulla propria salute accompagnate da tendenza a rimuginare in maniera
significativa e a focalizzare l’attenzione sul proprio corpo al fine di monitorare sintomi corporei come segni
di eventuale presenza di una malattia. Le persone con ipocondria hanno preoccupazioni anche in assenza di
sintomi rilevanti o nonostante rassicurazioni mediche o esiti negativi di esami. Hanno spesso difficoltà ad
accettare che i loro problemi sono tutt’altro che fisici e cercano aiuto medico piuttosto che psicologico.
Caratteristica centrale dei disturbi da sintomi somatici è il verificarsi di pensieri automatici negativi
derivanti dall’errata interpretazione di segni e sintomi fisici innocui. Questi sintomi tendono ad essere
interpretati erroneamente come indicatori di malattia. La reazione tipica a questa errata interpretazione è
l’ansia che porta a cambiamenti cognitivi che mantengono il sintomo fisico. Le informazioni sono
costantemente selezionate e seguite in modi che confermano una preoccupazione ipocondriaca. Il controllo
del proprio corpo, l’evitamento e la ricerca di rassicurazione sono esempi di questa attenzione selettiva. Le
sensazioni corporee vengono filtrate attraverso un bias di conferma che esagera ogni segnale di malattia.
Tutto ciò accade per via di un meccanismo chiamato “amplificazione somatosensoriale” che è il risultato di
anomalie percettive e cognitive. Se l’individuo con ipocondria, per esempio, vede un film in cui uno dei

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personaggi si lamenta di un mal di testa e in seguito gli viene diagnosticato un tumore al cervello, il film può
attivare queste convinzioni. Una volta che tali credenze vengono attivate, la persona con ipocondria inizia
ad essere particolarmente attenta a qualsiasi indicazione di dolore o fastidio alla sua testa. A causa di una
tendenza premorbosa all’amplificazione somatosensoriale, può essere particolarmente sensibile a qualsiasi
sensazione di dolore che altri solitamente invece tendono a non notare.
Sul versante meta cognitivo ci sono due dimensioni: credenze negative sull’incontrollabilità e il pericolo; la
necessità di controllare i pensieri, compresi i temi di superstizione, punizione e responsabilità. Nell’insieme
si crea uno stile di pensiero chiamato “sindrome cognitivo-attentiva” che consiste in: preoccupazioni per i
sintomi di malattia; ruminazione riguardo al loro possibile significato e cause; monitoraggio attentivo delle
minacce sotto forma di scansione mentale del corpo per segni e sintomi, controllo fisico di parti del corpo,
controllo dei processi corporei e del funzionamento mentale e ricerca di informazioni sui sintomi; strategie
di autoregolamentazione o comportamenti di coping che si rivelano inutili.
La psicoterapia cognitivo-comportamentale dell’ipocondria prevede:
A. L’identificazione e l’abbandono di alcuni meccanismi altamente dannosi:
 l’attenzione selettiva verso segni e sintomi fisici innocui, che comporta il controllo del
proprio corpo e pensieri automatici negativi derivanti dall’errata interpretazione di segni e
sintomi fisici innocui;
 l’amplificazione somatosensoriale che porta gli individui ipocondriaci ad essere più
sensibili e più consapevoli rispetto alle sensazioni corporee e, quindi, ad amplificare e
alterare il normale input sensoriale corporeo;
 la sindrome cognitivo-attentiva;
B. L’identificazione e la modifica di schemi ansiogeni, credenze disfunzionali e distorsioni cognitive:
 pensieri automatici negativi derivanti dall’errata interpretazione di segni e sintomi fisici
innocui;
 credenze disfunzionali di tipo medico, legate alla malattia, sull’incontrollabilità e il pericolo
di segni e sintomi fisici.
Secondo una concettualizzazione metacognitiva, l’individuo con ipocondria è coinvolto eccessivamente in
una pratica focalizzata ad esaminare il proprio corpo. Tali ansia e preoccupazione sono dovute ad una
consapevolezza corporea che è alterata e che tende ad aggiungere ulteriori livelli di sintomi.

CAPITOLO 30: SCHIZOFRENIA E ALTRI DISTURBI PSICOTICI


Col termine “psicosi” si intende una varietà di disturbi tutti caratterizzati dal fatto di includere come
manifestazione determinante sintomi psicotici, in particolare deliri o allucinazioni. Il più noto di tali disturbi
è la schizofrenia. Il DSM-5 raggruppa tutti i disturbi psicotici in una categoria diagnostica denominata
“disturbi dello spettro della schizofrenia e altri disturbi psicotici” che comprende tra i disturbi principali: il
disturbo schizotipico di personalità, il disturbo delirante, il disturbo psicotico breve, il disturbo
schizofreniforme, la schizofrenia e il disturbo schizoaffettivo.
La schizofrenia è caratterizzata da:
A. due (o più) dei seguenti sintomi: deliri, allucinazioni, eloquio disorganizzato, comportamento
grossolanamente disorganizzato o catatonico, sintomi negativi (cioè diminuzione dell’espressione
delle emozioni o abulia);
B. per una significativa parte di tempo dall’esordio del disturbo, il livello del funzionamento in una o
più delle aree principali è marcatamente al di sotto del livello raggiunto prima dell’esordio;
C. segni continuativi del disturbo persistono per almeno 6 mesi.
Il disturbo schizofreniforme è caratterizzato da:

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 due (o più) dei seguenti sintomi: deliri, allucinazioni, eloquio disorganizzato, comportamento
grossolanamente disorganizzato o catatonico, sintomi negativi;
 un episodio del disturbo dura almeno un mese ma meno di sei mesi.
Il disturbo schizoaffettivo è caratterizzato da: un periodo ininterrotto di malattia durante il quale è
presente un episodio dell’umore maggiore (depressivo o maniacale) in concomitanza con il criterio A della
schizofrenia; deliri o allucinazioni per 2 settimane o più, in assenza di un episodio dell’umore maggiore; i
sintomi che soddisfano i criteri per un episodio dell’umore.
Il disturbo psicotico breve è caratterizzato da:
 presenza di uno (o più) dei sintomi seguenti: deliri, allucinazioni, eloquio disorganizzato,
comportamento grossolanamente disorganizzato o catatonico;
 la durata di un episodio del disturbo è di almeno un giorno, ma meno di un mese, con successivo
pieno ritorno al livello di funzionamento premorboso.
Il disturbo delirante è caratterizzato da:
 la presenza di uno o più deliri con una durata di un mese o più;
 il criterio A per la schizofrenia non è mai stato soddisfatto (le allucinazioni non sono preminenti);
 il funzionamento, a parte l’impatto dei deliri o delle loro ramificazioni, non risulta compromesso in
modo marcato, e il comportamento non è chiaramente bizzarro o stravagante.
Il disturbo schizotipico di personalità è caratterizzato da ridotta capacità riguardante le relazioni affettive,
da distorsioni cognitive e percettive ed eccentricità di comportamento, come indicato da cinque (o più) dei
seguenti elementi: idee di riferimento; credenze strane o pensiero magico che influenzano il
comportamento e sono in contrasto con le norme sub culturali; esperienze percettive insolite, incluse
illusioni corporee; pensiero ed eloquio strani; sospettosità o ideazione paranoide; affettività inappropriata
o limitata; comportamento o aspetto strani, eccentrici o peculiari; nessun amico stretto o confidente,
eccetto i parenti di primo grado; eccessiva ansia sociale, che non diminuisce con l’aumento della familiarità
e tende ad essere associata a preoccupazioni paranoidi piuttosto che a un giudizio negativo di sé.
Allucinazioni e deliri sono definiti “sintomi positivi” (ovvero che hanno un qualcosa in aggiunta,
un’esperienza sensoriale o un’idea, a ciò che è considerato lo stato mentale normale).
Le allucinazioni sono false percezioni sensoriali, come sentire voci, vedere immagini o provare sensazioni
che in realtà non ci sono.
I deliri sono false credenze che la persona difende da ogni evidenza come se fossero vere quando invece
sono oggettivamente errate.
Una persona con un disturbo psicotico può avere anche una serie di sintomi che rappresentano deficit delle
normali risposte emotive o di altri processi di pensiero e che sono definiti “sintomi negativi” (ovvero che
hanno un qualcosa in meno, linguaggio, motivazione o affettività, rispetto a ciò che è considerato lo stato
mentale normale), come una sfera affettiva piatta o poco accentuata, povertà del linguaggio (alogia),
incapacità di provare piacere (anedonia), mancanza di desiderio di formare relazioni (asocialità) e la
mancanza di motivazione (abulia). Raramente, una persona con un disturbo psicotico, in particolare la
schizofrenia, può avere sintomi catatonici; la catatonia è uno stato di estrema immobilità motoria che
culmina con uno stato di apparente congelamento, tanto che la persona sembra una statua vivente in
quanto non risponde ed è bloccata in una postura del corpo che appare congelata.
La psicoterapia cognitivo-comportamentale per i disturbi psicotici prevede l’identificazione e la modifica
di:
 credenze caratterizzate da: pervasività; convinzione; preoccupazione; mancanza di insight; il loro
impatto sul comportamento.
 un’elaborazione cognitiva inadeguata (distorsioni cognitive) come il pensiero dicotomico,
l’inferenza arbitraria o la deduzione arbitraria. Poiché nei deliri gli schemi sono rigidi e

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relativamente impermeabili al normale feedback correttivo, tali schemi modellano le percezioni che
questi individui hanno del loro mondo personale.
 bias egocentrico: tendenza a focalizzarsi preventivamente su se stessi, per cui la persona
percepisce se stessa come la componente o l’oggetto centrale degli eventi.
 locus of causality esterno: tendenza ad attribuire la causa degli eventi a fattori esterni alla propria
persona. Gli individui con un disturbo psicotico sono particolarmente inclini a dare spiegazioni
straordinarie per le loro esperienze ordinarie. A causa di un forte bias esternalizzante, rinunciano a
spiegazioni plausibili a favore di attribuzioni esterne improbabili o impossibili.
 bias di conferma: considerare selettivamente solo stimoli che convalidano le proprie convinzioni.
 errore fondamentale di attribuzione: attribuire un evento avverso a fattori esterni personali. Le
persone con schizofrenia paranoide, in particolare, hanno un tipo specifico di spiegazione per gli
eventi ambigui angoscianti: hanno una tendenza esagerata a dare la colpa a fattori esterni
personali.

CAPITOLO 31: DISTURBI DELL’ALIMENTAZIONE


Il disturbo denominato “pica” è caratterizzata da: persistente ingestione di sostanze senza contenuto
alimentare, non commestibili per un periodo di almeno 1 mese; l’ingestione di tali sostanze è inappropriata
rispetto allo stadio di sviluppo dell’individuo; il comportamento di ingestione non fa parte di una pratica
culturalmente sancita o socialmente normata.
Il disturbo da ruminazione è caratterizzato da: ripetuto rigurgito di cibo per un periodo di almeno 1 mese. Il
cibo rigurgitato può essere rimasticato, ringoiato o sputato; il rigurgito ripetuto non è attribuibile a una
condizione gastrointestinale associata a un’altra condizione medica.
Il disturbo evitante/restrittivo dell’assunzione di cibo è un disturbo della nutrizione o dell’alimentazione
che si manifesta attraverso la persistente incapacità di soddisfare le appropriate necessità nutrizionali o
energetiche. È associato a uno (o più) dei seguenti aspetti: significativa perdita di peso; significativo deficit
nutrizionale; dipendenza dall’alimentazione parenterale oppure da supplementi nutrizionali orali; marcata
interferenza con il funzionamento psicosociale.
L’anoressia nervosa è caratterizzata da: restrizione nell’assunzione di calorie in relazione alle necessità, che
porta a un peso corporeo significativamente basso nel contesto di età, sesso, traiettoria di sviluppo e salute
fisica. Il peso corporeo significativamente basso è definito come un peso inferiore al minimo normale
oppure, per bambini e adolescenti, meno di quello minimo previsto; intensa paura di aumentare di peso o
di diventare grassi, oppure un comportamento persistente che interferisce con l’aumento di peso, anche se
significativamente basso; alterazione del modo in cui viene vissuto dall’individuo il peso o la forma del
proprio corpo, eccessiva influenza del peso o della forma del corpo sui livelli di autostima, oppure
persistente mancanza di riconoscimento della gravità dell’attuale condizione di sottopeso.
La bulimia nervosa è caratterizzata da:
 ricorrenti episodi di abbuffata. Un episodio di abbuffata è caratterizzato da entrambi i seguenti
aspetti:
 mangiare, in un determinato periodo di tempo, una quantità di cibo significativamente
maggiore di quella che la maggior parte degli individui assumerebbe nello stesso tempo ed
in circostanze simili;
 sensazione di perdere il controllo durante l’episodio;
 ricorrenti ed inappropriate condotte compensatorie per prevenire l’aumento di peso, come vomito
autoindotto, abuso di lassativi, diuretici o altri farmaci, digiuno o attività fisica eccessiva;
 le abbuffate e le condotte compensatorie inappropriate si verificano entrambe in media almeno
una volta alla settimana.

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Il disturbo da binge-eating è caratterizzato da:


 ricorrenti episodi di abbuffata;
 gli episodi di abbuffata sono associati a tre o più dei seguenti aspetti: mangiare molto più
rapidamente del normale; mangiare fino a sentirsi sgradevolmente pieni; mangiare grandi
quantitativi di cibo anche se non ci si sente affamati; mangiare da soli a causa dell’imbarazzo per
quanto si sta mangiando; sentirsi disgustati verso se stessi, depressi o molto in colpa dopo
l’episodio;
 è presente marcato disagio riguardo alle abbuffate;
 l’abbuffata si verifica, mediamente, almeno una volta alla settimana per tre mesi;
 l’abbuffata non è associata alla messa in atto sistematica di condotte compensatorie inappropriate
per prevenire l’aumento di peso.
Il binge eating disorder (o disturbo da alimentazione incontrollata) è il disturbo dell’alimentazione più
comune. È caratterizzato da ripetuti episodi di abbuffate, definite come il consumo di una grande quantità
di cibo accompagnato da una sensazione di perdita di controllo.
La bulimia nervosa comporta ricorrenti episodi di abbuffate seguiti da comportamenti compensatori,
ovvero comportamenti finalizzati ad eliminare le calorie consumate.
L’anoressia nervosa è caratterizzata dall’assunzione limitata di cibo che porta a un peso corporeo inferiore
al previsto, dalla paura dell’aumento di peso e dall’immagine distorta del proprio corpo.
Poiché il cibo è essenziale per il regolare funzionamento dell’organismo, i disturbi dell’alimentazione
possono influenzare significativamente i normali processi fisici e mentali. Le ossa possono indebolirsi,
causando problemi irreversibili; problemi cardiovascolari possono svilupparsi in risposta alla restrizione
alimentare, al vomito e all’abuso di diuretici e lassativi; problemi dentali sono effetti indesiderati comuni
del vomito autoindotto. L’aspetto centrale del mantenimento dei disturbi dell’alimentazione è un sistema
disfunzionale per valutare il valore di sé in termini di abitudini alimentari, forma fisica o peso corporeo.
Questa sopravvalutazione dell’alimentazione, della forma fisica e del peso corporeo e il loro controllo è di
primaria importanza nel mantenimento del disturbo.
La psicoterapia cognitivo-comportamentale per i disturbi dell’alimentazione prevede l’identificazione e la
modifica di schemi, credenze disfunzionali di base e distorsioni cognitive:
Sistema disfunzionale per valutare il valore di sé. Le persone con disturbi dell’alimentazione giudicano se
stesse in termini di abitudini alimentari, forma fisica o peso corporeo e della loro capacità di controllarli.
Rigida adesione a regole dietetiche estreme. Le abbuffate sono in gran parte un prodotto del modo
particolare in cui questi individui cercano di limitare la loro alimentazione, cercano di aderire a regole
dietetiche più estreme e altamente specifiche.
Tendenza a reagire negativamente alla rottura delle regole dietetiche, interpretando piccoli passi falsi
rispetto alla dieta come prova della loro mancanza di autocontrollo, con il risultato di abbandonare
temporaneamente i loro sforzi tesi a limitare la loro alimentazione. Ciò costituisce un fattore in grado di
scatenare l’abbuffata.
Fiducia nelle condotte compensatorie. Ripongono notevole fiducia nella capacità delle condotte
compensatorie di ridurre al minimo l’aumento di peso.
Tendenza ad essere estremamente auto-critici. Si pongono degli standard esigenti in termini di
alimentazione, forma fisica e peso corporeo e riguardo al loro controllo, e quando non riescono a
raggiungerli si considerano colpevoli piuttosto che considerare i loro standard troppo rigidi.
Perfezionismo clinico. L’individuo con un disturbo dell’alimentazione applica le norme perfezioniste ai
tentativi di controllare l’alimentazione, la forma fisica e il peso corporeo, c’è paura di fallire (cioè paura di
aumentare di peso), attenzione selettiva alle prestazioni (conteggio delle calorie, frequente controllo di
forma fisica) e autocritica derivante da valutazioni negative distorte delle loro prestazioni.

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Bassa autostima. Hanno una visione negativa più globale di se stessi, incondizionata e pervasiva che è vista
come parte della loro identità permanente. I loro giudizi negativi su se stessi sono autonomi e in gran parte
indipendenti dalle prestazioni.
Intolleranza all’umore. Un’incapacità di far fronte in modo appropriato a certi stati emotivi, come rabbia,
ansia o depressione, ma in alcuni casi vi è intolleranza a tutti gli stati d’animo intensi.
Difficoltà interpersonali. I processi interpersonali contribuiscono in molti modi al mantenimento dei
disturbi alimentari.

CAPITOLO 32: DIPENDENZE PATOLOGICHE


Il DSM-5 include una categoria diagnostica denominata “disturbi correlati a sostanze e disturbi da
addiction” che contempla 10 classi distinte di sostanze: alcol; caffeina; cannabis; allucinogeni; inalanti;
oppiacei; sedativi, ipnotici e ansiolitici; stimolanti; tabacco; e altre sostanze. Tutte le sostanze che vengono
assunte in eccesso hanno in comune l’attivazione diretta del sistema cerebrale di ricompensa, che è
coinvolto nel rafforzamento dei comportamenti e nella produzione dei ricordi. Esse producono
un’attivazione così intensa del sistema di ricompensa che le normali attività possono venire trascurate.
Disturbi da uso di sostanze. Il DSM-5 non applica la parola “dipendenza” come termine diagnostico in
questa classificazione. Il termine più neutro disturbo da uso di sostanze è utilizzato per descrivere l’ampia
gamma del disturbo, da una forma lieve a uno stato grave con ricadute croniche di assunzione compulsiva
di sostanza.
Disturbi indotti da sostanze. Sono classificate come disturbi indotti da sostanze le seguenti condizioni:
intossicazione, astinenza e altri disturbi mentali indotti da sostanze/farmaci.
La categoria “disturbi correlati a sostanze e disturbi da addiction” del DSM-5 comprende anche, quale
disturbo non correlato a sostanze, il disturbo da gioco d’azzardo, riflettendo l’evidenza che i
comportamenti legati al gioco d’azzardo producono alcuni sintomi comportamentali che sembrano
comparabili a quelli prodotti dai disturbi da uso di sostanze.
Il disturbo da gioco d’azzardo è caratterizzato da comportamento problematico persistente o ricorrente
legato al gioco d’azzardo che porta a disagio o compromissione clinicamente significativi, come indicato
dall’individuo che presenta quattro (o più) delle seguenti condizioni entro un periodo di 12 mesi: ha
bisogno di quantità crescenti di denaro per ottenere l’eccitazione desiderata; è irrequieto se tenta di
smettere di giocare d’azzardo; ha fatto ripetuti sforzi infruttuosi per controllare, ridurre o smettere di
giocare d’azzardo; è spesso preoccupato dal gioco d’azzardo; spesso gioca d’azzardo quando si sente a
disagio; dopo aver perduto denaro spesso torna un’altra volta per ritentare; mente per occultare l’entità
del coinvolgimento nel gioco d’azzardo; ha messo in pericolo o perduto una relazione significativa, il lavoro,
opportunità di studio e di carriera a causa del gioco d’azzardo; conta sugli altri per procurare il denaro
necessario a risollevare situazioni finanziarie disperate causate dal gioco d’azzardo.
Disturbo da uso di alcol. Un pattern problematico di uso di alcol che porta a disagio o compromissione
clinicamente significativi, come manifestato da almeno due delle seguenti condizioni: l’alcol è spesso
assunto in quantitativi maggiori di quanto fosse nelle intenzioni; desiderio persistente o sforzi infruttuosi di
controllare l’uso di alcol; una gran parte del tempo è impiegata in attività necessarie a procurarsi alcol;
craving, o forte desiderio o spinta all’uso di alcol; uso ricorrente di alcol, che causa un fallimento
nell’adempimento dei principali obblighi di ruolo sul lavoro, a scuola, a casa; uso continuato di alcol
nonostante la presenza di persistenti problemi sociali o interpersonali causati dagli effetti dell’alcol;
importanti attività sociali, lavorative o ricreative vengono abbandonate a causa dell’uso di alcol; uso
ricorrente di alcol in situazioni nelle quali è fisicamente pericoloso; uso continuato di alcol nonostante la
consapevolezza di un problema persistente, fisico o psicologico, che è stato probabilmente causato
dall’alcol. Tolleranza, come definita da ciascuno dei seguenti fattori:

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 Un bisogno di quantità marcatamente aumentate di alcol per ottenere intossicazione o l’effetto


desiderato;
 Una marcata diminuzione dell’effetto con l’uso continuato della stessa quantità di alcol.
Astinenza, manifestata da ciascuno dei seguenti fattori:
 La caratteristica sindrome da astinenza da alcol;
 L’alcol viene assunto per attenuare o evitare sintomi di astinenza.
Intossicazione da alcol: recente ingestione di alcol; comportamento problematico clinicamente significativo
o cambiamenti psicologici. Uno (o più) dei seguenti segni o sintomi: eloquio inceppato; mancanza di
coordinazione; andatura instabile; nistagmo; compromissione dell’attenzione o della memoria; coma.
Astinenza da alcol: cessazione dell’uso di alcol che è stato pesante e prolungato. Due (o più) dei seguenti
sintomi: iperattività autonomica; aumento del tremore a livello delle mani; insonnia; nausea o vomito;
allucinazioni o illusioni visive, tattili o uditive transitorie; agitazione psicomotoria; ansia; convulsioni tonico-
cloniche generalizzate.
Disturbo da uso di cannabis. Un pattern problematico di uso di cannabis come manifestato da almeno due
delle seguenti condizioni: la cannabis è spesso assunta in quantitativi maggiori di quanto fosse nelle
intenzioni; desiderio persistente di controllare l’uso di cannabis; una gran parte del tempo è impiegata in
attività necessarie a procurarsi la cannabis; craving; uso ricorrente di cannabis, che causa un fallimento
nell’adempimento dei principali obblighi; uso continuato di cannabis nonostante la presenza di ricorrenti
problemi; importanti attività sociali abbandonate; uso ricorrente di cannabis in situazioni nelle quali è
fisicamente pericoloso; uso continuato di cannabis nonostante la consapevolezza di un problema;
tolleranza; astinenza.
Intossicazione da cannabis: recente uso di cannabis; comportamento problematico clinicamente
significativo. Due (o più) dei seguenti sintomi: iperemia congiuntivale; aumento dell’appetito; secchezza
delle fauci; tachicardia.
Astinenza da cannabis: cessazione dell’uso di cannabis che è stato pesante e prolungato. Tre (o più) dei
seguenti sintomi: irritabilità, rabbia, aggressività; nervosismo, ansia; difficoltà del sonno; diminuzione
dell’appetito o perdita di peso; irrequietezza; umore depresso. Almeno uno dei seguenti sintomi fisici causa
malessere significativo: dolori addominali, tremori, sudorazione, febbre, brividi o cefalea.
Disturbo da uso di allucinogeni. Un pattern problematico come manifestato da almeno due delle seguenti
condizioni: l’allucinogeno è spesso assunto in quantitativi maggiori di quanto fosse nelle intenzioni;
desiderio persistente di controllare l’uso dell’allucinogeno; una gran parte del tempo è impiegata in attività
necessarie a procurarsi l’allucinogeno; craving; uso ricorrente dell’allucinogeno, che causa un fallimento
nell’adempimento dei principali obblighi; uso continuato di allucinogeni nonostante la presenza di problemi
sociali o interpersonali; importanti attività sociali, lavorative o ricreative vengono abbandonate; uso
ricorrente dell’allucinogeno in situazioni nelle quali è fisicamente pericoloso; uso continuato
dell’allucinogeno nonostante la consapevolezza di un problema persistente; tolleranza.
Intossicazione da altri allucinogeni: recente uso di allucinogeni; comportamento problematico
clinicamente significativo; cambiamenti percettivi che si verificano in uno stato di completa vigilanza e
allerta. Due (o più) dei seguenti segni: midriasi; tachicardia; sudorazione; palpitazioni; visione offuscata;
tremori; mancanza di coordinazione.
Disturbo percettivo persistente da allucinogeni: a seguito della cessazione dell’uso di allucinogeni, la
ricomparsa di uno o più dei sintomi percettivi che erano stati sperimentati durante l’intossicazione da
allucinogeni.
Disturbo da uso di oppiacei (eroina). Un pattern problematico come manifestato da almeno due delle
seguenti condizioni: gli oppiacei sono spesso assunti in quantitativi maggiori di quanto fosse nelle
intenzioni; desiderio persistente di controllare l’uso di oppiacei; una gran parte del tempo è impiegata in

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attività necessarie a procurarsi; craving; uso ricorrente di oppiacei, che causano un fallimento
nell’adempimento dei principali obblighi; uso continuato di oppiacei nonostante la presenza di ricorrenti
problemi sociali o interpersonali; importanti attività sociali, lavorative o ricreative vengono abbandonate;
uso ricorrente di oppiacei in situazioni nelle quali è fisicamente pericoloso; uso continuato di oppiacei
nonostante la consapevolezza di un problema persistente; tolleranza; astinenza.
Intossicazione da oppiacei: recente uso di un oppiaceo; comportamento problematico clinicamente
significativo o cambiamenti psicologici durante, o subito dopo, l’uso di oppiacei; miosi e uno (o più) dei
seguenti sintomi: fiacchezza o coma, eloquio inceppato e compromissione dell’attenzione o della memoria.
Astinenza da oppiacei. Presenza di ciascuna delle seguenti condizioni:
o Cessazione (o riduzione) dell’uso di oppiacei che è stato pesante e prolungato.
o Somministrazione di un oppiaceo antagonista.
Tre o più dei seguenti fattori: umore disforico; nausea o vomito; dolori muscolari; lacrimazione o rinorrea;
midriasi, piloerezione o sudorazione; diarrea; sbadigli; febbre; insonnia.
Disturbo da uso di stimolanti. Un pattern di uso di sostanze amfetaminosimili, cocaina o altri stimolanti che
porta a compromissione clinicamente significativa, come manifestato da almeno due delle seguenti
condizioni: gli stimolanti sono spesso assunti in quantitativi maggiori di quanto fosse nelle intenzioni;
desiderio persistente di controllare l’uso di stimolanti; una gran parte del tempo è impiegata in attività
necessarie a procurarsi gli stimolanti; craving; uso ricorrente di stimolanti, che causa un fallimento
nell’adempimento dei principali obblighi; uso continuato di stimolanti nonostante la presenza di persistenti
problemi sociali o interpersonali; importanti attività sociali, lavorative o ricreative vengono abbandonate;
uso ricorrente di stimolanti in situazioni nelle quali è fisicamente pericoloso; uso continuato di stimolanti
nonostante la consapevolezza di un problema persistente; tolleranza; astinenza.

CAPITOLO 33: DISFUNZIONI SESSUALI


La sessualità umana è l’espressione della sensazione sessuale e della relativa intimità tra gli esseri umani.
Biologicamente, la sessualità è il mezzo attraverso il quale viene concepito un bambino e i geni vengono
trasmessi alla generazione successiva. Psicologicamente, la sessualità è il mezzo per esprimere la pienezza
dell’amore tra un uomo e una donna. Maschi e femmine hanno diverse modalità di eccitazione sessuale. Il
buon rapporto sessuale dipende principalmente da atteggiamento dei coniugi e qualità della loro relazione.
Il ciclo di risposta sessuale può essere diviso nelle seguenti fasi:
 Desiderio: consiste in fantasie sull’attività sessuale e nel desiderio di praticare un’attività sessuale.
 Eccitazione: consiste in una sensazione soggettiva di piacere sessuale e nelle concomitanti
modificazioni fisiologiche.
 Orgasmo: consiste in un picco di piacere sessuale, con allentamento della tensione sessuale e
contrazioni ritmiche dei muscoli perineali e degli organi riproduttivi.
 Risoluzione: consiste in una sensazione di rilassamento muscolare e di benessere generale.
Le disfunzioni sessuali sono caratterizzate da un’anomalia del desiderio sessuale e delle
modificazioni psicofisiologiche che caratterizzano il ciclo di risposta sessuale oppure sono caratterizzate da
dolore associato al rapporto sessuale, e causano notevole disagio e difficoltà interpersonali.
Le minacce comuni alla soddisfazione sessuale sono:
 Tensioni nella coppia: possono danneggiare il senso di connessione della coppia.
 Aspettative non realistiche: l’uomo può pensare che la donna si aspetti che lui sia sempre pronto e
in grado di compiere performance perfette, mentre la donna può avere aspettative di piacere più
elevate rispetto a quelle che un uomo può offrire.
 Noia nella coppia: ristretto repertorio di sesso e di contatti fisici.

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 Pornografia: voler rivivere nella realtà le proprie fantasie devianti. Il fruitore di pornografia
potrebbe avere una visione egocentrica del sesso.
 Timori per le prestazioni sessuali: gli uomini possono essere ansiosi di non riuscire a mantenere
l’eccitazione. Le donne potrebbero essere preoccupate di non raggiungere l’orgasmo.
 Inibizioni sessuali: possono includere vergogna per il corpo, senso di colpa per avere piacere
sessuale, paura di prendere malattie, paura di poter provare dolori, oppure disgusto riguardo al
contatto con sudore e altri liquidi organici. Tali condizioni possono essere il risultato di credenze
distorte profondamente radicate solitamente associate a disturbi psicologici.
 Stabilire presupposti per il sesso: usando il sesso come strumento per forzare il partner a cambiare
o ad agire in un certo modo.
 Differenti livelli di desiderio tra i due partner: è abbastanza comune per i partner avere diversi
livelli naturali di desiderio sessuale.
Alcune disfunzioni sessuali sono caratterizzate da un’anomalia del desiderio e dell’eccitazione sessuale e
causano notevole disagio e difficoltà interpersonali.
Il disturbo erettile è caratterizzato dal riportare, in tutti o in quasi tutti i rapporti sessuali, uno dei seguenti
sintomi: marcata difficoltà di ottenere un’erezione durante l’attività sessuale; marcata difficoltà nel
mantenere l’erezione fino al completamento dell’attività sessuale; marcata diminuzione della rigidità
erettile. La difficoltà di erezione può essere anche associata ad ansia sessuale o ansia da prestazione,
timore di fallimento, preoccupazioni sulla prestazione sessuale e ad una ridotta sensazione soggettiva di
eccitazione sessuale e di piacere.
Il disturbo del desiderio sessuale ipoattivo maschile è caratterizzato da insufficienza (o assenza) di pensieri
o fantasie sessuali e di desiderio di attività sessuale.
Il disturbo del desiderio sessuale e dell’eccitazione sessuale femminile è caratterizzato da mancanza, o
significativa riduzione, di desiderio sessuale, come manifestato da almeno tre dei seguenti problemi:
assente/ridotto interesse per l’attività sessuale; assenti/ridotti pensieri o fantasie sessuali; assente/ridotta
iniziativa nel rapporto sessuale e generale rifiuto delle iniziative del partner; assenza/riduzione
dell’eccitazione/piacere durante l’attività sessuale in tutti o quasi tutti i rapporti sessuali; assenza/riduzione
del desiderio/eccitazione sessuale in risposta a possibili stimoli sessuali interni o esterni; assenti/ridotte
sensazioni genitali o non genitali durante l’attività sessuale in tutti o quasi tutti i rapporti sessuali.
Il disturbo da avversione sessuale è caratterizzato da evitamento di contatti sessuali genitali con un
partner sessuale. L’individuo con disturbo da avversione sessuale riferisce ansia, timore o disgusto quando
si trova di fronte ad un’opportunità sessuale.
Il disturbo dell’orgasmo femminile è caratterizzato dal provare, in tutti o quasi tutti i rapporti sessuali, uno
dei seguenti sintomi: marcato ritardo, marcata infrequenza o assenza di orgasmo; intensità delle sensazioni
orgasmiche marcatamente ridotta. Il disturbo può compromettere l’immagine corporea, l’autostima o la
soddisfazione nelle relazioni.
L’eiaculazione ritardata è caratterizzata dal riportare, in tutti o in quasi tutti i rapporti sessuali, e senza che
il ritardo sia intenzionale, uno dei seguenti sintomi: un marcato ritardo nell’eiaculazione; marcata
infrequenza o assenza di eiaculazione. È un disturbo che riguarda la fase del ciclo della risposta sessuale
denominata “risoluzione”.
L’eiaculazione precoce è caratterizzata da una modalità ricorrente di eiaculazione che si verifica durante i
rapporti sessuali, circa un minuto dopo la penetrazione vaginale e prima che l’individuo lo desideri. È un
disturbo che riguarda la fase del ciclo della risposta sessuale denominata “risoluzione”.
Il disturbo del dolore genito-pelvico e della penetrazione è caratterizzato da ricorrenti difficoltà con uno (o
più) dei seguenti problemi: penetrazione vaginale durante il rapporto; marcato dolore vulvo-vaginale o
pelvico durante il rapporto o i tentativi di penetrazione vaginale; marcata paura o ansia per il dolore pelvico

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o vulvo-vaginale prima, durante o come risultato della penetrazione vaginale; marcata tensione o
contrazione dei muscoli del pavimento pelvico durante il tentativo di penetrazione vaginale. È un disturbo
da dolore associato al rapporto sessuale.
Nel DSM-5 il disturbo del dolore genito-pelvico e della penetrazione rappresenta una combinazione di
dispareunia (intesa nel DSM-IV-TR come “ricorrente o persistente dolore genitale associato al rapporto
sessuale in un maschio o in una femmina”) e vaginismo (intesa nel DSM-IV-TR come “ricorrente o
persistente spasmo involontario della muscolatura del terzo esterno della vagina, che interferisce col
rapporto sessuale”).

CAPITOLO 34: PARAFILIE


Le parafilie sono caratterizzate da ricorrenti e intensi impulsi, fantasie, o comportamenti sessuali che
implicano oggetti, attività o situazioni inusuali. Il DSM-5 include le parafilie in una categoria diagnostica
denominata “disturbi parafilici” che comprende i seguenti disturbi: disturbo voyeuristico, disturbo
esibizionistico, disturbo frotteuristico, disturbo da masochismo sessuale, disturbo da sadismo sessuale,
disturbo pedofilico, disturbo feticistico, disturbo da travestitismo. È incluso anche il cosiddetto “disturbo
parafilico con altra specificazione” che comprende, ma non si limita a, disturbi parafilici caratterizzati da
eccitazione sessuale ricorrente e intensa derivante da scatologia telefonica (telefonate oscene), necrofilia
(cadaveri), zoofilia (animali), coprofilia (feci), clismafilia (clisteri) o urofilia (urine).
 Predilezione per attività inconsuete, dove sono presenti tutti quei disturbi che rappresentano un
particolare scostamento dalle fasi del corteggiamento.
 Predisposizione per l'atipicità dell'oggetto sessuale, dove l'interesse e l'attenzione sono rivolti
verso altri esseri umani, ma anche dove il soggetto sperimenta un'attenzione intensa e persistente
rivolta altrove.
È possibile classificare le parafilie in base all’“atto” che sostituiscono, all’“oggetto” verso cui si indirizzano o
al “canale sensoriale” che viene sollecitato. Rispetto all’“atto”, le parafilie possono consistere nella
sostituzione del coito con pratiche di altro tipo. Rispetto all’“oggetto”, le parafilie possono consistere nella
surrogazione dell'oggetto normativo o nello spostamento della meta. Rispetto al “canale sensoriale”, le
parafilie possono implicare i seguenti canali sensoriali:
 canale visivo, l'eccitazione sessuale viene ricercata nell'esibizione o nell'osservazione;
 canale acustico/verbale, l'eccitazione è ottenuta mediante l'ascolto o il pronunciamento di parole
attinenti alla sessualità;
 canale olfattivo, l'eccitazione sessuale è data dalla percezione di odori;
 canale gustativo, l'eccitazione sessuale è perseguita tramite l'ingestione di escrezioni corporee;
 canale tattile, il piacere sessuale è dato dalla pratica di attività corporee inusuali.
Secondo il DSM-5, il disturbo pedofilico è caratterizzato da eccitazione sessuale, manifestata attraverso
fantasie, desideri o comportamenti, per un periodo di almeno 6 mesi, che comportano attività sessuale con
un bambino in età prepuberale o con bambini. I comportamenti d’abuso sessuale possono includere tutte
le attività di sfruttamento o di gratificazione sessuale, anche in assenza di intimidazioni, di forza fisica e di
contatto sessuale, che coinvolgono un bambino. Queste attività sono di solito giustificate o razionalizzate
sostenendo che hanno valore educativo o che il bambino prova piacere sessuale. I pedofili presentano
deficit metacognitivi e cognitivi che comportano difficoltà a regolare la propria condotta. Inoltre i pedofili
hanno una serie di credenze distorte e bias attribuzionali capaci di favorire e promuovere condotte di
abuso sessuale nei confronti dei bambini. Credono che i bambini desiderino avere un contatto sessuale con
loro, in quanto fonte di piacere; che tale contatto sia un modo buono per un adulto di insegnare il sesso ad
un bambino; che un giorno la società capirà che il rapporto sessuale tra un adulto e un bambino è una cosa
giusta. Queste distorsioni cognitive promuovono una sorta di “narcisismo sessuale”, in quanto il pedofilo si

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sente “qualificato”, legittimato, in pieno diritto a mettere in atto un comportamento sessuale nei confronti
della vittima.
Disturbo voyeuristico. Eccitazione derivante dall’osservare, a sua insaputa, una persona nuda o che si sta
spogliando o che è impegnata in attività sessuali. Di solito non viene ricercata nessuna attività sessuale con
la persona. L’orgasmo di solito indotto dalla masturbazione può sorgere durante l’attività voyeuristica o
dopo in risposta al ricordo.
Disturbo esibizionistico. Eccitazione derivante dall’esibizione dei propri genitali a una persona a sua
insaputa. Qualche volta il soggetto si masturba mentre si mostra. Se il soggetto mette in atto questi impulsi,
solitamente non vi sono tentativi di ulteriore attività con l’estraneo.
Disturbo frotteuristico. Eccitazione derivante dal toccare, o strusciarsi contro, una persona non
consenziente. Il comportamento di solito si manifesta in posti affollati da cui il soggetto può facilmente
sottrarsi all’arresto.
Disturbo da masochismo sessuale. Eccitazione derivante dall’atto di essere umiliato, percosso, legato o
fatto soffrire in altro modo. Una forma particolare e pericolosa si chiama “ipossifilia” implica eccitazione
sessuale da deprivazione di ossigeno.
Disturbo da sadismo sessuale. Eccitazione derivante dalla sofferenza fisica o psicologica di un’altra
persona. Gli atti possono comportare il bendare, l’imprigionamento, il pizzicare, torturare, mutilare.
Disturbo feticistico. Eccitazione derivante dall’uso di oggetti inanimati o da un interesse molto specifico per
parti del corpo non genitali. Il soggetto si masturba mentre tiene in mano, si strofina, o annusa l’oggetto
feticistico, oppure può chiedere al partner sessuale di indossare l’oggetto durante l’incontro sessuale.
Disturbo da travestitismo. Eccitazione derivante dal cross-dressing, cioè dall’indossare indumenti del sesso
opposto.

CAPITOLO 35: DISTURBI DELL’IDENTITÀ DI GENERE


I disturbi dell’identità di genere riguardano, appunto, l’identità di genere, ovvero l’esperienza personale del
proprio genere sessuale, indipendentemente dal fatto che sia allineato alle categorie di genere sessuale
socialmente accettate. Il genere è la gamma di caratteristiche che riguardano mascolinità e femminilità.
Queste caratteristiche includono il sesso biologico (cioè lo stato fisico di essere maschio, femmina o una
variazione intersessuale), il ruolo di genere (cioè comportamenti e atteggiamenti socialmente accettati in
base al sesso) e l’identità di genere (cioè l’esperienza personale del proprio genere sessuale). Il ruolo di
genere è un ruolo sociale che comprende una serie di comportamenti e atteggiamenti che sono
generalmente considerati accettabili, appropriati o desiderabili per le persone in base al loro sesso o alla
loro sessualità effettivi o percepiti. L'Organizzazione Mondiale della Sanità definisce i ruoli di genere come
ruoli socialmente costruiti, comportamenti, attività e attributi che una determinata società considera
appropriati per uomini e donne. Sono il risultato di idee costruite socialmente riguardo al comportamento,
alle azioni e ai ruoli che un particolare sesso compie. I ruoli di genere coincidenti con i ruoli basati sul sesso
sono stati la norma in molte società tradizionali, sebbene le componenti specifiche e il funzionamento del
sistema genere/sesso per la divisione dei ruoli vari marcatamente da società a società.
L’identità di genere è l’esperienza personale del proprio genere sessuale. Tutte le società hanno una serie
di categorie di genere che possono servire come base per la formazione dell'identità sociale di una persona
in relazione agli altri membri della società. I ruoli di genere sono di solito centrati su concezioni di
femminilità e mascolinità. Nella maggior parte delle società esiste una divisione di base tra attributi di
genere assegnati a maschi e femmine. Le persone che non si identificano come uomini o donne, o con
pronomi di genere maschile o femminile o con alcuni, o tutti, gli altri aspetti del genere assegnati al loro
sesso biologico, sono raggruppati sotto termini generici come “variazione di genere”, “transgender”, ecc. Il
processo di sviluppo dell'identità di genere può essere concettualizzato in tre fasi:

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o nell’infanzia e in età prescolare i bambini apprendono le caratteristiche definite che sono aspetti
socializzati del genere;
o intorno ai 5-7 anni l'identità è consolidata e diventa rigida;
o dopo questo "picco di rigidità" l'identità di genere ritorna ad essere più fluida e i ruoli di genere
definiti socialmente si ammorbidiscono un po’.
I fattori biologici che influenzano l'identità di genere sono rappresentati soprattutto dalle influenze
genetiche e da quelle ormonali prima e dopo la nascita. I fattori sociali che possono influenzare l'identità di
genere includono idee riguardanti i ruoli di genere veicolati dalla famiglia, figure autorevoli, mass-media.
Quando i bambini vengono cresciuti da individui che aderiscono a ruoli di genere rigorosi, è più probabile
che si comportino allo stesso modo, abbinando la loro identità di genere ai corrispondenti modelli di genere
stereotipati.
Disforia di genere nei bambini. Una marcata incongruenza tra il genere esperito e il genere assegnato, che
si manifesta attraverso almeno sei dei seguenti criteri: un forte desiderio di appartenere al genere opposto;
una forte preferenza per il travestimento con abbigliamento tipico del genere opposto; una forte
preferenza per i ruoli tipicamente legati al genere opposto nei giochi di fantasia; una forte preferenza per
giocattoli, giochi o attività stereotipicamente utilizzati dal genere opposto; una forte preferenza per
compagni di gioco del genere opposto; un forte rifiuto per giocattoli, giochi e attività del proprio genere;
una forte avversione per la propria anatomia sessuale; un forte desiderio per le caratteristiche sessuali
corrispondenti al genere esperito.
Disforia di genere negli adolescenti e negli adulti. Una marcata incongruenza tra il genere esperito e il
genere assegnato, che si manifesta attraverso almeno due dei seguenti criteri: una marcata incongruenza
tra il genere esperito e le caratteristiche sessuali primarie o secondarie; un forte desiderio di liberarsi delle
proprie caratteristiche sessuali primarie o secondarie a causa di una marcata incongruenza con il genere
esperito; un forte desiderio per le caratteristiche sessuali primarie o secondarie del genere opposto; un
forte desiderio di appartenere al genere opposto; un forte desiderio di essere trattato come appartenente
al genere opposto; una forte convinzione di avere i sentimenti e le reazioni tipici del genere opposto.
La disforia di genere è un problema psicologico che si verifica quando c'è un persistente senso di
discrepanza tra la propria identità di genere e il sesso biologico. Tale sensazione di discrepanza ed
eventualmente di conflitto crea un senso di angoscia e sofferenza psicologica alla persona in quanto
quest’ultima percepisce se stessa come persona sessualmente diversa rispetto a ciò che ci si aspetta che sia
sulla base del sesso biologico e del genere sessuale che è stato assegnato alla nascita. Alcune persone con
disforia di genere possono essere molto a disagio con il loro corpo e possono provare un forte desiderio di
liberarsi dei propri caratteri sessuali primari o secondari o di possedere caratteri sessuali primari o
secondari del genere sessuale opposto. Per tali motivi si sottopongono a trattamenti ormonali o interventi
chirurgici al fine di transitare parzialmente o completamente al genere sessuale desiderato.

CAPITOLO 36: DISTURBO PARANOIDE DI PERSONALITÀ


Il disturbo paranoide di personalità è caratterizzato da una persistente e irrealistica tendenza a
interpretare le intenzioni e le azioni degli altri come umilianti o minacciose. Secondo il DSM-5 il disturbo
paranoide di personalità è caratterizzato da diffidenza e sospettosità pervasive nei confronti degli altri,
tanto che le loro intenzioni vengono interpretate come malevole, che iniziano nella prima età adulta e sono
presenti in svariati contesti, come indicato da quattro (o più) dei seguenti elementi: sospetta, senza
fondamento, di essere sfruttato, danneggiato o ingannato dagli altri; dubita della lealtà o affidabilità di
amici o colleghi; è riluttante a confidarsi con gli altri a causa del timore ingiustificato che le informazioni
possano essere usate in modo maligno contro di lui; legge significati nascosti umilianti o minacciosi in
osservazioni o eventi benevoli; porta costantemente rancore; percepisce attacchi al proprio ruolo o

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reputazione non evidenti agli altri ed è pronto a reagire con rabbia o a contrattaccare; sospetta in modo
ricorrente della fedeltà del coniuge o del partner sessuale. Le persone con disturbo paranoide sono in
genere abbastanza vigili, tendono a interpretare situazioni ambigue come minacciose e sono pronte a
prendere precauzioni contro le minacce percepite. Spesso sono percepite dagli altri come polemiche,
testarde, difensive e non disposte a scendere a compromessi. Oltre al disturbo paranoide di personalità,
diversi altri disturbi sono caratterizzati da un pensiero “paranoico”: si tratta di schizofrenia di tipo
paranoide, disturbo delirante di tipo persecutorio e, eventualmente, disturbi dell’umore con caratteristiche
psicotiche. Ognuno di questi altri disturbi è caratterizzato da deliri paranoidi persistenti e altri sintomi
psicotici. Al contrario, il disturbo paranoide di personalità è caratterizzato da una tendenza ingiustificata a
percepire le azioni degli altri come intenzionalmente minacciose o umilianti, ma è privo di persistenti
caratteristiche psicotiche. Un individuo con disturbo paranoide di personalità può sperimentare periodi
transitori di pensiero delirante durante i periodi di stress ma non manifesta il pensiero delirante
persistente. Le persone con disturbo paranoide hanno una forte tendenza a incolpare gli altri per problemi
interpersonali; di solito possono citare molte esperienze che sembrano giustificare le loro convinzioni sugli
altri, sono pronte a negare o minimizzare i loro problemi e spesso hanno scarso riconoscimento dei modi in
cui il loro comportamento contribuisce ai loro problemi.
Questi individui sono cresciuti in famiglie a loro volta paranoiche, basate su atteggiamenti di vigilanza
dinanzi a potenziali minacce vissute però come reali e sempre imminenti. In queste famiglie le prime
interazioni con i genitori insegnavano al bambino: “Devi stare attento agli altri”, “Sei diverso dagli altri”,
“Devi stare attento a non commettere errori”. L’individuo con disturbo paranoide sviluppa la propria
personalità attorno a tre assunti di base: “Le persone sono malevoli e ingannevoli”, “Ti attaccheranno se ne
avranno la possibilità” e “Puoi stare bene solo se rimani sull’attenti”. Una tale iper-vigilanza riguardo a
segnali di intenzioni malevole produce un effetto collaterale non voluto. Se si è vigili riguardo ad ogni
minima indicazione che gli altri siano ingannevoli e maliziosi, si osservano rapidamente molte azioni da
parte di altri che sembrano sostenere l’opinione che le persone non possano essere considerate affidabili.
L’iper-vigilanza dell’individuo con disturbo paranoide non fa altro che produrre prove sostanziali a sostegno
delle sue supposizioni sulla natura umana. Il terzo fattore che caratterizza la concettualizzazione cognitiva
del disturbo paranoide di personalità è l’autoefficacia. L’individuo con disturbo paranoide dubita della sua
capacità di affrontare efficacemente gli altri. Poiché il pericolo più importante è visto come proveniente
dagli altri, l’individuo con disturbo paranoide è in allerta rispetto ai segnali di pericolo o di inganno durante
le interazioni interpersonali, costantemente alla ricerca di segnali sottili che rivelino le vere intenzioni
dell’individuo. Poiché l’individuo crede di essere stato trattato ingiustamente ed è convinto che in futuro
verrà trattato male, è poco incentivato a trattare bene gli altri, eccetto che per la paura della loro
rappresaglia. Quando l’individuo con disturbo paranoide si sente abbastanza potente da resistere alla
rappresaglia da parte degli altri, può esibire gli stessi atti malvagi, ingannevoli e ostili che si aspetta di
ricevere dagli altri.
La psicoterapia cognitivo-comportamentale per il disturbo paranoide di personalità prevede
l’identificazione e la modifica di schemi, credenze disfunzionali di base e distorsioni cognitive che
caratterizzano il pensiero paranoide:
 assunti di base: “Le persone sono malevoli e ingannevoli”, “Ti attaccheranno se ne avranno la
possibilità” e “Puoi stare bene solo se rimani sull’attenti”;
 bias attribuzionali: tendenza ad attribuire intenzioni malvagie agli altri;
 deficit del senso di autoefficacia e delle capacità di coping: scarsa fiducia nella capacità di far
fronte efficacemente a specifici problemi o situazioni che si presentano;
 iper-vigilanza riguardo a segnali di intenzioni malevole e allerta rispetto ai segnali di pericolo o di
inganno durante le interazioni interpersonali;

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 aspettative negative sugli altri: aspettarsi inganni, raggiri e danni nelle interazioni interpersonali;
 aspettative distorte riguardo le interazioni interpersonali: atteggiamento guardingo e difensivo
mentre si interagisce con gli altri, reazioni eccessive a piccoli offese e tendenza al contrattacco;
 tendenza a rifiutare interpretazioni “ovvie” delle azioni degli altri e a cercare il significato “reale”
sottostante fino a quando non viene trovata un’interpretazione coerente con i propri preconcetti;
 mondo in cui “homo homini lupus”: tendenza a non poter mostrare qualsiasi debolezza per non
andare a cercarsi gli attacchi e, quindi, tendenza ad occultare accuratamente i segni delle proprie
emozioni e intenzioni, le proprie insicurezze, le proprie carenze e i propri problemi attraverso
l’inganno, la negazione, le scuse o incolpando gli altri;
 bias attribuzionale dell’intenzionalità: ogni mancanza di rispetto o maltrattamento ricevuti sono
intenzionali, ovvero sono stati compiuti dagli altri con l’unico intento di danneggiare l’individuo con
disturbo paranoide;
 cicli interpersonali basati sulla convinzione di essere sempre trattato ingiustamente e in maniera
sleale dagli altri e che in futuro verrà sempre trattato male.

CAPITOLO 37: DISTURBO SCHIZOIDE DI PERSONALITÀ


Secondo il DSM-5 il disturbo schizoide di personalità è un pattern pervasivo di distacco dalle relazioni
sociali e una gamma ristretta di espressioni emotive in situazioni interpersonali, che inizia entro la prima
età adulta ed è presente in svariati contesti, come indicato da quattro (o più) dei seguenti elementi: non
desidera né prova piacere nelle relazioni affettive, incluso il far parte di una famiglia; quasi sempre sceglie
attività individuali; dimostra poco o nessun interesse di avere esperienze sessuali con un’altra persona;
prova piacere in poche o nessuna attività; non ha amici stretti o confidenti, eccetto i parenti di primo grado;
sembra indifferente alle lodi o alle critiche degli altri; mostra freddezza emotiva, distacco o affettività
appiattita. La principale caratteristica osservata negli individui con disturbo schizoide di personalità è la
mancanza di rapporti sociali e l’indifferenza verso le relazioni interpersonali. C’è un modello pervasivo di
distacco dalle relazioni sociali in tutti i contesti.
Il disturbo schizoide di personalità è visto lungo il continuum dei disturbi dello spettro schizofrenico e
condivide alcuni sintomi con la schizofrenia. È stato ipotizzato che il disturbo schizoide di personalità possa
costituire l’inizio della schizofrenia o, in alcuni casi, una forma molto lieve di schizofrenia. La persona con
disturbo schizoide di personalità, rispetto alla persona che ha sviluppato una schizofrenia, è
completamente in contatto con la realtà e ha capacità di insight. La persona con disturbo schizoide di
personalità, rispetto alla persona che ha sviluppato una schizofrenia, non presenta allucinazioni né deliri e
non presenta nemmeno sintomi catatonici. Il disturbo schizoide di personalità tende a condividere, almeno
in parte, i sintomi cosiddetti “negativi” della schizofrenia. Infatti, la persona con disturbo schizoide di
personalità, come la persona che ha sviluppato una schizofrenia, presenta, in parte o secondo un livello
inferiore di gravità o pervasività, una serie di sintomi che rappresentano deficit delle normali risposte
emotive o di altri processi di pensiero e che sono anche definiti “negativi” (ovvero che hanno un qualcosa in
meno), come una sfera affettiva piatta o poco accentuata, povertà del linguaggio (alogia), incapacità di
provare piacere (anedonia), mancanza di desiderio di formare relazioni (asocialità) e la mancanza di
motivazione (abulia). Tuttavia, gli stessi sintomi negativi difficilmente raggiungono nella persona con
disturbo schizoide di personalità gli stessi livelli di gravità che caratterizzano invece la persona con
schizofrenia. Gli individui con disturbo schizoide di personalità sono spesso descritti dagli altri come
distanti, freddi, non interessati, ritirati e distaccati. Sono più impegnati nell’introspezione e nella fantasia e
possono essere inclini a sognare eccessivamente ad occhi aperti, tendendo a preferire la solitudine. Non
partecipano, almeno in maniera così frequente, ad attività per divertimento o piacere, hanno un senso di
indifferenza per la lode e l’affermazione così come per la critica o il rifiuto e sono indifferenti anche alle

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norme e aspettative sociali. Possono apparire lenti e letargici. Il linguaggio è spesso lento e monotono e con
poca espressività. L’umore che presentano è generalmente moderatamente negativo, senza cambiamenti
marcati, positivi o negativi.
Negli individui con disturbo schizoide di personalità è spesso presente una serie di esperienze precoci in cui
i temi del rifiuto da parte dei pari e del bullismo sono fattori importanti. Accanto a tali esperienze negative,
l’individuo si è spesso trovato nella situazione di essere visto come diverso dagli altri membri più prossimi
della famiglia o in qualche modo sminuito rispetto agli altri. In seguito a queste esperienze complessive,
l’individuo con disturbo schizoide di personalità è arrivato ad avere una visione di sé come differente dagli
altri in senso negativo, una visione degli altri come scortesi e inutili, e una visione dell’interazione sociale
come difficile e dannosa. Da bambino, solitamente è stato timido e riservato e veniva preso in giro
duramente a scuola. Solitamente è stato solitario fin dall’infanzia. Nel corso di uno sviluppo psicosociale di
questo tipo, l’individuo con disturbo schizoide di personalità tende a formare le seguenti credenze su se
stesso: “Sono diverso”, “Sono un solitario”, “Sono strano”. Parallelamente, tende a formare le seguenti
credenze sugli altri: “Le persone sono crudeli”, “Le relazioni con le persone non sono qualcosa di
appagante”, “Gli altri non mi gradiscono”, nonché credenze sul mondo del tipo “Il mondo è ostile”. Sulla
base di tali credenze tende a sviluppare assunti condizionali del tipo “Se provo a fare amicizia con gli altri,
questi si accorgeranno che sono diverso e mi derideranno”, “Se parlo ad altri, noteranno quanto sono
noioso e mi rifiuteranno”.

CAPITOLO 38: DISTURBO SCHIZOTIPICO DI PERSONALITÀ


Il disturbo schizotipico di personalità è caratterizzato dalla tendenza ad avere comportamenti, stile di
pensiero, credenze, percezioni o esperienze eccentrici, strani, paranormali o inconsueti. Secondo il DSM-5 il
disturbo schizotipico di personalità è un pattern pervasivo di deficit sociali e interpersonali caratterizzato da
disagio acuto e ridotte capacità riguardanti le relazioni affettive, da distorsioni cognitive e percettive ed
eccentricità di comportamento, che inizia entro la prima età adulta ed è presente in svariati contesti, come
indicato da cinque (o più) dei seguenti elementi: idee di riferimento; credenze strane o pensiero magico che
influenzano il comportamento e sono in contrasto con le norme subculturali; esperienze percettive insolite,
incluse illusioni corporee; pensiero ed eloquio strani (per es., vago, circostanziale, metaforico, iperbolato);
sospettosità o ideazione paranoide; affettività inappropriata o limitata; comportamento o aspetto strani,
eccentrici o peculiari; nessun amico stretto o confidente, eccetto i parenti di primo grado; eccessiva ansia
sociale, che non diminuisce con l’aumento della familiarità e tende a essere associata a preoccupazioni
paranoidi piuttosto che a un giudizio negativo di sé. Gli individui con disturbo schizotipico di personalità
possono essere gravemente provati dai sintomi cognitivi e percettivi del disturbo. Sono solitamente assorti
nella fantasia o nelle loro preoccupazioni e sono spesso sospettosi o paranoici, credendo che le persone
parlino di loro o che siano pronte a fare loro del male. Le percezioni distorte, in particolare le allucinazioni,
non sono un sintomo comune e sono più solite essere presenti come forme di esperienze corporee insolite;
comunque, tutti i tipi di esperienza percettiva distorta sono in linea spesso con le credenze riguardo a
questioni paranormali.
Il disturbo schizotipico di personalità è visto lungo il continuum dei disturbi dello spettro schizofrenico e
condivide alcuni sintomi con la schizofrenia. La persona con disturbo schizotipico di personalità, rispetto
alla persona che ha sviluppato una schizofrenia, è completamente in contatto con la realtà e ha capacità di
insight, per cui conserva la consapevolezza dei propri problemi psichici. Rispetto alla persona che ha
sviluppato una schizofrenia, non presenta nemmeno sintomi catatonici né sintomi cognitivi rilevanti, come
deficit di attenzione, di memoria, della capacità di elaborare nuove informazioni, della capacità di
risoluzione dei problemi e della capacità di prendere decisioni nonché deficit della funzione esecutiva. In
generale, il disturbo schizotipico di personalità tende a condividere, in un certo modo, i sintomi “positivi”

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(deliri e allucinazioni) della schizofrenia. Tuttavia le persone con disturbo schizotipico di personalità hanno
idee distorte e percezioni distorte, che solo raramente sono tali da costituire veri e propri deliri e vere e
proprie allucinazioni. Il disturbo schizotipico di personalità tende a condividere, almeno in parte, anche i
sintomi “negativi” della schizofrenia. Infatti, la persona con disturbo schizotipico di personalità, come la
persona che ha sviluppato una schizofrenia, presenta, in parte o secondo un livello inferiore di gravità o
pervasività, una serie di sintomi che rappresentano deficit delle normali risposte emotive o di altri processi
di pensiero e che sono anche definiti “negativi”, come una sfera affettiva piatta o poco accentuata, povertà
del linguaggio (alogia), incapacità di provare piacere (anedonia), mancanza di desiderio di formare relazioni
(asocialità) e la mancanza di motivazione (abulia).
Negli individui con disturbo schizotipico di personalità è spesso presente una serie di esperienze precoci in
cui i temi del rifiuto da parte dei pari e del bullismo sono fattori importanti. Potrebbero aver vissuto
nell’infanzia maltrattamenti fisici oppure abusi sessuali, che li ha portati a considerarsi diversi, cattivi o
anormali e potrebbero aver avuto altre vere esperienze di persecuzione. L’individuo con disturbo
schizotipico di personalità tende ad essere sospettoso riguardo alle altre persone che crede parlino di lui e
intendano ferirlo. Tende ad avere come strategie di difesa il ricorso a credere che esistano angeli custodi
oppure potrebbe parlare con un familiare defunto per cercare conforto in seguito ad esperienze negative
accadute oppure iniziare a credere a fenomeni magici o paranormali. In seguito alle esperienze negative
complessivamente accadute nel corso della vita, come interazioni disfunzionali con i genitori, traumi e
maltrattamenti subiti da genitori o dai pari, l’individuo con disturbo schizotipico di personalità è arrivato ad
avere credenze su se stesso come privo di valore, vulnerabile e poco interessante. Parallelamente, tende a
formare credenze sugli altri come pericolosi e di cui non fidarsi, nonché credenze sul mondo come ostile.
Sulla base di tali credenze tende a sviluppare assunti condizionali del tipo “Se faccio amicizia con gli altri,
allora mi rifiuteranno”, “Se io sono molto diverso, allora le altre persone si accorgono di me”, “Se ho
esperienze insolite, allora posso essere importante”.

CAPITOLO 39: DISTURBO ANTISOCIALE DI PERSONALITÀ


Il disturbo antisociale di personalità è caratterizzato da una pervasiva tendenza a mentire o a manipolare
gli altri e a non conformarsi alle norme sociali in assenza di rimorso o preoccupazione per quanto fatto ai
danni degli altri. Secondo il DSM-5 il disturbo antisociale di personalità è un pattern pervasivo
caratterizzato da inosservanza e violazione dei diritti degli altri, che si manifesta fin dall’età di 15 anni, come
indicato da tre (o più) dei seguenti elementi: incapacità di conformarsi alle norme sociali per quanto
riguarda il comportamento legale; disonestà, come indicato dal mentire ripetutamente, usare falsi nomi o
truffare gli altri; impulsività o incapacità di pianificare; irritabilità e aggressività come indicato da ripetuti
scontri o aggressioni fisiche; noncuranza sconsiderata della sicurezza propria o degli altri; irresponsabilità
abituale, come indicato dalla ripetuta incapacità di sostenere un’attività lavorativa continuativa o di far
fronte a obblighi finanziari; mancanza di rimorso. Da bambini, coloro che sviluppano questo disturbo spesso
hanno difficoltà con l’autorità, sono crudeli con gli animali e sono descritti come bulli dai loro pari. Gli
individui con questo disturbo sono spesso descritti come privi di coscienza. Non provano rimpianti o rimorsi
per le loro azioni dannose e non appaiono preoccupati per i diritti degli altri. Spesso agiscono in modo
impulsivo e non riescono a considerare le conseguenze delle loro azioni. Mostrano aggressività e irritabilità
che spesso portano a comportamenti violenti. Hanno difficoltà a provare empatia per gli altri.
Sociopatia. Le caratteristiche solitamente indicate in letteratura relativamente alla persona sociopatica
sono: è egocentrica; ottiene autostima dal potere, dal guadagno personale o dal piacere; stabilisce obiettivi
basati sulla gratificazione personale con scarso riguardo per la legge o l’etica; manca di empatia quando si
confronta con il dolore o con la rabbia delle persone che ha manipolato; è incapace di avere una relazione
emotivamente intima a causa dell’istinto di costringere, ingannare o controllare; manipola emotivamente

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gli altri; mente per ottenere guadagni o vantaggi sociali; reagisce senza rimorso, con insensibilità, con
aggressività o persino con sadismo quando viene messo di fronte alle conseguenze negative delle sue
azioni. Gli individui descritti come sociopatici sono manipolativi, spesso mentono, mancano di empatia e
hanno una coscienza debole che consente loro di agire in modo avventato o aggressivo, anche quando
sanno che il loro comportamento è sbagliato. Sono spesso amanti del rischio, facilmente annoiati, tanto che
sono in grado di ignorare i limiti personali e giustificare anche le azioni più oltraggiose.
Il termine psicopatia è usato in letteratura in riferimento ad un modello caratterizzato da una completa
mancanza di coscienza nei confronti degli altri. La persona psicopatica viene solitamente indicata come una
persona che può apparire normale, persino affascinante. Sotto, gli mancano la coscienza e l’empatia,
rendendolo manipolatore, volatile, “freddo” rispetto ai diritti degli altri e spesso criminale. Lo psicopatico è
un individuo che non solo è antisociale, ma è anche narcisista.
Alcune caratteristiche di personalità caratterizzano la tendenza dell’antisociale a cercare la gratificazione
immediata e l’eccitazione. Negli individui antisociali gli obiettivi di ordine superiore e i vincoli morali sono
solo vagamente sviluppati, se non addirittura assenti. Sono spinti principalmente dalla necessità di
gratificazione immediata. Per gli antisociali, la noia si riferisce a qualsiasi periodo di tempo privo di
opportunità di stimolo a breve termine. Questo potrebbe spiegare l’uso di sostanze. L’effetto delle sostanze
è relativamente istantaneo e fornisce fonti di stimolazione generate internamente che distraggono dal
vuoto del presente o riempiono il presente attraverso percezioni generate artificialmente. Per molti
antisociali il modo migliore per alleviare la noia è suscitare un po’ di eccitazione. Il disturbo è mantenuto da
alcune credenze fondamentali organizzate intorno alla necessità di considerarsi forti e indipendenti. Poiché
il mondo è visto come un luogo ostile, la sopravvivenza richiede credenze fondamentali orientate alla
sopravvivenza, come “Devo badare a me stesso” e “Se non sono l’aggressore, allora sarò la vittima”. Gli
antisociali hanno schemi disadattivi di deprivazione emotiva, diritto/grandiosità, sfiducia/abuso,
vulnerabilità al danno e isolamento sociale, che sono il risultato di necessità emotive insoddisfatte da
bambini e che contengono credenze disfunzionali su di sé. Tre di questi schemi (deprivazione emotiva,
sfiducia/abuso e isolamento sociale) cadono nel dominio “disconnessione/rifiuto”. Poiché questo dominio è
concettualizzato come derivante dai bisogni insoddisfatti di una persona circa l’amore, la sicurezza, la
stabilità e il nutrimento, si può presumere che l’individuo con disturbo antisociale di personalità si consideri
come non amabile, più solo, e più respinto rispetto alle persone normali.

CAPITOLO 40: DISTURBO BORDERLINE DI PERSONALITÀ


Il disturbo borderline di personalità è caratterizzato dalla notevole instabilità che pervade molti, se non
tutti, gli aspetti del funzionamento degli individui, incluse le relazioni, l’immagine di sé, l’affetto e il
comportamento. Secondo il DSM-5 il disturbo borderline di personalità è un pattern pervasivo di instabilità
delle relazioni interpersonali, dell’immagine di sé e dell’umore e una marcata impulsività, che inizia entro la
prima età adulta ed è presente in svariati contesti, come indicato da cinque (o più) dei seguenti elementi:
sforzi disperati per evitare un reale o immaginario abbandono; relazioni interpersonali instabili e intense,
caratterizzate dall’alternanza tra gli estremi di iperidealizzazione e svalutazione; alterazione dell’identità:
immagine di sé o percezione di sé marcatamente e persistentemente instabili; impulsività in almeno due
aree che sono potenzialmente dannose per il soggetto (es., spese sconsiderate, sesso promiscuo, abuso di
sostanze, guida spericolata, abbuffate, ...); ricorrenti comportamenti, gesti o minacce suicidari, o
comportamento automutilante; instabilità affettiva dovuta a una marcata reattività dell’umore; sentimenti
cronici di vuoto; rabbia inappropriata, intensa, o difficoltà a controllare la rabbia; ideazione paranoide
transitoria, associata allo stress, o gravi sintomi dissociativi.
Paura dell’abbandono: credere che gli altri stiano sul punto di lasciarli quando non è affatto così. Le
persone con disturbo borderline spesso si comportano in modo tale da cercare rassicurazione sul fatto che

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l’altra persona si preoccupa ancora di loro (per esempio, tenersi fisicamente aggrappati agli altri quando
questi cercano di andarsene).
Relazioni instabili: è comune l’alternare idealizzazione e svalutazione nelle relazioni. Una relazione può
iniziare nella fase di idealizzazione, quando la persona con disturbo borderline si sente intensamente
connessa e positiva con un’altra persona. Quando emerge la fase di svalutazione, tuttavia, la persona con
disturbo borderline può vedere l’altra persona come priva di valore, cattiva o indifferente. Una relazione
con qualcuno con disturbo borderline è comunemente caratterizzata da alti e bassi, sfiducia, dipendenza.
Deficit dell’identità: la stessa instabilità nelle relazioni può anche applicarsi all’immagine di sé o al senso di
sé. Una persona con disturbo borderline può credere in un certo momento di essere una persona
realizzata, tranne poi, in un altro momento, essere estremamente auto-denigratoria o dura con se stessa.
Impulsività: molte persone con disturbo borderline mettono in atto comportamenti impulsivi, come
rapporti sessuali con partner conosciuti solo superficialmente, abuso di droghe o alcool, atti devianti, azioni
spericolate, sport estremi, ecc., che sono altamente rischiosi in quanto portano spesso ad avere problemi di
salute, relazionali o con la legge.
Autolesionismo o suicidio: alcuni individui con disturbo borderline mettono in atto comportamenti auto
lesivi, che sono tentativi di liberarsi dal dolore emotivo o da intensi sentimenti di disagio.
Instabilità emotiva: tendono ad avere cambiamenti di umore intensi e frequenti. Una persona con disturbo
borderline può passare da apparire tranquillo a sentirsi sconvolto in pochi minuti o addirittura secondi.
Senso di vuoto: una persona con disturbo borderline spesso sente un senso di vuoto cronico che può
portare a un dramma emotivo.
Rabbia intensa e comportamento aggressivo: Le persone con disturbo borderline tendono a provare una
rabbia intensa che è più forte della situazione e che solo a volte esprimono apertamente sotto forma di
aggressione fisica.
Gli individui con disturbo borderline sono caratterizzati da una disfunzione nella regolazione delle emozioni
che causa sia una forte reazione a eventi stressanti che un lungo periodo di tempo prima che le emozioni
ritornino alla condizione di base. L’ambiente della persona borderline era disconfermante. Risposte
rifiutanti, punitive o errate alle reazioni emotive del bambino avrebbero contribuito ai problemi che gli
individui borderline hanno nel regolare, comprendere e tollerare le loro reazioni emotive. Quattro modalità
di schema (modelli organizzati di pensiero, sentimento e comportamento) sono fondamentali nel disturbo:
 La modalità “bambino abusato e/o abbandonato” denota lo stato disperato in cui l’individuo con
disturbo borderline può trovarsi conseguentemente all’abbandono o all’abuso che potrebbe aver
vissuto da bambino. “Il mio dolore emotivo non finirà mai”.
 La modalità “genitore punitivo”. L’individuo con disturbo borderline sembra condannare se stesso
come cattivo e malvagio, meritevole di punizione. Espressioni di emozioni, opinioni e desideri
negativi venivano solitamente puniti dai suoi genitori.
 La modalità “bambino arrabbiato e/o impulsivo” denota uno stadio di rabbia infantile o di
impulsività auto-gratificante.
 La modalità “protezione distaccata” è una sorta di stile protettivo che il bambino ha sviluppato per
sopravvivere in un mondo pericoloso.
Tre assunti di base sono centrali nel disturbo borderline: “Il mondo è pericoloso e malevolo”, “Sono
impotente e vulnerabile” e “Sono intrinsecamente inaccettabile”. Altre due caratteristiche cognitive sono
centrali nel disturbo borderline: il cosiddetto “pensiero dicotomico” e un senso di identità debole. In
particolare, il pensiero dicotomico riguarda la tendenza a pensare in modo estremo. Le persone con
disturbo borderline spesso hanno difficoltà a vedere la complessità nelle persone e nelle situazioni e non
sono in grado di riconoscere che le cose spesso non sono né perfette né orribili, ma sono una via di mezzo.

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La psicoterapia cognitivo-comportamentale per il disturbo borderline di personalità prende di mira gli


assunti e prevede l’identificazione e la modifica di schemi, credenze disfunzionali di base e distorsioni
cognitive che caratterizzano il disturbo:
 credenze di base circa se stessi e circa gli altri;
 assunti di base;
 ipervigilanza;
 sfiducia interpersonale e comportamento interpersonale instabile ed estremo;
 scarso senso di identità;
 pensiero dicotomico: tendenza a pensare in modo estremo;
 reazioni emotive inadeguate, in particolare l’espressione scarsamente controllata di impulsi e
comportamenti auto-lesivi e auto-mutilanti. L’obiettivo è portare il paziente ad acquisire abilità
nella tolleranza e regolazione delle emozioni e convalidare le proprie reazioni emotive.
 credenze e presupposti o assunti di base sottostanti la modalità di schema “bambino abusato e/o
abbandonato” (le altre persone sono malevoli, di loro non ti ci puoi fidare e ti abbandoneranno o ti
puniranno, specialmente se hai con loro un rapporto molto intimo);
 credenze e presupposti o assunti di base sottostanti la modalità di schema “genitore punitivo”
(“Sono cattivo e merito di essere punito”; “Le mie opinioni / I miei desideri / Le mie emozioni sono
cattive”; “Non ho diritto ad esprimere le mie opinioni / i miei desideri / le mie emozioni”);
 credenze e presupposti o assunti di base sottostanti la modalità di schema “bambino arrabbiato
e/o impulsivo” (“I miei diritti di base sono insoddisfatti”; “Le altre persone sono cattive e
meschine”; “Devo combattere, o semplicemente prendere ciò di cui ho bisogno, per sopravvivere”);
 credenze e presupposti o assunti di base sottostanti la modalità “protezione distaccata” (non ha
senso provare emozioni e connettersi con altre persone; è persino pericoloso provare emozioni e
connettersi con altre persone; essere distaccati è l’unico modo per sopravvivere e controllare la
propria vita).

CAPITOLO 41: DISTURBO ISTRIONICO DI PERSONALITÀ


Il disturbo istrionico di personalità è caratterizzato da eccessiva emotività e ricerca di attenzione. Gli
individui con questo disturbo sono eccessivamente preoccupati dell’attrattiva fisica, sono spesso
apertamente seducenti e sono più a loro agio quando sono al centro dell’attenzione. Secondo il DSM-5 il
disturbo istrionico di personalità è un pattern pervasivo di emotività eccessiva e di ricerca di attenzione,
che inizia entro la prima età adulta ed è presente in svariati contesti, come indicato da cinque (o più) dei
seguenti elementi: è a disagio in situazioni nelle quali non è al centro dell’attenzione; l’interazione con gli
altri è spesso caratterizzata da inappropriato comportamento sessualmente seduttivo o provocante;
manifesta un’espressione delle emozioni rapidamente mutevole e superficiale; utilizza costantemente
l’aspetto fisico per attirare l’attenzione su di sé; lo stile dell’eloquio è eccessivamente impressionistico e
privo di dettagli; mostra autodrammatizzazione, teatralità ed espressione esagerata delle emozioni; è
suggestionabile; considera le relazioni più intime di quanto non siano realmente. Le emozioni degli individui
istrionici sono espresse intensamente, ma sembrano esagerate o poco convincenti, come se l’individuo
svolgesse un ruolo drammatico. Si vestono spesso in modi che possono attirare l’attenzione, indossando
vestiti con stili sorprendenti e provocanti con colori vivaci e un uso eccessivo di accessori e di cosmetici. Il
loro comportamento è eccessivamente reattivo e intenso. Le loro relazioni interpersonali sono
compromesse e sono percepite dagli altri come superficiali, esigenti, eccessivamente dipendenti e
bisognosi di molta assistenza. I rapporti interpersonali tendono ad essere burrascosi e non gratificanti. A
causa della loro dipendenza dall’attenzione delle altre persone, sono particolarmente vulnerabili all’ansia
da separazione.

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Gli schemi sottostanti degli individui con disturbo istrionico di personalità implicano una visione di sé come
bisognosi di essere notati dagli altri e una visione del mondo come fornitore di cure e considerazioni
speciali perché la vita rende nervosa la persona istrionica.
Lo schema del “tutto dovuto/egocentrismo” fa riferimento al nucleo di credenze secondo cui la persona
istrionica crede che ha il diritto di prendere o ricevere tutto ciò che vuole indipendentemente dal costo per
gli altri o per la società. Lo schema di deprivazione emotiva fa riferimento al nucleo di credenze secondo
cui il proprio bisogno di attenzione amorevole e di supporto emotivo non sarà mai soddisfatto dagli altri. Gli
individui con disturbo istrionico di personalità hanno quattro stili.
 Gli individui istrionici hanno uno stile affettivo incline ad emozioni superficiali e sovramodulate.
 Lo stile comportamentale è caratterizzato dalla tendenza ad essere sfocati e incoerenti.
 Per quanto riguarda lo stile relazionale, tendono ad avere difficoltà a relazionarsi con gli altri se
non in modo superficiale e manipolativo. Inoltre, tendono ad avere deficit empatici.
 Lo stile cognitivo è caratterizzato da pensiero impressionistico e vivacità di immaginazione.
Lo stile di pensiero caratteristico della persona istrionica conduce a molte distorsioni cognitive. Gli individui
istrionici sono soggetti alla distorsione nota come pensiero dicotomico, ovvero la tendenza a pensare in
modo estremo. L’individuo istrionico reagisce con forza e improvvisamente, saltando a conclusioni estreme
sia positive che negative. Quindi, una persona viene considerata immediatamente come meravigliosa
mentre un’altra come completamente orribile. Sono anche inclini alla distorsione cognitiva
dell’ipergeneralizzazione, ovvero la tendenza a fare una regola dopo un singolo evento o una serie di
coincidenze. Sono anche soggetti alla distorsione del ragionamento emotivo, ovvero la tendenza a
giudicare se stessi o le proprie circostanze in base alle proprie emozioni. L’istrionismo femminile sembra
essere stato ricompensato fin dalla tenera età per carineria, attrattiva fisica e fascino. L’istrionismo
maschile è ricompensato per virilità, forza e potere.
La psicoterapia cognitivo-comportamentale per il disturbo istrionico di personalità prevede l’identificazione
e la modifica di schemi, credenze, presupposti e assunti disfunzionali di base e distorsioni cognitive che
caratterizzano il disturbo:
 assunti di base (“Sono inadeguato e incapace di gestire la vita da solo, per cui devo trovare il modo
di convincere gli altri a prendersi cura di me”);
 credenza di base (è necessario essere amati da tutti per tutto ciò che si fa);
 paura del rifiuto;
 senso di inadeguatezza personale che porta a ricerca di attenzione finalizzata ad ottenere
approvazione;
 incapacità di usare competenze e capacità sociali appropriate per attirare l’attenzione degli altri;
 deficit nella capacità di provare empatia;
 assenza di un chiaro senso di identità personale;
 distorsioni cognitive: pensiero dicotomico, ipergeneralizzazione, ragionamento emotivo;
 schemi sottostanti di sé: schema del “tutto dovuto/egocentrismo”, schema di deprivazione
emotiva.

CAPITOLO 42: DISTURBO NARCISISTICO DI PERSONALITÀ


Secondo il DSM-5 il disturbo narcisistico di personalità è un pattern pervasivo di grandiosità, necessità di
ammirazione e mancanza di empatia, che inizia entro la prima età adulta ed è presente in svariati contesti,
come indicato da cinque (o più) dei seguenti elementi: ha un senso grandioso di importanza; è assorbito da
fantasie di successo, potere, fascino, bellezza illimitati, o di amore ideale; crede di essere “speciale” e unico
e di poter essere capito solo da, o di dover frequentare, altre persone speciali o di classe sociale elevata;
richiede eccessiva ammirazione; ha l’irragionevole aspettativa di speciali trattamenti di favore o di

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soddisfazione immediata delle proprie aspettative; sfrutta i rapporti interpersonali; manca di empatia: è
incapace di riconoscere o di identificarsi con i sentimenti e le necessità degli altri; è spesso invidioso degli
altri, crede che gli altri lo invidino; mostra comportamenti o atteggiamenti arroganti e presuntosi. Il
disturbo di personalità narcisistico è un modello ampio di considerazione distorta di sé e degli altri.
Sebbene sia normale e sano assumere un atteggiamento positivo verso se stessi, le persone narcisiste
mostrano una visione esagerata di sé come speciali e superiori. Tuttavia, il narcisismo, piuttosto che una
forte fiducia in se stessi, riflette l’auto-preoccupazione di darsi molta importanza. Il narcisista è molto attivo
e competitivo nella ricerca dello status, poiché i segni esteriori dello status sono usati come misura del
valore personale. Quando gli altri non riescono a convalidare lo status speciale della persona narcisistica,
questa è incline a considerare ciò come un maltrattamento intollerabile. Il fallimento nell’attestazione di
essere superiore attiva le credenze sottostanti di inferiorità, scarsa importanza o impotenza e le strategie
compensative di autoprotezione e autodifesa.
Le persone con disturbo narcisistico hanno la credenza di base di essere inferiori o di poco valore o
importanza. Questa credenza è attivata solo in determinate circostanze e quindi può essere osservata
principalmente in risposta a condizioni di minaccia all’autostima. Al contrario, la credenza manifesta della
persona narcisista è un atteggiamento compensatorio di superiorità. Gli individui con disturbo narcisistico,
invece di imparare ad accettare e padroneggiare i sentimenti di inferiorità normali e transitori, hanno
imparato che queste esperienze sono da considerarsi come minacce da sconfiggere. Le altre persone
vengono viste come potenti e il loro riconoscimento e convalida sono cruciali per il senso di valore
personale. Allo stesso tempo, fa parte della strategia compensatoria narcisistica essere vigile per gli errori
degli altri e associarsi solo a persone che riflettono la sua immagine più positiva e superiore. Apparire in
maniera negativa, sentirsi male, perdere uno status speciale o affrontare i propri limiti sono tutte minacce
percepite all’immagine di sé (“insulto narcisistico”).
Evidenza di superiorità. La persona narcisistica presume che determinate circostanze o beni tangibili
forniscano evidenza e convalida di superiorità, status speciale e importanza. Tale prova potrebbe includere
l’influenza sulla comunità, il livello di reddito, l’attrattiva fisica, simboli materiali (beni di lusso).
Le relazioni sono strumenti. Le altre persone sono viste come oggetti o strumenti nella ricerca di
riconoscimento. Il valore degli altri dipende dal modo in cui possono servire alla persona narcisistica.
Potere e diritto (pensare che tutto sia dovuto) come prova di superiorità, come mezzo per controllare gli
altri. Gli individui narcisisti possono essere abbastanza giudicanti, supponenti e forti nella comunicazione,
perché credono che le persone superiori abbiano un giudizio superiore.
Preservazione dell’immagine. Le persone narcisistiche credono che “l’immagine è tutto”, perché è
l’armatura dell’autostima. La mancanza di un bell’aspetto o di ammirazione è causa di estremo disturbo,
poiché questo può innescare ruminazioni e paure rabbiose e dubbiose associate a credenze centrali
negative.
Contributo meritorio. Gli individui narcisistici tendono a creare un mercato di opportunità personali
esagerando i bisogni e le debolezze degli altri e abbellendo le proprie virtù e meriti. “Hanno bisogno di me”.
Affetti e sentimenti. Gli individui narcisistici sembrano sovrastimare le implicazioni negative di emozioni
come tristezza, senso di colpa e incertezza vedendo questi affetti come debolezze personali che minacciano
la loro immagine positiva di sé.
La psicoterapia cognitivo-comportamentale per il disturbo narcisistico di personalità prevede
l’identificazione e la modifica di schemi, credenze, presupposti e assunti disfunzionali di base e distorsioni
cognitive che caratterizzano il disturbo:
 Credenza di base di essere inferiori o di poco valore o importanza.
 Credenze compensatorie di superiorità.
 Schema di se stesso come bisognoso di essere speciale e superiore per sfuggire all’inferiorità.

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 Presupposti e assunti disfunzionali: evidenza di superiorità, le relazioni sono strumenti, potere e


diritto, preservazione dell’immagine, contributo meritorio, affetti e sentimenti.

CAPITOLO 43: DISTURBO DIPENDENTE DI PERSONALITÀ


Il disturbo dipendente di personalità è caratterizzato da una tendenza pervasiva alla dipendenza e alla
sottomissione. Secondo il DSM-5 il disturbo dipendente di personalità è una necessità pervasiva ed
eccessiva di essere accuditi, che determina comportamento sottomesso e dipendente e timore della
separazione, che inizia entro la prima età adulta ed è presente in svariati contesti, come indicato da cinque
(o più) dei seguenti elementi: ha difficoltà a prendere le decisioni quotidiane senza un’eccessiva quantità di
consigli e rassicurazioni; ha bisogno che altri si assumano le responsabilità per la maggior parte dei settori
della sua vita; ha difficoltà ad esprimere disaccordo verso gli altri per il timore di perdere supporto o
approvazione; ha difficoltà a iniziare progetti o a fare cose autonomamente (per una mancanza di fiducia in
sé); può giungere a qualsiasi cosa pur di ottenere accudimento e supporto da altri, fino al punto di offrirsi
per compiti spiacevoli; si sente a disagio o indifeso quando è solo a causa dell’esagerato timore di essere
incapace di prendersi cura di sé; quando termina una relazione intima, cerca con urgenza un’altra relazione
come fonte di accudimento e di supporto; si preoccupa in modo non realistico di essere lasciato a prendersi
cura di sé. L’individuo con disturbo dipendente di personalità tende ad essere passivo, sottomesso, schivo e
docile. Ha un forte bisogno di affetto dagli altri; tende a credere e a fidarsi ciecamente degli altri, con
l’aspettativa che la sua fiducia e il suo attaccamento saranno premiati. Preferisce che altri prendano
decisioni importanti al suo posto e tende ad essere sempre d’accordo con le altre persone per evitare
conflitti. Mettendo la loro vita sotto il controllo degli altri, soffocano i loro partner perché eccessivamente
legati. Quando una relazione si dissolve definitivamente, la loro autostima è devastata. Gli attacchi di
panico possono accadere mentre si aspettano o temono nuove responsabilità che non credono di poter
gestire. Le fobie tendono a suscitare attenzione e protezione dagli altri, comportando guadagni secondari.
Il disturbo dipendente di personalità può essere concettualizzato come caratterizzato da una serie di
assunti e di distorsioni cognitive organizzati attorno al criterio secondo cui l’individuo con personalità
dipendente, dinanzi a fattori di stress legati all’autosufficienza e all’essere solo, ha bisogno che gli altri si
assumano la responsabilità per la maggior parte delle aree principali della sua vita. Gli schemi sottostanti
degli individui con disturbo dipendente di personalità generalmente implicano una visione di sé di
debolezza, deficienza e inadeguatezza. Lo schema di dipendenza/incompetenza fa riferimento al nucleo di
credenze secondo cui l’individuo non è in grado di gestire le responsabilità quotidiane in modo competente
e in modo indipendente e quindi deve fare affidamento sugli altri per prendere decisioni e avviare nuove
attività. Lo schema di realizzazione fallita si riferisce all’insieme delle credenze secondo cui l’individuo non
può avere prestazioni come gli altri, e quindi nessun tentativo di azione viene fatto per paura di fallire.
Questi schemi sono supportati da credenze come: “Sono indifeso quando sono lasciato solo”; “Qualcuno
deve essere sempre nei paragi per aiutarmi a fare ciò che devo fare o nel caso qualcosa vada storto”. Tali
credenze sono legate ad alcuni assunti di base. In primo luogo, gli individui con disturbo dipendente di
personalità si considerano inadeguati e indifesi e, quindi, incapaci di affrontare il mondo da soli. Vedono il
mondo come un luogo solitario o persino pericoloso che non potrebbero gestire da soli. In secondo luogo,
arrivano alla conclusione secondo cui la soluzione al dilemma di essere persone inadeguate che vivono in
un mondo spaventoso è cercare di trovare qualcuno che sembri in grado di gestire la loro vita. Gli individui
con disturbo dipendente di personalità hanno quattro stili che esacerbano e sono esacerbati dai loro
schemi:
o Gli individui dipendenti hanno uno stile affettivo incline a sovrastimare l’ansia;
o Lo stile comportamentale è caratterizzato dall’evitare di fare danni. Per cui sono notevolmente
inibiti e difficilmente prendono l’iniziativa o agiscono in maniera indipendente;

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o Per quanto riguarda lo stile relazionale, gli individui dipendenti sono così iper-dipendenti dagli altri,
con un bisogno così grande di compiacere gli altri, che non hanno sviluppato competenze adeguate
nella comunicazione assertiva, nella negoziazione o nella risoluzione dei conflitti;
o Lo stile cognitivo degli individui dipendenti è di valutazione cognitiva acritica e di percezione
ingenua della capacità e del desiderio degli altri di prendersi cura di loro.
Lo stile di pensiero caratteristico della persona dipendente conduce a diverse distorsioni cognitive, in
particolare, il pensiero dicotomico, ovvero la tendenza a pensare in modo estremo, e il “catastrofismo”,
ovvero la tendenza ad aspettarsi che accada il peggio. La principale distorsione cognitiva è il pensiero
dicotomico riguardo all’indipendenza, per cui gli individui dipendenti credono di essere o completamente
indifesi e dipendenti o totalmente indipendenti e soli, senza gradazioni intermedie. Un’altra distorsione
cognitiva è il pensiero dicotomico riguardo alle proprie capacità, per cui gli individui dipendenti credono
che o fanno le cose “bene” o sono completamente “sbagliati”, incapaci e falliti. Gli individui dipendenti
tendono anche a mostrare la distorsione cognitiva del catastrofismo, specialmente quando si tratta della
perdita di una relazione. Le credenze di base e le distorsioni cognitive del disturbo dipendente di
personalità portano a pensieri automatici come “Non posso”, “Non sarei mai in grado di farlo”.
La psicoterapia cognitivo-comportamentale per il disturbo dipendente di personalità prevede
l’identificazione e la modifica di:
 Assunti di base;
 Credenza di base;
 Pensieri automatici;
 Pensiero dicotomico riguardo all’indipendenza ( “Non posso sopravvivere senza che qualcuno si
prenda cura di me”);
 Pensiero dicotomico riguardo alle proprie capacità;
 Catastrofismo (specialmente quando si tratta della perdita di una relazione);
 Schemi sottostanti di sé:
 schema di dipendenza/incompetenza;
 schema di realizzazione fallita (fa riferimento al nucleo di credenze secondo cui la persona
dipendente non può avere prestazioni come gli altri).

CAPITOLO 44: DISTURBO EVITANTE DI PERSONALITÀ


Il disturbo evitante di personalità è caratterizzato da un pervasivo evitamento comportamentale, emotivo
e cognitivo, anche quando obiettivi o desideri personali vengono vanificati da tale evitamento. Secondo il
DSM-5 il disturbo evitante di personalità è un pattern pervasivo di inibizione sociale, sentimenti di
inadeguatezza e ipersensibilità al giudizio negativo come indicato da quattro (o più) dei seguenti elementi:
evita attività lavorative che implicano un significativo contatto interpersonale per timore di essere criticato,
disapprovato o rifiutato; è riluttante a entrare in relazione con persone, a meno che non sia certo di
piacere; mostra limitazioni nelle relazioni intime per timore di essere umiliato o ridicolizzato; si preoccupa
di essere criticato o rifiutato in situazioni sociali; è inibito in situazioni interpersonali nuove per sentimenti
di inadeguatezza; si vede come socialmente inetto, personalmente non attraente o inferiore agli altri; è
insolitamente riluttante ad assumere rischi personali o a impegnarsi in qualsiasi nuova attività, poiché
questo può rivelarsi imbarazzante. Le persone con disturbo evitante di personalità esprimono il desiderio di
affetto, accettazione e amicizia, ma spesso hanno pochi amici e condividono con questi solo poco della
propria intimità. Desiderano essere più vicini ad altre persone, ma in genere hanno pochi rapporti sociali, in
particolare quelli intimi.
Gli individui con personalità evitante di personalità hanno delle credenze di base disfunzionali. Credono di
non essere piacevoli. Da bambini potrebbero aver avuto una persona significativa che era molto critica nei

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loro confronti e dalla quale venivano rifiutati. Hanno pertanto sviluppato determinati schemi dalle
interazioni con quella persona, come “Sono inadeguato”, “Ho qualcosa che non va”, “ Non sono piacevole “.
In seguito all’interazione da bambini con queste persone critiche o rifiutanti hanno sviluppato una tendenza
eccessiva all’autocritica, per cui sperimentano una serie di pensieri automatici autocritici: “Non sono
attraente”, “Sono noioso”. I desideri futuri sono attribuiti a casualità o destino. Gli individui con personalità
evitante fanno spesso ricorso a scuse e razionalizzazioni per non fare ciò che è necessario per raggiungere i
loro obiettivi. Hanno una significativa paura del rifiuto. Temono continuamente che gli altri li trovino
carenti e li respingano. Il rifiuto è interpretato in modo molto personale, essendo causato esclusivamente
da carenze personali. Hanno sviluppato degli assunti sottostanti riguardo alle relazioni. Credono di non
essere piacevoli ma che se riescono a nascondere il loro vero io, possono essere in grado di ingannare gli
altri. Gli individui con personalità evitante compiono valutazioni errate delle reazioni degli altri. Hanno
sviluppato degli assunti sottostanti, ovvero supposizioni per spiegare le interazioni negative. Tendono ad
ignorare i dati positivi. Hanno spesso atteggiamenti disfunzionali nei confronti delle emozioni disforiche,
credono che se si lascino andare a provare stati emotivi disforici, saranno travolti. Tale evitamento è
rafforzato da una riduzione della disforia e quindi alla fine diventa radicato e automatico.
La psicoterapia cognitivo-comportamentale per il disturbo evitante di personalità prevede l’identificazione
e la modifica di credenze disfunzionali che interferiscono con il funzionamento sociale: credenze di base
disfunzionali su se stessi e sugli altri; pensieri automatici autocritici; assunti disfunzionali; scuse e
razionalizzazioni; assunti sottostanti il rifiuto; assunti sottostanti riguardo alle relazioni; valutazioni errate
delle reazioni degli altri (neutre o positive come anche quelle negative); assunti sottostanti le interazioni
negative e le interazioni positive; pensieri automatici (tendenza ad ignorare i dati positivi: pensare di aver
ingannato l’altra persona o che il giudizio dell’altra persona sia errato o basato su informazioni inadeguate);
credenze disfunzionali nei confronti delle emozioni disforiche.

CAPITOLO 45: DISTURBO OSSESSIVO-COMPULSIVO DI PERSONALITÀ


Il disturbo ossessivo-compulsivo di personalità è caratterizzato da una tendenza pervasiva alla rigidità, alla
testardaggine e ad essere eccessivamente moralisti e giudicanti. Secondo il DSM-5 il disturbo ossessivo-
compulsivo di personalità è un pattern pervasivo di preoccupazione per l’ordine, perfezionismo e controllo
mentale e interpersonale, a spese di flessibilità, apertura ed efficienza, che inizia entro la prima età adulta
ed è presente in svariati contesti, come indicato da quattro (o più) dei seguenti elementi: è preoccupato
per i dettagli, le regole, le liste, l’ordine, l’organizzazione o i programmi, al punto che va perduto lo scopo
principale dell’attività; mostra un perfezionismo che interferisce con il completamento dei compiti; è
eccessivamente dedito al lavoro e alla produttività, fino all’esclusione delle attività di svago e delle amicizie;
è eccessivamente coscienzioso, scrupoloso e intransigente in tema di moralità, etica o valori; è incapace di
gettare via oggetti consumati o di nessun valore, anche quando non hanno alcun significato affettivo; è
riluttante a delegare compiti o a lavorare con altri, a meno che non si sottomettano esattamente al suo
modo di fare le cose; adotta una modalità di spesa improntata all’avarizia, sia per sé che per gli altri; il
denaro è visto come qualcosa da accumulare in vista di future catastrofi; manifesta rigidità e testardaggine.
Gli individui con disturbo ossessivo-compulsivo di personalità sono piuttosto innaturali, artefatti e formali e
non particolarmente caldi o espressivi. Nel cercare di esprimersi correttamente, spesso rimuginano molto
su un argomento, assicurandosi di raccontare tutti i dettagli e considerare tutte le opzioni. Il contenuto del
discorso consisterà molto più di fatti e idee piuttosto che di sentimenti e preferenze. Al disturbo ossessivo-
compulsivo di personalità è comunemente associata l’ansia. Molti individui con disturbo ossessivo-
compulsivo di personalità rimuginano se stiano agendo bene o facendo la cosa sbagliata, il che spesso porta
all’indecisione e alla procrastinazione.

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I fattori di stress sono legati a situazioni non strutturate. L’individuo con disturbo ossessivo-compulsivo di
personalità riporta spesso che da bambino ha avuto un genitore (soprattutto la madre) critico e giudicante,
che aveva molte regole su ciò che è giusto e sbagliato e sul modo in cui le persone devono o non devono
comportarsi. Gli schemi sottostanti degli individui con disturbo ossessivo-compulsivo di personalità
contengono una visione di sé che implica avere la responsabilità di non commettere errori e una visione del
mondo come eccessivamente esigente e imprevedibile. Lo schema “inesorabile/sbilanciato” fa riferimento
al nucleo di credenze circa lo sforzo inflessibile di soddisfare le alte aspettative di se stessi a costo di
rinunciare alla felicità, alla salute e a relazioni soddisfacenti. Lo schema di inibizione emotiva fa riferimento
al nucleo di credenze secondo cui le emozioni e gli impulsi devono essere inibiti per non perdere
l’autostima o non nuocere agli altri. Lo stile affettivo è caratterizzato dalla tendenza a soffocare e isolare
emozioni e sentimenti. Lo stile comportamentale è caratterizzato dalla tendenza ad essere rigidi e
calcolatori, che, insieme alla tendenza a rimuginare, predispone gli individui con disturbo ossessivo-
compulsivo di personalità ad essere indecisi e a temporeggiare. Per quanto riguarda lo stile relazionale,
tendono ad essere inibiti e a disagio nelle relazioni interpersonali. Lo stile cognitivo è caratterizzato dalla
tendenza a rimuginare e a riflettere in maniera eccessiva, che li predispone ad essere ossessionati per i
dettagli e le minuzie e ad essere troppo preoccupati. Una distorsione cognitiva caratteristica importante di
questi individui è il pensiero dicotomico, ovvero la tendenza a pensare in modo estremo. Un’altra
distorsione cognitiva evidente nel disturbo ossessivo-compulsivo di personalità è il pensiero magico, ovvero
la tendenza a credere che i propri pensieri o le proprie azioni abbiano la capacità di controllare gli eventi.
La psicoterapia cognitivo-comportamentale per il disturbo ossessivo-compulsivo di personalità prevede
l’identificazione e la modifica di schemi, credenze, presupposti e assunti disfunzionali di base e distorsioni
cognitive che caratterizzano il disturbo: credenze di base; assunti di base; doverizzazioni ( “Devo prestare
attenzione ai dettagli”); pensiero dicotomico; pensiero magico; schemi sottostanti di sé e del mondo
(schema inesorabile/sbilanciato, schema di inibizione emotiva); stile affettivo, stile comportamentale, stile
relazionale, stile cognitivo.

CAPITOLO 46: DISABILITÀ INTELLETTIVE


L’intelligenza è una proprietà funzionale complessa della mente, che integra numerose capacità mentali,
come le capacità di ragionare, di risolvere problemi, di pensare astrattamente, di apprendere e di
comprendere le idee e il linguaggio. Una definizione tecnica di ciò che costituisce esattamente l’intelligenza,
che sia accettata e condivisa dalla stragrande maggioranza degli studiosi all’interno della comunità
scientifica, non è ancora disponibile. Maggiormente condivisa appare la posizione espressa da una task
force organizzata dall’American Psychological Association nel rapporto “Intelligence: Knowns and
Unknowns”, in cui viene riportato che “gli individui differiscono l’uno dall’altro nella loro capacità di
comprendere idee complesse, di adattarsi efficacemente all’ambiente, di apprendere dall’esperienza, di
impegnarsi in varie forme di ragionamento, di superare gli ostacoli attraverso le capacità di pensiero.
Sebbene queste differenze individuali possano essere sostanziali, non sono mai del tutto coerenti: le
prestazioni intellettuali di una determinata persona varieranno in occasioni diverse, in diversi domini,
secondo criteri diversi. I concetti di “intelligenza” sono tentativi di chiarire e organizzare questo insieme
complesso di fenomeni”. Le concettualizzazioni attuali tendono a suggerire che l’intelligenza sia da riferire al
livello di competenza di compiere le seguenti capacità:
 apprendere: l’acquisizione, la conservazione e l’uso della conoscenza è una componente
importante dell’intelligenza;
 riconoscere i problemi: per sfruttare le proprie conoscenze, le persone devono essere in grado di
identificare possibili problemi nell’ambiente che devono essere affrontati;

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 risolvere i problemi: le persone devono essere in grado di attingere a ciò che hanno appreso per
farsi venire in mente una soluzione utile per affrontare un problema che hanno identificato nel
mondo che li circonda.
Il termine “quoziente intellettivo” o punteggio “QI” rappresenta un valore numerico che esprime il livello
di intelligenza generale sottostante di una persona, che è alla base di specifiche capacità mentali, che
influenza le prestazioni ai test che misurano le capacità cognitive e che, quindi, può essere misurato usando
test standardizzati che misurano il quoziente intellettivo (test di intelligenza). Il concetto di “età mentale”
indica una serie di abilità che possiedono i bambini di una certa età.
L’intelligenza può essere considerata una capacità mentale generale, ampia e unitaria, un singolo fattore
dominante, spesso chiamato “intelligenza generale” o “fattore g”. Spearman riteneva che l’intelligenza
generale rappresentasse un fattore di intelligenza alla base di specifiche capacità mentali. Nonostante
l’esistenza di una capacità mentale generale, l’intelligenza contiene comunque un insieme di abilità,
attitudini e talenti relativamente indipendenti. Tra i precursori dell’esistenza di diversi tipi di intelligenza ci
fu lo psicologo americano Edward Thorndike che propose il concetto di “intelligenza sociale” definita come
la capacità di comprendere e gestire le relazioni con gli altri e di agire con saggezza nei rapporti umani. Tali
capacità venivano considerate non innate, bensì apprese da ogni individuo nel corso del tempo. Lo
psicologo americano Louis L. Thurstone ha proposto sette diverse capacità definite “capacità mentali
primarie”: comprensione verbale, ragionamento, velocità percettiva, abilità numerica, fluidità di parola,
memoria associativa, visualizzazione spaziale. Gardner definisce l’intelligenza come una competenza
umana che implica non una singola capacità generale, bensì un insieme di capacità di problem solving che
consentono all’individuo di risolvere problemi e acquisire nuove conoscenze. Gardner propone l’esistenza
di diverse intelligenze (“intelligenze multiple”). Ogni intelligenza rappresenta la capacità in un determinato
dominio per esempio, verbale, logico, interpersonale, ecc. Gardner concepisce l’esistenza di otto distinti tipi
di intelligenza basati su capacità e abilità che sono apprezzate in culture diverse: intelligenza visuo-
spaziale, intelligenza verbale-linguistica, intelligenza corporea-cinestetica, intelligenza logico- matematica,
intelligenza interpersonale, intelligenza musicale, intelligenza intrapersonale, intelligenza naturalistica.
Sternberg è l’autore della cosiddetta “Teoria tripartita dell’intelligenza”. L’intelligenza è un’attività
mentale diretta ad adattarsi, selezionare e modellare in maniera intenzionale gli ambienti del mondo reale
rilevanti per la propria vita. Sternberg ha proposto la cosiddetta “intelligenza di successo”, che comporta
tre diversi fattori: intelligenza analitica: capacità di risoluzione dei problemi; intelligenza creativa: capacità
di affrontare nuove situazioni utilizzando esperienze passate e competenze attuali; intelligenza pratica:
capacità di adattarsi a un ambiente che cambia. Salovey e Mayer sottopongono al mondo scientifico il
concetto di “intelligenza emotiva” in riferimento alla capacità di monitorare i sentimenti e le emozioni
proprie e altrui per discriminare tra loro e utilizzare le informazioni che ne derivano per guidare il proprio
pensiero e le proprie azioni.
La disabilità intellettiva (disturbo dello sviluppo intellettivo) è un disturbo con esordio nel periodo dello
sviluppo che comprende deficit del funzionamento sia intellettivo sia adattivo negli ambiti concettuali,
sociali e pratici. Devono essere soddisfatti i seguenti due criteri: deficit delle funzioni intellettive, come
ragionamento, problem solving, pianificazione, pensiero astratto, capacità di giudizio, apprendimento
scolastico e apprendimento dall’esperienza, confermati sia da una valutazione clinica sia da test di
intelligenza individualizzati, standardizzati; deficit del funzionamento adattivo che porta al mancato
raggiungimento degli standard di sviluppo e socioculturali di autonomia e di responsabilità sociale.
Livello di gravità: Lieve
o Ambito concettuale: nei bambini in età prescolare, possono non esserci anomalie concettuali
evidenti. Nei bambini in età scolare e negli adulti sono presenti difficoltà nell’apprendimento di
abilità scolastiche quali lettura, scrittura, capacità di calcolo, concetto del tempo o del denaro.

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o Ambito sociale: l’individuo è immaturo nelle interazioni sociali. Vi possono essere difficoltà nel
controllare emozioni e comportamento in modi adeguati all’età; è presente una limitata
comprensione del rischio nelle situazioni sociali.
o Ambito pratico: l’individuo può funzionare in maniera adeguata all’età per quanto concerne la cura
personale. Gli individui possono avere maggiormente bisogno di supporto nelle attività complesse
della vita quotidiana.
Livello di gravità: Moderato
o Ambito concettuale: le abilità concettuali dell’individuo restano marcatamente inferiori a quelle
dei coetanei. Nei bambini in età prescolare il linguaggio e le abilità prescolastiche si sviluppano
lentamente e sono notevolmente limitati rispetto a quelli dei coetanei. Negli adulti è richiesta
un’assistenza continua.
o Ambito sociale: l’individuo mostra marcate differenze rispetto ai coetanei nel comportamento
sociale e comunicativo. La capacità di giudizio sociale e di prendere decisioni è limitata, e il
personale di supporto deve assistere la persona nelle decisioni della vita.
o Ambito pratico: L’individuo può prendersi cura dei propri bisogni personali, sebbene sia necessario
un esteso periodo di insegnamento.
Livello di gravità: Grave
o Ambito concettuale: il raggiungimento di abilità concettuali è limitato. L’individuo in genere
comprende poco il linguaggio scritto o i concetti che comportano numeri, quantità, tempo e
denaro. Il personale di supporto fornisce un sostegno esteso nella risoluzione dei problemi durante
tutta la vita.
o Ambito sociale: il linguaggio parlato è abbastanza limitato per quanto riguarda il vocabolario e la
grammatica.
o Ambito pratico: l’individuo richiede un sostegno in tutte le attività della vita quotidiana. Non può
prendere decisioni responsabili riguardanti il proprio benessere o il benessere di altri. Nell’età
adulta la partecipazione a compiti domestici, attività ricreazionali e lavoro richiede assistenza e
supporto continuativi.
Livello di gravità: Estremo
o Ambito concettuale: le abilità concettuali in genere si riferiscono al mondo fisico piuttosto che ai
processi simbolici.
o Ambito sociale: l’individuo ha una comprensione molto limitata della comunicazione simbolica
nell’eloquio o nella gestualità. L’individuo esprime i propri desideri ed emozioni principalmente
attraverso la comunicazione non verbale, non simbolica.
o Ambito pratico: l’individuo è dipendente dagli altri in ogni aspetto della cura fisica, della salute e
della sicurezza quotidiane. Le azioni semplici con alcuni oggetti possono rappresentare la base per
la partecipazione ad alcune attività professionali in presenza di alti livelli di sostegno continuativo.

CAPITOLO 47: DISTURBI DELL’ETÀ EVOLUTIVA


Diversi disturbi psichici possono essere presenti nell’infanzia, nella fanciullezza o nell’adolescenza, senza
essere tuttavia esclusivi di tali fasi di vita, in quanto possono anche insorgere in età adulta (per esempio,
disturbo oppositivo provocatorio, disturbo d’ansia di separazione). Alcuni disturbi psichici insorgono
esclusivamente nell’infanzia o nella fanciullezza e sono catalogati nella categoria denominata “Disturbi del
neurosviluppo”.
Disabilità intellettiva. Deficit del funzionamento sia intellettivo sia adattivo negli ambiti concettuali, sociali
e pratici: deficit delle funzioni intellettive, come ragionamento, problem solving, pianificazione, pensiero
astratto, capacità di giudizio, apprendimento scolastico e apprendimento dall’esperienza, confermati sia da

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una valutazione clinica sia da test di intelligenza individualizzati; deficit del funzionamento adattivo che
porta al mancato raggiungimento degli standard di sviluppo e socioculturali di autonomia e di
responsabilità sociale. Senza un supporto costante, i deficit adattivi limitano il funzionamento in una o più
attività della vita quotidiana, come la comunicazione, la partecipazione sociale e la vita autonoma,
attraverso molteplici ambienti quali casa, scuola, ambiente lavorativo e comunità.
Ritardo globale dello sviluppo. Questa diagnosi è riservata agli individui di età inferiore ai 5 anni quando la
gravità clinica non può essere valutata in modo attendibile durante la prima infanzia. Questa categoria
viene diagnosticata quando un individuo non raggiunge le tappe attese dello sviluppo in varie aree del
funzionamento intellettivo, e si applica a individui incapaci di sottoporsi a valutazioni sistematiche del
funzionamento intellettivo, compresi i bambini che sono troppo piccoli per partecipare a test
standardizzati. Questa categoria richiede una rivalutazione diagnostica dopo un certo periodo di tempo.
Disturbo del linguaggio. Difficoltà persistenti nell’acquisizione e nell’uso di diverse modalità di linguaggio
dovute a deficit della comprensione o della produzione che comprendono i seguenti elementi: lessico
ridotto; limitata strutturazione delle frasi; compromissione delle capacità discorsive.
Disturbo fonetico-fonologico. Persistente difficoltà nella produzione dei suoni dell’eloquio che interferisce
con l’intelligibilità dell’eloquio o impedisce la comunicazione verbale di messaggi. L’alterazione causa
limitazioni dell’efficacia della comunicazione che interferiscono con la partecipazione sociale, il rendimento
scolastico.
Disturbo della fluenza con esordio nell’infanzia (balbuzie). Alterazioni della normale fluenza e della
cadenza dell’eloquio, che sono inappropriate per l’età dell’individuo e per le abilità linguistiche
caratterizzate dai seguenti elementi: ripetizioni di suoni e sillabe; prolungamenti dei suoni delle consonanti
così come delle vocali; interruzione di parole; blocchi udibili o silenti; circonlocuzioni; parole pronunciate
con eccessiva tensione fisica; ripetizioni di intere parole monosillabiche.
Disturbo della comunicazione sociale (pragmatica). Persistenti difficoltà nell’uso sociale della
comunicazione verbale e non verbale come manifestato da tutti i seguenti elementi: deficit dell’uso della
comunicazione per scopi sociali; compromissione della capacità di modificare la comunicazione al fine di
renderla adeguata al contesto o alle esigenze di chi ascolta; difficoltà nel seguire le regole della
conversazione e della narrazione; difficoltà nel capire ciò che non viene dichiarato esplicitamente e i
significati non letterali o ambigui del linguaggio.
Disturbo dello spettro dell’autismo. Deficit persistenti della comunicazione sociale e dell’interazione
sociale in molteplici contesti: deficit della reciprocità socio-emotiva, che vanno, per esempio, da un
approccio sociale anomalo a una ridotta condivisione di interessi, emozioni o sentimenti; deficit dei
comportamenti comunicativi non verbali utilizzati per l’interazione sociale, per esempio, anomalie del
contatto visivo e del linguaggio del corpo o dell’uso dei gesti a una totale mancanza di espressività facciale;
deficit dello sviluppo, della gestione e della comprensione delle relazioni. Pattern di comportamento,
interessi o attività ristretti, ripetitivi, come manifestato da almeno due dei seguenti fattori: movimenti, uso
degli oggetti o eloquio stereotipati o ripetitivi; insistenza nella sameness (immodificabilità), aderenza alla
routine priva di flessibilità o rituali di comportamento verbale o non verbale; interessi molto limitati, che
sono anomali per intensità o profondità; iper- o iporeattività in risposta a stimoli sensoriali o interessi
insoliti verso aspetti sensoriali dell’ambiente.
Disturbo da deficit di attenzione/iperattività.
Un pattern persistente di disattenzione e/o iperattività-impulsività caratterizzato da (1) e/o (2):
 Disattenzione: Sei (o più) dei seguenti sintomi: spesso non riesce a prestare attenzione ai
particolari o commette errori di distrazione nei compiti scolastici, sul lavoro o in altre attività; ha
spesso difficoltà a mantenere l’attenzione sui compiti o sulle attività di gioco; spesso non sembra
ascoltare quando gli si parla direttamente; spesso non segue le istruzioni e non porta a termine i

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compiti scolastici, le incombenze o i doveri sul posto di lavoro; ha spesso difficoltà a organizzarsi nei
compiti e nelle attività; spesso evita, prova avversione o è riluttante a impegnarsi in compiti che
richiedono sforzo mentale protratto; perde spesso gli oggetti necessari per i compiti o le attività;
spesso è facilmente distratto da stimoli esterni; è spesso sbadato nelle attività quotidiane.
 Iperattività e impulsività: Sei (o più) dei seguenti sintomi: spesso agita o batte mani e piedi o si
dimena sulla sedia; spesso lascia il proprio posto in situazioni in cui si dovrebbe rimanere seduti;
spesso scorrazza e salta in situazioni in cui farlo risulta inappropriato; è spesso incapace di giocare o
svolgere attività ricreative tranquillamente; è spesso “sotto pressione”, agendo come se fosse
“azionato da un motore”; spesso parla troppo; spesso “spara” una risposta prima che la domanda
sia stata completata; ha spesso difficoltà nell’aspettare il proprio turno; spesso interrompe gli altri
o è invadente nei loro confronti.
Disturbo specifico dell’apprendimento. Difficoltà di apprendimento e nell’uso di abilità scolastiche, come
indicato dalla presenza di almeno uno dei seguenti sintomi che sono persistiti per almeno 6 mesi: lettura
delle parole imprecisa o lenta e faticosa; difficoltà nella comprensione del significato di ciò che viene letto;
difficoltà nello spelling; difficoltà con l’espressione scritta; difficoltà nel padroneggiare il concetto di
numero, i dati numerici o il calcolo; difficoltà nel ragionamento matematico.
Disturbi del movimento
Disturbo dello sviluppo della coordinazione. L’acquisizione e l’esecuzione delle abilità motorie coordinate
risultano notevolmente inferiori rispetto a quanto atteso. Le difficoltà si manifestano con goffaggine così
come con lentezza e imprecisione nello svolgimento delle attività motorie.
Disturbo da movimento stereotipato. Comportamento motorio ripetitivo, apparentemente intenzionale ed
evidentemente afinalistico.
Disturbo di Tourette. Nel corso della malattia si sono manifestati a un certo punto sia tic motori multipli sia
uno o più tic vocali.
Disturbo persistente (cronico) da tic motori o vocali. Tic motori o vocali singoli o multipli sono stati
presenti durante la malattia, ma non tic sia motori che vocali.
Disturbo transitorio da tic. Tic motori e/o vocali singoli o multipli. I tic sono stati presenti per meno di 1
anno dall’esordio del primo tic.

CAPITOLO 48: AGGRESSIVITÀ E BULLISMO


L’aggressività è la tendenza da parte di un individuo ad agire in maniera tale da creare un danno alla
dignità, al benessere o alla salute sia a livello fisico che psichico di un altro individuo. L’aggressività fisica si
riferisce a comportamenti fisicamente maltrattanti che sono basati sull’uso della forza fisica al fine di
procurare sofferenza fisica alla vittima. L’aggressività psicologica concerne quelle forme non fisiche di
trattamento ostile nei confronti della vittima che hanno effetti negativi sul benessere psicologico di
quest’ultima, arrivando a creare situazioni di disagio psichico. L’aggressività sessuale include
comportamenti che coinvolgono la sessualità e che possono avere un desiderio di gratificazione per
l’aggressore ma che non hanno il consenso esplicito della vittima.
Bullismo fisico: è la forma più ovvia di bullismo. Si verifica quando i ragazzi usano atti fisici per ottenere
potere e controllo su altri ragazzi che rappresentano i loro bersagli. I bulli fisici tendono ad essere più
grandi, più forti e più aggressivi dei loro pari.
Bullismo verbale: gli autori di bullismo verbale usano parole, affermazioni e nomignoli per ottenere potere
e controllo su altri ragazzi che rappresentano i loro bersagli. In genere, i bulli verbali useranno in maniera
persistente insulti per sminuire, umiliare e ferire un’altra persona.
Bullismo relazionale (o bullismo emotivo): è un tipo di bullismo subdolo e insidioso che spesso passa
inosservato a genitori e insegnanti. È un tipo di manipolazione sociale in cui adolescenti e preadolescenti

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cercano di ferire i loro coetanei o sabotare la loro posizione sociale. I bulli relazionali spesso ostracizzano gli
altri da un gruppo, diffondono voci, manipolano situazioni e infrangono le confidenze.
Cyberbullismo: si verifica quando un ragazzo utilizza internet, uno smartphone o altra tecnologia per
molestare, minacciare, mettere in imbarazzo o prendere di mira un altro ragazzo.
Bullismo sessuale: consiste in azioni ripetute, dannose e umilianti che colpiscono una persona
sessualmente. Gli esempi includono chiamate sessuali, commenti e gesti volgari, contatti sessuali non
autorizzati, proposte a sfondo sessuale, invio di materiale pornografico. In casi estremi, il bullismo sessuale
apre le porte a violenze sessuali. Anche il cosiddetto “sexting” può portare al bullismo sessuale.
Bullismo pregiudizievole: si basa su pregiudizi che adolescenti e preadolescenti hanno nei confronti di
persone di razze, religioni o orientamenti sessuali diversi. Questo tipo di bullismo può comprendere tutti gli
altri tipi di bullismo, tra cui cyberbullismo, bullismo verbale, bullismo relazionale, bullismo fisico e talvolta
anche bullismo sessuale.
Aggressività strumentale: nota anche come aggressività pianificata, è caratterizzata da comportamenti
volti a raggiungere un obiettivo più grande. L’aggressività strumentale esiste proprio come mezzo per un
fine. I comportamenti strumentalmente aggressivi non sono inconsci bensì intenzionali e pienamente
deliberati. I comportamenti strumentalmente aggressivi sono “diretti allo scopo”, ovvero, correntemente e
direttamente regolati e controllati dallo scopo che è esplicitamente rappresentato nella mente
dell’individuo.
Aggressività automatica: nota anche come aggressività impulsiva, è una forma di aggressività che non è
pianificata e spesso è una risposta comportamentale a caldo, determinata dalla foga del momento, sulla
scia immediata degli eventi. I comportamenti aggressivi automatici, anziché essere deliberati e pianificati,
sono “orientati allo scopo”. Non sono “diretti allo scopo”, perché non sono né direttamente motivati,
monitorati e guidati da scopi né deliberati e necessariamente consci. Piuttosto, sono procedure semplici ed
automatiche che hanno comunque a che fare con gli scopi, e, dunque, comunque finalistici, in quanto volti
alla sopravvivenza. I comportamenti aggressivi automatici sono spesso promossi da alcuni meccanismi
psicologici, quali l’“effetto priming”, l’“effetto del falso consenso” e il “bias di attribuzione di ostilità”, una
serie di distorsioni cognitive, per esempio, “ipergeneralizzazione”, “pensiero dicotomico” e “visione a
tunnel”, possono influenzare il modo in cui le persone percepiscono certi eventi. Come risultato di un “bias
di attribuzione dell’ostilità”, le persone possono percepire malevolenza e ostilità nelle intenzioni e nelle
azioni di altre persone, anche quando malevolenza e ostilità non esistono affatto.
Disturbo esplosivo intermittente. Accessi comportamentali ricorrenti che rappresentano l’incapacità di
controllare gli impulsi aggressivi, come manifestato da uno dei seguenti: aggressione verbale o aggressione
fisica verso proprietà, animali o altre persone; re accessi comportamentali che implicano danneggiamento
o distruzione di proprietà e/o aggressione fisica che provoca lesioni ad animali o ad altre persone che si
verificano in un periodo di 12 mesi. Il grado di aggressività espresso durante gli accessi ricorrenti è
grossolanamente esagerato rispetto alla provocazione. Le ricorrenti esplosioni di aggressività non sono
premeditate e non hanno lo scopo di raggiungere qualche obiettivo concreto.
Disturbo della condotta. Un pattern di comportamento ripetitivo e persistente in cui vengono violati i diritti
fondamentali degli altri oppure le principali norme o regole sociali, che si manifesta con la presenza di
almeno tre dei seguenti 15 criteri in qualsiasi fra le categorie sottoindicate:
 Aggressione a persone e animali. Spesso fa il prepotente, minaccia o intimorisce gli altri; spesso dà
il via a colluttazioni; ha usato un’arma che può causare seri danni fisici ad altri; è stato fisicamente
crudele con le persone; è stato fisicamente crudele con gli animali; ha rubato affrontando
direttamente la vittima; ha costretto qualcuno ad attività sessuali.
 Distruzione della proprietà. Ha deliberatamente appiccato il fuoco con l’intenzione di causare seri
danni; ha deliberatamente distrutto proprietà altrui.

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 Frode o furto. È penetrato nell’abitazione, nel caseggiato o nell’automobile di qualcun altro; spesso
mente per ottenere vantaggi o favori o per evitare dei doveri; ha rubato articoli di valore senza
affrontare direttamente la vittima.
 Gravi violazioni di regole. Spesso, già prima dei 13 anni di età, trascorre la notte fuori, nonostante
le proibizioni dei genitori; si è allontanato da casa di notte almeno due volte mentre viveva nella
casa dei genitori o di chi ne faceva le veci, o una volta senza ritornare per un lungo periodo; spesso,
già prima dei 13 anni di età, marina la scuola.
Disturbo antisociale di personalità: un pattern pervasivo caratterizzato da inosservanza e violazione dei
diritti degli altri, che si manifesta fin dall’età di 15 anni, come indicato da tre (o più) dei seguenti elementi:
incapacità di conformarsi alle norme sociali per quanto riguarda il comportamento legale, come indicato dal
ripetersi di atti passibili di arresto; disonestà, come indicato dal mentire ripetutamente, usare falsi nomi o
truffare gli altri, per profitto o per piacere personale; impulsività o incapacità di pianificare; irritabilità e
aggressività, come indicato da ripetuti scontri o aggressioni fisiche; noncuranza sconsiderata della sicurezza
propria o degli altri; irresponsabilità abituale, come indicato dalla ripetuta incapacità di sostenere
un’attività lavorativa continuativa o di far fronte a obblighi finanziari; mancanza di rimorso, come indicato
dall’essere indifferenti o dal razionalizzare dopo avere danneggiato, maltrattato o derubato un altro.

CAPITOLO 49: DISFUNZIONE GENITORIALE


Il sistema di attaccamento riguarda i comportamenti di richiesta di accudimento che il bambino mette in
atto nei confronti del genitore. Il sistema di accudimento ha una base biologica e riguarda i comportamenti
di cura e protezione che il genitore mette in atto nei confronti del figlio. Una volta attivato il sistema,
vengono messi in atto tutta una serie di comportamenti che hanno lo scopo di soddisfare i bisogni del
bambino e assicurarne la sicurezza. Prendersi cura di un figlio costituisce un complesso di attività finalizzate
a promuovere e sostenere lo sviluppo psicofisico del bambino. Affinché si concretizzi un accrescimento
sano, armonioso ed adeguato all’età è necessario che si realizzi un buon adattamento tra stadio di crescita
e ambiente, tra esigenze del bambino e opportunità offerte dall’ambiente sociale. Pertanto, lo sviluppo
psicofisico del bambino richiede una serie di capacità e di abilità fisiche e psichiche da parte dei genitori che
consentano loro di svolgere un insieme di compiti concreti, altamente specializzati e funzionali alla
soddisfazione dei bisogni e degli obiettivi evolutivi correlati all’età del figlio (funzione genitoriale). Il modo
in cui i genitori svolgono questi compiti di cura funzionali ai bisogni e agli obiettivi evolutivi del figlio è
guidato dalla personalità del genitore, intesa come organizzazione complessa, dinamica e coerente di
variabili psicologiche possedute da un individuo che, insieme o isolatamente, in maniera consapevole o non
consapevole, influenzano i suoi comportamenti in varie situazioni.
I genitori “sicuri e flessibili” mettono in atto modalità di cura caratterizzate da disponibilità continua nei
confronti dei figli, favorendo cicli interpersonali basati sulla sicurezza e sulla fiducia reciproca. Questi
genitori credono sia possibile influenzare lo sviluppo dei figli e modificarne il comportamento. Hanno
un’autostima specifica al ruolo parentale alta, stabile, sufficientemente realistica e autentica, che li
predispone ad affrontare i compiti parentali in maniera sicura. Si percepiscono come genitori efficaci. Sono
costantemente sintonizzati sui bisogni e sugli obiettivi evolutivi dei figli, fornendo stimolazioni moderate e
appropriate. Sono molto coinvolti nelle questioni quotidiane dei figli, senza però risultare intrusivi.
I genitori “distanzianti e svalutanti” mettono in atto modalità di cura caratterizzate da disponibilità limitata
nei confronti dei figli, favorendo cicli interpersonali basati sull’evitamento e sulla distanza. Mostrano poco
entusiasmo verso i compiti parentali, in quanto prevedono di trarre poca soddisfazione dall’esercizio del
ruolo parentale. Si adattano a fatica all’arrivo del figlio, temendo di essere oppressi dalla sua presenza.
Riguardo al ruolo genitoriale, hanno bassi livelli di autostima e di autoefficacia. Sono meno affettuosi nei
confronti dei loro bambini. Per questo motivo preferiscono adottare uno stile di accudimento a distanza,

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caratterizzato da bassi livelli di sensibilità e sostegno emotivo e risposte poco intense alle manifestazioni di
disagio dei figli, apparendo freddi e distanti. Sono poco coinvolti nelle questioni quotidiane del figlio e
insufficientemente sintonizzati sui suoi bisogni e obiettivi evolutivi.
I genitori “preoccupati e incerti” mettono in atto modalità di cura caratterizzate da disponibilità incostante
nei confronti dei figli, favorendo cicli interpersonali basati sull’incertezza e sul controllo. Questi genitori
hanno un’autostima e un’autoefficacia specifiche al ruolo parentale instabili, che li predispongono a
performance incostanti. Hanno difficoltà a identificare e padroneggiare gli stati mentali propri e del figlio e
ad affrontare e gestire le situazioni difficili. A volte sono lontani, inarrivabili e poco responsivi, altre volte,
invece, rispondono in maniera eccessiva, diventando intrusivi, iperprotettivi e controllanti.
Quando gli schemi, e quindi le credenze, gli assunti, ecc., sono troppo rigidi o estremi possono portare a
bias attribuzionali o attentivi, distorsioni cognitive, ecc. tali da promuovere strategie parentali abnormi
(disfunzione genitoriale). Tali situazioni di disfunzione genitoriale sono solitamente favorite dalla presenza
di una o più condizioni individuali, relazionali o ambientali in grado di costituire un rischio (fattori di
rischio). Le cosiddette famiglie “multiproblematiche” o “ad alto rischio” presentano molteplici problemi di
salute psicofisica, comportamentale e sociale. Nelle famiglie multiproblematiche sia i genitori che i figli
tendono ad essere enormemente gravati dalle difficoltà presenti, con un rischio notevole di disagio psichico
e fisico sia nei genitori che nei figli e di condotte parentali inappropriate o talvolta abnormi, spesso
caratterizzate da trascuratezza e abuso. Nelle famiglie ad alto rischio la continuità intergenerazionale
riguarda anche lo stile genitoriale inadeguato, in particolare le condotte di trascuratezza e di abuso. Molti
genitori che abusano fisicamente o sessualmente o che trascurano i loro figli hanno avuto a loro volta
genitori abusanti o trascuranti e avranno figli che perpetueranno tali condotte. Definiamo “non risolti,
inermi e spaventanti” quei genitori che mettono in atto modalità di interazione con i figli incoerenti,
disorganizzate e abnormi, caratterizzate da asserzione di potere, aggressività e scarsa disponibilità nei
confronti dei figli, favorendo cicli interpersonali basati su paura, imprevedibilità, ostilità e controllo.

CAPITOLO 50: MALTRATTAMENTO E ABUSO


L’Organizzazione Mondiale della Sanità col termine “abuso di un minore” indica “ogni forma di
maltrattamento fisico e/o emotivo, abuso sessuale, trascuratezza o trattamento negligente o commerciale
o altro tipo di sfruttamento, che procura un danno reale o potenziale alla salute, alla sopravvivenza, allo
sviluppo o alla dignità di un bambino nel contesto di una relazione di responsabilità, fiducia o potere”.
Vengono distinte quattro forme generali di abuso:
 Abuso fisico, che si riferisce al procurare lesioni corporali in maniera non accidentale;
 Abuso sessuale, che include tutte le attività di sfruttamento o di gratificazione sessuale commesse
da un adulto e che coinvolgono bambini, anche in assenza di contatto sessuale;
 Trascuratezza, che comprende sia il fallimento nel fornire le cure essenziali sia la scarsa
supervisone;
 Abuso emotivo, che concerne quelle forme non fisiche di trattamento ostile e di molestia emotiva.
Queste categorie non sono affatto mutualmente esclusive, in quanto gli abusi sono solitamente multipli.
Capita molto spesso, infatti, che forme differenti di abuso si sovrappongano in una medesima condotta, per
cui un bambino abusato è spesso vittima di più condotte di abuso contemporaneamente. L’abuso è
solitamente anche cronico, in quanto è molto probabile che gli abusi vengano perpetrati in maniera
ripetuta nel tempo. Secondo statistiche ufficiali almeno un minore ogni cento è vittima di abuso. Di questi,
la stragrande maggioranza fa esperienza di trascuratezza che si contraddistingue come la forma più
praticata di abuso sui minori. Siccome le stime ufficiali riflettono soltanto i casi giunti all’attenzione
giudiziaria, i dati non ufficiali, provenienti da ricerche condotte su campioni della comunità, riportano stime
nettamente più elevate, sebbene con ampie differenze tra uno studio e l’altro. Avere stime attendibili è

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alquanto difficile per almeno tre motivi. In primo luogo, molte forme di abuso sono difficili da accertare.
L’ambiguità o l’imprecisione tanto delle definizioni di abuso quanto degli strumenti diagnostici fa sì che
alcune forme di abuso non sempre vengano riconosciute e considerate in quanto tali. In secondo luogo, le
vittime spesso tendono a non riconoscere un abuso o perché non sono in grado di comprendere il
comportamento subito o perché questo ha caratteristiche “ambigue”. In terzo luogo, esiste una forte
reticenza a raccontare gli abusi subiti e a cercare aiuto da parte delle vittime perché ricevono minacce o
regali, si vergognano o preferiscono dimenticare, si ha paura di mettere in crisi l’ambiente familiare.
È possibile distinguere tra fattori di rischio correlati:
o all’adulto abusante: età giovane, basso livello d’istruzione, relazione non biologica con il bambino,
bassi livelli di autostima, di autoefficacia e di controllo degli impulsi, mancanza di empatia,
aspettative irrealistiche o credenze distorte circa l’accudimento di un bambino e il suo sviluppo,
abuso di sostanze, storia di malattia mentale, di criminalità e di abusi perpetrati e subiti;
o al bambino: età, distraibilità, iperattività, impulsività, aggressività, mancanza di compliance alle
richieste dei genitori, problemi di salute, disabilità fisiche e psichiche, relazione non biologica con il
caregiver, nascita prematura o sottopeso o in seguito a gravidanza indesiderata, storia di abusi
subiti;
o all’ambiente: violenza coniugale, presenza di un solo genitore, numero elevato di figli nati molto
vicini tra loro, ambiente domestico sovraffollato e caotico, cambi continui di residenza, povertà,
disoccupazione, mancanza di supporto sociale, residenza in quartieri ad alto tasso di povertà e
criminalità.
Gli studi evidenziano che una certa percentuale di genitori o caregiver abusanti è stata a sua volta vittima di
abuso nella minore età. La trasmissione delle condotte di abuso potrebbe essere legata alla continuità
intergenerazionale di cognizioni distorte, schemi relazionali maladattivi e modelli disfunzionali di
accudimento e di attaccamento all’interno di una relazione abnorme.
I genitori “non risolti, inermi e spaventanti” mettono in atto modalità di interazione con i figli incoerenti,
disorganizzate e abnormi, caratterizzate da asserzione di potere, aggressività e scarsa disponibilità nei
confronti dei figli, favorendo cicli interpersonali basati su paura, imprevedibilità, ostilità e controllo.
Credenze distorte e aspettative irrealistiche circa la capacità del figlio di badare a se stesso e di
comprendere il significato o gli esiti delle sue azioni, predispongono questi genitori a considerare eventuali
errori o comportamenti negativi non come dovuti all’immaturità o a fattori situazionali, bensì come
intenzionali, attribuendo al figlio propositi ostili o tendenze provocatorie. In questi casi i genitori possono
reagire utilizzando una strategia disciplinare più severa nei confronti dei figli e diventando aggressivi o
francamente violenti. Questi genitori credono che il genitore debba avere il controllo assoluto sui figli e
ingaggiano una lotta per il potere ricorrendo a punizioni fisiche e ad atteggiamenti dominanti e ostili.

CAPITOLO 51: VIOLENZA ASSISTITA IN FAMIGLIA


Il tema della violenza assistita in famiglia è riferito al bambino che cresce in un ambiente familiare
caratterizzato da violenza che può anche coinvolgerlo direttamente o indirettamente. Il rischio di
psicopatologia per i bambini che vivono in ambienti familiari violenti aumenta in maniera esponenziale in
presenza di aggiuntivi fattori di rischio nella loro vita. La violenza, infatti, non è un evento isolato in queste
famiglie, le quali sono spesso caratterizzate da una molteplicità di avversità, tra cui, abuso di sostanze e
disturbi mentali tra i genitori, svantaggio sociale, isolamento, instabilità, criminalità e comportamenti
abusanti nei confronti dei figli. La contemporanea presenza di uno o più di questi fattori stressanti nella
famiglia tende ad aumentare il rischio di problemi psicologici dei figli, secondo un effetto “cumulativo”. La
violenza familiare esercita i suoi effetti negativi sul benessere dei figli sia in maniera diretta, come

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conseguenza dell’essere esposti ad una condizione traumatica, sia in maniera indiretta, in seguito al
malfunzionamento familiare e genitoriale che il clima conflittuale è in grado di generare.
In primo luogo, quando un bambino assiste alle scene di violenza tra i genitori, rimane profondamente
colpito dai loro stati emotivi negativi ai quali tenderà a conferire un significato. Egli vede i genitori litigare e
picchiarsi, ma non riesce a comprenderne il motivo e può pensare di essere lui la causa. In questi casi, sarà
portato a provare vergogna o sensi di colpa, o paura e terrore associati alla percezione di mancanza di aiuto
e alla preoccupazione per la propria sicurezza e per quella dei genitori. Quando le violenze sono
particolarmente gravi e l’esposizione alla violenza domestica assume i contorni di un’esperienza
particolarmente traumatica, aumenta significativamente il rischio di insorgenza di sintomi del disturbo
post-traumatico da stress. In alcuni casi i bambini possono dimenticare gli episodi a cui hanno assistito, il
ricordo legato all’esperienza traumatica può essere distorto. L’amnesia dell’evento o l’omissione di dettagli
importanti sembrano riguardare maggiormente i bambini più piccoli. In presenza di violenza domestica le
abilità parentali di entrambi i genitori e la relazione genitore-figlio sono gravemente compromesse. In
particolare, è documentato in letteratura che la violenza familiare è in grado di influenzare negativamente
la qualità delle cure che i genitori prestano ai propri figli, tanto da indurre condizioni patologiche di
disfunzione genitoriale e di abuso sui figli, con effetti devastanti sullo sviluppo psicosociale di questi ultimi.
È ampiamente evidenziato che l’uso di sostanze da parte dei genitori e la malattia mentale tendono ad
indurre comportamenti caratterizzati da livelli bassi di cura e livelli elevati di controllo e ostilità. Anche in
assenza di patologie mentali clinicamente significative, la violenza domestica rappresenta una condizione
stressante capace di modificare lo stile sia affettivo che educativo dei genitori e di comportare difficoltà nel
prendersi cura in maniera adeguata dei figli. Consentire ai figli di prendere parte attiva al conflitto coniugale
è una forma di maltrattamento psicologico.
C’è accordo unanime tra i ricercatori riguardo al rischio, da parte dei bambini che vivono in ambienti
familiari violenti, di andare incontro a problemi cognitivi, emotivi, comportamentali, relazionali e scolastici.
Quanto più precoce è l’esposizione alla violenza domestica tanto maggiore è l’impatto sulla salute. Quando
l’esposizione alla violenza domestica è prolungata e ripetuta nel tempo viene a crearsi una condizione di
stress cronico per i figli. Nella letteratura scientifica vengono soprattutto riportati una serie di problemi
psicologici che rientrano nella sintomatologia del disturbo post-traumatico da stress, per esempio, ricordi
intrusivi dell’evento, reattività fisiologica e aumentato arousal. Altri studi hanno documentato uno stato di
iperattivazione psicofisiologica, sintomatologia ansiosa e una serie di stati ansiosi e fobie specifiche
direttamente collegati all’esperienza traumatica. Nell’infanzia e preadolescenza vengono spesso riportati
atteggiamenti e comportamenti regressivi, come enuresi, encopresi, succhiare il pollice, balbettare,
mentre, in adolescenza, disturbi di personalità, personalità antisociale, inadeguatezza e immaturità, e
comportamenti di indipendenza inappropriati. Diversi studi hanno anche documentato problemi scolastici.
A causa dell’affaticamento mentale associato alla situazione stressante e delle preoccupazioni su ciò che
può accadere a se stessi e al genitore, questi bambini tendono a manifestare poco interesse nei confronti
della scuola e poca predisposizione ad apprendere.

CAPITOLO 52: ASPETTI DISFUNZIONALI DELL’ATTACCAMENTO


L’attaccamento è un sistema comportamentale interpersonale che ha la funzione filogenetica di garantire
la sopravvivenza attraverso il conseguimento e il mantenimento della vicinanza ad un altro individuo
appartenente alla propria specie, ritenuto capace di fornire aiuto, conforto e protezione, nel caso in cui si
presenti la necessità di soddisfazione di un bisogno fisiologico vitale o psicologico primario o di protezione
da una minaccia di pericolo. L’attaccamento può essere inteso come un legame di lunga durata,
estremamente forte ed emotivamente significativo, con una persona specifica (di solito il genitore) che
risponde alle richieste del bambino. In questo senso, l’attaccamento è selettivo. Tra quanto accade nel

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bambino e ciò che invece accade in età adulta esistono, tuttavia, importanti differenze. In età infantile la
soglia di attivazione del sistema è molto bassa, nel senso che sono moltissimi gli stimoli capaci di evocare
l’attivazione del sistema di attaccamento. Nel corso dell’infanzia, il comportamento di attaccamento si
attiva ogni qualvolta il bambino è impaurito, malato o si trova in una qualsiasi situazione di disagio interno
o esterno o quando si verifica una separazione da parte del genitore. In tutti questi casi il bambino mette in
atto comportamenti tipici di segnalazione, finalizzati ad ottenere la vicinanza della figura di riferimento.
Quando percepisce di aver raggiunto lo scopo di vicinanza al genitore, il comportamento di attaccamento
viene disattivato; per cui il bambino smette di piangere e mette in atto comportamenti differenti finalizzati
a mantenere il contatto o la prossimità con il genitore. Man mano che il bambino cresce, il sistema di
attaccamento diventa corretto secondo lo scopo. Il bambino diventa in grado di memorizzare le esperienze
precedenti e, sulla loro base, di anticipare quelle future, diventa consapevole del fatto che la relazione con
il genitore è caratterizzata da atteggiamenti di disponibilità che sono duraturi nel tempo e inizia a fondare
la relazione non più sulle caratteristiche fisiche del genitore, ma su caratteristiche astratte di affetto,
fiducia, approvazione. Lo scopo del sistema di attaccamento non è solo ricercare la vicinanza fisica, bensì
quello di conservare l’accessibilità e la responsività del genitore, ovvero di ottenere la sua piena
disponibilità. L’attivazione del sistema di attaccamento in un bambino stimola l’attivazione del sistema
comportamentale complementare nella madre. L’attivazione del sistema di accudimento è favorita da
specifici messaggi non-verbali, ad alto contenuto emozionale, che ogni sistema interpersonale produce in
risposta ai corrispondenti segnali non-verbali emessi dall’altro individuo. Sulla base della modalità con cui il
genitore risponde ai bisogni del figlio, quest’ultimo genera delle aspettative precise riguardo alla
disponibilità del genitore. Tali aspettative permettono al bambino di modulare i suoi comportamenti di
attaccamento a quel genitore e sono alla base dei “modelli operativi interni”. I modelli operativi interni
non sono altro che schemi mentali organizzati gerarchicamente, costituiti dalle informazioni, sia di tipo
affettivo che cognitivo, relative a sé e al mondo.
Le differenti modalità di attaccamento dei bambini possono essere osservate sperimentalmente attraverso
la Strange Situation. I bambini che si dimostrano felici al momento del ricongiungimento con i genitori,
cercandone il conforto, sono definiti come “sicuri” nell’attaccamento (gruppo B); coloro che, invece,
evitano il contatto con il genitore, ignorandolo o allontanandolo, vengono classificati come “ansioso-
evitanti” (gruppo A); infine, quei bambini che mostrano rabbia e ostilità nei confronti del genitore, non
riuscendo a chiedere conforto seppur lo desiderino, sono definiti “ansioso-resistenti” o “ambivalenti”
(gruppo C). In tutti e tre i casi i bambini mostrano di saper bene cosa attendersi dal genitore e di avere
coerentemente organizzato il proprio comportamento sulla base di tale aspettativa. Tale organizzazione
viene meno nella strategia di attaccamento utilizzata da quei bambini che mettono in atto azioni multiple,
incomplete e contraddittorie, prive di orientamento e di finalità, e che vengono classificati come
“disorganizzati/disorientati” (gruppo D). Sono privi di coerenza interna nei piani e nelle intenzioni e non
riescono ad organizzare il comportamento di attaccamento in alcun modo coerente. L’attaccamento
andrebbe considerato su due livelli paralleli e interagenti: quello della sicurezza-insicurezza e quello
dell’organizzazione-disorganizzazione. L’attaccamento disorganizzato non costituisce una categoria di
attaccamento aggiuntiva alle altre, bensì un livello parallelo, connotato da una relazione genitore-figlio
abnorme. L’elemento distintivo tra i due livelli è costituito dalla capacità del bambino di fronteggiare le
paure e riflette la capacità e la disponibilità del genitore di fornire una risposta alla paura. Sia i bambini con
un attaccamento sicuro che i bambini insicuri hanno trovato tutti nel genitore una soluzione alle loro
situazioni di paura, sebbene in maniera non ottimale. Nelle situazioni di disorganizzazione, invece, il
genitore è egli stesso fonte di paura e il bambino prova esperienze ripetute di paura a cui non è in grado di
trovare soluzioni né prevedibili.

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Disturbo d’ansia di separazione: paura o ansia eccessiva e inappropriata rispetto allo stadio di sviluppo che
riguarda la separazione da coloro a cui l’individuo è attaccato, come evidenziato da tre (o più) dei seguenti
criteri: ricorrente ed eccessivo disagio quando si prevede o si sperimenta la separazione da casa o dalle
principali figure di attaccamento; persistente ed eccessiva preoccupazione riguardo alla perdita delle figure
di attaccamento, o alla possibilità che accada loro qualcosa di dannoso; persistente ed eccessiva
preoccupazione riguardo al fatto che un evento imprevisto comporti separazione dalla principale figura di
attaccamento; persistente riluttanza o rifiuto di uscire di casa per andare a scuola, al lavoro o altrove per
paura della separazione; persistente ed eccessiva paura di stare da soli o senza le principali figure di
attaccamento; persistente riluttanza o rifiuto di dormire fuori casa o di andare a dormire senza avere vicino
una delle principali figure di attaccamento; ripetuti incubi che implicano il tema della separazione; ripetute
lamentele di sintomi fisici quando si verifica o si prevede la separazione dalle principali figure di
attaccamento.
Disturbo reattivo dell’attaccamento. Un pattern costante di comportamento inibito, emotivamente ritirato
nei confronti dei caregiver, che si manifesta con la presenza di entrambi i seguenti criteri: il bambino cerca
raramente o minimamente conforto quando prova disagio; il bambino risponde raramente o minimamente
al conforto quando prova disagio. Persistenti difficoltà sociali ed emotive caratterizzate da almeno due dei
seguenti criteri: minima responsività sociale ed emotiva agli altri; emozioni positive ridotte; episodi di
irritabilità ingiustificata, tristezza o timore, che si mostrano evidenti anche durante interazioni non
pericolose con caregiver. Il bambino ha vissuto un pattern estremo di cure insufficienti come evidenziato da
almeno uno dei seguenti criteri: trascuratezza o deprivazione sociale nella forma di una persistente
mancanza di soddisfazione dei fondamentali bisogni emotivi di conforto, stimolazione e affetto da parte dei
caregiver; ripetuti cambiamenti dei caregiver primari, che limitano la possibilità di sviluppare attaccamenti
stabili; allevamento in contesti insoliti, che limitano gravemente la possibilità di sviluppare attaccamenti
selettivi.
Disturbo da impegno sociale disinibito. Un pattern di comportamento in cui il bambino approccia
attivamente e interagisce con adulti sconosciuti e presenta almeno due dei seguenti criteri: ridotta o
assente reticenza nell’approcciare e interagire con adulti sconosciuti; comportamento verbale o fisico
eccessivamente familiare; diminuito o assente controllo a distanza del caregiver dopo che si è avventurato
lontano, anche in contesti non familiari; disponibilità ad allontanarsi con un adulto sconosciuto con minima
o nessuna esitazione.

CAPITOLO 53: DISFUNZIONE DELLA RELAZIONE DI COPPIA


La relazione di coppia è qui intesa come quel tipo di esperienza emotiva, affettiva e relazionale di due
persone adulte che condividono un periodo significativo di coinvolgimento reciproco a livello sia
sentimentale sia fisico. L’amore di coppia può comprendere uno o più dei seguenti quattro elementi:
 La compatibilità implica interessi, valori e obiettivi condivisi; è il fondamento oggettivo per una
relazione.
 L’impegno implica sentimenti che portano una persona a rimanere con il partner e ad avvicinarsi
agli obiettivi condivisi. L’impegno è intenzionale; è la decisione di prendersi cura, di essere fedeli, di
perseverare nei momenti difficili.
 L’intimità è la sensazione di vicinanza e connessione.
 La passione coinvolge sentimenti e desideri che portano all'attrazione fisica, al romanticismo e al
compimento sessuale. Quando è al massimo, la passione sostiene e onora gli altri tre elementi,
portando ad un alto grado di soddisfazione. Quando mancano uno o più degli elementi precedenti,
la passione può accentuare il senso di incompletezza nella relazione.

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L’amore di coppia completo comprende tutti e quattro gli elementi. L’amore romantico in una coppia che
non è vincolata da legami forti come quello matrimoniale comprende l’intimità e la passione, ma nessun
impegno. La coppia è coinvolta nell’esperienza dell’eccitazione fisica e dei sentimenti di vicinanza, ma non è
pronta o non ha la maturità per impegnarsi a condividere la loro vita insieme. L’infatuazione comprende
solo la passione, un’attrattiva, talvolta esclusivamente fisica, che non ha né intimità né impegno. Si tratta di
“amore a prima vista” ed è caratterizzato dalla preoccupazione per l’altra persona, da alti e bassi estremi a
livello sentimentale e da un intenso desiderio di stare con l’oggetto del desiderio. In entrambi i casi, la
compatibilità potrebbe essere scarsa o inesistente. L’impegno è generalmente implicato nel matrimonio o
nel fidanzamento ufficiale diretto al matrimonio. Quando non c’è impegno, il coinvolgimento sessuale può
creare un falso senso di intimità che può facilmente sostituire la comunicazione reale e altre attività che
favoriscono l’autentica intimità.
Le relazioni d'amore passano attraverso diverse fasi tra alti e bassi, dalla fase iniziale inebriante della "luna
di miele" a un senso di delusione ed, eventualmente, a uno stato di accettazione e a un desiderio di
permanenza. Durante la fase di infatuazione i partner provano gioia, passione ed euforia quando stanno
insieme. La fase di infatuazione porta ad idealizzare il partner, a pensarlo tutto il tempo e a desiderare di
stare con lui/lei costantemente. Il primo segno che la fase dell'infatuazione sta svanendo è un senso di
disillusione (fase della realtà). Man mano che l’euforia diminuisce, si comincia a notare abitudini e difetti
nel partner e a diventare critici nei confronti di alcuni dei suoi comportamenti e atteggiamenti. Affrontare
le sfide inevitabili non significa che i sentimenti di fondo dell'amore e dell'attrattiva scompaiano. Restare
vicini ad un partner che ispira sentimenti romantici e comunicare a lui/lei i propri sogni, desideri e pensieri
può portare a una vera intimità e attaccamento (fase dell’amore maturo). Questa fase è l’unica in cui ci
sono tutti e quattro gli elementi dell’amore di coppia completo: compatibilità, impegno, intimità e
passione. Anche la vita sessuale di una coppia attraversa quattro “stagioni”. Durante i primi anni di vita di
coppia il sesso è un’attività pregna di eccitazione. Nel secondo periodo, dopo due o tre anni di convivenza,
iniziano ad emergere differenze di ogni genere, comprese diverse preferenze sessuali. La soddisfazione
sessuale viene anche erosa dai problemi, dalle discussioni e dai conflitti che inevitabilmente si manifestano
nella convivenza; se vengono gestiti bene portano a sviluppare una profonda fiducia e vicinanza e una
maggiore felicità. Nel terzo periodo la nascita di un bambino comporta una marcata riduzione del desiderio
sessuale della donna.
Quando il contesto relazionale di coppia e l’atteggiamento di uno o entrambi i partner sono disfunzionali, in
quanto caratterizzati da mancanza di uno o più degli elementi fondamentali per il buon rapporto di coppia,
la relazione di coppia è di bassa qualità. Alcune relazioni di coppia sono caratterizzate da ostilità che può
essere espressa attraverso atteggiamenti di chiusura, freddezza, distacco. Il conflitto è spesso inevitabile
all’interno di una coppia. Quando il conflitto è moderato nei toni, espresso in maniera costruttiva, in un
ambiente familiare caloroso e supportivo, e mostra segni evidenti di risoluzione, i due partner imparano
come negoziare i conflitti e risolvere i disaccordi relazionali. Viceversa, quando il conflitto di coppia è
elevato di intensità e ripetuto nel tempo viene a crearsi una condizione di stress cronico per i due partner,
capace di incidere negativamente sul loro benessere psicologico. Talvolta il conflitto di coppia evolve in
separazione e divorzio.

CAPITOLO 54: VIOLENZA NELLA COPPIA


Secondo il National Center for Injury Prevention and Control, la violenza nella coppia è ogni forma di
comportamento fisico, psicologico o sessuale che procura un danno reale o potenziale alla salute, alla
sopravvivenza, allo sviluppo o alla dignità di uno dei due partner nel contesto di un qualsiasi tipo di
relazione intima di coppia attuale o passata. Nelle coppie composte da giovani adulti non coniugati né
conviventi i tassi di violenza tendono ad aumentare. Il fenomeno della violenza nella coppia è fortemente

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sottostimato. Alcune forme di violenza nella coppia sono difficili da riconoscere e da accertare, soprattutto
quei comportamenti particolarmente “ambigui”, al confine tra normalità e devianza. Esiste una forte
reticenza a raccontare gli abusi subiti e a cercare aiuto da parte delle vittime. È stato spesso documentato,
infatti, che solo una bassa percentuale di abusi subiti nelle relazioni di coppia viene denunciata alle autorità
competenti. Le ragioni più frequentemente addotte per non aver denunciato i fatti sono la paura di
ritorsioni, il desiderio di mantenere il riserbo su quanto accaduto, la scarsa rilevanza attribuita agli episodi
accaduti, la volontà di non coinvolgere polizia e tribunali, la scarsa fiducia sull’operato della polizia e il
timore di non essere creduti. Le donne subiscono più violenze generiche rispetto agli uomini. I partner che
commettono atti di violenza prima del matrimonio hanno una probabilità significativa di compiere tali atti
anche dopo il matrimonio.
Fattori di rischio del perpetratore:
 Personalità. Alcuni autori di violenza nella coppia hanno una personalità caratterizzata da un forte
senso di inadeguatezza e insicurezza nelle relazioni intime che li predispone ad essere
emotivamente dipendenti dal partner nonché a temerne il rifiuto e l’abbandono. Quando il timore
di essere abbandonati dal partner diventa particolarmente intenso, il bisogno di dipendenza viene
frustrato e si attivano potenti sentimenti di gelosia o intense esplosioni di rabbia capaci di
scatenare la violenza, soprattutto in mancanza di un’adeguata capacità di contenimento degli
impulsi.
 Atteggiamenti verso la violenza e i generi sessuali. Coloro che sono favorevoli all’uso della violenza
nella coppia hanno un’elevata probabilità di concretizzare le proprie attitudini, mettendo
realmente in atto comportamenti violenti nei confronti del partner. Tale probabilità potrebbe
essere particolarmente concreta in presenza di fattori precipitanti di violenza, come il timore di
essere rifiutato o abbandonato dal partner, e l’uso di sostanze.
 Psicopatologia. Sebbene esiste ampia evidenza di un’associazione tra depressione e violenza sul
partner, la depressione non sembra ricoprire il ruolo principale nella perpetrazione di abusi nella
coppia, bensì l’umore negativo sembra agire in concorso con altri fattori precipitanti, quali l’abuso
di alcool e alcuni tratti patologici o disturbi di personalità, in particolare di tipo antisociale o
borderline.
 Abuso di alcool. Uno dei più rilevanti fattori di rischio di violenza sul partner. Donne e uomini che
abusano di alcool sono a rischio di compiere atti violenti sul partner. Negli uomini, il rischio di
commettere atti violenti, ma non la loro gravità, è maggiore nei casi in cui l’assunzione di alcool sia
particolarmente smodata e, soprattutto, caratterizzata da una condizione patologica di abuso o
dipendenza dalla sostanza.
 Uso di droghe. L’uso di una o più droghe, in particolare cocaina e marijuana, è un potente fattore di
rischio di violenza sul partner. Il rapporto tra uso di droga e violenza sul partner è caratterizzato da
causalità diretta ed è indipendente dall’eventuale clima di discordia presente nella relazione di
coppia.
 Violenza nella famiglia d’origine. La violenza nella coppia è correlata con esperienze precoci di
violenza subita nella famiglia d’origine o di esposizione a violenza tra i genitori. La trasmissione
intergenerazionale della violenza nella coppia sembra avere percorsi differenti per donne e uomini;
infatti, le donne che hanno subito abusi o hanno assistito ad episodi di violenza nella famiglia
d’origine hanno maggiore probabilità di ricoprire, nelle relazioni di coppia in età adulta, il ruolo
della vittima di violenza; viceversa, gli uomini che sono stati testimoni o vittime di violenza nella
famiglia di origine sono più a rischio di diventare autori di violenza.
Fattori di rischio della vittima e del contesto:

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 Personalità. Non emerge un profilo di personalità della vittima. In alcuni casi una personalità
caratterizzata da bassa autostima, passività, dipendenza e carenti abilità sociali, di coping e di
problem solving, nonché da attitudini che legittimano la violenza nella coppia, può predisporre la
vittima a rimanere intrappolata in una relazione abusante, col rischio di subire violenze
ripetutamente nel corso del tempo.
 Psicopatologia. In linea generale è accertato il rischio, tra le persone affette da disturbi mentali
gravi, di subire violenza a causa della ridotta capacità di percepire correttamente e valutare
criticamente le situazioni a rischio.
 Uso di sostanze. La relazione tra uso di sostanze e violenza subita è bidirezionale. L’abuso di alcool
e droghe può costituire sia uno degli effetti psicopatologici indotti dalla violenza subita sia un
fattore di vulnerabilità in grado di aumentare il rischio di subire violenza nelle relazioni di coppia.
 Violenza nella famiglia d’origine. Le persone, soprattutto di sesso femminile, che nella minore età
sono state testimoni di violenza tra genitori o hanno subito abusi nella famiglia d’origine sono
moderatamente a rischio di subire atti violenti dal partner in età adulta. I bambini che vivono con
genitori violenti apprendano che la violenza è normale, tollerabile o funzionale nelle relazioni di
coppia.
 Violenza precedente nelle relazioni di coppia. Le persone che hanno commesso abusi sul partner
attuale o su quelli precedenti sono fortemente a rischio sia di perpetrare nuove violenze nella
relazione di coppia corrente o in quelle future sia di subirne.
 Svantaggio socioeconomico. Il livello di stress soggettivo, legato a situazioni socioeconomiche
disagiate, è in grado di aumentare il rischio di commettere atti violenti sul partner.

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