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Riassunti di Silvia Varro

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Riassunti di Silvia Varro

………………....3

Capitolo I – Prospettive epistemologiche in psicologia clinica…………………………..……..9

Capitolo III – Valutazione clinica e diagnosi…………………………………………………...15

Capitolo IV – Disturbi d’ansia e ossessivo-compulsivi………………………………...............38

Capitolo V – Disturbi da stress………………………………………………………………….61

Capitolo VI – Disturbi somatoformi e dissociativi……………………………………………..80

Capitolo VII – Disturbi dell’umore…………………………………………..……………..…100

Capitolo X – Disturbi correlati a sostanze……………………………………..…..….…...….121

Capitolo XIII – Disturbi di personalità………………………………….………...…..………140

Capitolo I – La psicoterapia……………………………………………………………………166

Capitolo II – La psicoanalisi e le terapie psicodinamiche……………………………………175

Capitolo III – La psicoterapia cognitivo-comportamentale………………………………….192

Capitolo V – La terapia centrata sul cliente di Carl Rogers………………………...............211

Capitolo VII – La terapia con la famiglia nel modello sistemico-relazionale……………….226

……...…………………..240

……………………………………………………….253

………………………….…………………..………………………………263

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✓ Prospettive epistemologiche1 della psicologia clinica


✓ Metodi e strumenti della psicologia clinica
✓ Principali modelli teorici e metodologici della psicologia clinica. Il corso propone di imparare
gli elementi chiave della pluralità dei principali modelli che si sono consolidati nel tempo
nell’ambito della psicologia clinica. Oltre al modello della psicoanalisi, ritroviamo i modelli si-
stemico-relazionale, cognitivista, comportamentale, esistenziale, della gestalt, ognuno dei quali
propone una teoria della patologia. I modelli in psicologia clinica non sono unicamente fun-
zionali ad intervenire ma anche ad avere delle ipotesi su cosa ha generato la condizione di di-
sfunzionalità, di disadattamento o di psicopatologia. Quindi occuparsi di modelli significa occu-
parsi dei modi di leggere la patologia, delle ipotesi che si fanno sull’organizzazione della pato-
logia e anche, dunque, su quale metodo può essere utilizzato per generare un cambiamento, uno
sviluppo, “una guarigione”.
✓ Psicopatologia, modelli interpretativi e intervento. La psicopatologia verrà letta in ragione
delle diverse ipotesi interpretative di come una data patologia si è generata.
✓ I principi di base della teoria della tecnica (è alla base della psicologia clinica). Ci informa di
quali modelli teorici abbiamo per organizzare il nostro lavoro psicologico-clinico. Ci occupere-
mo di due aspetti in particolare della teoria della tecnica: setting e colloquio.

L’esame si sviluppa su tre domande:


1. Sui presupposti e i modelli teorici
2. Sulla psicopatologia
3. Sulla teoria tecnica
+ Costruzione di un report sulla rassegna bibliografica

Cosa accomuna e cosa invece differenzia la figura di psichiatra, amico, madre, guida, educatore e
prete dalla figura dello psicologo? Gli elementi di somiglianza hanno a che fare con alcune funzio-
ni dello psicologo, tra cui una funzione di ascolto, empatia, coinvolgimento, accoglienza (madre),
apprendimento, ma ci sono anche delle differenze: lo psicologo naviga in una dimensione di “non
giudizio”, una madre invece giudica. Sicuramente nelle nostre relazioni, prevalentemente, se c’è un
coinvolgimento emotivo (una madre, un padre, un fratello) c’è una dimensione di giudizio. E lo psi-
cologo è chiamato a un giudizio di tipo valutativo, ma non ad una valutazione di merito dell’altro
e/o della situazione (stai facendo bene/stai facendo male). È chiamato piuttosto ad una sospensione
del giudizio. È interessato a ciò che l’utente dice perché quello che dice informa di lui, del modo in
cui colora il mondo. E quindi emergono degli elementi chiave che hanno a che fare con l’ascolto, la
centratura sulla soggettività dell’altro. Un’altra dimensione chiave è che la madre e/o l’amico,
escluso lo psichiatra, non hanno le giuste competenze. Il lavoro dello psicologo afferisce a due
grandi categorie di competenza, ossia discriminare e valutare: cioè avere un’idea sulla qualità del
funzionamento mentale dell’altro. Ad esempio, nel caso di una persona con un grandissimo carico
di angoscia che lo psicologo riconosce, quest’ultimo deve aiutarla a riflettere ma soprattutto a con-
tenere. Quindi, l’uso che fa di questa capacità discriminativa è molto diversa da una componente
psichiatrica: mentre lo psichiatra potrebbe guardare al funzionamento dell’altro per capire quale
farmaco prescrivere (“quale farmaco è più adatto in ragione di come funziona il paziente?”), lo psi-
cologo invece guarda all’altro cercando di capire come guidare la relazione con quest’ultimo. Quin-

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L'epistemologia (dal greco ἐπιστήμη, epistème, “conoscenza certa" ossia "scienza", e λόγος, logos, "discorso") è quel-
la branca della filosofia che si occupa delle condizioni sotto le quali si può avere conoscenza scientifica e dei metodi per
raggiungere tale conoscenza.

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di l’altro elemento chiave di un lavoro psicologico/clinico è la dimensione relazionale attraverso


cui si dispiega. Si pensi inoltre alle due poltrone, queste ci raccontano di due persone in relazione,
da qui un’altra dimensione chiave del lavoro clinico: la soggettività, la relazione attraverso cui
quella soggettività viene accolta, compresa e ordinata, resa utilizzabile all’altro.
Lo psicologo, inoltre, differisce dalle figure inizialmente menzionate in quanto utilizza un metodo
nonché un procedimento riflessivo: lo psicologo non aggiusta l’altro, né gli dice cosa fare, bensì lo
aiuta ad incontrare sé stesso per cambiare, ad assumere uno sguardo su di sé.

La psicologia clinica (M-PSI/08) si incrocia con molteplici discipline:


- Psicologia generale M-PSI/01
- Psicologia della personalità
- Psicologia dello sviluppo M-PSI/04
- Psicologia sociale M-PSI/05
- Neuropsicologia M-PSI/02
- Psicofisiologia M-PSI/02
- Metodologia ed epistemologia della ricerca
Una rappresentazione tipica e anche abbastanza stereotipata immagina la psicologia clinica come
una disciplina, come un metodo di intervento che necessariamente si occupa di singoli individui.
Quest’ultima può occuparsi tuttavia anche di famiglie, gruppi, problemi di adattamento delle or-
ganizzazioni. La psicologia clinica è essa stessa una psicologia applicata che utilizza tecniche otte-
nute dalla ricerca sperimentale per spiegare i comportamenti individuali, gruppali, familiari e va-
lutarne l’esito. Con Kendall e Norton-Fall si solleva una questione rilevante: “la psicologia clinica
è applicata”. Applicare significa mettere in pratica una teoria che è stata scoperta da un ambito di-
verso della stessa psicologia clinica.
Ulteriore definizione: … “è la disciplina che comprende l’insieme delle conoscenze e delle compe-
tenze psicologiche utilizzate per affrontare i problemi dell’adattamento e i disturbi del comporta-
mento sul piano della ricerca, della prevenzione, della valutazione psicodiagnostica, dell’intervento
psicoterapeutico”. Emerge dunque un altro tema molto importante: la prevenzione. Non possiamo
dunque attribuire alla psicologia clinica un mandato esclusivamente curativo, di guarigione, bisogna
quindi non occuparsi di carenza, deficit, disagio bensì di risorse, di fattori protettivi.
Essa dunque costituisce la dimensione applicativa di tipo clinico della scienza psicologica e com-
prende un’area disciplinare, delle competenze professionali, dei metodi di ricerca, degli strumenti di
indagine, delle tecniche di intervento. La psicologia non si può occupare solo di come funziona
l’altro, l’ipotetico paziente, ma si deve occupare anche di come funziona lo psicologo, di quali sono
le sue competenze necessarie, per esempio, a gestire quella relazione.

La ricerca e la pratica della psicologia clinica sono proficuamente alimentate da una pluralità di
modelli. Tali modelli sono guidati da differenti presupposti epistemologici e teorico-metodologici, e
di conseguenza la psicologia clinica è caratterizzata da irrinunciabili differenze nelle strategie clini-
che e di ricerca, peraltro in costante evoluzione scientifica e culturale, ma pur sempre ispirate al cri-
terio della verifica empirica e della validità clinica.

La psicologia clinica è caratterizzata da contiguità e rapporti interdisciplinari con altri settori scien-
tifici e professionali. Tali contiguità riguardano a vario titolo diversi altri settori della psicologia
(psicologia dinamica, psicologia evolutiva, psicobiologia, neuropsicologia etc.), della medicina
(neurologia, psichiatria, etc.) e delle scienze umane e sociali, attinenti al comportamento umano.

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Nonostante queste contiguità, la psicologia clinica mantiene una sua autonoma caratterizzazione
teorica, di ricerca e di metodo che definiscono le sue competenze e pratiche operative e che devono
essere esplicitamente riconosciute qualora queste vengano incluse o integrate in altri ambiti disci-
plinari.

Comprendono tutte le configurazioni scientifico-operative e d’insegnamento identificate a livello


internazionale e nazionale in relazione con le competenze e le attività dello psicologo clinico, che
siano riconosciute nell’ordinamento universitario italiano e condivise dal collegio dei docenti e
ricercatori di psicologia clinica delle università italiane. La configurazione indica i seguenti ambiti
di ricerca, di intervento e di formazione: psicologia clinica, metodi e tecniche per la ricerca in
psicologia clinica, psicodiagnostica, psicologia clinica e psicopatologia (inclusa la psicopatologia
dello sviluppo), neuropsicologia clinica, psicofisiologia clinica, psicosomatica e somatopsichica,
psicologia delle dipendenze, psicologia clinica forense, psicologia della salute, psicologia
ospedaliera, psicologia del dolore e delle cure palliative, metodologia dell’intervento in psicologia
clinica, psicoterapia.

Il lavoro psicologico clinico non è un atto, né un’azione, né un evento, bensì è un processo che si
compone di una sequenza di singole azioni, un utilizzo di specifici strumenti e l’adozione di alcuni
criteri. Quali sono le funzioni del processo psicologico?
1. Accoglienza della richiesta d’intervento. Solitamente il primo atto di un processo psicologico
è la realizzazione di un colloquio. Ulteriori strumenti che lo psicologo ha a disposizione per ana-
lizzare il problema sono gli strumenti dell’assessment, oltre che una possibilità di osservazioni.
2. Interpretazione psicologica del problema posto. Di cosa si tratta? Come posso definire il
problema da un punto di vista psicologico? È necessario condurre un’analisi del problema che
viene posto. Una dimensione che bisogna tenere in considerazione è la possibilità dello psicolo-
go di farsi una visione del problema, cioè non chiedersi che cosa si pensa al riguardo, piuttosto
far riferimento a dei criteri psicologici che permettono di interpretare il problema.
3. Progettazione/individuazione di un obiettivo. Una volta condotta l’analisi del problema,
quindi una volta che lo psicologo si è fatto un’idea del problema portato a consultazione, biso-
gna chiedersi se sia necessario andare avanti nell’intervento, e, quindi, se è necessario un inter-
vento psicologico. Quindi non diamo per scontato che l’esito di una valutazione sia
l’indicazione di un intervento, potrebbe anche essere un non-intervento. Dopodiché bisogna
chiedersi anche che tipo di intervento, attraverso quale modello intervenire.
Esempio: soggetto con paura di volare. Attraverso l'analisi del problema emerge che la tipologia del
problema è una problematica di tipo fobico, cioè c'è una fobia di volare. Tale comportamento fobico
può essere iscritto in una persona che funziona bene negli altri aspetti della sua vita, l’utente è arri-
vato portandoci il problema della sua paura di volare perché ha ricevuto una proposta di lavoro inte-
ressantissima dall’altra parte dell’oceano e quindi vuole essere messo in condizioni di realizzare
questo obiettivo della sua esistenza, oppure, diversamente, la paura di volare potrebbe essere ricon-
dotta ad una sua ansietà generale e quindi c’è in lui un desiderio di comprendere l’ansietà della sua
esistenza (in questo caso parliamo di assetto motivazionale). Lo psicologo non risponderà allo
stesso modo ad entrambe le persone, nonostante si tratti dello stesso sintomo, la paura di volare.
4. Intervento2: segue a questo l'intervento vero e proprio, il quale, in ambito psicologico clinico,
può essere di vari tipi, tra cui: (1) di sostegno, (2) di counselling, (3) psicoterapeutico.

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Differenza tra i termini processo di intervento e intervento. Il secondo potrebbe anche essere chiamato trattamento,
ma tale termine ipotizza la passività dell’altro, dunque, è preferibile distinguere il processo dell’intervento dall’azione
dell’intervento che rappresenta una sua fase.

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L’intervento è accompagnato da processi di monitoraggio dell’intervento e di valutazione, alla


fine, dell’esito dell’intervento. Talvolta i monitoraggi si esprimono con delle consulenze ester-
ne, si pensi per esempio ad una psicoterapia condotta con un paziente che è seguito anche in
ambito psichiatrico, la consulenza dello psichiatra ci aiuta ad avere un feedback sull’andamento
della terapia, oppure possono rendersi necessarie in alcune fasi dell’intervento degli assessment,
delle valutazioni in grado di fornire dei feedback su come sta funzionando la terapia per quel
paziente. Per quanto riguarda la valutazione degli esiti, bisogna chiedersi se l’intervento ha ef-
fettivamente prodotto ciò che si intendeva sviluppare attraverso l'azione di intervento.
Outcome (esito dell’intervento): l’utente dopo un percorso terapeutico è più capace di regolare le
sue emozioni? È più capace di assumere un atteggiamento riflessivo rispetto alle situazioni della sua
vita? Ha meno sintomi fobici? Nel caso invece di un intervento pediatrico, un lavoro sulla comuni-
cazione tra famiglie di bambini malati e medici: la comunicazione migliora?
Output (impatto dell’intervento): l’utente è stato in grado di utilizzare questi esiti nel suo campo
di vita per organizzare e migliorare per esempio la qualità della sua vita? Nel caso dell’esempio
dell’intervento pediatrico l’output sarà: la relazione sanitaria, la capacità di cura di quel bambino è
migliorata grazie al miglioramento della comunicazione? Quando parliamo di output parliamo
dell’impatto dell’azione di intervento sul campo in cui stiamo lavorando, il quale può essere la vita
dell’altro o può essere anche l’istituzione con cui stiamo collaborando e i suoi processi.
Impatto → utilizzabilità dell’esito ai fini degli scopi di chi ci pone la richiesta.
Quando parliamo della psicologia clinica non parliamo di nessuna di queste fasi presa singolarmen-
te, ma parliamo sempre dell’integrazione in un processo di queste diverse fasi.

Di quali conoscenze abbiamo bisogno per realizzare un simile percorso? Abbisogniamo di:
✓ Teoria dell’intervento psicologico clinico
✓ Metodologia dell’intervento
✓ Tecniche dell’intervento
✓ Strumenti dell’intervento

C’è una grande varietà di fonti: le richieste di intervento psicologico clinico possono arrivare da
singoli individui, da gruppi (comprese le famiglie), da organizzazioni.
Che tipo di problemi possono essere posti allo psicologo clinico? Sicuramente delle condizioni di
psicopatologia, oppure delle condizioni per esempio di difficoltà a gestire compiti evolutivi, si
pensi alla maternità, ad una madre in difficolta di seguito alla nascita del suo primo figlio e che po-
trebbe chiedere un aiuto nell’essere accompagnata e supportata nella gestione di tale compito evolu-
tivo. Possono esserci inoltre condizioni che definiamo “eventi non normativi”, si pensi
all’intervento psicologico clinico nelle condizioni di emergenza, per esempio dopo un terremoto,
all’intervento psicologico clinico in condizioni di perdite, traumi o situazioni difficili. Oppure pro-
blemi che riguardano la prevenzione secondaria e terziaria, o, ancora, problemi che riguardano la
necessità di sviluppo di risorse psichiche, cioè di promozione della salute.
L’intervento psicologico clinico si esplica in una varietà di contesti che contribuiscono anche a de-
finire le metodologie del suo dispiegarsi, non è la stessa cosa intervenire in una scuola o intervenire
in un dipartimento di salute mentale.
Dove si svolge l’intervento psicologico clinico?
- SSN: dipartimenti di salute mentale e/o consultori nell’ambito del sistema sanitario nazionale;
- Comunità;
- Studi professionali;
- Scuole;
- Aziende ospedaliere

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Gli strumenti utilizzati sono l’osservazione, il colloquio, le interviste cliniche e i test clinici.
Anche gli interventi sono molteplici:
- Interventi di sostegno psicologico
- Interventi di counselling psicologico
- Protocolli terapeutici brevi. Siamo in un momento storico culturale di sviluppo molto partico-
lare, soprattutto per la psicologia clinica. Risulta sempre più pressante, presso i sistemi sanitari
di tutto il mondo, la richiesta di erogazione di prestazioni che siano validate in termini di esiti.
Questo ha generato nell’ultimo decennio/ventennio una serie di protocolli terapeutici che hanno
delle modalità di conduzione molto operazionalizzate relativamente brevi e verificabili.
- Interventi di psicoterapia classicamente intesi

Modello psicodinamico, modello cognitivo-comportamentale, modello cognitivo-costruttivista (se-


conda generazione del cognitivismo), modello umanistico esistenziale, modello sistematico relazio-
nale. In cosa si differenziano questi modelli? Mettono il focus su aspetti diversi del funzionamento
psicologico, costruiscono quindi teorie diverse del funzionamento psicologico fondate sul fatto
che definiscono oggetto del proprio lavoro focalizzando aspetti diversi del funzionamento psicolo-
gico. Si generano dunque diverse concezioni dello sviluppo umano e dei processi che spiegano il
disagio e la psicopatologia, da cui scaturiscono diversi metodi clinici. Rispetto ai modelli, risulta
quindi fondamentale porsi tali domande: (1) Le teorie su quali aspetti nel funzionamento psicologi-
co pongono il loro focus?; (2) Come concettualizzano lo sviluppo e dunque come concettualizzano
quelle disfunzioni dello sviluppo che interpretano l’emergenza del disagio o della psicopatologia?;
(3) Come in ragione di queste due premesse scaturiscono diversi metodi clinici, diverse tecniche per
la realizzazione dell’intervento?
I modelli dell’intervento clinico differiscono nel modo di definire gli obiettivi, nel modo di articola-
re il setting dell’intervento, nel modo dell’impostare il contratto terapeutico, nel modo di effettuare
la valutazione clinica, nel modo di attribuire alla relazione clinica un ruolo più o meno centrale, nel
modo di utilizzare tecniche e procedure del lavoro. Nonostante tutte queste varietà vi sono alcuni
elementi che invece sono comuni. In particolare, ritroviamo nell’intervento psicologico clinico del-
le dimensioni costanti, di fatti quest’ultimo è:
- un intervento fondato su mezzi prettamente psicologici
- orientato ad aiutare le persone nella gestione dei problemi affettivi, emotivi, comportamentali,
interpersonale di vario genere e a migliorare la qualità della vita
- volto al cambiamento e sviluppo della persona
Quali sono, al di là dei modelli, alcune caratteristiche comuni del processo di psicoterapia?
- Una relazione interpersonale fra paziente e clinico che comporta un’alleanza a esclusivo bene-
ficio del paziente;
- Un setting – all’interno del quale si svolge questa relazione (es. le due poltrone): uno spazio in-
terpersonale nel quale ciò che avviene è confidenziale ed è distinto dal resto delle normali atti-
vità e relazioni interpersonali;
- L’offerta da parte del clinico di modi nuovi di guardare e sentire le cose, un sostegno nel dare
un senso a sensazioni confuse e indefinite;
- Un insieme di procedure e tecniche che specificano il modo di operare.

non è possibile un azione di intervento psicologico clinico al di fuori


di un setting. La sua funzione è fungere da scenario/palcoscenico di una re-
lazione, nonché creare un confine, una delimitazione che distingua lo spa-
zio del lavoro psicologico da altri spazi/attività/contesti della vita. Ad
esempio, è plausibile che la risposta ad un amico che afferma di sentirsi ve-
ramente stanco sia “mi dispiace” oppure “ma a che ora sei andato a dormire

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ieri sera?”. Possiamo rispondere in vari modi, ma tratteremo, in quanto amici, il suo dire sono stan-
co come oggetto della realtà. Uno psicologo inserito in un contesto clinico, diversamente si chie-
derà il senso di affermare quella cosa in quel dato momento, e quindi le risposte potrebbero essere
“cosa è accaduto? Come mai si sente stanco? Cosa l’ha resa stanco?”. Questo significa lavorare
per significati, lavorare in una direzione che restituisca un senso. Questo spazio è anche confiden-
ziale, cioè quello che viene detto nella relazione con uno psicologo, al di là di alcune condizioni
molto precise che creano degli obblighi di denuncia, è confidenziale. Lo psicologo è obbligato al
segreto professionale, a mantenere la confidenzialità su ciò che viene condiviso con lui.
Nella consultazione online qual è la differenza fondamentale? L'esigenza è la stessa, ma non c’è la
stessa privacy che c'è nello studio perché magari il cliente si trova in casa con più persone. In questo
caso le condizioni del campo sono affidate al cliente, mentre se lo psicologo riceve nel proprio spa-
zio (studio privato o pubblico) è lui che definisce le condizioni.
- Online: il cliente assume una grandissima responsabilità nella co-costruzione del set, cosa che
invece nella relazione in presenza avviene molto meno.
- In presenza: il cliente ha il potere di rompere il setting, ha il potere di arrivare in ritardo, ha il
potere di non sedersi sulla sedia che è stata preparata per lui, ma non ha il potere di portare una
sedia in quella stanza che non è stata pensata o di decidere dove collocare il divano.
Poi c'è una complessità diversa e ha che vedere con la sensorialità delle persone. Si pensi ad un
rapporto clinico online, lo strumento diventa prevalentemente visivo e verbale, mentre all'interno di
un setting in presenza permette una modalità plurisensoriale. Sono gli aspetti relativi a una sinto-
nizzazione con l'altro, talvolta anche non verbale (e quindi non necessariamente verbale) che ha a
che fare, detto in chiave semplicistica, con il linguaggio dei corpi.
Spazio. C’è la necessita che il setting sia un contenitore sufficientemente protetto in grado di conte-
nere la confidenzialità dell'intervento. È necessario organizzare tale contenitore (arredare) in ragio-
ne di ciò che è necessario in base al modello che utilizzo, in base alla relazione che intendo portare
avanti, in base al contesto in cui sono collocato. Non c'è un modo unico di organizzare lo spazio del
setting ed esso va pensato in ragione di certe variabili. Se si lavoro in una scuola è difficile che ci
sarà un lettino, se si lavora in una Asl è difficile avere un lettino ma solitamente vi è una scrivania e
due sedie perché magari condivisa fra più professionisti. Se si è uno psicologo che lavora con bam-
bini piccoli bisognerà organizzare un setting adatto a loro, si avrà bisogno di giochi, di un tappeto,
di una scrivania bassa, di alcune cose che permettono lo svolgimento del lavoro in ragione del mo-
dello, del metodo e della tecnica che intendo utilizzare se vogliono somministra.
Tempo. Qual è il tempo della totalità dell'intervento psicologico? Anche il tempo non è un tempo
unico e valido in ogni intervento. Se per esempio si lavora con un bambino forse un'ora è troppo, se
si lavora con una coppia un'ora è poco, se si lavora all'interno di una scuola bisogna tenere coto del
cambio di insegnanti nella giornata. Lo psicologo decide il tempo necessario allo svolgimento di un
discorso, alla sua apertura, ad avere un momento caldo (cruciale) del discorso e ad avere un tempo
per la separazione, per la chiusura. Questo stesso movimento che possiamo immaginare in un incon-
tro psicologico a che fare anche con l'intero percorso psicologico.
Stabilità. Il setting è stabile, non cambia di volta in volta una volta proposto. Se si invita una perso-
na a svolgere quattro colloqui di counseling della durata ognuno di 50 minuti una volta alla settima-
na in un determinato luogo, non è possibile variare la durata e il luogo immotivatamente. Se si cam-
biano ogni volta i parametri del setting viene impedito al setting stesso di assumere la funzione di
contenitore dell’intervento psicologico, distinguere quello che avviene all'interno da ciò che avviene
fuori dal setting. In un setting clinico il terapeuta si occuperà di capire anche come il cliente possa
adoperare il setting.

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Riassunti di Silvia Varro

Capitolo 1

Per fornire un’immagine chiara dello psicologo è importante precisare le caratteristiche di scientifi-
cità e di specificità della psicologia (Agazzi). Agazzi sostiene la necessarietà di una formazione con
basi teoriche solide e allo stesso tempo lo sviluppo di conoscenze e competenze integrate tra i diver-
si ambiti disciplinari.
Da un punto di vista costruttivista (pag. 11), si sottolinea che il sapere non può essere ricevuto in
modo passivo, ma è il prodotto della relazione tra la realtà e il soggetto, il quale costruisce il pro-
prio ruolo in seguito ad un percorso soggettivo che non può non tenere conto dei valori etici e del
senso di responsabilità dell’individuo che sceglie una professione di cura. L’approccio epistemolo-
gico, invece, risulta importante perché affronta le tappe dello sviluppo della disciplina psicologica
così da sottolineare le sue caratteristiche di scientificità. È quello che in modo più completo e pro-
fondo permette la formazione di una mappa di significati: completo perché affronta nel suo snodarsi
le tappe storiche ed evolutive della formazione della psicologica come disciplina scientifica; pro-
fondo perché permette di indagare aspetti troppo spesso impliciti ma essenziali quali la definizione
di oggetto scientifico, obiettivo, metodo, linguaggio, oggettività, intersoggettività.

Psychè e lògos sono i due termini greci da cui deriva la parola Psicologia, in senso etimologico
"scienza dell'anima". Un'entità effimera dunque, immateriale, in contrapposizione al corpo, che in-
vece è un’entità materiale. Il concetto di anima, che rimanda a dimensioni metafisiche e religiose, è
stato sostituito col termine psiche, che rimanda al concetto di comprensione scientifica il funziona-
mento della nostra mente.
La psicologia è una disciplina che si colloca in uno spazio di intersezione tra due modi di costruire
la conoscenza che sono profondamente diverse tra loro e su cui c’è una tensione, e una impossibilità
di integrarli totalmente:
- Metodo scientifico, sperimentale, che guarda alla psiche come dimensione oggettuale da com-
prendere, scomporre, organizzare in termini di leggi di funzionamento (matrice scientifico me-
dica)
- Prospettiva di tipo umanistico, filosofica
Tali prospettive attraversano la nostra disciplina e sono in tensione tra loro.
Come anche lo psicoanalista Antonio Imbasciati (1986) sottolinea, ad un certo punto sostituire la
parola psiche a quella di anima è stato un necessario tentativo di liberare la psicologia da tutta
quell'area culturale e semantica che la parola anima portava con sé nei suoi vari impieghi, dal di-
scorso comune a quello religioso e metafisico. Non a caso la psicologia ha intrattenuto nel corso del
tempo numerose linee di continuità con la filosofia.

• Approccio elementarista: concepisce la mente ed il suo funzionamento come una giustapposi-


zione di elementi di base. Le idee, le sensazioni, l’attività mentale sono regolate da
un’associazione tra tali unità elementari, le cui modalità sono prevalentemente fondate su una
continuità spaziale e temporale. La matrice filosofica di questo ragionamento è nell’empirismo
inglese. Quindi, scomponiamo la mente nelle sue componenti fondamentali e cerchiamo di capi-
re come funziona la mente cercando di comprendere quali sono le leggi in ragione della quale
queste unità elementari si associano tra di loro.
• Approccio olistico: è invece fondato sull'idea che la mente costruisce in maniera attiva la realtà,
il fenomeno deve essere considerato nella sua interezza, l’unità non è definita dalla somma delle

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Riassunti di Silvia Varro

singole componenti ma dalla struttura delle relazioni. Il riferimento filosofico significativo di


questo approccio è Kant.
Esempio: tale fotografia ritrae una porzione di un tavolo apparecchia-
to, con il particolare della postazione per un commensale. Potremmo
dire che questa immagine rimanda dei colori, delle materie, evoca ri-
cordi e significati complessi etc. Secondo Kant (critica del giudizio)
l'uomo non può fare a meno di esprimere valutazioni, un giudizio im-
mediato che parte dalla nostra mente deriva a priori ed è quello che noi esprimiamo quando vedia-
mo un qualcosa. La prospettiva olistica ha un fondamento di matrice filosofica che considera questa
funzione della mente di co-costruzione di ciò che arriva alla percezione, una costruzione che è fon-
data su dei giudizi ma che in termini psicologici ci dice che la mente partecipa alla costruzione della
propria realtà, della propria esperienza. In questo processo ci sono alcuni elementi che sono di base,
che hanno a che fare col riconoscere, ad esempio, una tavola apparecchiata, con l’andare ad imma-
ginare una tavola, ad es. finire l'immagine del piatto che non è completa, cioè, costruire questa im-
magine, completare la nostra rappresentazione. Si tratta di elementi che hanno a che fare con pro-
cessi intuitivi aspettativi e dall'altra parte di riflessivi. Sappiamo però che nella nostra costruzione
dell'immagine costruiamo, partecipiamo a sia in termini banalmente funzionali, sia verso dimensio-
ni che sono più affettive, semantiche, narrative. Ognuno di noi può immaginare una storia intorno a
questa tavola e questo si muove dentro una logica che è olistica e costruttivista: la mente è impegna-
ta a partecipare alla costruzione della sua esperienza, della sua realtà. Dall'altra parte però altrettan-
to vero che questa immagine è rappresentata da una somma di elementi e possiamo scomporre fino
al minimo dettaglio: materia colore, forma, singoli oggetti, piatti, bicchieri, posate etc. questa logica
è invece elementarista e la nostra rappresentazione finale è data dalla composizione di tutte le sin-
gole componenti.
Il confronto tra approccio elementarista e olistico si ripropone anche nel confronto fra modello epi-
stemologico positivista e modello epistemologico costruttivista.
L’epistemologia è la conoscenza del modo di costruire conoscenza, l'insieme di teorie sulla cono-
scenza. Le domande fondamentali di un discorso epistemologico sono tre:
1. Una domanda ontologica: riguarda ipotesi sul rapporto tra mente e realtà;
2. Una domanda che invece ha a che fare con il rapporto tra colui che conosce e l'oggetto cono-
sciuto, l'oggetto da conoscere;
3. Una domanda che ha a che fare con i metodi della conoscenza.
Esistono diversi paradigmi epistemologici. Una fondamentale prospettiva epistemologica, che attra-
versa il nostro tempo e trova fondamento nell’elementarismo, è una prospettiva positivista di co-
struzione della conoscenza. Assumere una prospettiva positivista significa immaginare che la realtà
è conoscibile così com'è, che la conoscenza è un insieme di mattoncini che vengono piano piano co-
struiti, messi uno sopra l'altro per costruire il palazzo della conoscenza. La conoscenza è volta a co-
struire leggi generali sulla comprensione della natura. Piano piano a furia di scoprire leggi generali
sul funzionamento della natura, l'umanità completerà il palazzo della conoscenza e svelerà i misteri
dell'intero universo (intenzione della conoscenza). Il metodo su cui si fonda una prospettiva episte-
mologica positivista è l’osservazione mediata dall'esperimento (il metodo sperimentale): trovare il
rapporto tra due variabili, controllare le variabili interferenti e stabilire una legge di causa ed effetto
tra due variabili. Non si tratta di un’osservazione partecipante poiché soggetto e oggetto di cono-
scenza sono separati. L'obiettivo della conoscenza è quello di rivolgersi a una comprensione della
realtà così com'è. Secondo una prospettiva costruttivista, invece, rappresenta un'illusione quella di
poter conoscere la realtà così com'è a prescindere da colui che conosce. In questo caso vi può essere
un metodo partecipativo, perché se un individuo ipotizza che il proprio modo di costruire conoscen-
za co-costruisce la conoscenza che lui stesso introduce, contribuisce a generare quella conoscenza,

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Riassunti di Silvia Varro

potrà allora permettersi di partecipare. La conoscenza da un punto di vista costruttivista è necessa-


riamente una conoscenza riflessiva: si partecipa al processo di costruzione della conoscenza ma bi-
sogna istituire una riflessione su questo, altrimenti si ritrovano esclusivamente le proprie griglie
mentali piuttosto che l’esperienza.
• Positivismo: conoscenza oggettiva della realtà, centratura sui dati, utilizzo di un metodo speri-
mentale fondato sull'ipotesi di una indipendenza tra colui che osserva e l'oggetto che viene os-
servato;
• Costruttivismo: si fonda su un'ipotesi di una costruzione soggettiva dell'esperienza del reale, la
centratura è sui significati, i metodi sono storico interpretativi, l'ipotesi è che l'oggetto della co-
noscenza si modifica nel rapporto con il suo osservatore.
Si pensi a Wilhelm Wundt e la nascita della psicologia sperimentale nel 1897, è considerato il fon-
datore della psicologia perché istituisce a Lipsia il primo laboratorio di psicologia associato ad una
cattedra di filosofia. Per Wundt l'oggetto della psicologia è l'esperienza diretta e immediata mentre
il metodo per rilevare è l'introspezione, attraverso cui l’individuo è in grado di rilevare cosa avvie-
ne nel preciso momento in cui fa esperienza della realtà. Wundt chiedeva di riferire alle persone tut-
te le componenti elementari della loro esperienza (logica elementaristica). Nel 1913 con Watson
nasce il comportamentismo in cui l'unico oggetto che possa rientrare nell'area di studio è il com-
portamento manifesto osservabile. La teoria del condizionamento (Pavlov) con la teoria compor-
tamentista, assume una prospettiva positivista elementarista (elementi: la campanella, la salivazio-
ne, la reazione; positivista osservatore e osservato sono non interferenti). Secondo la Gestalt, inve-
ce, agli antipodi del comportamentismo, l'oggetto di indagine non è il comportamento manifesto ma
i processi interiori che bisogna indagare attraverso i criteri di soggettività cosciente (approccio oli-
stico costruttivista). Quando diciamo che “la mente umana chiude le forme” stiamo dicendo che la
mente umana costruisce la sua realtà. In questa prospettiva così muovono anche poi tutti quelli che
sono le basi della teoria dei sistemi per cui l'individuo non solo costruisce ma è inscritto in un cam-
po, è inscritto in un sistema. Secondo questo modello ogni organismo è descrivibile come un siste-
ma aperto che interagisce con l'ambiente attraverso uno scambio di materia di energia e di informa-
zione, quindi non è solo una dinamica relazionale con l'esperienza con la realtà, bensì una dinamica
anche orizzontale che inscrive la persona in un sistema in una struttura di relazioni.
Una logica costruttivista olistica è alla base, per esempio, dei modelli psicoterapeutici della ge-
stalt umanistico esistenziali, una teoria invece è un modello epistemologico elementarista e speri-
mentale è alla base dei modelli psicoterapeutici comportamentisti. Un modello fondato su una
logica dei sistemi è alla base del modello psicoterapeutico sistemico relazionale. Leggermente più
complessa è la questione della psicoanalisi e dei modelli psicodinamici, in quanto sappiamo che il
Freud nasce in un contesto altamente positivista e la sua aspirazione è quella di rendere dimostrabi-
le, scomponibile, la teoria psicoanalitica. Ma il suo metodo è stato anche un metodo invece profon-
damente e radicalmente olistico fondato sulla ricerca del significato e sulla partecipazione con l'al-
tro nella costruzione della conoscenza.

Uno dei pilastri fondamentali per la nascita della psicologia scientifica è rappresentato dal dualismo
cartesiano tra res cogitans (cosa pensante) e res extensa (cosa soggetta alle leggi della fisica). Gra-
zie a Cartesio e al suo dualismo si delinea un modello di uomo costituito da due parti separate, cor-
po e anima, che devono essere studiate con metodi e strumenti differenti. Da qui si produrrà una se-
parazione della psicologia dalla filosofia e, successivamente, dalla sua costituzione come scienza
naturale. Una scienza naturale si basa sul metodo deterministico ed esplicativo, mentre la psicolo-
gia, in quanto disciplina umanistica, utilizza un metodo comprensivo e intuitivo dell’individualità
singola. In altre parole, la prima ricerca delle leggi universali, la seconda delle caratteristiche indi-
viduali.

11
Riassunti di Silvia Varro

Bisogna attendere fino al XVIII secolo per avere la definizione di un’area semantica della disciplina
che si avvicina a quella attuale.
Nel tempo una serie di processi psicologici è stata oggetto di studi naturalistici come, ad esempio,
gli studi di Franz Joseph Gall e di Spurzheim che hanno ravvisato una correlazione tra alcune ca-
ratteristiche psichiche e la forma del cranio (frenologia). Nel 1897 viene istituito da Wundt il pri-
mo laboratorio di psicologia associata a una cattedra di filosofia fatto che comporta il delinearsi di
una psicologia sperimentale. Secondo Wundt, l’oggetto della psicologia è l’esperienza diretta e im-
mediata e il metodo per rilevarla è l’introspezione, ovvero l’individuo può rivelare cosa avviene
nel momento esatto in cui esperisce la realtà. Alla psicologia sperimentale dobbiamo l’acquisizione
di criteri metodologici di sperimentazione e quantificazione, ma allo stesso tempo questo metodo
condurrà a problemi di oggettività scientifica. Dalla psicologia sperimentale prendono origine indi-
rizzi tra loro contrapposti:
• Il Funzionalismo (James e Dewey) che interpreta i fenomeni psichici come funzioni che servo-
no all’organismo per adattarsi all’ambiente
• L’Introspezionismo che sostiene che l’indagine dei contenuti e/o dei processi psichici possa es-
sere effettuata chiedendo al soggetto di riferire verbalmente ciò che sta accadendo nella sua
mente durante l’esecuzione di un compito.
Nel 1859, assistiamo ad un salto di paradigma: Darwin sostiene che la forma esseri viventi non è
immutabile, come sosteneva la biologia, ma il risultato di fortuite variazioni dei caratteri della spe-
cie che sono state successivamente selezionate dalla natura. Da qui anche lo sviluppo
intellettivo e morale dell’uomo, nonché le attività psichiche possono essere spiega-
ti nei termini di una selezione naturale di quei caratteri più funzionali
all’ambiente a discapito di quelli meno adatti alla sopravvivenza che sono
destinati a scomparire. La matrice darwiniana è alla base delle teorie di Ja-
mes, il quale introduce il concetto di coscienza. James sostiene che la realtà psichica non deve esse-
re considerata come fenomeni disarticolati connessi ai meccanismi fisiologici, ma deve essere colta
nel suo fluire in termini di flusso di coscienza (stream of consciusness) descrivibile nella sua im-
mediatezza e da analizzare nelle sue relazioni. Con la sua teoria periferica sulle emozioni3, James
considera l’esperienza mentale come una totalità che comprende sia i pensieri articolati sia quelli
indeterminati, aprendo così la strada alla nascita del concetto di inconscio e della psicologia indi-
viduale. Gli aspetti inconsci erano già stati argomento di interesse di filosofi e letterati (Shelling,
Schopehauer, Leibniz), ma è solo con Freud che queste caratteristiche della mente umana vengono
studiate e espresse con un metodo e un linguaggio che assecondino le esigenze di scientificità
dell’epoca.

L’esigenza di una maggiore oggettività scientifica, caratterizzante il Novecento, trova una parziale
risposta negli esperimenti e nelle teorie del fisiologo russo Pavlov (Premio Nobel per la medicina,
1904): facendo ricerche sugli animali e, successivamente, sul comportamento umano scopre il con-
dizionamento, cardine dello studio sperimentale dell’apprendimento. Tra gli anni Trenta e Sessanta
si diffonde in America il Comportamentismo di Watson che stabilisce le condizioni della speri-
mentazione in laboratorio e il rigore della quantificazione delle variabili:
• L’unico oggetto dell’indagine psicologica deve essere il comportamento dell’individuo;

3
Secondo la teoria periferica di James e Lange (1884), l’esperienza emozionale soggettiva viene percepita alla fine di
un processo che si svolge nel corpo: si chiama periferica perchè prima di provare l’emozione deve accadere qualcosa
nel corpo, mentre l’emozione è la sensazione percettiva soggettiva di quello che accade. Ad esempio, vedendo
un’automobile avvicinarsi mentre attraversiamo la strada si attiva uno stimolo emotigeno: nel nostro corpo avvengono
mutamenti fisiologici, dovuti a risposte espressive e comportamentali, ma solo alla fine di questi mutamenti sentiamo la
sensazione oggettiva, cioè la percezione soggettiva di tutti i movimenti che sono avvenuti nel nostro corpo, in questo
caso soggettivamente percepiamo paura.

12
Riassunti di Silvia Varro

• Esso è osservabile e misurabile con metodi obiettivi


• La metodologia di rilevazione deve permettere la ripetizione degli esperimenti
• L’interpretazione dei dati deve essere fatta secondo lo schema stimolo/risposta (S-R)
• Il pensiero viene considerato una forma di comportamento riducibile a movimenti impercettibili
dell’apparato vocale.
La teoria comportamentista esclude la dimensione della coscienza dando voce solo a ciò che si ma-
nifesta e che può essere osservato. La mente diventa una scatola nera (black box) non indagabile
perché non osservabile con criteri oggettivi. Agli antipodi del Comportamentismo, si pone la Ge-
stalt che prende come oggetto d’indagine i processi interiori, indagabili secondo criteri di soggetti-
vità cosciente. Nella seconda metà del Novecento vi è una crisi della concezione che la scienza è
l’unica forma di conoscenza umana (scientismo) e si riconosce il fatto che la conoscenza scientifica
è sempre contestuale e parziale (Popper).

La psicologia attualmente è costituita da un corpus di differenti prospettive con metodi tra loro mol-
to diversi per cui non è un’unica disciplina, ma un insieme di scienze molteplici. Vista la frammen-
tarietà e l’apparente incoerenza di questa disciplina ci si è domandati se sia legittimo riconoscerla
come una scienza in grado di produrre conoscenze oggettive e ciò parrebbe possibile considerando
queste tre esigenze fondamentali per ogni disciplina:
- La coerenza logico-programmatica: capacità di adeguare osservazione e verifiche alla realtà;
- La capacità di spiegare e anticipare: formulare previsioni attendibili;
- La capacità di auto-riorganizzarsi: adeguarsi alle crescenti necessità delle proprie ricerche.
Queste tre esigenze concorrono al costituirsi della struttura generale della scientificità, la quale si
articola intorno a due elementi: l’oggetto e il metodo. Inizialmente poteva essere oggetto di scienza
solo il concreto, oggi, l’oggetto scientifico è interpretato come un modello utile per conoscere la co-
sa; a scienza è vista come un discorso della realtà.
Agazzi nelle sue teorie epistemologiche spiega che ciò che differenzia le proposizioni scientifiche
dal linguaggio comune sono i criteri di protocollarità. È definito protocollo una proposizione
semplice non ulteriormente riducibile che registra i dati elementari e immediati della percezione.
Gli enunciati protocollari non hanno bisogno di verifica e sono i principi di base che la scienza uti-
lizza per determinare la verità o la falsità delle sue proposizioni nonché coloro che definiscono
l’oggetto di studio. Secondo Agazzi si può definire oggetto scientifico quell’entità astratta che si
sceglie di indagare dopo aver stabilito i criteri di protocollarità; è un costrutto direttamente speri-
mentabile (attraverso una serie di nessi logici), esplicita e ispezionabile. Inoltre, Agazzi sostiene che
l’oggettività scientifica nasce dal presupposto che si formi una comunità che condivide l’impiego di
certi strumenti per verificarne la coerenza. L’oggettività non dipende quindi dalla comunità scienti-
fica generale, ma dal particolare gruppo di riferimento. Siccome la psicologia ha oggetti specifici,
linguaggio e criteri propri che consentono agli interlocutori di decidere sulla verità o falsità delle af-
fermazioni, si costituisce come scienza.

Nonostante la psicologia sia costituita da un corpus di differenti branche, si può riscontrare che una
tendenza comune: la mente umana è considerata come un insieme di funzioni organizzatrici in inte-
razione con un ambiente concepito nella sua complessità e dinamicità. Il modello teorico che me-
glio si adatta a questa visione è quello dei sistemi dinamici e complessi, secondo il quale il com-
portamento di un tutto può essere compreso solo studiando le proprietà delle sue parti. Il principio
di mantenimento del sistema presuppone una costante apertura di questo alle informazioni prove-
nienti dall’esterno; il sistema è in grado di autoregolarsi, controllando e regolando il proprio com-
portamento mediante meccanismi retroattivi che funzionano secondo un modello di causalità circo-

13
Riassunti di Silvia Varro

lare. Tale organizzazione aperta promuove un costante e reciproco adattamento tra le parti mante-
nendo così l’integrazione dell’organismo e la sua coerenza vitale. (Approfondimento pag. 18 del
manuale)
Siccome per studiare le varie parti sono fondamentali le altre discipline non si può eliminare
l’interazione tra i diversi settori disciplinari non necessariamente psicologici. Ad esempio, tra i pos-
sibili ambiti di convergenza tra la biologia e la psicologia non possiamo che ricordare la scoperta
dell’equipe italiana di Rizzolatti dei neuroni mirror: neuroni della neocorteccia che si attivano non
solo quando viene compiuto un gesto, ma anche quando lo stesso gesto viene visto compiere da al-
tri.
Le recenti ricerche sono concordi nel considerare il sistema mirror come il substrato neuronale
dell’intersoggettività, intesa come l’insieme complesso dei modi in cui due menti si relazionano, si
si sintonizzano, rompono e riparano la sintonizzazione.

All’inizio degli anni Novanta l’istituto di fisiologia dell’Università di Parma diretto da Giacomo
Rizzolatti ha rilevato, attraverso una serie di ricerche, la presenza nella corteccia premotoria dei
macachi (F5), di una classe di neuroni che si attiva non solo quando la scimmia afferra o manipo-
la un oggetto, ma anche quando osserva le stesse azioni eseguite dagli altri (in particolare se
l’azione consisteva nell’interazione tra mano dell’agente e oggetto).
In una prima serie di esperimenti i neuroni specchio sono stati studiati in due condizioni speri-
mentali diverse:
1. La scimmia poteva vedere l’azione nella sua
interezza: una mano che afferra un oggetto.
2. La stessa azione era oscurata nella sua parte
terminale, quella cioè in cui la mano dello
sperimentatore interagiva con l’oggetto. La
scimmia sapeva che l’oggetto bersaglio
dell’azione era nascosto dietro uno schermo,
ma non poteva materialmente vedere la mano che afferrava l’oggetto.
In questa seconda situazione sperimentale, nonostante l’impedimento visivo, più della metà dei
neuroni registrati ha continuato a rispondere anche nella condizione oscurata. Emerge che
l’osservazione di un’azione induce l’attivazione dello stesso circuito nervoso deputato a control-
larne l’esecuzione e quindi l’automatica simulazione della stessa azione nel cervello
dell’osservatore. Questo meccanismo, dunque potrebbe essere alla base di una comprensione
implicita delle azioni altrui.
Studi successivi hanno dimostrato l’attivazione di neuroni specchio durante l’ascolto di un suono
prodotto da una determinata azione, o durante l’osservazione di movimenti della bocca ed espres-
sioni facciali eseguite dallo sperimentatore di fronte alla scimmia (neuroni specchio audio-visivi
e comunicativi).

Le ricerche neuroscientifiche di Allan Schore hanno contribuito a indagare come l’emisfero destro,
definito “cervello emotivo” raggiunga la sua massima crescita nei primi diciotto mesi del bambino
(è noto che la corteccia destra si sviluppi più precocemente di quella sinistra), assumendo un ruolo
dominante nei primi tre anni. Allo stesso modo il cervello della madre, a causa delle modificazioni
provocate dagli ormoni della gravidanza, subendo una sorta di regressione, tende ad usare in questa
fase soprattutto la sua parte destra, dimostrando così una sintonizzazione con il suo bambino.
In sintonia con il concetto winnicottiano di holding (capacità della madre di fungere da contenitore
delle angosce del bambino), possiamo evidenziare come molti primati e la maggior parte delle don-
ne umane tendano a tenere in braccio i loro piccoli dalla parte sinistra del corpo: in questo modo
l’immagine del bambino è collocata nell’emiretina visiva dell’emisfero destro.
Maltia normale dlela madre del bambino in questoi caso risulta sostenuta dalla scienza.

14
Riassunti di Silvia Varro

Capitolo 3

Angela aveva 22 anni, viveva con sua madre e lavorava come segretaria in una grande compa-
gnia di assicurazioni. Aveva già attraversato alcuni momenti di “malinconia”, ma in questo mo-
mento era particolarmente abbattuta. Era gravemente depressa e aveva frequenti crisi di pianto,
che negli ultimi due mesi erano state particolarmente forti. Angela aveva difficoltà nel concen-
trarsi sul suo lavoro, faceva fatica ad addormentarsi la notte e aveva scarso appetito [..,] la de-
pressione era iniziata due mesi prima, dopo che si era lasciata con il fidanzato Jerry. Angela ha
poi fissato un appuntamento con un terapeuta, il quale ha raccolto il maggior numero di infor-
mazioni possibili su Angela e il suo disturbo. Chi è questa persona, che tipo di vita conduce, qua-
li sono esattamente i suoi sintomi? Le risposte possono aiutare a stabilire la causa e il probabile
andamento della sua disfunzione attuale, nonché a suggerire quale tipo di strategie potrebbero
aiutarla. L’obiettivo principale degli specialisti clinici, quando si trovano di fronte a un nuovo
paziente, è proprio raccogliere su queste informazioni idiografiche (riguardanti il comportamen-
to di un individuo). Per aiutare le persone a superare i loro problemi, i clinici devono compren-
dere appieno e assieme alle loro particolari difficoltà. Allo scopo di raccogliere queste informa-
zioni, i clinici utilizzano le procedure di valutazione e diagnosi. Solo dopo sono in grado di pro-
porre un trattamento.

Con valutazione s’intende la semplice raccolta di informazioni pertinenti, nel tentativo di raggiun-
ger una conclusione. Questo avviene in qualsiasi ambito della vita: i datori di lavoro, ad esempio, i
quali hanno la necessità di individuare i collaboratori migliori tra diversi candidati, raccolgono in-
formazioni attraverso curriculum, colloqui, referenze e probabilmente dall’osservazione della per-
sona all’opera.
La valutazione clinica è indispensabile per determinare come e perché una persona presenta un
comportamento anormale e come si può intervenire per aiutarla. Ha inoltre lo scopo di consentire al
clinico di valutare i progressi dei pazienti dopo un certo periodo di trattamento e di decidere se mo-
dificare la terapia. Le centinaia di tecniche e di strumenti per la valutazione clinica che sono stati
mesi a punto nel tempo possono essere suddivise in tre categorie: colloqui clinici, test e osservazio-
ni. Per dimostrarsi utili, questi strumenti devono essere standardizzati e possedere una chiara affi-
dabilità e validità.

Sotto il termine assessment psicologico viene inteso quel processo che consente di
giungere a valutazioni sui comportamenti, abilità e personalità di un soggetto. Esso in-
clude differenti metodi e strumenti che generalmente vengono raggruppati in quattro
categorie: test psicologici basati su dati normativi, interviste e colloqui, osservazioni.
Il termine assessment psicologico di per sé implica l’utilizzo di più metodi e quindi che ci si accosti
alla conoscenza dell’individuo tramite un approccio “multimethod”. In altri termini, l’assessment
psicologico riguarda la raccolta e l’integrazione di dati ai fini di una valutazione, decisione o indi-
cazione per l’intervento. Fare il punto della situazione

Il clinico durante il processo di valutazione sceglie i metodi di esame, conduce la valutazione, os-
serva e interpreta i risultati, riassume, se è il caso le informazioni rilevanti per il cliente e/o comuni-
ca i risultati ad altri professionisti.

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Riassunti di Silvia Varro

Standardizzare una tecnica significa stabilire dei passi comuni da seguire quando una tecnica vie-
ne applicata. Analogamente, i clinici devono standardizzare il modo in cui essi interpretano i risulta-
ti di uno strumento di valutazione, allo scopo di riuscire a comprendere cosa significhi un particola-
re punteggio. Ad esempio, possono standardizzare i risultati di un test somministrandolo a un grup-
po di partecipanti a una ricerca, e questi risultati costituiranno in seguito uno standard comune, o
norma, rispetto alla quale diventa possibile misurare successivamente altri punteggi individuali. Il
gruppo iniziale che viene sottoposto al test deve essere rappresentativo della popolazione in genera-
le per la quale è pensato il test medesimo. Ad esempio, se un test sull’aggressività inteso per un
pubblico ampio venisse standardizzato su un gruppo di marines, la norma risultante potrebbe rive-
larsi elevata in modo fuorviante.
Con affidabilità si intende la coerenza delle misure di valutazione. Uno strumento di valutazione
valido darà sempre gli stessi risultati nella stessa situazione.
Uno strumento di valutazione ha una elevata affidabilità test-retest, ossia è un tipo di test che dà
gli stessi risultati ogni volta che viene somministrato alle stesse persone. Se dalle risposte in un par-
ticolare test emerge che una donna è in generale una forte consumatrice di alcol, si deve ottenere lo
stesso risultato somministrando il test a distanza di una settimana. Per misurare l’affidabilità test-
retest, i partecipanti vengono sottoposti al test in due momenti diversi e i punteggi confrontati.
Maggiore è la correlazione, più elevata è l’affidabilità del test.
Uno strumento di valutazione mostra un elevato grado di affidabilità interrater (detta anche inter-
judge), ossia la concordanza tra più valutatori sul punteggio e l’interpretazione del test. Dai test del
tipo vero/falso e a scelta multipla emergono punteggi coerenti, indipendentemente dal valutatore,
mentre altri tipi di test richiedono un giudizio da parte del valutatore. Nel caso di un test che richie-
da di copiare un disegno, il quale poi viene valutato da un giudice dal punto di vista della precisio-
ne, valutatori diversi possono giudicare lo stesso disegno in maniera diversa.
Per finire, uno strumento di valutazione deve essere dotato di validità: esso deve misurare accura-
tamente ciò che dovrebbe misurare. Supponiamo che una bilancia legga 1,2 kg ogni volta che vi si
pesa 1kg di zucchero: anche se la bilancia è affidabile, in quanto i risultati sono coerenti, essi non
sono né validi né accurati.
Un dato strumento di valutazione può sembrare valido semplicemente perché appare ragionevole e
sensato. Questo tipo di validità, detto validità di facciata, non significa di per sé che lo strumento
sia affidabile. Un test sulla depressione, ad esempio, potrebbe comprendere domande sulla frequen-
za del pianto. Poiché sembra normale che i depressi piangano, queste domande hanno una validità
di facciata. Tuttavia, risulta anche che molte persone piangono per ragioni del tutto diverse dalla
depressione, mentre altre persone estremamente depresse non piangono affatto. Pertanto, un dato
strumento di valutazione non va utilizzato se manca di un’elevata validità predittiva o di validità
concorrente. Predittiva: si riferisce alla capacità di un test di prevedere caratteristiche o comporta-
menti futuri.
Esempio: un test raccoglie informazioni sui genitori di bambini in età scolare per identificare che
diverranno fumatori nell’adolescenza (abitudine al fumo e atteggiamento nei confronti del fumo).
Per stabilirne la validità predittiva i ricercatori potrebbero somministrarlo a un gruppo di alunni di
scuola elementare, attendere che siano adolescenti e studenti di scuola superiore, e quindi verificare
per vedere quali bambini sono effettivamente diventati fumatori.
Concorrente: esprime la correlazione tra i risultati del test in esame e i risultati derivanti da altre
tecniche di valutazione.
Esempio: i punteggi dei partecipanti a un nuovo test ideato per misurare il grado di ansia dovrebbe-
ro essere fortemente correlati ai punteggi ottenuti in altri test sull’ansia o al loro comportamento nel
corso del colloquio clinico.
Affinché uno strumento di valutazione sia realmente utile, deve rispondere a criteri di uniformità,
affidabilità e validità. Anche di fronte a una tecnica apparentemente brillante, i clinici non possono
utilizzare i risultati se risultano non interpretabili, discordanti o non abbastanza accurati.

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Riassunti di Silvia Varro

Spesso il colloquio è il primo contatto fra paziente e clinico. I clinici ne fanno uso per raccogliere
informazioni dettagliate sui problemi e sulle emozioni di quella persona, sul suo stile di vita, i rap-
porti personali e altri elementi della sua storia. Possono anche porre domande su cosa si aspetta il
paziente dalla terapia e sulle motivazioni che l’hanno spinto a chiederla.
Oltre a raccogliere dati fondamentali sulla storia passata della persona, chi conduce un colloquio
clinico attribuisce particolare attenzione agli argomenti considerati più importanti.
Gli intervistatori psicodinamici cercano di sapere quali siano i bisogni della persona che ha di fron-
te, cosa ricorda delle esperienze passate e come siano i suoi rapporti con gli altri. Gli intervistatori
di orientamento comportamentale mirano a ottenere informazioni sugli stimoli che terminano certe
reazioni e sulle loro conseguenze. Gli intervistatori cognitivi cercano di scoprire le convinzioni e le
interpretazioni che influenzano la persona. I clinici umanisti fanno domande sull’autovalutazione
del paziente, sull’idea che il soggetto ha di sé e sui suoi valori. Gli psicologi biologi cercano di in-
dividuare sintomi di disfunzioni biochimiche o cerebrali. Gli psicologi socioculturali, infine, pon-
gono domande riguardo all’ambiente familiare, sociale e culturale del soggetto.
Il colloquio può essere:
Non strutturato: il clinico pone domande aperte, magari un semplice “perché non mi dice qualcosa
di lei?”. L’assenza di struttura consente all’intervistatore di seguire degli indizi e di addentrarsi in
temi significativi che non potevano essere previsti prima del colloquio. I colloqui non strutturati in
genere sono preferiti dagli psicologi comportamentali e cognitivi, per i quali è necessario identifica-
re comportamenti, atteggiamenti o processi cognitivi che possono essere alla base di un comporta-
mento anormale.
Strutturato: vengono poste domande già preparate. Talora si utilizza un modello di colloquio pub-
blicato, ossia una serie di domande standard valide per tutti i tipi di colloquio. Molti colloqui strut-
turati comprendono un esame dello stato mentale, una serie di domande e osservazioni che valutano
in modo sistematico la consapevolezza del paziente, l’orientamento rispetto tempo e spazio, la so-
glia di attenzione, la memoria, il giudizio e il discernimento, il contenuto e i processi di pensiero,
l’umore e l’aspetto esteriore. Un modello strutturato consente all’esaminatore di inserire lo stesso
tipo di temi importanti in tutti i colloqui, nonché di confrontare le risposte di individui diversi.
Limiti del colloquio clinico
• Talvolta mancanza di validità o accuratezza: Le persone possono pilotare intenzionalmente le
risposte in modo da presentarsi sotto una luce positiva o per evitare di affrontare argomenti im-
barazzanti, o ancora possono non essere in grado di rispondere con precisione durante il collo-
quio. Chi soffre di depressione, ad esempio, ha una visione pessimistica di se stesso e può dire
di essere un pessimo lavoratore o un genitore inadeguato, quando non è affatto così;
• Errori di giudizio degli esaminatori: questi possono alterare le informazioni raccolte. Può ca-
pitare che tendano a basarsi troppo sulla prima impressione o a dare troppo peso alle informa-
zioni negative su un dato soggetto. I pregiudizi dell’intervistatore riguardo a sesso, razza, età e
aspetto possono influenzare a loro volta le sue interpretazioni di ciò che dice il soggetto.
• Mancanza di affidabilità (in particolare colloqui non struttura-
ti): le persone rispondono in modo diverso a intervistatori di-
versi; ad esempio, forniscono meno informazioni a una per-
sona algida rispetto a un esaminatore cordiale e capace di
empatia. Anche in questo caso razza, sesso, età e aspetto
dell’intervistatore possono influenzare le risposte del soggetto.

I test sono strumenti per la raccolta di informazioni su alcuni


aspetti del funzionamento psicologico di una persona, dai

17
Riassunti di Silvia Varro

quali è possibile desumere informazioni più generali su quella persona. Non è facile mettere a punto
un test efficace: test forniti da siti web e riviste mancano di affidabilità, validità e standardizzazione,
ossia non danno informazioni coerenti e precise e neppure svelano come ci collochiamo rispetto agli
altri. Tra i test clinici utilizzati ritroviamo i test proiettivi, inventari di personalità, inventari di rea-
zione/reattivi mentali, test psicofisiologici, test neuropsicologi e test di intelligenza.

I test proiettivi richiedono al soggetto di interpretare stimoli vaghi, quasi privi di contenuto, come
delle macchie d’inchiostro, delle figure ambigue o di seguire istruzioni aperte come “disegna una
persona”. In teoria, di fronte a indizi e istruzioni così generici, si tende a proiettare alcuni aspetti
della propria personalità sul compito. I test proiettivi sono utilizzati soprattutto dagli psicologi psi-
codinamici per valutare le pulsioni e i conflitti inconsci che ritengono essere alla base di un fun-
zionamento anormale. I test proiettivi più diffusi sono il test di Rorschach, il test di appercezione
tematica, i test di completamento delle frasi e i test basati sui disegni.

Nel 1911 Hermann Rorschach, psichiatra svizzero, condusse una serie di esperimenti usando delle
macchie4 di inchiostro nella sua attività clinica. Produsse migliaia di macchie lasciando cadere goc-
ce d’inchiostro su fogli di carta e poi ripiegandoli in due per creare immagini simmetriche, ma del
tutto casuali. Rorschach verificò che tutti vedevano immagini nelle macchie e che tali immagini
sembravano corrispondere in maniera significativa alla condizione psicologica dell’osservatore. Le
persone con diagnosi di schizofrenia, ad esempio, tendevano a vedere immagini diverse da quelle
descritte da chi era affetto da depressione.
Perché le immagini sono simmetriche? sperimentandole, proponendole alle persone, le macchie non
simmetriche non venivano dotate di significato dalle persone, le macchie simmetriche, invece, ri-
spettando la simmetria della struttura corporea, evocano un processo di organizzazione percetti-
va e dunque di attribuzione di senso, perché il movimento che richiede il Rorschach è un movi-
mento duplice: da un lato devi organizzare percettivamente tale macchia simmetrica, dall’altra
quest’ultima non ha un significato preciso e a questo punto il soggetto proietta, ricerca, recupera dal
proprio mondo interno l’attribuzione di senso. Rorschach comprende quindi che tale movimento di
percezione e proiezione potesse avere un ruolo psicodiagnostico.
Il test di Rorschach può essere definito come una situazione stimolo che, per le sue caratteristiche
di ambiguità (le macchie), può suscitare un ampio numero di risposte (che si suppone siano espres-
sione dell’atto percettivo e proiettivo), di interpretazioni diverse, espressioni dell’organizzazione
psicologica del paziente e pertanto permette di fare diverse valutazioni:
- Formale (attenta e corretta siglatura e lettura degli indici)
- Contenutistica
- Simbolica
- Relazionale
È un test proiettivo perché lo stimolo presentato (la macchia), per le sue caratteristiche di ambiguità,
fa si che il soggetto operi una ristrutturazione percettiva e produca una risposta (un engramma) gra-
zie al meccanismo della proiezione, il quale permette di mettere fuori qualcosa che è dentro, di ag-
giungere un qualcosa di personale, che appartiene al mondo interno, ma allo stesso tempo deve ri-
spettare le regole del mondo esterno.
È auspicabile che lo psicologo clinico che utilizzi il Rorschach non sono espliciti le risposte date dal
soggetto e la corrispondente codificazione attraverso il procedimento della siglatura e
dell’elaborazione quantitativa dei dati, ma che indichi anche con precisione i riferimenti teorici a

4
Per una strana coincidenza, i compagni di scuola di Rorschach gli avevano dato il soprannome Klex, una storpiatura
del termine tedesco Klecks, ossia macchia d’inchiostro.

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Riassunti di Silvia Varro

cui si attiene, che possono riguardare modelli interpretativi tra loro anche diversi, e indichi i riferi-
menti numerici che permettano confrontazioni univoche dei dati del protocollo con quelli normativi.
Esistono in particolare due approcci fondamentali:
1. Approccio di tipo empirico-normativo: il Rorschach viene letto utilizzando dei parametri stati-
stici ed è pertanto visto come una valutazione su base psicometrica. Il test occupa il posto fon-
damentale e serve a misurare;
2. Approccio di tipo concettuale: il Rorschach viene letto sulla base delle teorie psicoanalitiche.
Lo scopo principale è comprendere il soggetto nella sua complessità e unicità.
Attualmente, è molto utilizzato un approccio di tipo integrato, che è un approccio completo e inte-
ressante poiché integra la valutazione con entrambi i modelli.
Per quanto concerne la somministrazione:
- deve essere fatta nel modo più confortevole possibile
- deve avvenire in un’unica seduta
- non deve mai essere fatta in una fase acuta della malattia
La consegna deve essere più limitata possibile ed è preferibile annotare mi-
nuziosamente quello che il paziente dice e fa, rispettando anche i vocaboli da
lui utilizzati, i tempi, le latenze e le eventuali rotazioni delle tavole senza uti-
lizzare il registratore (verrebbe introdotta una variabile esterna).
Le tavole (dieci in tutto) hanno un ordine di presentazione preciso e precosti-
tuito (sempre nello stesso ordine e nello stesso verso); sono macchie disposte
rispetto a un asse centrale, con un aspetto simmetrico. Alcune sono mono-
cromatiche, comprare solo il colore grigio-nero (I, IV, V, VI, VII); altre so-
no bicromatiche, compare anche il colore rosso (II, III); le ultime tre sono
policromatiche, cioè caratterizzate dalla presenza di più colori (VIII, IX, X).
Tutte le tavole hanno un potere evocatorio o un carattere connotativo speci-
fico, cioè possono rimandare inconsciamente a costellazioni psicologiche
specifiche.
Dal punto di vista della siglatura del test, ogni risposta Rorschach deve essere classificata e ordinata
attraverso quattro elementi, tre fondamentali, uno accessorio:
LOCALIZZAZIONE (o modo di comprensione): indica la parte della tavola che viene interpretata
dal soggetto, per esempio il tutto, una grossa parte, piccole parti, parte bianca ecc. Risponde alla
domanda: “quale area della tavola è stata interpretata?”. I tipi di appercezione o di localizzazione
principali sono cinque: (1) globale – siglata G – l’interpretazione della tavola si riferisce al tutto
della macchia, la figura è interpretata nel suo insieme; (2) dettaglio – siglata D – (dettaglio grande)
l’interpretazione della tavola si riferisce a una parte della macchia, in genere grande oppure piccola,
ma frequentemente interpretata; (3) dettaglio bianco – siglata Dbl – l’interpretazione della tavola si
riferisce alla parte bianca. Sono risposte non attese (4) dettaglio di dettaglio – siglata Dd – (detta-
glio piccolo) l’interpretazione della tavola si riferisce a parti molto piccole. A volte, ma raramente,
sono parti grandi ma raramente interpretate; (5) dettaglio oligofrenico – siglata Do –
l’interpretazione della tavola si riferisce a una parte, laddove viene general-
mente interpretato il tutto.
DETERMINANTE: rappresenta il fattore determinante che ha fatto si che
fosse data quella risposta, per esempio la forma oppure il colore ecc. È il
cuore valutativo del test. Risponde alla domanda: “quale è stato il fat-
tore principale nel determinare la risposta?”. Le determinanti pos-
sono essere suddivise in due gruppi: formali (percezione e ristrut-
turazione dello stimolo) e chinestetiche (proiezione, determinanti
colore al vissuto emotivo). Il soggetto nel dare una risposta può quindi
registrare la forma (F), il colore (C), il movimento o le chinestesie, le sfuma-
ture o estompage (E), il chiaroscuro diffuso o Clob, le determinanti doppie o

19
Riassunti di Silvia Varro

associate. Sono frequenti quelle formali, che vengono analizzate in percentuale perché numerose.
(1) Determinanti formali – sono determinate esclusivamente dalla linea esterna che delimita l’area
presa in esame dal soggetto il quale, seguendo proprio il contorno formale della macchia, fornisce
un’interpretazione escludendo completamente gli influssi del colore cromatico, della sfumatura e
del movimento. Dal punto di vista interpretativo rappresentano un tentativo di controllo dell’aspetto
caotico delle macchie attraverso la capacità del soggetto di definire, ordinare e oggettivizzare il
campo visivo attraverso il “ragionamento formale”. Mettono pertanto in evidenza lo sforzo di adat-
tamento all’ambiente e al reale del soggetto.
(2) Determinanti chinestetiche – rimandano alla proiezione, determinanti colore al vissuto emotivo.
Sono legate al movimento e, a seconda di quale percetto viene visto in movimento, si possono sud-
dividere in maggiori, quando il movimento riguarda gli esseri umani (K: movimento umano) e mi-
nori, quando il movimento riguarda un movimento animale (Kan o FK), un movimento d’oggetto
(Kob o k) o piccole chinestesie (Kp). Dal punto di vista interpretativo, le chinestesie umane sono un
chiaro indice di mentalizzazione e di ricorso all’immaginario e quindi arricchiscono il funzionamen-
to cognitivo. Sono pertanto rappresentative di un’attività mentale complessa e delle potenzialità
creative del soggetto. Le chinestesie minori invece esprimono le tendenze nascoste del soggetto,
poiché appartengono al mondo dell’inconscio e del latente e spesso hanno una forte connotazione
proiettiva: i movimenti degli animali non umani rappresentano uno spostamento di un movimento
che non poteva essere effettuato su figure umane, i movimenti d’oggetto rappresentano pulsioni in-
terne intense e violente e infine le piccole chinestesie sono mosse da tendenze proiettive legate a
movimenti interpretativi di tipo paranoico.
(3) Determinanti legate al colore – sono risposte determinate non soltanto dalla forma della mac-
chia, ma anche dal suo colore, oppure dal suo colore soltanto (C: predomina il colore; CF: c’è un
contorno, ma predomina il colore; FC: c’è un buon contorno formale, ma è presente anche il colo-
re). Quando il colore è invece acromatico, ovvero bianco, grigio, nero, si siglerà con C’ (C’: predo-
mina colore acromatico; C’F: c’è un contorno, ma predomina il colore acromatico; FC’: c’è un buon
contorno formale, ma è presente anche il colore acromatico). Dal punto di vista interpretativo, già
Rorschach evidenziò la stretta relazione esistente tra colore e affettività evidenziando come “al ma-
nicomio tutto appare nero, mentre della persona allegra si dice che vede ogni cosa attraverso degli
occhiali rosa. Il nero è il colore del lutto. Non si può immaginare una festa allegra senza colori, né,
tantomeno, un carnevale grigio.”
(4) Determinanti sfumatura o estompage – sono risposte caratterizzate dal contrasto tra luci e om-
bre oppure dalle diverse tonalità del grigio. I contenuti di tali risposte vanno quindi da impressioni
di profondità, di trasparenza, di prospettiva, tattili differenziate tra di loro dalla presenza o meno
dell’elemento formale come primario o secondario (E, EF, FE). Dal punto di vista interpretativo,
queste determinanti sono associate all’ansia.
(5) Determinanti legate al chiaro-scuro – sono risposte caratterizzate dall’impressione dovuta al ca-
rattere imponente, cupo, di grande superficie e a risonanza disforica (Clob; ClobF; FClob). Dal pun-
to di vista interpretativo, non vi è più, come nelle determinanti E, un’impressione vaga di insicurez-
za passiva, ma la reazione è esplicita e legata alla vicinanza del pericolo.
CONTENUTO: collocato nella terza colonna di Rorschach, risponde alla domanda “che cosa è sta-
to visto? Qual è l’oggetto della percezione?”. Possono esser di diverso tipo e pertanto riflettono cu-
riosità intellettuale e gli interessi del soggetto: maggiore è la varietà dei contenuti, maggiore è la
plasticità di pensiero. Le categorie principali dei contenuti sono schematizzabili come segue:
- animali reali – A – e fantastici –(A) –;
- esseri umani interi – H – ed essri umani interi fantastici – (H) –;
- oggetti – Obj –;
- interpetazioni anatomiche – Anat –;
- interpretazioni sessuali – Sex –;

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Riassunti di Silvia Varro

BANALITA’ DELLA RISPOSTA: è un concetto di tipo statistico, cioè si valuta se una certa ri-
sposta è data con una certa frequenza in una popolazione normale. La banalità della risposta corri-
sponde per alcuni studiosi a una percentuale superiore al 33% dei casi (una persona su 3), per altri
superiore al 17% (una persona su 6). A livello interpretativo rappresentano la capacità del soggetto
di adattamento sociale e di pensiero collettivo e condivisibile. Tali risposte possono variare in base
alla nazionalità, all’ambiente socioculturale di appartenenza del soggetto e al periodo storico e cro-
nologico. Solo alcune risposte banali possono essere considerate “banali internazionali” vista la loro
elevata frequenza statistica: due figure umane nella tavola III, pipistrello nella tavola V e animali
quadrupedi nel D rosa laterale della tavola VIII.
Rorschach selezionò in particolare dieci immagini che pubblicò nel 1921, corredandole di istruzioni
per l’uso nella valutazione clinica. Questa serie di tavole fu chiamata Test psicodinamico delle
macchie di Rorschach. L’autore morì a distanza di otto mesi, a soli 37 anni, ma il suo lavoro fu ri-
preso da altri e le sue tavole si affermarono tra i test proiettivi più ampiamente utilizzati nel XX se-
colo.
Il Rorschach può essere letto attraverso diversi metodi di lettura (Scuola Europea, tra cui la scuola
Francese; il Comprehensive System di Exner ecc.) e attraverso diversi approcci (empirico-
normativo, di tipo psicoanalitico ecc.)

Il test di appercezione tematica è un test proiettivo figurativo. Ai soggetti sottoposti al test vengo-
no mostrate 30 tavole costituite da disegni e fotografie e viene loro chiesto di elaborare un racconto
drammatico su ciascuna tavola. Essi devono raccontare cosa sta accadendo nell’immagine, cosa ha
condotto a quella situazione, cosa provano e pensano i personaggi e quale sarà l’epilogo. I clinici
che utilizzano il TAT ritengono che ci si identifichi sempre con uno dei personaggi di ciascuna ta-
vola. Si ritiene altresì che i racconti elaborati riflettano circostanze, bisogni ed emozioni propri degli
individui. Quindi, mentre con il test di Rorschach chiediamo al soggetto cosa
vede, cosa gli sembra ci sia nella tavola, nel TAT chiediamo al soggetto di rac-
contare una storia. Nei TAT c’è anche un’intervista che può proseguire. Ad
esempio, se la persona dicesse “ci sono due donne, una vecchia e una giovane, e
basta”, il clinico può continuare e chiedere: “Che cosa sta succedendo secondo
te?”. Quindi invitare ad attivare un registro narrativo e non descrittivo, neces-
sariamente il soggetto fa riferimento all’immaginazione. E quindi necessaria-
mente attiva una funzione di costruzione di senso che non appartiene all’oggetto ma
appartiene al soggetto che costruisce la storia. Questo è il senso che attraversa qualsiasi test proiet-
tivo: viene dato uno stimolo e si chiede di andare oltre allo stimolo e nel fare questo il soggetto ne-
cessariamente porterà al clinico una parte di sé.
Le tavole del TAT sono 30, di solito il clinico non le somministra tutte, ma le sceglie in ragione del-
le diverse situazioni, delle diverse aree della vita che si vogliono indagare, ne vengono scelte tra 10
e 12. Altre possibilità di conduzione dell’intervista potrebbero essere ad esempio: “Che cosa stanno
pensando i personaggi?”. Se il soggetto non risponde si può andare verso il concreto, “Che cosa
stanno facendo?’. Ogni soggetto immagina cose diverse in funzione non dell’immagine ma del rap-
porto con questa. Se l’immagine non c’entrasse proprio niente a quel punto abbiamo degli indizi di
psicopatologia più grave cioè di una difficolta di rapporto con l’elemento percettivo. Questo è il
senso di proporre storie.

Il CAT è il reattivo per bambini, è l’adattamento del TAT alla popolazione infantile. Le tavole,
dunque, non rappresentano scene di adulti ma includono scene legate all’infanzia.
Caso di Antonio, 11 anni
“Un bambino che gli piaceva suonare il violino era andato ad un parco a suonarlo. Soltanto che

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Riassunti di Silvia Varro

il giorno dopo quando torna la sua casa aveva preso fuoco per via di un incendio. Ed i suoi era-
no morti. E poi è rimasto solo con questo violino che era colpa sua.”
Lo stato d’animo in cui la tavola ci ha messo come clinici è un'altra informazio-
ne sugli stati d’animo di questo bambino. Per il clinico, per lo psicologo il suo
sentire, il suo risuonare e il suo poi osservare il suo modo di risuonare, cioè
guardarlo complessivamente, farsene carico è uno strumento informativo. Quanti
anni ha Antonio? Di cosa sta parlando questo bambino in questa tavola? Qual è
la tematica psicologica di cui si parla? Possiamo dire che si parla di separazione?
Quando facciamo delle valutazioni dobbiamo sempre avere in mente qual è la fa-
se evolutiva del soggetto. Antonio prende questa tavola e la interpreta su un tema suo: la separa-
zione. I temi della separazione sono congruenti con la sua età, la paura della separazione ci avviamo
all’adolescenza, mi distacco ma ho paura di allontanarmi mi avvicino non li sopporto, quindi tutta
una complessa serie di emozioni oscillanti che attraversano questa fase della vita. Forse questa se-
parazione per questo bambino non è facile, quindi è un tema in cui ci sta segnalando delle difficoltà
su questa tematica, ma la tematica non è incongrua quindi lo contestualizzo e ne colgo anche la di-
mensione di difficoltà. Inizierei a chiedere “Come va il rapporto con mamma e papà?”

Gli psicologi chiedono spesso ai pazienti di produrre un disegno e successivamente di commentarlo.


La richiesta che solitamente viene fatta è di disegnare delle figure umane, una famiglia, un albero,
oppure ancora una casa. La valutazione di questi disegni si basa sull’analisi di tre livelli:
✓ Livello grafico (pressione del tratto sul foglio, le cancellature, gli annerimenti o le ombreggia-
ture);
✓ Livello formale (tempo di esecuzione, la collocazione del disegno sul foglio, le dimensioni de-
gli elementi raffigurati);
✓ Livello contenutistico (analisi dei dettagli che compongono il disegno, significato simbolico
che essi veicolano, commenti che l’autore verbalizza mentre esegue la rappresentazione grafi-
ca).
Sebbene i test grafici si siano rilevati strumenti utili per l’acquisizione di informazioni sul mondo
affettivo e cognitivo sia di adulti che di bambini, è pur vero che i disegni vengono più comunemente
impiegati per valutare il funzionamento psichico in età evolutiva.
Il disegnare può essere considerato un processo proiettivo, come il racconto che il suo creatore fa
di sé stesso. Colui che disegna proietta nella propria attività grafica ciò che è, ciò che desidera esse-
re e anche ciò che rifiuta di essere, ad eccezione dei bambini, che, come gli artisti, descrivono attra-
verso il disegno il mondo come lo vedono e non come esso è. Il disegno, inoltre, così come il sogno,
è rappresentazione del mondo interiore: sentimenti, paure, angosce, processi difensivi.

Ai soggetti viene chiesto di disegnare una persona e successivamente disegnarne una seconda, di
sesso opposto alla prima. al termine si effettua un’inchiesta relativa a ciascun disegno con l'obietti-
vo di chiarire alcuni dettagli e raccogliere informazioni sull’identità, la personalità e la tonalità mo-
tive dei personaggi raffigurati. L’assunto di base è che il disegno della persona rappresenta
l’espressione di sé, o del corpo, nell’ambiente: il prodotto dell’immagine riflette un insieme di
esperienze, identificazioni, proiezioni e introiezioni, conflitti e meccanismi di difesa intimamente
legati a sé.
Nell’immagine corporea confluiscono tanto l’Io fisico, quanto l’Io psichico ed è tale immagine a cui
la persona fa riferimento nel proprio disegno.
- Testa: rappresenta il potere intellettuale ed insieme la capacità di relazioni affettive;
- Braccia e gambe: strumenti di contatto con il mondo esterno;
- Tronco: zona dell’istintualità

22
Riassunti di Silvia Varro

Questo tipo di test è considerato un reattivo particolarmente adeguato per la costruzione diagnostica
dei processi psichici dei bambini. Il test trae le sue origini interpretative dalla teoria psicoanalitica
e si focalizza sul concetto che la personalità di un individuo nasce, si sviluppa e si plasma in seno
alla famiglia, in base alle modalità relazionali che in essa si intrecciano e si strutturano i vari mem-
bri parentali, rappresentando, quindi, l’ambiente primario e fondamentale per la crescita fisica, af-
fettiva e sociale dell’individuo. La famiglia può pertanto essere fonte di funzionamenti psicologi-
co-relazionali normali ma anche luogo da cui originano disfunzioni psicopatologiche.
La psicodiagnostica proiettiva del test della famiglia contribuisce a cogliere nel soggetto
l’immagine di sé e la sua collocazione all’interno della famiglia; le relazioni oggettuali che il bam-
bino ha interiorizzato nelle prime fasi dello sviluppo con le figure più significative dal punto di vista
emotivo (madre, padre fratelli); conflitti, più o meno acuti, che ha vissuto o continua a vivere nei
confronti dell’intero nucleo familiare o di alcuni suoi membri in particolare; meccanismi di difesa
che mette in atto.
I primi due autori utilizzavano una consegna che spingeva alla raffigurazione della famiglia reale
(“disegna la sua famiglia”), Corman (1964) ha tuttavia ritenuto opportuno modificare la consegna
in “disegna una famiglia”, pensando che tale accorgimento potesse ridurre l’influenza del principio
di realtà e/o dei meccanismi di difesa, facilitando in questo modo la proiezione grafica soggettiva
non solo dei vissuti che derivano dalla reale esperienza relazionale con le varie figure parentali, ma
anche delle fantasie inconsce che il soggetto si è creato attorno a esse e dell’immagine interna della
propria famiglia. Come avviene per tutti i test grafici, alla fine del disegno è prevista un’inchiesta
che approfondisce i dettagli e aiuta lo psicologo a comprendere ulteriormente il mondo rappresenta-
zionale del soggetto. Viene chiesto:
✓ Chi sono e cosa fanno
✓ Chi è il più simpatico in questa famiglia e perché
✓ Chi è il meno simpatico di tutti e perché
✓ Chi è il più felice e perché
✓ Chi è il meno felice e perché
✓ Tu in questa famiglia chi preferisci
✓ Supponi di far parte di questa famiglia. Chi vorresti essere
Borrelli e Vincent nel 1965 introducono in successione anche il disegno della famiglia reale.
Nel 1970 Burns e Kaufman introdussero ancora un’altra versione del test della famiglia (disegno
della famiglia cinetica), la cui consegna è “disegnami ogni componente della tua famiglia, te com-
preso, mentre fa qualcosa, compie un’azione qualunque.
Livelli di interpretazione del disegno
• Livello grafico: zona del foglio5, forza del tratto (forte denota pulsioni, audacia, a volte vio-
lenza; debole denota pulsioni deboli, dolcezza, timidezza)
• Livello strutturale: lo stile del disegno sensoriale (appare come molto vitale, spontaneo, sensi-
bile all’ambiente e si esprime per lo più attraverso curve) o razionale (si figura come inibito,
producendo personaggi poco mobili e isolati, attraverso linee dritte e spezzato)
• Livello psicodinamico: le identificazioni, le tendenze affettive, valorizzazioni (il bambino si
disegna per primo, il personaggio più grande, eseguito con maggior cura e/o ricco di accessori)
e svalorizzazioni (mancanza di un familiare, personaggio più piccolo, disegnato per ultimo, in
disparte o al di sotto degli altri, disegnata meno bene, cancellata dopo essere stata aggiunta6)

5
La zona inferiore del foglio è quella degli istinti primordiali (si soffermano maggiormente i nevrotici, gli astenici e i
depressi); la zona superiore è l’immaginazione (si soffermano sognatori e idealisti); zona sinistra si riferisce al passato
(si soffermano soggetti che tendono a regredire verso la loro infanzia); zona a destra rappresenta l’avvenire (si soffer-
mano i soggetti che tendono verso il futuro)
6
Nel caso di un personaggio aggiunto non esistente potrebbe identificare qualcuno che il bambino desidererebbe essere

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Riassunti di Silvia Varro

• Relazioni spaziali e legami familiari

Il test grafico dell’Albero di Koch permette di giungere alla conoscenza della personalità nel suo
insieme. L’albero è il simbolo della vita in continua evoluzione, il simbolo principe dei legami che
si stabiliscono tra terra e cielo e, per analogia, simboleggia l’essere umano con le proprie peculiari
capacità percettive, intellettive, affettive e relazionali. La consegna che viene data ai soggetti è “di-
segna un albero da frutto come meglio puoi su un foglio bianco”, a cui segue un’inchiesta dello psi-
cologo. La valutazione finale del disegno si baserà infine sull’analisi delle caratteristiche del dise-
gno (le misure del disegno, la sua collocazione sul foglio, l’inclinazione dell’albero, i rapporti fra le
parti, la sequenza dei dettagli e la presenza di eventuali dettagli addizionali) e solo successivamente,
sulla visione globale del disegno, a cui vanno comunque associati diversi elementi, tra cui l’età del
soggetto, le sue associazioni e possibilmente le conoscenze del suo ambiente.

La casa è l’ambiente fisico e psicologico nel quale il bambino cresce e struttura la sua personalità
attraverso la complessa rete delle relazioni interpersonali con i genitori e i fratelli, lo spazio delle
relazioni più intime e profonde. La casa è la proiezione del sé corporeo e del sé psichico, è il sim-
bolo della figura materna, dell’accoglimento e del contenimento – o per dirla in termini winnicot-
tiani – dell’holding, ovverosia di quel luogo ideale che funge da contenitore delle angosce del bam-
bino, proprio come farebbe una madre sufficientemente buona. La consegna di questo reattivo è
“disegna una casa meglio che puoi” e da ciò ne deriveranno:
- i vissuti e l’immagine interna del luogo di vita del bambino non solo rispetto all’esperienza pas-
sata familiare ma anche rispetto all’ambiente che vive nel presente;
- tratti psicologici: grado di solidità delle strutture di base della personalità, capacità difensive
dell’Io, capacità e desiderio di relazionarsi con l’esterno.
Nei disegni la casa può apparire accogliente per la sua vivacità, per la ricchezza dei colori usati o
per la presenza di dettagli addizionali (indicativi di sentimenti gioiosi e sereni), oppure può espri-
mere un senso di inquietudine, di paura e di chiusura se ad esempio essa appare senza porte, con le
finestre chiuse o con le grate, con colori spenti o addirittura senza colori.
Come per gli altri test grafici si terrà conto di segni clinici che costituiscono il clima emotivo esperi-
to dal soggetto durante l’esecuzione del compito, quali tempo di latenza e di reazione rispetto alla
consegna, tempo totale per l’esecuzione del disegno, qualità del disegno, commenti ecc.

Un metodo alternativo per raccogliere informazioni sugli individui è chiedere loro di autovalutarsi.
Un inventario di personalità pone ai soggetti un’ampia gamma di domande sui loro comportamen-
ti, credenze e sentimenti. In un tipico inventario di personalità i soggetti indicano se si trovano
d’accordo con ciascuna di una lunga lista di affermazioni. I clinici infine usano le risposte per trarre
conclusioni sulla personalità e sul funzionamento psicologico.
I questionari di personalità sono composti da un numero più o meno elevato di domande, formulate
il più chiaramente possibile, delle quali il soggetto si vale per descrivere la propria personalità, ri-
spondendo di solito semplicemente “sì” o “no”. I risultati così ottenuti sono facilmente valutabili e
non sono influenzati dalla personalità dell’esaminatore. Tali strumenti consentono di giungere abba-
stanza rapidamente a una prima diagnosi individuale.

(es. un bebè sottintende alla tendenza alla regressione, un adulto alla tendenza all’emancipazione)

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Riassunti di Silvia Varro

L’MMPI è uno dei più noti strumenti psicodiagnostici nato negli anni Ottanta e divenuto in seguito
MMPI-2. L’ultima versione aggiornata è l’adattamento MMPI-2 RF, con scale riviste e tempi di
somministrazione ridotti.
Il campione normativo originario, appropriato all’epoca in cui esso venne pubblicato, fu reclutato
negli anni Trenta ed era costituito quasi esclusivamente da Caucasici del Minnesota, facenti parte
della classe operaia rurale, con una scolarità media di otto anni. Quando il MMPI iniziò ad essere
utilizzato in una varietà di setting e ambiti socio-culturali, risultò anche evidente che le sue norme
non potevano considerarsi sufficientemente rappresentative dei vari contesti all’interno dei quali il
questionario era applicabile per la rilevazione della personalità e per fini psicodiagnostici. Dopo un
intenso lavoro, che portò a riformulare molti idem e a introdurne altri, è stata presentata la nuova
versione denominata MMPI-2:
✓ venne sviluppato un nuovo metodo per calcolare punteggi standardizzati, in modo che il valore
di scala clinicamente significativo corrispondesse a un Punto T pari o superiore a 65;
✓ furono predisposte due nuove scale di incoerenza delle risposte, una nuova scala per identificare
le risposte infrequenti nella seconda parte del protocollo e nuove scale di contenuto.
Senza apportare cambiamenti, le Scale Cliniche vennero trasferite dal MMPI al MMPI-2, al fine di
mantenere una sostanziale continuità tra le due diverse versioni. Il test risulta composto da 10 scale
cliniche di base, 3 scale di validità, più altre aggiunge successivamente (scale di contenuto).

• Hs – Ipocondria: contiene item relativi a problemi fisici, elevati punteggi indicano in modo
indifferenziato persone con diversi problemi a livello somatico, persone eccessivamente
preoccupate dei propri sintomi fisici e persone che utilizzano sintomi fisici a scopo manipola-
tivo. Esempio: “Ho il sonno agitato e disturbato” (Vero).
• D – Depressione: riguarda la bassa autostima, tristezza, pessimismo, disperazione. Elevati
punteggi indicano depressione, lentezza psicomotoria, lamento somatico, rimuginazione men-
tale. In paziente di interesse psichiatrico è spesso la sala più elevata. Esempio: “A volte mi
sento proprio inutile” (Vero).
• Hy – Isteria: contiene due tipi di item: item che segnalano problemi fisici e item dal contenu-
to fortemente ottimista che tende a negare qualsiasi problema. Elevati punteggi possono indi-
care negazione di problemi, tendenza a dipendere dagli altri, paura di essere rifiutati, sedutti-
vità. Nei maschi questa scala non è frequentemente elevata. Esempio: “Molto spesso mi sem-
bra di avere un nodo alla gola” (Vero).
• Pd – Deviazione Psicopatica: concerne indifferenza alle regole sociale e un certo disadatta-
mento, misurando una serie di caratteristiche antisociali che variano da una semplice insoffe-
renza, fino a veri atti violenti. Le persone con punteggi elevati tendono a vedere il torto solo
negli altri e fanno fatica a empatizzare. I giovani ottengono punteggi più elevati rispetto agli
anziani. Esempio: “Mai ho avuto guai con la legge” (Falso).
• Mf – Mascolinità-Femminilità: è formata da item che riguardano interessi estetici, scelte di
vita e presenza di passività. La scala può essere interpretata come una misura di adesione ri-
gida o flessibile allo stereotipo sessuale. È fortemente correlata al livello culturale ed è la sca-
la più debole. Esempio: “Mi piacciono le poesie” (Vero).
• Pa – Paranoia: concerne il grado di sensibilità verso l’opinione degli altri, che per alti pun-
teggi, diventa vera e propria sospettosità. Elevati punteggi possono indicare anche la tendenza
a non vedere i propri difetti e a considerarsi sempre dalla parte della ragione. Esempio:
“Qualcuno ce l’ha con me” (Vero).
• Pt – Psicastenia: misura aspetti durevoli dell’ansia. Elevati punteggi si possono associare a
rimuginazioni mentali, compulsioni o fobie. Esempio: “Quasi ogni giorno capita qualcosa che

25
Riassunti di Silvia Varro

mi spaventa” (Vero).
• Sc – Schizofrenia: misura il grado di confusione mentale e può indicare, in caso di punteggi
estremi, disorientamento e deterioramento dei processi logici. Misura, inoltre, la creatività e la
presenza di eventuali dubbi sulla propria identità. Esempio: “Odo strane cose quando sono so-
lo” (Vero).
• Ma – Ipomania: concerne aspetti comportamentali e caratteristiche psicologiche con disturbi
maniaco-depressivi. Valuta il grado di energia della persona. Più è alto il valore, maggiore è
l’energia (livello ideativo, motorio, emotivo) dell’individuo. Misura anche la ricerca di sensa-
zioni forti, impazienza, competitività, fiducia in sé, ambizione eccessiva, fuga di idee, senso
di invulnerabilità. Esempio: “Mai ho fatto qualcosa di pericoloso per il gusto di farlo” (Falso).
• Si – Introversione sociale: misura l’inclinazione della persona a isolarsi o a stare con gli al-
tri. Più alti sono i punteggi più la persona preferisce stare da sola. Gli item riguardano timi-
dezza, disagio sociale, sentimenti di inferiorità, scarsa socievolezza. La Si non è considerata
una scala dal significato strettamente clinico. Esempio “Sono una persona molto socievole”
(Falso).

• Scala L (lie): misura il grado in cui la persona tenta di mostrare una buona immagine di sé.
• Scala F: misura una serie di esperienze e pensiero poco comuni nella popolazione normale.
Più elevati sono i punteggi più la persona considera gravi i propri problemi. Questa scala mi-
sura anche atteggiamenti anticonformisti causati dall’appartenenza a particolari movimenti re-
ligiosi o politici. Punteggi estremi a questa scala suggeriscono di invalidare il test.
• Scala K: misura alcuni meccanismi di difesa nei confronti del test più sottilmente della scala
L. Punteggi troppo bassi a questa scala indicano che è il soggetto è vulnerabile e che giudica
in modo negativo la propria condizione esistenziale. Punteggi elevati, invece, indicano che la
persona tende a negare certi problemi e che si difende dalle domande del test.

• ANX (ansia): sintomi generali di ansia, che comprendono tensione, problemi somatici, di-
sturbi del sonno, preoccupazioni, scarsa concentrazione, difficoltà nel prendere decisioni.
• FRS (paure): la persona manifesta molte paure specifiche, quali, ad esempio, sangue, sporci-
zia, altezza, uscire di casa, denaro, animali come topi, disastri naturali, il buio, lo stare al
chiuso.
• OBS (ossessività): grande difficoltà nel prendere decisioni, tendenza a rimuginare sulle cose,
eccessiva preoccupazione, difficoltà ad accettare i cambiamenti; possono essere presenti
comportamenti compulsivi, come contare o collezionare cose senza importanza.
• DEP (depressione): valuta la depressione sintomatica: sentimenti di malinconia, incertezza
sul futuro, indifferenza per la propria vita. Le persone con alto punteggio sono infelici, pian-
gono facilmente, si sentono disperate e vuote; possono riferire pensieri di suicidio, credere di
avere commesso peccati imperdonabili, non considerano gli altri come fonte di aiuto.
• HEA (preoccupazioni per la salute): tipo la scala 1 (Hs). Preoccupazione per la propria sa-
lute e presenza di molteplici sintomi fisici, riguardanti apparati diversi, quali sintomi gastroin-
testinali, problemi di tipo neurologico, problemi sensoriali, sintomi cardiovascolari, dolore
etc.
• BIZ (ideazione bizzarra): gravi disturbi del pensiero, di tipo psicotico; allucinazioni uditive,
visive o olfattive, presenza di pensieri strani e peculiari; è possibile che persone con alt pun-
teggi riferiscano ideazione paranoide (come la convinzione che si stia complottando contro di
loro o che qualcuno stia tentando di avvelenarli)
• ANG (rabbia): valuta la perdita del controllo; irritabilità, insofferenza, impulsività, desiderio
di imprecare o di rompere oggetti. Persone con alti punteggi possono perdere il controllo di sé
e riferiscono di aver aggredito fisicamente persone o cose.

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Riassunti di Silvia Varro

• CYN (cinismo): misura convinzioni ciniche e tendenza alla misantropia, sospetto che le azio-
ni degli altri nascondano scopi negativi, diffidenza verso gli altri; atteggiamenti negativi verso
persone vicine, come colleghi di lavoro, familiari e amici.
• ASP (comportamenti antisociali): misura tendenze antisociali di personalità; atteggiamenti
misantropici, probabili problemi di comportamento durante gli anni di scuola, problemi con la
legge.
• TPA (tipo A): descrive persone ipermotivate, rapide nei movimenti, sono centrate sul lavoro,
impazienti, irritabili e infastidite. Non amano aspettare o essere interrotte, ritengono che non
ci sia mai abbastanza tempo per svolgere attività, possono essere prepotenti nelle relazioni in-
terpersonali.
• LSE (bassa autostima): autopercezione negativa; bassa stima e fiducia di sé, vasta gamma di
atteggiamenti negativi verso se stessi (poco attraenti, goffi e maldestri, inutili e di peso per gli
altri ecc.)
• SOD (disagio sociale): le persone con alto punteggio preferiscono stare da sole, si sentono
inadeguate e imbarazzate quando sono tra la gente, si percepiscono timide e non amano le si-
tuazioni di gruppo.
• FAM (problemi familiari): presenza di seri contrasti nei rapporti familiari; la famiglia è de-
scritta priva di amore, litigiosa, spiacevole; sono possibili sentimenti di odio tra i membri del-
la famiglia.
• WRK (difficoltà sul lavoro): indicativa di comportamenti o atteggiamenti che possono con-
tribuire a prestazioni lavorative scadenti e a difficoltà nel perseguimento degli obiettivi; il
quadro può essere caratterizzato da scarsa fiducia in sé, difficoltà di concentrazione, ossessi-
vità, tensione, difficoltà nel prendere decisioni, come pure da mancanza di supporto familiare,
dubbi nella scelta della carriera, atteggiamenti negativi verso i colleghi.
• TRT (indicatori di difficoltà di trattamento): connessa con atteggiamenti negativi verso il
cambiamento e l’accettazione di aiuto da parte degli altri; sfiducia nei medici e in trattamenti
riguardanti la salute mentale. Le persone con elevato punteggio credono che nessuno possa
capirle o aiutarle, è probabile che non vogliano cambiare niente della loro vita, o che sentano
impossibile tale cambiamento, e preferiscono arrendersi piuttosto che affrontare crisi o diffi-
coltà.

La messa a punto di scale di contenuto risultò un’innovazione di particolare interesse per la psico-
logia clinica e la psicosomatica.
Somministrazione MMPI 2:
Il questionario è composto da 567 item a cui il soggetto deve rispondere V o F. Condizioni:
- Età superiore a 18 anni
- QIT > = 70
- Scolarità: quinta elementare per la maggior parte degli item, alcuni però richiedono la III media
Condizioni cliniche ostacolanti: difficoltà sensoriali, afasia-dislessia, stati confusionali, distraibilità
dovuta a stato maniacale in atto, rallentamento psicomotorio.
Contesto e durata del questionario: il tempo medio di completamento del questionario è un’ora,
un’ora e mezza. Per gli individui con capacità di lettura ridotte, il tempo di completamento potreb-
be superare le due ore. Se il soggetto esaminato impiega meno di un’ora per terminare il compito,
allora si potrebbe sospettare un profilo non valido per una presumibile scarsa attenzione posta alla
lettura degli item. È possibile, per necessità, una somministrazione in più sedute (solo in tempi
brevi).
Vari autori hanno proposto liste di item critici di varia lunghezza e concernenti aree psicopatologi-
che diverse. L’elenco di item critici Koss-Butcher, ad esempio, è stato aggiornato e risulta frequen-
temente impiegato. I due hanno identificato sei gruppi di item critici indicativi di:

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Riassunti di Silvia Varro

• Stato d’Ansia acuta (es. non credo di essere più nervoso degli altri – Falso)
• Ideazione Depressiva Suicidaria (es. a volte mi sento proprio inutile – Vero)
• Minaccia di Aggressione (es. mi viene spesso detto che sono una testa calda – Vero)
• Stress Situazionale da Alcoolismo (es. ho fatto uso eccessivo di bevande alcoliche – Vero)
• Confusione Mentale (es. ho avuto esperienze molto strane e insolite – Vero)
• Idee Persecutorie (es. non ho nemici che vogliano veramente farmi del male – Falso).
Sulla base dell’ampio apprezzamento ricevuto da MMPI e MMPI-2 e alla luce della carenza di
strumenti psicodiagnostici attendibili per gli adolescenti, è stato messo a punto il MMPI-A, una
versione costruita per soggetti dai 14 ai 18 anni. Alcune scale di contenuto del MMPI-2 sono state
modificate per il MMPI-A e tre scale di contenuto sono state create specificatamente per
l’applicazione dello strumento ad adolescenti: Alienazione (A-aln), Basse Aspirazione (A-las) e
Problemi Scolastici (A-sch). Alcuni costrutti, nel MMPI-A, hanno chiesto una sostanziale modifi-
ca: la scala ASP (Comportamenti Antisociali), ad esempio, ha ottenuto solo limitata validità empiri-
camente dimostrata e, per questa ragione, è stata sostituita dalla scala Problemi di Condotta (A-
con). Infine, nell’intento di accorciare lo strumento, la scala di contenuto Paure è stata eliminata.
L’MMPI-2 è stato recentemente strutturato, assumendo la denominazione di MMPI-2-RF (Re-
structured Form). Rispetto alle precedenti Scale Cliniche presentano alcuni vantaggi: la dimensio-
ne presumibilmente responsabile della elevata intercorrelazione tra alcune scale è stata isolata e co-
stituisce ora una nuova misura definita “Demoralizzazione”, la quale rileva il distress emotivo e il
senso di infelicità generale che accompagnano e caratterizzano la maggior parte degli individui af-
fetti da disturbi mentali, permettendo di differenziare questi ultimi dalla popolazione generale.

Come gli inventari di personalità, gli inventari di reazione chiedono ai soggetti di fornire informa-
zioni dettagliate su di sé, ma questi test si focalizzano soltanto su un’area di funzionamento speci-
fica.
- Inventari affettivi: misurano intensità delle emozioni quali ansia, depressione e collera. In un
inventario affettivo tra i più utilizzati, l’Inventario per la depressione di Beck, i soggetti valuta-
no il proprio livello di tristezza e i suoi effetti sul proprio funzionamento;
- Inventari delle abilità sociali: particolarmente utilizzati dai clinici comportamentisti e socio-
familiari, chiedono ai candidati di indicare come vorrebbero reagire in una serie di situazioni
sociali;
- Processi cognitivi: rivelano i pensieri e le convinzioni tipici di una persona e possono far sco-
prire modelli di pensiero controproducenti. Non sorprende che siano ampiamente usati dai tera-
peuti cognitivi e dai ricercatori.
Nonostante negli ultimi 25 anni si sia assistito a un aumento costante del numero di reattivi mentali
e dei clinici che li utilizzano, questi test hanno seri limiti: eccettuato l’Inventario per la depressione
di Beck e pochi altri, solo alcuni di essi sono stati oggetto di procedure di standardizzazione, affida-
bilità e validità.

Gli psicologi dispongono anche di test psicofisiologici che misurano le reazioni fisiologiche in
quanto possibili indizi di problemi psicologici. È una pratica iniziata trent’anni fa, dopo che diversi
studi avevano dimostrato che gli stati d’ansia sono regolarmente accompagnati
da cambiamenti fisiologici, in particolare da aumento del battito cardiaco, tem-
peratura corporea, pressione arteriosa, presenza di reazioni cutanee (reazione
galvanica cutanea) e contrazioni muscolari.
È un test psicofisiologico quello del poligrafo, noto comunemente come mac-
china della verità. Alcuni elettrodi applicati in diversi punti del corpo di un in-

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Riassunti di Silvia Varro

dividuo rilevano cambiamenti nella respirazione, traspirazione e battito cardiaco mentre il soggetto
risponde a una serie di domande. Il clinico osserva queste funzioni mentre il soggetto risponde “sì”
ad alcune controdomande delle quali si conosce la risposta positiva, ad esempio “I suoi genitori so-
no entrambi vivi?”. Poi l’esaminatore osserva le stesse funzioni fisiologiche mentre il soggetto ri-
sponde alle domande del test, come “Lei ha commesso questa rapina?”. Si sospetta che la persona
stia mentendo ogni volta che si rilevano cambiamenti nella respirazione, traspirazione e battito car-
diaco.
Nella metà degli anni Ottanta l’American Psychological Association riferì ufficialmente che i poli-
grafi erano spesso imprecisi e il Congresso degli Stati Uniti decise di limitarne l’uso nei processi
penali e nei colloqui di assunzione. Secondo gli studi, in media 8 risposte sincere su 100 sono defi-
nite menzogne al test con la macchina della verità. Tuttavia, l’esame al poligrafo è tutt’altro che ca-
duto in disuso, è anzi, utilizzato dalla FBI, dalle commissioni per il rilascio sulla parola e gli uffici
per il rilascio in libertà vigilata per decidere se rilasciare persone condannate nonché nel campo del-
le assunzioni nel settore pubblico (ad esempio per chi entra in polizia).
Anche i test psicofisiologici presentano alcuni lati negativi:
- Necessità per molti di apparecchiature costose che necessitano attenta regolazione e manuten-
zione;
- Poca accuratezza e affidabilità delle misurazioni: le stesse attrezzature da laboratorio possono
alterare il sistema nervoso e modificarne le reazioni fisiche; le reazioni fisiologiche possono
cambiare nel corso di misurazioni successive in un’unica sessione (ad es. le reazioni galvaniche
cutanee spesso diminuiscono nel corso delle prove ripetute).

Alcuni cambiamenti o disturbi della personalità o del comportamento possono essere dovuti a danni
cerebrali o a cambiamenti del funzionamento cerebrale. Se si vuole trattare efficacemente un distur-
bo psicologico è importante sapere se la causa principale è un’anomalia fisica a livello cerebrale.
Per molti anni sono state in uso alcune procedure come la chirurgia cerebrale, la biopsia e l’esame
radiografico. In tempi più recenti gli scienziati hanno messo a punto numerose metodiche neurolo-
giche, studiate per indagare più direttamente la struttura e l’attività del cervello. Una tra queste è
l’elettroencefalogramma (EEG), che registra le onde cerebrali, ossia l’attività elettrica che ha luo-
go nel cervello in quanto espressione dei processi neuronali. In questa metodica, una serie di elet-
trodi applicati sullo scalpo rilevano gli impulsi elettrici generati dall’attività cerebrale e li inviano a
una macchina che li registra. Ulteriori metodiche neurologiche sono rappresentate dalle tecniche di
neuroima ging, o scansione cerebrale, le quali forniscono immagini della struttura o dell’attività
cerebrale.
- Tomografia assiale computerizzata (TAC o TC), in cui vengono effettuate radiografie della
struttura cerebrale ad angolazioni diverse e poi ricombinate;
- Tomografia a emissione di positroni (PET), filmato prodotto da un computer dell’attività
chimica cerebrale;
- Imaging a risonanza magnetica nucleare (RM o RMN), procedura che utilizza le proprietà
magnetiche di alcuni atomi nel cervello per creare una bioimmagine dettagliata della struttura
cerebrale.
- Imaging a risonanza magnetica funzionale (fMRI), una versione più recente della RM, con-
verte le bioimmagini delle strutture cerebrali ottenute tramite RM in immagini dettagliate
dell’attività neuronale, producendo così un’immagine del cervello durante il suo funzionamento.
Anche grazie al fatto che le immagini prodotte sono molto più chiare rispetto a quelle ricavate
con la PET, la risonanza magnetica funzionale ha trovato un enorme applicazione tra gli studiosi
dell’attività cerebrale sin da quando è stata inventata, nel 1900.
Sebbene ampiamente utilizzate, queste tecniche non sono a volte in grado di rilevare piccole ano-
malie cerebrali. I neurologi hanno pertanto messo a punto alcuni test neuropsicologici, meno diretti

29
Riassunti di Silvia Varro

ma talora più sensibili, che misurano performance cognitiva, percettiva e motoria durante certe
azioni e interpretano le esecuzioni anormali come indicazione di problemi cerebrali di fondo. Il
danno cerebrale può influenzare soprattutto la percezione visiva e il riconoscimento di oggetti, la
memoria, la coordinazione visuo-motoria; pertanto, i test neuropsicologici si concentrano soprattut-
to su queste aree. Il famoso Bender Gestalt, un test visuo-motorio, è costituito da nove schede, su
ciascuna delle quali è riprodotto un semplice disegno geometrico. I pazienti osservano un disegno
alla volta e lo copiano su un disegno di carta. In seguito, provano a riprodurre i disegni basandosi
sulla memoria. Errori di precisione molto evidenti dopo i 12 anni sono ritenuti il riflesso di un pro-
blema cerebrale.
I clinici utilizzano spesso una batteria, o una serie, di test neuropsicologici, ciascuno finalizzato a
indagare uno specifico insieme di abilità.

Secondo un’antica definizione dell’intelligenza, essa è “la capacità di giudicare bene, di ragionare
bene e di comprendere bene” (Binet, Simon). Poiché l’intelligenza è una qualità inferita e non uno
specifico processo fisico, essa può essere misurata solo indirettamente. Nel 1905 lo psicologo fran-
cese Alfred Binet elaborò, assieme al collega Théodore Simon, un test di intelligenza costituito da
una serie di prove che richiedevano l’uso di diverse abilità verbali e non verbali. Il punteggio totale
ottenuto tramite questo e altri test di intelligenza è detto quoziente intellettivo o QI. Oggi i test di
intelligenza disponibili superano il centinaio e hanno un ruolo fondamentale sia nella diagnosi di ri-
tardo mentale che nell’identificazione di altri problemi. I test d’intelligenza risultano essere stati
standardizzati su gruppi di persone molto estesi (perciò, i clinici sanno bene come confrontare il
punteggio di un soggetto con i risultati della popolazione in generale), sono inoltre affidabili (se si
ripete lo stesso test del QI a distanza di anni si ottiene più o meno lo stesso punteggio), nonché vali-
di (nei bambini, ad esempio, i punteggi di QI spesso rispecchiano i loro risultati scolastici).
I test di intelligenza hanno comunque alcuni limiti essenziali:
- Certi fattori che nulla hanno a che fare con l’intelligenza, come la bassa motivazione o l’ansia
elevata, possono fortemente influenzare la performance nei test.
- I test intellettivi possono contenere dei pregiudizi culturali nel linguaggio usato, o contenere del-
le prove che favoriscono chi appartiene a un determinato ambiente sociali piuttosto che a un al-
tro.
- I membri di certe minoranze possono avere scarsa esperienza con questo tipo di prove o posso-
no trovarsi a disagio di fronte a esaminatori appartenenti al gruppo etnico dominante.
I test di livello o di abilità generale attualmente più diffusi sono le scale d’intelligenza Wechsler
per Adulti (WAIS), le quali consistono in compiti definiti, presentati al soggetto allo scopo di elici-
tare una risposta a cui si possa attribuire facilmente un punteggio. Sono utili per ottenere informa-
zioni sulle modalità del soggetto di organizzare, secondo schemi funzionali, le proprie strategie di
risoluzione dei problemi in base alle nozioni acquisite e le capacità mnemoniche e permettono di ot-
tenere informazioni sulla psicopatologia del paziente, sul controllo affettivo ed emotivo, sulle aree
di conflitto, le strategie di coping e sulla probabile resistenza al trattamento. In sostanza, la WAIS è
un supplemento prezioso per un approccio integrato alla valutazione clinica, alla diagnosi e alla
formulazione del trattamento.
La prima scala di Wechsler, la Wechsler-Bellevue Form 1 (W-B) aveva lo scopo di risolvere alcu-
ni problemi sorti nelle precedenti scale di Binet (tra questi il problema dell’età mentale e QI, che
portava a contrastanti definizioni di intelligenza adulta normale; era difficile, partendo dall’ipotesi
che il QI fosse un rapporto tra Età Mentale ed Età Cronologica, stabilire in un adulto il numeratore).
Uno degli obiettivi di Wechsler fu quindi quello di creare un test di intelligenza adatto per gli adulti
(Wechsler Adult Intelligence Scale Revised – WAIS-R) abbandonando il criterio di assegnazione
di punteggio riferito all’età e utilizzando come criterio la “quantità di problemi risolti” tipico dei
test collettivi.

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Riassunti di Silvia Varro

Un aspetto fondamentale è l’inclusione di due scale distinte: una verbale e l’altra non verbale o di
performance. Ogni sottoscala è articolata in subtest (6 verbali e 5 di performance) ciascuno dei quali
è costituito da stimoli relativamente omogenei (disposti in ordine crescente di difficoltà), che attiva-
no una diversa funzione cognitiva. Questa suddivisione permette di ottenere sia un’informazione sul
livello intellettivo generale sia delle comparazioni interne tra attività mentali distinte.
Il WAIS-R è così articolato:
Informazione (prima prova verbale): valuta le capacità generali del soggetto e l’estensione delle
sue conoscenze, la curiosità intellettuale, l’adattamento all’ambiente e la memoria a lungo termine.
Il soggetto risponde a domane che abbracciano un ampio insieme di nozioni di cultura generale.
Completamento di figure: valuta la capacità di differenziare i dettagli essenziali da quelli non es-
senziali, alla base della formazione dei concetti (in questo caso visivi). Il soggetto osserva una figu-
ra in cui manca una parte importante e identifica la parte mancante.
Memoria di cifre: valuta l’attenzione, la memoria uditiva a breve termine e indirettamente la capa-
cità di non distrarsi e di mantenere la concentrazione, la flessibilità del soggetto di fronte alla richie-
sta di cambiamento di strategia di memorizzazione.
Riordinamento di storie figurate: valuta la capacità di anticipare e pianificare le conseguenze di
atti e di situazioni sociali, la capacità di selezionare, organizzare e attribuire enfasi appropriata a fat-
ti e relazioni; la capacità di comprendere nessi causa-effetto.
Vocabolario: valuta il background culturale, l’apprendimento remoto, la curiosità intellettuale, la
memoria a lungo termine, le capacità linguistiche e di verbalizzazione.
Disegno con i cubi: valuta la capacità di astrazione, di analisi e di sintesi delle relazioni spaziali e la
coordinazione visuo-motoria. Il soggetto utilizza cubi bianchi e rossi per riprodurre una figura.
Ragionamento aritmetico: valuta la concentrazione. Dà informazioni sul background culturale e
l’apprendimento remoto, sulla memoria di lavoro, sul pensiero astratto e sulla capacità di ragiona-
mento su base numerica e sulla velocità di manipolazione dei concetti numerici, il ragionamento lo-
gico, la capacità di astrazione e di analisi.
Ricostruzione di oggetti (o di figure): valuta la capacità di anticipazione delle relazioni tra le parti,
la possibilità di beneficiare del feedback sensomotorio e la coordinazione visivo-motoria.
Comprensione: valuta il grado di padronanza dell’individuo sull’ambiente sociale, la capacità di
analizzare concettualmente una situazione concreta (capacità sottesa alla funzione di giudizio).
Associazione di simboli a numeri: valuta la coordinazione visuo-motoria e in particolare
l’apprendimento di tipo imitativo di materiale nuovo.
Analogie: valuta la formazione dei concetti verbali, il grado in cui il soggetto ha assimilato somi-
glianze e interferenze tra oggetti e la sua capacità di categorizzazione.
L’analisi della WAIS-R prevede la considerazione di alcuni elementi essenziali, fra cui:
1. Quoziente Intellettivo Totale (QIT)
2. QI verbale (QIV): riflette la capacità di comprensione e apprendimento, la fluidità verbale e la
possibilità di utilizzare il background culturale ed educativo;
3. QI di performance (QIP): offre un’indicazione dell’integrità e dell’efficienza
dell’organizzazione percettiva, dell’abilità di elaborazione del materiale visivo e della possibili-
tà di utilizzare immagini visive nel pensiero;
4. Analisi della discrepanza: la discrepanza è la differenza tra il QI verbale e quello di perfor-
mance e permette di descrivere il tipo d’intelligenza in relazione all’età, alla cultura e all’attività
professionale. Sono da ritenere significative solo le differenze uguali o inferiori ai 10 punti.
Nel corso del tempo tale scala ha subito modifiche, adattamenti, aggiornamenti degli item ecc.:
1. Wechsler Adult Intelligence Scale (WAIS): pubblicata nel 1955 negli USA e adattata in Italia
nel 1974
2. Wechsler Adult Intelligence Scale Revised (WAIS-R)
3. WAIS-III
4. WAIS-IV: standardizzata negli USA nel 2003 e in Italia nel 2013.

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Riassunti di Silvia Varro

Per quanto riguarda la somministrazione, essa rimane, come per le precedenti versioni, individuale,
ma il range di età nella WAIS-IV viene esteso ai 90 anni per il campione americano, mentre rimane
69 anni per il campione italiano. In quest’ultima versione sono stati introdotto nuovi subtest, gli
item sono stati aggiornati al contesto socioculturale e alcune prove sono state semplificate.

I clinici utilizzano il processo di valutazione condotto attraverso colloqui, interviste, osservazioni e


test per profilare un quadro clinico. Quest’ultimo può essere utilizzato per fare una diagnosi e sta-
bilire dunque se i caratteri psicologici di una persona si organizzano in un quadro noto di psicopa-
tologia. La funzione della diagnosi non è quella di stabilire se il paziente soffra di una psicopatolo-
gia, quanto di comprendere se i tratti del suo carattere, della sua personalità, della sua sintomatolo-
gia e del suo funzionamento si organizzino secondo un quadro già noto. L’individuo, infatti, non
coincide mai con la sua diagnosi poiché egli è molto di più ed al contempo molto di meno. In so-
stanza, dunque, si tratta di stabilire se la persona possiede, da un punto di vista psicologico, delle
caratteristiche associabili a un quadro clinico noto come, appunto, quello di psicopatologia. Attra-
verso la diagnosi si interpreta il modello di funzionamento di un soggetto, alla luce del modello di
funzionamento osservato in molte altre persone. Per meglio comprendere quanto appena espresso è
utile ricorrere al seguente esempio: se un individuo si trovasse a dover scalare una montagna po-
trebbe patire sintomi quali sudorazione, paura, smarrimento, desiderio di rinuncia. In altri termini,
egli starebbe sperimentando un attacco di ansia. Tuttavia, quando si parla d’ansia si parla di qualco-
sa che non può essere direttamente osservato come, ad esempio, il colore dei capelli. L’ansia è in-
fatti un sistema di interpretazione di un comportamento e non un oggetto; tale sistema viene adope-
rato per decodificare quel certo modo di agire che soltanto dopo esser stato sottoposto ad osserva-
zione è possibile semplificare con un’affermazione del tipo “quella persona è in ansia”: la categoria
psicopatologica è un sistema di categorizzazione. Attraverso la diagnosi si connette inoltre un caso
ad una casistica e si possono fare previsioni prognostiche e definire l’efficacia di trattamenti. In
altri termini, è il signor X ad essere associato ai disturbi d’ansia e non i disturbi d’ansia al signor X.
A questo punto sorge spontanea la seguente questione: a fronte di tutte queste cautele, perché effet-
tuare una diagnosi? Solo mediante essa è possibile formulare delle ipotesi diagnostiche che, a loro
volta, consentono di poter teorizzare delle ipotesi prognostiche; le ipotesi prognostiche consentono
di non solo di prevedere ciò che accadrà ma anche di pensare a dei trattamenti idonei ed efficaci ri-
spetto alle ipotesi inizialmente dedotte. Una diagnosi ben impiegata consente di dare ordine a una
situazione confusa; ad esempio, può accadere che un individuo non riuscendo a dare una spiegazio-
ne ai suoi comportamenti sostenga semplicemente di sentirsi oppresso. Ponendo invece il caso di
una madre preoccupata per i comportamenti atipici del figlio se tutti le rispondessero banalmente di
stare tranquilla, asserendo che tutti i bambini crescono, alla donna non verrebbe fornito un aiuto
reale. La rassicurazione, infatti, non può essere considerata un intervento clinico.

Diagnosi significa distinguere fra o operare una discriminazione scientifica di qualche tipo. Diffe-
renziare per esempio uno stato d’ansia da uno depressivo.
La distinzione riguarda il confine tra salute e patologia sia il confine tra diversi quadri sindromici.
In sostanza, dunque, eseguire una diagnosi equivale a porre due discrimini: uno relativo alla salute
(ponendo attenzione alla terminologia nella misura in cui non si sta utilizzando il termine norma ma
salute); il secondo relativo alla distinzione fra diverse condizioni di psicopatologia effettuando quel-
la che, in campo medico, prende il nome di diagnosi differenziale.
Una sindrome è un insieme di sintomi che solitamente si presentano in maniera contemporanea. In
ambito medico la sindrome è un insieme di sintomi di cui non si conosce il processo eziopatogene-
tico. In ambito psicologico e psichiatrico (poiché quando si parla di diagnosi naturalmente si sta
trattando e dialogando anche con l’ambito psichiatrico), quasi mai si ha chiaro il quadro eziopato-
genetico di una condizione psicopatologica. Sostanzialmente, dunque, si parla di sindrome quando

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Riassunti di Silvia Varro

ci si riferisce a una costellazione di sintomi, mentre si parla di una condizione diagnostica quando
si fa riferimento a un quadro noto, chiaro e differenziato di psicologia clinica.
Una diagnosi per essere condivisa tra professionisti e per orientare efficacemente la ricerca scienti-
fica deve avvalersi di sistemi di classificazione7. È dunque importante fare diagnosi anche in ra-
gione della ricerca. La diagnosi, dunque, non solo consente la comunicazione del clinico con il pa-
ziente, garantisce la possibilità di formulare delle ipotesi prognostiche e di teorizzare dei trattamenti
ma permette al clinico di potersi confrontare anche con altri studiosi e ricercatori. Prima di voler
capire qualcosa dei disturbi d’ansia, è necessario comprendere qualcosa inerente a un’angolazione
di individui posta in relazione a un quadro di disturbi d’ansia. Ciò presuppone che prima di poter
realizzare degli studi, delle ricerche e degli approfondimenti bisogna anzitutto che gli studiosi della
materia in questione si pongano in accordo tra loro, altrimenti il rischio che si corre è quello di ope-
rare in maniera confusionaria. Ciò pone l’esistenza di una funzione che si fonda su un sistema di
classificazione; questo significa che non bisogna limitarsi esclusivamente alla differenziazione tra
salute e una condizione di psicopatologia o tra patologie tra loro somiglianti che esigono una dia-
gnosi differenziale raffinata ma, che è necessario fare riferimento a delle psicopatologie note.

Una diagnosi risponde sia ai requisiti di specificità (caratteristiche di un dato individuo) sia di ge-
neralizzabilità (caratteristiche condivise con quelle di altri individui). Non potrà mai coincidere
con caratteristiche peculiari di funzionamento di un soggetto, ma potrà aiutare il clinico a descriver-
lo, comprenderlo e curarlo meglio (Frances). Non è la diagnosi pericolosa per il paziente bensì un
cattivo uso di essa, ad esempio, quando viene adoperata come un’etichetta. Si è dinanzi a
un’etichetta quando per indicare un individuo che sta sperimentando al momento uno stato d’ansia
lo si definisce “ansioso”; quando infatti si asserisce “tu sei…” si sta effettuando un’identificazione
totale tra l’elemento diagnostico e l’individuo. In sintesi, dunque, una diagnosi quando non viene
utilizzata con cautela può essere nociva per il singolo in termini psicologici, emotivi, di sviluppo, di
costruzione dei rapporti sociali.
Talvolta un clinico afferma di non effettuare diagnosi preferendo occuparsi dell’altro così com’è;
questo non potrebbe esser vero poiché in tal caso la diagnosi verrebbe effettuata ugualmente seppu-
re in maniera implicita così come verrebbero adoperati i criteri diagnostici nonostante, anch’essi,
vengano adoperati implicitamente. In tal senso, dunque, il clinico starebbe sfuggendo alle sue re-
sponsabilità ed al contempo, così operando, non potrebbe accorgersi di eventuali errori. È necessa-
rio invece che la diagnosi sia un processo esplicito perché solo in questo modo potrà essere messa
in discussione e magari trasformata. Quello appena descritto è un processo legato non solo allo svi-
luppo diagnostico ma anche ad un ambito più generale: qualora, infatti, si pensi esplicitamente a
delle cose al contempo si manifesta pure la possibilità di poterle modificare; diversamente quando si
riflette implicitamente su delle questioni esse non potranno essere cambiate. Cambiare idea equivale
ad assumersi la responsabilità sull’idea precedentemente formulata e sull’ idea che invece si è af-
fermata adesso.
Il fraintendimento è quello di ritenere che solo un metodo debba essere utilizzato per tutte le situa-
zioni, come se dovesse omogeneizzare un’intera disciplina in tutte le sue ricche sfaccettature e de-
clinazioni. Se da un lato sarebbe errato affermare la necessità della formulazione di una diagnosi,
dall’altro sarebbe altrettanto sbagliato asserire che il clinico debba concentrarsi esclusivamente sulla
singolarità del paziente eludendo la possibilità di effettuare una diagnosi. Anche in tal caso è fon-
damentale operare una differenziazione nella misura in cui si ha a che fare con procedimenti diversi,
non sovrapponibili e che vanno utilizzati in ragione delle questioni di cui ci si sta occupando; il ri-
schio che si corre, altrimenti, è quello di incorrere in una battaglia ideologica, non scientifica e non
professionale. Un esempio pratico è quello legato all’utilizzo degli psicofarmaci: tralasciando che

7
Un sistema di classificazione è un elenco di disturbi, descrizione dei sintomi e indicazione per effettuare diagnosi cor-
rette.

33
Riassunti di Silvia Varro

uno psicologo clinico non ha la possibilità di prescrivere uno psicofarmaco, sarebbe deontologica-
mente sbagliato da parte sua asserire di essere contro il suo utilizzo.
Il compito di un professionista sta nel comprendere, discriminare, muoversi in maniera contingen-
te ed utile all’altro; in tal senso il processo psicologico rappresenterebbe una sorta di alleanza ad
esclusivo sostegno del paziente e non a vantaggio dello psicologo o del tentativo di affermare la
propria ideologia.

Poniamo la seguente ipotesi: Mario da due mesi, la mattina, non ha nessuna voglia di alzarsi dal let-
to, afferma di essere una persona senza valore, che non ha alcuno scopo nella vita e che nessuno
gli vuole bene. Quando gli si parla sembra essere assente e non riesce a connettersi nei discorsi;
nonostante sia una persona molto brillante, che ama molto il cinema, quando gli è stato proposto di
andare a vedere il film del suo regista preferito ha detto di non averne voglia.
Di cosa potrebbe soffrire Mario o, ancor meglio, cosa si potrebbe dire a Mario?
1. Qualora Mario chiedesse qualcosa riguardo la sua condizione, gli si potrebbe far notare che i
suoi comportamenti, i suoi pensieri ed il suo umore sembrano rientrare in un quadro depressivo;
non è lui che rientra nel quadro depressivo bensì i suoi comportamenti, i suoi pensieri ed il suo
umore;
2. Sarebbe altrettanto giusto chiedersi se a Mario, nell’ultimo periodo, fosse successo qualcosa in
particolare; questo, naturalmente, costituirebbe un ausilio per poter asserire se quanto gli sta ac-
cadendo rientra in un quadro di depressione funzionale oppure, per esempio, di tipo reattivo.
Mario potrebbe raccontare che tre mesi prima ha perduto il lavoro per cui l’ipotesi iniziale, se-
condo cui i suoi comportamenti rientrerebbero in un quadro depressivo, non cambierebbe ma la
qualità di questa dimensione depressiva, assumerebbe una connotazione differente in quanto
reattiva ad una condizione di perdita, in tal caso del lavoro. Ancora, si potrebbe venire a cono-
scenza che Mario è stato lasciato dal suo grande amore oppure che ha perduto una persona cara,
rientrando, in tal caso, in una condizione di lutto. Tuttavia egli potrebbe dire che non successo
nulla ultimamente nella sua vita e che, semplicemente, man mano si sente più svogliato, disinte-
ressato ed isolato lasciando pensare, in tal caso, a una dimensione depressiva funzionale.
3. Ci si dovrebbe interrogare sull’età di Mario poiché sarebbe utile collocare i suoi comportamenti
ed i suoi pensieri entro una fase evolutiva; probabilmente sarebbe molto diverso se Mario avesse
diciassette anni da che se Mario ne avesse quarantacinque e avesse perduto il lavoro o se ne
avesse venticinque e avesse perduto il lavoro, o ancora se ne avesse settantotto. Ciò lascia de-
durre che degli aspetti depressivi sono decisamente più fisiologici in una fase più avanzata del
ciclo di vita ma, non necessariamente.
Con ciò si sta sostenendo che quando si ascolta una condizione, un quadro o una situazione bisogna
pensare se i comportamenti, le emozioni, i pensieri, i funzionamenti rientrano in un quadro noto; in
un secondo momento è necessario chiedersi se questo insieme di dimensioni sono giustificabili, ad
esempio, dalle condizioni di vita, da ciò che è accaduto oppure no e in quale fase del ciclo di vita
emergono poiché è in relazione a questi elementi che il ragionamento muta.
Le questioni chiave sono dunque:
- Quadri nevrotici e quadri psicotici
- Continuità versus discontinuità. Qual è il rapporto tra salute e patologia in ambito psicologico
e mentale: quanto, ad esempio, la tristezza invalida la possibilità di affrontare la vita (andare a
lavoro o prendersi cura della prole).
- Soglie. Quanto intensa dev’essere ad esempio l’ansia se vogliamo categorizzarla come patologi-
ca, quanto lungo deve essere lo stato depressivo post condizione di lutto purché lo si inquadri in
una dimensione psicopatologica.
- Sindromi funzionali e sindromi reattive. Quali sono le condizioni della vita in cui si generano
alcuni quadri, comportamenti, pensieri

34
Riassunti di Silvia Varro

- Collocare i disturbi e le loro evoluzioni nell’arco della vita. Collocare le condizioni nel ciclo
di vita. I comportamenti non vanno guardati in assoluto, vanno collocati.
- Criteri diagnostici: descrittivi, prototipici, dimensionali
Diagnosi descrittiva: il DSM-5 è una diagnosi, lungo il suo primo asse, prevalentemente di tipo de-
scrittivo; ciò significa che in esso sono presenti delle costellazioni di sintomi e qualora il paziente si
ritrovi in esse o meglio quando è il clinico a identificarle è possibile riportare la condizione del pa-
ziente a un determinato quadro psicopatologico. In molte situazioni di diagnosi, secondo il DSM-5,
è possibile trovare asserzioni del tipo “almeno tre sintomi fra questi”; una frase di questo tipo va ad
evidenziare proprio la sua qualità descrittiva.
Diagnosi prototipica: possiede un carattere narrativo e racconta il prototipo di una certa condizione
come nel caso dell’esempio precedentemente formulato su Mario; Mario, infatti, è stato inventato
con una logica prototipica rispetto al quadro depressivo (es. non alzarsi dal letto). È quindi una dia-
gnosi narrativa volta all’identificazione di un prototipo, di un caso tipico ideale di una certa condi-
zione.
Diagnosi dimensionale: si riferisce a due aspetti, (1) livello di gravità: uno può essere poco, nor-
malmente o molto depresso; (2) costellazioni tipiche di funzionamento: dimensioni del funziona-
mento psichico. Esempio: una delle funzioni fondamentali del nostro apparato mentale è la funzione
riflessiva (mentalizzazione) ha a che fare con la mentalità di essere consapevoli degli stati mentali e
quelli altrui. Guardo qualcuno e immagino che stia pensando a quello che sto dicendo, la caratteri-
stica è che potrebbe non essere vero. La funzione riflessiva si occupa dello stato mentale proprio e
altrui ma ne riconosce l’opacità, posso fare inferenze ma non posso asserire di vederlo. Nelle situa-
zioni in cui siamo arrabbiati, ad esempio, si decade dalla propria funzione riflessiva nella misura in
cui non si riconosce lucidamente lo stato mentale dell’altro (es. “tu non mi pensi”).
Quando ci muoviamo in una logica di attenzione ai processi mentali, alle funzioni mentali, ci muo-
viamo entro una logica di diagnosi funzionale.

- WHO: ICD classificazione statistica delle malattie


- APA: DSM manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali

Un elenco di categorie con le descrizioni dei sintomi e le indicazioni per assegnare gli individui alle
varie categorie è detto sistema di classificazione. Nel 1883 Emil Kraepelin compilò il primo si-
stema moderno di classificazione del comportamento anormale. Quelle categorie sono alla base del
Manuale diagnostico dei disturbi mentali, noto anche con la sigla DSM derivante dall'originario
titolo dell'edizione statunitense Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, è uno dei
sistemi nosografici8 per i disturbi mentali o psicopatologici più utilizzati
da psichiatri, psicologi e medici di tutto il mondo, sia nella pratica clinica sia nell'am-
bito della ricerca, redatto dall'American Psychiatric Association.
Nel corso degli anni il manuale, arrivato ora alla 5ª edizione (DSM-5) è stato redatto
tenendo in considerazione l'attuale sviluppo e i risultati della ricerca psicologica e
psichiatrica in numerosi campi, modificando e introducendo nuove definizioni di di-
sturbi mentali: la sua ultima edizione classifica un numero di disturbi mentali pari a
tre volte quello della prima edizione (classificazione di 400 disturbi mentali).
Di seguito sono riportate alcune delle novità intervenute con il DSM-5:
- Aggiunta della categoria “disturbo dello spettro autistico”, che unisce le passate categorie del
“disturbo autistico” e della “sindrome di Asperger

8
La nosologia (dal greco νόσος, nosos, "malattia" e λόγος, logos, "discorso" o "ragionamento") è la scienza che si oc-
cupa della classificazione sistematica delle malattie.

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Riassunti di Silvia Varro

- Eliminazione della categoria “disturbo ossessivo-compulsivo” dall’attuale raggruppamento dei


disturbi d’ansia e il suo inserimento in un raggruppamento detto “disturbo ossessivo-
compulsivo e disturbi collegati9”
- Distinzione del “disturbo da stress post-traumatico” dai disturbi d’ansia
- Aggiunta della categoria “disturbo disforico premestruale”
- Sostituzione del termine “ipocondria” con “disturbo da ansia della malattia”
- Aggiunta della categoria “disturbo da disregolazione dell’umore dirompente
- Aggiunta della categoria “disturbo da alimentazione incontrollata”
- Aggiunta della categoria “disturbo da uso di sostanze”, che unisce le precedenti categorie
dell’”abuso di sostanze” e della “dipendenza da sostanze”
- Raggruppamento del “disturbo del gioco d’azzardo”, in quanto disturbo da dipendenza, al grup-
po “disturbi da uso di sostanze”
- Sostituzione del termine “disturbo di identità di genere” con “disforia di genere”
- Sostituzione del termine “ritardo mentale” con “disturbo dello sviluppo intellettivo”
- Aggiunta della categoria “disturbo dell’apprendimento specifico”, che unisce le categorie “di-
sturbo della lettura”, “disturbo della matematica” e “disturbo dell’espressione scritta”
- Sostituzione del termine “demenza” con “disturbo neurocognitivo”
- Aggiunta della categoria “disturbo neurocognitivo lieve”
Il DSM-5, al fine di giungere a un’analisi corretta, richiede ai clinici di fornire informazioni relative
sia alla categoria, individuando il nome della categoria (di disturbo) identificata sulla base dei sin-
tomi, sia alla dimensione del disturbo, misurando il livello di gravità dei sintomi e di disfunziona-
lità nei vari aspetti della personalità del paziente.
Dunque, innanzitutto, il clinico deve decidere se il soggetto mostra uno o più dei disturbi elencati
nel manuale. Tra di essi sono diagnosticati più di frequente i seguenti disturbi:
Disturbi d’ansia. Le persone affette da disturbi d’ansia possono provare una sensazione diffusa di
ansia e preoccupazione (disturbo d’ansia generalizzato), un’ansia focalizzata su una situazione o un
oggetto specifico (fobie), periodi di panico (disturbo da panico), pensieri circolari o comportamenti
ripetitivi, o entrambi (disturbo ossessivo-compulsivo), o reazioni di ansia persistente dopo eventi in-
soliti e traumatici (disturbo acuto da stress e disturbo post traumatico da stress).
Disturbi depressivi. Coloro che sono affetti da disturbi depressivi provano un’eccessiva tristezza
(disturbi depressivi maggiori), una tristezza più lieve, seppur persistente e cronica (disturbi distimi-
ci), o una grave tristezza premestruale (sindrome premestruale disforica).
Sebbene spesso venga diagnosticato solo uno dei disturbi della lista DSM-5, può capitare che ven-
gano individuati più disturbi allo stesso tempo. Dopodiché deve valutare il livello di gravità osser-
vando in quale misura i sintomi affliggono il paziente. In caso di disturbi depressivi maggiori, i cli-
nici possono utilizzare una Scala di valutazione della gravità della malattia che permette di colloca-
re il disturbo del paziente su una scala da 1 a 7, dove 1 è “normale, non malato” e 7 è “tra i pazienti
più gravi”. Una volta effettuata la diagnosi, il clinico può fornire ulteriori informazioni utili, ad
esempio indicando le condizioni mediche e particolari problemi psicologici del paziente. Ad esem-
pio, se il paziente avesse il diabete dovrebbe indicarlo. Allo stesso modo, la rottura con il proprio
partner potrebbe essere indicata come un particolare problema psicologico.

Diagnosi: disturbo depressivo maggiore


Livello di gravità: 5 (notevolmente malato)

Informazioni aggiuntive:
Problemi medici: diabete
Problemi psicologici: fine di una relazione

9
Altri disturbi compulsivi sono il disturbo da accumulo, il disturbo di dismorfismo corporeo e la tricotillomania.

36
Riassunti di Silvia Varro

La relazione è al primo posto, la diagnosi è uno sforzo cognitivo.


1. Adottare un atteggiamento vigile di attesa. La diagnosi è un processo lento.
2. Assicurarsi che i sintomi siano gravi e persistenti. Non sono i singoli sintomi, non sono patolo-
gie l’essere in ansia, non riflessivo nell’aggredire la persona che ci sta accanto, non sono questi
elementi diagnostici.
3. Educare, ridimensionale, rassicurare
4. Escludere il ruolo delle sostanze
5. Escludere il ruolo di condizioni mediche
6. Escludere il disturbo bipolare depressivo. Nel momento in cui, ad esempio, si confonde una dia-
gnosi di depressione con il disturbo bipolare è possibile immaginare terapie di tipo farmacologi-
co che inducono la fase maniacale del disturbo bipolare. Le diagnosi differenziali sono fonda-
mentali in quanto hanno importanti implicazioni nel trattamento

Un sistema di classificazione, come un metodo di valutazione, viene giudicato in base a:


• Affidabilità: diversi clinici concordano sulla diagnosi quando usano il sistema per diagnosticare
lo stesso paziente;
• Validità: accuratezza delle informazioni fornite dalle sue categorie diagnostiche. Le categorie
sono molto utili ai clinici, quando, ad esempio, dimostrano la validità predittiva, ossia quando
sono d’aiuto per prevedere sintomi o eventi futuri.
Anche con dati di valutazione attendibili e categorie di classificazione valide e affidabili, i clinici
possono giungere a conclusioni erronee. Gli studi mostrano che sono fortemente influenzati dalle
prime informazioni raccolte all’inizio del processo di valutazione e il loro giudizio può essere falsa-
to da numerosi pregiudizi (genere, condizione socioeconomica, razza etc.). Al di là della potenziale
diagnosi errata, l’atto stesso di classificare le persone può portare a risultati non voluti. Molti stu-
diosi di orientamento socio-familiare ritengono che le etichette diagnostiche possano diventare pro-
fezie che si autorealizzano:
- Quando una persona ha una diagnosi di malattia mentale, cambia la visione che ne hanno gli al-
tri e la loro reazione nei suoi confronti. Se gli altri si aspettano che si comporti da malato menta-
le, il soggetto può iniziare a considerarsi veramente come tale e a comportarsi di conseguenza.
- Nella nostra società l’anormalità psicologica viene fortemente stigmatizzata: chi ha una diagnosi
di malattia mentale può avere difficoltà a trovare un lavoro, specie una posizione di responsabi-
lità, o ad avere relazioni sociali normali. Una volta che l’etichetta è stata applicata può resistere
per diverso tempo.
A causa di questi problemi, alcuni clinici preferirebbero fare a meno delle diagnosi. Altri, diversa-
mente, ritengono che si debba semplicemente lavorare per aumentare le conoscenze sui disturbi psi-
cologici e migliorare le tecniche diagnostiche; per loro, la classificazione e la diagnosi sono essen-
ziali per comprendere e curare le persone con problemi.

37
Riassunti di Silvia Varro

Capitolo 4

La condizione di ansia è legata all’attesa, alla fantasia di una minaccia (di fatti più capaci a conqui-
stare sono gli individui più disinvolti rispetto al rifiuto dell’altra persona) e non con la presenza di
una minaccia. Se c’è una tigre nella nostra stanza non proviamo ansia, proviamo paura, la minaccia
è reale, tangibile, effettiva. L’ansia è in qualche modo una paura anticipata. L’ansia è una condi-
zione complessa ma fondamentalmente adattiva. L’ansia adattiva è un processo corporeo naturale
che si innesca tutte le volte che siamo di fronte ad una situazione pericolosa e che genera uno stato
di attivazione generale (arousal) che ci rende più attenti, pronti a reagire e ci fornisce una risposta
fisiologica tale da rendere il nostro organismo pronto ad affrontare il pericolo imminente. È una
reazione che generalmente dura da pochi secondi a qualche minuto che si è tramandata
con l’evoluzione fino ai giorni nostri. Quando diventa disadattiva? Quando soverchia le
altre condizioni della vita, quando non c’è più alternanza tra ansia e quiete, ma diventa
uno stato constante. Quando l’ansia diviene tale da impedire di svolgere delle attività o
diviene soverchiante perché generalizzata si crea un’inversione, per cui l’unico
obiettivo del soggetto non diviene usare l’ansia per affrontare eventi bensì placa-
re l’ansia. E quindi l’ansia, da motore motivazionale di aspetti dell’esistenza, di-
viene essa stessa fulcro dell’esistenza.

PAURA reazione psicologica ed emotiva immediata, mediata dal sistema nervoso centrale, in
presenza di una seria minaccia al proprio benessere. Risposta ad una minaccia.
ANSIA vaga sensazione di minaccia o pericolo. Anticipazione di una minaccia. Ha un valore
adattivo in quanto preserva la sopravvivenza psico-fisica dell'individuo, ma può diventa-
re talmente pervasiva da non permettere di condurre una vita quotidiana adattiva.

Le persone che soffrono di disturbo d’ansia generalizzato sono attanagliate da un’ansia10 eccessi-
va per la maggior parte del tempo e ogni cosa è per loro fonte di preoccupazione; il loro problema
viene definito infatti anche ansia libera. Questi soggetti si sentono irrequieti, bloccati o in costante
tensione; hanno difficoltà di concentrazione; presentano tensione muscolare e hanno problemi del
sonno. I sintomi perdurano almeno sei mesi. La maggior parte degli individui che soffrono di ansia
riesce, seppure con qualche difficoltà, a lavorare normalmente e ad avere una vita sociale.
Il disturbo d’ansia generalizzato è assai diffuso nella società occidentale. Secondo le indagini, circa
il 4% della popolazione degli Stati Uniti presenta ogni anno i sintomi di questo disturbo, un tasso
che si ritrova anche in Canada, Gran Bretagna e altri paesi occidentali. In totale, quasi il 6% di tutta
la popolazione manifesta sintomi d’ansia generalizzata in qualche momento della vita. Il disturbo
può sopraggiungere a qualunque età, ma in genere comprare per la prima volta nell’infanzia o
nell’adolescenza. Le donne sono colpite dal disturbo in misura doppia rispetto agli uomini.
Domanda di screening: è una persona apprensiva, eccessivamente preoccupata per molte cose di-
verse?
Prototipo diagnostico (Frances): chi soffre di un disturbo di ansia generalizzato, ha una mente che
non si ferma mai. Le tipiche sfide della vita – la famiglia, le finanze, la salute, lo studio, il lavoro, la
scuola e le amicizie il futuro e via dicendo – sono benzina sul fuoco delle loro preoccupazioni. Le
preoccupazioni possono essere accompagnate da tutta una serie di sintomi cognitivi (scarsa concen-

10
Va distinta dalla paura, la quale è una reazione psicologica ed emotiva del sistema nervoso centrale che si verifica
non in presenza di una vaga sensazione di minaccia o pericolo bensì di una seria minaccia al proprio benessere.

38
Riassunti di Silvia Varro

trazione, pensieri catastrofici, indecisione), sintomi dell’umore (irritabilità, demoralizzazione) e


sintomi fisici (nausea, mal di testa, sudorazione, tremori, tensione muscolare, insonnia). L’ansia
causa notevole disagio e ha marcati effetti negativi sulla vita quotidiana del soggetto. Questi cerca
sempre rassicurazione negli altri, ma non si sente mai rassicurato del tutto.
La persona chiama in una relazione di rassicurazione, che però se è molto in ansia non servirà nulla
e il bisogno di rassicurazione risulta essere un pozzo senza fondo.

✓ Ansia eccessiva o continuata e preoccupazione per un periodo di almeno sei mesi, riguardo
numerose situazioni o attività.
✓ Difficoltà a controllare la preoccupazione.
✓ Almeno tre dei sintomi seguenti: irrequietezza – facile affaticabilità – irritabilità – tensione
muscolare – disturbi del sonno.
✓ Disagio clinicamente significativo o compromissione del funzionamento in ambito sociale,
lavorativo o in altre aree importanti (problema invalidante)
✓ La condizione non attribuibile ad uso di sostanze o altra condizione medica
✓ Il disturbo non è meglio specificato da un altro disturbo (fobia sociale)

Secondo la psicologia socioculturale, il disturbo d’ansia generalizzato si presenta più facilmente


nelle persone che vivono in condizioni sociali di continuo pericolo.
La povertà è tra le forme più intense di stress sociale. Le persone prive di mezzi finanziari vivono
tendenzialmente in zone degradate con criminalità diffusa, hanno minori opportunità di formazione
e di lavoro e in generale sono esposte a un maggior rischio di avere problemi di salute.
Queste persone hanno inoltre una maggiore incidenza di disturbo d’ansia generalizzato.
Negli Stati Uniti il tasso di incidenza tra le persone a basso reddito è doppio rispetto a
quello riscontrato tra le persone più benestanti: il tasso di incidenza aumenta parallela-
mente al diminuire dei salari.
Poiché negli Stati Uniti l’appartenenza razziale è strettamente connessa al reddito e alle opportu-
nità di lavoro, non sorprende che risulti talvolta legata anche alla prevalenza del disturbo d’ansia
generalizzato. Ogni anno il 30% delle persone che soffre di questo disturbo è afroamericana. Negli
studi di tipo multiculturale non è stato riscontrato lo stesso tra gli americani di origine ispanica. Tut-
tavia, hanno rilevato che questi ultimi soffrono di nervios11 (“nervi”), un disturbo su base culturale
che presenta forti somiglianze con il disturbo d’ansia generalizzato.
Tra i prodotti più utilizzati contro lo stress moderno (antiansia) ritroviamo: palline antistress, can-
dele rilassanti, musica con suoni della natura/New Age, machere facciali e oculari, sveglie con suo-
ni della natura, aromaterapia, integratori a base di erbe, massaggi, attività fisica e yoga/meditazione.
Ai bambini è concesso stringere le copertine o orsacchiotti per sentirsi più sicuri. Per gli adulti vale
lo stesso: una donna adulta su cinque e un uomo su venti ammettono di dormire regolarmente con
un pupazzo di peluche.

A livello etimologico, la parola “ansia” deriva dal termine tedesco Angst, che rimanda da un lato al
comune termine ansia, dall’altro al termine angoscia, di matrice più squisitamente psicodinamica.
Inizialmente per Freud (1894) la mancata scarica pulsionale della libido comportava un aumento
dell’intensità dell’eccitazione sessuale e la trasformazione della libido in uno stato di tensione fisica
caratterizzato da precisi sintomi fisici quali sudorazione, dispnea, vertigini, aumento del ritmo respi-
11
Le persone affette da nervios manifestano un grande disagio emotivo, sintomi somatici (mal di testa e mal di stoma-
co), dolori cerebrali (nervosismo e scarsa concentrazione), sintomi di irritabilità, tendenza al pianto e tremori.

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Riassunti di Silvia Varro

ratorio e del battito cardiaco. Tale quadro clinico, denominato dall’autore nevrosi d’angoscia, rap-
presenta una risposta patologica dell’organismo – una nevrosi attuale non riconducibile a conflitti
infantili – all’intenso quantitativo di energia non scaricata. In altre parole, l’eccessiva presenza della
libido, non riuscendosi a legare a nessun contenuto rappresentativo, trova una sua espressione nel
corpo. L’angoscia che caratterizza la nevrosi attuale prende forma in un senso sopraffacente di pa-
nico, accompagnato a scariche neurovegetative, tra le quali sudorazioni profuse, aumento dei ritmi
respiratori e cardiaci, diarrea un senso soggettivo di terrore. Successivamente, Freud
(1925) integra la spiegazione economica dell’angoscia spostando il focus della sua at-
tenzione dall’eziologia alla funzione che essa assume nella vita psichica del soggetto.
L’angoscia rappresenta una normale reazione dell’organismo a uno stato di pericolo,
laddove il soggetto è esposto a un numero eccessivo di stimoli interni o esterni, essa si
sviluppa in maniera automatica. In tale ottica, l’angoscia trova la sua sede nell’Io, che,
a causa del deficitario funzionamento dei meccanismi difensivi, non riesce a padroneggiare
l’intensità delle sollecitazioni a cui è esposto e produce un’angoscia automatica. Al fine di impedi-
re l’insorgere di tale risposta, l’organismo attiva un segnale d’angoscia che riproduce una reazione
attenuata dell’angoscia vissuta in precedenza e informa il soggetto della presenza di un pericolo,
mobilitando i meccanismi di difesa. Dunque, l’angoscia è un affetto dell’Io, un sintomo originato da
un conflitto inconscio rimosso. Essa è intimamente connessa alle valutazioni che l’Io fa di un immi-
nente pericolo e finalizzata a evitare pericoli e dispiaceri maggiori nell’ottica del Principio di Piace-
re.
Un ulteriore contributo allo studio dell’angoscia deriva dal pensiero kleiniano, che si declina mag-
giormente sul versante psicotico. Secondo la Klein (1935) due sono le principali forme di angoscia:
1. Angoscia persecutoria: caratteristica della posizione schizo-paranoide (gli oggetti sono par-
ziali, sono buoni o cattivi, scissi e non integrati in un oggetto intero che è sempre buono e catti-
vo insieme) si riferisce alla paura che gli oggetti persecutori invadano il bambino e alle minacce
che egli percepisce come incombenti (annientamento dell’Io);
2. Angoscia depressiva: ha a che fare con la paura che gli oggetti buoni, sia interni sia esterni,
vengano distrutti (pulsione di Morte indirizzata verso oggetti d’amore interni ed esterni).
Con l’evoluzione del pensiero psicoanalitico, maggiormente orientato alla matrice bi-personale e
relazionale, si è posto l’accento sull’importanza dell’angoscia di separazione, intimamente legata
alla paura di perdere l’oggetto amato e il suo amore, di separarsi da esso e ai conseguenti vissuti di
solitudine. A tal proposito Otto Rank afferma che tale tipologia di angoscia è legata in modo speci-
fico al trauma della nascita, continuamente rivissuto attraverso le successive esperienze di separa-
zione: si pensi per esempio allo svezzamento o alla separazione dalla persona amata. Similmente
Micheal Balint afferma che esiste un’angoscia primaria, che deriva dall’investimento libidico del
bambino sulla madre: l’assenza di quest’ultima comporta la trasformazione della libido in angoscia.
Dello stesso avviso sono autori come Winnicott e più recentemente Bowlby, che sottolineano il le-
game tra assenza delle cure materne, separazione, o minaccia di separazione dalla madre, e la suc-
cessiva comparsa nel bambino di profondi vissuti angosciosi.
Gerarchia evolutiva dell’ansia
• Pressioni del Super Io perché non si conduce una vita all’altezza di uno standard interno
• Angoscia di castrazione legata alle condizioni libidiche
• Ansia legata alla paura di perdere l’amore e l’approvazione di un altro significativo
• Ansia legata alla perdita dell’oggetto, angoscia di separazione, ansia di abbandono
• Angoscia persecutoria, essere attaccati e invasi da oggetti persecutori (sentirsi costantemente in
una situazione di minaccia)
• Angoscia di disintegrazione, di frammentazione, andare in pezzi connessa alla paura di perdere
il senso di sé e dei propri confini nella fusione con l’altro o in disperata attesa di una risposta di
rispecchiamento

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Riassunti di Silvia Varro

Le terapie psicodinamiche utilizzate per trattare i problemi psicologici, il cui scopo di aiutare i pa-
zienti a riconoscere gli impulsi dell’Es e a interagire con essi in virtù di un incremento del Principio
di Realtà, sono:
- Associazioni libere
- Dinamiche transferali e controtransferali che si attuano in seduta
- Analisi delle resistenze
- Interpretazione dei sogni
La terapia psicodinamica breve si è rivelata utile per ridurre notevolmente i livelli di ansia, la
preoccupazione e le difficoltà sociali nei pazienti con disturbo d’ansia generalizzato.

La prospettiva umanistica in psicologia riprende due modelli, uno è quello della terapia incentrata
sul cliente di Carl Rogers e l’altro è quello della terapia della Gestalt. Entrambe queste scuole
hanno una serie di elementi in comune e sono accumunate da una prospettiva detta Umanistico-
esistenziale.
Secondo gli studiosi di orientamento umanistico, il disturbo d’ansia generalizzato, come altri distur-
bi psicologici, si produce quando le persone non vedono più sé stesse in modo obiettivo, accettan-
dosi per quello che sono. Negando ripetutamente i propri pensieri, emozioni e comportamenti, que-
ste persone diventano estremamente ansiose e incapaci di mettere a frutto le proprie capacità in
quanto esseri umani. Il concetto chiave è che lo sviluppo dell’essere umano abbia a che fare con uno
sviluppo di piena realizzazione di sé e lo sviluppo del sé in modo congruo (è
congruo ciò che mi riguarda, è incongruo ciò che compio per compiacere chi è
altro da me, gli oggetti d’amore indispensabili per la nostra esistenza, i nostri
genitori). Acquisire e mantenere l’amore del genitore nei propri confronti, nelle
prime fasi dello sviluppo, ha a che fare con una dimensione legata alla soprav-
vivenza. Queste dinamiche relazionali con questi adulti significativi deputati
alla cura e alla sopravvivenza dell’infante sono riconosciuti come fondamentali
in ogni modello psicologico (la nostra esistenza trae la sua origine sotto questo tessuto relazionale).
Una buona relazione crea il fondamento per un possibile sviluppo adattivo funzionale. Una rela-
zione danneggiata, a vari livelli, non determina necessariamente una condizione di psicopatologia
ma potenzia le condizioni di rischio perché si sviluppino le sue condizioni.
La prospettiva umanistica sancisce che in una condizione infantile in cui il soggetto non si è sentito
sufficientemente accettato, riconosciuto nei suoi bisogni autentici è un soggetto che tende a spostarsi
da sé (concetto del falso sé di Winnicott). Secondo questa prospettiva il disturbo d'ansia generaliz-
zato insorge quando le persone non vedono più sé stesse in modo obiettivo, accettandosi per quello
che sono e incapaci, così, di mettere a frutto le proprie capacità in quanto esseri umani.
Rogers riteneva che i bambini che non ricevono una considerazione positiva incondizionata da par-
te degli altri possono diventare ipercritici nei confronti di se stessi e porsi degli standard molto se-
veri ai quali adeguarsi (condizioni di valore). Essi cercano di adeguarsi a questi standard distor-
cendo e negando continuamente i propri pensieri ed esperienze reali il che porta loro a giudicarsi in
modo severo e a provare molta ansia. Gli operatori che adottano l’approccio terapeutico di Rogers,
la terapia centrata sul paziente, fanno in modo di mostrare una considerazione positiva incondi-
zionata verso questi soggetti e una profonda comprensione empatica. Un’altra scuola è la terapia
della Gestalt, entrambe sono accomunate nella prospettiva umanistica-esistenziale

Gli psicologi di orientamento cognitivo sostengono che i problemi psicologici sono spesso causati
da un modo di pensare disfunzionale.

41
Riassunti di Silvia Varro

Un tempo, i teorici cognitivi ipotizzavano che il disturbo d’ansia generalizzato fosse causato da
presupposti maladattivi. Albert Ellis sosteneva ad esempio che molte persone sono guidate da
credenze irrazionali di fondo, che portano ad agire e a reagire in maniera inadeguata, e che coloro
che soffrono di disturbo d’ansia generalizzato condividono le seguenti idee:
- L’essere umano adulto ha estremamente bisogno di essere amato o approvato da ogni altra per-
sona significativa all’interno della sua comunità;
- È orribile e catastrofico quando le cose non vanno come uno vorrebbe tanto che andassero.
- Se c’è qualcosa di pericoloso o spaventoso, o potrebbe esserci, è necessario essere terribilmente
preoccupati o occorre continuare a soffermarsi sull’eventualità che questo accada;
- Se ci si vuole considerare delle persone degne, occorre essere assolutamente competenti, ade-
guati e di successo sotto ogni possibile punto di vista. Quando le persone che hanno queste con-
vinzioni si trovano a fronteggiare un evento stressante, come un esame o un appuntamento al
buio, tendono a interpretarlo come una minaccia, ad avere reazioni eccesive e a provare paura.
Continuando ad applicare sempre più queste convinzioni agli eventi, possono cominciare a svi-
luppare un disturbo d’ansia generalizzato.
Spiegazioni cognitive di terza generazione: negli ultimi anni sono emerse tre nuove spiegazioni
per il disturbo d’ansia generalizzato, tutte fondate sull’opera di Ellis e Beck e sull’importanza attri-
buita al senso di pericolo:
1. Teoria metacognitiva: le persone con disturbo d’ansia generalizzato nutrono implicitamente
convinzioni positive e negative allo stesso tempo sulla preoccupazione. Dal punto di vista posi-
tivo, sono convinte che preoccuparsi sia un modo utile di valutare e fronteggiare le minacce,
analizzano ogni possibile segnale di pericolo e perciò si preoccupano costantemente. Dal punto
di vista negativo, la società insegna loro che preoccuparsi è negativo, dunque giungono a crede-
re che il fatto di essere in costante apprensione sia dannoso (sia fisicamente che mentalmente) e
incontrollabile. Ecco che si preoccupano ulteriormente del fatto che sembrano sempre preoccu-
parsi di qualsiasi cosa (hanno cioè delle meta-preoccupazioni).
2. Teoria dell’intolleranza all’incertezza: alcuni individui sono convinti che qualunque possibili-
tà che un evento negativo possa verificarsi, anche se minima, significa che quell’evento proba-
bilmente accadrà (es. chiamare una persona per la prima volta).
3. Teoria dell’evitamento: chi soffre di questo disturbo manifesta uno stato di attivazione fisica
maggiore rispetto alle altre persone; la preoccupazione avrebbe effettivamente lo scopo di ridur-
re lo stato di attivazione, forse perché distrae i soggetti dalle sensazioni fisiche spiacevoli. Un
individuo a disagio in una situazione di lavoro o in una relazione sociale sceglierà implicitamen-
te di intellettualizzare (ossia di preoccuparsi per) l’idea di perdere il lavoro o l’amicizia, anziché
dover restare in uno stato di intensa attivazione negativa. La preoccupazione avrebbe quindi una
funzione di coping veloce, anche se maladattivo, per uno stato fisico spiacevole.
Per il disturbo d’ansia generalizzato si utilizzano due tipi di approccio cognitivo: (1)12 il terapeuta
insegna al paziente a modificare le convinzioni maladattive che caratterizzano il suo disturbo; (2) il
terapeuta aiuta il paziente a comprendere il ruolo che ha la preoccupazione nel disturbo e a modifi-
care il suo modo di considerare la preoccupazione stessa e le sue reazioni al riguardo.

I circuiti neuronali coinvolti nell’attivazione ansiosa sono da imputarsi a:


- Amigdala: coinvolta nel funzionamento emotivo in entrata
- Ipotalamo: coinvolto nella risposta comportamentale che avviene in base alla valutazione emo-
tiva dello stimolo

12
Terapia relazionale-emotiva: il terapeuta individua le convinzioni irrazionali nutrite dal paziente, suggerisce consi-
derazioni più appropriate e assegna degli esercizi che danno modo al soggetto di esercitarsi a confutare le vecchie con-
vinzioni e ad applicarne di nuove.

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Riassunti di Silvia Varro

L’attivazione ansiosa abbraccia quindi due aspetti fondamentali: il vis-


suto soggettivo (aspetto psicologico) e l’attivazione corporea (aspetto
fisiologico).
I teorici di orientamento biologico ritengono che il disturbo d’ansia ge-
neralizzato sia causato soprattutto da fattori biologici. Questa teoria è
stata suffragata per anni dagli studi del pedigree familiare, attraverso i
quali i ricercatori scoprono quanti e quali familiari di una persona affet-
ta da disturbo d’ansia hanno lo stesso disturbo. In effetti, dagli studi è
emerso che i parenti biologici di persone con disturbo d’ansia generalizzato hanno maggiori proba-
bilità rispetto ai non parenti di avere anch’essi lo stesso disturbo.
Negli anni Cinquanta del secolo scorso i ricercatori accertarono che le benzodiazepine, i farmaci a
cui appartengono l’alprazolam (Xanax), il lorazepam (Tavor), il diazepam (Valium) e il clonaze-
pam (Rivotril) alleviano la sensazione d’ansia. L’applicazione delle tecniche radioattive ha consen-
tito di intentificare i punti esatti dell’encefalo sui quali agiscono questi farmaci: sembra che alcuni
neuroni possiedano recettori per le benzodiazepine, proprio come una serratura riceve una chiave.
Poco dopo si è scoperto che i recettori per le benzodiazepine ricevono normalmente acido-gamma-
ammino-butirrico (GABA), un neurotrasmettitore rilasciato da neuroni cerebrali, il quale trasporta
messaggi inibitori: quando viene ricevuto da un recettore, blocca l’attività di rilascio del neurone.
Sulla base di queste scoperte, secondo i ricercatori di orientamento biologico, nelle normali reazioni
di paura i neuroni chiave si attivano più rapidamente in tutto il cervello, causando
quindi l’attivazione di altri neuroni e producendo così uno stato di eccitabilità a li-
vello cerebrale e fisico. La traspirazione, la frequenza respiratoria e la tensione mu-
scolare aumentano e ciò viene percepito come paura o ansia. La continua attività dei
neuroni innesca alla fine un sistema di feedback, ossia attività cerebrale o fisica che
riducono il livello di eccitabilità. Altri neuroni presenti in diverse aree cerebrali rilasciano il neuro-
trasmettitore GABA, il quale si lega ai recettori specifici su altri neuroni e trasmette a questi un
messaggio inibitorio che impedisce la generazione di nuovi impulsi. Lo stato di eccitabilità cessa e
la percezione di paura o ansia si attenua. In base a questa ipotesi si è avanzata l’ipotesi che le perso-
ne con disturbo d’ansia generalizzato potrebbero avere un continuo problema nel sistema di feed-
back dell’ansia, forse perché hanno pochi recettori GABA, o forse i loro recettori GABA non cattu-
rano abbastanza rapidamente il neurotrasmettitore.
Limiti:
- Anche altri nt possono avere un ruolo importante nell’ansia
- Le reazioni anomale del GABA nelle persone ansiose potrebbero essere il risultato e non la
causa del loro disturbo: l’ansia persistente potrebbe condurre a un peggioramento nei meccani-
smi di ricezione del GABA
- Il disturbo d’ansia generalizzato non è semplicemente determinato da un neurotrasmettitore o da
un gruppo di questi; alcune reazioni emotive sono legate ai circuiti cerebrali. Il circuito che
produce sensazioni d’ansia include la corteccia prefrontale, la corteccia cingolata anteriore e
l’amigdala.
Trattamenti biologici
Terapia farmacologica antiansia: alla fine degli anni Cinquanta le benzodiazepine venivano defi-
nite farmaci sedativo-ipnotici, in grado di agire come tranquillanti a basse dosi e come sonniferi a
dosi più alte. Sembra che quando le benzodiazepine si legano ai recettori GABA-A, aumenti la ca-
pacità del GABA di legarsi anche a questi e quindi la sua capacità di inibire l’attivazione neuronale
e di ridurre l’ansia. Nonostante il sollievo temporaneo riscontrato nelle persone che soffrono di di-
sturbo d’ansia generalizzato, i clinici conoscono la pericolosità potenziale di questi farmaci:
1. Quando la terapia viene interrotta i livelli di ansiano tornano ritornano al punto di partenza;
2. Le benzodiazepine assunte ad alte dosi per un lungo periodo di tempo possono provocare dipen-
denza fisica;

43
Riassunti di Silvia Varro

3. Hanno numerosi effetti collaterali spiacevoli come sonnolenza, perdita di memoria, depressione
e comportamento aggressivo;
4. Reagiscono negativamente con alcuni altri farmaci o sostanze come l’alcol.
Negli ultimi decenni si è scoperto che numerosi farmaci antidepressivi, utilizzati per migliorare
l’umore delle persone depresse, in molti casi sono utili anche per l’ansia. Oggi, infatti, diversi clini-
ci tendono a prescrivere antidepressivi per trattare anche il disturbo d’ansia generalizzato, più delle
benzodiazepine che potenziano l’attività del GABA.

NOME GENERICO NOME COMMERCIALE


Benzodiazepine
Alprazolam Xanax
Clorazepato Transene
Clordiazepossido Librium
Clonazepam Rivotril
Diazepam Valium
Estazolam Esilgan
Lorazepam Tavor
Alazepam Paxipam
Altri
Buspirone Buspar
Propranololo Inderal

Training autogeno: è una procedura biologica non chimica che insegna ai soggetti a rilassarsi vo-
lontariamente (il rilassamento fisico conduce a uno stato di rilassamento psicologico), in modo da
riuscire a calmarsi in situazioni di stress. In una versione di questa tecnica il paziente impara a iden-
tificare i diversi gruppi muscolari, a metterli in tensione, a rilassarli e alla fine a rilassare l’intero
corpo.
Biofeedback: tecnica in cui a un soggetto vengono date informazioni sulle reazioni psicologiche nel
momento in cui si verificano, in modo che impari a controllare volontariamente le proprie reazioni.
Tale metodo prevede l’uso di elettromiografo (EMG), che rileva il livello di tensione muscolare. al
soggetto vengono applicati elettrodi sulla fronte, dove viene captata la debole attività elettrica che si
accompagna alla tensione muscolare. il dispositivo converte quindi potenziali elettrici provenienti
dai muscoli in immagini, come linee su uno schermo, o in un suono che cambia di tonalità quando
rileva cambiamenti nella tensione muscolare. il paziente può quindi “vedere” o “sentire” quando i
muscoli sono in tensione. Attraverso prove ed errori ripetuti, i soggetti acquistano la capacità di al-
lentare volontariamente la tensione muscolare, e, in teoria, di ridurre la tensione e l’ansia nelle si-
tuazioni stressanti della vita quotidiana.

Una fobia (dal greco “paura”) è la paura persistente e irrazionale di un oggetto, di un’attività o di
una situazione particolare. Le persone che soffrono di fobie provano paura anche solo pensando
all’oggetto o alla situazione temuti, ma restano in genere tranquille se evitano qualunque contatto o
pensiero riguardo a essi.
Tutti abbiamo le nostre paure specifiche ed è normale che alcune cose ci facciano
agitare più di altre. In che senso questa paura comuni sono diverse dalle fobie? Il
DSM-5 afferma che una fobia è più intensa e persistente della paura e che c’è un
maggiore desiderio di evitare l’oggetto o la situazione. Le persone con fobie
spesso sono angosciate all’idea che le loro paure possano interferire seriamente
con le loro vite.

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Riassunti di Silvia Varro

✓ Paura intensa e persistente di un oggetto o situazione specifici, eccessiva e irragionevole, che


perdura da almeno sei mesi.
✓ Ansia immediata prodotta in genera dalla vicinanza dell’oggetto.
✓ Consapevolezza che la propria paura è eccessiva o irrazionale.
✓ Evitamento della situazione temuta.
✓ Angoscia o problemi significativi

La maggior parte delle fobie rientrano nella categoria delle fobie specifiche, una paura intensa e
persistente di un oggetto o una situazione specifici. Vi è poi una tipologia più ampia di fobia, detta
agorafobia, che consiste nel timore di avventurarsi in spazi pubblici dai quali può esser e difficile
fuggire in caso di attacchi di panico o menomazione fisica.

Una fobia specifica è la paura persistente di un oggetto o di una situazione particolari. Quando le
persone con una fobia si trovano a contatto con l’oggetto o la situazione temuti, vengono assalite da
una paura immediata. Fobie specifiche comuni sono la paura intensa nei confronti di animali o in-
setti, luoghi elevati, spazi chiusi, temporali e sangue.

Descrizione di un caso di aerofobia: “[..] Continuavo a vedere tutti gli altri, me compreso, co-
me fantocci legati ai loro sedili con le cinture senza alcun controllo sul loro desti-
no. Ogni volta che c’era una variazione di velocità o di rotta, il cuore mi
balzava in gola e chiedevo immediatamente cosa stesse succedendo. Quando
l’aereo iniziò a scendere di quota sono stato assalito dal terrore che ci saremmo
schiantati al suolo.”

Ogni anno, quasi il 9% della popolazione deli Stati Uniti manifesta i sintomi di una fobia specifica.
Oltre il 12% degli individui sviluppa una fobia di questo tipo nel corso della vita e molte persone ne
hanno più di una. Il disturbo colpisce le donne in misura doppia rispetto agli uomini. Per ragioni
non chiare, la prevalenza delle fobie specifiche è diversa nelle minoranze razziali ed etniche (gli
afroamericani e gli ispanoamericani riferiscono fobie specifiche del 50% superiore rispetto agli
americani bianchi). L’impatto di una fobia specifica sulla vita di una persona dipende da ciò che
scatena la paura. Coloro che temono i cani o i gatti, per esempio, continueranno a incontrare gli og-
getti che temono, dunque, i loro sforzi per evitarli devono essere molto elaborati e possono limitare
fortemente le loro attività. Una persona che abita in città e ha paura dei serpenti avrà una vita molto
più facile. La stragrande maggiorana di chi soffre di una fobia specifica non si rivolge al medico,
ma si limita a cercare di evitare l’oggetto che scatena la paura.
Tanto più è intensa la fobia tanto più saranno attivi i meccanismi di evitamento. Ciò che contrad-
distingue un soggetto fobico da uno non fobico è la quantità di azioni volte all’evitamento
dell’incontro con l’oggetto fobico. Posso aver paura dei cani e non essere fobico, ma se non esco di
casa o non vado a casa di amici il comportamento diventa fobico. È sull’evitamento e sul condizio-
namento che tali paure hanno circa la vita quotidiana che si fa diagnosi di fobia, non sulla presenza
o assenza di fobia.

Le persone che ne soffrono di agorafobia hanno paura di trovarsi in spazi pubblici o situazioni nel-
le quali, in caso di paura o menomazione fisica, la fuga può risultare difficoltosa o non è disponibile
aiuto. Si tratta di una fobia particolarmente intensa e complessa.

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Riassunti di Silvia Varro

✓ Paura intensa, sproporzionata e immediata di essere in una delle seguenti situazioni: trasporti
pubblici (es. viaggiare in automobile); spazi pubblici (es. parcheggi); negozi, teatri o cinema;
code o folla; fuori casa senza la compagnia di un conoscente.
✓ La paura di situazioni agorafobiche è legata alla preoccupazione che, in caso di panico o me-
nomazione fisica, l’eventuale fuga possa rivelarsi difficoltosa e non si possa ricevere aiuto.
✓ Evitare situazioni agorafobiche.
✓ I sintomi persistono per almeno sei mesi.
✓ Disagio e disabilità significativi.

L’agorafobia di solito si sviluppa intorno ai venti o ai trent’tanni. Le persone che soffrono di ago-
rafobia di solito evitano le strade o i negozi affollati, i parcheggi, i trasporti pubblici e i viaggi in ae-
reo. Se si avventurano fuori casa, lo fanno in compagnia di parenti stretti o amici. Spesso chiedono
a quest’ultimi di stare con loro a casa, ma anche tra le mura domestiche e in compagnia di altre per-
sone continuano a soffrire di ansia. Nei casi più gravi, le persone diventano virtual-
mente prigioniere della propria casa, la loro vita sociale si riduce e non riescono
a tenersi un lavoro. A volte, proprio a causa delle importanti limitazioni alla vita
personale determinante dal disturbo che le affligge, può insorgere anche la depres-
sione.
Molti, se entrano in spazi pubblici, soffrono di episodi esplosivi di paura, estremi e improvvisi, i co-
siddetti attacchi di panico. In questi casi, vengono diagnosticati due disturbi distinti – agorafobia e
disturbo di panico – proprio perché la difficoltà del paziente si estende ben al di là dell’eccessiva
paura di lasciare le mura domestiche per avventurarsi in spazi pubblici.

I soggetti affetti da disturbo d’ansia sociale provano una grave, persistente e irrazionale ansia di
situazioni sociali, nelle quali devono esibirsi o sono sottoposti al giudizio altrui o ancora possono
sentirsi in imbarazzo. Può essere circoscritta, come la paura di parlare in pubblico o di mangiare di
fronte agli altri, o più estesa, una paura generale di non agire in modo adeguato di fronte ad altri. In
entrambi i casi, le persone sottovalutano le loro prestazioni. Proprio per l’estensione del suo ambito,
questo disturbo viene chiamato oggi disturbo d’ansia sociale e non più fobia sociale, categoria uti-
lizzata nella precedente versione del DSM.

Domanda di screening Le capita spesso di evitare le situazioni sociali per paura di fare
qualcosa di inadeguato o di apparire ridicolo?
Prototipo diagnostico Ha il terrore di stare con gli altri perché si sente socialmente inadeguata. Ha
sempre paura di dire qualcosa di stupido o di non essere vestita nel modo
adatto o di non avere i capelli a posto. Attacca e umilia sè stessa con una se-
verità che nemmeno il critico più inflessibile saprebbe esibire. Questa dolo-
rosa autocoscienza la mette in uno stato di costante ipervigilanza autocriti-
ca, un’attenzione ossessiva ai minimi dettagli e difetti di cui nessun osserva-
tore esterno sarebbe mai capace.

Il disturbo d’ansia sociale può interferire pesantemente con la vita quotidiana. Una persona che non
riesce a interagire con gli altri o a parlare in pubblico non riesce ad assumersi responsabilità impor-
tanti. Chi non riesce a mangiare in pubblico, per esempio, rifiuta inviti a cena o altre offerte che in-
cludano la socialità. Dal momento che molti soggetti affetti da questo disturbo nascondono le pro-
prie paure, la loro riluttanza sociale è spesso mal interpretata come snobismo, mancanza di interes-
se o ostilità.

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Riassunti di Silvia Varro

Secondo le statistiche, oggi il 7,1% degli americani e degli occidentali sperimentano questo disturbo
e circa il 12% lo sviluppa a un certo punto della vita. Di solito inizia a presentarsi
alla fine dell’infanzia o nell’adolescenza e può continuare nell’età adulta.
Quali sono le cause del disturbo d’ansia sociale?
Secondo i teorici cognitivisti chi ne soffre ha un patrimonio di convinzioni
negative su se stessi:
- I loro standard sociali sono irrealisticamente elevati e, pertanto, credono di
doversi comportare in modo esemplare in ogni situazione sociale.
- Si ritengono poco gradevoli per il resto della società, privi di qualità sociali e inadeguati
- Temono di comportarsi da incapaci nelle situazioni sociali
- Credono che comportamenti inappropriati comportino sempre gravi conseguenze e di non poter
controllare l’ansia che emerge nelle situazioni sociali.
Queste persone temono che da un momento all’altro possa verificarsi un disastro sociale e, proprio
per evitare che ciò accada, tendono a tenere comportamenti di “contenimento”, come uscire sempre
con persone che già conoscono, o di “sicurezza”, ad esempio truccandosi per nascondere il rossore
da imbarazzo.

Secondo i comportamentisti il condizionamento classico sarebbe un modo molto comune per ac-
quisire reazione fobiche. In tale processo due eventi che avvengono in momenti ravvicinati nel tem-
po diventano strettamente associati nella mente di una persona e questa allora reagisce in modo si-
mile a entrambi gli eventi. Se uno degli eventi provoca una reazione di paura, può farlo anche il se-
condo. Negli anni Venti dei Novecento un medico descrisse il caso di una giovane donna con una
fobia dell'acqua corrente e l'episodio che avrebbe prodotto il condizionamento classico. All'età di
sette anni, mentre si stava arrampicando su alcune rocce, restò intrappolata con entrambi i piedi tra
due massi. Più cercava di liberarsi, più restava incastrata. Nessuno la sentì urlare e fu assalita dal
terrore. Nel linguaggio dei comportamentisti, l’essere intrappolata suscitava una reazione di paura.
Mentre si dibatteva per liberarsi, la bambina sentì il rumore di una cascata nei pressi delle rocce.
Nella sua mente lo scroscio dell'acqua corrente si collegò alla sua angosciosa battaglia con le roc-
ce, e sviluppò così anche la paura dell'acqua corrente. Per anni i familiari dovevano trattenerla a
forza per poterle fare il bagno. Durante i viaggi in treno, era necessario tirare le tendine sui finestri-
ni in modo che non vedesse corsi d’acqua. Nei termini specifici, l’essere rimasta intrappolata era
uno stimolo incondizionato (SI) che comprensibilmente aveva suscitato una risposta incondizionata
(RI) o paura. L’acqua corrente rappresentava uno stimolo condizionato (SC), uno stimolo dapprima
neutro che nella mente della bambina veniva associato con l’idea di essere intrappolata e suscitava
anch’esso una reazione di paura. La paura acquisita per ultima era una risposta condizionata (RC).

SI: essere intrappolata → RI: paura


SC: acqua corrente → RC: paura

Una reazione di paura può essere acquisita anche tramite modellamento, ossia attraverso
l’osservazione e l’imitazione. Un individuo può osservare che gli altri sono spaventati da determina-
ti oggetti o eventi e sviluppare una paura analoga. Si pensi a un ragazzino la cui madre abbia il ter-
rore delle malattie, dei medici e degli ospedali. Se lei esprime sovente le sue paure, anche il figlio
potrà sviluppare la paura delle malattie, dei medici e degli ospedali.
I comportamentisti ipotizzano inoltre che le specifiche paure apprese si trasformino in disturbo
d’ansia generalizzato quando una persona ne ha acquisite diverse. Si presume che questa evoluzione
avvenga tramite una generalizzazione dello stimolo: le reazioni a uno stimolo vengono suscitate
anche da stimoli simili. La paura dell’acqua corrente acquisita dalla bambina sulle rocce avrebbe

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Riassunti di Silvia Varro

potuto estendersi a stimoli analoghi, come il latte versato in un bicchiere o persino una musica ef-
fervescente.
Spiegazione comportamentale-evoluzionista: certe fobie sono più comuni di altre. Le reazioni fo-
biche nei confronti degli animali, dell'altezza e del buio sono molto più diffuse delle reazioni fobi-
che alla carne di animali non umani, all’erba e alle case. Gli studiosi spesso spiegano questo con l'i-
potesi che la specie umana sia più incline a sviluppare alcune paure. Si parla allora di predisposi-
zione in quanto gli esseri umani sono teoricamente “predisposti” ad acquisire certe fobie e non altre.
Da dove può derivare una predisposizione alla paura? Le predisposizioni verrebbero trasmesse ge-
neticamente attraverso un processo evoluzionistico. Tra i nostri antenati, coloro che imparavano più
rapidamente a temere gli animali non umani, l’oscurità, le altezze e simili avevano maggiori proba-
bilità di sopravvivenza abbastanza a lungo da riprodursi e trasmettere così le proprie inclinazioni a
certe paure ai loro discendenti.

Le fobie specifiche sono state tra i primi disturbi d’ansia a essere trattati con successo nella pratica
clinica. Gli approcci comportamentali più usati sono la desensibilizzazione, l’immersione e il mode-
ling o modellamento. Nel loro insieme sono conosciute come trattamento di esposizione, perché
gli individui che soffrono di fobie vengono esposti agli oggetti o alle situazioni temute.
(1) I soggetti trattati per mezzo della desensibilizzazione sistematica imparano a rilassarsi gra-
dualmente ogni volta che sono messi di fronte agli oggetti o alle situazioni di cui hanno terrore. I te-
rapeuti iniziano con un training di rilassamento, in cui i soggetti imparano a rilassare profondamen-
te i muscoli con la volontà. I terapeuti guidano inoltre i soggetti nella creazione di una gerarchia
delle paure, un elenco di oggetti o situazioni temute, dalle più lievi a quelle estremamente angoscio-
se. I soggetti imparano quindi ad associare il rilassamento con gli oggetti o le situazioni temute.
Quando il paziente è completamente rilassato, il terapeuta lo pone di fronte all’evento che si trova
nel punto più basso della sua gerarchia. Questo può avvenire con un confronto reale, un processo
detto desensibilizzazione in vivo. Una persona che ha il terrore dell’altezza, per esempio, può salire
su una sedia o su una scala a pioli. Oppure il confronto può essere immaginario, un processo detto
desensibilizzazione immaginaria: in questo caso la persona immagina l’evento ansiogeno mentre
il terapeuta lo descrive. Il paziente percorre via via l’intera lista, abbinando il proprio stato di rilas-
samento a ciascun elemento ansiogeno.
Poiché il primo elemento della lista è solo leggermente ansiogeno, in genere dopo pochissimo tem-
po la persona riesce a essere completamente rilassata in sua presenza. Sono necessarie diverse sedu-
te per risalire la gerarchia delle paure, fino ad arrivare a superare quella che per loro è fonte di terro-
re.
(2) Un altro trattamento comportamenta-
le per le fobie specifiche è Chiuda gli occhi. Immagini il serpente di fronte a lei. Adesso
l’immersione, o flooding. I terapeuti lei lo prende in mano. Allunga il braccio, lo solleva, lo posa
che la applicano ritengono che il sogget- in grembo. Sente che si muove sulle sue gambe, ma lei la-
to fobico cessi di temere le cose che gli scia la mano su di esso e sente come si muove. Adesso il
fanno paura dopo ripetute esposizioni a serpente comincia ad avvolgersi alla sua mano. Lo lasci fa-
esse e dopo essersi convinte che in realtà re, non muova la mano, lo lasci strisciare sulla sua pelle e
sono abbastanza innocue. I soggetti sono avvolgersi sul suo polso.
costretti ad affrontare oggetti o situazio-
ni ansiogene senza prima essersi sottoposti a tecniche di rilassamento e senza al-
cuna gradualità. Anche la procedura di immersione può avvenire in vivo o essere
immaginaria (in questo caso il terapeuta esagera la descrizione, in modo da creare un intenso stato
di allarme emotivo).
(3) Nel modeling, o modellamento, è il terapeuta a confrontarsi con l’oggetto o la situazione ansio-
gena mentre è osservato dal soggetto fobico. Il terapeuta comportamentale agisce come un modello

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Riassunti di Silvia Varro

per dimostrare che la paura di quella persona è infondata. Dopo numerose sedute molti soggetti so-
no in grado di affrontare in piena calma gli oggetti o le situazioni ansiogene. In una versione parti-
colare di modeling, detto partecipante, il soggetto viene attivamente incoraggiato a imitare ciò che
sta facendo il terapeuta.
La chiave del successo per tutte queste terapie sembra essere il contatto effettivo con l’oggetto o la
situazione ansiogena. La desensibilizzazione in vivo è più efficace rispetto a quella immaginaria,
l’esposizione in vivo più efficace di quella immaginaria e il modeling partecipante più utile della
versione strettamente osservativa. Inoltre, oggi sono sempre di più i terapeuti che utilizzano la real-
tà virtuale (computer grafica in 3D che simula oggetti e situazioni del mondo reale) come utile
mezzo di esposizione.

Solitamente il terapista aiuta il paziente ad avventurarsi sempre più lontano dalla propria casa fino a
entrare gradualmente in spazi aperti, un passo alla volta. Utilizzando il sostegno, il ragionamento e
la persuasione, arrivano a mettere il paziente di fronte al mondo esterno. Per motivare maggiormen-
te i pazienti che soffrono di agorafobia, la terapia espositiva prevede anche:
1. Partecipazione a gruppi di sostegno: i membri del gruppo effettuano delle uscite tutti insieme
per qualche ora, sostenendosi e incoraggiandosi a vicenda;
2. Programmi individuali: sono da mettere in pratica per conto proprio, a casa. In particolare, i i
clinici assegnano ai pazienti e alle loro famiglie istruzioni dettagliate per portare avanti il trat-
tamento espositivo in modo autonomo.
Dopo la terapia espositiva, tra il 60 e l’80% dei pazienti agorafobici dichiarano di riuscire ad entrare
facilmente nei luoghi pubblici e che i miglioramenti perdurano per anni. Sfortunatamente, si tratta
di miglioramenti solo parziali. La metà dei pazienti trattati con successo, infatti, può subire delle ri-
cadute, ma, se trattati nuovamente, consegue rapidamente risultati positivi.

Solo negli ultimi anni i clinici sono riusciti a trattare con successo le fobie sociali. In particolare, ci
si è focalizzati su due principali caratteristiche:
- le persone con questo tipo di fobie possono avere dei timori sociali dai quali si sentono sopraf-
fatte;
- e possono non essere capaci di avviare una conversazione, comunicare le proprie necessità e ri-
spondere ai bisogni degli altri.
Sulla base di queste consapevolezze, oggi i clinici trattano le fobie sociali provando a ridurre l'ansia
sociale, insegnando ai soggetti abilità specifiche per gestire le situazioni sociali o una combinazione
dei due interventi.

Diversamente dalle fobie specifiche, che in genere non rispondono ai farmaci psicotropi, l'ansia so-
ciale spesso viene attenuata dalla terapia farmacologica. In particolare, sono i farmaci antidepres-
sivi a rivelarsi più utili per questo disturbo. Alla terapia farmacologica spesso viene associata la te-
rapia di esposizione, un intervento comportamentale già visto per le fobie specifiche. Il terapeuta
invita il soggetto con ansia sociale a esporsi a situazioni sociali temute e a rimanervi finché le paure
non si placano. In genere si tratta di un’esposizione graduale e spesso sono compresi esercizi da fare
in autonomia nelle situazioni sociali ansiogene. Inoltre, la terapia di gruppo costituisce uno sfondo
ideale per i trattamenti di esposizione, consentendo alle persone di affrontare le situazioni sociali in
un’atmosfera accogliente e di sostegno. In un gruppo, per esempio, un uomo che temeva gli tremas-
sero le mani in presenza di altri doveva scrivere su una lavagna di fronte al gruppo e servire il tè
agli altri membri del gruppo. Nell’addestramento alle abilità sociali il terapeuta in genere modella

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Riassunti di Silvia Varro

i comportamenti sociali appropriati per i suoi pazienti e li incoraggia a provare a metterli in pratica.
I soggetti avviano quindi un gioco di ruolo con il terapeuta, provando il nuovo comportamento fin-
ché non lo hanno acquisito. Nel corso del processo, il terapeuta fornisce un feedback costante e rin-
forza (loda) il soggetto quando ha eseguito l’esercizio nel modo giusto.

A volte una reazione d’ansia assume la forma di panico soffocante e spaventoso, in cui si perde il
controllo del proprio comportamento e non si è in pratica più consapevoli di quello che si sa facen-
do. Chiunque può avere una reazione di panico quando si profila una minaccia reale. Alcuni, tutta-
via, hanno degli attacchi di panico, ossia brevi accessi periodici che si verificano all'improvviso,
raggiungono un picco nel giro di una decina di minuti e passano gradualmente.
Gli attacchi sono caratterizzati da almeno quattro dei seguenti sintomi descritti:
1. Palpitazioni cardiache
2. Formicolio alle mani o ai piedi
3. Respiro affannoso
4. Sudorazione accentuata
5. Vampate di calore seguite da senso di freddo
6. Tremori
7. Dolori al petto
8. Sensazione di soffocamento
9. Debolezza
10. Vertigini
11. Sensazione di distacco dalla realtà
Durante un attacco di panico si può provare la sensazione di una condanna imminente, le persone
possono avere la sensazione di morire, perdere il controllo o impazzire.

Prototipo diagnostico (Frances)


Avere un attacco di panico è come stare in una gabbia con una tigre, solo che la tigre non c'è.
Improvvisamente e senza alcuna ragione apparente sei assalito da un enorme terrore, ti manca
l’aria, il cuore corre all’impazzata, ti gira la testa, le mani tremano, sudi, provi una strana sen-
sazione di punture di aghi sulle dita e le mani e i piedi si serrano. Tutto ciò ti fa pensare che stia
per accaderti qualcosa di ancora più tremendo: forse sverrai, vomiterai, avrai un attacco di cuo-
re, impazzirai o addirittura morirai. Talvolta il mondo appare irreale e hai l’inquietante sensa-
zione di non essere più te stesso.

Più di un quarto di tutte le persone ha uno o più attacchi di panico in qualche momento della vita;
quelli però che hanno attacchi di panico ripetuti e improvvisi, senza alcuna ragione apparente, po-
trebbero soffrire di disturbi di panico. Si verificano cambiamenti disfunzionali nel modo id pensare
o di comportarsi provocati dagli attacchi stessi. Ad esempio, può subentrare in loro la preoccupa-
zione costante di avere altri attacchi e del significato di tali manifestazioni (“Sto uscendo di sen-
no?”), oppure la necessità di pianificare la loro vita in base alla possibilità di attacchi futuri.

✓ Attacchi di panico ricorrenti ed inaspettati.


✓ Un mese o più di uno dei seguenti sintomi dopo almeno un attacco:
✓ Preoccupazione persistente di avere un altro attacco di panico.
✓ Preoccupazioni di possibili implicazioni o conseguenze degli attacchi panico.
✓ Significativo cambiamento di comportamento correlato agli attacchi.
✓ Associazione con agorafobia

50
Riassunti di Silvia Varro

Negli anni Settanta i clinici fecero una scoperta sorprendente:


per il disturbo di panico i risultati migliori si avevano con alcu-
ni farmaci antidepressivi, utilizzati per ridurre i sintomi della
depressione, anziché con la maggior parte dei benzodiazepinici.
I ricercatori sapevano che questi particolari farmaci operano a
livello cerebrale soprattutto modificando l’attività della nora-
drenalina (o norepinefrina), uno tra i tanti neurotrasmettitori
che trasportano messaggi tra i neuroni. Dato che i farmaci erano
utili nell’eliminare gli attacchi di panico, gli studiosi iniziarono
a sospettare che il disturbo potesse essere causato da un’attività
anomala della noradrenalina. Numerosi studi hanno provato che
l’attività della noradrenalina è effettivamente irregolare nelle
persone che soffrono di attacchi di panico. Per esempio, il locus ceruleus (o punto blu) è un'area
del cervello ricca di neurotrasmettitori che utilizzano noradrenalina. Quando nella scimmia l'area
viene sottoposta a elettrostimolazione, l'animale ha una reazione di tipo panico; si ipotizza, perciò,
che le reazioni di panico possano essere collegate a cambiamenti nell'attività della noradrenalina a
livello di locus coeruleus. Ricerche più recenti, invece, indicano che l'origine degli attacchi di pani-
co va ricondotta a qualcosa di più complesso di un singolo neurotrasmettitore in una limitata area
cerebrale. Le reazioni emotive, per esempio, sono collegate a circuiti cerebrali, ossia reti di struttu-
re cerebrali che lavorano in sinergia, stimolando ognuna la reazione dell’altra e producendo un par-
ticolare tipo di reazione emotiva.
Il circuito del panico comprende aree cerebrali come:
- Amigdala
- Nucleo ventromediale dell’ipotalamo
- Sostanza grigia centrale
- Locus ceruleus
Quando una persona si trova di fronte a un oggetto o a una situazione che la terrorizza, si ha
un’attivazione dell’amigdala, una piccola struttura a forma di mandorla che elabora le informazioni
emotive. L’amigdala stimola a sua volta le altre aree del circuito, attivando una reazione tempora-
nea di “allarme e fuga” (aumento di frequenza cardiaca, sudorazione, pressione sanguigna e così
via) molto simile a una reazione di panico. Oggi la maggior parte dei ricercatori ritiene che questo
circuito cerebrale (compresi i neurotrasmettitori attivi in tutto il circuito) abbia probabilmente un
funzionamento improprio nelle persone che soffrono di disturbi di panico.
È importante notare la differenza col circuito cerebrale dell’ansia (che funziona impropriamente
nelle persone con disturbo d’ansia generalizzato), il quale comprende:
- Amigdala
- Corteccia prefrontale
- Corteccia cingolata anteriore
L’amigdala sembra essere centrale in entrambi i circuiti, tuttavia la scoperta che il circuito cerebrale
del panico e dell’ansia sono diversi ha ulteriormente confermato l’ipotesi secondo cui il disturbo di
panico è biologicamente diverso dal disturbo d’ansia generalizzato e, peraltro, da ogni altro tipo di
disturbo d’ansia.
Perché alcune persone potrebbero presentare delle anomalie nell’attività della noradrenalina, del
funzionamento del locus ceruleus e di altri elementi del circuito cerebrale del panico?
Una possibilità è quella di una predisposizione ereditaria a sviluppare tali anomalie; pertanto, i
consanguinei stretti dovrebbero presentare un tasso di disturbo di panico superiore a quello dei pa-
renti lontani. Gli studi confermano infatti che tra i gemelli identici (gemelli che hanno uguale pa-
trimonio genetico), se uno dei due soffre di disturbo di panico, ne soffre anche l’altro circa nel 31%

51
Riassunti di Silvia Varro

dei casi. Tra i gemelli fraterni (che hanno in comune solo alcuni geni), se un gemello soffre di di-
sturbo di panico, l’altro presenta lo stesso disturbo solo nell’11% dei casi.
Terapie farmacologiche: sembra che gli antidepressivi che ristabiliscono l’attività adeguata della
noradrenalina nel locus ceruleus e in alte aree cerebrali siano in grado di contribuire a prevenire o a
ridurre i sintomi di panico. Tali farmaci apportano perlomeno un miglioramento nell’80% dei pa-
zienti con disturbo di panico. Negli ultimi anni il principio attivo alprazolam (Xanax) e altri potenti
farmaci benzodiazepinici si sono dimostrati altrettanto efficaci. Sembra che le benzodiazepine agi-
scano indirettamente sul disturbo, influenzando l’attività della noradrenalina a livello cerebrale.

I teorici di orientamento cognitivo riconoscono che i fattori biologici sono solo una delle cause de-
gli attacchi di panico. Nella loro visione, le vere reazioni di panico avvengono esclusivamente nelle
persone che fraintendono gli eventi fisiologici che si verificano a livello fisico. I soggetti che tendo-
no a farsi prendere dal panico potrebbero essere ipersensibili nei confronti di alcune sensazioni fi-
siche; quando provano tali sensazioni all’improvviso le interpretano erroneamente come segnali di
una catastrofe medica. Anziché attribuire la causa probabile di tali sensazioni a “qualcosa che ho
mangiato” o a “una discussione con il mio capo”, le persone inclini al panico sono sempre più ango-
sciate e temono di perdere il controllo, non riescono a vedere le cose con obiettività e precipitano
rapidamente nel panico. Per esempio, molte persone con disturbo di panico sembrano respirare ra-
pidamente ma in modo superficiale, ossia vanno in iperventilazione nelle situazioni di stress. La re-
spirazione anomala li porta a pensare di essere in pericolo di soffocare e vanno nel panico. Tali sog-
getti sono quindi portati a pensare che queste altre sensazioni pericolose possano ripresentarsi in
qualsiasi momento e sono quindi costantemente in allarme riguardo a futuri attacchi di panico.
Nei challenge test biologici i ricercatori producono panico, iperventilazione o altre sensazioni bio-
logiche nei partecipanti alla ricerca o nei pazienti, sottoponendoli alla somministrazione di farmaci
o a intense attività fisiche o facendo loro eseguire qualche altra attività potenzialmente in grado di
indurre il panico.
Perché alcune persone tendono a dare interpretazioni erronee delle proprie sensazioni fisiche?
Una possibilità è che i soggetti che tendono ad andare nel panico provano in genere, anche se non
volontariamente, sensazioni fisiche più frequenti o più intense rispetto alla maggioranza delle per-
sone. Secondo altri ricercatori, coloro i quali nel corso della propria vita sono stati maggiormente
afflitti da eventi traumatici sono altresì maggiormente soggetti a mal interpretare le manifestazioni
fisiche. Per quanto concerne le cause di tali interpretazioni erronee, la ricerca indica che i soggetti
che tendono a provare panico hanno un’elevata sensibilità all’ansia: essi sono cioè concentrati sul-
le proprie sensazioni fisiche per buona parte del tempo, sono incapaci di valutarle in modo logico e
le interpretano come potenzialmente dannose. Uno studio ha rilevato che le persone con elevata
sensibilità all’ansia avevano una probabilità quintupla rispetto agli altri di sviluppare un disturbo di
panico.
Terapia cognitiva
1. Informare i pazienti sulla natura generale degli attacchi di panico, sulle cause reali delle sensa-
zioni fisiche e sulla tendenza a fraintenderle.
2. Insegnarli ad applicare sistemi di interpretazione più precisi durante le situazioni stressanti,
bloccando così all’inizio la sequenza del panico. I terapeuti possono inoltre insegnare ai pazienti
ad affrontare l’ansia, ad esempio attraverso tecniche di rilassamento e di respirazione, e a di-
strarsi dall’ascolto delle sensazioni, magari avviando una conversazione con qualcuno.
I terapeuti cognitivi possono utilizzare challenge test biologici per indurre le sensazioni di panico,
in modo che i pazienti possano applicare le abilità appena acquisite sotto la supervisione attenta
dell’esperto. Alle persone in cui l’attacco di panico viene innescato in genere da un aumento della
frequenza cardiaca si può dire per esempio di saltellare sul posto per diversi minuti o di salire rapi-

52
Riassunti di Silvia Varro

damente le scale: possono quindi esercitarsi a interpretare correttamente le sensazioni che ne deri-
vano, senza fissarsi su di esse.
L’85% dei partecipanti che hanno ricevuto questo tipo di trattamento non ha più avuto crisi di pani-
co per due anni o più, rispetto al 13% dei partecipanti del gruppo di controllo. I trattamenti cognitivi
di questo tipo si dimostrano utili anche nel caso id persone in cui il disturbo di panico è associato ad
agorafobia; in tal caso sono previste anche tecniche di esposizione. La terapia cognitiva si è dimo-
strata utile almeno quanto i farmaci antidepressivi o l’alprazolam nel trattamento del disturbo di pa-
nico e talvolta anche di più.

Le ossessioni sono pensieri o idee, impulsi o immagini persistenti che sem-


brano invadere la coscienza di una persona. Le compulsioni sono comporta-
menti ripetitivi e rigidi o atti mentali che alcune persone sentono di dovere
eseguire allo scopo di prevenire o ridurre l'ansia. Le piccole ossessioni e
compulsioni possono rivelarsi alquanto utili nella vita. I piccoli rituali hanno
una funzione calmante nei periodi di stress. Lo studente che canticchia men-
talmente una melodia o tamburella le dita durante un esame scritto può scari-
care così la tensione e migliorare la prova. Molte persone trovano conforto
nel ripetere rituali religiosi o culturali, come spruzzare acqua benedetta per
un cattolico o passarsi tra le dita i grani di un rosario in diverse culture.
Secondo il DSM-5 TR una diagnosi di disturbo ossessivo-compulsivo si ha quando ossessioni o
compulsioni diventano eccessive o irrazionali, causano angoscia e malessere, assorbono gran parte
del tempo o interferiscono con le funzioni quotidiane.

✓ Le ossessioni e/o le compulsioni occupano molta parte della giornata o causano sofferenza e
menomazione clinicamente significative
✓ Riconoscimento passato o presente che le ossessioni o compulsioni sono eccessive o irrazio-
nali
✓ Disagio marcato o menomazione significativa per più di un’ora al giorno

Un soggetto affetto da questo disturbo ha detto: “Non riesco a dormire sen on sono sicuro che ogni
oggetto della casa sia al suo posto; così, quando al mattino mi sveglio, sono sicuro che tutto sia in
ordine. Lavoro come un matto per essere sicuro che tutto sia a posto prima di andare a letto, ma,
quando mi sveglio al mattino, mi viene in mente un migliaio di cose che devo ancora fare […]. Non
sopporto di non sapere che dovevo fare delle cose e non le ho fatte”.
Molti altri disturbi sono strettamente collegati al disturbo ossessivo compulsivo quanto alle caratte-
ristiche, alle cause, alla reattività al trattamento; per questo il DSM-5 li ha raggruppati tutti sotto
l’unica etichetta di disturbo ossessivo compulsivo.

I pensieri ossessivi vengono percepiti come invadenti ed estranei. Il tentativo di ignorare o resistere
a questi pensieri può provocare ansia ancora maggiore e i pensieri tendono a ritornare con maggiore
insistenza. Le persone che soffrono di ossessioni sono abbastanza consapevoli di avere pensieri ir-
razionali. Alcuni temi fondamentali sono ricorrenti nei pensieri della maggior parte di coloro che
soffrono di pensieri ossessivi:
✓ Idea della sporcizia o della contaminazione
✓ Violenza o aggressione
✓ Ordine

53
Riassunti di Silvia Varro

✓ Religione
✓ Sessualità
La prevalenza dei temi può variare da una cultura all’altra. Le ossessioni religiose, per esempio,
sembrano essere più comuni nei Paesi o nelle culture dove vigono codici morali rigorosi e forti va-
lori religiosi.
Le compulsioni presentano diversi punti in comune con le ossessioni. Per esempio, sebbene i com-
portamenti compulsi possano tecnicamente essere controllati con la velocità, coloro che ne sono af-
fetti hanno in realtà poca scelta al riguardo. La maggior parte di queste persone riconosce di avere
un comportamento irragionevole, ma allo stesso tempo è convinta che accadrà qualcosa di tremendo
se non fa ciò che è spinta a fare. Dopo aver eseguito un atto compulsivo, in genere tali soggetti si
sentono meno ansiosi per un po’ di tempo. Per alcuni gli atti compulsivi si trasformano in rituali
dettagliati, i quali devono essere eseguiti esattamente nello stesso modo tutte le volte e seguendo
certe regole.
Come le ossessioni, le compulsioni assumono diverse forme. Molto comuni sono le compulsioni di
pulizia: le persone che hanno queste compulsioni si sentono costrette a lavare continuamente sé
stesse, i propri abiti e la casa. L’atto di pulizia può seguire regole e rituali ed essere ripetuto decine
o centinaia di volte al giorno. Le persone con compulsione di controllo controllano di continuo le
stesse cose, serrature, rubinetti del gas, documenti importanti, per essere sicure che tutto sia come
deve essere. Altra compulsione comune è lo sforzo costante di cercare ordine o equilibrio. Chi è
affetto da questo disturbo continua a mettere in ordine perfetto alcuni oggetti (abiti, libri, cibo) in
base a regole rigide. Esistono poi anche compulsioni a toccare, a contare e verbali.
CASO 4.9
“Quando entriamo (si riferisce a quelli che, come lui, soffrono di DOC) in una sala da pranzo
tranquilla ed elegante vediamo cose che sappiamo di non essere in grado di controllare. […] Io,
per esempio, non ho problemi quasi con nessun tipo di tavolo, anche se quelli traballanti possono
farmi precipitare nell’ansia. Ho l’ossessione del danno fisico, ossia sono tormentato dalla paura
che altre persone si facciano male per qualcosa che ho fatto io, o non ho fatto. Se sono seduto a
un tavolo che non sta fermo, continuo a vedere immagini dei miei commensali feriti o schiacciati
se non avverto subito la direzione del ristorante.” Il paziente procede parlando di Jared K., un as-
sistente ricercatore che ha il timore ossessivo della contaminazione: “lo scorso anno è andato in
un ristornate cinese con un gruppo di amici, uno dei quali fece notare che gli oggetti argentati sul
tavolo erano macchiati e sembravano sporchi. Jared ha preso tutti gli oggetti sul tavolo e ha tenta-
to di sterilizzarli tenendoli sopra la fiammella della grigliata cinese al centro del tavolo”.

Alcune persone con disturbo ossessivo- SI DICE CHE BEETHOVEN AVESSE L’ABITUDINE D’IMMERGERE LA TESTA
compulsivo manifestano solo ossessioni NELL’ACQUA FREDDA PRIMA DI ACCCINGERSI A COMPORRE MUSICA.
o solo compulsioni, ma nella maggior
parte delle persone con questo disturbo SECONDO LE INDAGINI, QUASI LA METÀ DEGLI ADULTI RITORNA INDIE-
TRO DOPO ESSERE USCITA DI CASA PER CONTROLLARE DI AVERE SPENTO
sono presenti entrambe. Infatti, gli atti IL GAS O LA LUCE.
compulsivi sono sovente una reazione
ai pensieri ossessivi. Una donna che ad PIÙ DELLA METÀ DI TUTTE LE PERSONE CHE USANO UNA SVEGLIA LA
esempio continua a temere che la pro- CONTROLLA
GIUSTO.
PIÙ VOLTE PER VERIFICARE DI AVERLA IMOSTATA NEL MODO

pria casa non sia sicura può cedere al


dubbio ossessivo controllando continuamente serrature e manopole del gas. Oppure, un uomo che
ha un timore ossessivo della contaminazione può cedere alla paura eseguendo di continuo rituali di
pulizia.

Freud (1896) considera le nevrosi ossessive, al pari dell'isteria, nevrosi da difesa, patologie deri-
vanti da una fissazione o da una regressione a stati pre-edipici dello sviluppo psico-sessuale, do-

54
Riassunti di Silvia Varro

minati da istinti sessuali parziali indirizzati verso specifiche zone erogene. Mentre nell’isteria si ha
una predominanza delle pulsioni orali e della repressione di queste, nelle nevrosi ossessive ritro-
viamo:
• Preponderanza delle componenti anali
• Mancanza del fallimento della repressione
• Mancanza del ritorno del materiale rimosso
Ai fattori costituzionali si aggiungono fattori educativi restrittivi intimamente connessi ai bisogni
evacuativi del bambino. Durante il toilet training i genitori del bambino ossessivo-compulsivo sa-
rebbero stati genitori eccessivamente controllanti e avrebbero sollecitato il bambino con richieste
eccessive in relazione alla sua età anagrafica.
Il bambino, identificato con figure genitoriali che si aspettavano che fosse più maturo di quanto in
realtà non potesse essere a causa della sua tenera età, interiorizza così un Super-Io sadico, a partire
dai primi conflitti diadici relativi all'igiene, sviluppa un carattere anale caratterizzato da un'estrema
ricerca dell'ordine, avarizia e ostinazione. Fondamentale è, dunque, anche il ruolo dell'aggressività.
Al fine di difendersi da essa l'Io produce intense formazioni reattive che a livello conscio si espri-
mono sotto forma di pietà e pulizia.
Così, per esempio, nel famoso caso clinico dell’Uomo dei Topi Freud interpreta l’intensa ossessio-
ne del paziente che l’amato padre, morto da anni, potesse essere vittima di un’atroce tortura
militare in cui i topi vengono indotti a farsi strada nell’ano di un criminale, come
una formazione reattiva di un inconscio desiderio sadico nei confronti del ge-
nitore. Secondo l’autore, infatti, il paziente da piccolo si era comportato alla stregua di un topo
mordendo qualcuno, probabilmente la sua governante, e a seguito di ciò era stato duramente punito
dal padre. La severa punizione, però aveva comportato la nascita di un profondo vissuto d’odio nei
confronti del padre, vissuto che il paziente aveva represso. L’ostilità nei confronti dell’oggetto
d’amore (il genitore) aveva poi a sua volta generato un inconscio desiderio che il padre potesse es-
sere oggetto della penetrazione anale da parte di ratti mordaci, desiderio che attraverso il meccani-
smo difensivo della formazione reattiva era stato trasformato a livello conscio in timore ossessivo.
Nell’architettura psichica di tali soggetti, di fatti, è centrale la paura che i loro impulsi aggressivi
possano sfuggire al loro controllo.
Secondo la teoria psicoanalitica, nel disturbo ossessivo compulsivo sono particolarmente attivi tre
meccanismi di difesa dell’Io:
• Isolamento: il soggetto disconosce i pensieri indesiderati, che percepisce come interferenze
estranee.
• Annullamento: il soggetto mette in atto comportamenti intesi a cancellare gli impulsi indeside-
rabili. Le persone che si lavano continuamente le mani, per esempio, stanno forse annullando
simbolicamente i loro impulsi dell’Es, ritenuti inaccettabili.
• Formazione reattiva: il soggetto assume comportamenti che esprimono desideri del tutto oppo-
sti agli impulsi ritenuti inaccettabili. Ad esempio, alcuni possono manifestare nella vita quoti-
diana una gentilezza compulsiva e una grande devozione nei confronti degli altri allo scopo di
contrastare gli impulsi aggressivi.
Il disturbo ossessivo-compulsivo può essere quindi letto come il tentativo del soggetto di controlla-
re i profondi vissuti aggressivi che popolano il suo mondo interno. Attraverso la formazione
reattiva, lo spostamento e l’annullamento il soggetto cerca così di difendersi dalle forti cariche di
sadismo e dal senso di colpa persecutoria. Una donna che continua a immaginare sua madre ferita e
sanguinante, per esempio, può scacciare questo pensiero con ripetuti controlli sulla sicurezza della
casa.
Sigmund Freud riconduceva il disturbo ossessivo-compulsivo alla fase anale dello sviluppo (intor-
no ai due anni): alcuni bambini proverebbero un’intensa rabbia e vergogna in seguito a esperienze
negative nel controllo delle funzioni sfinteriche. Altri teorici sostengono invece che tali reazioni di
rabbia abbiano origine nel senso di insicurezza. In ogni caso, questi bambini provano continua-

55
Riassunti di Silvia Varro

mente la necessità di esprimere gli impulsi forti e aggressivi dell’Es, sapendo allo stesso tempo che
dovrebbero cercare di contenere e controllare tali impulsi. Se il conflitto tra Es e Io perdura nel
tempo, può sfociare infine in un disturbo ossessivo compulsivo.
Il trattamento psicodinamico consiste nel fare sì che il soggetto scopra e superi il conflitto interiore
e il tipo di difesa, utilizzando le consuete tecniche di associazione libera e interpretazione del tera-
peuta. Tuttavia, dalla ricerca sono giunte scarse conferme riguardo l’utilità di tale trattamento, per-
tanto, attualmente, alcuni terapeuti psicodinamici preferiscono utilizzare terapie a breve termine,
più dirette e orientate all’azione.

I clinici comportamentali si sono dedicati all’analisi e al trattamento delle compulsioni più che del-
le ossessioni. Essi ipotizzano che le persone s’imbattano nelle loro compulsioni in modo alquanto
casuale. In una situazione ansiogena, può capitare che le persone si ritrovino per caso a lavarsi le
mani o a vestirsi in un certo modo. Quando la sensazione di paura è passata, essi collegano il mi-
glioramento a quella particolare azione. Dopo ripetute associazione accidentali, si convincono che
quest'azione porti loro fortuna o abbia effettivamente cambiato la situazione, e dunque continuano a
eseguire quella stessa azione in situazioni analoghe. L’atto diviene così un metodo di prima scelta
per evitare o ridurre l’ansia.
In un esperimento di Rachman, noto scienziato clinico, dodici soggetti che manifestavano la com-
pulsione a lavarsi continuamente le mani furono messi a contatto con oggetti che consideravano
contaminati. I rituali messi in atto dai soggetti sembravano in effetti ridurre l’ansia, confermando
così l’ipotesi comportamentista.
In un trattamento comportamentale detto esposizione e prevenzione della risposta (o esposizione
e prevenzione del rituale), ideato dallo psichiatra Victor Meyer (1966), i soggetti vengono ripetu-
tamente esposti a soggetti e situazioni ansiogeni, paure ossessive e comportamenti compulsivi, ma
viene raccomandato loro di resistere e non cedere ai comportamenti che si sentono costretti a mette-
re in atto. Tale tecnica prevede che le persone con compulsioni alla pulizia possano ad esempio fare
del giardinaggio e poi resistere alla tentazione di lavarsi le mani o fare la doccia. Poiché essi trova-
no molte difficoltà a resistere a tali comportamenti, i terapeuti possono mostrare loro come fare.
Attualmente la tecnica dell’esposizione e prevenzione della risposta è molto utilizzata sia come te-
rapia individuale che di gruppo. Alcuni terapeuti propongono anche delle procedure di auto-aiuto
da svolgere a casa: vengono cioè assegnati ai soggetti dei compiti di esposizione e prevenzione del-
la risposta, come quelli riportati di seguito nel caso id una donna con compulsione alla pulizia:
1. Vietato passare il panno sul pavimento del bagno per una settimana. Quindi, puliscilo in tre mi-
nuti con un panno qualsiasi. Usa lo stesso panno anche per altre faccende, senza lavarlo.
2. Tutta la famiglia deve stare in casa con le scarpe. Non pulire la casa per una settimana.
3. Lascia cadere un biscotto sul pavimento non pulito, raccoglilo da terra e mangialo.
4. Lascia le lenzuola e coperte sul pavimento, poi rifai il letto. Non cambiare le lenzuola per una
settimana.
Alla fine, la donna riuscì a stabilire una routine ragionevole per la pulizia personale e della casa.

Una battaglia persa


Coloro che cercano di evitare ogni genere di contaminazione e di liberare se stessi e il mondo cir-
costante da tutti i germi combattono una battaglia persa in partenza. Mentre parla, ognuno di noi
emette 300 microscopiche goccioline di saliva al minuto, circa 2,5 a parola.

Per i teorici di orientamento cognitivo la spiegazione del disturbo ossessivo-compulsivo inizia dal
concetto che tutti hanno pensieri ripetitivi, indesiderati e intrusivi. Per esempio, a chiunque può ac-

56
Riassunti di Silvia Varro

cadere di pensare di fare male agli altri o di essere contaminato da microbi, ma la maggior parte del-
le persone scaccia o ignora agevolmente questi pensieri. Le persone affette da disturbo ossessivo-
compulsivo, in genere danno la colpa a se stesse se hanno questi pensieri e si aspettano che accada
qualcosa di terribile. Per evitare conseguenze negative cercano di neutralizzare i pensieri, ossia
pensano o si comportano in modo da sistemare le cose o modificarle (ad esempio chiedere rassicu-
razioni particolari agli altri, pensare deliberatamente solo a cose positive, lavarsi le mani). Quando
uno sforzo di questo tipo apporta un temporaneo miglioramento dello stato d'ansia, viene rinforzato
e verrà probabilmente ripetuto. Alla fine il pensiero o atto di neutralizzazione viene utilizzato così
spesso che diviene, per definizione, un'ossessione o una compulsione.

Amore e ossessione
Un gruppo di ricercatori ha scoperto che l’attività della serotonina nei soggetti che hanno affer-
mato di essersi recentemente innamorati era bassa quanto quella dei soggetti con disturbo osses-
sivo-compulsivo.

I terapeuti di orientamento cognitivo guidano i pazienti a concentrarsi sui processi cognitivi impli-
cati nel disturbo ossessivo-compulsivo che li affligge:
- Spiegano loro che l’interpretazione erronea dei pensieri indesiderati, un eccessivo senso di re-
sponsabilità e gli atti di neutralizzazione contribuiscono in realtà a produrre e mantenere costan-
ti i sintomi nel tempo;
- Li guidano nell’identificare, analizzare e modificare le proprie percezioni distorte.
L’approccio comportamentale e quello cognitivo si sono dimostrati entrambi efficaci per il tratta-
mento di soggetti con disturbo ossessivo-compulsivo, ma una combinazione di entrambi gli ap-
procci risulta spesso più efficace.

Negli ultimi anni le linee di ricerca hanno evidenziato che i fattori biologici hanno un ruolo essen-
ziale nel disturbo ossessivo-compulsivo e sono stati parallelamente messi a punto alcuni promettenti
trattamenti biologici. Da questa prospettiva è emerso:
1. Una ridotta attività del neurotrasmettitore serotonina;
2. Un funzionamento anomalo in alcune importanti aree cerebrali.
La serotonina13, come il GABA e la noradrenalina, è una sostanza chimica che trasporta messaggi a
livello cerebrale tra un neurone e l’altro; la sua attività anomala è connessa anche a depressione e
disturbi dell’alimentazione. Il primo indizio sul ruolo potenzialmente causale che esso assolve nel
disturbo ossessivo-compulsivo è venuto dalla constatazione che due farmaci antidepressivi, la clo-
mipramina e la fluoxetina (Anafranil e Prozac), in realtà, riducono anche i sintomi di tipo ossessivo
e compulsivo. Poiché questi farmaci aumentano l'attività della serotonina, alcuni studiosi hanno
concluso che il disturbo potrebbe essere causato proprio da una bassa attività di tale neurotrasmetti-
tore. Infatti, nel caso di DOC si dimostrano utili solo i farmaci antidepressivi che aumentano tale at-
tività, mentre gli antidepressivi che agiscono per lo più su altri neurotrasmettitori non hanno in ge-
nere alcun effetto su questo disturbo. Eppure, altri studi recenti indicano che altri neurotrasmettitori,

13
Come precursore della melatonina, la serotonina regola i ritmi circadiani, sincronizzando il ciclo sonno-veglia con le
fluttuazioni endocrine quotidiane. La serotonina interviene nel controllo dell'appetito e del comportamento alimentare,
determinando una precoce comparsa del senso di sazietà, una minore assunzione di carboidrati a favore delle proteine e
una riduzione, in genere, della quantità di cibo ingerita. Non a caso, molte persone che lamentano un calo dell'umore
(ad esempio una depressione pre-mestruale) avvertono un bisogno importante di dolci (ricchi di carboidrati semplici)
e cioccolato (contiene e favorisce la produzione di serotonina, perché ricco di zuccheri semplici, oltre che di sostanze
psicoattive). Non a caso, dunque, alcuni farmaci anoressizzanti utili nel trattamento dell'obesità, come la fenfluramina,
agiscono aumentando il segnale della serotonina.

57
Riassunti di Silvia Varro

in particolare il glutammato, il GABA e la dopamina hanno anch’essi un ruolo importante nello


sviluppo del disturbo ossessivo-compulsivo.
Un'altra linea di ricerca ha collegato il disturbo ossessivo-
compulsivo a un funzionamento anomalo in regioni specifiche
del cervello, in particolare la corteccia orbitofrontale (appe-
na sopra gli occhi) e i nuclei caudati (strutture poste nella re-
gione cerebrale detta dei gangli basali). Queste regioni fanno
parte di un circuito cerebrale deputato alla conversione di in-
formazioni sensoriali in pensieri e azioni. Il circuito ha inizio
nella corteccia orbitofrontale, in cui hanno origine gli impulsi
connessi con l’escrezione, gli impulsi sessuali, violenti e altri
impulsi di tipo primitivo. Tali impulsi si spostano poi ai nuclei
caudati, i quali agiscono da filtro inviando solo gli impulsi più potenti al talamo, la tappa successi-
va del circuito. Se gli impulsi raggiungono il talamo, la persona è stimolata a pensare ulteriormente
e forse ad agire. Molti studiosi oggi ritengono che in alcune persone la corteccia orbitofrontale o
nuclei caudati siano iperattivi e si verifichi una costante eruzione di pensieri indesiderati e di azioni.
Negli ultimi anni sono state identificate altre componenti di questo circuito cerebrale, tra cui la cor-
teccia cingolata e l’amigdala.
A sostegno della teoria del circuito cerebrale, i clinici osservano da anni che:
- I sintomi ossessivo-compulsivi possono manifestarsi o scomparire dopo che la corteccia orbito-
frontale, i nuclei caudati o altre aree del circuito subiscono un danno a causa di incidenti o ma-
lattie
- Studi condotti mediante neuroimmagini cerebrali indicano che i nuclei caudati e la corteccia or-
bitofrontale di soggetti partecipanti alla ricerca con disturbo ossessivo-compulsivo sono più at-
tivi che nei soggetti del gruppo di controllo.
È possibile stabilire un nesso tra la spiegazione del disturbo basata sulla serotonina e quella del cir-
cuito cerebrale: è noto che la serotonina, assieme ai neurotrasmettitori glutammato, GABA e dopa-
mina, ha un ruolo importante nell’attività della corteccia orbitofrontale, dei nuclei caudati e di altre
aree del circuito cerebrale, pertanto, l’attività anomala di uno o più neurotrasmettitori può contribui-
re al funzionamento scorretto del circuito.
L’uso dei farmaci antidepressivi è entrato nel trattamento dei disturbi ossessivo-compulsivi: non
aumentano solo l’attività della serotonina, ma contribuiscono anche a normalizzare l’attività della
corteccia orbitofrontale e dei nuclei caudati. Le persone trattate solo con farmaci tendono tuttavia ad
avere delle recidive quando sospendono la terapia. Per questo motivo, sempre più persone con DOC
vengono oggi trattate con una combinazione di terapie comportamentali, cognitive e farmacolo-
giche. Almeno due studi indicano che tali approcci possono avere lo stesso effetto sul cervello in
egual misura (i soggetti in ogni caso mostravano una significativa riduzione dell’attività dei nuclei
caudati).

Il DSM-5 include la categoria dei disturbi correlati al disturbo ossessivo-compulsivo, distin-


guendo quattro differenti sottocategorie:

I soggetti sentono di dover conservare gli oggetti e provano ansia nel disfar-
sene. La loro estrema difficoltà nel separarsi da ciò che possiedono ha come
conseguenza l'accumulo eccessivo di cose che ingombrano le loro vite e i
loro spazi. Ne derivano un sentimento di profondo disagio e un impatto ne-
gativo sulla loro vita sociale e lavorativa. Finiscono con il possedere nume-
rosi oggetti inutili e senza valore, dalla posta da buttare agli oggetti rotti o ai
vestiti inutilizzati. Una parte della loro casa può diventare inaccessibile per

58
Riassunti di Silvia Varro

la quantità di oggetti presenti. Ad esempio, il divano, i mobili della cucina o il letto possono essere
tanto ingombri da risultare inutilizzabili. Spesso, ne derivano il rischio d’incendio, un ambiente in-
salubre o altri pericoli.

Il termine “tricotillomania” viene dal greco antico e letteralmente significa “strapparsi i capelli in
modo frenetico”; chi ne soffre spesso si strappa i capelli, i peli dalle sopracciglia e dalle ciglia o da
altre parti del corpo. Solitamente il soggetto si focalizza su una o due parti del corpo, molto spesso
la cute, e strappa un pelo alla volta. Spesso il disturbo è accompagnato o determinato da ansia e
stress. A causa del disagio provocato da questo disturbo, chi ne soffre cerca di controllarsi o di evi-
tare di strapparsi i capelli o i peli.

I soggetti si escoriano la pelle in continuazione provocandosi irritazioni e ferite e, come per la trico-
tillomania, tendono a ridurre o interrompere il proprio comportamento patologico. La maggior parte
di chi ne soffre si escoria la pelle con le dita, concentrandosi su una sola zona del corpo, spesso il
volto, ma anche le braccia, le gambe, le labbra, il torace e le estremità come le unghie e le cuticole.
Il comportamento è spesso accompagnato o determinato da ansia o stress.

✓ Ricorrente stuzzicamento della pelle che causa lesioni cutanee


✓ Ripetuti tentativi di ridurre o interrompere lo stuzzicamento della pelle
✓ Lo stuzzicamento della pelle causa disagio clinicamente significativo o compromissione del
funzionamento in ambito sociale, lavorativo o altre aree importanti
✓ Lo stuzzicamento della pelle non è attribuibile agli effetti fisiologici di una sostanza (per es.
cocaina) o di un’altra condizione medica (per es. scabbia).
✓ Lo stuzzicamento della pelle non è meglio giustificato dai sintomi di un
altro disturbo mentale (per es. deliri o allucinazioni tattili in un disturbo
psicotico, tentativi di migliorare difetti o imperfezioni percepiti
nell’aspetto del disturbo di dismorfismo corporeo o intenzione autolesiva
nell’autolesionismo non suicidario

I soggetti sono convinti che la loro apparenza abbia un difetto o un'imperfezione, che in realtà risul-
ta essere un difetto minore o immaginario. Questa convinzione porta la persona a guardarsi più vol-
te allo specchio, a spazzolarsi spesso, punzecchiare la parte de corpo 'difettosa', confrontarla con
quella degli altri, cercare rassicurazioni. Anche in questo caso chi ne soffre prova angoscia e disa-
gio. I ricercatori hanno scoperto che spesso i soggetti si fissano sulle rughe, sulle macchie della pel-
le, l’eccessiva presenza di peli o le protuberanze del volto, la disarmonia del naso, della bocca, della
mascella o delle sopracciglia. Altri si preoccupano dell’apparenza di piedi, mani, torace, pene o al-
tre parti del corpo; altri ancora, come la donna nel caso che segue, sono angosciati dall’odore pro-
veniente dalla sudorazione, dall’alito, dai genitali, dal retto.

CASO 4.10
Una donna di 35 anni era angosciata da 16 anni all’idea che il suo sudore avesse un odore insop-
portabile. La sua paura era iniziata appena prima del matrimonio, quando una sua amica che
dormiva con lei, le disse che una persona al lavoro emanava un afrore14 disgustoso. La donna

14
Odore acre e penetrante.

59
Riassunti di Silvia Varro

pensò che quella frase si riferisse a lei. Temendo di emanare un cattivo odore, da 5 anni non usci-
va se non in compagnia del marito o della madre. Non parlava con i vicini da 3 anni poiché cre-
deva di averli sentiti discutere di lei con alcuni loro amici. Evitava di andare al cinema, a ballare,
nei negozi, nei bar o in casa di amici […]. Proibiva il marito di invitare i suoi amici a casa e gli
chiedeva continuamente di rassicurarla sul suo odore. Era il marito che le comprava capi di abbi-
gliamento, poiché lei aveva paura di provarsi qualcosa in presenza dei commessi. Aveva
l’abitudine di usare quantità esagerate di deodorante, si lavava continuamente e si cambiava com-
pletamente prima di uscire di casa fino a quattro volte al giorno.

Nella nostra società è comune preoccuparsi della propria apparenza (es. giovani adulti turbati
dall’acne); i soggetti affetti da disturbo dismorfico del corpo limitano i contatti con le altre persone,
non riescono a guardare gli altri negli occhi, restano a distanza per impedire agli altri di percepire i
propri “difetti” – ad esempio, indossando occhiali da sole per nascondere gli occhi considerati “de-
formi”. Circa la metà delle persone affette da questo disturbo si sottopone a chirurgia plastica o a
trattamenti dermatologici, ma spesso subito dopo si sente anche peggio.
I clinici curano questa patologia applicando le stesse tecniche utilizzate per il disturbo ossessivo-
compulsivo, come la terapia farmacologica, gli antidepressivi, l’esposizione e prevenzione della ri-
sposta, la terapia cognitiva.
Nel corso di uno studio, ad esempio, 17 soggetti sono stati trattati con l’esposizione e prevenzione
della risposta. Nel corso di quattro settimane, ai pazienti venivano ripetutamente ricordati i difetti da
loro percepiti e, allo stesso tempo, veniva impedito loro di ridurre il disagio da ciò provocato. Alla
fine del trattamento, i soggetti erano meno angosciati dai loro “difetti” e passavano meno tempo a
controllare le parti del corpo “difettose” del loro corpo e a evitare l’interazione sociale.

60
Riassunti di Silvia Varro

Capitolo 5

Sottoposti all’orrore del combattimento, spesso i soldati manifestano forti sintomi di ansia e depres-
sione, oltre che problemi fisici. Per molti, inoltre, le reazioni a uno stress straordinario perdurarono
molto tempo dopo l’esperienza vissuta. Ma non sono solo i soldati in guerra a essere colpiti dallo
stress, e non è necessario che lo stress arrivi al livello del trauma da combattimento per avere un
profondo effetto sul funzionamento psicologico e fisico. Lo stress si presenta in molteplici forme e
dimensioni e tutti ne siamo fortemente colpiti.
Tutti proviamo un certo livello di stress ogni volta che ci troviamo di fronte a richieste o eventi che
richiedono un cambiamento. Lo stato di stress ha due componenti:
1. Uno stressor (o fattore di stress): evento che crea l’esigenza di cambiamento;
2. Una risposta allo stress: reazioni individuali alle varie richieste.
I fattori di stress nella vita possono essere le normali seccature quotidiane, come il traffico nell’ora
di punta; gli eventi fondamentali, come la laurea o il matrimonio; problemi cronici, come la povertà
o la cattiva salute; gli eventi traumatici, come gli incidenti gravi, le aggressioni, gli uragani o il
combattimento militare. La risposta a tali fattori è influenzata da come vengono giudicati sia gli
eventi sia la nostra capacità di reagire in maniera efficace.
Alcune esperienze stressanti possono acquisire una gravità drammatica, ma non sempre: l'uomo ha
una capacità di adattamento molto importante, ha delle risorse importanti con cui può prontamente
fronteggiare molte situazioni spiacevoli della propria vita, della propria storia, della propria comuni-
tà, della propria famiglia ecc.
Quando un fattore di stress si trasforma in una minaccia, la reazione naturale è di allarme e di
paura con le conseguenti manifestazioni fisiche (aumento battito cardiaco, traspirazione eccessiva,
respirazione accelerata, tensione muscolare, pallore, senso di nausea) ed emotive come il senso di
orrore, il terrore e il panico. Dal punto di vista cognitivo la paura può interferire con la capacità di
concentrazione e distorcere la visione del mondo.
Appunti: Biancaneve viene lasciata nel bosco dal cacciatore, sta vivendo una sorta di trauma; vaga
nella notte, nel buio inizia a rappresentarsi il bosco come un qualcosa di minaccioso, inizia a vedere
i rami come braccia che la vogliono afferrare. Questo è un esempio in cui la minaccia, la paura, si fa
terrore e distorce la visione del mondo. Il film di Biancaneve in maniera delicata e molto bella tratta
quel passaggio in cui arriva la luce e Biancaneve si accorge che quegli occhi malefici erano in realtà
gli occhietti di animaletti, le braccia che la volevano afferrare erano in realtà dei semplici rami: la
realtà riduce la sua configurazione di realtà drammatica. Quindi in condizioni di grave stress, la
minaccia riguarda la sopravvivenza, l'angoscia di morte. In queste condizioni l'intensità della paura
contribuisce alla condizione di traumaticità distorcendo in parte la realtà. Questa è una caratteristica
che ci può far cogliere la differenza tra stress ed evento traumatico, l'altra è la condizione di impo-
tenza: una condizione può essere traumatica ed ha una maggiore possibilità di generare stress quan-
do oltre alla condizione di minaccia si aggiunge l'impotenza, cioè sentirsi impotenti nella gestione
degli eventi.
Le reazioni di stress e la sensazione di paura da esse prodotto sono spesso al centro di disturbi psi-
cologici. Le persone che sperimentano numerosi eventi stressanti sono particolarmente vulnerabili
all’insorgenza dei disturbi d’ansia. Analogamente, l’aumento dello stress è collegato all’insorgere di
depressione, schizofrenia, disfunzioni sessuali e altri problemi psicologici.
Inoltre, lo stress ha un ruolo ancora più evidente in alcuni disturbi psicologi e fisici in cui le caratte-
ristiche dello stress si fanno gravi e debilitanti, persistono per un lungo periodo di tempo e possono
rendere impossibile una vita normale.
Sotto l’etichetta “disturbi legati a traumi e stress”, il DSM-5 elenca vari disturbi nei quali un
trauma o uno stressor eccessivo conducono a una lunga serie di sintomi, come l’aumento
dell’attivazione fisiologica, dell’ansia e di problemi dell’umore, difficoltà di memoria e di orienta-

61
Riassunti di Silvia Varro

mento, disturbi comportamentali. Il DSM-5, inoltre, prevede la categoria dei “disturbi dissociati-
vi”, anch’essi determinati da eventi traumatici e che presentano sintomi quali gravi problemi di
memoria e orientamento. Tra di essi figurano l’amnesia dissociativa, il disturbo dissociativo
dell’identità (Disturbo da personalità multipla), il disturbo di depersonalizzazione-derealizzazione.

Le caratteristiche dell’allarme e della paura vengono attivate da un’area specifica del cervello,
l’ipotalamo. Quando il cervello interpreta una situazione come pericolosa, l’ipotalamo rilascia dei
neurotrasmettitori che attivano una scarica di neuroni in tutto il cervello e il rilascio di sostanze
chimiche in tutto il corpo. In realtà l’ipotalamo attiva due importanti sistemi:
1. Sistema nervoso autonomo (SNA): una rete estesa di fibre che collegano il sistema nervoso
centrale (encefalo e midollo spinale) a tutti gli altri organi del corpo. Tali fibre intervengono nel
controllo delle attività involontarie degli organi, ossia respirazione, battito cardiaco, pressione
sanguigna, traspirazione e simili;
2. Sistema endocrino: costituito dall’insieme di ghiandole15 localizzate in tutto il corpo che con-
tribuisce al controllo di attività importanti come la crescita e l’attività sessuale.
I due sistemi spesso si sovrappongono nei loro compiti.

L’odore della paura?


Lo stress è inodore. Nel corso di eventi molto stressanti, sono i batteri che colonizzano il nostro
corpo a produrre il caratteristico odore di sudore.

Le due vie principali che utilizzano per produrre il senso di allarme e le reazioni di paura sono:
1. L’asse del sistema nervoso simpatico: è attivato per prima cosa in una situazione di pericolo
dall’ipotalamo. È un insieme di fibre del sistema nervoso autonomo che lavorano per accelerare
il nostro battito cardiaco e produrre gli altri cambiamenti percepiti come paura e ansia. Queste
fibre nervose possono stimolare direttamente gli organi bersaglio, ad esempio possono influire
direttamente sul cuore per aumentare la frequenza cardiaca, oppure agire in modo indiretto, sti-
molando le ghiandole surrenali (ghiandole poste al disopra del polo superiore di ciascun rene),
in particolare l’area detta parte midollare del surrene. Sotto stimolo, la parte midollare secerne
adrenalina (epinefrina) e noradrenalina (norepinefrina), importanti neurotrasmettitori che in
tal caso agiscono come ormoni che raggiungono, attraverso il flusso sanguigno, vari organi e
muscoli, producendo un ulteriore senso di allarme e di paura. Quando la sensazione di pericolo
è passata, un secondo gruppo di fibre nervose del sistema nervoso autonomo, il sistema nervoso
parasimpatico, contribuisce a riportare il battito cardiaco e altri processi fisiologici alla norma-
lità.
2. L’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (IIS): quando ci tro-
viamo di fronte a fattori di stress, l’ipotalamo segnala
all’ipofisi, ghiandola vicina, che è il momento di secer-
nere l’ormone adrenocorticotropo (ACTH), detto an-
che “ormone dello stress”, il quale, a sua volta, stimola
lo strato esterno delle ghiandole surrenali, detta cortec-
cia surrenale, provocando il rilascio di ormoni dello
stress, i corticosteroidi, come il cortisolo. I corticoste-
roidi raggiungono diversi organi, nei quali causano ulte-
riori manifestazioni di allarme e paura.
L’insieme delle reazioni che si manifestano in questi due sistemi è detto reazione fight or flight,
combatti o scappa, proprio perché mettono il corpo in allarme e lo preparano a reagire al pericolo.

15
Le ghiandole riversano ormoni nel gruppo sanguigno per raggiungere i vari organi.

62
Riassunti di Silvia Varro

Ogni individuo ha un modello particolare di funzionamento autonomo ed endocrino e quindi un


modo particolare di provare allarme e paura. Alcune persone sono quasi sempre rilassate, mentre
altre sono tese anche se non vi è alcuna minaccia apparente. Il livello generale di allarme e ansia di
una persona viene detto anche ansia di tratto, in quanto sembra essere un tratto di fondo16 che cia-
scuno manifesta negli eventi della propria vita. La persona può essere iperattivata, ipoattivata o
normoattivata.
Vi sono differenze individuali anche nella percezione delle situazioni minacciose. A qualcuno può
far paura attraversare un bosco, mentre altri possono trovarlo rilassante. I viaggi aerei possono ter-
rorizzare qualcuno e risultare noiosi per altri. Tali variazioni sono dette differenze nell’ansia di sta-
to, relativa alle diverse situazioni.
In questo momento stiamo assumendo una logica di tipo differenziale, cioè tutti funzioniamo allo
stesso modo, però ognuno di noi è diverso, ognuno di noi gestisce
nello stato di quiete un livello di ansietà differenziato. Riferen-
doci a questa immagine: quando un insegnante aggressivo urla, ad
esempio battendo le mani sul tavolo in continuazione, e ha davanti
una classe, non tutti i bambini di quella classe sono egualmente
stressati rispetto al suo comportamento, a prescindere dal fatto che
quest’ultimo sia sbagliato in ogni caso. Nelle condizioni di stress bisogna dunque sempre mettere in
rapporto due aspetti: la qualità degli elementi e la qualità delle caratteristiche di colui che ri-
sponde.

Quando ci troviamo sul serio in situazioni stressanti, naturalmente non pensiamo “Ecco il mio si-
stema nervoso autonomo ora si attiva” oppure “Mi pare che stia per partire la reazione fight-or-
flight”. Percepiamo semplicemente una sensazione di allarme psicologico e tensione fisica, oltre a
un crescente timore. Se la situazione stressante è insolitamente pericolosa, possiamo avere una sen-
sazione temporanea di livelli di tensione, ansia e depressioni molto superiori a quanto possiamo mai
avere provato prima. Nella maggior parte delle persone tali reazioni cessano non appena si esaurisce
pericolo.
In altre, invece, i sintomi di ansia e depressione, ma anche altri tipi di sintomi, persistono anche do-
po che è passato molto tempo dal cessare della situazione scatenante. Queste persone potrebbero
soffrire di disturbo acuto da stress o di disturbo post-traumatico da stress. In genere, l'evento im-
plica un atto di violenza o un danno fisico reale, o la minaccia dello stesso, inflitto alla persona stes-
sa o a un familiare o amico. Diversamente dai disturbi d’ansia, generalmente causati da situazioni
che la maggior parte delle persone non troverebbe minacciose, le situazioni che provocano disturbi
acuti o post-traumatici da stress (combattimento, stupro, terremoto, incidente aereo) sarebbero sicu-
ramente traumatiche per chiunque.
Con un esordio dei sintomi entro quattro settimane dell’evento traumatico e una durata degli stessi
inferiore a un mese, il DSM-IV-TR assegna una diagnosi di disturbo acuto da stress. Se i sintomi
perdurano oltre un mese, la diagnosi è di disturbo post-traumatico da stress (DPST). In questo
caso, l’esordio può verificarsi subito dopo l’evento traumatico o anche a distanza di mesi o anni.
Secondo gli studi, quasi l’80% di tutti i casi di disturbo da stress evolvono in disturbo post-
traumatico da stress. L’attuale versione del DSM-V definisce con precisione i criteri diagnostici
per poter individuare un DPST in un soggetto adulto. I seguenti criteri si riferiscono a adulti, adole-
scenti e bambini di età superiore a 6 anni. […]

16
Gli psicologi hanno scoperto che subito dopo la nascita appaiono differenze nell’ansia di tratto.

63
Riassunti di Silvia Varro

17

A. Esposizione a morte reale o minaccia di morte, grave lesione, oppure violenza sessuale in
uno (o più) dei seguenti modi: fare esperienza diretta dell’evento traumatico; assistere diretta-
mente ad un evento traumatico accaduto ad altri; venire a conoscenza di un evento traumatico ac-
caduto ad un membro della famiglia oppure ad un amico stretto. In caso di morte reale o minaccia
di morte di un membro della famiglia o di un amico, l’evento deve essere stato violento o acci-
dentale fare esperienza di una ripetuta o estrema esposizione a dettagli crudi dell’evento trauma-
tico.
B. Presenza di uno (o più) dei seguenti sintomi intrusivi associati all’evento traumatico, che
hanno inizio successivamente all’evento traumatico: ricorrenti, involontari e intrusivi ricordi
spiacevoli dell’evento traumatico; ricorrenti sogni spiacevoli in cui il contenuto e/o le emozioni
del sogno sono collegati all’evento traumatico; reazioni dissociative in cui il soggetto sente o agi-
sce come se l’evento traumatico si stesse ripresentando; intensa o prolungata sofferenza psicolo-
gica all’esposizione a fattori scatenanti interni o esterni che simboleggiano o assomigliano a
qualche aspetto dell’evento traumatico; marcate reazioni fisiologiche a fattori scatenanti interni o
esterni che simboleggiano o assomigliano a qualche aspetto dell’evento traumatico.
C. Evitamento persistente degli stimoli associati all’evento traumatico, iniziato dopo
l’evento traumatico, come evidenziato da uno o entrambi i seguenti criteri: evitamento o ten-
tativi di evitare ricordi spiacevoli, pensieri o sentimenti relativi o strettamente associati all’evento
traumatico: evitamento o tentativi di evitare fattori esterni (persone, luoghi, conversazioni, attivi-
tà, oggetti, situazioni) che suscitano ricordi spiacevoli, pensieri o sentimenti relativi o strettamen-
te associati all’evento traumatico.
D. Alterazioni negative di pensieri ed emozioni associati all’evento traumatico, iniziate o
peggiorate dopo l’evento traumatico come evidenziato da due o più dei seguenti criteri: in-
capacità di ricordare qualche aspetto importante dell’evento traumatico (dovuta tipicamente ad
amnesia dissociativa e non ad altri fattori come trauma cranico, alcol o droghe) persistenti ed esa-
gerate convinzioni o aspettative negative relative a se stessi, ad altri, o al mondo, persistenti, di-
storti pensieri relativi alla causa o alle conseguenze dell’evento traumatico che portano
l’individuo a dare la colpa a se stesso oppure agli altri, persistente stato emotivo negativo, marca-
ta riduzione di interesse o partecipazione ad attività significative, sentimenti di distacco o estra-
neità verso gli altri, persistente incapacità di provare emozioni positive.
E. Marcate alterazioni dell’arousal e della reattività associati all’evento traumatico iniziate
o peggiorate dopo l’evento traumatico come evidenziato da due o più dei se-
guenti criteri: comportamento irritabile ed esplosioni di rabbia tipicamente espressi
nella forma di aggressione verbale o fisica nei confronti di persone o oggetti,
comportamento spericolato o autodistruttivo, ipervigilanza, esagerate risposte
di allarme, problemi di concentrazione, difficoltà relative al sonno.
F. La durata delle alterazioni (criteri B, C, D ed E) è superiore ad un mese.
G. L’alterazione provoca disagio clinicamente significativo o compromissione del funzionamento
in ambito sociale, lavorativo o in altre aree importanti.
H. L’alterazione non è attribuibile agli effetti fisiologici di una sostanza o ad un’altra condizione
medica […]

A parte le differenze tra esordio e durata, i sintomi dei due disturbi sono pressoché identici:
• Rivivere l'evento traumatico: chi soffre del disturbo può essere tormentato da pensieri ricor-
renti, ricordi, sogni o incubi in cui rivive continuamente l’evento. Alcuni rivivono nella mente

17
Integrazione slide

64
Riassunti di Silvia Varro

l'evento in modo talmente vivido (flashback) da essere portati a pensare che stia accadendo di
nuovo;
• Evitamento: vengono generalmente evitate le attività che riportano alla mente l'evento trauma-
tico e si cerca di evitare pensieri, sentimenti o conversazioni collegati all’evento;
• Ridotta reattività generale: la persona provo un senso di distacco ed estraneità nei confronti
degli altri o perde interesse per quelle attività che un tempo trovava piacevoli. Alcuni hanno sin-
tomi di dissociazione o estraniamento psicologico: si sentono confusi, hanno problemi a ricorda-
re le cose o provano un senso di irrealtà (hanno cioè la sensazione che l’ambiente circostante sia
irreale o strano);
▪ Aumentata attivazione fisiologica, ansia e senso di colpa: può essere presente una sensazione
di ipervigilanza, la persona si spaventa facilmente, ha difficoltà di concentrazione e di addor-
mentamento. Può essere presente un acuto senso di colpa per essere sopravvissuti all'evento
traumatico, mentre altri non ce l'hanno fatta. Per alcuni può esserci il senso di colpa per ciò che
possono essere stati costretti a fare per sopravvivere.
Tutti questi sintomi sono presenti nel racconto che segue di un veterano della guerra del Vietnam, a
distanza di anni dal suo ritorno a casa.

CASO 5.1
Non riesco a togliermi i ricordi dalla testa! Le immagini mi tornano in mente in tutti i particola-
ri, scatenate dagli avvenimenti più insignificanti, come una porta che sbatte. Stanotte sono anda-
to a dormire e per una volta stavo dormendo profondamente. Verso l’alba si è addensato un tem-
porale e c’è stato un lampo, seguito dal tuono. Mi sono svegliato di soprassalto, gelato dal terro-
re. Sono di nuovo in Vietnam, al mio posto di guardia, e siamo in piena stagione dei monsoni.
Sono sicuro che verrò colpito alla prossima raffia di colpi e sono convinto che morirò. Ho le ma-
ni ghiacciate, eppure sono completamente bagnato di sudore. Sento i peli dritti sulla nuca. Non
riesco a respirare e il cuore mi batte all’impazzata. Sento un forte odore di zolfo.

Un disturbo acuto o post-traumatico da stress può verificarsi a qualsiasi età, anche nell'infanzia, e
può investire la vita personale, familiare, sociale e lavorativa del soggetto. Nella persona che soffre
di disturbi da stress può essere presente depressione, abuso di sostanze o tendenze suicide. Le donne
tendono a sviluppare un disturbo da stress misura doppia rispetto agli uomini: circa il 20% delle
donne che hanno subito atti di violenza può soffrire di un disturbo da stress, rispetto all’8% degli
uomini. Qualsiasi evento traumatico può provocare un disturbo da stress, ma tale probabilità au-
menta in presenza di certe situazioni, tra cui:
Combattimento. I soldati manifestano sintomi accentuati di ansia e depressione durante il combat-
timento. Negli anni della Prima guerra mondiale era definita "psicosi traumatica" e nella Seconda
guerra mondiale "stress da combattimento". Solo dopo la guerra del Vietnam, tuttavia, i clinici ve-
rificarono che moltissimi soldati avevano seri sintomi psicologici dopo il combattimento. Oggi si sa
che circa il 29% di tutti i veterani del Vietnam, maschi e femmine, hanno sofferto di un disturbo
acuto o post-traumatico da stress, mentre un altro 22% ha riscontrato almeno alcuni sintomi da
stress. In realtà il 10% dei veterani di quella guerra manifesta tuttora sintomi da stress post-
traumatico come flashback, terrore notturno, incubi, immagini e pensieri persistenti. Un modello
simile viene osservato attualmente tra i reduci della guerra in Iraq e Afghanistan.
Disastri. Disturbi acuti e post-traumatici da stress possono essere conseguenza di disastri naturali o
fortuiti come terremoti, inondazioni, uragani, incendi, incidenti aerei e gravi incidenti automobili-
stici. In realtà, poiché si verificano con maggiore frequenza, i traumi civili sono alla base di disturbi
da stress in misura dieci volte maggiore rispetto ai traumi da combattimento. Alcuni studi hanno ri-
levato che circa il 40% delle vittime di gravi incidenti d’auto (adulti o bambini) tende a sviluppare
un DSPT entro un anno dall’incidente.

65
Riassunti di Silvia Varro

Violenza sessuale: Chi è stato vittima di abusi o violenze manifesta una sintomatologia latente di
disturbo da stress. Secondo le ricerche, più di un terzo di tutte le vittime di aggressione fisica o ses-
suale sviluppa il disturbo post-traumatico da stress. Un rapporto sessuale o altro atto sessuale eserci-
tato su una persona non consenziente, o il rapporto con la persona minorenne viene definito stupro.
Secondo le ricerche, negli Stati Uniti più di 300.000 persone ogni anno sono vittime di stupro o di
tentata violenza sessuale. Gli stupratori sono per lo più uomini e le vittime sono in maggioranza
giovani donne. Circa 1 donna su 6 subisce violenza nel corso della sua vita. Circa il 70% delle
vittime subisce violenza ad opera di conoscenti e familiari. L'impatto psicologico della violenza
sessuale sulle vittime è immediato e può persistere a lungo. Le vittime generalmente sono scioccate
nella settimana successiva alla violenza, ma lo stress continua a salire nelle successive tre settimane
mantenendosi a un livello picco per un altro mese circa, dopodiché inizia un miglioramento. Sebbe-
ne la maggior parte delle vittime di stupro presenti un miglioramento delle condizioni psicologiche
nel giro di tre o quattro mesi, gli effetti possono perdurare anche per un anno e mezzo o più. Le vit-
time generalmente continuano ad avere livello superiori alla media di ansia, diffidenza, depressione,
problemi di autostima, senso di colpa, flashback, insonnia e disfunzione sessuale. L’impatto psico-
logico latente della violenza sessuale è molto chiaro nella descrizione seguente.

CASO 5.2
Mary è un’infermiera divorziata di 33 anni, inviata dalla sua responsabile alla Clinica delle vitti-
me presso l’Ospedale psichiatrico di Bedford per una consulenza. Mary aveva subito violenza
sessuale due mesi prima. Lo stupratore è entrato in casa sua mentre lei stava dormendo, si è sve-
gliata quando lui le era già sopra. Era armato di coltello e ha minacciato di uccidere sia lei che
sua figlia (che dormiva nella stanza a fianco) se non si fosse sottoposta alle sue richieste. L’ha
obbligata a spogliarsi e l’ha ripetutamente stuprata per via vaginale per un’ora. Quindi ha minac-
ciato di ritornare per usare violenza anche su sua figlia se lei avesse parlato con qualcuno o aves-
se denunciato il fatto alla polizia.
Quando l’uomo andò via, lei ha chiamato il suo fidanzato, che è arrivato subito e l’ha incoraggia-
ta a contattare il servizio anticrimini sessuali della polizia. L’ha accompagnata al Pronto Soccorso
per la visita medica e la raccolta di prove da consegnare alla polizia (tracce di liquido seminale,
campioni di peli pubici, graffi). Le sono stati somministrati antibiotici come profilassi contro le
malattie veneree. Mary infine è tornata a casa con un’amica, che ha passato con lei il resto della
notte.
Per alcune settimane Mary ha continuato ad avere paura di restare a casa da sola e ha chiesto a
una sua amica di rimanere con lei. Era angosciata dai continui pensieri su quello che le era acca-
duto e dalla preoccupazione che potesse accadere di nuovo. Per paura che lo stupratore potesse
tornare, ha fatto applicare serrature supplementari sia alla porta che alle finestre. Era talmente
sconvolta e aveva tale difficoltà a concentrarsi che decise di non essere ancora in grado di ripren-
dere il lavoro; quando ci tornò, dopo diverse settimane, era ancora sconvolta ed è stata quindi la
sua responsabile a consigliarle di richiedere una consulenza specialistica.
Durante il colloquio Mary ha riferito di avere pensieri ricorrenti e disturbanti sulla violenza subi-
ta, al punto di non riuscire a concentrarsi e di trovare difficoltà nelle faccende quotidiane, come
preparare i pasti per sé e sua figlia. Aveva l’impressione di non essere in grado di lavorare in mo-
do efficiente, aveva paura di uscire di casa, di rispondere al telefono e aveva scarso interesse a
contattare amici e familiari. Non riusciva a prendere sonno perché tormentata dal pensiero
dell’aggressione. Non aveva appetito e quando si sforzava di mangiare veniva colta dalla nausea.
Mary era disgustata dall’idea del sesso e ha affermato di non avere intenzione di aver e rapporti
sessuali per molto tempo, sebben fosse disposta a farsi abbracciare e consolare dal suo fidanzato.

66
Riassunti di Silvia Varro

Spesso le vittime di stupro riportano ferite anche gravi in seguito all'evento o manifestano altri pro-
blemi fisici collegati alla violenza, ma solo la metà di esse si sottopone a cure mediche come quelle
viste nel caso di Mary.

Prevenire la violenza
Nel 2001, su una linea della metropolitana di Tokyo è stato inaugurato un vagone “per sole don-
ne” riservato alle pendolari che rientravano dal lavoro la sera tardi. Tale iniziativa ha però causato
un netto aumento delle aggressioni notturne sui treni dei pendolari giapponesi.

Terrorismo. Le vittime di atti terroristici o coloro che vivono sotto la minaccia di tali atti spesso
manifestano sintomi da stress post-traumatico. Gli eventi dell'11 settembre hanno avuto un effetto
psicologico latente, in particolare le reazioni da stress grave, sulle persone direttamente coinvolte,
sui loro familiari e anche sulle molte persone rimaste traumatizzate per aver solo visto le immagini
del disastro alla televisione nel corso di quella drammatica giornata. Risultati analoghi emergono
dagli studi compiuti su atti di terrorismo successivi della stessa matrice, come la bomba del 2004
sul treno dei pendolari a Madrid e nella metropolitana e autobus di Londra nel 2005.
Tortura: Con tortura si intende l'uso di “strategie brutali degradanti e disorientanti allo scopo di
ridurre le vittime uno stato di completa impotenza”. Spesso viene utilizzata su ordine di un governo
o di un'altra autorità per forzare le persone a dare informazioni o a confessare. È difficile ottenere
cifre precise sulla quantità di persone che vengono sottoposte a tortura in tutto il mondo, perché ov-
viamente non sono numeri che i governi comunicano volentieri. Tuttavia, si stima che tra il 5 è il
35% dei 15 milioni di rifugiati in tutto il mondo abbia sofferto almeno un episodio di tortura e che
più di 400.000 sopravvissuti alla tortura in diverse regioni del mondo vivano oggi negli Stati Uniti.
Le tecniche di tortura utilizzate possono comprendere:
- Tortura fisica: le persone vengono picchiate in vario modo, sono sottoposte a waterboarding,
ossia tenute in una posizione con i piedi rialzati rispetto alla testa, legate a una tavola, con il vol-
to coperto da un pezzo di tessuto: in queste condizioni, viene fatta scorrere acqua su bocca e na-
so per dare la sensazione di essere sul punto di affogare; oppure ancora torturate con scosse elet-
triche;
- Tortura psicologica: minacce di morte, false esecuzioni, umiliazione, abuso verbale, umilia-
zione;
- Tortura sessuale: stupro, atti di violenza sui genitali, umiliazione sessuale;
- Tortura tramite deprivazione: del sonno, sociale, nutrizionale, medica, dell'igiene;
Le vittime di tortura spesso escono da queste prove riportando danni a vari livelli, da cicatrici e frat-
ture fino a problemi neurologici e dolore cronico. Molti ritengono che gli effetti psicologici latenti
della tortura siano ancora più problematici. Anche coloro che non sviluppano un disturbo da stress
conclamato, sono comuni sintomi più sfumati come incubi, flashback, ricordi repressi, spersonaliz-
zazione, difficoltà di concentrazione, attacchi di collera, tristezza e pensieri suicidi.

L'evento stressante, di per sé, non è sufficiente a spiegare del tutto ciò che accade poiché chiunque
sperimenti un trauma grave ne rimarrà colpito, ma solo alcune persone sviluppano disturbo da
stress. Fattori biologici e genetici. Gli eventi traumatici provocano alterazioni fisiche nel cervello e
nell’organismo che possono causare gravi reazioni da stress e veri e propri disturbi. Ad esempio, è
stata riscontrata un'attività anomala dell'ormone cortisolo e della noradrenalina nell’urina, nel
sangue e nella saliva dei soldati sui teatri di guerra, delle vittime di stupro, dei sopravvissuti ai cam-
pi di concentramento e ad altre gravi situazioni di stress. Gli studi sull'encefalo hanno rivelato che
una volta che si è instaurato un disturbo da stress, gli individui colpiti percepiscono un ulteriore sta-
to di allarme biochimico, e tale continua sollecitazione può col tempo danneggiare aree del cervello
come, ad esempio, l'ippocampo e l'amigdala. Di norma, l'ippocampo è implicato nei processi della

67
Riassunti di Silvia Varro

memoria e nella regolazione degli ormoni dello stress. Chiaramente un ippocampo disfunzionale
può avere un ruolo nella produzione di ricordi intrusivi e lo stato di allarme costante. In modo ana-
logo, l’amigdala entra nel controllo dell’ansia e di altre reazioni emotive. Assieme all’ippocampo, è
attiva inoltre nella produzione delle componenti emotive della memoria. Ecco, quindi, che
un’amigdala disfunzionale può essere implicata nella produzione dei sintomi emotivi ripetuti e degli
intensi ricordi emotivi provati. In breve, lo stato di allarme prodotto da eventi traumatici può portare
al disturbo da stress e quest'ultimo può provocare ulteriori alterazioni cerebrali, fissando ancora di
più il disturbo.

Disturbo di adattamento
In un punto intermedio tra il coping efficace e i disturbi da stress si colloca una categoria diagno-
stica detta disturbo di adattamento.
Sebbene il disturbo di adattamento non presenti i livelli estremi di malessere che caratterizzano i
disturbi da stress, esso provoca un notevole disagio e interferisce in modo significativo con il
funzionamento quotidiano della persona.
La diagnosi riguarda fino al 30% di tutti i pazienti in trattamento ambulatoriale. Esso riguarda un
numero di richieste di risarcimento tramite assicurazione sanitaria [negli Stati Uniti] superiore ri-
spetto a qualsiasi altro disturbo psicologico, forse perché tale diagnosi è meno stigmatizzante di
molte altre categorie.

Può anche accadere che il disturbo post-traumatico da stress porti alla trasmissione di anomalie
biochimiche nei figli delle persone con questo disturbo. Un gruppo di ricercatori ha studiato il livel-
lo di cortisolo nelle donne che all’epoca degli attacchi terroristici dell'11 settembre erano in gravi-
danza e avevano sviluppato un DSPT. Queste donne non presentavano soltanto livelli di cortisolo
superiore alla media, ma questi erano presenti anche nei loro bambini, nati successivamente all'at-
tacco; questo fa pensare che i bambini abbiano ereditato una predisposizione a sviluppare lo stesso
problema. Ciò sembra trovare conferma anche negli studi condotti su migliaia di gemelli impegnati
in missioni di guerra: se un gemello sviluppa sintomi da stress in seguito a un combattimento, un
gemello identico ha più probabilità rispetto a un gemello fraterno di sviluppare lo stesso problema.
Molti studiosi ritengono che gli individui che mostrano reazioni biochimiche allo stress particolar-
mente forti abbiano più probabilità a sviluppare disturbi da stress.

Allenarsi alla resilienza


Sapendo che una personalità “forte”, con capacità di adattamento, è d’aiuto nell’evitare di svilup-
pare un disturbo da stress, oggi esistono molti corsi dedicati all’allenamento alla resilienza.

Personalità. Alcuni studi indicano che certe personalità, atteggiamenti e stile nell'affrontare i pro-
blemi hanno una maggiore tendenza a sviluppare disturbi da stress. Persone particolarmente ansiose
o coloro che ritengono di non essere in grado di controllare gli eventi negativi della vita, dopo una
violenza sessuale o un altro tipo di aggressione violenta, tendono a sviluppare reazioni da stress in
misura maggiore rispetto a coloro che pensano di avere maggiore controllo sulla propria vita. Ana-
logamente, coloro che in generale trovano difficoltà nell’individuare qualcosa di positivo nelle si-
tuazioni spiacevoli hanno meno capacità di adattamento rispetto alle persone dotate di resilienza e
che in generale riescono a trovare qualcosa di utile anche negli eventi negativi.
Esperienze infantili. La ricerca ha rilevato che alcune esperienze infantili sembrano favorire il ri-
schio a sviluppare in età adulta disturbi da stress. Chi ha avuto un’infanzia caratterizzata dalla po-
vertà sembra abbia una maggiore tendenza a sviluppare tali disturbi in presenza di traumi in età
adulta. Lo stesso accade a coloro che hanno avuto familiari con disturbi psicologici; coloro che da
bambini hanno subito aggressioni, abusi, hanno vissuto un evento catastrofico o avevano meno di
dieci anni all’epoca della separazione o del divorzio dei genitori. Il trauma ha quindi un effetto cu-

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Riassunti di Silvia Varro

mulativo: le persone che hanno già vissuto esperienze traumatiche oppure che vivono il perpetuarsi
di condizioni traumatiche tendono più facilmente a sviluppare sintomi di stress.
Supporto sociale. Le persone che non hanno una rete di supporto sociale familiare solida tendono
più di altre a sviluppare un disturbo da stress. Le vittime di violenza sessuale che si sentono amate,
accudite, apprezzate e accettate da amici e familiari recuperano più facilmente. Lo stesso si può dire
delle persone trattate con dignità e rispetto dal sistema di giustizia penale.
La presenza di un supporto sociale è fondamentale per l'elaborazione di un evento traumatico, se
una persona dopo aver vissuto un evento traumatico avverte una condizione di solitudine, di abban-
dono, un senso di precarietà, l'impatto dell'esperienza traumatica sulla sua salute psicologica sarà
più incisivo. Per esempio, se inciampiamo e cadiamo per terra, che cosa fa naturalmente la società?
Dice: "ti sei fatto male?": il soggetto racconta l'accaduto e il sistema sociale spontaneamente lo
ascolta. Questo è un processo che ci aiuta ad elaborare, nonché a trasformare il vissuto traumatico.
Fattori multiculturali. I ricercatori clinici sono sempre più convinti che negli Stati Uniti il tasso di
disturbo post traumatico da stress presenti delle differenze tra un gruppo etnico e l'altro. Dai dati di
alcune ricerche condotte su veterani della guerra del Vietnam e Iraq, su agenti di polizia, sulle vit-
time degli uragani e sugli abitanti di New York nei mesi successivi agli attacchi terroristici dell’11
settembre 2001, sembrerebbe che gli ispanoamericani abbiano una vulnerabilità maggiore rispetto
degli altri gruppi culturali. Le ipotesi avanzate su questa maggiore vulnerabilità al disturbo post-
traumatico da stress da parte degli stati americani sono legate alle loro credenze culturali, di fatti gli
ispanoamericani tendono a considerare gli eventi traumatici come qualcosa di inevitabile è immodi-
ficabile, una risposta di coping che può favorire il rischio di disturbo post-traumatico da stress. Una
seconda ipotesi suggerisce che l'importanza attribuita nella loro cultura e ai rapporti sociali e al so-
stegno sociale può comportare un rischio quando le vittime ne vengono private da eventi traumati-
ci. Infatti, uno studio condotto oltre vent’anni fa ha rivelato che tra i veterani ispoanoamericani del-
la Guerra del Vietnam con disturbi da stress, i più gravi erano quelli con rapporti sociofamiliari dif-
ficili.
Gravità del trauma. È piuttosto intuitivo che la gravità e la natura degli eventi traumatici contribui-
scono a determinare se verrà sviluppato il disturbo da stress. Certi eventi possono annullare anche
un'infanzia rassicurante, un atteggiamento positivo e una rete valida di rapporti sociali. In generale,
più è grave il trauma e più l'esposizione a esso è diretta, maggiore è la probabilità di sviluppare un
disturbo da stress. In particolare, la mutilazione e le gravi ferite fisiche sembrano aumentare il ri-
schio di reazioni da stress, come pure essere testimoni del ferimento o dell’uccisione di altre perso-
ne.

Il termine PTG si riferisce ad un cambiamento psicologico positivo come risultato di una lotta
contro circostanze di vita altamente impegnative e sfidanti (Calhoun e Tedeschi). Il PTG descrive
l’esperienza di quelle persone che superano il trauma modificando lo stato in cui si trovavano prima
della lotta contro la crisi. In questi individui si manifesta un significativo cambiamento nelle risorse
di adattamento e nel modo di comprendere il mondo e il posto in esso.
Ogni esperienza di crisi, ogni esperienza traumatica proprio perché significativa-
mente relativa a processi di fronteggiamento può essere connessa ad uno sviluppo
di sé. Dunque, una condizione traumatica, una condizione di stress fortemente
drammatica dà la possibilità di fronteggiare un vincolo che sembrava invalicabi-
le, di passarci attraverso e di andare anche oltre. È un'opportunità di crescita.
Senza crisi, non necessariamente di tipo traumatico, non ci può essere un
cambiamento. Quindi la nostra vita, la nostra esperienza è una continua oscil-
lazione tra condizioni di stabilità/equilibrio e trasformazioni che si generano

18
Integrazione appunti e internet (tale argomento è assente sul manuale)

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Riassunti di Silvia Varro

il rapporto a crisi, richieste di cambiamento, dimensioni stressanti. In psicologia clinica si distingue


il concetto di stress dal concetto di distress, il quale rappresenta l’aspetto negativo dello stress. Lo
stress vero e proprio, invece, non ha sempre una connotazione negativa, ma può essere anche consi-
derato come una spinta motivazionale. La nostra esistenza è garantita dal fronteggiamento dello
stress, quando però quest’ultimo diviene eccessivo e continuativo, ecco che può generare una con-
dizione di distress e quindi una condizione di esaurimento delle risorse. A questo punto è necessario
che intervengano supporti, i quali possono essere semplicemente sociali oppure psicologici.

Il trattamento può essere molto importante per coloro che sono stati colpiti da un evento traumatico
e circa la metà di tutti i casi di disturbo post traumatico da stress è migliorato entro sei mesi. Nei
casi restanti i disturbi possono perdurare per anni e, in realtà, più di un terzo dei soggetti con DSPT
non risponde al trattamento anche dopo molti anni.
Le procedure di trattamento attuali per i superstiti che presentano disturbi psicologici dipendono dal
tipo di trauma, ma tutti i programmi hanno comunque degli obiettivi comuni: aiutare le persone a
mettere fine alle reazioni di stress, considerare con maggior distacco le esperienze dolorose e torna-
re a un modo di vivere costruttivo.

Per aiutare i veterani di guerra con DSPT esistono diverse tecniche terapeutiche utilizzate per ridur-
re i sintomi: terapia farmacologica, tecniche di esposizione comportamentale, insight terapeutico,
terapia familiare e terapia di gruppo. Generalmente si utilizzano approcci combinati in quanto
nessuno di essi, preso singolarmente, è in grado di ridurre significativamente tutti i sintomi.
Tsunami: una ricaduta socioculturale
Dal 2004 c’è stato un calo dell’afflusso turistico nel Sud-Est asiatico, soprattutto a causa dei ti-
mori sul verificarsi di un altro tsunami. Tuttavia, molti villeggianti asiatici si tengono lontani dal-
le spiagge per una ragione diversa: secondo una superstizione cinese, se i cadaveri non vengono
recuperati e seppelliti degnamente, il loro spirito può vagare per il mondo senza posa e addirittura
trascinare gli esseri viventi nel regno delle anime, il limbo spirituale.

I farmaci antiansia sono utilizzati per controllare la tensione, mentre i farmaci antidepressivi
possono ridurre la frequenza di incubi, flashback, attacchi di panico e senso di depressione.
Anche le tecniche di esposizione comportamentale aiutano a ridurre sintomi specifici e portano
un miglioramento nell’adattamento generale; alcuni studi indicano che sia l’intervento più utile per
le persone con disturbi da stress. In un caso, l’esposizione intesa o flooding, abbinata al training di
rilassamento, è servita a liberare un ex militare trentunenne da flashback e incubi che lo riempivano
di terrore. Il terapeuta ha isolato assieme al veterano alcune scene di combattimento che il soggetto
rivedeva di continuo nella mente e lo ha aiutato a immaginare nei minimi particolari una di queste
scene, incoraggiandolo a soffermarsi sull'immagine fino a che smetteva di provare ansia. Dopo cia-
scuno di questi esercizi di esposizioni intensa, il terapeuta chiedeva al veterano di passare a un'im-
magine positiva e lo guidava attraverso alcuni esercizi di rilassamento.
Un tipo particolare di terapia di esposizione ampiamente usato è la desensibilizzazione e rielabo-
razione attraverso i movimenti oculari (EMDR), in cui il paziente compie movimenti laterali e
ritmici degli occhi, mentre nella sua mente vengono riversate immagini di oggetti e situazioni che
normalmente cerca di evitare. Molti teorici sostengono che sia la caratteristica di esposizione
dell’EMDR e non i movimento oculari a spiegare il successo se applicato al disturbo post-
traumatico da stress.
La terapia farmacologica e le tecniche di esposizione apportare qualche risultato, ma si ritiene che i
veterani con disturbo post traumatico da stress non siano in grado di recuperare pienamente solo
con questi due sistemi: è importante che riescano ad affrontare le proprie esperienze di combatti-

70
Riassunti di Silvia Varro

mento e il loro continuo impatto. Per questa ragione i terapeuti cercano di far sì che i veterani tirino
fuori i propri sentimenti profondi e accettino ciò che hanno fatto e vissuto, senza essere così severi
con sè stessi e imparino nuovamente a fidarsi delle persone.
Sulla stessa falsariga, la terapia cognitiva viene utilizzata per guidare i veterani nell’analisi e nella
modifica degli atteggiamenti disfunzionali e degli stili di interpretazione che derivano dalle proprie
esperienze traumatiche.
I veterani con disturbo da stress psicologico possono trovare aiuto in una modalità di terapia di
coppia, familiare o di gruppo. Con l'aiuto e il sostegno dei familiari, i soggetti hanno l'opportunità
di esaminare il proprio impatto sugli altri, imparare a comunicare meglio e migliorare le proprie abi-
lità di problemsolving.
Nella terapia di gruppo, spesso nella forma di rap group, i veterani si riuniscono con altri ex colle-
ghi per condividere le proprie esperienze e sensazioni (in particolare, il senso di colpa e la rabbia) e
ricevere sostegno reciproco.
Oggi negli Stati Uniti la terapia di gruppo viene praticata in centinaia di piccoli centri per veterani
diffusi in tutto il Pese e nell’ambito dei trattamenti psicologici nei vari ospedali per i veterani e de-
gli ospedali psichiatrici. Queste istituzioni offrono anche terapie individuali, assistenza psicologica
per coniugi e figli e terapia familiare. Si occupano inoltre di consulenza nella ricerca di un lavoro,
istruzione e per richiedere sussidi.

Nel caso di persone traumatizzate a causa di disastri, vittimizzazione o incidenti stradali possono
essere utilizzati dei trattamenti all'interno delle rispettive comunità. Il principale approccio è il de-
briefing psicologico o Critical Incident Stress Debriefing (CISD), ossia una forma di intervento
in situazioni di crisi in cui le vittime del trauma vengono fatte parlare a lungo delle proprie emozio-
ni e reazioni a distanza di pochi giorni dall'evento critico, per prevenire o attenuare le reazioni da
stress, ecco perché viene spesso impiegato anche nel caso di vittime che non mostrano ancora nes-
sun sintomo.

Alleviare lo stress da combattimento


L’esercito americano ha istituito unità di controllo dello stress da combattimento rivolte ai soldati
dislocati in tutto l’Iraq e l’Afghanistan; gli psicologi parlano con loro subito dopo gli scontri a
fuoco e cercano di identificare chi necessita di particolari cure psicologiche.

Nel corso delle sessioni, spesso condotte in gruppo, i consulenti guidano i soggetti a descrivere i
particolari del trauma recente, per esprimere e rivivere le emozioni scatenate al momento
dell’evento e per esprimere le sensazioni attuali. I consulenti spiegano quindi alle vittime che le loro
reazioni sono perfettamente normali di fronte a un evento terribile, danno consigli per la gestione
dello stress, e, se necessario, inviano le vittime ad altri professionisti per un trattamento a lungo
termine. Ogni anno migliaia di consulenti, non soltanto in ambito medico, seguono corsi di forma-
zione sulla psicologia dell’emergenza.
Quando l'evento traumatico colpisce molti individui di una comunità, il personale specializzato può
convergere sul posto anche da sedi molto lontane per condurre sessioni di debriefing con le vittime.
Di questo tipo fa parte uno dei programmi più vasti di mobilitazione di personale, la DRN o Disa-
ster Response Unit, unità di risposta immediata istituita dalla American Psychological Association
e dalla Croce Rossa americana e composta da migliaia di psicologi volontari. Nelle mobilitazioni su
larga scala, come la strage nel 1999 della scuola di Columbine (Colorado) in cui morirono 23 per-
sone nel corso di una sparatoria, oppure l’attacco terroristico alle Torri Gemelle del World Trade
Center nel 2001, sono gli psicologi a bussare alla porta dei rifugi per andare a cercare le vittime.

71
Riassunti di Silvia Varro

Il debriefing psicologico è efficace?


Sull’efficacia del debriefing molte opinioni sono a favore, ma numerosi studi hanno messo in dub-
bio l’efficacia. In uno studio condotto su ustionati gravi ospedalizzati, i cercatori separarono le vit-
time in due gruppi. I primi vennero sottoposti a un debriefing individuale pochi giorni dopo l'inci-
dente, i secondi non furono sottoposti all'intervento. Tre mesi dopo gli studiosi verificarono che si è
pazienti sottoposti al debriefing sia i pazienti del gruppo di controllo presentavano tassi uguali di di-
sturbo post-traumatico da stress. A distanza di tredici mesi, invece, il tasso di disturbo post trauma-
tico da stress era maggiore tra le vittime che avevano fatto il debriefing rispetto alle vittime del
gruppo di controllo. Alcuni clinici ritengono che i programmi di intervento immediati possano far sì
che le vittime indugino eccessivamente sugli eventi traumatici e possano involontariamente "sugge-
rire" i problemi alle vittime. Il clima clinico attualmente continua a essere favorevole al debriefing,
ma resta il fatto che i dubbi sollevati meritano un'attenta considerazione.

“Quello poteva essere Sammy”


Le persone che lavorano nella gestione delle salme delle vittime hanno più probabilità di svilup-
pare un disturbo da stress se si identificano con esse: “Poteva essere un mio familiare”.

Lo stress può avere una notevole influenza sul funzionamento psicologico della persona, ma può
avere, inoltre, un forte impatto sul funzionamento fisico e condurre in alcuni casi allo sviluppo di
vere e proprie patologie. Le prime edizioni del DSM etichettavano queste malattie come disturbi
psicofisiologici o psicosomatici mente nel DSM-IV-TR sono diventati fattori psicologici che in-
fluenzano una condizione medica.
È importante comprendere che i disturbi psicofisiologici comportano realmente un danno fisico. Es-
si sono diversi dalle malattie fisiche “apparenti (disturbi fittizi o disturbi somatoformi), sono cioè
disturbi causati interamente da fattori psicologici come bisogni nascosti, repressione o rinforzo.

✓ Presenza di una condizione medica generale.


✓ Fattori psicologici che influenzano in senso negativo la condizione medica generale in
una delle modalità seguenti:
✓ Influenza sul decorso della condizione medica generale.
✓ Interferenza con il trattamento della condizione medica generale.
✓ Rappresentazione di ulteriori rischi per la salute.
✓ Reazioni fisiologiche correlate allo stress che precipitano o esacerbano la condizione medica
generale.

Prima degli anni Settanta, i clinici ritenevano che esistesse solo un limitato numero di malattie psi-
cofisiologiche. I disturbi più noti e comuni erano ulcera, asma, insonnia, cefalea cronica, ipertensio-
ne e cardiopatia coronarica. Studi recenti hanno invece dimostrato che molte altre patologie, com-
prese le infezioni batteriche e virali, possono essere causate da un’interazione di fattori psicoso-
ciali e fisici. Le ulcere sono lesioni profonde che si formano nella parete dello stomaco o del duo-
deno19, che provocano bruciore e dolore di stomaco, vomito occasionale e sanguinamento della pa-
rete gastrica. Si tratta di un disturbo molto diffuso. L’ulcera è causata spesso da un’interazione di
fattori di stress, come la pressione ambientale o intensi sentimenti di rabbia o ansia, e di fattori fi-
siologici come batterio Helicobacterpylori.

19
Il duodeno è la parte iniziale dell’intestino tenue.

72
Riassunti di Silvia Varro

L’asma provoca il restringimento periodico delle vie respiratorie (trachea e bronchi), rendendo dif-
ficoltoso il passaggio dell'aria tra bocca-naso e polmoni. I sintomi associati sono respiro difficoltoso
e sibilante, tosse e un angoscioso senso di soffocamento. Nella maggior parte dei casi si tratta di
persone che hanno avuto il primo attacco da bambini o nella preadolescenza. Il 70% di tutti i casi
pare essere causato da un’interazione di fattori di stress, come pressione ambientale o ansia, e fattori
fisiologici, come allergie a sostanze specifiche, un sistema nervoso simpatico lento nell'azione o un
apparato respiratorio problematico.
L'insonnia, ossia la difficoltà di addormentamento o di mantenere la qualità
del sonno affligge il 35% della popolazione ogni anno. Molti possono at-
traversare periodi di insonnia temporanei, che durano solo alcune notti,
mentre un alto numero di persone soffre di insonnia per mesi o anni, con
la sensazione di essere costantemente sveglie. Gli insonni cronici si sentono
stanchi e assonnati durante il giorno e possono avere difficoltà di funziona-
mento. Il loro problema potrebbe essere causato da una combinazione di fattori psicosociali, come
elevati livelli di ansia o depressione, e di fattori fisiologici, come un sistema di attivazione iperatti-
vo o alcune malattie.
Le cefalee croniche sono dolori della testa e del collo frequenti e intensi non causati da altri pro-
blemi fisici. Il tipo principale è la cefalea muscolo-tensiva, caratterizzata da dolore nella parte po-
steriore o frontale della testa, causata dalla contrattura dei muscoli cranici, che restringono così il
lume20 dei vasi sanguigni.
Le emicranie sono invece dolori estremamente intensi, spesso quasi paralizzanti, che colpiscono
solo un lato della testa e sono a volte accompagnate da senso di vertigine, nausea o vomito. Si ha
dapprima una vasocostrizione a livello cerebrale, con una riduzione dell’irrorazione sanguigna in
alcune aree del cervello, seguita da una vasodilatazione degli stessi vasi che portano a un'irrorazio-
ne sanguigna e una stimolazione di numerose terminazioni neuronali che provocano dolore. Le ce-
falee croniche sono causate da un’interazione di fattori di stress, come pressioni ambientali o sensa-
zioni generiche di impotenza, rabbia, ansia o depressione, e di fattori fisiologici, come un'attività
anomala del neurotrasmettitore serotonina, problemi vascolari o debolezza muscolare.
L'ipertensione è uno stato cronico di pressione alta del sangue: in pratica, il sangue pompato dal
cuore nelle arterie produce una pressione eccessiva contro le pareti arteriose. L’ipertensione dà
scarsi sintomi, ma interferisce con il funzionamento del sistema cardiovascolare, aumentando la
probabilità di essere colpiti da ictus, cardiopatie e problemi renali. Circa il 10 % di tutti i casi sono
provocati da sole anomalie fisiologiche; il resto dei casi sono colpiti da ipertensione essenziale,
una combinazione di fattori psicosociali e fisiologici. Tra i fattori psicosociali principali si annove-
rano stress costante, pericolo ambientale, e sensazione generica di rabbia o depressione. I fattori fi-
siologici comprendono obesità, fumo, scarsa funzionalità renale e un'alta percentuale della proteina
collagene nei vasi sanguigni.

Il killer silenzioso
L’ipertensione arteriosa è un disturbo psicofisiologico che da scarsi sintomi ed è responsabile del-
la morte di migliaia di persone ogni anno. Per questo motivo i professionisti della salute eseguono
controlli preventivi anche nei luoghi di lavoro e in altri tipi di comunità.

La cardiopatia coronarica è causata da un blocco delle arterie che trasportano ossigeno al cuore. Il
termine indica diversi problemi compreso il blocco delle arterie coronarie, i vasi sanguigni che cir-
condano il cuore e hanno la funzione di trasportare ossigeno al muscolo cardiaco, e l'infarto mio-

20
In biologia per lume si intende una cavità anatomicamente delimitata dal complesso dei tessuti che costituiscono un
organo detto appunto “cavo”, come ad esempio l’intestino (lume intestinale), lo stomaco (lume gastrico) o i vasi san-
guigni (lume vascolare).

73
Riassunti di Silvia Varro

cardico (un “attacco di cuore”). La maggioranza di tutti i casi di cardiopatia coronarica sono colle-
gati a un'interazione di fattori psicosociali, come lo stress lavorativo e livelli elevati rabbia o de-
pressione, e fattori fisiologici, come altri livelli di colesterolo, obesità, ipertensione, fumo e man-
canza di attività fisica.
Nel corso degli anni i clinici hanno identificato numerose variabili che possono favorire lo svilup-
po di disturbi psicofisiologici.
Fattori biologici. Più sopra hai visto che una delle maniere in cui il cervello può attivare gli organi
interni è attraverso il sistema nervoso autonomo (SNA), la rete di fibre nervose che collega il si-
stema nervoso centrale agli organi interni. Si ritiene che dei problemi a livello del sistema nervoso
autonomo favoriscano l'insorgenza di disturbi psicofisiologici.
Se il SNA è iperattivo può esserci una reazione eccessiva in presenza di situazioni che per la mag-
gioranza delle persone sono moderatamente stressanti, portando nel tempo a un danno di certi orga-
ni. Altri problemi biologici più specifici possono contribuire a creare disturbi psicofisiologici; ad
esempio, una persona con un sistema gastrointestinale problematico può essere un candidato di pri-
ma scelta per l'ulcera gastrica, mentre chi ha problemi a livello di sistema respiratorio sarà più sog-
getto a soffrire di asma. In modo analogo, le persone possono avere sempre uno stesso tipo di rea-
zione biologica che aumenta le loro probabilità di contrarre disturbi psicofisiologici. Alcuni indivi-
dui di fronte a situazioni di stress hanno mal di stomaco, ad altri sale la pressione.
A conferma di queste nozioni, un team di cardiologi ha presentato una relazione su 19 pazienti che
manifestavano sintomi di attacco miocardico acuto; nessuno di loro era stato colpito da infarto del
miocardio, mentre tutti avevano avuto di recente un’esperienza molto stressante e in tutti si riscon-
trava un SNA e un’attività ormonale eccezionalmente reattivi.
Fattori psicologici. Esistono determinati bisogni, atteggiamenti, emozioni e stili di coping che pos-
sono causare un'iperreattività ai fattori di stress. I maschi con stile di coping repressivo (difficoltà
a esprimere disagio, collera o ostilità) tendono ad avere picchi di tensione particolarmente alti e ta-
chicardia quando sono sotto stress. Un altro stile di personalità che tende a favorire i disturbi psico-
fisiologici è lo stile di personalità di Tipo A, un concetto introdotto dai cardiologi Friedman e Ro-
senmann (1959). Le persone con questo stile di personalità sono descritte come colleriche, ciniche,
tese, competitive e ambiziose. Il loro modo di interagire con il mondo produce uno stress continuo
ed è spesso all'origine di una cardiopatia coronarica. Coloro che hanno uno stile di personalità di
Tipo B, invece, sono ritenuti più rilassati, meno aggressivi e meno preoccupati del tempo e quindi
sono meno soggetti a sviluppare problemi cardiovascolari. Il nesso tra lo stile di personalità di tipo
A e la cardiopatia coronarica è stato dimostrato da diversi studi, in uno dei quali sono stati suddivisi
uomini in buona salute fra i 40 e i 60 anni in categorie di Tipo A e di Tipo B e monitorati per i suc-
cessivi otto anni. Tra gli uomini di Tipo A, più della metà ha sviluppato una patologia coronarica.
Studi successivi hanno indicato che il funzionamento del Tipo A è legato a un’analoga incidenza di
patologie cardiache nelle donne.

Qual è la serata migliore per svagarsi?


Lunedì – La serata più comune per l’attività fisica (sport, palestra)
Martedì – La serata più scelta per incontrare altre persone
Venerdì – La serata preferita per stare a casa a guardare la TV
Sabato – La serata preferita per uscire a cena e/o andare al cinema
Domenica – La serata scelta dai più per sbrigare la corrispondenza

Fattori socioculturali. Condizioni sociali svantaggiate producono uno stress continuato che attiva e
interagisce con i fattori biologici e di personalità. Tra le condizioni sociali più negative vi è la po-
vertà, infatti, le persone meno benestanti hanno meno disturbi psicofisiologici e un migliore stato di
salute rispetto ai meno abbienti. Una ragione evidente di questa correlazione sta nel fatto che negli

74
Riassunti di Silvia Varro

ambienti sociali più poveri vi è un maggior tasso di criminalità, disoccupazione, sovraffollamento e


assistenza medica più carente rispetto a quanto si può trovare tra le persone più benestanti.
Le ricerche hanno rivelato che l'appartenenza a gruppi etnici e culturali di minoranza aumenta ri-
schio di sviluppare disturbi psicofisiologici e altri problemi di salute. Ad esempio, l'ipertensione è
più comune tra gli afroamericani che tra gli americani bianchi, sicuramente vivono in ambienti
meno agiati e svolgono occupazioni non appaganti, ma possono essere presenti anche altri fattori,
quali una predisposizione fisiologica che aumenta il rischio di diventare ipertesi oppure le ripetute
esperienze di discriminazione razziale. All’interno dei gruppi minoritari le donne sono particolar-
mente svantaggiate dal punto di vista dell’assistenza sanitaria (ad es. le donne ispanoamericane so-
no quelle che hanno minore accesso alle cure mediche negli Stati Uniti).

Coping e adattamento allo stress: un occhio alla cultura


Il 57% dei nativi americani e degli afroamericani si sentono stressati dalle questioni finanziarie,
rispetto al 47% dell’intera popolazione degli Stati Uniti.
Il 41% degli ispanoamericani si sentono stressati dalle questioni lavorative, rispetto al 32%
dell’intera popolazione degli Stati Uniti.
L’82% degli afroamericani ricorrono alla preghiera e alla meditazione quando sono stressati, ri-
spetto al 62% dell’intera popolazione degli Stati Uniti.
Il 70% dei nativi americani e degli asiatici americani fanno attività fisica quando sono stressati,
rispetto al 55% dell’intera popolazione degli Stati Uniti.

Nel 1967 la Social Adjustment Rating Scale, ideata da Thomas Holmes e Richard Rahe, una scala
di valutazione che assegna valori numerici alle situazioni di stress che la maggior parte delle perso-
ne si trova ad affrontare per qualche momento della vita. Dalle risposte raccolte è emerso che l'e-
vento più stressante sulla scala di valutazione è la morte del coniuge con un punteggio di 100 unità
di cambiamento di vita complessivo (life changeunit) o LCU. Un evento giudicato poco stressante è
il pensionamento (45 LCU). Sulla base di questa scala, i due autori hanno avuto modo di analizzare
il rapporto tra lo stress della vita e l'esordio di malattie e hanno scoperto che i punteggi LCU di per-
sone che si sono ammalate, nell'anno precedente erano molto superiori a quelli di persone in buona
salute. Se i cambiamenti nella vita di una persona superavano i 300 LCU nel corso di un anno quel-
la persona aveva molte probabilità di ammalarsi in modo piuttosto grave.
In generale la quantità di stress nella vita è direttamente proporzionale alla proprietà di ammalarsi. I
ricercatori hanno inoltre rilevato una corrispondenza fra stress traumatico e morte. I vedovi e le ve-
dove, ad esempio, hanno un maggiore il rischio di morte nel periodo immediatamente successivo
alla perdita del coniuge.
Limiti della Social Adjustment Rating Scale:
- Non considera le reazioni particolari allo stress della vita di popolazioni specifiche, ad esempio i
ricercatori hanno reclutato prevalentemente americani bianchi, con una scarsa presenza di
afroamericani. Inoltre, poiché le loro esperienze di vita presentano attualmente differenze fon-
damentali, afroamericani e americani bianchi sono diversi anche nelle reazioni allo stress in oc-
casioni dei vari eventi della vita: sebbene entrambi pongano al primo posto nella scala degli
eventi più stressanti la morte del coniuge, gli afroamericani ritengono più stressante rispetto ai
bianchi una grave malattia o un incidente personale, un notevole cambiamento nelle responsabi-
lità sul lavoro.
- Per gli studenti i fattori di stress sono diversi da quelli elencati nella Social Adjustment Rating
Scale: uno studente universitario non ha problemi matrimoniali o di licenziamento bensì di con-
vivenza con altri studenti, bocciatura ad un esame o di ammissione a un corso di specializzazio-
ne post lauream.

75
Riassunti di Silvia Varro

Stress e raffreddore comune


In un importante studio, alcuni individui sani furono messi in quarantena dopo la somministra-
zione di gocce nasali contenenti virus del raffreddore comune. I partecipanti che avevano attra-
versato di recente un periodo di forte stress avevano molte più probabilità di prendere il raffred-
dore rispetto ai partecipanti che nella vita avevano meno fattori di stress.

La psiconeuroimmunologia individua i legami tra stress psicosociale, sistema immunitario e stato


di salute. Il sistema immunitario è un insieme di attività e cellule che hanno il compito di difende-
re e distruggere antigeni (invasori estranei, come batteri, virus, funghi e parassiti) e cellule cancero-
se. Fra le cellule più importanti di questo sistema vi sono miliardi di linfociti, cellule bianche del
sangue che circolano nel sistema linfatico21 e nel flusso sanguigno. Quando sono stimolati dagli an-
tigeni, i linfociti entrano in azione per contrastare gli invasori. Tre gruppi di linfociti:
1. Linfociti T helper: identificano gli antigeni, si moltiplicano e innescano la produzione di altri
tipi di cellule immunitarie;
2. Linfociti T natural killer: identificano e distruggono le cellule degli organi già infettati da vi-
rus, contribuendo a fermare la diffusione dell'infezione virale;
3. Linfociti B: producono gli anticorpi, molecole proteiche che riconoscono e si legano agli anti-
geni, li rendono riconoscibili per la distruzione e impediscono loro di causare l’infezione.
Oggi gli studiosi ritengono che lo stress possa interferire con l'attività dei linfociti riducendola e
aumentando la vulnerabilità della persona alle infezioni virali e batteriche. Ad esempio, nel caso dei
vedovi è emerso che l'attività dei linfociti era molto più lenta che nel gruppo di controllo. Altri studi
hanno messo in evidenza un funzionamento rallentato del sistema immunitario nelle persone espo-
ste a stress a lungo termine, per esempio, in coloro che si trovano a dover accudire un familiare con
malattia di Alzheimer.
Vi sono diversi fattori che intervengono sulla capacità dello stress di rallentare il sistema immunita-
rio:
Attività biochimica. Sembra che un’eccessiva attivazione del neurotrasmettitore noradrenalina ab-
bia un ruolo nel rallentare il sistema immunitario. Se lo stress si prolunga nel tempo, la noradrenali-
na si sposta sui recettori di alcuni linfociti e comunica un messaggio inibitorio per bloccarne
l’attività, rallentando il funzionamento immunitario. In maniera analoga, i corticosteroidi (cortisolo
e altri ormoni dello stress) contribuiscono a loro volta a rallentare il buon funzionamento del siste-
ma immunitario. Ricorderai che quando ci si trova sotto stress, le ghiandole surrenali rilasciano cor-
ticosteroidi. Come nel caso della noradrenalina, se lo stress si prolunga nel tempo, gli ormoni dello
stress si spostano alla fine sui recettori che si trovano su alcuni linfociti e comunicano anch’essi un
messaggio inibitorio in grado di rallentarne l’attività.
I corticosteroidi agiscono anche nello stimolare un aumento nella produzione di citochine (proteina
che, a livelli di stress moderato, contribuisce a combattere le infezioni), la quale, se eccessiva, pro-
voca un'infiammazione cronica in tutto il corpo arrivando a causare cardiopatie, ictus e altre patolo-
gie.
Cambiamenti comportamentali. Lo stress può mettere in atto una serie di cambiamenti comporta-
mentali in grado di influenzare indirettamente sistema immunitario. Ad esempio, alcune persone
possono diventare ansiosi o depressi, oppure sviluppare un disturbo d'ansia e dell'umore. Ne risulta
una peggiore qualità del sonno, una cattiva alimentazione, mancanza di attività fisica, aumentato
consumo di alcol o di sigarette, tutti comportamenti che rallentano il sistema immunitario.
Stile di personalità. Coloro che tendono a reagire allo stress con ottimismo, coping costruttivo e
capacità di adattamento, ossia quel tipo di persone che accolgono le sfide e sono pronte a prendere il

21
Il sistema linfatico è costituito da un articolato sistema di vasi, molto simile a quello circolatorio venoso e arterioso.
A differenza del sangue, la linfa non viene spinta dall'attività cardiaca, ma scorre nei vasi mossa dall'azione dei muscoli.

76
Riassunti di Silvia Varro

controllo di tutto ciò che la vita mette loro davanti, hanno sistema immunitario che funziona meglio
e sono più preparati a sconfiggere la malattia.
Le persone con personalità "robuste" e adattabili conservano la buona salute anche a fronte di even-
ti stressanti, mentre coloro che hanno personalità più labili sembrano essere più vulnerabili alle ma-
lattie. Alcuni studiosi hanno rilevato un legame tra alcune caratteristiche di personalità e la guari-
gione dal cancro: le persone ammalate di certi tipi di cancro con uno stile di coping rassegnato e
con difficoltà esprimere le proprie emozioni tendono a recuperare meno facilmente rispetto a coloro
che sanno esprimere le emozioni. Altri studi, tuttavia, non hanno riscontrato nessun legame fra per-
sonalità ed esito della malattia oncologica.
Supporto sociale. Coloro che non hanno una rete di supporto sociale e si sentono soli sembrano ave-
re un funzionamento del sistema immunitario meno efficiente di fronte a situazioni di stress rispetto
a coloro che non si sentono soli. In uno studio pioneristico, ad alcuni studenti di medicina fu som-
ministrata la Loneliness Scale UCLA, la Scala della Solitudine, e divisi quindi in gruppi di solitu-
dine “elevata” o “bassa”. Nel primo gruppo la risposta dei linfociti nel periodo degli esami finali era
minore.
Altri studi hanno rilevato come il supporto sociale e l'affiliazione possono effettivamente aiutare a
proteggere dallo stress o contribuire a recuperare dopo una malattia o un intervento chirurgico. Ana-
logamente, da alcuni studi è risultato che nei pazienti con alcune forme di cancro che hanno una rete
di supporto sociale nella vita personale o ricevono una terapia di sostegno spesso il sistema immuni-
tario funziona meglio e dunque hanno una percentuale di guarigione superiore rispetto ai pazienti
che non hanno tale rete di supporto.

Con la scoperta che lo stress e i fattori psicosociali connessi possono favorire i disturbi somatici, i
clinici hanno applicato sempre più il trattamento psicologico ai problemi medici. L'ambito tera-
peutico che abbina trattamenti psicologici e fisici per curare o prevenire problemi di tipo medico è
conosciuto come medicina comportamentale. Tipi di trattamento noti e collaudati sono:
(1) Tecniche di rilassamento: si può insegnare a rilassare i muscoli volontariamente così da ridurre
le sensazioni di ansia. I clinici ritengono che le tecniche di rilassamento siamo in grado di prevenire
o curare alcune patologie mediche correlate allo stress. Spesso in abbinamento con farmaci vengono
usate ampiamente nella cura dell'ipertensione, nella cura di cefalee, insonnia, asma, diabete, dolore
post-chirurgico.
(2) Biofeedback: i pazienti sono collegati ad apparecchiature che ne registrano continuamente l'at-
tività fisica e volontaria. In uno studio classico, veniva utilizzato per il trattamento di 16 pazienti
che provavano dolore al volto, dovuto in parte alla tensione dei muscoli della mascella. Dopo aver
più volte "ascoltato" il biofeedback EMG, i 16 pazienti dello studio avevano imparato a rilassare i
muscoli della mascella volontariamente e riferivano una riduzione del dolore facciale. Il biofeed-
back è stato utilizzato con successo anche nel trattamento delle cefalee e di disabilità muscolari cau-
sati da ictus o incidenti. Altre forme ancora di biofeedback si sono rivelate utili nel trattamento dei
disturbi del ritmo cardiaco, asma, emicranie, ipertensione, balbuzie e dolore.
(3) Meditazione: nella meditazione ci si concentra su sè stessi e la propria interiorità, raggiungen-
do uno stato di coscienza leggermente alterato e ignorando temporaneamente tutti i fattori di
stress esterni. Nell’approccio più semplice, la persona si mette in un posto tranquillo, assume una
posizione comoda, emette o pensa a una formula o un suono particolare (il mantra) per fo-
calizzare l'attenzione e si allontana con la mente da tutti i pensieri e le preoccupazioni
esterne. Coloro che fanno regolarmente meditazione riferiscono di sentirsi più pacifica-
ti, concentrati e creativi. La meditazione è stata utilizzata per la gestione del dolore,
per il trattamento di ipertensione, problemi cardiaci, asma, malattie dermatologiche,
diabete, insonne e persino nel caso di infezioni virali. Nel caso di pazienti che soffrono
di dolore cronico è utilizzata la meditazione consapevole in cui la persona è attenta alle

77
Riassunti di Silvia Varro

emozioni, ai pensieri e alle sensazioni che passano nella sua mente durante la meditazione, ma lo fa
con distacco e obiettività, e soprattutto in modo non giudicante. Questo fa sì che chi medita sia me-
no portato a etichettare, a fissarsi o a reagire negativamente a essi.

Il genere e il cuore
Secondo le ricerche, le donne ricoverate per infarto hanno una probabilità di morire del 50% su-
periore rispetto agli uomini ospedalizzati per lo stesso motivo.

(4) Ipnosi: coloro che si sottopongono all'ipnosi sono guidati da un ipnotista in uno stato simile al
sonno in cui diventano più suggestionabili e possono essere indotti a provare sensazioni insolite, a
ricordare eventi apparentemente dimenticati o a dimenticare eventi riaffiorati alla memoria. Alcuni
esperti riescono a indurre lo stato ipnotico su sé stesso (autoipnosi). L'ipnosi oggi viene utilizzata
come ausilio nella psicoterapia, nel trattamento di numerose affezioni fisiche e inoltre si rileva par-
ticolarmente utile nel controllo del dolore, nel coadiuvare il trattamento di malattie dermatologiche,
asma, insonnia, ipertensione, verruche, altre forme infettive. Un case study descrive un paziente che
si è sottoposto a un intervento di chirurgia odontoiatrica: dopo aver indotto lo stato ipnotico, il den-
tista ha suggerito al paziente che egli si trovava in un ambiente piacevole e rilassante, in cui ascol-
tava un amico che gli descriveva come nel suo caso l’intervento chirurgico sotto ipnosi fosse andato
nel migliore dei modi. Il dentista ha quindi iniziato l’intervento della durata di 25 minuti, portando-
lo al termine con successo.
(5) Interventi cognitivi: alle persone con patologie fisiche si è insegnato ad assumere nuovi atteg-
giamenti o risposte cognitive nei confronti della loro malattia come parte integrante del trattamento.
Per esempio, una procedura detta training di autoistruzione si è rivelata utile per aiutare paziente
affetti da dolore cronico; i terapeuti insegnano alle persone a identificare e infine a liberarsi dai pen-
sieri negativi che continuano a emergere durante gli episodi di dolore (le cosiddette autoafferma-
zioni negative, del tipo “Oh no, non riuscirò a sopportare il dolore”) e a sostituirli con autoaffer-
mazione di coping (come “Quando arriva il dolore, fermati; continua a concentrati su quello che
devi fare”).
(6) Insight terapeutico e gruppi di supporto: analizzare le preoccupazioni del passato del presente
può realmente migliorare lo stato di salute di una persona e il suo funzionamento psicologico. In
uno studio, alcuni pazienti malati d'asma e di artrite che avevano semplicemente messo su carta i
propri pensieri e le emozioni per pochi giorni avevano manifestato un miglioramento duraturo nel
loro condizioni di salute. La scrittura si è rivelata benefica anche per pazienti con infezione da
HIV.

Il sistema immunitario all’opera


La virtù della risata. Dopo aver guardato un filmato comico, i partecipanti alla ricerca che ave-
vano riso manifestavano un minore stress e un miglioramento nell’attività delle cellule natural
killer.
Stress coniugale. Durante e dopo le liti coniugali, le donne in genere rilasciano più ormoni dello
stress rispetto agli uomini e hanno quindi un sistema immunitario meno attivo e funzionale.

(7) Combinazione di approcci: da alcuni studi è emerso che i vari interventi psicologici diretti al
trattamento di problemi fisici tendono ad avere un'efficacia pressoché simile. Le tecniche di rilas-
samento e di biofeedback, per esempio, sono ugualmente efficaci (e più efficaci di un placebo) nel
trattamento di ipertensione, cefalee e asma. Gli interventi psicologici sono, in effetti, spesso di
grande aiuto in combinazione tra loro e con terapie mediche. In uno studio, alcuni pazienti affetti da
ulcera gastrica sono stati trattati con tecniche di rilassamento, autoistruzione e assertività abbinate
alla terapia farmacologica; tutti si erano mostrati meno ansiosi, più a proprio agio, con sintomi me-
no evidenti e avevano esiti a lungo termine migliori rispetto ai pazienti trattati solo con i farmaci.

78
Riassunti di Silvia Varro

Nel DSM-5 è stato suggerito di inserire il disturbo acuto da stress e disturbo post traumatico da
stress in un nuovo gruppo "disturbi correlati a traumi e fattori di stress". Questo cambiamento
porrebbe l'accento sul fatto che il fattore essenziale di questi disturbi è l'insorgenza del disturbo a
seguito del verificarsi di un evento traumatico, e che arriverebbe che in questi disturbi l'ansia è solo
uno dei molti sintomi rilevanti, tra i quali la depressione e distacco, ricordi intrusivi, sogni spiacevo-
li, episodi dissociativi come i flashback. Del nuovo gruppo farebbero parte anche altri problemi cor-
relati allo stress come il disturbo dell'adattamento e un nuovo disturbo: il disturbo post-traumatico
da stress nei bambini in età prescolare. Quest’ultima categoria è stata proposta perché alcuni dei
sintomi post-traumatici presenti nei bambini molto piccoli (per esempio, comportamento disorga-
nizzato e scoppi di rabbia eccessivi) non si manifestano nella maggior parte dei casi di PTSD fra gli
adulti.
Sono stati suggeriti anche alcuni cambiamenti nei criteri diagnostici per il disturbo acuto e post-
traumatico da stress. La proposta di maggior rilievo è distinguere in modo più netto un evento
“traumatico” da un evento puramente “spiacevole”, modo questo per sopperire alla preoccupazione
che il PTSD venga diagnosticato troppo frequentemente. Infine, è stato suggerito di inserire i di-
sturbi psicofisiologici in un nuovo gruppo di "disturbi da sintomi somatici", all'interno del quale
verrebbero inseriti anche il disturbo di conversione e l'ipocondria.

79
Riassunti di Silvia Varro

Capitolo 6

Allo stress e all'ansia sono connessi due altri tipi di disturbi: i Disturbi Somatoformi e i Disturbi
Dissociativi. I disturbi somatoformi sono caratterizzati da sintomi apparentemente fisici, ma la cui
vera natura è di tipo psicologico. A differenza dei disturbi psicofisiologici in cui i fattori psicoso-
ciali interagiscono con problemi fisici, i disturbi somatoformi sono disturbi psicologici che si mani-
festano come problemi fisici. Similmente, i disturbi dissociativi sono caratterizzati da perdita di
memoria da mutamento d'identità e sono causati pressoché interamente da fattori psicosociali più
che da fattori fisici. Hanno molte caratteristiche in comune: possono, per esempio, insorgere in se-
guito a un grave stress e sono stati visti come una via di fuga da esso. Inoltre, molti individui sono
affetti sia da disturbi somatoformi sia da disturbi dissociativi. Per tali ragioni i teorici e i clinici
spesso spiegano e trattano i due gruppi di disturbi nello stesso modo.
Quando un problema fisico non ha una causa fisica evidente, i medici avanzano l'ipotesi che sia un
disturbo somatoforme. I sintomi fisici non sono prodotti in modo cosciente o intenzionale, infatti i
malati attribuiscono i loro problemi a una condizione autenticamente medica. In alcuni disturbi so-
matoformi, noti come disturbi somatoformi di tipo isterico vi è un cambiamento reale del funzio-
namento fisico, mentre in altri, i disturbi somatoformi ipocondriaci, le persone sane si preoccupano
ingiustificatamente perché sono convinte che ci sia qualcosa nel loro fisico non funziona.

Le persone affette da disturbi somatoformi di tipo isterico subiscono dei cambiamenti reali nel
loro funzionamento fisico, si rivela, quindi, spesso difficile distinguere questi disturbi somatoformi
da altri problemi fisici reali. In effetti, è sempre possibile che la diagnosi di un disturbo isterico sia
errata e che il problema del paziente abbia una causa organica non evidente.
Nel DSM-IV-TR sono distinti tre disturbi somatoformi di tipo isterico: disturbi di conversione, di-
sturbi di somatizzazione e disturbi algici associati con fattori psicologici.

Disturbo di conversione Disturbo di somatizzazione Disturbo algico associato con


fattori psicologici
✓ Uno o più sintomi o ✓ Lamentele fisiche ricorrenti, che ini- ✓ Dolore notevole come pro-
deficit fisici riguar- ziano prima dei trent’anni, si mani- blema predominante.
danti le funzioni mo- festano per alcuni anni e conducono
torie volontarie o sen- a un’esigenza di trattamento o a una
sitive che suggerisco- significativa menomazione.
no una condizione
neurologica o un’altra
condizione medica
generale.
✓ Fattori psicologici che ✓ Lamentele fisiche nel corso di un ✓ Fattori psicologici che si ri-
si considerano colle- lungo periodo di tempo che includo- tiene svolgano un ruolo signi-
gati al sintomo o al no i seguenti sintomi: ficativo sull’esordio, sul gra-
deficit. ✓ Quattro diversi tipi di sintomi dolo- do di gravità,
rosi. nell’esacerbazione o nel man-
✓ Due sintomi gastrointestinali. tenimento del dolore.
✓ Un sintomo sessuale.
✓ Un sintomo neurologico.

80
Riassunti di Silvia Varro

✓ Sintomo o deficit non ✓ Lamentele fisiche non pienamente ✓ Sintomo o deficit non inten-
prodotto o simulato spiegabili da una condizione medica zionalmente prodotto o simu-
intenzionalmente. generale conosciuta o un farmaco, lato.
oppure risultanti eccessiva rispetto a
quanto ci si aspetterebbe da una cer-
ta condizione.
✓ Sintomo o deficit non ✓ Sintomi non prodotti o simulati in- ✓ Disagio o menomazione si-
compiutamente spie- tenzionalmente. gnificativi.
gabile con una condi-
zione medica generale
o una sostanza.
✓ Malessere o menoma-
zione significativa.

Disturbo di conversione. Nel disturbo di conversione, un conflitto o un bisogno psicologico viene


conferito i sintomi fisici gravi che riguardano le funzioni motorie volontarie o sensitive. I sintomi
(paralisi, cecità o perdita della sensibilità) spesso sembrano di tipo neurologico. La maggior parte
dei disturbi di conversione insorge tra la fine dell’infanzia e l'inizio dell'età adulta; le donne ne sof-
frono in percentuale almeno doppia rispetto ai maschi. I disturbi in genere si manifestano
all’improvviso, nei periodi di stress estremo e durano diverse settimane. Da alcune ricerche risulta
che le persone affette da questo disturbo tendono a essere in genere suggestionabili; molte, per
esempio, sono estremamente sensibili alle pratiche ipnotiche. I disturbi di conversione sarebbero
piuttosto rari, infatti si calcola che ne risultano colpite al massimo 5 persone su 1000.

Scampare a un pericolo
Purtroppo, per alcune persone il fatto di essere scampate a un pericolo in cui hanno rischiato di
perdere la vita, ad esempio un incidente in barca, uno scontro violento, un’alluvione o un tornado,
segna l’inizio e non la fine di un trauma. Durante o subito dopo eventi stressanti possono manife-
starsi disturbi somatoformi (soprattutto i disturbi di conversione) e disturbi dissociativi.

Disturbo di somatizzazione. Le persone affette da disturbo di somatizzazione manifestano pro-


blemi fisici diversi e ricorrenti, non basati su una causa fisica significativa. Poiché questo modello
isterico venne descritta per la prima volta da Pier Briquet nel 1859, è conosciuto anche come sin-
drome di Briquet. Tale disturbo viene diagnosticato a persone che presentano una serie di sintomi,
tra i quali molti sintomi algici22 (ad esempio mal di testa e male al torace), sintomi gastrointestinali
(come nausea e diarrea), sintomi sessuali (disfunzione erettile e problemi mestruali) e sintomi neu-
rologici (ad esempio diplopia o paralisi). Chi soffre di disturbo di somatizzazione consulta diversi
medici sperando di trarne beneficio, descrive spesso i tanti sintomi in termini drammatici ed esage-
rati e, nella maggior parte dei casi, possono essere presentati sintomi ansiosi o umore depresso. In
genere si manifesta tra l'adolescenza e la prima età adulta e dura più a lungo rispetto ad un disturbo
di conversione. I sintomi possono essere fluttuanti nel tempo moderato scompaiono completamente
senza cura.

CASO 6.2
Sheila riferiva di avere un dolore all’addome da quando aveva 17 anni, perciò, fu effettuato un
intervento chirurgico esplorativo che non condusse a una diagnosi specifica. Aveva avuto varie
gravidanze, sempre con una forte nausea, vomito e dolori addominali; alla fine le fu praticata
un’isterectomia per “utero retroverso”. All’età di 40 anni, ha cominciato a soffrire di vertigini e

22
Il disturbo algico consiste nella presenza di dolore che è l'oggetto principale dell'attenzione del paziente e di conse-
guenza del medico. Algia, infatti, significa dolore localizzato.

81
Riassunti di Silvia Varro

perdita di sensi e da ultimo le fu detto che poteva trattarsi di sclerosi multipla o di un tumore ce-
rebrale. Continuò a restare a letto per lunghi periodi di tempo, affetta da debolezza, vista sfocata e
difficoltà a urinare. A 43 anni, a causa dei problemi di gonfiore e per l’intolleranza a una serie di
cibi, pensò di avere un’ernia iatale. Fu costretta ad altri ricoveri per accertamenti neurologici,
ipertensivi e renali, senza mai ricevere una diagnosi definitiva.

Disturbo algico associato con fattori psicologici. Laddove si rivela un ruolo importante dei fattori
psichici all'esordio, nel grado di gravità e nel mantenimento del dolore, ai pazienti può essere dia-
gnosticato il disturbo algico associato con fattori psicologici. In questo disturbo il dolore è la com-
ponente predominante. Anche le persone affette da un disturbo di conversione o di somatizzazione
possono provare dolore, ma in questo disturbo il dolore è la componente predominante.
Sembra essere piuttosto diffuso, può iniziare a qualunque età, in genere dopo un incidente o durante
una malattia che ha causato un dolore reale, e sembrerebbe che le donne abbiano una maggior pro-
babilità di risultarne affette. Si legga il caso di Laura, una donna di 36 anni che parla di dolori non
riconducibili alla sua malattia tubercolare, la sarcoidosi23.

CASO 6.3
Prima dell’intervento avevo dei dolori articolari, ma niente di troppo grave. Dopo l’intervento
avevo dolori acuti al petto e alle costole, problemi che avevo avuto in seguito all’intervento e di
cui non avevo mai sofferto prima. Mi recavo al pronto soccorso di notte, alle 11, alle 12 e all’1.
Prendevo la medicina e il giorno dopo il dolore era scomparso, ma ci tornavo di nuovo. Nel frat-
tempo, consultai altri medici per parlare con loro dello stesso disturbo, per scoprire quello che
non andava, ma neppure loro sono mai riusciti a capirlo. […] Certe volte, quando esco da sola
oppure con mio marito, dobbiamo tornare a casa presto perché comincio a provare dolore. Mol-
te volte non faccio niente, poiché il petto mi fa male per qualche ragione […]. Due mesi fa,
quando un medico mi controllò e un altro medico guardò le radiografie, disse che non c’era nes-
sun segno di sarcoidi e che stavano facendo delle ricerche sul sangue e su altre cose per vedere
se fosse connesso ai sarcoidi.

Poiché i disturbi somatoformi di tipo isterico sono molto simili a problemi fisici autentici, i medici
talvolta si fondano sulle incongruenze rilevate dalla descrizione dei sintomi per riuscire a distingue-
re gli uni dagli altri. I sintomi di un disturbo isterico possono, per esempio, presentare delle incoe-
renze rispetto alle conoscenze che possediamo sul funzionamento del sistema nervoso. Ad esempio,
in un sintomo di conversione chiamato anestesia a guanto la perdita di sensibilità inizia dal polso e
si estende fino alla punta delle dita, mentre un danno neurologico reale di rado è così violento o dif-
fuso in modo tanto uniforme.
Anche gli effetti di un disturbo isterico sul fisico possono risultare diversi da quelli del problema
medico corrispondente. Per esempio, se una paralisi, o paraplegia, colpisce gli arti inferiori ed è
causata da un danno al midollo spinale, e i muscoli delle gambe possono atrofizzarsi, perdere vigo-
re, in assenza di qualche terapia fisica. Se la paralisi è causata invece da un disturbo di conversione,
non si ha atrofia muscolare, probabilmente perché i muscoli vengono esercitati senza che il malato
ne sia cosciente. Analogamente, le persone che hanno un disturbo di conversione sotto forma di ce-
cità, hanno meno incidenti delle persone che hanno una cecità fisica: ciò indica che possono in
qualche modo vedere anche se non ne sono consapevoli.

23
La sarcoidosi è una malattia caratterizzata dalla formazione di noduli anomali, detti granulomi, formati da tessuto in-
fiammatorio.

82
Riassunti di Silvia Varro

I disturbi somatoformi di tipo isterico presentano delle differenze rispetto ai sintomi fisici prodotti o
simulati in modo intenzionale. Un paziente può, per esempio, darsi malato, ossia simulare una ma-
lattia in modo intenzionale per raggiungere qualche tipo di vantaggio, ad esempio, ricevere un in-
dennizzo economico. Oppure può intenzionalmente produrre o simulare sintomi fisici perché desi-
dera essere malato, ossia la motivazione di assumere il ruolo di malato è il ruolo stesso. In questo
caso i medici si pronunceranno diagnosticando al paziente un disturbo fittizio. Le persone affette
da un disturbo fittizio spesso esagerano i loro sintomi per dare l'impressione che si tratti di una ma-
lattia vera. Molti assumono farmaci di nascosto o si iniettano medicine che causano emorragie; la
febbre, in particolare, viene autoprocurata con facilità. Le persone con disturbi fittizi spesso cercano
la causa dei loro problemi presunti e dimostrano una conoscenza stupefacente della medicina.
Non è raro che gli psicoterapeuti e i medici si irritino con tali persone perché pensano, tra l’altro,
che queste rubino loro del tempo prezioso. Ma le persone con questo disturbo, come per la maggior
parte delle persone con disturbi psicologici, pensano di non poter controllare il loro problema e
spesso vivono in uno stato di grande disagio.
La forma estrema e cronica del disturbo fittizio è la sindrome di Münchhausen, nome derivante
dal barone di Münchhausen, un ufficiale di cavalleria del XVIII secolo che, di locanda in locanda,
raccontava storie fantastiche sulle sue inverosimili avventure in Europa. In un disturbo correlato, la
sindrome di Münchhausen per procura o disturbo fittizio per procura, i genitori inducono o
procurano delle malattie fittizi nei figli tanto da costringerli in certi casi a subire esami clinici dolo-
rosi, cure e interventi chirurgici (approfondimento pag. 161).

Dei disturbi somatoformi da preoccupazione fanno parte l'Ipocondria e il Disturbo di dismorfi-


smo corporeo. Le persone affette da questi disturbi travisano o reagiscono in modo eccessivo a sin-
tomi o ad anomalie dell'aspetto fisico indipendentemente da ciò che dicono amici, familiari, medici.
I disturbi da preoccupazione causano grande disagio, ma il loro impatto sulla vita di una persona è
diverso rispetto ai disturbi di tipo isterico.
Ipocondria. Le persone affette da ipocondria prestano un'attenzione esagerata a sintomi fisici inter-
pretandoli come segnali di una malattia vera e propria in atto nel loro organismo. Spesso i sintomi
sono normali manifestazioni fisiologiche, ad esempio colpi di tosse sporadici, rash cutanei o traspi-
razione. Alcuni pazienti sono coscienti del fatto che la loro preoccupazione è eccessiva, ma molti
invece non lo sono affatto. Può manifestarsi a qualunque età, anche se generalmente comincia più
spesso nella prima età adulta ed è ugualmente diffusa tra uomini e donne.

Ipocondria Disturbo di dismorfismo corporeo


✓ Preoccupazione basata su paure o convinzioni di esse- ✓ Preoccupazione per un problema
re affetti da una malattia rave, fondata su nell’aspetto, immaginato o esage-
un’interpretazione errata di sintomi fisici. La durata rato.
del disturbo è di almeno sei mesi.
✓ Persistenza della preoccupazione nonostante visite ✓ Disagio o menomazione signifi-
mediche specialistiche o la rassicurazione da parte dei cativi.
medici.
✓ Assenza di fissazioni.
✓ Disagio o menomazione significativi.
Disturbo di dismorfismo corporeo. Gli individui affetti da disturbo di di-
smorfismo corporeo, noto anche come dismorfofobia, si dimostrano molto
preoccupati per certi presunti difetti o trascurabili del proprio aspetto fisico.

83
Riassunti di Silvia Varro

Più frequentemente si concentrano su rughe, macchie della pelle, eccessiva peluria facciale, gonfio-
re del viso, aspetto del naso, bocca, mandibola o sopracciglia. Alcuni si preoccupano dell’aspetto di
piedi, mani, seno, pene o altre parti del corpo, mentre altri sono convinti di emanare cattivo odore a
causa di sudore, alito, genitali o retto (vedi il caso 4.10 a pagina 59)
Nella nostra società è piuttosto diffusa la preoccupazione per il proprio aspetto fisico, per esempio
molti adolescenti e giovani si affliggono per l’acne; tuttavia le persone affette da disturbo di dismor-
fismo corporeo non si limitano a preoccuparsi, ma sono seriamente angosciate da qualche particola-
re afferente al loro fisico, al punto di limitare in modo esagerato il contatto con gli altri, essere inca-
paci di guardare gli altri negli occhi o darsi molto da fare per nascondere i propri "difetti" (ad esem-
pio, indossare sempre gli occhiali da sole per nascondere la presunta forma irregolare dei propri oc-
chi). Circa la metà delle persone con questo disturbo ricorre a interventi di chirurgia estetica o a
cure dermatologiche, in seguito alle quali spesso la situazione non mi migliora affatto.
La maggior parte dei casi di disturbi di dismorfismo corporeo è iniziata nell' adolescenza, ma spes-
so passano molti anni prima che i soggetti parlino delle loro preoccupazioni. Colpisce nello stesso
modo i due sessi.

I disturbi somatoformi da preoccupazione vengono spiegati in modo molto simile ai disturbi d'ansia.
I comportamentisti, per esempio, ritengono che le paure presenti nell'ipocondria e nel disturbo di di-
smorfismo corporeo siano acquisite attraverso il condizionamento classico o il modellamento; i teo-
rici cognitivi avanzano l'ipotesi che le persone affette da questi disturbi sono molto sensibili ai se-
gnali fisici e li avvertono come una minaccia, tanto da giungere a fraintenderli.

Cure drastiche
Il 15% delle persone che si sottopongono a interventi di chirurgia estetica potrebbero risultare af-
fette da disturbo di dismorfismo corporeo.

Viceversa, i disturbi somatoformi di tipo isterico (di conversione, di somatizzazione e algici) sono
considerati in gran parte diversi e necessitano di particolari spiegazioni, anche se ancora oggi sono
scarsamente compresi. Gli antichi Greci pensavano che i disturbi isterici colpissero soltanto le don-
ne: si riteneva che l’utero di una donna insoddisfatta sessualmente si spostasse nel corpo per essere
appagato, producendo un sintomo fisico nell’organo in cui si fermava. Ippocrate affermava infatti
che il matrimonio era la migliore cura per questo tipo di disturbo. Diversi modelli spiegano il di-
sturbo.

La teoria psicoanalitica freudiana prese il via dai tentativi di spiegare i sintomi isterici. Freud era
infatti tra i pochi medici che all'epoca prendesse sul serio quei sintomi, considerando le pazienti
come affette da vere e proprie malattie. Giunse alla conclusione che disturbi isterici rappresentasse-
ro una conversione di conflitti intrapsichici inconsci in sintomi fisici. Constatando che la maggior
parte dei pazienti con disturbi isterici erano donne, Freud spiegò i disturbi isterici fondandosi sui bi-
sogni e sui desideri insoddisfatti delle bambine durante la fase fallica. Secondo Freud tutte le
bambine sviluppano il complesso di Elettra, ovvero provano delle pulsioni di natura sessuale per il
padre e al contempo si rendono conto che devono competere con la madre; essendo quest'ultima in
una posizione più potente, la bambina finisce con reprimere le sue pulsioni sessuali e rifiuta quei
primi desideri libidinali nei confronti del padre. Freud pensava che, se i genitori di una bambina
reagiscono in modo esagerato alle espulsioni sessuali, il conflitto di Elettra rimarrà irrisolto e la
bambina potrebbe vivere in età adulta in modo ansioso la sfera della sessualità, vivendo un bisogno
inconscio di nascondere i desideri sessuali a se stessa e agli altri. Secondo Freud alcune donne na-
scondono i loro desideri sessuali convertendoli inconsciamente in sintomi fisici.

84
Riassunti di Silvia Varro

Padri in attesa
I padri in attesa vivono talvolta una “gravidanza simpatetica” mostrando sintomi che riproducono
i mutamenti fisici della propria compagna incinta (ad esempio, aumento del peso, nausea, deside-
rio di cibi particolari, problemi di insonnia e mal di schiena). In alcune specie di scimmia si veri-
fica lo stesso fenomeno.

La maggior parte dei teorici psicodinamici attuali non concorda con la spiegazione freudiana, anche
se continuano a pensare che alla base di quei disturbi vi siano dei conflitti inconsci risalenti all'in-
fanzia che scatenano angoscia, convertita in sintomi fisici "più tollerabili". Secondo i teorici psico-
dinamici, due meccanismi agiscono nei disturbi somatoformi di tipo isterico: il guadagno primario e
il guadagno secondario. Gli individui conseguono un guadagno primario quando i loro sintomi
isterici mantengono i conflitti intimi fuori dalla coscienza: per esempio durante una discussione, un
uomo che ha delle paure inconsce sull’espressione della rabbia può sviluppare una paralisi di con-
versione del braccio, impedendo così ai suoi sentimenti di rabbia di affiorare alla coscienza. Gli in-
dividui conseguono un guadagno secondario quando i sintomi isterici permettono loro di evitare
anche attività sgradite o di ricevere attestazioni di simpatia da altri: per esempio, quando una parali-
si di conversione consente a un solato di sottrarsi al dovere di combattere oppure la cecità di con-
versione impedisce la rottura di una relazione.

Per i teorici comportamentisti, i sintomi fisici dei disturbi isterici rappresentano una ricompensa
per i malati; ad esempio, i sintomi possono sottrarre gli individui è una relazione spiacevole o attira-
re l'attenzione di altre persone. In risposta a queste ricompense, i malati imparano a manifestare i
sintomi in modo sempre più evidente. Inoltre, le persone che hanno familiarità con la malattia, ne
adotteranno più prontamente i sintomi fisici. In effetti, attraverso le ricerche si è scoperto che molti
malati sviluppano i sintomi isterici dopo che essi stessi, parenti o amici, hanno avuto dei problemi
medici simili. È evidente che l’attenzione dei comportamentisti sulla ricompensa richiama l’idea
psicodinamica del secondo guadagno.

I disturbi isterici sarebbero, secondo alcuni teorici cognitivi, forme di comunicazione che forni-
scono i mezzi per esprimere emozioni che altrimenti sarebbe difficile comunicare. Come i teorici
psicodinamici, i cognitivi ritengono che le emozioni dei pazienti con disturbi isterici vengano con-
vertite in sintomi fisici; sostengono, però, che il fine della conversione non sarebbe quello di pro-
teggere dall'ansia, ma trasformare sintomi gravi (rabbia, paura, depressione, senso di colpa, gelosia)
in un linguaggio del corpo familiare e rassicurante per il paziente.
Secondo questa visione, le persone che considerano difficile riconoscere o esprime le proprie emo-
zioni sono predisposte ai disturbi isterici, come lo sono quelle che conoscono il linguaggio dei sin-
tomi fisici attraverso un’esperienza in prima persona di problemi fisici reali. Poiché i bambini sono
meno capaci di esprimere le loro emozioni a parole, è particolarmente probabile che utilizzino i sin-
tomi fisici come strumento di comunicazione.

I clinici usano il termine somatizzazione per designare lo sviluppo di vari sintomi somatici in ri-
sposta al dolore psichico, l’elemento chiave dei disturbi somatoformi di tipo isterico. La somatizza-
zione di qualunque tipo è oggetto di riprovazione nei paesi occidentali, vista come una modalità in-
feriore di gestire le emozioni.

85
Riassunti di Silvia Varro

In realtà, la trasformazione di disagio personale in sintomi somatici è la regola in molte culture non
occidentali in cui la somatizzazione è considerata una reazione adeguata e meno stigmatizzate, sia
dalla società sia dai medici, ai fattori stressanti della vita.
Dagli studi è emersa l’esistenza di percentuali molto alte di somatizzazione in contesti medici non
occidentali nel mondo intero, inclusi quelli di Cina, Giappone e paesi arabi. Gli individui nei paesi
latini sembrano manifestare il maggior numero di sintomi somatici e le persone di cultura ispanica,
anche negli Stati Uniti, mostrano più sintomi somatici di fronte allo stress rispetto ad altri gruppi et-
nici. Anche il disturbo post-traumatico da stress, come ricorderai, risulta più diffuso tra gli ispa-
noamericani rispetto agli altri gruppi etnici negli Stati Uniti; tuttavia, questa tendenza esiste solo tra
gli ispanoamericani nati negli Stati Uniti o che hanno vissuto lì per un buon numero di anni, mentre
gli immigrati latini appena giunti mostrano una percentuale più bassa di disturbo post-traumatico da
stress rispetto agli altri individui dell’intero paese. È possibile che questi ultimi, non ancora influen-
zati dal pregiudizio occidentale contro la somatizzazione, reagiscano agli eventi traumatici con sin-
tomi abituali e che quei sintomi aiutino a prevenire l’insorgere di un PTSD conclamato.
Da queste scoperte di tipo multiculturale possiamo quindi apprendere che le reazioni ai vari fattori
di stress sono spesso influenzate dalla cultura di appartenenza e trascurare questo aspetto implica
il rischio di attribuire etichette errate o emettere diagnosi affrettate.

Sindrome dell’arto fantasma


Durante un’escursione nello Utah, Aron Ralston fu costretto ad amputarsi da solo un braccio ri-
masto bloccato sotto un macigno. Le persone che hanno perso un arto spesso continuano a sentire
il dolore e altre sensazioni dell’arto di cui sono privi. Inizialmente, si riteneva che questo dolore
fantasma fosse dovuto a un disturbo somatoforme algico, ma i neuroscienziati hanno poi scoperto
che, anche dopo l’amputazione, le aree cerebrali deputate a scatenare le sensazioni nell’arto re-
stano intatte e possono talvolta produrre l’illusione dell’arto ormai mancante.

Sebbene si ritenga che i disturbi somatoformi di tipo isterico derivino in gran parte da fattori psico-
logici e socioculturali, non bisognerebbe trascurare l'impatto dei processi biologici. Per rendercene
conto, occorre riflettere su ciò che hanno preso i ricercatori sui placebo e sull’effetto placebo.
Per secoli, i medici hanno constatato che i pazienti affetti da molti tipi di malattie, dal mal di mare
all’angina24, spesso trovano sollievo assumendo dei placebo, sostanze prive di un effetto medico
conosciuto. Perché i placebo svolgono una valida azione terapeutica? I teorici hanno sempre pen-
sato che i farmaci placebo operassero in modo puramente psicologico, ossia che il potere della sug-
gestione agisse quasi magicamente sul corpo. Più recentemente, tuttavia, i ricercatori hanno scoper-
to che una convinzione o un’aspettativa può mettere in azione alcune sostanze chimiche (ormoni,
linfociti, endorfine) nell'intero corpo in grado di produrre un effetto curativo.

CASO 6.5
Il nostro corpo è in grado di produrre molte sostanze che possono guarire un’ampia varietà di ma-
lattie e che, in genere, ci fanno sentire meglio e più energici. Quando il corpo secerne semplice-
mente queste sostanze in autonomia, abbiamo ciò che spesso viene definita “guarigione sponta-
nea”. Certe volte, il nostro corpo sembra reagire più lentamente e un messaggio dall’esterno può
servire come una sorta di sveglia data alla nostra farmacia interna. La risposta ai placebo può per-
ciò essere vista come una reazione della nostra farmacia interna a uno stimolo esogeno.

24
L’angina pectoris è una sindrome che, come indicano le parole latine, si manifesta con un dolore oppressivo al pet-
to o irradiato lungo la schiena, il braccio sinistro, il collo e la mandibola.

86
Riassunti di Silvia Varro

Se i placebo possono "svegliare" la nostra farmacia interna, forse gli eventi traumatici e le preoccu-
pazioni possono agire in modo direttamente opposto nei casi di disturbo di conversione disturbo, di
somatizzazione o disturbo algico associato con fattori psicologici. In altre parole, questi eventi e
reazioni possono effettivamente mettere in azione le nostre farmacie interne e provocare sintomi fi-
sici dei disturbi somatoformi di tipo isterico (effetto nocebo25).
Un caso estremo di ipocondria?
Non esattamente. Dopo che l’epidemia influenzale del 1918 uccise 20 milioni di
persone, in Giappone si iniziò a indossare una masuku per proteggersi da germi
vaganti. Alcune persone continuano a osservare questa tradizione durante la sta-
gione dell’influenza e delle malattie da raffreddamento.

Le persone affette da disturbo somatoforme si sottopongono alla psicoterapia solo con rimedio
estremo, poiché sono del tutto convinte che i loro problemi siano medici e inizialmente rifiutano
qualunque diagnosi di tipo diverso. Se un medico sostiene che i loro problemi non hanno alcuna
causa fisica, spesso si rivolgono ad altri medici. Alla fine, tuttavia, molti pazienti con questi disturbi
si sottopongono a psicoterapia, a terapie a base di psicofarmaci o a entrambe.
Gli individui con disturbi somatoformi da preoccupazione ricevono lo stesso tipo di trattamento
dei malati affetti da disturbo d'ansia, soprattutto da disturbi ossessivo-compulsivi. Gli studi rivelano
che i pazienti con disturbo da preoccupazione spesso migliorano se trattati con gli stessi farmaci an-
tidepressivi utilizzati nei casi di disturbo ossessivo-compulsivo.
In uno studio, 17 pazienti con disturbo di dismorfismo corporeo venivano trattati con l’esposizione
e prevenzione della risposta, un approccio comportamentale che spesso aiuta le persone con DOC.
Nel corso di quattro settimane, ai pazienti venivano ricordati ripetutamente i loro difetti fisici per-
cepiti e, al contempo, non si permetteva loro di fare alcunché per ridurre il disagio (per esempio,
controllare il loro aspetto). Alla fine del trattamento erano meno preoccupati dei loro difetti e passa-
vano meno tempo a controllarsi il corpo o il viso e a evitare i contatti sociali. L’approccio compor-
tamentista è sempre stato più associato con successo a un approccio cognitivo.
Le terapie cognitivo comportamentali vengono utilizzate anche con chi è affetto da ipocondria: i
terapeuti fanno ripetutamente notare ai pazienti le variazioni fisiche e impediscono loro di cercare di
attirare l'attenzione del medico. Inoltre, guidano i pazienti a identificare e a cambiare le convinzioni
connesse alla malattia che contribuiscono a mantenere il disturbo. I trattamenti per i disturbi soma-
toformi di tipo isterico spesso si concentrano sulla causa del disturbo e applicano gli stessi tipi di
tecniche usate nei casi di disturbo post traumatico da stress (insight, esposizione e terapie farmaco-
logiche). I terapeuti psicodinamici cercano di aiutare gli individui con disturbi isterici ad acquisire
consapevolezza delle loro paure inconsce e a risolverla.
I terapeuti comportamentali utilizzano anche l'esposizione, cioè il paziente viene esposto a condi-
zioni simili agli eventi terribili che per primi hanno scatenato il loro sintomi fisici così che diventino
meno ansiosi e, di conseguenza, più capaci di affrontare quegli stessi eventi anziché attraverso sin-
tomi fisici. I terapeuti biologici usano i farmaci antiansia o alcuni antidepressivi per aiutare a ri-
durre l’ansia di pazienti con disturbi isterici.

Influenza globale
Con l’occidentalizzazione dell’Oriente, le donne asiatiche sono state bombardate da pubblicità
che cercano di indurle a sottoporsi a interventi di chirurgia estetica, ad esempio ritocchi al viso
(gli interventi più diffusi), o interventi su altre parti del corpo. Il numero delle donne asiatiche che
effettuano interventi di chirurgia estetica è aumentato di sette volte negli ultimi 20 anni e più di

25
Nocebo è un termine, contrario di placebo, utilizzato per etichettare le reazioni negative o indesiderate che un sogget-
to manifesta a seguito della somministrazione di un falso farmaco completamente inerte, ma da esso percepito nocivo.

87
Riassunti di Silvia Varro

un terzo ora afferma di volere sottoporsi alla chirurgia estetica.

Altri terapeuti cercano di affrontare i sintomi fisici dei disturbi isterici più che le cause, ricorrendo a
tecniche quali suggestione, rinforzo o confronto. Coloro che utilizzano la suggestione offrono un
supporto emotivo ai pazienti ripetendo loro in modo persuasivo che i loro sintomi fisici spariranno
presto. I terapeuti che utilizzano un approccio basato sul rinforzo fanno in modo di privare della ri-
compensa i comportamenti disfunzionali di un paziente e di aumentare la ricompensa laddove agi-
sca comportamenti appropriati. Nell' approccio basato sul confronto il terapeuta cerca di indurre il
paziente uscire dal ruolo di malato spiegando che i loro sintomi non hanno alcun fondamento fisico.

Nell’interagire col mondo, la maggior parte di noi vive un senso di completezza e continuità, posse-
diamo un'identità, ovvero sappiamo chi siamo e quale posto occupiamo nel nostro ambiente. Gli
altri ci riconoscono e si aspettano certe cose da noi, ma la cosa più importante è che siamo consape-
voli di noi stessi e abbiamo aspettative, valori e obiettivi propri.
Da questa prospettiva, la memoria è un elemento chiave, essa rappresenta il legame tra il nostro
passato, il presente e il futuro. Il ricordo ci aiuta a reagire agli eventi presenti e ci guida nel prendere
le decisioni riguardo al futuro. La memoria ci consente di riconoscere i nostri amici e parenti, inse-
gnati e datori di lavoro, e di comportarci con loro in modo adeguato. Senza la memoria dovremmo
sempre ricominciare daccapo, non saremmo capaci di andare avanti.
La memoria può talvolta subire delle alterazioni di rilievo. È possibile, per esempio, perdere la ca-
pacità di ricordare nuove informazioni appena prese o informazioni vecchie che una volta si cono-
scevano bene. Quando queste alterazioni non sembrano avere una causa fisica evidente, sono chia-
mate disturbi dissociativi. Una parte della memoria della persona sembra in genere essere dissocia-
ta, o separata dal resto.
I disturbi dissociativi sono di diverso tipo. Vi è l'amnesia dissociativa il cui sintomo iniziale è l'in-
capacità di ricordare eventi e informazioni personali importanti. La fuga dissociativa implica il di-
menticare il passato, lo spostarsi in un altro luogo e assumere un'altra identità. Gli individui con di-
sturbo dissociativo dell'identità, detto anche disturbo da personalità multipla, hanno due o più iden-
tità separate che non sempre sono consapevoli rispettivamente dei pensieri, dei sentimenti e dei
comportamenti delle altre.
Sul disturbo dissociativo sono stati scritti molti libri e realizzati film memorabili, due dei più famosi
sono La donna dai tre volti e Sybil, i quali riguardavano una donna dalle personalità molteplici.
Tra i disturbi dissociativi elencati nel DSM-IV-TR vi è anche il disturbo di depersonalizzazione. Le
persone che ne risultano affette si sentono come se fossero separate dal proprio corpo o riferisco una
sensazione di estraneità ed è come se si osservassero dall'esterno.

Amnesia dissociativa Fuga dissociativa


✓ Una o più manifestazioni di incapacità a ricordare ✓ Allontanamento im-
informazioni personali importanti, in genere di na- provviso e inatteso da casa o
tura traumatica o stressante, che sono troppo estese dal luogo abituale di lavoro
per essere riconducibili a una normale tendenza a associato all’incapacità di
dimenticare. ricordare il proprio passa-
to.
✓ Disagio o menomazione significativi. ✓ Confusione sulla propria identità o
assunzione di una nuova identità.
✓ Disagio o menomazione significati-
vi.

88
Riassunti di Silvia Varro

Questo disturbo cancella il ricordo di informazioni importanti di solito di tipo traumatico, riguar-
danti la propria vita. In questo caso la perdita di memoria non può essere ricondotta alla normale
tendenza a dimenticare e non è neppure causata da fattori fisici. Durante il periodo dimenticato, l'e-
pisodio amnestico, le persone affette da questo disturbo possono apparire confuse, vagano senza
meta e sembra non essere consapevoli dei loro problemi di memoria. L'amnesia dissociativa può es-
sere:
1. Circoscritta: è il tipo più comune di amnesia dissociativa e comporta la perdita di tutta la me-
moria degli eventi che hanno avuto luogo in un certo periodo di tempo, in cui si è già verificato
un evento disturbante;
2. Selettiva: le persone ricordano alcuni, ma non tutti gli eventi accaduti in un certo periodo di
tempo;
3. Generalizzata: la perdita di memoria riguarda un periodo passato e molto precedente al periodo
del trauma;
4. Continuativa: il dimenticare perdura fino al periodo presente. Il dimenticare continuo in realtà
è piuttosto raro nei casi di amnesia dissociativa, ma non nei casi di amnesia di origine organica.

Ricordi d’infanzia
I nostri ricordi d’infanzia, secondo gli esperti, possono essere influenzati da reminiscenze dei fa-
miliari, dai nostri sogni, da immagini viste alla televisione, nei film o nelle fotografie e
dall’immagine che abbiamo di noi stessi.

Tutte queste forme di amnesia dissociativa sono simili in quanto l’amnesia interferisce soprattutto
con i ricordi di tipo personale, mentre la memoria di informazioni astratte o enciclopediche in gene-
re si conserva. È probabile che le persone con amnesia dissociativa, come chiunque altro, sappiano
il nome del presidente degli Stati Uniti e anche scrivere, leggere o guidare la macchina.
L’amnesia dissociativa sembra iniziare durante gravi minacce alla salute e alla vita:
- I di veterani guerra spesso riferiscono vuoti di memoria di ore o giorni e alcuni dimenticano
dei dati personali, come il nome e l’indirizzo;
- Le violenze subite da bambini, soprattutto di tipo sessuale (ad esempio negli anni Novanta vi
sono stati molti casi in cui gli adulti affermavano di ricordare esperienze a lungo dimenticate di
violenze subite nell’infanzia);
- Può verificarsi anche in situazioni più consuete, quali, ad esempio la perdita improvvisa di
una persona amata a causa di abbandono o morte o, ancora, in seguito ad un intenso senso di
colpa per aver commesso certe azioni (per esempio, una relazione extraconiugale).
L’impatto dell’amnesia dissociativa dipende dalla quantità delle cose che si dimenticano. Ovvia-
mente, un episodio amnesico di due anni è più grave di quello di una o due ore. Similmente, un epi-
sodio amnesico nel quale la vita di una persona cambia in maniera rilevante causa più difficoltà di
uno con conseguenze più trascurabili.

Nel corso degli anni Novanta ci sono stati alcuni casi di ricordi rimossi di abusi subiti
nell’infanzia: gli adulti con questo tipo di amnesia dissociativa sembravano recuperare memorie
sepolte da tempo riguardanti abusi sessuali e fisici della loro infanzia. Una donna poteva sostene-
re, per esempio, di essere stata molestata dal padre ripetutamente tra i 5 e i 7 anni. I ricordi rimos-
si riemergevano spesso nel corso di terapie riguardanti altri problemi.
Alcuni ritengono che i ricordi recuperati siano semplicemente ricordi terribili di violenze rimasti
sepolti nella mente per anni; mentre altri pensano che tali ricordi siano delle illusioni, ossia im-
magini false partorite da una mente confusa (i particolari della violenza sessuale infantile sono

89
Riassunti di Silvia Varro

spesso ricordati con troppa precisione).


Questi ultimi sottolineano che:
- la memoria può cadere spesso in errore ed è possibile creare false
memorie in laboratorio, stimolando l’immaginazione dei partecipanti;
- l’attenzione prestata a questo fenomeno dagli specialisti e dalla gente
comune ha spinto a volte i terapeuti a emettere diagnosi in assenza di prove
sufficienti e a incoraggiare i pazienti a produrre falsi ricordi (tecniche spe-
ciali per il recupero dei ricordi sono l’ipnosi, la terapia della regressione, il
diario, l’interpretazione dei sogni e l’interpretazione dei sintomi fisici).
- per motivi biologici o di altro tipo, alcuni individui sono più predisposti di altri ad avere falsi
ricordi, sia riguardanti le violenze durante l’infanzia sia di altro tipo.
È importante ribadire che gli esperti che mostrano diffidenza nei confronti del recupero dei ricor-
di rimossi nell’infanzia, non negano in alcun modo il problema dell’abuso sessuale sui minori.

La fuga dissociativa comporta l'incapacità di ricordare la propria identità personale e particolari


della propria esistenza passata, oltre a un allontanamento fisico dalla propria residenza abituale. In
alcuni casi i soggetti si spostano in un luogo non molto distante e stringono pochi contatti sociali nel
nuovo ambiente; la fuga può essere breve, questione di poche ore o giorni, e terminare improvvisa-
mente. In altri casi la persona può andare lontano da casa, cambiando nome, creandosi una nuova
identità, nuove relazioni e perfino una nuova attività lavorativa. Tali individui possono anche
mostrare una personalità diversa, spesso diventano più estroversi. Di seguito un episodio riguardan-
te questo disturbo avvenuto nel secolo scorso al reverendo Ansel Bourne:
CASO 6.7
Il 17 gennaio 1887 [il reverendo Ansel Bourne, di Greene, R.I.] prelevò 551 dollari da una banca
di Providence con cui pagare un terreno a Greene, pagò alcuni conti e a Pawtucket salì su un om-
nibus a cavalli. Questo è l’ultimo evento di cui si ricorda. Non fece ritorno a casa quel giorno e
non si seppe nulla di lui per due mesi. Sui giornali apparve la notizia della sua scomparsa e si so-
spettò che fosse stato ucciso, ma la polizia cercò invano nei dintorni. La mattina del 14 marzo a
Norristown, in Pennsylvania, un uomo, il signor A. I. Brown, che aveva affittato un piccolo ne-
gozio sei settimane prima, fatto scorte di cancelleria, dolciumi, frutta e oggetti vari e portava
avanti il suo commercio in modo tranquillo, senza sembrare per nulla strano o eccentrico, si alzò
spaventato e chiamò le persone della casa per chiedere dove si trovasse. Disse che il suo nome era
Ansel Bourne, che non sapeva nulla di Norristown, che non era un commerciante, e che l’ultima
cosa di cui si ricordasse, come se fosse il giorno prima, è che stava prelevando il denaro dalla
banca ecc. a Providence […]. Era molto debole, aveva perso forse più di dieci chili in quel perio-
do ed era tanto orripilato all’idea del negozio di dolciumi che rifiutò di rimetterci piede.

Come l’amnesia dissociativa, una fuga in genere fa seguito a un evento traumatico. Alcuni adole-
scenti che se ne vanno di casa forse stanno vivendo un episodio di fuga dissociativa. Come i casi di
amnesia dissociativa, le fughe di solito riguardano le memorie personali più di quelle enciclopedi-
che o astratte, Le fughe tendono a finire in modo brusco. In certi casi, come quello del reverendo
Bourne, la persona si "risveglia" in uno strano posto, circondata da volti poco familiari e si meravi-
glia di trovarsi in quel luogo. In altri casi, la mancanza di una storia personale passata può far sorge-
re il sospetto. Talvolta un incidente automobilistico o un problema legale conduce la polizia a sco-
prire l’identità falsa; altre volte sono gli amici a mettersi alla ricerca e a trovare la persona scompar-
sa.
Quando una persona viene ritrovata prima che lo stato di fuga sia finito, il terapeuta può ritenere ne-
cessario porle molte domande sui particolari della sua vita poiché il ricordo del passato può com-
portare una cancellazione degli eventi del periodo di fuga. In generale, chi vive la fuga dissociativa

90
Riassunti di Silvia Varro

riacquista la maggior parte o tutte le memorie e non ha mai una ricaduta. Poiché le fughe sono di so-
lito brevi e totalmente reversibili, gli individui tendono ad avere pochi effetti collaterali. Tuttavia:
- Le persone che sono state via per mesi o anni hanno spesso seri problemi ad adattarsi ai cam-
biamenti che si sono verificati durante il periodo di assenza;
- Coloro che in stato di fuga compiono atti violenti o illegali, devono anche affrontare le conse-
guenze.

Quest’anno il regalo di Natale è arrivato in anticipo per la famiglia Flores: il loro amato cane
Bear, scomparso nel novembre 1997, circa un mese dopo che si erano trasferiti nel nuovo quartie-
re, è ritornato a casa per la festa del Ringraziamento del 2003. Jeanie Flores, affacciandosi alla
finestra di casa due giorni prima della festa, vide un cane del tutto simile a Bear. Ricorda di avere
immediatamente pensato “Oh, mio Dio! Ma è il mio cane!” e il cane rispose. Jeanie scoppiò in
lacrime, poi chiamò il marito Frank, il quale si precipitò a casa, e dopo aver visto il cane, conven-
ne con la moglie che il loro beniamino, un incrocio tra labrador e un chow-chow marrone, era
proprio il loro Bear. Uno dei vicini disse loro di aver avvistato Bear poco prima, mentre vagava e
scrutava con attenzione le case.
Un veterinario lo visitò e disse che, sebbene le zampe fossero rosse e un po’ infiammate, forse
perché aveva camminato molto, pesava solo mezzo chilo in meno di quando era scomparso.
Qualcuno doveva essersi preso cura di lui. I Flores desidererebbero sapere solo che Bear potesse
dire loro dove è stato tutto quel tempo.

Il disturbo dissociativo dell'identità è drammatico e invalidante. Per comprenderlo meglio, si veda il


seguente caso di Eric:

CASO 6.8
Eric, 29 anni, stordito e pieno di lividi per le percosse, è stato ritrovato mentre vagava vicino a un
centro commerciale di Daytona Beach il 9 febbraio […]. Sei settimane dopo fu condotto al Cen-
tro di Risorse Umane di Daytona Beach e lì iniziò a parlare con i medici con due voci diverse:
quella del timbro infantile di “Eric da piccolo”, un bambino confuso e spaventato, e quella dal to-
no equilibrato di “Eric maturo” che raccontò una storia di paure e di maltrattamenti quando era un
minore. Secondo “Eric maturo”, dopo la morte dei suoi genitori, dei tedeschi immigrati, il padre
adottivo, un uomo violento, insieme alla sua donna lo prese dalla South Carolina e lo portò in un
covo di spacciatori di droga in una palude della Florida. Eric raccontò di essere stato violentato
da diversi membri della banda e di aver assistito all’omicidio di due uomini per mano del padre
adottivo.
Un giorno, a fine marzo, un counselor si allarmò nel vedere il viso di Eric storcersi in una smorfia
violenta. Eric emise un ringhio sinistro e sputò una serie di oscenità. “Mi ha fatto pensare alle
scene de L’esorcista”, disse Malcom Graham, lo psicologo che si occupa del caso al centro”. “È
la cosa più impressionante che io abbia mai visto in un paziente”. L’emergere di quella nuova
personalità che chiedeva, con insolenza, di essere chiamato Mark, era il primo indizio per Gra-
ham, e gli diceva che aveva a che fare con un disturbo raro e serio: la personalità multipla.
Altre manifestazioni di Eric emersero nelle settimane successive: Dwight, silenzioso e di mezza
età; Jeffrey, con cecità di tipo isterico e muto; Michael, macho e arrogante, Tian civettuolo, con-
siderato da Eric una puttana; Phillip, un avvocato polemico.
Sotto lo sguardo esterrefatto di Graham, Eric dispiegò una dopo l’altra 27 personalità diverse, in-
cluse tre donne. Dal punto di vista dell’età, andavano da un feto a un vecchio individuo sordido
che cercava di convincere Eric a combattere come mercenario ad Haiti. In una seduta Eric cambiò

91
Riassunti di Silvia Varro

nove personalità in un’ora. “Sentivo che stavo perdendo il controllo della seduta”, dice lo psico-
logo con nove anni di esperienza clinica. “Alcune personalità non parlavano con me e alcune
riuscivano a comprendere a fondo il mio comportamento come quello di Eric”.

Una persona affetta da disturbo dissociativo dell'identità, o disturbo da personalità multipla,


sviluppa due o più personalità diverse, chiamate spesso personalità secondarie o personalità al-
ternative. Ciascuna personalità secondaria, alternandosi, occupa il posto centrale e domina il fun-
zionamento di una persona. Solitamente si ha una personalità primaria oppure ospite che si manife-
sta più spesso delle altre. Il passaggio da una personalità secondaria all'altra, chiamato slittamento,
è in genere improvviso e può rivelarsi radicale. Eric, per esempio, storceva il viso, grugniva e urlava
oscenità mentre cambiavano le personalità. Lo slittamento è in genere scatenato da un evento stres-
sante, ma i clinici stessi possono causare il cambiamento con la suggestione ipnotica.
Molti clinici considerano il disturbo raro, ma alcune relazioni cliniche ipotizzano che potrebbe esse-
re molto più comune di quando si riteneva in passato. La maggior parte dei casi vengono diagnosti-
cate nei primi anni dell'adolescenza o nella prima età adulta, ma molto più spesso i sintomi ini-
ziano nell'infanzia dopo episodi di abuso (spesso di tipo sessuale), forse anche prima dei cinque
anni. Le donne vengono colpite dal disturbo in misura perlomeno tripla rispetto agli uomini.

✓ Presenza di due o più identità o personalità distinte.


✓ Controllo del comportamento di una persona esercitato in modo frequente da parte di almeno
due di queste identità o personalità.
✓ Incapacità di ricordare informazioni personali importanti troppo estesa per essere spiegata con
una normale tendenza a dimenticare.

Le personalità secondarie si rapportano l'una all'altra o si ricordano una dell’altra in tre diversi tipi
di relazioni:
1. Relazione di amnesia reciproca: le personalità non sono coscienti l'una dell'altra;
2. Modelli di consapevolezza reciproca: ognuna di esse è cosciente delle altre. Possono ascoltare
reciprocamente le voci e anche parlare l'una dell'altra, alcune possono apparire in armonia, men-
tre altre essere in conflitto;
3. Relazione di amnesia a senso unico: è il modello di relazione più comune, al-
cune personalità secondarie sono consapevoli delle altre, ma la consapevolezza
non è reciproca. Quelle consapevoli, chiamate personalità co-consce, sono os-
servatrici silenziose, consapevoli delle azioni e dei pensieri e delle altre subper-
sonalità, anche se non interagiscono con loro. Talvolta, mentre è presente
un’altra personalità secondaria, la personalità co-conscia si rende nota attraverso mezzi indiretti,
ad esempio allucinazioni sonore (una voce che dà ordini) o la scrittura automatica (la perso-
nalità presente può ritrovarsi a scrivere delle parole sulle quali non esercita alcun controllo).
Un tempo i clinici ritenevano che la maggior parte dei casi di disturbi dell’identità implicasse la
presenza di due o tre personalità secondarie, ma dagli studi attuali è emerso che il numero medio è
molto più alto, in media 15 per le donne e 8 per i maschi. In molti casi sono presenti 100 o più
personalità secondarie che spesso emergono in gruppi di due o tre per volta.
Nel caso di Eva White, resa famosa dal libro e dal film La donna dai tre volti, la donna aveva tre
personalità secondarie: Eva White (silenziosa e seria), Eva Black (spensierata e maliziosa) e Jane
(matura e intelligente). Nel libro si narra che queste tre personalità secondarie alla fine si unirono in
Evelyn, una personalità stabile che rappresentava davvero una fusione delle altre tre.

92
Riassunti di Silvia Varro

Ma il libro non diceva il vero: Eve rivelò che nel corso della sua vita erano emerse 22 personalità
secondarie in tutto, incluse 9 personalità secondarie dopo Evelyn; in genere si manifestavano in
gruppi di due o tre. Ora Eve ha superato il suo disturbo raggiungendo una sola identità stabile da più
di 30 anni: Chris Sizemore.

Le personalità secondarie, ad esempio nel caso di Chris Sizemore, spesso mostrano caratteristiche
diversissime e possono differire per:
Aspetti caratterizzanti: le personalità secondarie possono avere aspetti fondamentali diversi (età,
genere, razza e storia familiare), come nel famoso caso di Sybil Dorsett, la quale mostrava 17 per-
sonalità secondarie, tutte con aspetti caratterizzanti diversi. Vi erano delle persone adulte, un adole-
scente e una bambina di nome Ruthie, oltre a due maschi, Mike e Sid. Ognuna delle personalità se-
condarie aveva un’immagine particolare di se stessa e di ogni altra. La subpersonalità di nome Vic-
ky, ad esempio, si vedeva come una bionda attraente, mentre un’altra, Peggy Lou, era descritta co-
me un folletto con il naso schiacciato.
Competenze e preferenze: sebbene i ricordi relativi a informazioni astratte o in enciclopediche non
siano in genere coinvolte nell’amnesia o nella fuga dissociativa, sono spesso alterate in tale distur-
bo. Non è insolito che le personalità secondarie abbiano competenze diverse: una può saper guidare,
parlare una lingua straniera o suonare uno strumento musicale, mentre le altre non sono capaci di
farlo. Perfino la loro grafia può essere diversa. Inoltre, le subpersonalità hanno di solito preferenze
diverse verso il cibo, amici, musica e letteratura. Chris Sizemore precisò: “Se avessi imparato a cu-
cinare con una personalità e poi avessi provato a cucinare con un’altra, non sarei stata in grado di
farlo. Guidare era la stessa cosa. Alcune delle mie personalità non sapevano guidare”.
Risposte fisiologiche: le personalità secondarie possono avere delle differenze fisiologiche, ad
esempio delle differenze nell’attività del sistema nervoso autonomo, i livelli della pressione del
sangue e le allergie. Uno studio esaminò le attività cerebrali di personalità secondarie diverse misu-
rando i loro potenziali evocati, ossia i modelli della risposta cerebrale registrati con un elettroence-
falogramma. L’attività cerebrale prodotta in reazione a uno stimolo specifico (ad esempio
l’accendersi di una luce) è in genere unico e coerente. Tuttavia, quando un test del potenziale evoca-
to veniva somministrato a quattro personalità secondarie di ciascuna delle dieci persone con il di-
sturbo dissociativo dell’identità, il modello di attività cerebrale di ognuna di loro mostrava il tipo di
variazione di solito riscontrata in persone completamente diverse.

Il Disturbo Dissociativo dell’Identità in passato veniva considerato raro. Alcuni ricercatori sosten-
gono perfino che molti o tutti i casi siano iatrogeni, ossia intenzionalmente prodotti dai medici,
pensano perciò che siano i terapeuti a causare questo disturbo, implicando vagamente l’esistenza di
altre personalità durante la terapia o chiedendo esplicitamente a un paziente di produrre personalità
diverse mentre è in uno stato ipnotico. Essi ritengono, inoltre, che un terapeuta che vada alla ricerca
di personalità multiple, possa rinforzare questi modelli mostrando un maggiore interesse quando il
paziente manifesta sintomi dissociativi.
Queste ipotesi sembrano essere confermate dal fatto che molti casi di disturbo dissociativo
dell’identità si impongono inizialmente all’attenzione mentre la persona è già in cura per un pro-
blema meno grave. Tuttavia, questo non accade in tutti casi: molti si rivolgono a uno psichiatra per-
ché hanno notato dei vuoti di memoria o perché parenti o amici hanno considerato la presenza si va-
rie personalità secondarie.
Sebbene questo disturbo sia poco diffuso, solo negli Stati Uniti e in Canada sono stati diagnosticati
migliaia di casi. Due fattori potrebbero spiegare questo aumento:
1. Un crescente numero di clinici pensa che il disturbo esista e desidera diagnosticarlo;
2. Le procedure diagnostiche tendono a essere più precise rispetto al passato e per individuare il
disturbo dissociativo dell'identità sono stati ideati molti test diagnostici.

93
Riassunti di Silvia Varro

Questo disturbo viene classificato nel DSM-IV-TR tra i Disturbi Dissociativi. L'ICD-1026, invece,
prevede una singola categoria per i soggetti che presentano depersonalizzazione e derealizzazione:
la Sindrome di Depersonalizzazione-Derealizzazione.
Il disturbo di depersonalizzazione è caratterizzato da persistenti o ricorrenti episodi di depersonaliz-
zazione che si manifestano con un senso di distacco dal proprio corpo o dai propri processi men-
tali. Viene provata una sensazione di estraneità rispetto a se stessi come se i soggetti si vedessero
dall'esterno oppure come se si sentissero dentro un sogno o un film. La sensazione è quella di
un’anestesia sensoriale, in cui risulta che il corpo sia intorpidito oppure privo di vita o ancora al-
cune parti di esso siano collegate tra di loro. Queste esperienze sono accompagnate da vissuti emo-
tivi sgradevoli come ansia, panico e senso di vuoto. Il soggetto può riferire di sentirsi come un pu-
pazzo, distaccato, strano non coinvolto nella propria esistenza, estraneo a se stesso. L'esperienza di
derealizzazione, che si riferisce alla sensazione di estraneità rispetto al proprio ambiente, fa parte
del disturbo di Depersonalizzazione e l'ambiente viene descritto come se fosse piatto, distante, con-
fuso, estraneo alla propria esperienza e privo di connotazione emotiva.
Il disturbo prevede che l’esame di realtà si mantenga integro, per esempio, si conserva una certa
consapevolezza riguardo al fatto che l’estraneità provata rimanga nel dominio delle sensazioni.
Nonostante il mantenimento dell'esame di realtà, quest'esperienza provoca un disagio rilevante in-
terferendo con il funzionamento sociale e lavorativo. Dal momento che i sintomi di depersonalizza-
zione sono comuni, perché tale diagnosi possa essere effettuata, è necessario che essi siano partico-
larmente gravi e conducano ad un’effettiva menomazione del funzionamento sociale.
È difficile che la depersonalizzazione si presenti come un disturbo puro dato che i suoi sintomi pos-
sono essere presenti in altre patologie (schizofrenia, disturbo dissociativo dell'identità, depressione e
disturbo d'ansia) per questo motivo, affinché sia effettuata una diagnosi, è necessario che non si
manifesti congiuntamente con un altro disturbo mentale. È necessario, inoltre, che l'alterazione non
sia dovuta agli effetti di una sostanza, a una condizione medica generale, ad un’intossicazione acuta
oppure all'astinenza da alcool.
Ai fini diagnostici è necessario considerare anche la componente culturale, in quanto esperienze di
depersonalizzazione e derealizzazione possono essere indotte da pratiche di meditazione e trance
presenti in molte religioni e culture.
Episodi isolati e occasionali di depersonalizzazione sono sperimentate almeno del 50% della popo-
lazione per lo più donne al di sotto dei 40 anni che abbiano sperimentato situazioni in cui erano in
pericolo di morte. Il decorso solitamente è cronico e può variare rispetto all’intensità con cui si pre-
sentano gli episodi, la cui durata può variare da molto breve (secondi) a persistente (anni).

- È necessario differenziare il disturbo dai sintomi che si possono manifestare in seguito a una
condizione medica specifica (per esempio epilessia del lobo frontale);
- È necessaria una storia longitudinale dell’abuso di sostanze e dei correlati sintomi di deperso-
nalizzazione (intossicazione acuta o astinenza da alcool possono causare depersonalizzazio-
ne);
- Qualora i sintomi si presentassero solamente durante un attacco di panico, parte di un quadro di
disturbo di panico, di fobia sociale o specifica, o di disturbo post-traumatico o acuto da
stress, il disturbo di depersonalizzazione non dovrebbe essere diagnosticato separatamente;
- Si differenzia anche dalla schizofrenia in quanto l’esame di realtà rimane intatto;
- Per quanto la sensazione di intorpidimento ricordi la depressione, essa si manifesta anche
quando il soggetto non è depresso, ed è connessa ad altri sintomi di depersonalizzazione, come
ad esempio la sensazione di distacco da se stessi.

26
Classificazione Statistica Internazionale delle Malattie e dei Problemi Sanitari Correlati

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Riassunti di Silvia Varro

Nell'ottica psicoanalitica il disturbo dissociativo viene spesso sostituito con i termini rimozione e
scissione. Freud adottò il termine rimozione per riferirsi a quell'operazione psichica con cui l'indi-
viduo tenta di respingere nell'inconscio alcune rappresentazioni legate a una pulsione. Questo mate-
riale rimane attivo a livello inconscio e riemerge a livello fenomenologico sotto forma di sintomo
fisico. Ferenczi parla, invece, di scissione. In seguito ad un'esperienza traumatica una parte del ri-
cordo viene scissa e relegata nell'inconscio poiché è potenzialmente annichilente e disgregante. La
considera, quindi, una difesa contro l'angoscia e il dolore esperiti tesa a garantire la sopravvivenza
psichica del soggetto. Kohut esplicita un'importante distinzione tra:
- Scissione orizzontale: corrisponde al meccanismo della rimozione e implica il trasferimento dei
contenuti psichici traumatici nell'inconscio. Si assiste quindi è una divisione orizzontale dell'Io
in due livelli: a un livello superiore il contenuto è ancora accessibile alla coscienza, mentre tutto
ciò che non lo può essere viene spostato a quello inferiore;
- Scissione verticale: è riconducibile alla dissociazione, l'Io si separa verticalmente creando stati
di coscienza paralleli in cui sono relegati contenuti differenti e antitetici. In questo caso si pre-
sentano momenti in cui un aspetto scisso può essere escluso dalla coscienza, ma a differenza
della rimozione esso resta comunque accessibile.
La dissociazione, al pari dell’ansia, riveste un valore adattivo laddove, in condizioni di estremo
arousal emozionale, l'Io relega le rappresentazioni traumatiche in "sacche mnestiche" isolate dalla
coscienza, al fine di preservare la propria integrità. Assume una dimensione disadattiva e patolo-
gica qualora diventi una modalità persistente.
Essa si manifesta in condizioni traumatiche in cui appare “la via di fuga quando non c’è via di fu-
ga”, capace di contrastare l’emergere di emozioni traumatiche intollerabili. In tali condizioni essa
opera come una funzione anti-riflessiva che impedisce il soggetto di mentalizzare gli stati affettivi
dolorosi. La funzione riflessiva, viceversa, è la capacità di riconoscere e comprendere l’esperienza
psicologica propria e degli altri. Lo sviluppo di tale capacità permette al bambino di dare un senso e
rendere prevedibile il comportamento altrui, di interpretarlo e mettere in atto delle risposte adattive.
Secondo Kernberg la differenza tra dissociazione e scissione risiede nel fatto che nella prima ad
essere indebolite sono la memoria e la coscienza, nella seconda la capacità di tollerare l'ansia e la
frustrazione e il controllo degli impulsi. Esistono tre differenti tipologie di dissociazione:
1. Dissociazione primaria: contenuti non elaborabili vengono immagazzinati in aree somato-
sensoriali senza essere integrati nella narrativa del soggetto e se stimolati ritornano alla coscien-
za sottoforma di flash-back e pensieri intrusivi;
2. Dissociazione secondaria: l'Io osservante si separa dall’Io che vive l'esperienza generando nel
soggetto la sensazione di guardare dall'esterno il proprio corpo che sta vivendo l’esperienza
traumatica;
3. Dissociazione terziaria: rappresenta la manifestazione più drammatica e implica la scissione in
personalità distinte.
Bromberg propone un modello relazionale dell'apparato psichico organizzato in stati del Sé molte-
plici discontinui, il cui meccanismo di difesa principale è la dissociazione. Essa è da considerarsi
patologica quando, in seguito ad un trauma, assume una struttura rigida che non permette la fluida
interconnessione degli stati molteplici dal Sé.
In conclusione, la dissociazione è caratterizzata dalla non integrazione di alcuni aspetti di memoria,
percezione, identità e coscienza. Essa si attiva come difesa a fronte di un'esperienza traumatica in
cui il soggetto sperimenta un senso di impotenza e di perdita del controllo sul proprio corpo, in que-
sto modo la dissociazione permette di mantenere un illusorio controllo.
La posizione psicodinamica riceve conferma da storie di casi che riferiscono di esperienze di vio-
lenza vissuta durante l'infanzia o di maltrattamenti. Eppure, alcuni soggetti con disturbo dissociati-
vo dell'identità non sembrano aver avuto esperienze di abuso.

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Riassunti di Silvia Varro

I comportamentisti considerano la dissociazione una risposta appresa attraverso il condizionamento


operante. Ad esempio, se si vive l'esperienza di un evento terrificante, è possibile trovare un sollie-
vo temporaneo nel dirigere la mente su altri temi. Per alcuni, questo dimenticare temporaneo che
conduce a una diminuzione dell’ansia, accresce la probabilità di un futuro oblio. In breve, l’atto del
dimenticare rappresenta per loro un rinforzo e apprendono, senza esserne consapevoli, che queste
azioni li aiutano a evitare l’ansia. Quindi, come i teorici psicodinamici, i comportamentisti conside-
rano la dissociazione un comportamento di fuga ma, a differenza dei primi, pensano che sia un pro-
cesso di rinforzo, più che un inconscio molto attivo, a far sì che gli individui non siano consapevoli
di utilizzare la dissociazione come mezzo di fuga.
La spiegazione comportamentista però non riesce a chiarire in che modo la fuga temporanea di
memoria dolorose possa trasformarsi in un disturbo complesso o perché più persone non sviluppino
un disturbo dissociativo.

Distrazione: spesso non riusciamo a ricordare un’informazione perché i nostri pensieri sono ri-
volti altrove. Se non abbiamo captato l’informazione subito, non stupisce che più tardi non la ri-
cordiamo.
Déjà vu: quasi tutti abbiamo certe volte la strana sensazione di riconoscere una scena, un luogo o
una persona che vediamo per la prima volta, sentiamo di averla già vista o già vissuta.
Mai visto: talvolta abbiamo un’esperienza opposta, cioè una situazione, un oggetto, un luogo o
una scena che appartiene alla nostra vita quotidiana ci sembra improvvisamente estranea: “sapevo
che era la mia macchina, ma era come se non l’avessi mai vista prima”.
Il fenomeno “ce l’ho sulla punta della lingua”: è una sensazione di sapere profonda. Siamo in-
capaci di ricordare qualche informazione, ma sappiamo di conoscerla.
Immagini eidetiche: alcuni rivedono le immagini visive postume così intensamente da riuscire a
descrivere un’immagine nei dettagli dopo averla guardata una sola volta. Le immagini possono
essere ricordi di quadri, eventi, fantasie o sogni.
Ricordi del momento dell’anestesia: circa 2 pazienti su 1000 anestetizzati elaborano numerosi
elementi di ciò che viene detto loro in presenza durante l’intervento, tanto da avere dei problemi
nella guarigione. In molti casi di questo tipo, la capacità di comprendere il linguaggio continua
durante l’anestesia, anche se il paziente non riesce esplicitamente a ricordarlo.
Memoria musicale: Mozart, anche quando era molto piccolo, riusciva a memorizzare ed eseguire
un brano musicale dopo averlo sentito una sola volta. Mentre nessun altro è stato in grado di
eguagliare il genio di Mozart, molti musicisti possono riascoltare mentalmente interi brani musi-
cali tanto da poter provare ovunque, anche lontano dai loro strumenti musicali.
Memoria visiva: la maggior parte delle persone ricorda le informazioni visive meglio di altri tipi
di informazione. Facilmente possono richiamare alla mente l’aspetto di luoghi, oggetti, visi o pa-
gine di un libro. Quasi mai dimenticano un viso, anche se possono dimenticare il nome della per-
sona.
Memoria verbale: alcune persone ricordano i suoni o le parole particolarmente bene e i ricordi
che riemergono nella loro mente sono spesso giochi di parole o versi.

Se le persone imparano qualcosa quando sono in una particolare situazione o stato psicologico, è
probabile che lo ricordino meglio quando sono di nuovo in quella stessa situazione. Ad esempio, se
fumano durante un compito di apprendimento, tenderanno a ricordare meglio l’informazione qualo-
ra fumino nuovamente. Questo legame tra stato e il ricordo viene definito apprendimento stato-
dipendente: tipo di apprendimento connesso le condizioni in cui esso è avvenuto e che viene me-

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Riassunti di Silvia Varro

glio ricordato quando si è nel medesimo stato in è stato originariamente appreso. La prima volta è
stato osservato negli esperimenti con gli animali non umani, che imparavano le cose mentre erano
sotto l’effetto di certi farmaci. Successivamente la ricerca con partecipanti umani ha dimostrato che
l’apprendimento stato-dipendente può essere associato anche a stati di umore: per esempio le cose
apprese mentre si è felici vengono ricordate meglio quando i partecipanti sono di nuovo felici (lo
stesso accade quando si è tristi).
Quali elementi causano l’apprendimento stato-dipendente? Un livello particolare di arousal com-
porterà una serie di ricordi relativi a eventi, pensieri e competenze legati ad esso, quando una situa-
zione produce quel particolare livello di arousal, è più probabile che la persona esperisca dei ricordi
connessi ad esso.
In coloro che sono predisposti a sviluppare disturbi dissociativi, i collegamenti stato-memoria po-
trebbero essere insolitamente rigidi e probabilmente ciascuno dei loro pensieri, ricordi e competen-
ze è collegato esclusivamente ad un particolare stato di arousal tanto che essi ricordano un dato
evento solo quando vivono quel determinato stato di arousal. Quando questi individui sono calmi,
per esempio, possono dimenticare ciò che è accaduto nei momenti stressanti permettendo l'insorgere
dell'amnesia o della fuga dissociativa.

Le affinità presenti tra l'amnesia ipnotica e disturbi dissociativi hanno portato alcuni teorici a soste-
nere che, questi ultimi, possano essere una forma di autoipnosi, in cui le persone si ipnotizzano per
dimenticare eventi spiacevoli. Se l'amnesia autoindotta coinvolge tutti i ricordi del passato e dell'i-
dentità dell'individuo, quella persona può essere soggetta ad una fuga dissociativa. L'autoipnosi può
essere utilizzata anche per spiegare il disturbo dissociativo dell’identità; infatti, alcuni teorici pen-
sano che questo disturbo insorga spesso tra i 4 e i 6 anni, una fase in cui i bambini sono molto sug-
gestionabili e perciò si prestano essere ipnotizzati. Questi teorici sostengono che alcuni bambini vit-
time di abusi tentino di sfuggire a una realtà minacciosa attraverso l'autoipnosi, separandosi men-
talmente dal loro corpo e realizzando il desiderio di diventare una o più persone diverse. Talvolta le
persone affette da amnesia e fuga dissociativa guariscono spontaneamente; in altri casi, i loro pro-
blemi di memoria perdurano e richiedono una cura.
Ipnosi: miti da sfatare.
Mito Realtà
L’ipnosi si fonda sul fatto di avere una buona L’immaginazione vivida non predispone
immaginazione. all’ipnosi.
L’ipnosi è pericolosa. L’ipnosi non causa più disagio di una lezione.
L’ipnosi ha qualcosa in comune con lo stato di I soggetti ipnotizzati sono completamente sve-
sonno. gli.
Le persone ipnotizzate perdono il controllo di Le persone ipnotizzate sono perfettamente in
se stesse. grado di dire no.
Le persone ricordano con maggiore precisione L’ipnosi può aiutare a creare falsi ricordi.
sotto ipnosi.
Le persone ipnotizzate possono essere spinte a Le persone ipnotizzate seguono interamente i
compiere azioni immorali. loro valori abituali.

Le persone con disturbo dissociativo dell'identità in genere necessitano di cure per riappropriarsi dei
ricordi perduti e per sviluppare una personalità integra. I trattamenti per l'amnesia e la fuga disso-
ciativa tendono ad essere più efficaci rispetto a quelli del disturbo dissociativo dell'identità. I tratta-
menti principali per l'amnesia e la fuga dissociativa sono:

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Riassunti di Silvia Varro

- Terapia psicodinamica: i terapeuti guidano i pazienti a indagare il loro inconscio nel tentativo
di riportare alla coscienza le esperienze traumatiche dissociate. Sembra essere la più efficace per
questi disturbi.
- Terapia ipnotica (o ipnoterapia): i pazienti sotto ipnosi vengono guidati a ricordare eventi di-
menticati; può rilevarsi uno strumento particolarmente utile sia utilizzata da sola sia in combi-
nazione con altri approcci.
- Terapia farmacologica: sono utilizzate le iniezioni endovenose di barbiturici come il sodio
amobarbital (Amytal) o sodio pentobarbital (Pentothal) per aiutare i soggetti a recuperare i
loro ricordi. Anche se questi farmaci sono spesso definiti “siero della verità”, l’elemento chiave
della loro efficacia è la capacità di calmare e liberare le persone dalle inibizioni, aiutandole a ri-
cordare gli eventi ansiogeni o traumatici. Non sempre funzionano se utilizzati da soli, perciò è
consigliabile combinati con altri tipi di approcci.
Le persone affette da disturbo dissociativo dell'identità, a differenza dei soggetti di amnesia e fu-
ga dissociativa, non migliorano senza cura. La terapia per questo disturbo è complessa e difficile,
proprio come il disturbo. I terapeuti in genere cercano di aiutare i pazienti a:
1. Essere consapevoli del disturbo: i terapeuti tentano di stabilire un legame con la personalità
primaria e con ognuna delle personalità secondarie. Dopo di che cercano di informare i pazienti
e di aiutarli a essere consapevoli della natura del loro disturbo. Alcuni terapeuti presentano ogni
personalità secondaria a un'altra sotto ipnosi, mentre altri invitano i pazienti a guardare le altre
personalità su un videoregistratore. La terapia di gruppo aiuta a far capire ai pazienti la natura
del loro disturbo. Anche la terapia familiare può essere utilizzata per aiutare a informare il co-
niuge e i figli sul problema e a raccogliere informazioni utili sul paziente.
2. Recuperare i ricordi: i terapeuti utilizzano molti degli approcci applicati ad altri disturbi disso-
ciativi (ad es. la terapia psicodinamica, l’ipnoterapia e la cura farmacologica), ma queste tecni-
che richiedono molto tempo in quanto alcune personalità possono continuare a negare l'espe-
rienza che le altre ricordano. Una delle personalità secondarie può perfino assumere un ruolo
“protettivo” per impedire alla personalità primaria di affrontare le sofferenze che il ricordo di
esperienze traumatiche può comportare.
3. Integrare le personalità secondarie: l'unione finale delle diverse personalità secondaria viene
definita fusione. Molti pazienti non credono nell'obiettivo della cura, inoltre, le loro personalità
secondarie potrebbero considerare l'integrazione come una specie di morte. Una volta che le
personalità secondarie sono integrate, si richiede in genere una terapia di mantenimento affinchè
la personalità resti integra e per promuovere lo sviluppo di risorse pratiche in grado di contrasta-
re eventuali dissociazioni successive in futuri momenti stressanti.

Hanno detto
“Il passato non è mai morto, non è neppure passato” William Faulk-
ner
“Molti confondono le fantasie con i ricordi” Josh Billings

Il DSM 5 ha proposto molti cambiamenti relativi ai disturbi analizzati. Ha suggerito che tre disturbi
somatoformi (disturbo di somatizzazione, disturbo algico associato a fattori psicologici e alcuni tipi
di ipocondria) possono essere considerati un nuovo e unico disturbo: il disturbo da sintomi soma-
tici complessi. Questi tre disturbi hanno in comune due aspetti chiave: i sintomi somatici e le rile-
vanti distorsioni cognitive, ad esempio le preoccupazioni esagerate e persistenti sulla gravità di quei
sintomi. È stato proposto un nuovo disturbo, il disturbo da sintomi somatici semplici, per i casi
meno gravi (meno sintomi somatici, meno distorsioni cognitive o una durata inferiore rispetto alla
precedente categoria). Inoltre, ha suggerito un nuovo disturbo, l'ipocondria senza sintomi somatici
nei casi di ipocondria in cui i sintomi somatici sono lievi.

98
Riassunti di Silvia Varro

Il DSM-V ha proposto di non tenere in considerazione il concetto secondo il quale i sintomi somati-
ci presenti debbano essere "non giustificati da una condizione medica". In alcuni casi, infatti, i sin-
tomi somatici potrebbero perfino essere connessi ad una condizione medica nota, ma i livelli di di-
sagio soggettivo, ansia e preoccupazione per la malattia risultano spropositati rispetto alla gravità.
Inoltre, il DSM-5 ha suggerito che il gruppo del DSM IV-TR "Disturbi somatoformi" sia sostituito
da un nuovo gruppo "Disturbi da sintomi somatici". Perciò le nuove categorie disturbo da sintomi
somatici complessi, disturbo da sintomi somatici semplici e ipocondria senza sintomi somatici sa-
rebbero tutte parte di questo gruppo, come il disturbo di conversione e i disturbi psicofisiologici.
Invece, il disturbo di dismorfismo corporeo farebbe parte dei "Disturbi ossessivo-compulsivi e
correlati". I cambiamenti proposti per i disturbi dissociativi sono relativamente pochi; il più impor-
tante è l'inserimento della fuga dissociativa nella categoria della amnesia dissociativa. Ossia, l'allon-
tanamento da un luogo e l'assunzione di una nuova identità da parte di un individuo durante un epi-
sodio di amnesia sarebbero considerati semplicemente una forma più grave di amnesia dissociativa.

99
Riassunti di Silvia Varro

Capitolo 7

L'umore è altalenante nella maggior parte delle persone. Nelle persone con Disturbo dell'umore, in-
vece, le sensazioni tendono a perdurare a lungo. L'umore influenza ogni interazione del soggetto
con il resto del mondo e interferisce con il suo funzionamento normale. Le due polarità entro le qua-
li si dispongono i disturbi dell'umore sono la depressione e l'euforia correlata alla mania. La de-
pressione è una condizione di umore triste e deflesso. L'euforia, invece, è una condizione psicologi-
ca opposta alla depressione; è caratterizzata da grande energia frenetica, illimitata fiducia nelle pro-
prie capacità, spesso con idee di grandezza e/o di riferimento. Nella maggior parte delle persone con
un disturbo dell'umore è presente solo la depressione, un modello detto Depressione Unipolare (o
Disturbo Depressivo Maggiore). Le persone che ne soffrono non hanno una storia di episodi mania-
cali e il loro umore torna normale quando la depressione si attenua.
In altri soggetti, invece, si alternano episodi di mania con periodi di depressione, un modello che
prende il nome di Disturbo Bipolare (Disturbo Bipolare I, Episodio Maniacale Singolo, riguarda
individui con un primo episodio di mania in atto; Disturbo Bipolare II, Episodi Depressivi Maggiori
Ricorrenti con Episodi Ipomaniacali).

Tutti tendiamo a definirci “depressi” ogni volta che ci sentiamo particolarmente abbattuti. Con ogni
probabilità, la nostra è una semplice reazione a eventi tristi, all’affaticamento o a pensieri tristi.
Questo uso disinvolto del termine confonde una variazione di umore perfettamente normale con una
sindrome clinica. Tutti possono essere infelici di tanto in tanto, ma solo alcuni soffrono di Depres-
sione Unipolare. Nella depressione unipolare è presente un dolore psicologico grave e duraturo.
Coloro che ne soffrono possono perdere la voglia di eseguire le attività quotidiane più semplici, fino
ad arrivare a perdere anche la voglia di vivere.
Quasi in tutti i paesi la depressione unipolare grave colpisce le donne in misura doppia rispetto agli
uomini. In circa la metà delle persone si assiste ad una remissione della sintomatologia entro 6 set-
timane e nel 90% entro un anno, in alcuni casi anche senza alcun trattamento. Tuttavia, la maggior
parte di queste persone ha una ricaduta nella depressione negli anni successivi.

Il quadro della depressione può presentare delle differenze da una persona all'altra e può manife-
starsi con numerosi sintomi, non solo con la tristezza. Tali sintomi, che spesso s’innestano uno
sull’altro, riguardano cinque aree di funzionamento: emotivo, motivazionale, comportamentale, co-
gnitivo e fisico.
Sintomi emotivi. La maggior parte dei depressi e abbattuti. Parlando di sé, si definiscono con ag-
gettivi come infelice, svuotato e insignificante. Tendono a perdere il senso dell'umorismo, dicono di
non trarre alcuna gioia da ciò che li circonda e in alcuni casi manifestano anedonia, ossia incapacità
assoluta di provare appagamento e piacere. Questa profonda infelicità può causare accessi di pianto.
Sintomi motivazionali. Le persone depresse, in genere, non hanno più voglia di dedicarsi alle loro
attività consuete, sebbene queste, prima dell’insorgere del disturbo, procurassero loro soddisfazione.
Quasi tutti riferiscono mancanza di stimoli, iniziativa e spontaneità. Spesso devono sfor-
zarsi per andare al lavoro, parlare con amici, mangiare regolarmente, avere rapporti ses-
suali. Nel caso 7.2, ad esempio, l’autrice di Black Pain, un libro sulla depressione degli
afroamericani, descrive l’isolamento sociale durante un episodio depressivo. Il suicidio27
rappresenta la fuga definitiva dalle difficoltà della vita: molte persone depresse perdono inte-

27
Secondo i calcoli, il suicidio riguarda fra il 6 e il 15% dei depressi gravi.

100
Riassunti di Silvia Varro

resse nella vita o desiderano morire; altre vorrebbero essere capaci di togliersi la vita e alcune effet-
tivamente ci riescono.

CASO 7.2
Mi sono svegliata una mattina con lo stomaco annodato dalla paura, una paura talmente totaliz-
zante da non sopportare la luce, meno ancora l’idea della giornata, e così intesa che rimasi a let-
to per tre giorni, con le tende tirate e le luci spente. Tre giorni senza rispondere al telefono. Tre
giorni senza controllare le e-mail. Ero completamente scollegata dal mondo esterno e non me ne
importava nulla. Poi, la mattina del quarto giorno, qualcuno ha bussato alla mia porta. Poiché
non avevo ordinato niente, non andai ad aprire. Continuavano a bussare e io continuavo a non
aprire. Sentii il rumore delle chiavi nella serratura dell’ingresso. La porta della camera si aprì
lentamente e nella luce cruda proveniente dal corridoio distinsi le sagome di due vecchie amiche.
“Terrie, sei qui?”

Sintomi comportamentali. Le persone depresse sono in genere meno attive e meno produttive.
Passato molto tempo da sole e possono restare a letto per lunghi periodi. Un uomo ricorda: “Mi
svegliavo preso, e rimanevo lì… che senso aveva alzarsi per un’altra giornata infelice?”. A volte si
muovono e parlano più lentamente.
Sintomi cognitivi. I soggetti depressi hanno una visione di se stessi estremamente negativa. Si con-
siderano inadeguati, indesiderabili, inferiori, persino cattivi e sgradevoli. Si attribuiscono la colpa di
quasi tutte le disgrazie, anche di eventi che non hanno nulla a che fare con loro, mentre di rado rie-
scono a gioire dei risultati positivi. Anche il pessimismo è un sintomo cognitivo della depressione:
sono generalmente convinti che niente migliorerà e si sentono impossibilitati a modificare anche il
più piccolo aspetto della loro vita. Poiché temono sempre il peggio, tendono a rimandare e procra-
stinare decisioni e cambiamenti. Sono i soggetti più vulnerabili alle idee anticonservative, a causa
della disperazione e del senso di impotenza che esperiscono. Le persone depresse affermano spesso
di essere meno intelligenti degli altri, lamentano di non sentirsi alla loro altezza esperendo intensi
vissuti di inferiorità e di inadeguatezza. Si sentono confuse, non riesco a ricordare le cose, si di-
straggono facilmente e pensano di non essere grado di risolvere neppure i problemi più semplici.
Negli studi di laboratorio è emerso che in effetti i soggetti depressi ottengono punteggi inferiori ri-
spetto ai non depressi in alcuni test di memoria, attenzione e ragionamento. Tali difficoltà potrebbe-
ro tuttavia essere il riflesso di problemi emozionali anziché cognitivi.
Sintomi fisici. Le persone depresse presentano spesso sintomi come mal di testa, cattiva digestione,
costipazione, episodi di vertigini e dolori generici. Capita non di rado, infatti, che la depressione
venga mascherata (si pensi, ad esempio, al fenomeno della Pseduodemenza, in cui il deterioramento
del soggetto non è imputabile a cause di tipo organico, bensì a una depressione – spesso sottosoglia
– che inficia le funzioni esecutive) da una problematica medico e diagnosticata come tale. Partico-
larmente frequenti sono i problemi legati all'appetito e al sonno. La maggior parte dei soggetti de-
pressi mangia di meno, dorme peggio e si sente più affaticata rispetto al periodo precedente l'insor-
genza del disturbo. Alcuni, tuttavia, mangiano e dormono molto di più. Ad esempi Terrie Williams,
nel Caso 7.3, descrive i cambiamenti nel suo modello di sonno.

CASO 7.3
All’inizio non mi resi conto del cambiamento. Poi le cose sono peggiorate. Ho sempre detestato
svegliarmi, ma questa mia caratteristica si stava lentamente trasformando in qualcosa di più
profondo, non era tanto che non volessi svegliarmi, quanto che proprio non potevo. Non mi sen-
tivo stanca, ma non avevo energie. Non avevo neppure sonno, ma avrei molto gradito poter dor-
mire. Avevo la sensazione di un peso enorme, invisibile ma gigantesco, che mi schiacciava nel
letto, quasi inchiodandomi al materasso.

101
Riassunti di Silvia Varro

Il “baby blues” è talmente diffuso (lo prova circa l’80% delle neomadri) che la maggior parte dei
ricercatori lo considera normale. Quando le mamme si trovano ad affrontare le notti in bianco, le
emozioni altalenanti e i vari tipi di stress che si accompagnano all’arrivo di un neonato, possono
provocare affaticamento, ansia, insonnia e malinconia, associata ad accessi di pianto. Tali sintomi
tendono a scomparire entro pochi giorni o settimane. Nella depressione post partum, invece, i
sin- tomi depressivi, tra cui estrema tristezza, disperazione, tendenza al pianto, in-
sonnia, ansia, pensieri ossessivi, attacchi di panico e pensieri suicidi, perdura-
no a lungo, anche per un anno. La relazione madre-figlio e il benessere del
bambino ne possono risentire. Le donne che soffrono di depressione post-
partum hanno dal 25 al 50% di probabilità in più di soffrirne anche al parto
successivo. Per quanto riguarda le cause:
- “Caduta” degli ormoni dopo il parto: i livelli di estrogeni e progesterone, che durante la
gravidanza aumentano fino a 50 volte rispetto al normale, scendono rapidamente a livelli in-
vece molto inferiori a quello medio.
- Predisposizione genetica alla depressione post partum
- Fattori psicologici e socioculturali: una donna si trova ad affrontare cambiamenti nel rap-
porto coniugale, nella routine quotidiana e nel ruolo sociale. Probabilmente avrà meno tempo
disponibile per il sonno e il relax, sentirà maggiormente la pressione economica o, in alcuni
casi, potrebbe dover rinunciare al lavoro o doverlo conservare: questo aumento vertiginoso
dello stress può aumentare il rischio di depressione.
La buona notizia è che i gruppi di auto-aiuto si sono dimostrati di estrema utilità per molte di
loro. Inoltre, molte rispondono bene agli stessi approcci utilizzati per le altre forme di depressio-
ne: terapia farmacologica, terapia cognitiva, psicoterapia interpersonale o una combinazione di
approcci diversi. Tuttavia, tantissime donne non cercano aiuto, si vergognano di essere infelici in
un momento che dovrebbe essere per loro fonte di gioia e temono di esser giudicate con severità.
È bene ricordare che anche gli eventi positivi possono essere fonte di stress laddove rivoluzionino
la vita di un soggetto emotivamente non preparato a operare tali cambiamenti.

Secondo il DSM-5 un Episodio Depressivo Maggiore è un periodo in cui sono presenti almeno cin-
que sintomi depressivi che permangono per due settimane o più. In casi estremi, l’episodio può
comprendere sintomi psicotici caratterizzati dalla perdita di contatto con la realtà, come:
• Delirio: convinzione erronea che comporta un’errata interpretazione di percezioni ed esperien-
ze, convinzione che resiste ai tentativi di falsificazione. Il suo contenuto può essere di diverso
tipo: di persecuzione, somatici, religiosità, grandiosità, colpa, rovina, di riferimento.
• Allucinazione: distorsione o esagerazione del contenuto della percezione; essa può manifestarsi
con una qualsivoglia modalità sensoriale (visiva, uditiva, olfattiva, gustativa e tattile).
Un uomo depresso con sintomi psicotici può immaginare di non poter mangiare perché “l’intestino
si sta ammalando e presto non funzionerà più” oppure può credere di vedere la moglie morta.
Per i soggetti che hanno un Episodio Depressivo Maggiore senza episodi maniacali pregressi, la
diagnosi è di Disturbo Depressivo Maggiore. Le persone che manifestano un modello di Depres-
sione Unipolare di lunga durata (2 anni) ma meno invalidante dal punto di vista della sintomatolo-
gia del funzionamento psico-relazionale, possono ricevere una diagnosi di Disturbo Distimico. Un
terzo tipo di disturbo depressivo è il disturbo disforico premestruale, diagnosticato ad alcune
donne che riportano sintomi depressivi clinicamente significativi durante la settimana precedente al
ciclo mestruale.
Un ulteriore disturbo depressivo è costituito dal disturbo dirompente da disregolazione
dell’umore, caratterizzato da una combinazione di persistenti sintomi depressivi e ricorrenti eccessi
di umore severo. Solitamente si palesa durante la tarda infanzia o l’adolescenza.

102
Riassunti di Silvia Varro

Episodio Depressivo Maggiore Disturbo Depres- Disturbo Distimico


sivo Maggiore
✓ Almeno cinque dei sintomi seguenti sono ✓ Presenza di epi- ✓ Umore depressivo per
contemporaneamente presenti in un perio- sodio depressivo gran parte del giorno,
do odi due settimane o più: maggiore per più giorni consecu-
✓ Umore depresso per la maggior parte della ✓ Non è mai stato tivi, per almeno due an-
giornata, quasi ogni giorno presente un epi- ni
✓ Marcata diminuzione di interesse o piacere per sodio maniacale ✓ Durante la depressione,
tutte, o quasi tutte, le attività per la maggior presenza di almeno due
parte del giorno, quasi ogni giorno sei seguenti sintomi:
✓ Significativa perdita di peso, o aumento di pe- inappetenza o appetito
so, oppure diminuzione o aumento eccessivo, insonnia o
dell’appetito quasi ogni giorno ipersonnia; poca ener-
✓ Insonnia o ipersonnia quasi ogni giorno gia e affaticamento;
✓ Agitazione o rallentamento psicomotorio qua- scarsa autostima; scarsa
si ogni giorno concentrazione o diffi-
✓ Affaticabilità o mancanza di energia quasi coltà a prendere deci-
ogni giorno sioni; sentimento di di-
✓ Sentimenti di autosvalutazione o di colpa ec- sperazione
cessivi o inappropriati, quasi ogni giorno ✓ Durante un periodo di
✓ Ridotta capacità di pensare o di concentrarsi, o due anni, sintomi mai
indecisione, quasi ogni giorno assenti per più di due
✓ Pensieri ricorrenti di morte o di suicidio, o un mesi alla volta
tentativo di suicidio, o l’ideazione di un piano ✓ Nessun episodio mania-
specifico per commettere suicidio cale o ipomaniacale
✓ Disagio significativo o compromissione del ✓ Disagio e menomazione
funzionamento sociale, lavorativo o di altre significativi
aree importanti

Spesso un Episodio di Depressione Maggiore sembra essere indotto da un evento stressante. I ricer-
catori hanno verificato in fatti che nella vita dei soggetti depressi e nel mese precedente
all’insorgenza del disturbo si sono verificati più eventi stressanti che nella vita di altre persone, nel-
lo stesso periodo di tempo. Alcuni clinici giudicano importante distinguere tra depressione reattiva
(esogena), successiva a eventi chiaramente stressanti, e depressione endogena, che appare più co-
me una reazione a fattori interni. Siccome non si può sapere per certo se una depressione è di tipo
reattivo o meno, i clinici tendono di solito a cercare di individuare sia gli aspetti situazionali sia
quelli interni in ogni caso di Depressione Unipolare.

Fattori genetici. È possibile individuare delle origini biologiche della Depressione Unipolare che si
possono correlare a fattori genetici, biochimici e anatomici. In alcune persone la predisposizione al-
la depressione unipolare è ereditaria, infatti, più del 20% dei familiari delle persone depresse lo so-
no a loro volta. Gli studi sui gemelli hanno confermato questa ipotesi poiché quando un gemello
omozigote era afflitto da depressione unipolare vi era il 46% di probabilità che lo fosse anche l'al-
tro; viceversa, se un gemello eterozigote soffriva di Depressione Unipolare, l’altro gemello aveva
solo il 20% di probabilità di manifestare lo stesso disturbo. I ricercatori hanno verificato che la de-

103
Riassunti di Silvia Varro

pressione unipolare può essere collegata a geni sui cromosomi 1, 4, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 17 18, 20,
21, 22 e cromosoma X. Per esempio, diversi ricercatori hanno scoperto che le persone depresse
presentano spesso un’anomalia del gene 5-HTT, localizzato sul cromosoma 17, responsabile
dell’attività del neurotrasmettitore serotonina, la cui bassa attività è strettamente collegata a tale di-
sturbo.
Fattori biochimici. Alla depressione unipolare è stata collegata una bassa attività di due neurotra-
smettitori chimici: la noradrenalina e la serotonina. Si è scoperto che l'azione antidepressiva avve-
niva aumentando l'attività della noradrenalina o della serotonina. Dalla ricerca biologica è emerso
inoltre che il sistema endocrino può avere un ruolo importante nella Depressione Unipolare. Si è
scoperto che i soggetti con depressione unipolare hanno livelli molto elevati di cortisolo, uno degli
ormoni rilasciati dalle ghiandole surrenali nei momenti di stress. Tale correlazione non sorprende,
in quanto è noto che gli eventi stressanti possono portare alla depressione. Un secondo ormone che
è stato collegato la depressione è la melatonina, detta anche "ormone di Dracula" perché viene se-
creto solo nelle ore di buio. Coloro che si sentono depressi nei mesi invernali (un modello detto Di-
sturbo Affettivo Stagionale) possono produrre una maggior quantità di melatonina nelle lunghe notti
invernali rispetto alla media.
Altri ricercatori biologici iniziano a ritenere che la depressione unipolare sia maggiormente connes-
sa a ciò che accade all'interno dei neuroni, più che alle sostanze chimiche che trasportano messaggi
da un neurone all’altro. Essi pensano che l’attività dei principali neurotrasmettitori o degli ormoni
possa indurre carenze di importanti proteine e altre sostanze chimiche a livello neuronale e che tali
carenze possono danneggiare lo stato dei neuroni i quali, a loro volta, causano la depressione.
Attualmente, grazie a studi che utilizzano nuove tecnologie e nuovi metodi diagnostici quali PET e
RM, si sta via via approfondendo la correlazione tra attività cerebrale e depressione.
Fattori anatomici. Molti ricercatori biologici ritengono che numerose reazioni emotive siano legate
a circuiti cerebrali, ossia reti neurali che lavorano in sinergia, innescando ognuna l’azione
dell’altra e producendo un particolare tipo di risposta emotiva. La ricerca non è conclusa, ma è co-
munque emerso un circuito cerebrale responsabile della Depressione Unipolare. Numerosi studi di
neuroima ging hanno evidenziato diverse aree che potrebbe far parte di tale circuito:
- Corteccia prefrontale: tra i soggetti depressi l’attività e il flusso sanguigno sono particolarmen-
te scarsi in alcune parti di questa corteccia e più elevati in altre parti
- Ippocampo: è una delle poche aree cerebrali a produrre nuovi neuroni per tutte l'età adulta. Nel-
le persone depresse questa attività dell'ippocampo, detta neurogenesi, diminuisce notevolmente,
vengono prodotti pochi neuroni nuovi. Inoltre, alcuni studi di
neuroimaging hanno rilevato una riduzione della dimensione
dell'ippocampo nelle persone depresse, risulta essere sottodi-
mensionato.
- Amigdala: studi condotti con la PET e RMF indicano che l'at-
tività e la circolazione sanguigna dell'amigdala delle persone
depresse e del 50% superiore rispetto ai non depressi
- Area 25 Brodmann (area della corteccia cerebrale situata ap-
pena sotto la corteccia cingolata): risulta essere sottodimensio-
nata e iperattiva e diminuisce la sua attività in modo significa-
tivo quando la depressione si attenua

La sala della luce


Al Museo della Scienza di Londra, i visitatori si rilassano nella “Light Lounge”, un ambiente tut-
to bianco con quattro dispositivi luminosi nel quale ci si può rilassare e sottoporsi a fototerapia,
studiata per compensare la diminuzione di luce solare nei mesi invernali e combattere la depres-
sione stagionale.

104
Riassunti di Silvia Varro

Il sistema immunitario è una rete di cellule che combatte contro i batteri, i virus e altri invasori
esterni. Quando un soggetto è sotto stress per lungo tempo, si può verificare una disregolazione del
suo sistema immunitario con il conseguente mal funzionamento dei globuli bianchi, detti linfoci-
ti, e l’aumento della proteina C-reattiva (PCR), che si diffonde nel corpo causando infiammazioni
e altre malattie. Tale mal funzionamento può favorire lo sviluppo della depressione.

In genere con trattamento biologico si intende l'uso di farmaci antidepressivi o di integratori fito-
terapici, ma per i soggetti gravemente depressi che non rispondono ad altre forme di trattamento,
definiti farmaco-resistenti, si prescrive un preciso iter per la somministrazione graduata: l'ottimizza-
zione della terapia in atto, la sostituzione con un altro farmaco antidepressivo, la combinazione di
due o più farmaci antidepressivi e infine la strategia di potenziamento con farmaci non primaria-
mente antidepressivi. Talvolta è indicata la terapia elettroconvulsiva o una serie di approcci relati-
vamente recenti, detti nell'insieme stimolazione transcranica.
La terapia elettroconvulsiva o TEC, è una forma di trattamento per depressione molto controver-
sa. Due elettrodi vengono applicati alla testa del paziente e una corrente elettrica di potenza com-
presa tra 65 e 140 volt passa attraverso il cervello per mezzo secondo o meno. Le scosse provocano
delle convulsioni che durano tra 25 secondi e alcuni minuti. Dopo una serie di 6-12 trattamenti,
somministrati in un periodo di 2-4 settimane, la maggior parte dei pazienti si sentono meno depres-
si. Agli esordi i pazienti si ritrovavano a volte con ossa fratturate e lussazioni; oggi tali problemi
vengono evitati perché ai pazienti vengono somministrati potenti miorilassanti per ridurre al mini-
mo le convulsioni. Si usano, inoltre, anestetici (barbiturici) per addormentare i pazienti durante la
procedura ed evitare che ne siano terrorizzati. I pazienti sottoposti a TEC hanno difficoltà a ricorda-
re gli eventi avvenuti immediatamente prima e dopo il trattamento. Anche se nella maggior parte
dei casi la perdita di memoria si annulla nel giro di pochi mesi, alcuni soggetti presentano dei vuoti
di memoria a lungo termine.
Tra i farmaci antidepressivi ancora utilizzati ci sono dei farmaci che risalgono agli anni 50: gli
inibitori della monoaminossidasi (IMAO) e i triciclici. A questi due gruppi si è aggiunto negli ul-
timi anni un terzo gruppo di farmaci, detti antidepressivi di seconda generazione. L'efficacia degli
inibitori MAO fu scoperta per caso utilizzando l'iprionazide su pazienti ammalati di tubercolosi, il
quali aveva come effetto collaterale rendere più felici i pazienti. Dal punto di vista biochimico, que-
sto e altri farmaci avevano la capacità di rallentare la produzione dell'enzima monoaminossidasi, il
quale degrada nel cervello il neurotrasmettitore noradrenalina. Gli inibitori MAO impediscono
all'enzima di continuare la sua attività e quindi bloccano la distruzione della noradrenalina: ne risul-
ta un aumento dell'attività della noradrenalina e di conseguenza una riduzione dei sintomi della de-
pressione. Coloro che assumono questi farmaci possono avere un pericoloso aumento della pres-
sione sanguigna se assumono cibi che contengono tiramina presente in cibi comuni come formag-
gi, pesce poco fresco e conservato (es. tonno), insaccati, banane, cavoli, e alcuni vini. Chi è in tera-
pia con inibitori MAO, pertanto, deve seguire una dieta rigida.
Anche la scoperta dei triciclici negli anni Cinquanta è stata casuale; vennero chiamati così perché
tutti hanno una struttura chimica costituita da tre anelli. Dei pazienti che assumono triciclici tra il 60
e 65% ne trae giovamento, ma se si sospende la terapia ai primi segnali di miglioramento vi è il ri-
schio di recidiva28 antro un anno. Ecco perché i medici suggeriscono l'assunzione dei farmaci per
almeno cinque mesi dopo la scomparsa dei sintomi, una prassi detta terapia di mantenimento.
I triciclici riducono la depressione agendo sui meccanismi di ricaptazione del neurotrasmettitore.
Mentre il neurone mittente rilascia il neurotrasmettitore, un meccanismo pompa nella terminazione

28
Per recidiva in medicina si intende il ripresentarsi, a distanza di tempo più o meno lungo, del processo patologico
precedentemente debellato, a causa del persistere di condizioni predisponenti o facilitanti il riproporsi del fattore pato-
geno.

105
Riassunti di Silvia Varro

del neurone stesso comincia a riassorbire la sostanza in un processo di ricaptazione che ha la fun-
zione di controllare quanto a lungo resta il neurotrasmettitore nello spazio sinaptico e impedire che
venga un'iperstimolazione. In alcune persone il meccanismo di ricaptazione potrebbe essere iperef-
ficiente, impedendo in questo modo che i messaggi arrivino al neurone ricevente e producendo così
la depressione clinica. I triciclici bloccano il processo di ricaptazione e aumentano l'attività dei neu-
rotrasmettitori. La maggior parte degli antidepressivi di seconda generazione è detta inibitori selet-
tivi della ricaptazione della serotonina (SSRI), in quanto aumentano l'attività della serotonina
senza influenzare quella della noradrenalina o di altri neurotrasmettitori. Dei SSRI fanno parte la
fluoxetina (nome commerciale Prozac), la sertralina (Zoloft), e l’escitalopram (Cipralex). Oggi so-
no disponibili anche i nuovi inibitori selettivi della ricaptazione della noradrenalina, come
l’atomoxetina, che stimola l’attività della sola noradrenalina, e inibitori della ricaptazione della se-
rotonina-nordrenalina, come la venlafaxina, che aumentano sia l’attività della serotonina, sia quella
della noradrenalina.
Dal punto di vista dell'efficacia e della rapidità di azione, degli antidepressivi di seconda generazio-
ne sono sullo stesso piano dei triciclici, ma i medici preferiscono i nuovi antidepressivi perché è più
difficile avere un iperdosaggio. Inoltre, non comportano i problemi dietetici dei MAO e non produ-
cono gli effetti collaterali sgradevoli dei triciclici, come secchezza delle fauci e costipazione. Pos-
sono però produrre anch'essi effetti collaterali come, in alcuni casi, la riduzione della libido.

CASO 7.4
Parla tristemente di come avrebbe voluto che il suo trattamento fosse stato differente: “Mi chiedo
cosa sarebbe successo se [all’età di 16 anni] avessi potuto semplicemente parlare con qualcuno,
mi avrebbe aiutato ad imparare cosa fare, da sola, per essere una persona sana […]. Invece, mi
hanno detto semplicemente che dovevo prendere lo Zoloft. Quando non ha funzionato, mi hanno
detto di prendere il Prozac e, quando neanche questo ha funzionato, mi hanno dato l’Effexor.
Poi, quando ho iniziato ad avere problemi a dormire, mi hanno dato un sonnifero.” Dice, con
una voce estremamente malinconica, “sono stanca di queste pillole.”

Un terzo delle persone con depressione unipolare non ricavano alcun beneficio da nessun tipo di in-
tervento. Così, negli ultimi anni sono stati proposti tre nuovi promettenti approcci biologici:
1. Stimolazione del nervo vago (VNS): tutti possediamo due nervi vaghi, uno su ciascun lato del
corpo. Il vago, il nervo più lungo del corpo umano, parte dal midollo allungato e scende lungo il
collo e il torace fino all'addome. In questa procedura, viene impiantato chirurgicamente sotto la
cute del torace un piccolo dispositivo, un generatore di impulsi che attraverso un filo viene
collegato al nervo vago sinistro. Dal generatore partono periodicamente segnali elettrici che
vanno a stimolare il nervo vago, il quale, a sua volta, manda segnali elettrici al cervello. Il 40%
dei pazienti riferiva un notevole miglioramento.
2. Stimolazione magnetica transcranica (TMS): è una tecnica di stimolazione
cerebrale non invasiva; il medico applica una spirale elettromagnetica sulla testa
del paziente, la quale genera un campo elettromagnetico che raggiunge la cortec-
cia prefrontale. È bene ricordare che nei soggetti depressi, alcune aree della
corteccia prefrontale sono ipoattive: la TMS sembra stimolare l'attività neu-
ronale in queste aree. Numerosi studi confermano che la TMS somministrata tutti i giorni in un
arco di due-quattro settimane è in grado di attenuare la depressione. La procedura non ha ancora
avuto l'approvazione perché può provocare un notevole fastidio allo scalpo del
paziente, cefalee e anche un convulsioni.
3. Stimolazione cerebrale profonda (DBS): la neurologa Helen Mayberg
insieme a colleghi ha studiato l’applicazione di tale trattamento sperimentale su
sei pazienti con depressione grave e resistente a ogni altra forma di trattamento,

106
Riassunti di Silvia Varro

compresa la terapia elettroconvulsiva. Il team della Mayberg impiantò due elettrodi direttamente
nell'area 25 attraverso due minuscoli fori nel cranio. Gli elettrodi furono quindi collegati a una
batteria o “pacemaker”, impiantato nel torace del paziente (se uomo) o nell’addome (e donna).
Il pacemaker attivava gli elettrodi, i quali inviavano all’area 25 un flusso costante di corrente
elettrica a bassa intensità. Secondo l'ipotesi questa stimolazione ripetuta doveva ridurre l'attività
dell'area 25 riportandola alla normalità e ricalibrare l’intero circuito cerebrale dalla depressione.
Negli studi iniziali sulla DBS, quattro pazienti su sei dopo il trattamento si liberarono quasi del
tutto della depressione nel giro di pochi mesi. Risultati incoraggianti sono emersi anche da ri-
cerche successive, tuttavia è opportuno ricordare che la ricerca sulla DBS è ancora alle fasi ini-
ziali.

Secondo l'approccio psicodinamico si ipotizza la possibilità di alterazioni e stati morbosi delle


emozioni di base. Cutting ipotizza che tali cambiamenti interessano le aree dell'intensità, della du-
rata, dell'esperienza, della tempestività, delle espressioni emotive e della congruità emotiva. Già
Bleuler individuò questi quadri clinici nella schizofrenia, nominandoli:
- Paratimia: reazione non socialmente desiderabile di allegria di fronte a notizie con contenuto
tragico o viceversa
- Paramimia: condizione di mancanza di coerenza tra diverse modalità di espressione delle emo-
zioni
Ferenczi riconosce la presenza di una forza che conduce gli stati emotivi del bambino alla non esi-
stenza qualora l'ambiente non sia in grado di soddisfare le esigenze affettive del minore. Bleichmar
considera la depressione come la reazione alla perdita, reale e immaginaria, di un oggetto: questo
sentimento deriva dall'incapacità dell'individuo di raggiungere e conservare dentro di sé l'oggetto
stesso, generando così impotenza e vulnerabilità. La depressione viene intesa quindi con la conse-
guenza della rappresentazione di sè stesso come inabile a perseguire i propri obiettivi. All'interno di
tale cornice la depressione viene solitamente distinta in anaclitica e introiettiva. Renè Spitz fu il
primo a coniare il termine di depressione anaclitica, riferendosi allo stato depressivo in cui vengo-
no a trovarsi i bambini abbandonati o separati prematuramente dalle cure materne. Secondo l'autore,
questa separazione dalla madre inficia la possibilità del bambino di ottenere quel nutrimento fisico e
psichico di cui necessita. Come riscontrato anche da Bowlby e da Winnicott, tale separazione, co-
lora il mondo interno del soggetto di sentimento di perdita, solitudine, abbandono e inadeguatezza,
nonché di un'intensa paura di non essere amato. La depressione introiettiva è caratterizzata invece
da sentimenti di colpa, inutilità, inferiorità, fallimento, mancanza di valore, autocritiche.
McWilliams spiega che il meccanismo di difesa, tra i quali il più strutturante, sarebbe l'introiezione.
Consiste nell'interiorizzazione inconscia delle qualità più negative di un antico oggetto d'amore che
vengono percepite come parti del Sé. Il soggetto depresso riceve dalle sue esperienze di perdita la
convinzione di essere la causa dell'originario allontanamento dell'oggetto: il sentimento di essere
stato rifiutato è trasformato nella convinzione di meritare quel rifiuto.
Un'altra importante distinzione riguarda la depressione endogena e quella reattiva. La prima è de-
terminata da fattori costituzionali e dalla presenza di una vulnerabilità psichica che porta il soggetto
ad affrontare con difficoltà i cambiamenti. La depressione reattiva, invece, è una risposta emotiva
che insorge in seguito a un trauma recente ed è caratterizzata da un vissuto di disperazione. Il nu-
cleo emotivo prevalente è la tendenza all'autocolpevolizzazione che determina un abbassamento
dell'autostima e una visione negativa di sé. Possono essere presenti idee suicidarie e tentativi atti
conservativi. Oltre all'esperienza di perdita è centrale il senso di colpa: quella persecutoria e quella
depressiva.
Lo studio della depressione ha a che fare con lutto e melanconia, quindi con il processo del lutto.
Quali sono le differenze?

107
Riassunti di Silvia Varro

- Lutto: si sviluppa nel tempo, contempla diverse fasi ed è un processo. Il dolore del lutto riguar-
da la perdita (reale) di una figura significativa. Ciò che viene impoverito nel processo di ela-
borazione è il mondo esterno: c’è una separazione tra sé e l’altro in quanto quest’ultimo è assen-
te.
- Melanconia: riguarda la perdita di un oggetto emozionale, amato. Si osserva
una forte svalutazione del sé accompagnata da senso di colpa e connessa da una
forte rabbia rivolta verso se stessi. L’introiezione con l’oggetto perduto può so-
stenere sia il consolidamento della depressione così come la possibilità di rinun-
cia con l’oggetto perduto. Ciò che viene impoverito è il mondo interno.
Appunti: il lutto è un processo reale, fisiologico, atteso nelle condizioni di perdita di una persona
significativa, ma anche nelle condizioni di perdita di qualcosa di atteso e desiderato, perdita di un
ideale, di una rappresentazione di sé che non può essere realizzata. Ha quindi a che fare con la per-
dita di un oggetto investito affettivamente. In una condizione di lutto vi è la necessita di separarsi da
questo legame e di recuperare le dimensioni vitali di se per ritornare verso la vita e investire affetti-
vamente altro. Questo investimento sugli oggetti passa anche attraverso un processo di introiezione
dell’oggetto d’amore, che colma il vuoto connesso alla perdita e aiuta la persona a riattivare ener-
gie vitali e investimenti. Ciò non è immediato bensì connesso al tempo: in un primo momento
quando perdiamo qualcuno o qualcosa di significativo, la nostra energia psichica è totalmente inve-
sta sull’oggetto perduto. Non possiamo parlar d’altro, la nostra mente è lì e nel suo rapporto con
l’oggetto perduto e nel coltivare il rapporto mantiene anche il legame; finché siamo lì a parlare
dell’oggetto perduto siamo in rapporto con esso e lo facciamo anche in fantasia illusoriamente (non
allucinatoriamente) lo teniamo in vita e in rapporto con noi. Perché si parli di lutto la separazione
deve avvenire e parte dell’oggetto deve essere introiettato: l’altro deve essere lasciato andare per
poter tornare alla vita. Questo processo può non funzionare in modo ottimale, è comunque un pro-
cesso doloroso e c’è il rischio di una condizione di melanconia o di lutto patologico. L’introiezione
dell’oggetto può essere introiezione anche dei sentimenti negativi che si avevano verso l’oggetto
che si trasformano in dolorosi ed elaborabili sentimenti di colpa della perdita dell’oggetto oppure
l’oggetto viene introiettato in una totale identificazione con l’oggetto nel mantenimento illusorio
della sua presenza, per cui la persona è totalmente concentrata sul suo vuoto perché è l’unico modo
di rimanere in rapporto con l’oggetto
“IL TEMPO DEL LUTTO AIUTA IL SOGGETTO A TRA- e non può reinvestire libidicamente e
SFORMARE L’ASSENZA ESTERNA IN PRESENZA INTER- affettivamente l’esperienza della sua
NA” vita.
Freud
La capacità di separarsi è una fun-
zione fondamentale evolutiva che, in
qualche modo, è protettiva rispetto a
una deriva depressiva della separazione.
All'opposto della depressione, la mania è caratterizzata da un'elevazione dell'umore con stati di
gioiosità estrema, iperattività e accelerazione del pensiero. È presente un forte senso di invulnera-
bilità che porta il soggetto ad attuare condotte impulsive, esibizionistiche e provocatorie. Il soggetto
compensa una condizione depressiva attraverso l'attivazione di difese maniacali; tra le difese ma-
niacali, la Klein annovera il diniego, l'idealizzazione e l'onnipotenza. Queste difese generano fan-
tasie di controllo onnipotente e di disprezzo per gli oggetti e mirano a negare la dipendenza da essi,
proteggendo in tal modo dal senso di dipendenza tipico della posizione depressiva. Tali soggetti uti-
lizzano il diniego per contrastare il disturbo depressivo e il senso di colpa; idealizzare il proprio Sé
e contemporaneamente svalutano gli altri evitando qualsiasi tipo di legame intimo che potrebbe riat-
tivare un vissuto di perdita. Il senso di abbandono sperimentato all'interno delle relazioni primarie
viene negato. Gli studi hanno parzialmente confermato la teoria psicodinamica secondo la quale la
depressione può essere scatenata da un senso di perdita poiché in alcuni studi è emersa una relazio-

108
Riassunti di Silvia Varro

ne tra perdita subita nell'infanzia e depressione nell'età adulta, mentre in altri di questo colle-
gamento non c'è traccia.

Nel trattamento psicodinamico i terapeuti utilizzano le modalità classiche derivate dalla psicoanali-
si: essi incoraggiano i pazienti a fare libere associazioni e forniscono interpretazioni di queste du-
rante la seduta; analizzano il contenuto onirico, le sue resistenze, le dinamiche transferali e con-
transferali. Infine, sostano insieme al paziente nelle aree di sofferenza fornendo gli strumenti per ri-
leggere e risignificare gli eventi di vita alla base della depressione.

La depressione negli animali


Gli studi di Harry Harlow ebbero come oggetto la deprivazione
materna e l’isolamento sui primati. In questo caso, agli animali
non umani non venne somministrata alcuna sostanza, ma furono
posti in condizioni sperimentali particolari, fisicamente e psicolo-
gicamente traumatiche. Lo scienziato Harlow29 ha scoperto con il
suo team di collaboratori che i piccoli di scimmia reagivano con
evidente disperazione alla separazione della madre. Anche le
scimmiette allevate con madri surrogate (cilindri di filo metallico
imbottiti con gommapiuma e rivestiti di spugna) stabilivano con
loro un forte legame ed erano tristi se tali oggetti venivano a mancare: con questo esperimento
Harlow dimostrò che il bisogno affettivo è più importante di quello nutrizionale.

Bowlby poté notare, a partire dagli anni ’60, osservando il comportamento dei bambini nei primi
mesi di vita, come anche nel piccolo di uomo fossero riscontrabili gli stessi schemi comportamenta-
li. In particolare, verificò come la madre (e la relazione con lei) fornisce al bambino una “base si-
cura” dalla quale egli può allontanarsi per esplorare il mondo e farvi ritorno, intrattenendo forme di
relazione con i membri della famiglia. Secondo l’autore i legami emotivamente sicuri hanno un va-
lore fondamentale per la sopravvivenza psicofisica dell’individuo e per il successo riproduttivo.
Nonostante i tanti casi di successo, i ricercatori hanno verificato che la terapia psicodinamica a lun-
go termine è efficace solo di rado nella depressione unipolare, per due motivi:
- I pazienti depressi possono essere troppo passivi e sentirsi troppo abbattuti per partecipare alle
profonde discussioni della terapia;
- In questi soggetti può subentrare scoraggiamento quando non vedono i risultati immediati che
disperatamente cercano e possono abbandonare la terapia precocemente.
Le terapie a breve termine si sono dimostrate migliori rispetto a quelle di tipo tradizionale.

I comportamentisti ritengono che la Depressione Unipolare derivi da cambiamenti significativi nella


quantità di gratificazione e di punizione che le persone ricevono nella vita. Secondo questa pro-
spettiva, il trattamento per tale disturbo prevede la costruzione di modelli di rinforzo adeguati. Se-
condo il ricercatore clinico Peter Lewinsohn, per alcune persone il riconoscimento positivo dimi-

29
Harlow decise poi di quantificare l’importanza della presenza di una madre, sfociando in vere e proprie forme di tor-
tura: costruì delle “madri di pezza” dotate di congegni a molla che scattavano quando il cucciolo la abbracciava, scara-
ventandoli a grande distanza. Un’altra lanciava getti d’aria compressa, e infine costruì anche una madre sulla stessa fi-
gura di una “vergine di Norimberga”, con spuntoni che uscivano dal corpo e che trafiggevano il cucciolo ad ogni tenta-
tivo di ricevere un po’ di calore materno. “La sola cosa di cui mi preoccupo è se le scimmie mostreranno una caratteri-
stica che io possa pubblicare. Non provo nessun affetto verso di loro. Gli animali non mi piacciono affatto. Disprezzo i
gatti. Odio i cani. Come possono piacermi le scimmie?” – Harry Harlow in un’intervista apparsa nell’edizione del 27
ottobre 1974 del Pittsburgh Press Roto.

109
Riassunti di Silvia Varro

nuisce nel corso della vita, portando così a mettere in atto sempre meno comportamenti positivi. Per
esempio, le gratificazioni della vita universitaria scompaiono quando ci si laurea e si inizia a lavora-
re, uno sportivo perde la gratificazione dell’apprezzamento quando le sue capacità fisiche diminui-
scono con gli anni. Sebbene molte persone riescano a riempirsi la vita con altre forme di gratifica-
zione, altre diventano sempre più sfiduciate col passare del tempo. Gli aspetti positivi della vita e i
riconoscimenti sono sempre meno: questo le porta a mettere in atto comportamenti positivi sempre
più di rado. In questo modo precipitano lentamente nella spirale della depressione.
Perdita di confidenti
Il contatto sociale intimo è andato declinando negli ultimi due decenni. Nel 1985, quando ai par-
tecipanti a uno studio fu chiesto quanti confidenti potessero contare per parlare di questioni serie,
risposero in maggioranza 3. Nel 2004, la risposta più comune alla stessa domanda è stata 0.

In una serie di studi, Lewinsohn e colleghi hanno scoperto che il numero di riconoscimenti che si
ricevono nella vita è effettivamente correlato alla presenza o all'assenza di depressione. In alcuni dei
loro primi studi, i partecipanti depressi non riferirono soltanto di avere ricevuto meno riconoscimen-
ti dei soggetti non depressi, ma ricevendo più riconoscimenti mostravano anche un miglioramento
dell’umore. Inoltre, i partecipanti depressi che ricevono più riconoscimenti mostrano un migliora-
mento dell'umore. Lewinsohn e altri comportamentisti hanno, inoltre, ipotizzato che il riconosci-
mento sociale sia particolarmente rilevante nella spirale discendente della depressione. Le persone
depresse hanno in effetti minori riconoscimenti sociali rispetto ai non depressi: quando l’umore dei
depressi migliora, aumentano anche i riconoscimenti sociali.

Nel trattamento comportamentale i terapeuti utilizzano diverse strategie per aiutare i pazienti a po-
tenziare i propri comportamenti positivi. Il terapeuta seleziona innanzitutto delle attività che il pa-
ziente considera piacevoli, come andare a fare spese o fotografie, e lo incoraggia stabilire un pro-
gramma settimanale che preveda degli spazi per queste attività. Studi dimostrano che l'inserimento
di attività positive nella vita di una persona può realmente migliorarne l'umore. Quindi, dopo avere
reintrodotto nella vita del suo paziente degli eventi piacevoli, il terapeuta verifica che i diversi com-
portamenti del soggetto ricavano il giusto riconoscimento. Secondo i comportamentisti, quando le
persone cadono in depressione, i loro comportamenti negativi (piangere, tormentarsi sempre sulle
stesse cose, lamentarsi o essere ipercritici con se stessi) tengono gli altri a distanza, riducendo le
probabilità di interazione e di esperienze gratificanti. Per intervenire su questo modello, i terapeuti
di questo orientamento possono cercare di ignorare sistematicamente i comportamenti depressivi
del paziente e al contempo apprezzare o riconoscere in altro modo le affermazioni e i comportamen-
ti costruttivi, come decidere di andare al lavoro. Infine, i terapeuti comportamentali possono adde-
strare i pazienti a migliorare le proprie abilità sociali efficaci.
Queste tecniche comportamentali, però, sembrano essere di scarso aiuto quando ne viene applicata
soltanto una; se invece, ne vengono utilizzate due o più, il trattamento sembra effettivamente ridurre
i sintomi di depressione, in particolare se quest’ultima è lieve. Lo stesso Lewinsohn, negli ultimi
anni, ha iniziato a utilizzare una combinazione di tecniche comportamentali e strategie cognitive,
con un approccio simile ai trattamenti cognitivo-comportamentali.

I teorici cognitivi ritengono che le persone con Depressione Unipolare vedono tutto in modo nega-
tivo e siano tali percezioni a causare il disturbo. Le due spiegazioni più autorevoli sono la teoria
dell'impotenza appresa e la teoria del pensiero negativo.
1. Impotenza appresa. Secondo lo psicologo Martin Seligman, alla base della depressione sta
proprio il senso di impotenza. Risale alla metà degli anni Sessanta la prima elaborazione della sua

110
Riassunti di Silvia Varro

teoria dell’impotenza appresa. Secondo quest’ultima, la depressione subentra quando le persone


pensano:
1. Di non avere più il controllo sui vari rinforzi (gratificazioni e punizioni) nella loro vita;
2. Di essere responsabili per primi di questo stato di impotenza.
La teoria di Seligman si basa su un esperimento fatto con i cani, i quali venivano bloccati con delle
cinghie e sottoposti periodicamente a scosse elettriche indipendentemente da ciò che facevano. Il
giorno successivo ciascun cane veniva chiuso in una shuttle box, una cassa con il pavimento a gri-
glia divisa da una barriera oltre la quale il cane poteva raggiungere una zona sicura. Seligman som-
ministrò le scosse elettriche ai cani nella shuttle box per verificare se, come altri cani in una situa-
zione del genere, avrebbero imparato a evitare la scossa saltando oltre la barriera. Ebbene, la mag-
gior parte dei cani non riuscì a imparare come evitare la scossa. Dopo un iniziale tentativo di correre
per rifugiarsi in un punto sicuro, si limitavano a “mettersi giù e guaire sommessamente” e ad accet-
tare la scossa. Seligman stabilì che il giorno prima, mentre ricevevano scosse elettriche bloccati dal-
le cinghie e incapaci di muoversi, i cani avevano imparato di non essere in grado di evitare gli even-
ti sgradevoli. Essi avevano cioè imparato di non avere la possibilità di fare qualcosa per cambiare
una situazione negativa. Perciò, quando successivamente venivano posti in una situazione diversa
(la shuttle box) dove in effetti avrebbero potuto controllare l’evento negativo, essi continuavano a
credere di non potere fare nulla per evitarlo. Seligman notò che gli effetti dell’impotenza appresa
sono molto simili ai sintomi della depressone umana: le persone cadono in depressione dopo aver
sviluppato la convinzione generica di non avere alcun controllo sui fattori di rinforzo nella propria
vita.
I partecipanti animali umani e non umani sottoposti ad addestramento all'impotenza mostrano rea-
zioni simili ai sintomi della depressione.

Violenza coniugale: vittimizzazione e impotenza


Gli psicologi ritengono che nelle vittime di violenza coniugale si instauri spesso un senso di im-
potenza e che esse si convincano di non potere fare nulla per fermare le continue violenze, di non
avere alternative economiche e che il sistema giudiziario e le forze dell’ordine non siano in grado
di proteggerle. Possono inoltre subentrare depressione, bassa autostima e senso di colpa.

Negli ultimi vent'anni la spiegazione della depressione attraverso l'impotenza appresa è stata sotto-
posta a qualche revisione. Secondo la teoria dell'attribuzione causale, se la persona attribuisce
una causa interna, globale e stabile nel tempo alla mancanza di controllo allora può sentirsi impos-
sibilitata a impedire futuri risultati negativi e diventare depressa. Es. È colpa mia (interna) distruggo
tutto quello che tocco (globale) e sarà sempre così (stabile). Al contrario, se la persona effettua altri
tipi di attribuzione (esterne, specifiche, instabili) tale reazione è improbabile. Il modello dell'impo-
tenza è stato ulteriormente perfezionato. Gli studiosi ipotizzano che le attribuzioni sono in grado di
causare la depressione solo quando producono un senso di impotenza su una persona. La teoria
dell’impotenza appresa presenta delle imperfezioni, tra cui il fatto che si basa per lo più su esperi-
menti fatti sugli animali.
2. Pensiero negativo. Secondo Beck, atteggiamenti maladattivi, una triade cognitiva, errori di pen-
siero, pensieri automatici costituiscono una combinazione di fattori che producono il disturbo clini-
co. Secondo l'autore, alcune persone sviluppano atteggiamenti maladattivi nell'infanzia, del tipo
"devo fare tutto perfettamente, altrimenti non valgo niente". Tali atteggiamenti nascono a partire da
una valutazione erronea ed esagerata dei fallimenti e aprono la strada al proliferare di stili di pensie-
ro negativi. Nella vita di queste persone adulte certe situazioni percepite come stressanti possono
scatenare tali stili di pensiero negativi. Questo modo di pensare assume in genere tre forme, definite
da Beck, triade cognitiva: le persone tendono interpretare continuamente le proprie esperienze, se
stessi e il proprio futuro in modo negativo. Le persone depresse tendono a minimizzare il significato
delle esperienze positive e a esagerare quelle negative. Infine, i soggetti depressi tendono ad avere

111
Riassunti di Silvia Varro

pensieri automatici, ovvero un flusso costante di pensieri negativi che continuano a veicolare l'idea
di inadeguatezza. Numerose ricerche hanno confermato le ipotesi di Beck. Altri studi affini hanno
rivelato che i soggetti che tendono ad avere risposte ruminative quando sono di umore depresso, os-
sia rimuginando continuamente sul loro stato senza far nulla per cambiare le cose, la deflessione
dell'umore perdura più a lungo e si ha una probabilità maggiore di sviluppare una depressione clini-
ca.

Il trattamento cognitivo per la depressione unipolare messo a punto da Beck include diverse tecni-
che comportamentali. Per questa ragione, molti studiosi considerano questo approccio una terapia
cognitivo-comportamentale. L'approccio è costituito da quattro fasi e richiede meno di venti sedute:
1. Aumentare le attività e migliorare l'umore: il terapeuta incoraggia il paziente a diventare più
attivo e sicuro. Aiuta il paziente a programmare le attività da svolgere durante la settimana così
che il suo umore possa migliorare.
2. Contrastare i pensieri automatici: ai soggetti viene insegnato a riconoscere i pensieri automa-
tici negativi, a metterli su carta così da portarli ad ogni seduta. Terapeuta e paziente verificano
quindi passo passo la realtà che si cela dietro a quei pensieri, giungendo spesso alla conclusione
che sono senza fondamento.
3. Identificare i pensieri e i pregiudizi negativi: quando il paziente inizia a riconoscere il mecca-
nismo errato dei pensieri automatici, il terapeuta cognitivo gli fa notare come siano i processi di
pensiero illogico a innescare quel tipo di pensieri. Il terapeuta guida, inoltre, il paziente a rico-
noscere che quasi tutte le sue interpretazioni degli eventi presentano un pregiudizio negativo e a
cambiare questa modalità di interpretazione.
4. Cambiare gli atteggiamenti di fondo: il terapeuta aiuta il paziente a cambiare prima di tutto gli
atteggiamenti maladattivi che sono alla base della sua depressione, spesso lo incoraggia a mette-
re alla prova tali atteggiamenti, come riportato nel Caso 7.9.

CASO 7.9
Terapeuta: perché è convinta di non poter essere felice senza un uomo?
Paziente: sono stata molto depressa per un anno e mezzo, da single.
Terapeuta: c’è qualche altra ragione per cui lei era depressa?
Paziente: come le ho già detto prima, vedevo tutto in modo distorto. Ma continuo a non sapere se
potrei essere felice se nessuno si interessasse a me.
Terapeuta: non lo so neppure io. Come potremmo scoprirlo?
Paziente: beh, potrei fare una prova: potrei non uscire con nessuno per un po’ e vedere come mi
sento.
Terapeuta: penso che sia una buona idea. Con tutti i suoi difetti, il metodo sperimentale resta
tuttora il metodo migliore attualmente disponibile per scoprire come stanno le cose. Lei è fortu-
nata ad avere la capacità di mettere in atto questo tipo di prova. In questo momento, per la pri-
ma volta lei non è legata a un uomo. Se dovesse scoprire che può essere felice senza un uomo al
suo fianco, la scoperta le darà molta forza e renderà migliori anche le sue relazioni future.

Gli adulti depressi che si sono sottoposti a questo tipo di terapia hanno avuto un deciso migliora-
mento. Tra il 50 e il 60% dei soggetti che si sottopongono a questa terapia si ha una remissione
pressoché totale dei sintomi. Tuttavia, i terapeuti cognitivi comportamentali di terza generazione,
compresi coloro che applicano l’approccio ACT, inteso come terapia dell’accettazione e impegno
ad agire, non condividono l'ipotesi di Beck secondo la quale i pazienti devono liberarsi per forza
dai pensieri negativi, al contrario guidano i pazienti a riconoscere e accettare i pensieri negativi
semplicemente come flussi di pensiero che attraversano la loro mente. Laddove i soggetti imparano
ad accettare i propri pensieri negativi diventano in grado di lavorare meglio su di essi.

112
Riassunti di Silvia Varro

I teorici socioculturali ipotizzano che nella depressione unipolare sia molto forte l'influsso del con-
testo sociale in cui vivono le persone. Vi sono due tipi di visioni socioculturale: la prospettiva so-
ciofamiliare e la prospettiva multiculturale.

la depressione è stata più volte collegata alla mancanza di supporto sociale. Tra i separati e divor-
ziati, il tasso di depressione è triplo ripete le persone sposate. Le persone che vivono isolate senza
amicizie sembrano particolarmente inclini a cadere in depressione nei periodi di stress. Inoltre, è
stato dimostrato che i soggetti depressi privi di una rete di sostegno sociale rimangono depressi più
a lungo rispetto a coloro che hanno un coniuge o una rete amicale in grado di sostenerli nei momen-
ti di sconforto emotivo.

Una compagnia speciale


Il supporto sociale di vario tipo è efficace nel ridurre o nel contrastare l’insorgenza
della depressione. È stato effettivamente confermato che la
compagnia e il calore che sanno dare i cani e altri animali è in
grado di ridurre il vissuto di solitudine e di isolamento aiu-
tando così a combattere la depressione.

Le terapie che utilizzano gli approcci di tipo sociofamiliare per il trattamento della depressione mi-
rano a cambiare le modalità di gestione dei rapporti personali più stretti.
Gli approcci sociofamiliari più efficaci sono:
(1) La psicoterapia interpersonale (IPT): si basa sull'idea che ognuna delle quattro principali aree
problematiche – perdite interpersonali, dispute o conflitti interpersonali, transizioni di ruolo e deficit
interpersonali – può portare la depressione e, quindi, va affrontata. La terapia è limitata a non più di
sedici sedute.
Come ipotizzano i teorici psicodinamici, è possibile che i soggetti depressi stiano vivendo un gran-
de dolore a causa della perdita di una persona cara. In questi casi i terapeuti IPT analizzano il
rapporto con la persona scomparsa e aiutano il paziente a esprimere i possibili sentimenti di rabbia
connessi al lutto che possono affiorare. Alla fine, i pazienti trovano nuovi modi per ricordare quella
persona e possono anche cercare nuove relazioni.
Le persone depresse, inoltre, possono trovarsi nel mezzo di una disputa sul ruolo interpersonale
che si verifica quando due persone hanno aspettative diverse sulla loro relazione e sul ruolo attribui-
to a ciascuno di essi. I terapeuti aiutano i pazienti a esaminare i possibili momenti di scontro relativi
al ruolo assolto e alle aspettative, al fine di mettere a punto nuove soluzioni. In questi soggetti può
essere presente anche una transizione di ruolo interpersonale, determinata da cambiamenti impor-
tanti come il divorzio o la nascita di un figlio. Le persone possono sentirsi sopraffatte dai cambia-
menti di ruolo che accompagnano inevitabili cambiamenti di vita. I terapeuti aiutano i pazienti a
crearsi una rete sociale di sostegno e le capacità che il nuovo ruolo richiede.
Infine, in alcuni depressi possono essere presenti deficit interpersonali, come una timidezza estre-
ma, difficoltà sociali che impediscono loro di avere relazioni sentimentali e amicizie soddisfacenti. I
terapeuti guidano tali individui a riconoscere i propri deficit, e insegnano loro certe abilità sociali e
a comportarsi in modo assertivo30, per migliorare l'efficacia sociale. La IPT e trattamenti interper-

30
La parola “assertività” deriva dal latino ad serere, e significa «asserire» o anche affermare se stessi. L’ assertività è
la capacità di esprimere i propri sentimenti, di scegliere come comportarsi in un determinato momento/contesto, di di-
fendere i propri diritti, di esprimere serenamente un’opinione di disaccordo quando lo si ritiene opportuno, di portare
avanti le proprie idee e convinzioni, rispettando, contemporaneamente, quelle degli altri.

113
Riassunti di Silvia Varro

sonali affini hanno una percentuale di successo affini a quella delle terapie cognitive e cognitivo-
comportamentali.
(2) La terapia di coppia: i problemi matrimoniali possono causare la depressione e la guarigione è
spesso più lenta nelle persone che non trovano nel coniuge un sostegno adeguato. Circa la metà dei
soggetti depressi hanno una vita di coppia disfunzionale, per questa ragione, sono molti i casi di
depressione trattati con la terapia di coppia. La terapia coniugale comporta-
mentale aiuta i coniugi a cambiare i comportamenti negativi all'interno della
coppia, insegnando loro nuove modalità di comunicazione e di risoluzione
problemi. Laddove la vita di coppia di una persona depressa è piena di con-
flittualità, questo e altri approcci di coppia affini possono essere altrettanto
efficaci per ridurre la depressione di una terapia cognitiva individuale, una
psicoterapia interpersonale o un trattamento farmacologico.

Le due idee principali della teoria multiculturale della depressione sono: il legame tra genere e de-
pressione e il legame tra contesto etnoculturale e depressione.

In quasi tutti i paesi le donne hanno circa il doppio di probabilità di svilup-


pare la Depressione Unipolare.

Transizione di ruolo
I cambiamenti epocali della vita, come il matrimonio, la nascita di un figlio o il divorzio, possono
comportare un problema di transizione di ruolo, una delle tipologie di problemi interpersonali di
cui si occupano i terapeuti IPT nel loro lavoro con i pazienti depressi.

L'ipotesi dell'artefatto afferma che donne e uomini sono ugualmente esposti alla depressione, ma
che negli ultimi il disturbo non viene individuato; forse le donne appaiono maggiormente depresse
perché presentano più sintomi emotivi mentre gli uomini depressi mascherano la propria depressio-
ne dietro sintomi tradizionalmente "virili" come la rabbia. Si tratta di un'opinione diffusa, ma non
ancora confermata dalla ricerca empirica.
In base all'ipotesi ormonale, sarebbero i cambiamenti ormonali tipicamente femminili a condurre
alla depressione. La vita biologica di una donna, dalla prima adolescenza alla menopausa, è caratte-
rizzata da frequenti alterazioni dei livelli ormonali, sarebbero proprio tali cambiamenti a determina-
re le differenze di genere nel tasso di depressione che riguardano lo stesso arco di tempo.
Dalla ricerca è emerso, tuttavia, che le alterazioni ormonali di per sé non sono responsabili della de-
pressione femminile, ma le tappe in cui avvengono queste modificazioni di ormoni (pubertà, gravi-
danza, menopausa) potrebbero avere un ruolo nella depressione.
L'ipotesi degli eventi di vita stressanti suggerisce che nella società occidentale le donne sono sotto-
poste a maggior stress rispetto agli uomini. In media sono più povere, fanno lavori più umili, hanno
situazioni abitative peggiori e subiscono più discriminazioni rispetto agli uomini, tutti fattori che
sono stati collegati alla depressione. Inoltre, in molte famiglie le donne hanno un carico di lavoro
sproporzionato per quanto riguarda la cura dei figli e della casa.
La spiegazione dell'insoddisfazione per l'aspetto fisico afferma che nella società occidentale viene
insegnato alle donne, praticamente dalla nascita, che un corpo snello e un basso peso sono valori
positivi da perseguire, anche se spesso sono irragionevoli, irraggiungibili e dannosi per la salute. Lo
standard culturale per i maschi è invece molto più indulgente. Per una ragazzina preadolescente, per
esempio, la pressione del gruppo dei pari può produrre un’insoddisfazione crescente per ciò che at-
tiene al peso e all’aspetto fisico, aumentando così la probabilità di cadere in depressione. In accordo
con questa teoria, le differenze di genere nella depressione si manifestano effettivamente durante
l’adolescenza e chi è affetto da Disturbi dell’alimentazione è spesso anche depresso. Tuttavia non è

114
Riassunti di Silvia Varro

chiaro se i problemi legati al peso e all'alimentazione siano la causa diretta della depressione o piut-
tosto risultato di questa.
La teoria della mancanza di controllo prende l’avvio dalla ricerca sull’impotenza appresa e af-
ferma che le donne potrebbero essere più esposte alla depressione perché sentono di avere un mino-
re controllo degli uomini sulla propria vita. È noto che qualsiasi forma di vittimizzazione, dalla ra-
pina alla violenza sessuale, genera spesso una sensazione di impotenza e aggrava i sintomi della de-
pressione. Nella società occidentale odierna le donne hanno più probabilità dei maschi di trovarsi
nella condizione di vittime, in particolare di violenza sessuale e di abusi subiti nell’infanzia.

Pregiudizi clinici?
In uno studio, un terzo di tutte le persone non abbienti che hanno riferito sintomi di depressione
hanno detto che nessun medico aveva mai diagnosticato la loro condizione.
Infine, tra le spiegazioni delle differenze di genere associate alla depressione troviamo la teoria del-
la ruminazione. La ruminazione è la tendenza a pensare in maniera coattiva a pensieri disadattivi e
disfunzionali che generano nel soggetto vissuti depressivi e a interrogarsi di continuo sulle cause e
conseguenze della situazione depressiva (“Perché mi sento tanto giù?”). Si è scoperto che le donne
tendono più degli uomini alla ruminazione depressiva e questo potrebbe esporle maggiormente
all'insorgenza della depressione clinica.
Ciascuna di queste spiegazioni delle differenze di genere nella Depressione Unipolare costituisce un
argomento di riflessione. Ognuna di esse ha ricevuto dalla ricerca conferme sufficienti per renderla
interessante e, viceversa, per sollevare anche dei dubbi sulla sua utilità.

Dalle ricerche è emerso che la depressione è diffusa in tutto il mondo e alcuni sintomi del disturbo
sembrano essere costanti in tutti i Paesi. Un importante studio condotto su quattro Paesi (Canada,
Svizzera, Iran e Giappone) ha riscontrato che la maggioranza dei soggetti depressi in questi Paesi
così diversi riferiva sintomi di tristezza, assenza di gioia, ansia, tensione, mancanza di energia, in-
capacità di concentrazione, idee di inadeguatezza e pensieri sucidi. Al di là di questi sintomi di ba-
se, il quadro depressivo presenta delle variazioni nei diversi Paesi. Nei Paesi non occidentali i sog-
getti depressi tendono maggiormente a manifestare sintomi fisici come affaticamento cronico, debo-
lezza, disturbi del sonno e perdita di peso. In questi paesi la depressione è caratterizzata meno spes-
so da sintomi cognitivi quali autoaccusa, bassa autostima e senso di colpa.
Negli Stati Uniti non sono state rilevate differenze significative dei tassi complessivi di depressione
tra i gruppi di minoranza, tuttavia, si riscontrano differenze notevoli se si esaminano popolazioni et-
niche specifiche che vivono in contesti particolari. Ad esempio, è emerso che nelle comunità di na-
tivi americani la probabilità di sviluppare la depressione è molto elevata. Questa condizione proba-
bilmente è collegata alle enormi pressioni sociali ed economiche che gravano sui nativi americani
delle riserve.
Le terapie culturalmente sensibili cercano di trattare i problemi specifici che si trovano ad affron-
tare i membri dei gruppi culturali minoritari. Da questa prospettiva, il lavoro del terapeuta esamina
e riconosce l'impatto che la cultura di appartenenza e la cultura dominante hanno sulla strutturazio-
ne del Sé e sulla qualità dei comportamenti agiti. Nel trattamento della Depressione Unipolare gli
approcci culturalmente sensibili vengono sempre più spesso abbinati a forme tradizionali di psicote-
rapia, in particolare cognitivo comportamentale. Numerosi studi indicano che i pazienti tendono a
migliorare il loro tono dell'umore laddove la psicoterapia prende in considerazione tematiche asso-
ciate alla loro cultura.

115
Riassunti di Silvia Varro

Nelle persone con Disturbo Bipolare, periodi di depressione si alternano a periodi di mania e l'umo-
re risulta altalenante, a tratti deflesso, a tratti euforico. Molti soggetti descrivono la propria vita
come una sorta di “ottovolante emotivo”, in quanto passano continuamente da un estremo all’altro;
la mancanza di stabilità emotiva spinge molti di loro a togliersi la vita. Il loro “ottovolante emotivo”
ha un impatto drammatico su famiglia ed amici.

Negligenza clinica
Secondo la National Mental Health Association, fino all’80% dei soggetti con Depressione Bipo-
lare può ricevere una diagnosi sbagliata o nessuna diagnosi.

Diversamente dalle persone che sprofondano in una cupa depressione, coloro che vivono in stato
maniacale provano una grande esaltazione dell’umore. I sintomi dello stato maniacale riguardano le
stesse aree di funzionamento della depressione (area emotiva, motivazionale, comportamentale, co-
gnitiva e fisica), ma in senso opposto.
Chi vive in uno stato maniacale è pervaso da intense emozioni positive, onnipotenti ed euforiche.
Esperisce un senso di benessere ed esaltazione che, però, è sproporzionato rispetto agli eventi della
vita reale del soggetto. Tuttavia, non tutte le persone in stato maniacale sono la realizzazione della
felicità. Alcune diventano invece nervose e irritabili, soprattutto quando altre persone intralciano la
realizzazione delle loro idee ambiziose.
Nell'ambito motivazionale, lo stato maniacale fa sì che i soggetti
cerchino costantemente nuovi stimoli, compagnia e coinvolgimen-
to emotivo. Essi vanno con entusiasmo alla ricerca di nuovi e vec-
chi amici, di nuovi e antichi interessi, senza rendersi conto che il lo-
ro stile di socialità è eccessivo e opprimente. Durante tale stato le
persone hanno solitamente un comportamento molto attivo. Si
muovono rapidamente, risultando spesso iperattivi e logorroici.
Spesso parlano velocemente e ad alta voce, intessono conversazioni
fitte di battute e osservazioni fatte per sembrare intelligenti oppure,
al contrario, piene di lamentele e agiti verbali. Il desiderio di apparire non è insolito in questi sog-
getti: possono vestire in modo chiassoso, elargire somme di denaro a estranei o farsi coinvolgere in
attività pericolose.
Dal punto di vista cognitivo, gli individui in stato maniacale hanno una scarsa capacità di giudizio,
di pianificazione, si sentono onnipotenti e spesso invincibili e ciò può portare ad agire condotte pe-
ricolose poiché incapaci di valutare la reale pericolosità di una data situazione. Spesso è presente
anche un’autostima esagerata, che può talvolta esitare in deliri di onnipotenza a causa di un com-
promesso esame di realtà.
Infine, per quanto riguarda la sfera fisica, si sentono piene di energia, tendono a dormire molto po-
co, sentendosi comunque sempre perfettamente sveglie e comportandosi di conseguenza. Possono
non andare a dormire anche per una notte o due, conservando allo stesso tempo un elevato livello di
energia.

Si considera episodio maniacale uno stato in cui è presente, per almeno una settimana, un umore
esaltato o irritabile, oltre ad almeno tre altri sintomi di mania. Possono anche essere presenti ma-
nifestazioni psicotiche quale illusione, allucinazioni e/o deliri. Quando i sintomi sono più sfumati e
poco invalidanti si è in presenza di un episodio ipomaniacale. Il DSM-5 TR distingue fra Disturbo
Bipolare I e II. Le persone affette da Disturbo Bipolare I alternano episodi maniacali e periodi di

116
Riassunti di Silvia Varro

depressione: ad esempio, settimane di stato maniacale seguite da un periodo di benessere, seguito a


sua volta da un nuovo periodo di depressione. Alcuni, tuttavia, presentano episodi misti in cui nella
stessa giornata si assiste all'alternanza dei sintomi maniacali e depressivi. Nel Disturbo Bipolare
II, episodi ipomaniacali (di intensità più lieve rispetto a quelli maniacali) si alternano episodi di de-
pressione maggiore in un arco di tempo più lungo.
Se non si fa alcun trattamento, gli episodi di umore alterato tendono a essere ricorrenti in entrambi i
tipi di disturbo bipolare; nella maggior parte dei casi, gli episodi depressivi tendono a superare in
numero gli episodi maniacali. Se non trattati, gli episodi di umore tendono a ripetersi in entrambi i
tipi di Disturbo Bipolare. Se il soggetto riscontra più di quattro episodi di umore nel corso di un an-
no, il disturbo viene definito a ciclo rapido.
I due tipi di disturbo sembrano essere ugualmente diffusi tra donne e uomini e in tutte le classi so-
cioeconomiche e nei diversi gruppi etnici. L'insorgenza tipica è tra i 15 e i 44 anni. Nella maggio-
ranza dei disturbi bipolari non trattati gli episodi maniacali e depressivi tendono ad attenuarsi con il
tempo per poi ripresentarsi in un momento successivo. Quando una persona attraverso ripetuti pe-
riodi di sintomi ipomaniacali e sintomi di depressione lieve, il DSM-5 indica una diagnosi di di-
sturbo ciclotimico. I sintomi di questa forma perdurano per due o più anni intervallati da periodi di
umore stabile della durata di alcuni giorni o settimane. In alcuni casi, i sintomi lievi possono aggra-
varsi e portare a un Disturbo bipolare I o II.

Episodio maniacale Disturbo Bipolare I Disturbo Bipolare II DSM-5:


le novità
✓ Un periodo definito di umore ✓ Presenza di un episo- ✓ Presenza di un epi- ✓ Disturbi bipo-
anormalmente e persistente- dio maniacale, ipo- sodio ipomaniacale o lari
mente elevato, espansivo o irri- maniacale o depressi- depressivo maggiore Oltre a una maggio-
tabile, della durata di almeno vo maggiore ✓ Se attualmente è pre- re diversificazione
una settimana ✓ Se attualmente è pre- sente un episodio delle forme, si è
✓ Persistenza di almeno tre dei sente un episodio ipomaniacale, è stato prevista una forma
sintomi seguenti: ipomaniacale o de- presente in preceden- di disturbo bipolare
✓ Autostima ipertrofica o grandio- pressivo maggiore, è za un episodio de- nei bambini. Com-
sità stato presente in pre- pressivo maggiore. prare una nuova
✓ Diminuito bisogno di sonno cedenza un episodio Non è mai stato pre- categoria inerente i
✓ Maggiore loquacità del solito, maniacale sente un episodio bambini definita
oppure spinta continua a parlare ✓ Disagio significativo maniacale disregolazione tem-
✓ Fuga di idee o esperienza sog- o compromissione del ✓ Disagio significativo peramentale con
gettiva che i pensieri si succeda- funzionamento o compromissione disforia
no rapidamente del funzionamento
✓ Distraibilità
✓ Aumento dell’attività finalizzata
oppure agitazione psicomotoria
✓ Eccessivo coinvolgimento in at-
tività ludiche che hanno un alto
potenziale di conseguenze dan-
nose
✓ Disagio significativo o com-
promissione del funzionamen-
to

Di recente, dalla ricerca biologica sono emersi alcuni indizi positivi sulle cause dei Disturbi Bipola-
ri. Le nuove intuizioni sule cause biologiche derivano dalla ricerca sull’attività dei neurotrasmettito-
ri e degli ioni, sulla struttura generale e sui fattori genetici.
Neurotrasmettitori. Negli anni Sessanta i clinici si chiesero se fosse possibile stabilire un collega-
mento tra un’iperattività della noradrenalina e lo stato maniacale. In seguito alle ricerche condot-

117
Riassunti di Silvia Varro

te, fu scoperta una relazione tra bassa attività della noradrenalina e Depressione Unipolare. Nume-
rosi studi confermarono che effettivamente l’attività della noradrenalina nelle persone con episodi
maniacali era superiore rispetto alle persone depresse o ai partecipanti dei gruppi di controllo.
Poiché nella Depressione Unipolare l'attività della serotonina è paragonabile a quella della noradre-
nalina, in un primo tempo i teorici si aspettavano un collegamento tra un'iperattività della serotonina
e stato maniacale, un collegamento che però non è mai stato confermato dalla ricerca empirica. Al
contrario gli studi indicano che lo stato maniacale sembra essere collegato, così come la depressio-
ne, a una bassa attività della serotonina. Tale ipoattività potrebbe favorire un disturbo dell’umore
e consentire così che l’attività noradrenergica definisca la particolare forma che il disturbo assume-
rà. In altre parole, una bassa attività della serotonina accompagnata a una bassa attività della nora-
drenalina può portare alla depressione, mentre una bassa attività della serotonina accompagnata da
una iperattività della noradrenalina può portare a uno stato maniacale.
Attività degli ioni. Gli ioni, atomi che presentano una carica elettrica, entrano nella trasmissione di
messaggi lungo l'assone del neurone fino alla sua terminazione nervosa. Ioni sodio a carica positiva
(Na+) si trovano su ciascun lato della membrana cellulare del neurone. Quando il neurone è a ripo-
so, esternamente alla membrana si trova una maggior concentrazione di ioni sodio, quando invece
esso riceve un messaggio in arrivo sui siti recettori, nella membrana cellulare si aprono canali che
consentono l'ingresso agli ioni sodio, aumentando così la carica positiva all'interno del neurone
stesso. Ciò provoca un’ondata di attività elettrica che percorre tutta la lunghezza del neurone e ne
provoca l’attivazione innescando un potenziale d’azione. Gli ioni potassio (K+) fuoriescono allora
dall'interno della membrana cellulare del neurone e questo ritorna allo stato di riposo originale.
Per un trasporto efficace dei messaggi lungo l’assone gli ioni devono essere in grado di attraversare
agevolmente la membrana cellulare del neurone. Alcuni studi ritengono che alcune irregolarità nel
meccanismo di trasporto degli ioni attraverso la membrana cellulare possa causare un'iperattiva-
zione dei neuroni (che porterebbero allo stato maniacale) o un'ostinata resistenza all'attivazione
(causa di depressione). Non sorprende che siano stati riscontrati difetti della membrana cellulare dei
neuroni di persone che soffrono di Disturbo Bipolare e che sia stato osservato un funzionamento
anomalo nelle proteine che agevolano il trasporto degli ioni attraverso la membrana neuronale.
Struttura cerebrale. Dalle neuroimmagini e dagli studi post mortem è emerso un certo numero di
anomalie nelle strutture cerebrali di persone con Disturbi Bipolari. Ad esempio, in questi soggetti i
gangli basali e il cervelletto tendono ad essere di dimensioni più ridotte rispetto alla norma. Non è
chiaro quale sia il ruolo di queste e di altre anomalie strutturali nel Disturbo Bipolare.
Fattori genetici. Molti studiosi ritengono che si possa ereditare una predisposizione biologica a svi-
luppare un Disturbo Bipolare. Tale ipotesi è suffragata dagli studi del pedigree familiare. I gemelli
omozigoti di soggetti affetti da Disturbo Bipolare hanno il 40% di probabilità di sviluppare lo stesso
disturbo, mentre i gemelli eterozigoti, i fratelli consanguinei e gli altri familiari stretti hanno tra il 5
e il 10% di probabilità, rispetto al tasso di prevalenza della popolazione generale compreso tra l'1 e
il 2,6%.
Sono stati condotti inoltre studi di associazione o linkage genetica per identificare possibili model-
li di ereditarietà del Disturbo Bipolare. Gli studiosi selezionano famiglie numerose in cui in più ge-
nerazioni si sia verificato un alto tasso di disturbi e si verificano se esso ha seguito un modello di
ereditarietà prevedibile. Altri ricercatori hanno usato tecniche di biologia molecolare per esaminare
i fattori genetici riuscendo a collegare i Disturbo Bipolari a geni sui cromosomi 1,4,6, 10, 11, 12,
13, 15, 18, 21 e 22. Tali scoperte indicano che probabilmente diversa anomalie genetiche sono in
gioco nelle concause dei Disturbi Bipolari.

Fino all'ultimo trentennio del secolo scorso, le persone affette da Disturbo Bipolare erano destinate
a trascorrere la loro vita su una sorta di “ottovolante emotivo”. La psicoterapia si dimostrava poco o

118
Riassunti di Silvia Varro

per nulla efficace, così come i farmaci antidepressivi, anzi, a volte erano i farmaci stessi a scatenare
un episodio maniacale.
Il litio e altri stabilizzatori dell’umore. Nel 1970 la FDA approvò l'uso del litio, un elemento bian-
co-argenteo che si trova in natura sotto forma di numerosi e semplici Sali minerali, utilizzato per il
trattamento del Disturbo Bipolare. Da allora sono stati introdotti nell'uso altri tipi di farmaci anti-
bipolari o stabilizzatori dell'umore, molti dei quali, compresi gli antiepilettici carbamazepina (Te-
gretol) e valproato (Depakin) sono oggi ampiamente usati, perché producono meno effetti collatera-
li del litio o perché più efficaci. Alcuni soggetti rispondono meglio a una combinazione di diversi
stabilizzatori dell’umore, mentre altri si trovano bene con una combinazione di farmaci stabilizzato-
ri dell’umore e antipsicotici atipici (vedi capitolo 12).
Numerose ricerche hanno confermato l’efficacia del litio e di altri stabilizzatori dell’umore nel trat-
tamento di episodi manicali. Oltre 60% dei pazienti in stato maniacale migliora assumendo tali
farmaci e inoltre, finché continua la terapia, tende ad avere meno nuovi episodi. Uno studio ha indi-
cato che il rischio di recidiva è di 28 volte maggiore se i pazienti interrompono l’assunzione di sta-
bilizzatori dell’umore; per questo motivo, si tende a somministrare questi ultimi anche dopo che gli
episodi maniacali sono scomparsi.
Gli stabilizzatori dell'umore si dimostra efficaci anche per aiutare i soggetti con Disturbo Bipolare a
superare gli episodi depressivi, anche se in grado minore rispetto all'efficacia degli episodi mania-
cali. A causa del minore influsso del farmaco sugli episodi depressivi, è molto utilizzata una combi-
nazione di stabilizzatori dell'umore e di antidepressivi. Inoltre, dosi continuate di stabilizzatori
dell’umore sembrano ridurre il rischio di episodi depressivi futuri, così come sembrano prevenire la
comparsa di episodi maniacali. La ricerca non ha chiarito del tutto i meccanismi di funzionamento
dei farmaci stabilizzatori dell'umore. Si ritiene che i farmaci modifichino l'attività sinaptica dei neu-
roni, anche se in modo diverso rispetto agli antidepressivi. L’attivazione di un neurone è costituita
in effetti da più fasi che si susseguono a una velocità impressionante. Quando il neurotrasmettitore
si lega a un recettore sul neurone ricevente, si verificano una serie di combinazioni all’interno del
neurone preparandolo alla generazione di impulsi. Le sostanze che effettuano tali cambiamenti nel
neurone sono detti secondi messaggeri, in quanto inoltrano il messaggio originale dal sito del recet-
tore al meccanismo di attivazione sul neurone (il neurotrasmettitore stesso è considerato il primo
messaggero). Mentre gli antidepressivi agiscono sulla ricezione iniziale di neurotrasmettitori da
parte del neurone, gli stabilizzatori dell'umore sembrano avere un'influenza sui secondi messaggeri
del neurone.
È stato scoperto inoltre che il litio e altri stabilizzatori dell’umore aumentano la produzione di pro-
teine neuroprotettive, sostanze proteiche all’interno di certi neuroni che hanno il compito di impe-
dire la morte cellulare. In questo senso, i farmaci possono favorire il benessere e il funzionamento
di queste cellule e ridurre quindi i sintomi bipolari.

Razza e non compliance


Da uno studio recente su pazienti bipolari che si rivolgono a servizi psichiatrici (USA) è emerso
che la metà dei pazienti, sia afroamericani sia bianchi, non segue la terapia farmacologica antibi-
polare prescritta. Perché? I pazienti di entrambe le razze hanno indicato più o meno gli stessi ef-
fetti indesiderati dei farmaci. Tuttavia, gli afroamericani hanno citato più spesso il timore di di-
ventare farmacodipendenti e la preoccupazione che i farmaci fossero il simbolo di un problema
grave.

Psicoterapia aggiuntiva. La sola psicoterapia è raramente efficace nel caso di persone con Disturbo
Bipolare. I clinici sanno inoltre che i farmaci stabilizzatori dell'umore non sono utili per più del
30% dei pazienti perché i pazienti possono non rispondere al litio e a farmaci simili, non assumono
il dosaggio corretto o possono avere ricadute anche con la terapia in corso. Inoltre, numerosi pa-
zienti smettono di propria iniziativa di prendere farmaci prescritti.

119
Riassunti di Silvia Varro

Considerati questi problemi, oggi molti clinici utilizzando una terapia individuale, di gruppo o
familiare in aggiunta ai farmaci stabilizzatori dell'umore, per aver modo di sottolineare costante-
mente l'importanza di assumere i farmaci con costanza e per aiutare i pazienti a risolvere i particola-
ri problemi familiari, sociali, scolastici e lavorativi causati da loro disturbo. È emerso che la terapia
aggiuntiva contribuisce a ridurre i ricoveri in clinica, migliora il funzionamento sociale e aumenta la
capacità dei pazienti di trovare o di conservare un lavoro.

Nel 2010, la task-force del DSM-5 ha proposto una serie di cambiamenti relativi ai disturbi
dell’umore:
1. Suddivisione dei "Disturbi dell'umore" in due gruppi: "Disturbi depressivi" e "Disturbi bipo-
lari e correlati". Una ragione di questa separazione è di separare ulteriormente i disturbi di tipo
unipolare da quelli caratterizzati da sintomi maniaco-depressivi. I sintomi della Depressione
Unipolare e della Depressione Bipolare sono così simili che i clinici sono stati indotti a conside-
rarle come variazioni dello stesso disturbo; tuttavia, ricerche importanti suggeriscono che queste
forme di depressione hanno un decorso diverso, hanno cause diverse e necessitano di cure di-
verse. All’interno dei disturbi bipolari e correlati, ha proposto di aggiungere una categoria, il di-
sturbo bipolare indotto da sostanze.
2. Aggiunta della categoria, all'interno del gruppo "Disturbi bipolari e correlati”, “Disturbo Bipo-
lare indotto da sostanze” (ingestione di sostanze illecite o, perfino, farmaci) al fine di aiutare i
clinici a individuare tali casi in modo più immediato.
3. Eliminazione del Disturbo Distimico presente nel DSM-5-TR e creazione di una categoria
chiamata disturbo depressivo cronico. Il disturbo distimico designa un modello in cui la de-
pressione dell’individuo è lieve, ma più lunga (almeno due anni) di quella che caratterizza il Di-
sturbo Depressivo Maggiore. Invece, la nuova categoria sarebbe applicata a tutti i casi di de-
pressione cronica (più di due anni), indipendentemente dal grado di gravità dei sintomi.
4. Aggiunta di due nuove categorie nei “Disturbi depressivi”: disturbo misto d’ansia e depres-
sione, i cui sintomi di depressione grave di un individuo sono associati ad alti livelli d’ansia, e e
il disturbo disforico premestruale, caratterizzato dal ripetuto insorgere di depressione e sinto-
mi correlati nella settimana precedente il ciclo mestruale.
5. Proposta di un’altra categoria, il disturbo dirompente di disregolazione dell’umore nei “Di-
sturbi Depressivi”. Questa categoria è un modello che inizia prima dei 10 anni, caratterizzato da
un quadro duraturo di esplosioni di collera, depressione e rabbia. Negli ultimi 15 anni, i clinici
hanno sempre più spesso diagnosticato il Disturbo Bipolare a bambini che presentavano questi
sintomi. Con la creazione della nuova categoria, si pensa che la diagnosi del Disturbo Bipolare
nei bambini diventi meno comune.

120
Riassunti di Silvia Varro

Capitolo 10

Gli esseri umani amano una notevole varietà di cibi e bevande: ogni sostanza esistente sulla Terra è
stata probabilmente provata da qualcuno in un momento o nell’altro nella storia. Si è scoperto che
alcune sostanze hanno effetti interessanti su cervello e corpo: per questo prendiamo un’aspirina
quando abbiamo mal di testa, un antibiotico per combattere un’infezione o, ancora, un tranquillante
per calmarci. Beviamo caffè per darci la carica al mattino o vino per rilassarci con gli amici. Magari
fumiamo una sigaretta per distendere i nervi. Tuttavia, molte di queste sostanze possono essere dan-
nose o alterare il nostro comportamento; il loro uso scorretto è diventato uno dei maggiori problemi
della società (solo negli Stati Uniti il costo stimato dell’abuso di sostanze supera i 200 miliardi di
dollari ogni anno). Le persone che ne fanno uso regolare possono sviluppare due modelli di com-
portamento maladattivi e delle conseguenti modificazioni delle reazioni psicofisiche:
1. Abuso di sostanze: le persone ricorrono eccessivamente in modo cronico a una droga e così fa-
cendo provocano danni alla famiglia e alle relazioni sociali, hanno uno scarso rendimento sul
lavoro e mettono in pericolo se stessi e gli altri;
2. Dipendenza da sostanze: comporta un certo grado di assuefazione. Non c’è soltanto l’uso
smodato della droga, ma l’intera vita delle persone ruota attorno ad essa, si può strutturare anche
una dipendenza fisica della sostanza, caratterizzata da tolleranza (bisogno di dosi sempre mag-
giori per continuare a ottenere l’effetto desiderato), e/o sintomi di astinenza (sintomi spiacevoli
quali crampi, tremori, attacchi di ansia, ipersudorazione, ansia, sintomi che si verificano quando
si smette all’improvviso di assumere la sostanza da cui si dipende).

✓ Una modalità patologica d’uso di una sostanza, ✓ Dipendenza da sostanze


che porta a menomazione o disagio clinicamente Viene proposta l’eliminazione delle categorie
significativi. dell’abuso e della dipendenza da sostanze rim-
✓ Almeno una delle condizioni seguenti, ricorrenti piazzandola con la nuova categoria “disturbi di
entro un periodo di 12 mesi: dipendenza e correlati”. Viene meglio eviden-
✓ Uso di grandi quantità di sostanza o per un perio- ziato il comportamento di craving e ricerca com-
do di tempo più lunga del previsto; pulsiva di sostanze, differenziandole dalle normali
✓ Desiderio persistente o sforzi inutili di ridurre o risposte di tolleranza e di astinenza che qualche
controllare l’uso della sostanza; paziente prova anche nell’uso di normali tratta-
✓ Passare un’eccessiva quantità di tempo per otte- menti psicofarmacologici.
nere, utilizzare e riprendersi dagli effetti della so- ✓ Dipendenze comportamentali
stanza; Viene proposta la formulazione di dipendenze
✓ Impossibilità di concludere i propri compiti sul comportamentali che include, per ora, solamente
lavoro, a scuola o a casa a causa dell’uso ricor- il gioco d’azzardo patologico (precedentemente
rente di sostanze; nella categoria di disturbi da discontrollo degli
✓ Utilizzo continuativo di sostanze nonostante i impulsi).
problemi sociali o interpersonali che ne derivano; È stata proposta la diagnosi di internet addiction
✓ Interruzione o diminuzione di importanti attività disorder. Per ora non sarà inclusa tra le dipen-
sociali, lavorative o ricreative a causa dell’uso di denze comportamentali, sarà collocata
sostanze; nell’appendice di patologie che richiedono ulterio-
✓ Uso ricorrente delle sostanze anche quando può ri approfondimenti: si tratta infatti di una
avere conseguenze pericolose per l’organismo; categoria ancora assai poco definita.
✓ Utilizzo continuativo nonostante la consapevo-
lezza che stia causando ed esacerbando un pro-
blema fisico o patologico;
✓ Tolleranza e Astinenza;
✓ Estremo o forte desiderio o urgenza di farne uso

121
Riassunti di Silvia Varro

Sono dette depressive le sostanze che rallentano l’attività del Sistema Nervoso Centrale (SNC),
esse allenano la tensione e le inibizioni e possono interferire con la capacità di giudizio
dell’individuo, l’attività motoria e la concentrazione. I tre gruppi di sostanze depressive compren-
dono l’alcol, i farmaci sedativi ipnotici e gli oppiacei.

Secondo le stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), nel mondo due miliardi di per-
sone fanno uso di alcol.
Quando si consumano cinque o più bicchieri in una sola occasione, si parla di episodio di binge
drinking o bevuta compulsiva. Quasi il 7% delle persone sopra gli undici anni sono forti bevitori,
individui che si ubriacano almeno cinque volte al mese. Tra di essi i maschi sono più frequenti delle
femmine, in un rapporto di 2:1, in percentuale 8% contro 4%.
Tutte le bevande alcoliche contengono alcol etilico, una sostanza chimica che viene assorbita rapi-
damente nello stomaco e nell’intestino e poi immessa nel flusso sanguigno attraverso il rivestimento
dello stomaco e dell’intestino. L’alcol etilico, appena entrato in circolo, inizia immediatamente a fa-
re effetto, arrivando al sistema nervoso centrale e comincia a deprimerne, ossia a rallentarne, il fun-
zionamento legandosi a diversi neuroni. Un importante gruppo di neuroni ai quali si lega sono gli
stessi che normalmente ricevono il neurotrasmettitore GABA, il quale trasmette un messaggio inibi-
torio, ossia un messaggio di disattivazione, quando viene ricevuto da certi neuroni. Quando l’alcol
si lega ai recettori presenti su tali neuroni, potenzia l’attività del GABA nella disattivazione dei neu-
roni, favorendo così il rilassamento muscolare in chi ha bevuto.
All’inizio l’alcol etilico deprime le aree cerebrali che controllano la capacità di giudizio e
l’inibizione: le persone progressivamente si disinibiscono, diventano via via più loquaci e amiche-
voli. Con la disattivazione del centro di controllo, le persone possono sentirsi fiduciose, rilassate e
felici. Con l’aumento della quantità di alcol assorbito, anche altre aree del sistema ner-
voso centrale vengono rallentate: il bevitor ha meno capacità di giudizio, l’eloquio si
fa impacciato e meno chiaro, la memoria vacilla. Spesso le emozioni sono esacerba-
te e le persone possono diventare chiassose e aggressive. Infine, se si continua a in-
gerire alcol subentrano difficoltà motorie e il tempo di reazione si allunga. Il bevitore
può barcollare quando sta in piedi o cammina, oltre ad avere difficoltà a compiere anche
le attività più semplici.
Chi ha assunto un quantitativo troppo eccessivo di alcol può avere grandi difficoltà nella
guida o nella risoluzione di problemi anche semplici. L’entità degli effetti dell’alcol eti-
lico viene determinata attraverso la relativa concentrazione nel sangue: una data quantità di alcol
avrà meno effetti su una persona alta e robusta rispetto a un individuo piccolo e magro. La concen-
trazione di alcol nel sangue dipende anche dal genere. Nello stomaco delle donne è presente una
minore quantità dell’enzima alcol deidrogenasi, che sintetizza subito l’alcol prima che si diffonda
in circolo nel sangue; per questa ragione a parità di alcol ingerito le donne si ubriacano prima degli
uomini.
Il livello di menomazione è strettamente connesso alla concentrazione di alcol etilico nel sangue:
- 0,06%: la persona si sente bene, rilassata
- 0,09%: intossicazione
- 0,55%: si rischia la morte; spesso si perdono i sensi prima di poter bere abbastanza da raggiun-
gere questo livello, malgrado ciò, ogni anno negli Stati Uniti muoiono più di 1.000 persone a
causa di un livello ematico di alcol troppo elevato
Gli effetti dell’alcol svaniscono solo quando la relativa concentrazione nel sangue scende. La mag-
gior parte dell’alcol ingerito viene degradato, o metabolizzato, nel fegato, in acqua e anidride car-
bonica, che viene successivamente eliminata attraverso la respirazione e la traspirazione. Nonostan-

122
Riassunti di Silvia Varro

te la credenza diffusa, solo il tempo e il metabolismo fanno ritornare sobri. Bere caffè forte, bagnar-
si il viso con acqua fredda o sforzarsi di ritornare in sé non serve ad accelerare il processo.
Benchè legale, l’alcol è a tutti gli effetti una delle droghe ricreative più pericolose, con effetti che
perdurano tutta la vita. Le statistiche indicano che in un anno il 7,4% della popolazione adulta degli
Stati Uniti soffre di disturbo da uso di alcol, meglio conosciuto come alcolismo.
In termini generali, nell’abuso di alcol le persone bevono regolarmente grandi quantità di bevande
alcoliche e ricorrono al bere per eseguire azioni che altrimenti le renderebbero ansiose. Alla fine il
bere interferisce con le relazioni sociali e con la capacità di pensare e lavorare. Questa abitudine
può provocare tensioni e frequenti discussioni con familiari e amici, ripetute assenza dal lavoro e
anche la perdita del lavoro stesso. Le neuroimmagini di forti bevitori cronici hanno rivelato danni in
diverse aree del cervello e menomazioni della memoria a breve termine, della velocità di pen-
siero, della capacità di attenzione e dell’equilibrio.
Il modello di abuso di alcol è variabile:
- Alcuni assumono tutti i giorni grandi quantità di alcol e continuano a bere fino
all’intossicazione;
- Altri hanno un comportamento periodico di forti ubriacature o bevono per molte settimane o
mesi, possono restare intossicati per giorni e non ricordare nulla di quel periodo;
- Altri possono limitare l’assunzione di alcol ai fine settimana, alla sera o a entrambi i momenti.
Per molte persone, il modello di uso di alcol comprende la dipendenza. L’organismo sviluppa una
tolleranza all’alcol e per avvertirne l’effetto ricercato è necessario bere sempre di più. Quando si
smette di bere, si ha una crisi d’astinenza. Dopo poche ore, iniziano i tremori a livello di mani, lin-
gua e palpebre; il soggetto si sente debole e ha la nausea con sudorazione e vomito; il battito cardia-
co aumenta e la pressione sale. Possono subentrare ansia, depressione, insonnia e irritabilità.
Una piccola percentuale degli individui con dipendenza da alcol può esperire una reazione da asti-
nenza particolarmente grave, il delirium tremens (DT), il quale prevede allucinazioni visive terri-
ficanti che iniziano entro tre giorni dal momento in cui il soggetto ha smesso di bere o ha ridotto
sensibilmente la quantità di alcol. Alcuni vedono animaletti repellenti che li inseguono o strisciano
su di loro oppure oggetti che si muovono davanti ai loro occhi. Il DT ha in genere una durata di due
o tre giorni e può comportare ulteriori sintomi come convulsioni, perdita di coscienza, emorragia
cerebrale e addirittura morte.
Qual è l’impatto personale e sociale dell’alcolismo?
L’alcolismo distrugge milioni di famiglie, rapporti sociali e carriere lavorative. È un disturbo che ha
un ruolo rilevante in oltre un terzo di suicidi, omicidi, aggressioni, stupri e morti accidentali. In
totale, chi guida in stato di ubriachezza è responsabile di 12.000 morti ogni anno e più di 30 milioni
di adulti hanno guidato ubriachi almeno una volta nell’ultimo anno.
L’alcolismo ha effetti gravi anche sui figli delle persone con questo disturbo, la cui vita è in genere
carica di conflitti, tensioni e in alcuni casi anche di abusi sessuali o maltrattamenti. A loro volta,
questi ragazzi tendono a sviluppare problemi psicologici in misura maggiore rispetto ai coetanei:
molti di loro hanno bassa autostima, scarse capacità di comunicazione, scarsa socievolezza e diffi-
coltà di coppia.
Inoltre, l’abuso di alcol nel lungo periodo danneggia gravemente la salute, in quanto sovraccarica il
fegato, tanto che gli alcolisti possono sviluppare una patologia irreversibile detta cirrosi epatica,
caratterizzata da necrosi, fibrosi e malfunzionamento del fegato. Oltre al fegato, l’abuso e la dipen-
denza da alcol possono danneggiare anche il cuore e la capacità del sistema immunitario di contra-
stare il cancro e le infezioni batteriche, nonché di combattere l’insorgenza dell’AIDS dopo
l’infezione.
L’abuso di alcol può causare anche problemi nutrizionali: grazie al suo potere saziante, infatti,
l’alcol deprime l’appetito, ma non ha alcun valore nutritivo. Di conseguenza, i bevitori cronici sono
malnutriti, deboli e più esposti a contrarre malattie. In questi soggetti si riscontrano spesso carenze
vitaminiche che possono causare gravi problemi. La carenza di vitamina B (tiamina) correlata

123
Riassunti di Silvia Varro

all’uso di alcol, per esempio, può provocare la sindrome di Korsakoff, una condizione patologica
caratterizzata da estrema confusione, perdita della memoria e altri sintomi neurologici. I soggetti af-
fetti non riescono a ricordare il passato o ad apprendere nuove informazioni e possono compensare i
vuoti di memoria attraverso la confabulazione, l’invenzione di eventi e ricordi.
Infine, le donne che assumono alcol durante la gravidanza pongono a rischio anche il feto. Se la
madre ha fatto uso eccessivo di alcol in gravidanza, il bambino può nascere con la sindrome alcoli-
co fetale, una serie di anomalie che possono comprendere ritardo mentale, deformazione del viso e
della testa, patologie cardiache e ritardo di crescita. Inoltre, l’abuso di alcol nei primi mesi di gravi-
danza spesso causa l’aborto spontaneo.

I farmaci sedativo ipnotici, detti anche ansiolitici, inducono un senso di rilassatezza e sonnolenza. A
basse dosi hanno un effetto calmante o sedativo, mentre a dosi alte sono usati come sonniferi o ip-
notici. Dei farmaci sedativo ipnotici fanno parte:
1. I barbiturici: scoperti in Germania più di un secolo fa, venivano prescritti normalmente fino
agli anni Cinquanta per combattere l’ansia e favorire il sonno. Anche se sono tuttora prescritti
da alcuni medici, sono stati in gran parte sostituiti dalle benzodiazepine, in quanto possono cau-
sare diversi problemi, tra cui dipendenza e abuso. La dipendenza dai barbiturici è pericolosa
perché la dose letale del farmaco rimane la stessa anche quando l’organismo sta sviluppando
tolleranza verso i suoi effetti sedativi. Una volta che la dose prescritta non riesce più a ridurre
l’ansia o a favorire il sonno, l’utilizzatore tende facilmente ad aumentarla senza controllo medi-
co, finendo così per assumere una dose fatale. La sua astinenza è pericolosa: può provocare
convulsioni.
2. Le benzodiazepine: farmaci antiansia comparsi negli anni Cinquanta. Xanax, Tavor e Valium
sono tre esempi delle decine di farmaci utilizzati in ambito clinico. Come l’alcol e i barbiturici,
l’effetto calmante avvien quando il principio attivo si lega ai recettori sui neuroni che ricevono
il GABA, aumentandone l’attività. Le benzodiazepine hanno la caratteristica di attenuare l’ansia
senza però dare la sonnolenza di altri farmaci sedativo-ipnotici. È anche meno comune l’effetto
di blocco della respirazione ed è meno probabile un iperdosaggio letale. Dosi elevate possono
tuttavia provocare intossicazione, abuso o dipendenza.

Degli oppiacei fanno parte l’oppio (ricavato dalla linfa del papavero da oppio) e le sostanze deriva-
te: eroina, morfina e codeina. L’oppio come tale viene utilizzato da migliaia di anni, tuttavia induce
dipendenza fisica. In passato veniva largamente impiegato nella cura dei disturbi mentali per la sua
capacità di ridurre la sofferenza sia fisica che emotiva.
La morfina, il cui nome deriva da Morfeo, il dio greco del sonno, è una sostanza capace di attenua-
re il dolore ancora più dell’oppio e inizialmente considerata sicura. Tuttavia l’impiego diffuso della
morfina ha rivelato che anch’essa può dare assuefazione. Dalla morfina è stata ricavata un’altra so-
stanza analgesica, l’eroina, la quale per anni fu considerata un farmaco portentoso, impiegato come
sedativo della tosse e per altri scopi medici; poi si è scoperto che causa dipendenza ancora maggiore
rispetto agli altri oppiacei. Nel 1917 il Congresso americano giunse alla conclusione che tutte le so-
stanze ricavate dall’oppio causavano assuefazione e promulgò una legge che dichiarava illegale
l’uso di oppiacei, se non sotto stretto controllo medico.
Dall’oppio sono state ricavate anche altre sostanze e sono stati prodotti anche oppiacei sintetici in
laboratorio, come il metadone. Tutti questi oppiacei, naturali e sintetici, sono definiti nel loro in-
sieme narcotici, i quali vengono fumati, inalati, sniffati, iniettati sottocute o direttamente in vena. Il
metodo più comune di assunzione sembra essere tramite iniezione, la quale provoca rapidamente un
flash, una sensazione di calore e un intenso piacere che qualcuno ha paragonato all’orgasmo. Tale
breve sensazione piacevole è seguita da diverse ore di benessere, dette in gergo up o sballo. In que-

124
Riassunti di Silvia Varro

sta fase, chi fa uso di eroina si sente rilassato, felice e non è interessato al cibo, al sesso o ad altri bi-
sogni fisici. Tale effetto viene provocato perché gli oppiacei hanno un’azione depressiva sul sistema
nervoso centrale: queste sostanze si legano ai siti recettori del cervello che normalmente ricevono le
endorfine, neurotrasmettitori implicati nella riduzione del dolore delle tensioni emotive. Quando
ciò avviene, essi producono sensazioni di calma e piacere proprio come se ricevessero endorfine.
Gli oppiacei provocano inoltre nausea, restringimento delle pupille e costipazione.
L’eroina crea dipendenza, diventa il perno attorno a cui si struttura tutta la vita di chi ne fa uso; il
soggetto acquisisce tolleranza nei confronti della sostanza e manifesta, quando smette di prenderla,
sintomi di astinenza. Inizialmente i sintomi di astinenza sono ansia, irrequietezza, forte traspira-
zione e frequenza respiratoria accelerata; poi subentrano febbre, spasmi muscolari, vomito, diarrea,
perdita dell’appetito e di peso fino a 7 chili (a causa della diminuzione di fluidi corporei). I sintomi
raggiungono il picco entro il terzo giorno, per poi diminuire gradualmente di intensità e scomparire
del tutto entro l’ottavo giorno.
I soggetti già dipendenti dall’eroina hanno bisogno della loro dose semplicemente per evitare di
avere una crisi d’astinenza, ma devono anche aumentare costantemente le dosi per ottenere quel
senso di sollievo. Lo sballo temporaneo diviene sempre meno intenso e più effimero. Il tossicodi-
pendente passa gran parte del tempo a pensare alla dose successiva e in molti casi si procura il dena-
ro necessario a finanziare quella costosa abitudine con attività criminali, come furto e prostituzione.
Il pericolo più immediato connesso all’uso di eroina è quello di overdose, intesa come l’assunzione
di un quantitativo eccessivo della sostanza che comporta l’arresto dell’attività del centro respiratorio
a livello cerebrale e la conseguente paralisi della respirazione e spesso la morte (molti muoiono nel
sonno non essendo in grado di contrastare questi effetti). Le persone che riprendono a fare uso di
eroina dopo aver smesso per un po’ di tempo commettono spesso un errore fatale: assumono la stes-
sa dose a cui erano abituati prima di smettere, ma poiché l’organismo non è più abituato non riesce
a tollerarla esperendola come una dose eccessiva.
Infine, si aggiunge il rischio di diffondere e contrarre infezioni come AIDS, HIV ed epatite C do-
vute all’uso ripetuto degli stessi aghi e di altro materiale non sterile.

Gli stimolanti sono sostanze che potenziano l’attività del sistema nervoso centrale, con conseguente
aumento della pressione sanguigna e del battito cardiaco, miglioramento della capacità di attenzio-
ne, maggiore velocità di azione e di pensiero. Tra gli stimolanti più usati e problematici vi sono la
cocaina e le amfetamine, che hanno effetti molto simili. Altri stimolanti molto usati e del tutto legali
sono la caffeina e la nicotina.

La cocaina, principio attivo principale della pianta di coca coltivata in Sud America, è lo stimolante
di origine naturale più potente che si conosca attualmente. La cocaina raffinata è una polvere bian-
ca, impalpabile e inodore. Per uso ricreativo viene per lo più sniffata e assorbita così attraverso le
mucose nasali. Alcuni utilizzatori preferiscono l’effetto più potente che si ottiene tramite iniezione
endovenosa o fumandola con una pipa o una sigaretta.
La cocaina induce grande euforia, benessere e fiducia in se stessi. In dosi abbastanza elevate,
questa sensazione, paragonabile a quella prodotta dall’eroina, può essere simile all’orgasmo. Ini-
zialmente la cocaina stimola i centri superiori del sistema nervoso centrale, rendendo l’utilizzatore
iperattivo, energico, loquace, persino euforico. Aumentando le dosi, la sostanza stimola
altri centri del sistema nervoso centrale, producendo polso accelerato, aumento della
pressione sanguigna, respiro pesante e accelerato, ulteriore attivazione e capacità di
attenzione.
Sembra accertato che la cocaina produca tali effetti aumentando la quantità del
neurotrasmettitore dopamina in neuroni chiave in varie aree cerebrali. Quantità

125
Riassunti di Silvia Varro

molto elevate di dopamina si spostano in tutto il sistema nervoso centrale verso i neuroni riceventi,
che vengono così iperstimolati. La cocaina sembra avere un effetto stimolante anche sull’attività dei
neurotrasmettitori noradrenalina e serotonina in alcune aree del cervello.
Dosi elevate di droga producono intossicazione da cocaina, con sintomi come scarsa coordinazione
muscolare, idee di grandezza, scarsa capacità di giudizio, rabbia, aggressività, comportamento com-
pulsivo, ansia, confusione. Come possiamo leggere nel caso seguente, alcune persone hanno alluci-
nazioni, deliri o entrambi, una condizione detta disturbo psicotico indotto da cocaina.

CASO 10.1
Un ragazzo descriveva come, dopo aver fumato crack, si era diretto al suo armadietto per cam-
biarsi e si era sentito chiedere dal suo completo “Cosa vuoi?”. Spaventato, si era diretto verso la
porta e questa gli aveva detto “Indietro!”. Retrocedendo verso il divano, si era sentito apostrofare:
“Se ti siedi su di me, ti do un calcio nel sedere”. Angosciato, in preda a un forte senso di ansia e
panico temporaneo, il giovane è andato rapidamente in ospedale per chiedere aiuto.

Quando gli effetti della cocaina svaniscono, il consumatore attraversa un periodo con sintomi simili
alla depressione, detto in gergo down, una condizione che provoca mal di testa, capogiri e perdita di
sensi. Negli utilizzatori occasionali gli effetti secondari in genere scompaiono entro 24 ore, mentre
possono persistere più a lungo e causare stato confusionale, sonnolenza profonda, e in alcuni casi,
coma nelle persone che hanno assunto dosi elevate della sostanza.
Molti consumatori oggi assumono cocaina a base libera, una forma di assunzione in cui
l’alcaloide31 della cocaina pura viene separato chimicamente dalla cocaina raffinata, vaporizzata
tramite il calore di una fiamma e inalata con una pipa. Milioni di persone, come nel caso sopra, fu-
mano crack, una potente forma di cocaina a base libera che si ricava facendo scogliere la cocaina in
acqua con bicarbonato e lasciando poi evaporare l’acqua; la cocaina viene percepita sottoforma di
cristalli che, una volta asciugati sotto una fonte di calore, vengono fumati con apposite pipe. Il no-
me deriva dal particolare scoppiettio prodotto dai frammenti combusti e fumati nel cannello della
pipa.
A parte gli effetti dannosi della cocaina sul comportamento, la droga è causa diretta di gravi danni
fisici; il suo uso è stato inoltre collegato a circa il 20% di tutti i suicidi di maschi sotto i 61 anni di
età.

Ereditarietà o modellamento?
La tendenza a diventare fumatori e dipendenti dalla nicotina è spesso ereditaria. Tale tendenza
sembra essere favorita sia da fattori ereditari sia da fattori ambientali.

Il pericolo maggiore legato all’uso di cocaina è l’overdose. Dosi elevate hanno un effetto potente
sul centro respiratorio del cervello, dapprima stimolandolo e poi deprimendolo, al punto che la re-
spirazione può arrestarsi. La cocaina può indurre anche gravi aritmie cardiache, talora fatali, oppure
convulsioni che possono provocare l’arresto improvviso del cuore o della respirazione. Nelle donne
in stato di gravidanza è alto il rischio di aborto o di avere figli con anomalie del sistema immunita-
rio, problemi di attenzione, di apprendimento, alterazioni nelle dimensioni della tiroide e
nell’attività cerebrale della dopamina e della serotonina.

Allarme cocaina
I ricoveri per disintossicazione da cocaina superano di gran lunga quelli dovuti all’uso di altre

31
Sostanza organica azotata a carattere basico, capace cioè di formare con gli acidi dei composti del tipo dei sali, analo-
gamente agli alcali, per lo più di origine vegetale; generalmente tossica per l'organismo, in piccole dosi può essere an-
che curativa.

126
Riassunti di Silvia Varro

droghe.
All’inizio della sua carriera, Sigmund Freud era un sovente sostenitore dell’uso di cocaina e af-
fermava che “La cocaina induce euforia […], aumento dell’autocontrollo e maggiore vitalità e
capacità di lavorare” (Freud, 1885)

Le amfetamine sono sostanze stimolanti prodotte in laboratorio, diffuse presto tra coloro che vole-
vano dimagrire, gli atleti che cercavano esplosione di energia, soldati, camionisti, piloti che voleva-
no stare svegli, studenti che passavano le notti sui libri a studiare. Oggi i medici sanno bene che si
tratta di sostanze troppo pericolose per essere utilizzate con tanta facilità e le prescrivono con molta
parsimonia.
Le amfetamine vengono assunte per lo più sotto forma di compresse o capsule e, come la cocaina, a
basse dosi aumentano l’energia e la capacità di attenzione e riducono l’appetito, a dosi elevate indu-
cono una scarica di energia, intossicazione e psicosi, mentre quando vengono metabolizzate, produ-
cono un crollo emotivo. Inoltre, similmente alla cocaina, le amfetamine agiscono sul sistema nervo-
so centrale aumentando il rilascio nel cervello dei neurotrasmettitori dopamina, noradrenalina e se-
rotonina. Una variante è la metamfetamina (detta crank), venduta sotto forma di cristalli, detti in
gergo ice e crystal meth, che vengono fumati. La maggior parte della metamfetamina per uso non
medico viene prodotta negli Stati Uniti in laboratori improvvisati (è detta infatti anche “droga da
cucina”), che in genere operano per alcuni giorni in aree isolate e poi si spostano in località sempre
diverse per maggiore sicurezza. Come altri tipi di amfetamine, la metamfetamina aumenta l’attività
dei neurotrasmettitori dopamina, serotonina e noradrenalina, producendo un incremento
dell’attività, dell’attenzione e altri effetti correlati. Chi ne fa uso ricerca però i suoi effetti positivi
immediati, come la sensazione di euforia, eccitazione sessuale e caduta dei freni inibitori.
L’uso regolare di amfetamina e cocaina può condurre ad un disturbo da uso di stimolanti. La so-
stanza stimolante arriva a controllare la vita del soggetto, il quale può rimanere sotto effetto quasi
ogni giorno, con una cattiva funzionalità nei rapporti interpersonali e sul lavoro. Possono sviluppar-
si anche tolleranza e astinenza. Per ottenere gli effetti desiderati sono necessarie dosi sempre più
elevate e interrompere l’assunzione causa una grave depressione, fatica, problemi del sonno, irrita-
bilità ed ansia.

Ogni anno negli Stati Uniti 440.000 persone muoiono a causa del fumo. Il tabagismo è collegato
direttamente a ipertensione, malattie coronariche, patologie polmonari, cancro, ictus e
altri gravi problemi di salute. I non fumatori esposti a fumo passivo hanno a loro volta
un maggiore rischio di ammalarsi di cancro ai polmoni e di altre patologie. Il 16,4%
di tutte le donne fumatrici in gravidanza ha maggiori probabilità rispetto alle non
fumatrici di avere un parto prematuro e neonati sottopeso.
Ma allora, perché tante persone continuano a fumare? Perché la nicotina, l’alcaloide contenuto
nel tabacco, stimolante del sistema nervoso centrale, induce dipendenza quanto l’eroina e forse
anche di più. Secondo l’OMS, 1,1 miliardi di persone nel mondo sono dipendenti dalla nicotina.
I fumatori cronici sviluppano tolleranza nei confronti della nicotina e per ottenere gli stessi risul-
tati devono fumare sempre di più. Quando cercano di smettere hanno sintomi da astinenza quali
irritabilità, aumento dell’appetito, problemi del sonno, metabolismo rallentato e intenso desiderio
di fumare (craving). La nicotina, come stimolante, agisce sugli stessi neurotrasmettitori e sul cen-
tro cerebrale della gratificazione (Reward System) sui quali agiscono le amfetamine e la cocaina.

127
Riassunti di Silvia Varro

Un trattamento comportamentale abbastanza efficace è la terapia avversiva32, la quale associa


uno stimolo sgradevole allo stimolo piacevole del fumo. In una prima versione di questo approc-
cio, detto fumo rapido (rapid smoking), il soggetto è seduto in un piccolo locale chiuso e fuma
rapidamente una sigaretta (un’aspirazione ogni 6-10 secondi), gli si chiede di concentrarsi sulle
sensazioni negative o immaginando gli effetti dannosi, fino a che non inizia a sentirsi male e non
riesce più a dare un’altra boccata. Al fumo viene associato un senso di malessere e il fumatore
sviluppa un’avversione alle sigarette. Trattamenti di tipo biologico:
- Gomme da masticare alla nicotina: prodotto contenente cospicue quantità di nicotina che
viene rilasciata quando la gomma viene masticata. In teoria, ricavando la nicotina da un’altra
fonte, dovrebbe cessare il desiderio di fumare.
- Cerotto alla nicotina: la nicotina contenuto in esso viene assorbita attraverso la pelle per tut-
ta la giornata e ciò dovrebbe evitare crisi d’astinenza e ridurre il desiderio di fumare.
- Compresse alla nicotina, spray nasali alla nicotina, farmaco antidepressivo bupropione
(nome commerciale Zyban, Wellbutrin)
Più si fuma, più è difficile smettere. L’aspetto positivo, tuttavia, è che il rischio di malattie e di
morte negli ex fumatori diminuisce costantemente e parallelamente al tempo trascorso senza fu-
mare. Questo dato certo può essere una motivazione efficace per molti fumatori: infatti il 46% dei
fumatori cronici desidera abbandonare il vizio e riesce alla fine a smettere per sempre.

Vi sono altri tipi di sostanze che possono essere causa di problemi per chi ne fa uso e per la società.
Gli allucinogeni inducono deliri, allucinazioni e altri disturbi sensoriali. Le sostanze cannabinoidi,
oltre a provocare alterazioni sensoriali, hanno anche effetti depressivi e stimolanti e sono quindi
trattate a parte nel DSM-5. Molte persone, infine, assumono combinazioni di sostanze.

Gli allucinogeni sono sostanze che inducono notevoli alterazioni nella percezione sensoriale, posso-
no acuire le normali percezioni di una persona oppure provocare illusioni e allucinazioni. Le sensa-
zioni che provocano sono talmente straordinarie da essere dette “trip” o viaggio. Tali trip possono
essere esaltanti o spaventosi, a seconda di come la mente del soggetto reagisce alla sostanza. Degli
allucinogeni, dette anche droghe psichedeliche, fanno parte LDS, mescalina e MDMA (Ecstasy).
L’LSD (dietilamide dell’acido lisergico), tra gli allucinogeni più famosi e potenti, fu estratto ad
opera del chimico svizzero Albert Hoffman, da un gruppo di sostanze naturali, gli alcaloidi
dell’ergot, un fungo parassita della segale. Entro due ore dall’assunzione per via orale, l’LSD indu-
ce uno stato di intossicazione allucinogena, detta anche allucinosi, caratterizzata da un generale
potenziamento delle percezioni, specie visive, oltre ad alterazioni psicologiche e sintomi fisici. Le
persone possono concentrarsi su dettagli minuscoli, come i pori della pelle o le singole foglie
d’erba. I colori possono apparire più intensi o acquistare una sfumatura violacea. Possono verificar-
si illusioni, in cui gli oggetti appaiono distorti, oppure possono sembrare in movimento, capaci di
respirare, cambiare forma. Possono verificarsi anche allucinazioni, ossia vedere persone, oggetti o
forme che non sono in realtà presenti. L’allucinosi può far sì che i suoni vengano percepiti più chia-
ramente, oppure può essere avvertito formicolio e insensibilità degli arti, o ancora si può confondere
la sensazione di freddo e di caldo. Vi sono casi di persone ustionatesi gravemente dopo avere tocca-

32
La terapia dell'avversione è una forma di trattamento psicologico nel quale il paziente è esposto a uno stimolo e si-
multaneamente assoggettato a qualche forma di disagio. Questo condizionamento è preordinato a causare nel paziente
l'associazione di uno stimolo con una sensazione spiacevole, allo scopo di far cessare un comportamento indesiderabile.
Terapie di questo tipo possono consistere, per esempio, nel collocare sostanze disgustose sulle dita per scoraggiare
l'onicofagia, o nell'accoppiare l'uso di un emetico alla vista e al gusto dell'alcol (per contrastare l'etilismo); questo trat-
tamento opera sul paziente portandolo a collegare un certo comportamento con la somministrazione di scariche elettri-
che di varia intensità.

128
Riassunti di Silvia Varro

to fiamme senza avvertirne il calore. La sostanza può anche provocare una sovrapposizione delle
varie sensazioni, un effetto detto sinestesia. I colori, per esempio, possono essere uditi o percepiti al
tatto.
L’LSD può indurre forti emozioni, quali gioia, ansia, depressione e una distorta percezione del tem-
po, che viene dilatato. Possono riaffiorare pensieri e sensazioni dimenticati nel tempo. Sembra che
produca questi sintomi principalmente legandosi ad alcuni neuroni, deputati alla ricezione del neu-
rotrasmettitore serotonina, modificandone l’attività in tali siti recettori.

Accecati dal sole?


Nel 1967, i media più importanti diedero la notizia che in California quattro studenti universitari
avevano riportato danni permanenti alla retina per aver fissato il sole troppo a lungo dopo aver
assunto LSD. Otto mesi dopo un altro notiziario riferì che sei studenti in Pennsylvania erano stati
colpiti da cecità totale e permanente. In realtà si trattava di bufale, anche se hanno continuato a
ricevere credito fino ad oggi.

Sebbene in genere non si sviluppi tolleranza all’LSD né siano noti sintomi di astinenza quando non
lo si prende, si tratta di una sostanza pericolosa sia nel caso di una sola assunzione sia nel caso di un
uso continuo; anche una minima dose è in grado di produrre ingenti reazioni percettive, emotive e
comportamentali (si può arrivare a fare del male a se stessi e agli altri). Questo tipo di reazione vie-
ne descritto nel caso seguente:

CASO 10.2
Una ragazza di 21 anni è stata ricoverata in un ospedale, accompagnata dal suo ragazzo. Lui ave-
va già avuto numerose esperienze con l’LSD e aveva convinto anche lei a prenderlo, perché si
sbloccasse sessualmente. Dopo circa mezz’ora dall’assunzione di circa 200 mg ha cominciato ad
avere la sensazione che i mattoni si spostassero dalla parete e che la luce le facesse uno strano ef-
fetto. Si è spaventata quando si è resa conto di non riuscire più a distinguere il proprio corpo dalla
sedia su cui era seduta e dal corpo del suo ragazzo. È stata colta dal panico quando ha pensato che
non sarebbe mai più tornata quella di prima. Al momento del ricovero era iperagitata e rideva
senza motivo. Il flusso del discorso era privo di logica e l’affettività labile. Due giorni dopo, que-
sta reazione era cessata.

L’LSD può avere anche effetti a lungo termine. Alcune persone possono sviluppare psicosi o un
disturbo dell’umore o d’ansia. altre hanno dei flashback, rivivono cioè le alterazioni sensoriali ed
emotive associate all’assunzione anche dopo che la sostanza è stata eliminata dall’organismo. Tali
sensazioni possono ripresentarsi anche a distanza di giorni o mesi dopo l’ultima esperienza con
l’acido lisergico33.

La cannabis sativa, la pianta della canapa, cresce nei climi temperati di tutto il mondo. Le sostan-
ze ricavate dalle diverse varietà di canapa sono dette nel loro insieme cannabinoidi. Il più potente è
l’hashish, mentre il più blando è la forma più nota della canapa, la marijuana, miscela derivata da
germogli, foglie triturate e fiori delle piante di canapa. La cannabis contiene diverse
centinaia di sostanze chimiche attive, ma la principale è il tetraidrocannabinolo
(THC); maggiore è il suo contenuto e più è potente la cannabis.
Se viene fumata, essa produce una serie di effetti allo stesso tempo allucinogeni,
depressivi e stimolanti. A basse dosi, chi ne fa uso prova in genere sensazioni di gioia

33
L’acido lisergico è un composto presente nell’ergot, il fungo parassita della segale

129
Riassunti di Silvia Varro

e di pace e può diventare silenzioso o particolarmente loquace. Alcuni diventano ansiosi, diffidenti
o irritati, specie se erano di cattivo umore o se hanno fumato in un ambiente poco tranquillo. Il tem-
po sembra dilatarsi e distanze e dimensioni sembrano superiori alla realtà. Questo cosiddetto “sbal-
lo” è definito intossicazione da cannabis. Tra le alterazioni fisiche, vi sono arrossamento degli oc-
chi, polso accelerato, aumento della pressione sanguigna e dell’appetito, secchezza delle fauci e ver-
tigini. Alcuni sono pervasi da un invincibile sonnolenza e possono addormentarsi.
Ad alte dosi, invece, la cannabis produce bizzarre esperienze visive, alterazioni dell’immagine cor-
porea percepita e allucinazioni. Alcuni soggetti possono sentirsi confusi o agire d’impulso, o ancora
temere che gli altri possano volere far loro del male. In generale i suoi effetti durano dalle due alle
sei ore, ma i cambiamenti d’umore possono perdurare più a lungo.
Molti consumatori regolari sviluppano una dipendenza fisica della marijuana, acquisiscono tolle-
ranza verso la sostanza e quando non fumano possono manifestare sintomi simili a quelli
dell’influenza, irrequietezza e irritabilità.
Poiché la marijuana può interferire con la funzionalità di attività sensomotorie complesse e con il
funzionamento cognitivo, è sovente causa di incidenti d’auto. Inoltre, chi fuma spesso tende a di-
menticare le cose, specie quelle apprese per ultime, anche se cerca di concentrarsi: per questa ragio-
ne i consumatori di marijuana hanno un rendimento scadente negli studi o sul lavoro.
Vi sono indicazioni che il fumo regolare di marijuana può portare a problemi di salute a lungo
termine:
✓ Riduce la capacità di espellere aria dai polmoni ancor più del tabacco;
✓ Contiene una maggiore quantità di sostanze cancerogene quali catrame e di benzopirene rispetto
al tabacco;
✓ Effetti a livello sessuale: ridotto numero di spermatozoi nei fumatori cronici e nelle donne ano-
malie nell’ovulazione.

Nuovi leccalecca
Alcuni produttori hanno immesso sul mercato dei leccalecca al gusto di ma-
rijuana, con nomi suggestivi come Purple Haze, Rasta e Kronic Kandy.
Le caramelle, disponibili normalmente nei minimarket e nei chioschi di tutto
il paese, sono legali perché prodotti con olio di canapa, un ingrediente co-
mune usato per vari integratori.
Gli esperti hanno protestato e hanno espresso preoccupazione sul messaggio
che passa attraverso questi prodotti, soprattutto per i bambini.

Negli anni Ottanta i ricercatori misero a punto tecniche precise per la misurazione del THC e per
l’estrazione del principio attivo puro della cannabis, oltre a sviluppare forme di THC in laboratorio.
Tali scoperte favorirono nuove applicazioni mediche per la cannabis: veniva impiegata ad esempio
per il trattamento del glaucoma (grave patologia oculare), per il trattamento del dolore cronico e
dell’asma, per ridurre la nausea e il vomito nei pazienti oncologici sottoposti a chemioterapia e per
migliorare l’appetito nei pazienti ammalati di AIDS e contrastare così l’eccessivo dimagrimento in
questi soggetti.
Alla luce di queste scoperte, verso la fine degli anni Ottanta si susseguirono diverse campagne di
opinione per la legittimazione a scopi medici della marijuana, la cui azione a livello fisico e cere-
brale è molto più rapida rispetto alle capsule di THC sintetico. Tale battaglia era solo all’inizio, di
fatti è continuata fino ai nostri giorni.

Ci sono persone che assumono più di una sostanza alla volta, un comportamento detto poliabuso di
sostanze. Quando diversi principi attivi si trovano contemporaneamente nell’organismo, essi pos-
sono moltiplicare o potenziare reciprocamente l’effetto. Tale impatto combinato, detto effetto si-

130
Riassunti di Silvia Varro

nergico, è spesso maggiore della somma degli effetti delle singole sostanze assunte da sole; una
piccola dose di una sostanza, mescolata a una piccola dose di un’altra, può produrre alterazioni
enormi nella chimica dell’organismo. Si possono avere due tipi di effetti sinergici:
1. Uno quando due o più sostanze hanno un’azione simile. Un esempio si ha con l’assunzione di
alcol, benzodiazepine, barbiturici e oppiacei, tutte sostanze depressive che possono agire in sen-
so fortemente negativo sul sistema nervoso centrale se vengono mescolate. La loro combinazio-
ne, anche in piccole dosi, può determinare intossicazione gravissima, coma e persino morte. Ad
esempio, un giovane che beve solo qualche bicchiere di alcol ad una festa e che dopo prende
una piccola dose di barbiturico per dormire potrebbe non svegliarsi più.
2. L’altro quando hanno azione antagonista oppure opposta. Un esempio si ha se si assumono
sostanze stimolanti in concomitanza con alcol e barbiturici, poiché tali sostanze interferiscono
con l’eliminazione da parte del fegato. Coloro che mescolano barbiturici o alcol con cocaina o
amfetamine inoltre possono avere livelli tossici e persino letali di sostanze depressive
nell’organismo, così per esempio lo studente che prende amfetamine per studiare di notte e poi
assume barbiturici per dormire si sta mettendo inconsapevolmente in grave pericolo.
Ogni anno decine di migliaia di persone vengono ricoverate in ospedale per overdose di poliabuso
di sostanze, e diverse migliaia muoiono. A volte la causa è la noncuranza o l’ignoranza, ma spesso
le persone assumono consapevolmente e volontariamente più sostanze proprio per ottenere l’effetto
sinergico derivante dalla loro interazione. A supporto di ciò, i disturbi da poliabuso di sostanze
stanno diventando molto comuni sia negli Stati Uniti che in Canada e in Europa, al pari dei disturbi
correlati all’uso di una singola sostanza.
Alcune celebrità sono state vittime di poliabuso di sostanze: Elvis Presley assumeva contempora-
neamente sia stimolanti che depressivi. Sembra inoltre che l’accidentale annegamento di Whitney
Huston nella vasca da bagno sia connesso all’uso di sostanze quali cocaina, marijuana, farmaci e al-
tre ancora.

Numerosi teorici socioculturali sostengono che le persone vivono in condizioni socioeconomiche


stressanti abbiano maggiori probabilità di sviluppare un modello di abuso di sostanze. Altri teorici
socioculturali affermano che l’abuso di sostanze e la dipendenza sono più diffusi nelle famiglie e
negli ambienti sociali in cui l’uso di sostanze non viene stigmatizzato o è perlomeno accettato.
I ricercatori hanno scoperto che effettivamente l’alto consumo di alcol è più diffuso tra gli adole-
scenti i cui genitori e i cui pari bevono e,
allo stesso modo, come pure tra i ragazzi IL SOGGETTO DIPENDENTE È “UN SOGGETTO PER IL QUALE
che vivono in un ambiente familiare stres- QUALSIASI COSA È PREFERIBILE AL RESTARE PRIGIONIERO DI
sante e assente. SENTIMENTI COSÌ TANTO DOLOROSI. QUANDO I FATTORI
DETERMINATNI SONO INDIVIDUATI NELLE ANGOSCE NARCI-
SISTICHE, SOLTANTO LA LORO ELABORAZIONE PSICHICA
La dipendenza è un costrutto complesso che PERMETTERÀ DI OTTENERE UNA MODIFICAZIONE DELLE
si declina sia su un versante fisico (depen- CONDOTTE PATOLOFICHE CHE DA ESSE DERIVANO.”
dence), sia su uno più squisitamente psico-
BLEICHMAR (1997)
logico (addiction). Essa si manifesta laddo-
ve l’organismo è indotto a ripetere in modo
coatto l’esperienza di ricerca e assimilazione di un oggetto-droga con l’intento di soddisfare un bi-
sogno inconscio (craving). Da un punto di vista psicoanalitico essa è associata alla presenza di ca-
renze strutturali, quali debolezza dell’Io e vulnerabilità narcisistica. Più nello specifico questi
soggetti si rivelano incapaci di prendersi cura della propria persona: a causa di un ridotto livello di
autostima, l’oggetto-droga avrebbe la funzione di compensare strutture psichiche deficitarie e di in-
crementare un vissuto positivo rispetto al proprio Sé. Così, lo stato diffuso e persistente di angoscia
finisce col trasformarsi in una condizione di piacere.

131
Riassunti di Silvia Varro

Originariamente la prospettiva psicoanalitica spiegò la dipendenza come regressione alla fase ora-
le dello sviluppo psicosessuale; oggi le attuali teorie propongono una lettura difensiva, piuttosto che
regressiva, di questo fenomeno. L’uso di oggetti-droga esterni permette al soggetto di rinforzare
meccanismi di difesa difettosi e incapaci di difendere l’Io dal vuoto e dai vissuti di rabbia narcisisti-
ca e di vergogna che popolano il mondo interno del soggetto.
Secondo Khantzian questi comportamenti derivano dall’incapacità del soggetto di regolare i vissuti
emozionali sottostanti. Per l’autore, le condotte abusanti rappresenterebbero il tentativo di medicare
un Io traumatizzato (self-medication), nei termini di una reiterazione compulsiva di un trauma
precoce. In questo senso, l’uso di droghe si connota come tentativo di controllo sulla sofferenza:
l’Io traumatizzato non sarebbe in grado di regolare le emozioni annichilenti e si automedicherebbe
attraverso l’assunzione della sostanza esterna, il cui consumo incontrollato permetterebbe
un’apparente e momentanea guarigione del dolore.
Più recentemente altri autori hanno evidenziato come un basso livello di autostima e la struttura-
zione di modelli operativi interni insicuri favoriscano il manifestarsi, in età adulta, di condotte di
abuso. Attraverso l’assunzione di sostanze, infatti, i soggetti tentano di gestire e ridurre gli effetti
negativi, frutto dell’internalizzazione di un’immagine di sé come non degno d’amore e dell’altro
come inaffidabile. In quest’ottica tale disturbo si assocerebbe a un deficit delle funzioni deputate al-
la regolazione degli affetti: il funzionamento psichico del soggetto dipendente sarebbe caratterizzato
dalla presenza di aree alessitimiche34 che hanno origine nella sua storia evolutiva-relazionale. Nello
specifico la mancata sintonizzazione affettiva della madre sui bisogni del bambino avrebbe com-
promesso lo sviluppo della regolazione affettiva portando così il soggetto a ricercare una soluzione
attraverso l’agito (condotta abusante), poiché incapace di mentalizzare il bisogno inconscio che lo
sottende e di regolarne l’intensità. In questa prospettiva risulta centrare il ruolo assolto
dall’ambiente genitoriale nell’eziopatogenesi di tale disturbo.

In base alla teoria comportamentale, il condizionamento operante può avere un ruolo fondamenta-
le nell’abuso di sostanze. La temporanea riduzione della tensione o il miglioramento dell’umore do-
vuti all’assunzione di qualche sostanza potrebbe avere un effetto gratificante, aumentando così la
probabilità che l’utilizzatore ricerchi di nuovo la reazione connessa. Allo stesso modo, l’effetto gra-
tificante di una sostanza può portare l’utilizzatore a cerca di aumentare le dosi o i metodi di assun-
zione che ne potenzino l’effetto. I teorici di orientamento cognitivo sostengono inoltre che tali grati-
ficazioni alla fine producono aspettative sull’effetto della sostanza, e che l’aspettativa stessa possa
servire da motivazione all’individuo per incrementare l’uso di sostanze nei momenti di tensione;
molti assumerebbero sostanze come una sorta di “medicina” per alleviare la tensione.
A sostegno di queste teorie, da alcuni studi è emerso che molte persone in effetti bevono più alcolici
o ricorrono all’eroina quando si sentono tese e preoccupate. In una ricerca, mentre i partecipanti
cercavano di risolvere un difficile quesito con anagrammi, un complice dei ricercatori li criticava e
denigrava in modo gratuito. Ai partecipanti veniva quindi richiesto di partecipare a una “degusta-
zione di bevande alcoliche”: i soggetti che erano stati tormentati assunsero più alcol rispetto ai par-
tecipanti del gruppo di controllo, che non erano stati criticati.
Diversi teorici di orientamento comportamentale affermano che anche il condizionamento classico
possa avere un ruolo nell’abuso e nella dipendenza da sostanze. Certi oggetti presenti nell’ambiente
nel momento dell’assunzione della sostanza possono agire come classici stimoli condizionanti e
produrre parte del piacere apportato dalla sostanza stessa. È noto che nel caso di tossicodipendenti
da eroina o amfetamine può bastare la vista di un ago ipodermico, di un compagno di “sballo” o di
un fornitore regolare a rasserenarli o a dare sollievo ai sintomi da astinenza.

34
Si ricorda che il termine alessitimia è stato coniato da Sifneos (1973) per connotare quel particolare disturbo che pre-
vede una difficoltà a identificare e nominare gli affetti propri e altrui.

132
Riassunti di Silvia Varro

Lo “sballo” nel regno animale


Gli animali non umani possono stordirsi con alcune sostanze che si trovano in natura. I lama del
Perù diventano più giocosi quando mangiano foglie di coca (che contengono cocaina). Le caval-
lette che mangiano le foglie della canapa indiana riescono a fare salti più alti della
media. Gli elefanti prediligono i frutti stramaturi e fermentati. 35Anche i delfini,
mammiferi marini intelligentissimi, hanno scoperto come ottenere un effetto stupe-
facente in modo naturale. In un documentario un delfino agguanta un pesce palla,
lo mastica leggermente per farlo gonfiare e lo porta sulla superficie dell’acqua. Il
pesce palla, comprensibilmente spaventato, attiva le difese che lo proteggono in caso di pericolo:
si gonfia come una palla ricoperta di spine e rilascia tetrodotossina, una potente neurotossina,
quale può uccidere a dosi elevate, ma assunta con parsimonia può causare un piacevole effetto
narcotico, proprio come la morfina.

Negli ultimi anni i ricercatori hanno iniziato a pensare che l’uso di sostanze possa avere cause bio-
logiche.
(1) Predisposizione genetica: i ricercatori hanno identificato animali che preferivano l’alcol ad altri
tipi di bevanda e poi li hanno accoppiati tra loro. In generale, anche nella prole di questi animali si
riscontrava una insolita predisposizione per l’alcol. Anche studi sui gemelli hanno rivelato che la
predisposizione all’uso di sostanze può essere ereditari. Da uno studio classico è emerso che, nel
caso di gemelli omozigoti, se uno dei due fa uso di alcol, lo fa anche l’altro nel 54% dei casi, men-
tre tra i gemelli eterozigoti il tasso era solo del 28%.
Una linea di ricerca ha inoltre riscontrato una forma anomala del cosiddetto gene recettore della
dopamina 2 (D2) nella maggioranza sei soggetti con dipendenza da alcol, nicotina o cocaina, ma in
meno del 20% dei soggetti non dipendenti. Altri studi hanno stabilito un nesso tra geni e tali distur-
bi.
(2) Fattori biochimici: quando viene introdotta una particolare sostanza, essa stimola l’attività di
alcuni neurotrasmettitori che normalmente hanno la funzione di indurre la calma o il benessere, ri-
durre il dolore o migliorare la capacità di attenzione. Se l’assunzione della sostanza continua, il cer-
vello si adegua e riduce la produzione endogena di neurotrasmettitore. Poiché la sostanza aumenta
l’attività dei neurotrasmettitori, il rilascio degli stessi da parte del cervello non è più così necessario.
L’aumento della dose della sostanza assunta si accompagna a una continua diminuzione nella pro-
duzione endogena di neurotrasmettitori, cosicché la persona ha bisogno di dosi sempre maggiori di
sostanza per ottenere l’effetto desiderato. In questo modo, i consumatori di sostanze acquisiscono
una tolleranza e devono sempre più fare affidamento sulla droga o l’alcol, anziché sui propri pro-
cessi biologici, per stare bene. Se smettono all’improvviso di assumere droga, per qualche tempo la
fonte naturale di neurotrasmettitori non sarà attiva, producendo i sintomi della crisi di astinenza, i
quali perdurano finché il cervello non riprende la produzione normale di neurotrasmettitori.
Il tipo di neurotrasmettitori interessati dipende dalla sostanza usata:
• L’uso ripetuto ed eccessivo di alcol o benzodiazepine può deprimere la produzione cerebrale del
neurotrasmettitore GABA;
• L’uso regolare di oppiacei influisce sulla normale produzione di endorfine;
• L’uso regolare di cocaina o amfetamine può indebolire la produzione di dopamina;
• L’abuso di marijuana può ridurre la produzione endogena del neurotrasmettitore anandamide
(dall’azione simile a quella del THC)
Perché tali sostanze sono tanto gratificanti e perché alcune persone non possono farne a meno?
Numerosi studi di neuroimmagini indicano che molte sostanze, forse tutte, attivano un centro della
gratificazione, o “circuito del piacere” a livello cerebrale, il cui neurotrasmettitore essenziale

35
Approfondimento da ulteriori fonti

133
Riassunti di Silvia Varro

sembra essere la dopamina. Con l’attivazione di quest’ultima si prova una sensazione piacevole: la
musica, ad esempio, può attivare la dopamina nel centro della gratificazione, così come lo può fare
un abbraccio o una parola di apprezzamento. La stessa cosa fanno le droghe.
Infine, chi fa uso di sostanze molto probabilmente soffre di una sindrome di carenza di gratifica-
zioni: il centro di gratificazione non è più attivato dai normali eventi della vita e, pertanto, si cerca
nelle sostanze uno stimolo per attivare il circuito del piacere, soprattutto in periodi di stress. I geni
anormali, come ad esempio un anormale recettore D2, vengono indicati come possibile causa di
questa sindrome.

Prima di tutto, nella terapia psicodinamica il paziente viene guidato a identificare ed elaborare i bi-
sogni e i conflitti alla base del problema. In un secondo momento, il terapeuta cerca di fare in modo
che l’individuo modifichi il proprio stile di vita incentrato sull’uso di sostanze. Sebbene molto uti-
lizzato, non è un approccio particolarmente efficace nel caso di disturbi correlati a sostanze, è più
utile se combinati con altri approcci in un programma di trattamento multidimensionale.

Un trattamento molto diffuso per i disturbi correlati a sostanze è la terapia avversiva, un approccio
basato sui principi del condizionamento classico. Agli individui viene ripetutamente somministrato
uno stimolo spiacevole (per esempio, una scossa elettrica) nel momento stesso in cui assumono una
sostanza. Dopo un certo periodo essi dovrebbero reagire negativamente alla sostanza stessa e perde-
re il desiderio (craving) di assumerla.
La terapia avversiva è stata applicata agli alcolisti più spesso che ai tossicodipendenti. In una ver-
sione di questa terapia, l’assunzione di alcolici è abbinata con un farmaco che induce nausea e vo-
mito. L’obiettivo dell’abbinamento nausea/alcol è quello di produrre reazioni negative all’alcol
stesso. In una seconda versione della terapia avversiva, agli alcolisti viene richiesto di immaginare,
mentre bevono, scene quanto più sconvolgenti, repellenti o spaventose possibile. In questo caso,
l’abbinamento delle scene immaginate con la bevanda dovrebbe produrre una reazione negativa del-
la bevanda stessa. Le scene immaginate con la guida del terapeuta sono del tipo descritto nel se-
guente caso:

CASO 10.3
Adesso provi a immaginare in modo molto realistico ciò che sta bevendo (birra, whisky, ecc.). si
osservi mentre lo sta centellinando, provi a catturarne il gusto, il colore e la consistenza esatti.
Adoperi tutti i suoi sensi. Dopo che ha deglutito, lei si accorge che nei bicchieri galleggia qualco-
sa di piccolo e bianco, che spicca sulla superficie del liquido. Lei si avvicina con lo sguardo per
vedere meglio, anzi ha il naso esattamente sul bicchiere, e l’aroma della bevanda le invade le na-
rici, ricordandole esattamente cosa sta bevendo. Adesso vede anche cosa c’è nel bicchiere. Ci so-
no numerose larve di insetto sulla superficie. Mentre lei guarda, orripilato, una larva riesce a fare
presa sulle pareti del bicchiere e si arrampica fino al bordo. Nel bicchiere le larve sono più nume-
rose di quanto pensasse all’inizio. Si rende conto di averne ingoiate diverse e ne percepisce in
bocca il sapore. La nausea la travolge e lei desidererebbe non aver mai avvicinato alle labbra quel
bicchiere.

Un approccio comportamentale che si è rivelato efficace nel trattamento a breve termine nei tossi-
codipendenti da cocaina e altre sostanze è il contingency management, il quale prevede l’uso di
premi e incentivi sotto forma di contanti, buoni, premi o privilegi che dipendono dalla prestazione
di campioni di urina da cui risulti che la persona non ha fatto uso di sostanze. In uno studio pioneri-
stico, il 68% dei consumatori di cocaina che portarono a termine un programma di sei mesi di con-
tingency training riuscirono a rimanere in astinenza continua per un minimo di otto settimane.

134
Riassunti di Silvia Varro

Nel caso dell’abuso e dipendenza da sostanze, gli interventi comportamentali funzionano meglio se
combinati ad altri approcci, cognitivi o biologici, in quanto in quanto potrebbe non esserci una forte
motivazione da parte dei soggetti a portarli avanti.

Il trattamento cognitivo-comportamentale aiuta il paziente che soffre di disturbi da uso di sostanze a


individuare e modificare i comportamenti e le cognizioni che contribuiscono a un uso improprio
delle sostanze e a sviluppare strategie di coping più efficaci che possano essere utilizzate in mo-
menti di particolare stress, tentazione e desiderio di fare uso di sostanze.
La tecnica più diffusa è l’addestramento per la prevenzione delle ricadute, il cui obiettivo prin-
cipale del paziente è di arrivare a controllare i comportamenti correlati all’uso di sostanze, indivi-
duando le situazioni a rischio, valutando la gamma di decisioni da prendere, modificando il proprio
stile di vita disfunzionale e imparando dai propri errori. Tale approccio riesce a diminuire in alcuni
soggetti la frequenza di intossicazioni e ubriacature36. In caso di alcolismo, include diverse strategie
come:
1. Chiedere al paziente di annotare tutti i comportamenti relativi all’uso di alcol scrivendo
quando beve e dove, le emozioni che ne derivano, i cambiamenti del corpo e ogni altro tipo di
circostanza;
2. Insegnare al paziente delle strategie di coping da utilizzare qualora si presentino situazioni a
rischio, ad esempio tecniche di controllo della quantità di alcol assunta (prendersi del tempo tra
un bicchiere e l’altro, sorseggiare) e tecniche di rilassamento;
3. Insegnare a pianificare, decidendo in anticipo un numero di bicchieri adeguato, cosa bere e in
quali circostanze.

Gli approcci biologici possono essere utili per aiutare ad astenersi dall’uso di sostanze o semplice-
mente mantenere un certo livello di assunzione, senza superarlo. Tuttavia, da soli, raramente appor-
tano un miglioramento a lungo termine, mentre sono più efficaci se combinati con altri metodi.
La disintossicazione è l’astinenza sistematica e sotto controllo medico dell’assunzione di una so-
stanza; può avvenire in regime ambulatoriale, altre volte è necessario il ricovero in ospedale o clini-
che specializzate che offrono anche terapie individuali e di gruppo. Diversi metodi di disintossica-
zione:
o Diminuzione graduale della quantità di sostanza assunta, che porta progressivamente a
smettere del tutto;
o Sostituzione della droga con altre sostanze che riducono i sintomi di astinenza (spesso prefe-
rito dai medici). A volte, ad esempio, si utilizzano ansiolitici per ridurre le reazioni gravi da
astinenza alcolica, come il delirium tremens e le convulsioni.
Sembrano essere utili per aiutare le persone motivate ad astenersi dall’uso di sostanze. Tuttavia,
laddove manca una forma di trattamento di follow-up37 (psicologico, biologico o socioculturale), il
tasso di ricaduta tende a essere elevato anche dopo una disintossicazione riuscita.

36
I pazienti più reattivi a questo tipo di approccio sono i soggetti giovani che non soffrono di tolleranza e astinenza.
37
L’ambito dove il termine follow up è più usato è sicuramente quello sanitario, definisce un controllo che deve essere
fatto dopo che è trascorso un determinato periodo da un intervento o da una visita. In particolare, viene impiegato
nell’ambito dell’oncologia. Anche la psicologia può richiedere dei follow up: al termine della terapia vengono proposti
alcuni incontri (solitamente almeno 2, ma possono esserne concordati di più) definiti di follow-up, finalizzati al monito-
raggio del mantenimento degli obiettivi raggiunti. Clinico e paziente verificano che gli apprendimenti della terapia sia-
no sufficienti e adeguatamente generalizzati, per evitare che una nuova condizione problematica possa portare al nuovo
sviluppo di sintomi d’ansia o depressione. Questi incontri permettono inoltre di identificare precocemente aree di vulne-
rabilità che non risultavano precedentemente oggetto di trattamento e, eventualmente, riprendere il percorso con nuovi
obiettivi.

135
Riassunti di Silvia Varro

Ad alcune persone con disturbi correlati a sostanze vengono somministrate sostanze antagoniste,
che bloccano o modificano gli effetti di una sostanza che dà dipendenza, allo scopo di aiutarle a
combattere la tentazione di ricorrere a essa. Agli alcolisti che cercano si smettere viene spesso
somministrato il disulfiram. A basse dosi, il farmaco di per sé non ha molti effetti collaterali, ma se
si assume alcol mentre si è in terapia si avranno forte nausea, vomito, rossore diffuso, tachicardia,
capogiri fino alla perdita dei sensi. Coloro che assumono il disulfiram38 tendono a non bere più,
perché sanno che basta un solo bicchiere a scatenare delle reazioni fisiche che li faranno stare solo
male. In altre parole, il timore di sviluppare sintomi sgradevoli rappresenta un
deterrente ad assumere alcool: questo tipo di effetto di un farmaco si definisce
“antabuse”.
Tale farmaco si è dimostrato utile ma solo nel caso di persone motivate ad as-
sumerlo sotto prescrizione medica. Oltre a questo farmaco, oggi sono disponi-
bili numerose altre sostanze alcol antagoniste.
Nel trattamento della dipendenza da oppiacei si usano diversi antagonisti dei narcotici, come il na-
loxone e il naltrexone, i quali si legano ai recettori dell’endorfina e rendono impossibile l’effetto
consueto degli oppiacei. In assenza del “rush” o dello sballo, l’assunzione di droga non ha più sen-
so. Tuttavia, nonostante l’indubbia efficacia degli antagonisti dei narcotici (specie in casi di overdo-
se), tali antagonisti devono essere prescritti con molta cautela, in quanto possono dare gravi sintomi
da astinenza. Recenti studi indicano che possono essere utili anche nel trattamento della dipenden-
za da alcol e da cocaina.
Uno stile di vita incentrato sull’uso di droga può essere un problema ancora maggiore degli effetti
diretti della droga stessa. Gran parte del danno causato dalla dipendenza da eroina, per esempio, de-
riva da overdose, uso di siringhe non sterili e da uno stile di vita legato al crimine. Per questo
l’ambiente medico accolse i programmi di mantenimento con metadone, i quali prevedono la so-
stituzione dell’eroina con il metadone, un oppiaceo sintetico prodotto in laboratorio, il quale può es-
sere assunto per bocca, eliminando così il problema delle siringhe, ed è sufficiente una sola dose
giornaliera. Anche il metadone induce dipendenza, la quale può essere mantenuta sotto stretto con-
trollo medico, ma suscitò molte polemiche negli anni Ottanta:
- molti clinici si convinsero che sostituire una dipendenza con un’altra non fosse una soluzione
accettabile per la tossicodipendenza;
- molti tossicodipendenti segnalarono che la dipendenza dal metadone stava creando ulteriori
complicazioni con una sostanza che andava ad aggiungersi al problema originario; in realtà è
ancora più difficile smettere di assumere metadone che eroina in quanto le crisi di astinenza
possono durare più a lungo;
- le donne in gravidanza che assumono metadone hanno anche la preoccupazione degli effetti del-
la sostanza sul feto.

Atleti universitari e alcol


Non meno dell’88% degli atleti universitari negli Stati Uniti fa uso di alcol in qual-
che misura.
Gli atleti universitari tendono a bere pesantemente a carsi più degli studenti non
atleti.
Un terzo degli atleti ha perso lezione più volte durante l’anno a causa
dell’eccessivo uso di alcol.
Gli atleti universitari bianchi consumano più alcolici rispetto agli atleti di altri
gruppi minoritari.

38
Meccanismo d’azione del disulfiram: blocca l’enzima acetaldeide deidrogenasi, che trasforma l’acetaldeide in aci-
do acetico. Questo fa sì che, nel soggetto in trattamento col farmaco, assumendo bevande alcoliche, la concentrazione di
acetaldeide nel sangue sia da 5 a 10 volte superiore a quella che si rileverebbe in assenza di disulfiram.

136
Riassunti di Silvia Varro

Nonostante ciò, la terapia di mantenimento con metadone (o con buprenorfina, sostanza sostitutiva
molto usata) ha suscitato negli ultimi anni nuovo interesse da parte dei clinici: non è solo più sicura
rispetto agli oppiacei da strada, ma molti trattamenti oggi comprendono corsi informativi sull’AIDS
e su altri problemi sanitari. I programmi di mantenimento con metadone sono più efficaci in combi-
nazione con un programma educativo, psicoterapia, terapia familiare o counseling occupazionale.

Nel caso dei disturbi correlati all’uso di sostanze sono stati applicati tre approcci socioculturali:
(1) Programmi di auto-aiuto e di trattamento residenziale: il movimento auto-aiuto antidroga
risale al 1935, quando due alcolisti dell’Ohio si incontrano e discussero di possibili trattamenti fino
all’istituzione di un’organizzazione (Alcolisti Anonimi, AA) nel quale i membri parlavano di pro-
blemi correlati all’uso di alcol, scambiavano idee e si sostenevano l’un l’altro. Con le loro linee
guida per affrontare il problema, oggi l’organizzazione aiuta i membri ad astenersi dall’alcol “un
giorno alla volta”, spingendoli ad accettare come un fatto l’idea di non avere alcun controllo sul
consumo di alcol e che devono smettere di bere completamente e per sempre se vogliono vivere in
modo normale.
Altre organizzazioni di auto-aiuto di impostazione simile sono:
• Al-Anon e Alateen: offrono aiuto e sostegno alle persone che vivono con alcolisti e si occupano
di loro;
• Narcotici Anonimi e Cocainomani Anonimi: nati per altri disturbi correlati a sostanze.
L’obiettivo dell’astinenza deli AA non si concilia con quello del controllo sul consumo di alcol tipi-
co dell’addestramento per la prevenzione delle ricadute e di altre strategie. Tuttavia, le ricerche in-
dicano che sia il consumo controllato sia l’astinenza sono obiettivi efficaci, a seconda della specifi-
cità del paziente e del suo problema. Il consumo controllato può aiutare i giovani bevitori che non
presentano problemi di tolleranza o astinenza; l’astinenza può essere appropriata per gli alcolisti di
lunga durata e per coloro i quali ritengono che questa sia la sola soluzione possibile per risolvere il
problema. In questi casi, anche un solo bicchiere può provocare facilmente una ricaduta.
Molti programmi di auto-aiuto si sono allargati fino a prendere la forma di centri di trattamento
residenziale o comunità terapeutiche (San Patrignano, Saman, Mondo X, Exodus ecc.), in cui gli
ex tossicodipendenti vivono, lavorano e socializzano in un ambiente dove non circola droga e al
contempo si sottopongono a terapie individuali, di gruppo e familiari in attesa di ritornare a una vita
normale. Il metodo dell’auto-aiuto e della comunità terapeutica continua a funzionare: molte perso-
ne affermano di essere riusciti a cambiare vita grazie a essi. Tuttavia, dagli studi sono emersi risul-
tati positivi piuttosto limitati.
(2) Programmi sensibili alla cultura e al genere: oggi sono sempre di più i programmi di tratta-
mento mirati, che tengono conto delle pressioni socioculturali a cui sono sottoposti i consumatori di
sostanze che sono poveri o senza casa, o che fanno parte di gruppi di minoranza. Analogamente,
spesso per le donne sono necessari metodi di trattamenti diversi da quelli individuati per i maschi in
quanto hanno spesso reazioni fisiche e psicologiche diverse agli stupefacenti. Inoltre, il trattamento
delle tossicodipendenti può essere complicato dall’impatto dell’abuso sessuale, dalla possibilità che
possano essere incinte o concepire mentre stanno assumendo droghe, dallo stress legato
all’allevamento dei figli e dalla paura di essere perseguite legalmente per uso di droga in gravidan-
za. Così, molte di loro preferiscono rivolgersi a medici o a comunità terapeutiche sensibili al pro-
blema; in alcuni casi, se ci sono bambini, viene permesso loro di tenerli con sé in comunità mentre
le madri seguono i programmi di disintossicazione.
(3) Programmi di prevenzione di comunità: la prevenzione potrebbe essere il sistema migliore
per il trattamento dei disturbi correlati a sostanze. I primi programmi di prevenzione furono speri-
mentati nelle scuole, oggi negli USA vengono offerti nei luoghi di lavoro, nei centri sociali e in altri
contesti comunitari, anche attraverso i media. I programmi di prevenzione possono concentrarsi:

137
Riassunti di Silvia Varro

- Sull’individuo, ad esempio, dando informazioni sugli effetti sgradevoli connessi all’uso di so-
stanze;
- Sulla famiglia, attraverso l’incremento delle capacità genitoriali;
- Sul gruppo dei pari, insegnando le capacità di resistere alle pressioni e a dire no;
- Sulla scuola, tramite l’istituzione di norme rigide che puniscono l’uso di sostanze;
- Sulla comunità, attraverso campagne pubbliche come le “Just say no” degli anni 80 e 90.
Due dei più importanti programmi di prevenzione di comunità oggi sono:
1. TheTruth.com: campagna antifumo rivolta in particolare ai giovani, pubblica campagne pub-
blicitarie provocatorie sul web (tramite Youtube), alla televisione e sulla carta stampata;
2. Above the Influence: si concentra sull’abuso di sostanze da parte degli adolescenti e opera,
anch’esso tramite campagne pubblicitarie. Secondo un sondaggio effettuato su 3.000 studenti,
guardare gli spot aiuta a ridurre il consumo di marijuana tra gli adolescenti.

Si stima che il 2,3% degli adulti e tra il 3 e l’8% degli adolescenti e degli studenti delle superiori
soffra di disturbo da gioco d’azzardo, il quale si distingue non tanto per la quantità di tempo e de-
naro impiegato nel gioco quanto piuttosto sul fatto che il gioco sia un comportamento che dà dipen-
denza. I soggetti che ne soffrono sono ossessionati dal gioco d’azzardo, molti di loro sentono il bi-
sogno di scommettere somme di denaro sempre più elevate per giungere al livello di eccitamento
desiderato e si sentono irritabili quando cercano di diminuire o interrompere le scommesse (sintomi
simili alla tolleranza e all’astinenza). Il gioco d’azzardo è spesso più comune tra soggetti stressati e
chi ne è dipendente mente per nascondere l’entità delle scommesse. Secondo alcuni studi, chi ne
soffre:
1. Ha una predisposizione genetica a questa patologia;
2. Ha una maggiore attività della dopamina e del centro di gratificazione del cervello;
3. È impulsivo, alla continua ricerca di novità;
4. Commette errori ripetuti e cognitivi nelle aspettative, nell’interpretazione delle proprie emo-
zioni e del proprio corpo.

✓ Problematica tendenza al gioco d’azzardo persistente e ricorrente, con il presentarsi di


almeno 4 dei seguenti sintomi per un periodo di 12 mesi:
✓ Bisogno di giocare d’azzardo scommettendo una quantità di denaro sempre maggiore per rag-
giungere l’eccitazione desiderata.
✓ Nervosismo e irritabilità quando si prova a ridurre o interrompere il gioco.
✓ Sforzi ripetuti e inutili di controllare, ridurre o interrompere il gioco.
✓ Frequente ossessione di giocare d’azzardo.
✓ Frequente ricerca del gioco d’azzardo nei momenti di particolare sofferenza.
✓ Frequente ritorno al gioco d’azzardo per recuperare le perdite di denaro.
✓ Mentire per nascondere l’entità delle scommesse.
✓ Mettere a rischio o perdere importanti relazioni, il lavoro o opportunità scola-
stiche o di carriera a causa del gioco d’azzardo.
✓ Dipendenza dai prestiti di denaro di altri per alleviare le difficoltà fi-
nanziare dovute al gioco.

Le strategie di trattamento più utilizzate sono state adattate al trattamento del disturbo da uso di so-
stanze, come l’addestramento per la prevenzione delle ricadute o l’antagonismo narcotico. Inol-
tre, il gruppo di auto-aiuto Giocatori Anonimi, rete di modellata su quella già esistente degli Alco-

138
Riassunti di Silvia Varro

listi Anonimi, è ormai disponibile per migliaia di persone con disturbo da gioco ‘azzardo e sembra
avere una buona percentuale di successo. Le ricerche, tuttavia, sono ancora a una fase iniziale.

Dal momento che le persone tendono sempre più a rivolgersi alla Rete per svolgere attività che pri-
ma avvenivano nel “mondo reale” – comunicare, costruire relazioni, fare shopping, giocare, far par-
te di una comunità – è emerso un nuovo problema psicologico: l’incontrollabile bisogno di essere
connessi. Si parla a tale proposito di uso problematico di Internet, chi ne soffre passa la maggior
parte se non tutto il tempo di veglia mandando messaggi, giocando, mandando e-mail, scrivendo un
blog, facendo shopping on-line o guardando pornografia virtuale. I sintomi vanno dal vuoto di inte-
ressi all’astinenza quando Internet non è disponibile. Molti arrivano a trascurare intenzionalmente
il proprio lavoro, l’istruzione, le amicizie e le relazioni sentimentali.
Tra i trattamenti utilizzati figurano l’uso di farmaci psicotropi e le terapie cognitivo-
comportamentali. Tra gli approcci più comuni vi sono i gruppi di supporto simili agli Alcolisti
Anonimi – alcuni di essi si trovano su Internet – i quali ammettono di avere un problema, si sosten-
gono a vicenda e si scambiano idee su come ridurre l’utilizzo di Internet. Tuttavia, alcuni clinici sot-
tolineano che chi è dipendente da Internet non riesce a staccarsi dal computer o dal cellulare per un
tempo sufficiente a recarsi in un tradizionale centro di trattamento.
Il DSM-5 non include il disturbo da gioco su Internet, tuttavia, suggerisce di
approfondire ricerche in merito affinché venga inserito eventualmente nelle
prossime edizioni. Ha inoltre ristretto i criteri di individuazione di questo di-
sturbo enfatizzando in particolare l’eccessivo utilizzo di Internet per gioco, tra-
lasciando l’utilizzo smodato della rete per altre attività.

139
Riassunti di Silvia Varro

Capitolo 13

La personalità è un modello unico e costante di esperienza interiore e di comportamento esteriore,


è la risultante di una serie di operazioni mentali come costruire un'immagine di sé, dare significato
al mondo, agire, relazionarsi con gli altri e trovare soluzioni ai problemi posti dall'ambiente. Per
quanto concerne i tratti di personalità: il tratto è una dimensione stabile dell'individuo che influen-
za la frequenza e l'intensità delle azioni e delle esperienze permettendo una certa coerenza di con-
dotta; i tratti non sono entità statiche ma organizzatori dinamici del comportamento umano stretta-
mente in relazione con le circostanze ambientali. Allport distingueva tra tre tipi di tratti:
1. Tratti cardinali, principali dominanti nella vita di una persona;
2. Tratti centrali, non così importanti come i primi, rappresentano i tratti comuni che condiziona-
no la maggior parte dei comportamenti di una persona;
3. Tratti secondari, meno visibili e meno stabili che emergono solo in particolari situazioni.
Quindi anche la personalità è organizzata rispetto ad alcuni elementi centrali definitori e altri che
sono più periferici. Tale è molto significativa e la re-incontriamo in qualche modo nei processi tera-
peutici perché i tratti secondari nei processi terapeutici sono dei tratti che possono rappresentare
delle risorse in quanto elementi che appartengono ad una persona: sono parte del proprio patrimonio
di funzionamento, la persona non li utilizza e quindi non richiedono un cambiamento ma possono
essere messi maggiormente in rilievo rispetto a quanto non lo siano naturalmente.
Kernberg distingue la struttura della personalità e la sua organizzazione in tre tipologie:
1. Personalità nevrotica: caratterizzata da un’identità integrata, meccanismi di difesa più evoluti e
da un buon contatto con la realtà esterna. Quando si parla di meccanismi di difesa più evoluti
non facciamo riferimento solamente a quelli più maturi tipo sublimazione, rimozione, rispetto
ad esempio a scissione, dissociazione, che sono meccanismi difensivi meno evoluti. Si fa riferi-
mento al fatto che essi sono flessibili, non rigidi e pervasivi. Kernberg si muove in una prospet-
tiva psicodinamica: il soggetto non confonde il mondo esterno con la propria fantasia, se è ar-
rabbiato con qualcuno non vuol dire che questo sia un mostro, non confonde cioè la propria illu-
sione con la realtà. Questo significa preservare la realtà.
2. Personalità borderline: caratterizzata da una diffusione dell’identità, dall’utilizzo prevalente di
meccanismi di difesa primitivi e rigidi in un quadro di sostanziale preservazione dell’esame di
realtà. Tale personalità non rientra quindi in modo integralmente né nella struttura della perso-
nalità nevrotica, una personalità quindi adattata, nè in qualità di personalità psicotica, quindi una
personalità francamente disadattata. L’intero studio dell'ampio spettro dei disturbi della persona-
lità nasce nel confronto con quest'area intermedia non in salute, non patologica, una modalità di
funzionamento border nel senso proprio di “al confine”, al limite tra queste due modalità di
funzionamento. Il funzionamento della personalità diviene maggiormente disfunzionale nelle
condizioni di stress, il quale può dis-regolare ulteriormente i processi (questo è un elemento
comune: tutti funzioniamo peggio quando siamo sotto stress.
3. Personalità psicotica: è la più grave, è caratterizzata da una diffusione dell’identità, da un pre-
dominio di difese primitive e da una compromissione dell’esame di realtà fino ad arrivare alle
condizioni tipiche di una struttura psicotica di personalità quali deliri, allucinazioni che sono
proprio indice della perdita di contatto con la realtà. Se un soggetto afferma di sentirsi un re è
ancora in un rapporto con la realtà, lo perde quando afferma di essere un re.
Riassumento, Kernberg usa tre criteri fondamentali per distinguere la qualità della struttura di
personalità:
1. Compromissione/preservazione dell’esame di realtà;
2. Utilizzo di meccanismi di difesa primitivi o più flessibili ed evoluti;
3. Grado di integrazione della personalità.

140
Riassunti di Silvia Varro

TEMPERAMENTO Caratteristiche innate e biologicamente determinate dalla personalità.


PERSONALITA’ Prodotto dell’interazione delle componenti temperamento e carattere
(anche se di fatto è difficile mantenere queste separazioni).
CARATTERE Caratteristiche acquisite socio-culturalmente.

Ognuno di noi ha una personalità, un modello unico e costante di esperienza interiore e di compor-
tamento esteriore. Queste caratteristiche coerenti nel tempo, dette anche tratti di personalità, pos-
sono essere il risultato di caratteristiche innate, reazione apprese o una combinazione di entrambe.
Eppure, la personalità è anche flessibile poiché si impara dall’esperienza; nell’interazione con
l’ambiente; si mettono alla prova diverse risposte per capire quali sono le più efficaci. Questa fles-
sibilità in genere manca a coloro che hanno un disturbo di personalità, definito come un modello
molto rigido di esperienza interiore e di comportamento esteriore. I tratti rigidi di un individuo con
disturbo di personalità sono alla base di sofferenza psicologica personale e difficoltà sociali e lavo-
rative. I disturbi di personalità si manifestano in genere durante l'adolescenza o nella prima età adul-
ta, sebbene alcuni possano iniziare anche nell'infanzia; sono tra i disturbi psicologici più difficili da
trattare. Spesso chi ne è affetto non è assolutamente consapevole e non riesce a ricondurre le proprie
difficoltà al proprio modo inflessibile di pensare e comportarsi.

“I DISTURBI DI PERSONALITÀ SONO GLI UNICI CASI RIMASTI IN PSICHIATRIA


IN CUI LA GENTE PUÒ ANCORA PENSARE CHE QUALCUNO SIA CATTIVO.”
GARY M. FLAXENBERG, PSICHIATRA, 1998.

Il DSM-IV-TR distingue tra disturbi dell'Asse II, disturbi duraturi con esordio precedente all'età
adulta e che continuano nella vita adulta, e disturbi dell'Asse I, disturbi di tipo acuto che iniziano
spesso con un cambiamento visibile nel comportamento consueto della persona e che sono di durata
limitata. I disturbi di personalità fanno parte dell'Asse II; si tratta di modelli non caratterizzati in ge-
nere da cambiamenti di intensità o da periodi di remissione. Spesso chi è affetto da un disturbo di
personalità manifesta anche un disturbo acuto dell'Asse I, in un rapporto detto comorbilità.
Si ipotizza che i disturbi di personalità possono predisporre a sviluppare un disturbo dell'Asse I. Per
esempio, le persone con disturbo evitante della personalità possono tendere a sviluppare una fobia
sociale. Il DSM-IV-TR identifica 10 disturbi di personalità, suddivisi in tre cluster (insiemi):
Il primo gruppo, caratterizzato da un comportamento bizzarro, comprende i disturbi di personalità
paranoide, schizoide e schizotipico. Il secondo gruppo è ca-
ratterizzato da un comportamento drammatico e compren-
de i disturbi di personalità antisociale, borderline, istrionico
e narcisistico.
Il terzo gruppo, contrassegnato da un elevato livello di an-
sia, comprende disturbi di personalità evitante, dipendente e
ossessivo-compulsivo.
I disturbi di personalità si sovrappongono a tal punto che può risultare difficile distinguerli. In real-
tà, talvolta, al momento della diagnosi si riscontrano più problemi di personalità in uno stesso sog-
getto.
Inoltre, spesso tra i clinici c’è un disaccordo sulla diagnosi di individui con un disturbo di personali-
tà conforme al DSM-IV-TR, una situazione che ha sollevato diversi dubbi riguardo alla validità del-
le attuali categorie del DSM (si assiste in ambito clinico a una crescente richiesta di eliminazione
delle categorie attuali per adottare un sistema di classificazione diverso dei disturbi di personalità).

141
Riassunti di Silvia Varro

✓ Il modello abituale risulta inflessibile e pervasivo in una varietà di situazioni personali e so-
ciali.
✓ Un modello abituale di esperienza interiore e di comportamento che devia marcatamente ri-
spetto alle aspettative della cultura dell’individuo. Questo modello si manifesta in due (o più)
delle aree seguenti:
✓ Cognitività
✓ Affettività
✓ Funzionamento interpersonale
✓ Controllo degli impulsi
✓ Il modello è stabile e di lunga durata, e l’esordio può essere fatto risalire almeno
all’adolescenza o alla prima età adulta.
✓ Disagio clinicamente significativo e compromissione del funzionamento.

Coloro che sono affetti da questi disturbi (paranoide, schizoide e schizotipico) mani-
festano comportamenti strani ed eccentrici, simili fino a un certo punto a
quelli visti per la schizofrenia, come sospettosità estrema, isolamento so-
ciale e maniere particolare di pensare e percepire le cose. Alcuni clinici
li definiscono disturbi dello spettro schizofrenico. A sostegno di que-
sta ipotesi, alle persone con questi disturbi viene diagnosticata anche la
schizofrenia oppure vi sono casi di schizofrenia tra i loro familiari
stretti.
Attualmente i clinici possiedono una vasta gamma di conoscen-
ze sui sintomi dei disturbi di personalità bizzarra, ma non hanno
avuto successo nel determinare le cause o la modalità trattamento. In
realtà, è raro che le persone con questi disturbi si rivolgano a un terapeuta.

Prime nozioni di personalità


Nella dottrina frenologica, molto in voga nell’Ottocento, Franz Josef Gall sosteneva che il cervel-
lo fosse costituito da diverse regioni, ciascuna deputata ad alcuni aspetti della personalità. I freno-
logi cercavano di valutare la personalità dall’esame di segni esterni (prominenze, avvallamenti)
sul cranio di un individuo.

Le persone con disturbo paranoide di personalità nutrono una profonda diffidenza nei confronti
degli altri e una grande sospettosità sulle loro motivazioni. Dal momento che sono convinti che tutti
vogliono far loro del male o danneggiarli, evitano qualunque tipo di relazione intima. Possono inve-
ce avere eccessiva fiducia nelle proprie idee e capacità, come bene esemplifica il caso seguente:

CASO 13.1
Credeva, senza motivo, che i vicini la tormentassero permettendo ai loro figli di fare rumore da-
vanti alla porta del suo appartamento. Anziché chiedere ai vicini maggiore riguardo, smise di ri-
volgere loro la parola e iniziò una campagna di incessante ritorsione: li guardava male, li spinge-
va in malo modo nei corridoi, sbatteva le porte e si comportava con maleducazione con chi veni-
va in visita da loro. dopo oltre un anno, quando i vicini finalmente le chiesero il motivo del suo
detestabile comportamento, ella li accusò di tormentarla di proposito. “Tutti sanno che queste
porte sono di carta velina e che io sento tutto quello che succede nei corridoi. E voi lo fate appo-
sta!”. Nulla di quello che le dicevano i vicini riusciva a convincerla del contrario. Nonostante i

142
Riassunti di Silvia Varro

loro effettivi sforzi di non fare rumore davanti casa sua, lei continuò a comportarsi in modo ma-
leducato e aggressivo.
I vicini e i loro amici dissero che Amaya era sempre tesa e arrabbiata. Aveva costantemente
un’espressione dura e corrucciata39. Raramente la vedevano sorridere. Girava nel quartiere sem-
pre con gli occhiali scuri, anche nelle giornate nuvolose. Spesso la vedevano urlare contro i pro-
pri figli, un comportamento a causa del quale i genitori dei compagni di scuola dei bambini la
chiamavano “l’urlatrice”. Aveva costretto i figli a cambiare più volte scuola nello stesso com-
prensorio perchè non era contenta dell’istruzione che ricevevano. Una ragione non detta, forse,
era che aveva allontanato molti altri genitori. Amaya lavorava in casa durante il giorno, con
un’attività che prevedeva scarsi contatti sociali e quando parlava era spesso sarcastica e ipercriti-
ca.

Le persone come Amaya, sempre sulla difensiva e pronte a vedere minacce ovunque, si aspettano
continuamene di essere vittima di qualche inganno. In ogni cosa trovano significati nascosti, in ge-
nere tesi a sminuirle o minacciarle. In uno studio che richiedeva ai partecipanti di interpretare dei
ruoli, i soggetti paranoici avevano una maggiore tendenza, rispetto ai partecipanti del gruppo di
controllo, a vedere intenzioni ostili nelle azioni degli altri. Inoltre, sceglievano più spesso la collera
come reazione adeguata nell’interpretazione del loro ruolo.
Le persone con disturbo paranoide tendono rapidamente a mettere in dubbio la lealtà e l'onestà dei
conoscenti e restano in generale fredde e distaccate. È il caso della donna che evita di fidarsi di
qualcuno, per paura di esserne ferita, o del marito che continua senza motivo a mettere in dubbio la
fedeltà della moglie. Sebbene inappropriati e senza alcun fondamento, non si tratta di sospetti deli-
ranti; le idee non sono tanto bizzarre o così profondamente radicate da alienare l'individuo dalla
realtà. Chi soffre di questo disturbo è ipercritico nei confronti dei difetti e delle debolezze altrui,
soprattutto in ambito lavorativo, tuttavia sono incapaci di riconoscere i propri errori ed estremamen-
te sensibili alle critiche. Spesso accusano gli altri per ciò che non va nella propria vita e tendono a
portare rancore.

Le ipotesi eziologiche non hanno ricevuto al momento sufficienti conferme dalla ricerca scientifica.
La prospettiva psicodinamica considera la personalità paranoide come contraddistinta da una ten-
denza a proiettare sull'altro affetti, impulsi e pensieri di qualità negativa (ostilità, odio, vergogna,
invidia, disprezzo, disgusto, paura) che il soggetto sperimenta come intollerabili e pertanto vengono
negati. Nutre una profonda paura di essere danneggiato dagli altri e per questo controlla difensiva-
mente le relazioni interpersonali attraverso il diniego e la proiezione. Questi soggetti spendono,
inoltre, molte energie per osservare e controllare il contesto circostante alla ricerca di situazioni e
persone per lui potenzialmente ostili e minacciose. Solitamente a livello clinico si riscontra nell'in-
fanzia la presenza di genitori autoritari e umilianti, che con la loro condotta hanno esposto il bam-
bino a ripetute esperienze di sopraffazione. Il genitore, incapace di contenere l'intesa angoscia che
lo pervade, offre al bambino modello di diniego e di proiezione, che amplifica la rabbia e confusio-
ne rispetto al proprio sentire. La mancata conferma genitoriale alle reazioni emotive del bambino
porta quest'ultimo a sperimentare vissuti di rabbia, paura, vergogna, risentimento e desiderio di
vendetta.
I teorici cognitivi ipotizzano che le persone con disturbo paranoide di personalità tendono ad avere
generiche convinzioni del tipo "la gente è cattiva" e “la gente ti attacca se gliene dai la possibilità”.
I teorici di orientamento biologico ritengono che tale disturbo abbia un'eziologia genetica. Evi-
denze a sostegno di tale ipotesi derivano principalmente studi condotti su coppie gemellari, tuttavia

39
Rattristato, o che dimostra esteriormente un sentimento d'ira mista a dolore.

143
Riassunti di Silvia Varro

le differenze riscontrate tra i gemelli potrebbero anche essere il risultato di esperienze ambientali
comuni.

In generale chi ha un disturbo paranoide di personalità non si considera "malato" ed è raro che cer-
chino di farsi aiutare di propria iniziativa. Inoltre, tra coloro che sono in trattamento molti pensano
che il paziente abbia un ruolo inferiore e sono diffidenti e ribelli nei confronti del terapeuta. Per
questo motivo la terapia ha effetti limitati e procede lentamente.
I terapeuti delle relazioni oggettuali cercano di guardare oltre la rabbia del paziente e applicano
tecniche psicodinamiche per affrontare il suo desiderio di avere relazioni soddisfacenti. Sono stati
provati anche approcci di tipo cognitivo-comportamentale: il terapeuta insegna all'individuo tecni-
che antiansia e a migliorare le proprie capacità di risolvere problemi interpersonali. Dal punto di vi-
sta cognitivo, il terapeuta guida il paziente ad interpretare in modo più realistico le parole e le azio-
ni degli altri e a tenere in maggiore considerazione il punto di vista altrui. La terapia farmacologica
non sembra molto invece molto efficace in questi casi.

Gli individui con disturbo schizoide di personalità evitano sistemati-


camente le relazioni sociali, manifestano distacco e hanno una gamma
limitata di espressioni emotive. Come nel caso del disturbo paranoide,
questi soggetti non hanno legami di amicizia o affettivi con gli altri. La
ragione per cui evitano il contatto sociale, tuttavia, non ha nulla a che fare
con le sensazioni paranoidi di diffidenza e sospettosità; essi preferiscono
veramente la solitudine. Non fanno alcuno sforzo per avviare o mantene-
re un'amicizia, non hanno interesse per i rapporti sessuali e sembrano in-
differenti anche nei confronti della loro famiglia. Cercano lavori dove
non sia richiesto il contatto con gli altri. Se necessario, possono anche
avere qualche interazione nell'ambiente di lavoro, ma preferiscono comunque stare da sole. Molti
vivono da soli. Non sorprende che tendano a essere poco specializzati e molto mediocri nella resa
lavorativa. Se si sposano, la loro assenza di interesse per i rapporti intimi può creare problemi co-
niugali o familiari, come nel caso di Roy:

CASO 13.2
Roy era un apprezzato tecnico che si occupava di progettazione e manutenzione degli acquedotti
di una grande città; il suo lavoro implicava una notevole lungimiranza e capacità di giudizio au-
tonomo, ma scarsa attività di sorveglianza di altre persone. In generale veniva considerato un col-
laboratore nella media, ma competente e affidabile. Non gli veniva chiesto di avere molti contatti
con altre persone e la maggior parte dei colleghi lo riteneva timido e scontroso, mentre per altri
era freddo e distante.
I problemi riguardavano principalmente il rapporto con sua moglie. Si erano rivolti a un terapeuta
della coppia in quanto, nelle parole della moglie, “non è disposto a prendere parte alle attività
della famiglia, non si interessa dei figli, non è affettuoso e non ha alcun interesse per il sesso”.
Il quadro di indifferenza sociale, affettività appiattita e isolamento sociale non riguardava co-
loro con i quali non erano implicate relazioni profonde o intime; tali caratteristiche erano tuttavia
amplificate all’interno della sua famiglia.

Gli individui con disturbo schizoide della personalità sono concentrati essenzialmente su se stessi e
sono insensibili sia alle lodi sia alle critiche. Raramente esprimono emozioni, neppure gioia o colle-
ra. Sembrano non avere alcun bisogno di attenzione e accettazione; in generale sono considerati
freddi, privi di senso dell’umorismo, spenti; di norma riescono a farsi ignorare, come desiderano.

144
Riassunti di Silvia Varro

Vi è una lieve predominanza negli uomini, i quali possono anche essere maggiormente limitati dal
disturbo.
Persone diffidenti
Secondo le indagini, negli Stati Uniti le persone più diffidenti sono coloro che nell’infanzia si so-
no sentite ripetere continuamente dai genitori di non dar confidenza agli sconosciuti. Esse risulta-
no essere socialmente isolate e riferiscono di non essere religiose.

In un’ottica psicodinamica risultano essere particolarmente sensibili ed eccessivamente reattivi


agli stimoli interpersonali. Essi temono di essere invasi, inglobati e controllati dall'altro, sino a riti-
rarsi nel pensiero fantastico con una notevole riduzione delle relazioni sociali. Secondo la prospetti-
va psicoanalitica, le difficoltà della persona schizoide appaiono riconducibili a una problematica di
livello orale. Melanie Klein riconduce i meccanismi schizoidi alla posizione schizoparanoide ti-
pica nella prima infanzia: il mondo esterno è percepito come ricco di minacce di distruzione e an-
nientamento e il bambino reagisce attivando come difesa il ritiro nel mondo interiore dell'imma-
ginazione, per tenere a distanza gli altri. Nei soggetti schizoidi questo ritiro conduce a sviluppare
un'attenzione particolare al proprio mondo interiore piuttosto che alla realtà esterna e alle relazioni
interpersonali, pur continuando a nutrire desideri e fantasie di intimità. Si tratta infatti, di persone
che sviluppano una forte ambivalenza rispetto all'attaccamento: desiderano intimità, ma sentono
la costante minaccia di essere inglobati dagli altri; ricercano la solitudine e la distanza per difendere
la propria sicurezza e separatezza, ma contemporaneamente soffrono di tale condizione di isolamen-
to.
Secondo Winnicott il ritiro in una modalità schizoide può essere facilitato dalla presenza di genito-
ri intrusivi. Altri autori sottolineano come lo sviluppo di dinamiche schizoidi possa essere favorito
parimenti dalla presenza di comunicazioni contraddittorie e ambigue: il bambino sarebbe portato al
ritiro per proteggere il Sé da livelli troppo alti di confusione e rabbia. Tratti schizoidi possono anche
presentarsi in persone che sono cresciute nella solitudine e nell'abbandono; a tal proposito gli studi
di Masud Khan riconducono la genesi di tale struttura di personalità alla combinazione di "traumi
cumulativi", dovuti a carenze e fallimenti materne nell'assicurare al bambino una protezione reali-
stica, e "onnipotenza simbolica", riconducibile a un'eccessiva identificazione con la madre.
Dal punto di vista cognitivo, le persone con disturbo schizoide manifestano la tendenza a produrre
pensieri vaghi e vacui e una difficoltà nel leggere l'ambiente circostante al fine di ricavarne perce-
zioni accurate. Non essendo in grado di comprendere le sfumature emotive negli altri, essi non rie-
scono a mentalizzare le proprie emozioni e risultano rallentati nello sviluppo del linguaggio e delle
abilità motorie, indipendentemente dal livello di intelligenza.

L’isolamento sociale fa sì che la maggior parte delle persone con questo disturbo non pensi affatto
di intraprendere un percorso terapeutico, a meno che il trattamento non sia reso necessario da qual-
che altro problema, come l’alcolismo. Questi pazienti tendono a restare emotivamente distanti dal
terapeuta, sembrano indifferenti alla terapia e nel migliore dei casi i progressi sono limitati.

Un cavaliere sempre più oscuro


Negli anni Ottanta, il disegnatore e scrittore Frank Miller aveva rivoluzionato la personalità di
Batman, presentandolo come un essere solitario, incapace di stabilire relazioni
stabili. Alcuni osservatori clinici hanno notato che la versione attuale di Batman
nel Cavaliere oscuro ha le caratteristiche del disturbo schizoide di personalità.

La terapia cognitivo-comportamentale si è dimostrata in qualche caso efficace, in quanto aiuta le


persone a essere più positive e a stabilire interazioni sociali più soddisfacenti. Le tecniche prevedo-
no di presentare ai pazienti una lista di emozioni sulle quali riflettere oppure si può chiedere loro di

145
Riassunti di Silvia Varro

scrivere e ricordare delle esperienze piacevoli. A volte i terapeuti hanno avuto buoni risultati inse-
gnando ai pazienti le abilità sociali, con l'uso delle interpretazioni dei ruoli, di tecniche di esposi-
zione ed esercizi a casa. La terapia di gruppo sembra utile quando costituisce un ambiente sicuro
per il contatto sociale, sebbene le persone con questo disturbo tendano a fare resistenza all'invito a
partecipare attivamente. La terapia farmacologica non è molto efficace. Come il disturbo paranoide
di personalità, la terapia con i farmaci non è molto efficace.

Il disturbo schizotipico di personalità è caratterizzato da numerosi problemi interpersonali, accen-


tuati da un estremo disagio nelle relazioni strette, da modalità di pensiero di percezione molto strane
ed eccentricità del comportamento. Le persone con questo disturbo sono in ansia quando si trovano
in mezzo agli altri, per questo tendono a isolarsi e ad avere pochissimi amici. Molti si sentono pro-
fondamente soli. Si tratta di un disturbo più grave del disturbo schizoide e paranoide, come esempli-
fica il seguente caso di Harold:

CASO 13.3
Harold era il quarto di sette figli ed era sempre stato un ragazzino isolato, spaventato e “stupido”.
Il nomignolo “Duckie” era riferito alla sua particolare andatura; gli altri lo usavano come termine
dispregiativo, per ridicolizzarlo. Harold non giocava quasi mai con i fratelli o con altri bambini;
veniva preso in giro senza pietà per l’andatura e la sua paura dei bulli. Era diventato il capro
espiatorio del quartiere e si faceva intimidire anche dall’occhiata più innocua e benevola […].
La famiglia di Harold rimase sorpresa quando il bambino si rivelò un bravo scolaro; i problemi
iniziarono alle medie. All’età di 14 anni circa, i suoi risultati scolastici cominciarono a essere
gravemente insufficienti, non voleva andare a scuola e si lamentava per una serie di dolori fisici
vaghi e indistinti. A 15 anni era completamente isolato, non andava più a scuola e restava a casa,
nella stanza del seminterrato che divideva con due fratelli minori. A 16 anni, una volta scappò di
casa urlando “Sono andato, sono andato, sono andato […]”, dicendo che il suo “corpo era andato
in cielo” e che era dovuto correre fuori per riprenderlo; stranamente, questo episodio era avvenu-
to poco dopo che il padre era stato condannato in seguito a un processo, e tale condanna andava
scontata in un ospedale psichiatrico statale. A 17 anni Harold rimaneva immerso tutto il giorno
nei propri pensieri, spesso parlava a voce alta con parole senza senso; si rifiutava di sedersi a ta-
vola con la famiglia durante i pasti.

Come nel caso di Harold, pensieri e comportamenti di questi pazienti possono essere significativa-
mente disturbati. Tra i sintomi possono essere presenti idee di riferimento (la convinzione che gli
eventi esterni abbiano un significato che le riguarda direttamente) e illusioni corporee, come la
percezione di una "forza" o una presenza esterna. Spesso i soggetti con disturbo schizotipico pensa-
no di avere poteri speciali, capacità extrasensoriali, poteri magici sugli altri. Tra le eccentricità tipi-
che del disturbo, sistemare di continuo le confezioni per allineare le etichette, mettere a posto gli
armadi, indossare abiti trasandati o male assortiti. Le emozioni possono essere inappropriate, ap-
piattite troppo serie. Spesso hanno ridotte capacità di attenzione e presentano difficoltà di con-
centrazione. La loro conversazione è vaga, inframmezzata da associazione labili. Tendono a vivere
alla deriva in modo improduttivo. In genere scelgono di fare lavori di scarsa responsabilità, nei qua-
li non devono impegnarsi troppo e non è richiesta l’interazione con le altre persone. Anche in que-
sto caso il disturbo si presenta in leggera maggioranza nei maschi.

Gli studi a orientamento psicodinamico considerano il disturbo schizotipico di personalità una pa-
tologia per certi versi accostabile allo spettro schizofrenico, anche se meno grave. Gli schizotipici
presentano un esame di realtà maggiormente conservato rispetto agli schizofrenici, alcuni disturbi

146
Riassunti di Silvia Varro

del pensiero e difficoltà relazionali. Troviamo lungo il medesimo continuum sia il disturbo schizoi-
de di personalità sia quello schizotipico: in entrambi i casi, infatti, i pazienti presentano un certo
grado di inibizione affettiva e distacco sociale. La prospettiva psicodinamica fa risalire la genesi di
tali disturbi ad una fissazione patologica alla posizione schizo-paranoide e, dunque, alla preva-
lenza di angosce persecutorie ed impulsi aggressivi. L'utilizzo delle difese primitive, quali scissione
e proiezione, riconducono alla mancata integrazione dell'oggetto. Bion individua in questi pazienti
la presenza di oggetti bizzarri, originati dalla frammentazione di oggetti cattivi scissi e proiettati
all'esterno. Quando gli oggetti bizzarri sono reintroiettati dal soggetto, egli sperimenta vissuti di de-
personalizzazione e vuoto affettivo. Secondo Bowlby l'origine del disturbo schizotipico andrebbe
ricercata in un ambiente di crescita deprivato e una situazione di frustrazione affettiva che con-
durrebbe ad una disorganizzazione nel sistema dell'attaccamento.
I ricercatori ipotizzano che nei disturbi schizotipico e schizofrenico siano implicati fattori cognitivi
simili come la capacità di attenzione la memoria breve termine, che possono essere una concausa di
entrambi i disturbi. Inoltre, sono state rilevate similitudini a livello cerebrale: un'eccessiva attività
del sistema dopaminergico, la dilatazione dei ventricoli cerebrali, la riduzione dei lobi tempo-
rali e della sostanza grigia.

Come per i disturbi di personalità paranoide e schizoide, il trattamento è difficile. La maggior parte
dei terapeuti concorda sulla necessità di aiutare i pazienti a "riconnettersi" con il resto del mondo
e a riconoscere i limiti del loro pensiero e dei loro poteri. La terapia mira a cercare di stabilire limiti
chiari (ad esempio viene pretesa la puntualità) e ad aiutare i pazienti a riconoscere dove finiscono le
loro idee e iniziano quelle del terapeuta.
Tra gli obiettivi della terapia, incrementare i contatti sociali positivi, alleviare la solitudine, ridurre
la sovrastimolazione e aiutare gli individui ad acquisire maggiore consapevolezza delle proprie sen-
sazioni.
La terapia cognitivo-comportamentale abbina i due tipi di tecniche allo scopo di favorire un funzio-
namento più efficace nelle persone con disturbo schizotipico di personalità. Con gli interventi co-
gnitivi, i terapeuti insegnano ai pazienti come valutare in modo obiettivo i pensieri e le percezioni
strane e a ignorare quelli inappropriati. Alcuni metodi comportamentali specifici, come lezione di
eloquio, addestramento alle abilità sociali e consigli su come vestirsi e comportarsi, si sono dimo-
strati utili in qualche caso per aiutare i pazienti a mescolarsi agli altri ed essere più a loro agio con le
persone. A volte le persone con disturbo schizotipico di personalità vengono trattate con farmaci
antipsicotici, sulla base delle somiglianze del disturbo con la schizofrenia. A basse dosi, tali farma-
ci possono essere efficaci, perché in genere riducono alcuni problemi del pensiero.

Il comportamento delle persone con questi disturbi (disturbo di personalità


antisociale, borderline, istrionico e narcisistico) è talmente drammatico,
emotivo o imprevedibile da impedire loro di avere relazioni solide o
soddisfacenti. Vengono diagnosticati più facilmente rispetto agli altri.
Tuttavia, solo il disturbo antisociale e borderline sono stati studiati
a fondo, anche per il fatto che sono causa di problemi per gli al-
tri. Le cause di questo gruppo di disturbi, come quelle del grup-
po dei disturbi di personalità bizzarra, non sono state ancora
comprese e i trattamenti vanno dall'inefficace al moderatamente efficace.

I soggetti con disturbo antisociale di personalità, detti anche "psicopatici" o "socio-


patici", presentano un quadro pervasivo di inosservanza e violazione dei diritti altrui. Assieme ai

147
Riassunti di Silvia Varro

disturbi correlati a sostanze, si tratta del disturbo collegato più strettamente al comportamento
criminale negli adulti.
La maggior parte delle persone con questo disturbo ha manifestato aspetti di condotta disturbata
prima dei 15 anni, come marinare la scuola, scappare di casa, essere crudeli verso animali umani e
non umani. I soggetti con disturbo antisociale di personalità mentono di continuo (vedi il caso 13.4,
pag. 398 del manuale), non riescono a conservare un posto di lavoro, sono irresponsabili del punto
di vista economico (spesso contraggono debiti e non li pagano), tendono a essere impulsivi e agi-
scono senza pensare alle conseguenze. Di conseguenza possono essere irritabili, aggressivi e vio-
lenti con gli altri. L'avventatezza è un'altra caratteristica comune: le persone sociopatiche hanno
scarsa considerazione per la sicurezza propria e degli altri, anche dei propri figli. Sono egocentrici
e hanno difficoltà a portare avanti relazioni strette. In genere sviluppare un'abilità particolare nel
trarre profitto o piacere personale a spese degli altri. Poiché raramente causano dolore o danni a sé
stessi, i clinici dicono in genere che mancano di coscienza morale.
Considerano le proprie vittime dei deboli, che meritano per questo di essere raggirati, derubati o
maltrattati fisicamente, infatti spesso vengono arrestati in seguito a qualche crimi-
ne. In realtà si calcola che il 30% dei detenuti rientri nei criteri diagnostici di
questo disturbo. Tra i detenuti maschi delle prigioni urbane, il modello sociopatico
è stato collegato ad altri arresti passati per crimini violenti. Spesso il comporta-
mento criminale declina dopo i 40 anni; in certi casi invece le attività criminali
continuano per tutta la vita.
Gli studi e le osservazioni indicano tra i sociopatici tassi di alcolismo e altri disturbi correlati a so-
stanze maggiori che nel resto della popolazione. L'intossicazione e l'abuso di sostanze potrebbero
contribuire a scatenare il disturbo antisociale allentando i freni inibitori; diversamente, il disturbo di
personalità stesso renderebbe in qualche modo i soggetti più inclini all'abuso di sostanze. O ancora,
il disturbo di personalità e l'abuso di sostanze potrebbero avere la stessa causa, come il bisogno ra-
dicato di vivere in modo rischioso.
Il disturbo ha una predominanza quadrupla tra gli uomini rispetto alle donne.

All'interno della prospettiva psicodinamica si possono utilizzare i termini “sociopatico”, “antisocia-


le” e “psicopatico” come sinonimi: gli individui che presentano questo disturbo sono caratterizzati
da un'intensa aggressività, discontrollo degli impulsi e costante ricerca di stimoli e di sensazioni
forti poiché presentano una foglia di eccitamento più alta della media e necessitano di esperienze
più intense e improvvise per sentirsi vivi. Essi presentano importanti difficoltà a mentalizzare e per-
tanto tendono all'agito40, in particolare quando provano forti angosce ed emozioni particolarmente
intense, quali rabbia ed euforia di tipo maniacale.
Le difese che caratterizzano questi individui sono il controllo onnipotente, l'identificazione proiet-
tiva, la dissociazione e l'acting out. L’assenza di una risposta emotiva profonda porta questi sogget-
ti a essere incapaci di apprendere dalla propria esistenza e di riporre fiducia negli altri. L'altro, infat-
ti, viene considerato solo ed esclusivamente in modo strumentale con il fine di raggiungere i propri
obiettivi e dimostrare la propria superiorità.
L'infanzia dei pazienti antisociali è connotata da caos e insicurezza: l'ambiente di crescita è spesso
disorganizzato o traumatizzante. Questi soggetti sono stati privati di conferme, protezione e coe-
renza affettiva, indispensabili per sviluppare la fiducia negli altri, tanto che emozioni e sentimenti
sono vissuti come segni di debolezza e quindi disconosciuti. All'origine di tale incapacità vi è un'i-
nadeguatezza del caregiver nel contenere emotivamente il figlio e nell'aiutarlo nell'espressione ver-
bale delle proprie emozioni. L'ambiente di crescita non ha stimolato il bambino e non ha dato im-

L'agito (in inglese acting out) è l'espressione dei propri vissuti emotivi conflittuali attraverso l'azione e il comporta-
40

mento piuttosto che con il linguaggio.

148
Riassunti di Silvia Varro

portanza al linguaggio, all’espressione emotiva e affettiva e ai suoi bisogni di riconoscimento. Co-


me suggerisce Kernberg è fallita la possibilità di interiorizzare un oggetto buono e di sviluppare un
attaccamento sicuro.
Secondo molti teorici comportamentisti, i sintomi antisociali possono essere appresi tramite il
modellamento o l'imitazione. A riprova si può riscontrare una maggiore prevalenza di disturbo so-
ciopatico tra i genitori di soggetti antisociali. Altri comportamentisti ipotizzano che alcuni genitori
possano insegnare involontariamente un comportamento antisociale al proprio figlio gratificandolo
ogni volta che si comporta in modo aggressivo.

L’odio è un disturbo psicologico?


Gli psichiatri si trovano costantemente di fronte a problemi di razzismo estremo, omofobia e altre
forme di pregiudizio, comuni soprattutto tra pazienti con disturbo di personalità paranoide, anti-
sociale o di altro tipo. In ambito clinico è attivo un movimento, attualmente piuttosto limitato,
perché l’odio estremo sia classificato tra i disturbi.
Da alcuni studi è emerso che anche i fattori biologici hanno un ruolo importante nell’eziologia del
disturbo. Si evidenziano in particolare:
- Una ridotta attività del sistema serotoninergico rispetto ad altri individui;
- Un malfunzionamento a livello dei lobi frontali. Tra le funzioni di quest'area celebrale vi sono,
infatti, la pianificazione e l'esecuzione di strategie comportamentali adeguate e la possibilità di
sperimentare sentimenti quali la compassione e l'empatia, tutti aspetti compromessi nei soggetti
sociopatici;
- Un livello inferiore di ansia rispetto ad altre persone e reazioni alle situazioni di allarme o alle
aspettative stressanti con una ridotta attivazione cerebrale e corporea.
Forse, a causa della loro bassa capacità di attivazione questi soggetti tendono facilmente a ignorare
le situazioni emotive o minacciose e non ne sono quindi toccati in alcun modo. A causa di questa
particolarità, le persone sociopatiche tendono più delle altre a correre dei rischi e a cercare emozio-
ni forti; esse, cioè, potrebbero essere attratte dalle attività antisociali proprio perché esse soddisfano
un bisogno biologico di fondo di ottenere in qualche modo eccitazione o attivazione (ciò è testimo-
niato dalla ricerca di sensazioni).

Lasciarsi andare
Esprimere la rabbia: solo il 23% degli adulti afferma di esprimere apertamente la collera. Circa
il 39% dice di reprimere o contenere la propria rabbia e il 23% si allontana per cercare di calmar-
si.
Il mito dello sfogo: contrariamente all’idea che lasciare uscire la rabbia la riduca, in uno studio i
partecipanti si comportavano in modo molto più aggressivo dopo avere colpito un punching ball
risetto ai partecipanti che prima rimanevano seduti in un posto tranquillo per un po’ di tempo.

In genere non esistono trattamenti efficaci per il disturbo antisociale di personalità. Tra gli ostacoli
principali vi è la carenza di coscienza dei soggetti e del desiderio di cambiare. Nella maggior par-
te dei casi, coloro che seguono una terapia sono stati obbligati dal datore di lavoro, dalla scuola o da
un giudice; oppure il disturbo viene scoperto da un terapeuta quando un soggetto è in cura per un
altro tipo di problema psicologico.

L’impulsività è un sintomo di molti disturbi psicologici, compresi il disturbo antisociale e border-


line di personalità. Le persone con disturbi del controllo degli impulsi non riescono a resistere
all’impulso, allo stimolo o alla tentazione di eseguire azioni dannose per sé e per gli altri. In ge-

149
Riassunti di Silvia Varro

nere è presente una tensione crescente prima di compiere l’azione e sollievo quando si cede
all’impulso. Alcuni, in seguito provano rimorso o senso di colpa.
o Piromania: episodi ripetuti di appiccamento volontario del fuoco. L’azione procura intenso
piacere e sollievo dalla tensione. Da non confondere con l’incendio doloso, in cui il fuoco
viene appiccato per vendetta o tornaconto finanziario.
o Cleptomania: il soggetto non riesce a resistere all’impulso di rubare, in genere non ha pro-
blemi economici e sarebbe in grado di pagare gli oggetti che ruba.
o Disturbo esplosivo intermittente: il soggetto ha periodici scoppi di aggressività in cui può
diventare violento nei riguardi di persone o cose. Le azioni aggressive sono sproporzionate al-
le provocazioni.
o Tricotillomania: il soggetto si strappa sistematicamente capelli e peli, in particolare dal cuoio
capelluto, dalle sopracciglia e dalle ciglia.
o Gioco d’azzardo patologico: è il più comune tra tutti, si caratterizza per un comportamento
persistente e ripetuto che sconvolge la vita familiare o lavorativa delle persone. Le persone
non riescono a sottrarsi ad una scommessa e sono nervose e irritabili se viene loro impedito di
giocare. Le continue perdite di denaro portano a giocare sempre di più nel tentativo di recupe-
rare e le scommesse continuano nonostante i problemi finanziari, sociali e di salute. I tratta-
menti che combinano approcci cognitivi, comportamentali, biologici, sociali e
sanitari sono i più efficaci. Altrettanto efficaci sono i gruppi di
auto-aiuto come Giocatori Anonimi, una rete di associa-
zioni sul modello degli Alcolisti Anonimi; i soggetti che li
frequentano sembrano presentare un tasso di recupero
abbastanza elevato, in parte perché ammettono di avere
un problema e cercano di superarlo.

Alcuni terapeuti cognitivi cercano di guidare i pazienti sociopatici a riflettere su temi morali e sui
diritti degli altri; diversi ospedali e carceri hanno prova a creare comunità terapeutiche per persone
sociopatiche dove possano imparare il significato della responsabilità nei confronti degli altri. Al-
cuni individui sembrano trarre giovamento da questi approcci, ma nella maggioranza dei casi ciò
non avviene. Si è tentata anche la terapia con farmaci psicotropi, in particolare antipsicotici atipici
che potrebbero ridurre alcune caratteristiche del disturbo, ma mancano ancora studi su questa ipote-
si.

Il termine “borderline” fu introdotto nel 1938 dallo psicanalista Adolph Stern per descrivere dei pa-
zienti con sintomatologia più grave rispetto ai nevrotici, però non ancora psicotica. Da allora il ter-
mine si è evoluto fino ad acquisire il significato attuale. Le caratteristiche del disturbo borderline
di personalità sono la grande instabilità con notevoli variazioni di umore, alterazioni dell'immagine
di sé e impulsività pervasiva. A causa di ciò, anche le relazioni interpersonali sono molto instabili,
come si vede nel caso di Ellen, in cui sono presenti alcune difficoltà tipiche.

CASO 13.5
Ellen Farber, 35 anni, single, dirigente di una compagnia di assicurazioni, si presentò al pronto
soccorso psichiatrico di un policlinico universitario riferendo sintomi di depressione e il pensie-
ro di lanciarsi con la macchina da uno strapiombo. Ellen, una donna spigliata e sofisticata, leg-
germente in sovrappeso, appariva molto angosciata. Riferì un periodo di sei mesi di disforia per-
sistente e mancanza di energia e di gioia di vivere. Con la sensazione di “essere fatta di piombo”,
ultimamente la signora Farber aveva trascorso a letto 15 o 20 ore al giorno. Aveva inoltre episodi
quotidiani di abbuffate compulsive, in cui ingeriva “tutto ciò che riusciva a trovare”, come intere
torte al cioccolato e pacchi di biscotti. Tali comportamenti andavano avanti sin dagli anni

150
Riassunti di Silvia Varro

dell’adolescenza, ma ultimamente avvenivano sempre più spesso, tanto che negli ultimi mesi era
aumentata di cinque chili. In passato aveva avuto più volte variazioni di peso, avendo fatto diver-
se diete […].
Attribuiva i propri sintomi alle sue difficoltà finanziarie. Ellen era stata licenziata due settimane
prima del suo arrivo al pronto soccorso. Secondo lei era accaduto perché “doveva qualche piccola
somma di denaro”. Quando le fu chiesto di essere più precisa, disse di avere un debito di 150.000
dollari con il suo ex datore di lavoro e di altri 100.000 dollari con alcune banche locali. Da altre
domande venne fuori che da sempre aveva difficoltà nella gestione del denaro e a 27 anni era
stata costretta a dichiarare bancarotta. Dai 30 ai 33 anni aveva usato le carte di credito del suo ca-
po per pagarsi delle maratone di shopping compulsivo settimanali, e così aveva accumulato il
debito di 150.000 dollari […]. Disse che spendere soldi alleviava certe sensazioni croniche di so-
litudine, isolamento e infelicità. Poiché il sollievo era solo temporaneo, dopo soli pochi giorni
acquistava d’impulso gioielli e orologi costosi o più paia dello stesso modello di scarpe.
Ellen descrisse anche un’incertezza cronica su ciò che voleva fare nella vita e di chi voleva esse-
re amica. Aveva molte relazioni di amicizia brevi e intense sia con uomini che con donne, ma a
causa del suo carattere impulsivo c’erano frequenti discussioni, durante le quali arrivava perfino
alle mani. Pur avendo sempre pensato alla sua infanzia come a un periodo felice e spensierato,
quando subentrò la depressione cominciò a ricordare [di essere stata maltrattata, verbalmente e
fisicamente, dalla madre].

Come Ellen, le persone con disturbo borderline di personalità entrano ed escono continuamente da
stati gravemente depressi, ansiosi e irritabili che possono durare da poche ore soltanto ad alcuni
giorni o più. Tendono ad avere attacchi di rabbia che possono sfociare in aggressività fisica e vio-
lenza. Possono inoltre rivolgere questa rabbia impulsiva verso se stessi e autoinfliggersi del male.
Molti sembrano turbati da una profonda sensazione di vuoto.
Il disturbo borderline di personalità è un quadro complesso e sta rapidamente diventando tra i pro-
blemi più comuni visti nella pratica clinica. Molti dei pazienti che si presentano al pronto soccorso
psichiatrico con questo disturbo si sono intenzionalmente fatti del male. Le attività impulsive e au-
todistruttive possono andare dall'abuso di alcool o di sostanze alla delinquenza, al sesso promi-
scuo e non protetto e alla guida spericolata. È frequente un comportamento autolesivo o di au-
tomutilazione, come tagliarsi, bruciarsi, sbattere la testa. Sebbene tali comportamenti siano in gene-
re causa immensa di sofferenza fisica, gli individui con disturbo borderline di personalità hanno
spesso la sensazione che il dolore fisico sia un sollievo dalla sofferenza emotiva. Può diventare
una distrazione dall’angoscia, causando in loro una reazione nei confronti di un sovraccarico emoti-
vo. Cicatrici e ferite possono inoltre fornire una sorta di documentazione o prova concreta della sof-
ferenza emotiva. Infine, come Ellen, molte persone affette da questo disturbo cercano di farsi del
male per gestire la sensazione cronica di vuoto, noia profonda e confusione di identi- tà.
Sono comuni anche le minacce di suicidio e le azioni suicidarie. Circa il 75% dei sog-
getti tenta il suicidio almeno una volta nella vita; circa il 10% riesce a togliersi la
vita. Accade spesso che le persone affette da questo disturbo vengano prese in
carico per il trattamento proprio attraverso il pronto soccorso in seguito a un
tentativo di suicidio.
Le persone con disturbo borderline hanno spesso relazioni intense, molto conflittuali, in cui i loro
sentimenti non sono sempre ricambiati dall'altra persona. Tendono a idealizzare le qualità e le capa-
cità di un'altra persona dopo averla conosciuta appena. In genere superano i confini appropriati della
relazione e si arrabbiano oltremisura quando le loro aspettative non trovano risposta. In genere però
non rompono la relazione, ma la tengono comunque in piedi. In effetti, le persone con questo di-
sturbo hanno costantemente paura di un imminente abbandono e per questo fanno di tutto per
evitare separazioni, reali o immaginarie, dalle persone con cui hanno rapporti. Talora arrivano a
provocarsi ferite o a compiere altre azioni di autolesionismo per impedire al partner di andarsene.

151
Riassunti di Silvia Varro

Hanno in genere variazioni improvvise e drammatiche della propria identità. Un senso di Sé insta-
bile può essere causa di rapidi cambiamenti per quanto riguarda obiettivi, aspirazioni, amicizia e
perfino orientamento sessuale. Talora possono non avere alcun senso di Sé e da ciò si produce il
senso di vuoto descritto più sopra.
Quasi il 75% delle persone affette da questo disturbo è di sesso femminile. Nel modello più comu-
ne, l’instabilità e il rischio di suicidio hanno un picco nella prima età adulta, per poi diminuire gra-
dualmente nel corso degli anni. Considerate le modalità di relazione caotiche e instabili, questo di-
sturbo tende a interferire con le prestazioni lavorative in misura maggiore rispetto alla maggior par-
te dei disturbi di personalità.

In un'ottica psicoanalitica possiamo affermare che il paziente borderline sperimenta una profonda
ambivalenza nella relazione interpersonale: egli coglie il profondo bisogno dell'altro, ma allo stesso
tempo ha paura di fondersi con esso, sino a perdere la propria identità. Tale difficoltà sembrerebbe
originarsi nella relazione con un caregiver incapace di incoraggiare il bambino nell'esplorazione
dell'ambiente, con una conseguente progressiva separazione, e di fornire il necessario supporto nella
fase di riavvicinamento. Tali soggetti sono caratterizzati da debolezza strutturale dell'Io, opera-
zioni difensive primitive, conseguenti relazioni oggettuali problematiche e difficoltà a modulare
gli affetti e a controllare gli impulsi; essi sperimentano un cronico sentimento soggettivo di vuoto
legato alla mancanza di un concetto stabile e integrato di sé e degli altri. La percezione della conti-
nuità temporale risulta frammentata, portando questi pazienti a vivere in un “adesso” che non può
stabilire connessioni di senso con il passato e il futuro. Essi, inoltre, pur mantenendo prevalente-
mente intatto l'esame di realtà, tendono a regredire a un funzionamento di tipo psicotico in con-
comitanza con il loro esperire affetti particolarmente intensi.

Gestire la rabbia
Le donne ricorrono al cibo per calmarsi quando sono arrabbiate 2,5 volte più degli uomini.
Secondo le indagini, gli uomini ricorrono al sesso per calmarsi quando sono arrabbiati 3 volte più
delle donne.
Le donne hanno il 56% di probabilità più degli uomini di urlare quando sono arrabbiate.
Gli uomini hanno il 35% di probabilità più delle donne di “ribollire in silenzio” quando sono ar-
rabbiati.

La principale modalità difensiva è la scissione, riscontrabile anche durante l’attivazione di altre di-
fese quali l’idealizzazione primaria, l’onnipotenza e la svalutazione, che conducono il soggetto a
percepire gli altri come totalmente "buoni" o totalmente "cattivi". La percezione che questi pazienti
hanno degli altri è, quindi, polarizzata su due estremi e questo porta loro a oscillare tra idealizza-
zione e svalutazione.
Alcune caratteristiche sono state collegate a fattori biologici. I soggetti maggiormente compromes-
si, ossia coloro che sono più aggressivi nei confronti di se stessi e degli altri, sembrano avere una
ridotta attività della serotonina. È stata inoltre riscontrata nei consanguinei di primo grado una
probabilità di cinque volte maggiore rispetto alla popolazione generale di avere lo stesso disturbo di
personalità.
Attualmente ha acquisito pregnanza la spiegazione del disturbo borderline proposta all'interno della
prospettiva biopsicosociale, secondo la quale il disturbo deriva da una combinazione di fattori bio-
logici (disfunzioni cerebrali), psicologici (difficoltà a identificare e controllare i propri livelli di
reattività ed emozione) e sociali (ambiente primario in cui l'affettività del bambino viene ignorata,
denegata o punita).
Infine, alcuni teorici della prospettiva socioculturale ipotizzano che i casi di disturbo borderline
siano più frequenti nelle culture sottoposte a rapidi cambiamenti. Quando una cultura perde stabilità

152
Riassunti di Silvia Varro

si producono nei membri problemi identità, senso di vuoto, elevati livelli di ansia e vissuti abban-
donici.

La psicoterapia si è dimostrata di qualche utilità per le persone con disturbo borderline di personali-
tà. Tuttavia, per un terapeuta è molto difficile ottenere un equilibrio tra l’empatia nei confronti della
dipendenza e della rabbia del paziente e la necessità di mettere in discussione il suo modo di pensa-
re. L'atteggiamento interpersonale fortemente instabile dei pazienti borderline può rende difficile
per il terapeuta stabilire un rapporto di lavoro produttivo con loro. Inoltre, i pazienti possono non
rispettare i limiti del rapporto paziente/terapeuta, ad esempio chiamando il numero delle emergenze
per parlare di questioni non urgenti.
Negli ultimi vent'anni, numerosi studi hanno dimostrato l'efficacia di un trattamento integrativo per
questo disturbo, la terapia dialettico comportamentale (TDC), tanto che è considerata il tratta-
mento di prima scelta. La TDC prevede molte delle stesse tecniche cognitivo-comportamentali
(esercizi a casa, psicoeducazione, insegnamento di abilità sociali, modellamento terapeutico, deter-
minazione chiara degli obiettivi, valutazione collaborativa tra paziente e terapeuta nel modo di pen-
sare del paziente). Inoltre, si rifà molto agli approcci psicodinamici, ponendo la stessa relazione pa-
ziente-terapeuta al centro delle interazioni terapeutiche. I terapeuti TDC si immedesimano con i pa-
zienti e con il loro tumulto emotivo, identificandone i nuclei di verità ed esaminando per loro dei
modi alternativi di rispondere ai bisogni reali. Spesso la TDC viene abbinata alla partecipazione del
paziente a gruppi per apprendimento delle abilità sociali, dove possono mettere in pratica nuovi
modi di relazionarsi con altre persone in un ambiente protetto e ricevere allo stesso tempo sostegno
dagli altri membri del gruppo.
La TDC ha ricevuto numerose conferme dalla ricerca, più di ogni altra forma di trattamento per il
disturbo borderline di personalità:
- Molti pazienti che si sono sottoposti a questo tipo di trattamento riescono a migliorare la propria
capacità di tollerare lo stress, sviluppano nuove e più appropriate abilità sociali e reagiscono in
maniera più efficace alle situazioni della vita.
- Gli atti autolesivi diminuiscono in modo significativo, come pure la tendenza al suicidio.
- I pazienti che seguono questa terapia hanno più probabilità degli altri di continuarla e di riferire
successivamente meno rabbia, maggiore gratificazione sociale, migliore prestazione lavorativa e
riduzione dell’abuso di sostanze.
Infine, farmaci antidepressivi, antibipolari, ansiolitici e antipsicotici si sono dimostrati, in alcuni
casi, utili nel calmare gli accessi emotivi e aggressivi. L'uso dei farmaci nell'ambito di un trattamen-
to ambulatoriale è controverso per cui molti professionisti ritengono che dovrebbe essere considera-
ta un'aggiunta rispetto alla psicoterapia. In effetti, molti pazienti sembrano trarre beneficio da una
combinazione di psicoterapia e farmacoterapia.

Le persone con disturbo istrionico di personalità, un tempo detto disturbo isterico di personalità,
sono estremamente emotive e cercano di continuo di essere al centro dell'attenzione. Il loro umore
esagerato e drammatico può complicare notevolmente la vita. Sono sempre "in scena", usano gesti
teatrali, manierismi e linguaggio altisonante per parlare di eventi comuni quotidiani. Cambiano con-
tinuamente allo scopo di attirare l'attenzione e fare colpo, e in questa ricerca non modificano solo
le caratteristiche superficiali, ma anche le proprie opinioni e convinzioni. In realtà il loro eloquio è
povero di dettagli e di sostanza, e sembrano non avere chiaro il proprio senso di sé.
L'approvazione e lode sono essenziali per questi individui, per i quali è essenziale avere un pubblico
che assista ai loro stati emotivi eccessivi. Vanitosi, egoisti, esigenti e incapaci di ricercare la gratifi-
cazione a lungo, reagiscono in modo drammatico a qualsiasi evento, anche piccolo, che impedisca
loro di attirare l'attenzione. A volte arrivano a tentare il suicidio allo scopo di manipolare gli altri

153
Riassunti di Silvia Varro

oppure possono comportarsi in modo provocante o seduttivo per cercare di ottenere i propri scopi
attraverso la seduzione sessuale. È molto frequente l'ossessione dell'aspetto fisico e di come ven-
gono visti dagli altri, e spesso indossano vestiti colorati e sgargianti. Considerano le proprie relazio-
ni sociali più profonde di quanto siano in realtà, ritenendosi amici intimi di persone che li reputano
semplici conoscenti. Spesso allacciano relazioni sentimentali con persone magari belle e affascinan-
ti, che però le trattano male.
Si riteneva un tempo che questo disturbo fosse più comune nelle donne che negli uomini, tanto che
a lungo nella pratica clinica si è parlato di “moglie isterica”. La ricerca ha indicato invece un pre-
giudizio di natura sessuale delle diagnosi del passato. Nel valutare i case study di persone che pre-
sentano tratti misti di personalità istrionica e antisociale, in diversi studi i clinici hanno emesso la
diagnosi di disturbo istrionico di personalità più spesso per le donne che per gli uomini. In base a
statistiche più recenti, tra il 2 e il 3% ha questo disturbo di personalità, con una distribuzione simile
tra maschi e femmine.

Freud considerava l'isteria di conversione una malattia psichica con eziologia specifica, caratteriz-
zata da un conflitto intrapsichico espresso attraverso diversi sintomi somatici parossistici41 (crisi
emozionale con teatralismo) o durevoli (paralisi isteriche, anestesie). Ciò che maggiormente con-
traddistingue l’isteria è la presenza di specifici meccanismi di identificazione e di difesa (in partico-
lare la rimozione) e l’emergenza del complesso edipico. In Studi sull’isteria, Freud postula una
funzione di difesa contro rappresentazioni e contenuti che potrebbero attivare reazioni affettive
spiacevoli nel soggetto. Oggi l'isteria viene considerata un tratto di personalità proprio non solo
del versante nevrotico, ma anche di quello psicotico e borderline. Le principali modalità difensive
adottate da questi individui sono, oltre alla rimozione, la sessualizzazione e la regressione. Si tratta
di pazienti che tendono a rimuovere alcuni impulsi libidici ritenuti inaccettabili e ad agire compor-
tamenti seduttivi e sessualizzati, pur non essendone consapevoli. Laddove questi pazienti si sentano
insicuri o temano il rifiuto, possono mettere in atto condotte infantili con l'obiettivo di evitare il di-
sagio.
I pazienti che presentano tale struttura di personalità nell'infanzia non si sono sentiti completamente
riconosciuti o hanno sofferto per la preferenza, da parte di uno dei genitori, per fratelli e sorelle. Può
trattarsi, nel caso delle donne, di pazienti che si sentono rifiutate per il proprio sesso, ma che al con-
tempo percepiscono che la sessualità ha un certo potere sugli uomini.
Le condotte seduttive hanno una valenza difensiva a carattere narcisistico, poiché permettono loro
di rafforzare una bassa autostima. La drammaticità e la teatralità tipiche di questo disturbo possono
essere lette come un tentativo di sentirsi ascoltati, riconosciuti e rispettati.
Le letture cognitive evidenziano mancanza di solidità ed estrema suggestionabilità; da questa
prospettiva i soggetti istrionici appaiono poco interessati a conoscere il mondo esterno. Per alcuni
teorici cognitivi, essi ritengono di non essere in grado di badare a se stessi e cercano altre persone
che possono rispondere alle loro necessità.
Infine, i teorici di orientamento socioculturale e multiculturale affermano che il disturbo istrionico
deriva in parte da norme e aspettative culturali.

Le persone con disturbo istrionico di personalità tendono a cercare un aiuto di loro iniziativa. Tutta-
via lavorare con loro può essere molto difficile, a causa delle pretese, delle scenate e del comporta-
mento seduttivo. Possono inoltre far finta di aver avuto importanti cambiamenti e benefici unica-
mente per lusingare il terapeuta. Per evitare questi problemi, il terapeuta deve rimanere obiettivo e
mantenersi rigorosamente entro i confini professionali.

41
Dominato da una violenta esasperazione

154
Riassunti di Silvia Varro

L'obiettivo dei terapeuti cognitivi è quello di cercare di aiutare le persone a cambiare la propria
convinzione di non riuscire a stare in piedi da sole, a sviluppare modi di pensare migliori e più pre-
cisi e a risolvere i problemi. Sono state sperimentate anche la terapia psicodinamica e diverse tera-
pie di gruppo. In tutti questi approcci, lo scopo ultimo dei terapeuti è aiutare i pazienti è riconosce la
propria dipendenza, trovare soddisfazione interiore e diventare più indipendenti.
La farmacoterapia sembra scarsamente efficace, se non allo scopo di ridurre i sintomi depressivi
presenti in alcuni pazienti.

La caratteristica principale delle persone con disturbo narcisistico di personalità è un'idea gran-
diosa di sé, il forte desiderio di essere ammirate e la mancanza di empatia nei confronti degli altri.
Convinte del loro grande successo, potere e bellezza, si aspettano la costante attenzione e ammira-
zione degli altri.

CASO 13.7
Steve si è presentato in studio dietro insistenza di sua moglie, che aveva richiesto una consulenza
matrimoniale. Secondo lei Steve era egoista, insensibile e preoccupato solo del suo lavoro. Tutto
in casa doveva ruotare intorno a lui, alle sue esigenze, ai suoi umori e desideri. Non collaborava
al bilancio domestico, se non con un reddito molto misero. Evitava tutte le responsabilità normali
e continuava a lasciarle tutto il carico della casa; da parte sua, lei era “stufa marcia di essere sem-
pre quella che cucina e lava i piatti, stanca di fargli da mamma e da domestica a tempo pieno”. La
moglie di Steven pensava comunque che lui fosse una persona buona e gentile, molto intelligente
e di grande talento, ma aveva bisogno di un marito, di qualcuno con cui condividere la vita. Ste-
ve, viceversa, secondo lei voleva una madre, non una moglie; non voleva crescere, non sapeva
come dare affetto, ma solo prendere quando ne aveva voglia, niente di più e niente di meno.
Steve si presentava come un giovane uomo affabile, compiaciuto di sé, vagamente altezzoso. La-
vorava come artista commerciale, ma viveva per le serate e i fine settimana, quando poteva dedi-
carsi veramente alla sua pittura. Affermava di voler dedicare tutte le sue energie e ogni momento
libero alla soddisfazione personale, per potersi esprimere nel proprio lavoro creativo.
La maggior parte delle persone lo considerava egoista, freddo e snob. Riconosceva di non saper
condividere con gli altri i propri pensieri e i propri sentimenti, di essere interessato molto di più a
se stesso che agli altri e che da sempre preferiva il piacere della propria compagnia a quella di
chiunque altro.

Le persone con disturbo narcisistico di personalità si vantano dei propri successi e talenti, si aspet-
tano di essere ritenuti superiori dagli altri e spesso appaiono arroganti. Sono molto esigenti nella
scelta delle amicizie e delle frequentazioni, nella convinzione che i loro problemi siano unici e che
possano essere compresi solo da persone “speciali” e di alto livello. Spesso sono affascinanti e all'i-
nizio riescono a fare buona impressione; eppure di rado riescono a conservare
relazioni a lungo termine. Sono poco interessati ai sentimenti degli altri e spesso
se ne servono per raggiungere i propri scopi, a volte per invidia; allo stesso tem-
po sono convinti di essere invidiati da tutti. Nonostante l’autostima ipertrofica
(eccesso di autostima), in alcuni casi possono reagire alle critiche o alla frustra-
zione con accessi di collera o eccessiva umiliazione. Altre reazioni possono esse-
re una fredda indifferenza o un estremo pessimismo venato di depressione; a pe-
riodi di entusiasmo si alternano fasi di abbattimento.

Qual è la differenza tra egoista ed egotista?


Un egoista è una persona interessata principalmente al conseguimento dei propri fini. Un egotista
ha un senso esagerato del proprio valore, ma pur essendo vanaglorioso non è necessariamente un

155
Riassunti di Silvia Varro

egoista incentrato solo su di sé.

Il 75% degli adulti che manifesta il disturbo è rappresentato da uomini. Comportamenti e pensieri
di tipo narcisistico sono frequenti e normali negli adolescenti e non indicano in genere che l'indivi-
duo svilupperà un disturbo da adulto.

AMARE SE STESSI E’ L’INIZIO DI


In un’ottica psicodinamica i soggetti che presentano una UN IDILLIO CHE DURA UNA VITA”
struttura di personalità narcisistica tendono a ricercare Oscar Wilde, Un marito ideale (1895)
all'esterno conferma del proprio valore in grado di incre-
mentare la propria autostima.
Freud (1914) fu il primo a postulare il concetto di “narcisismo primario”, riferendosi
all’investimento libidico che il bambino effettua su se stesso prima che sugli altri. Studi successivi
(Sullivan, Erikson, Bowlby, Winnicott, Jacobson, Spitz, Kohut, Reich) hanno affrontato il tema del
narcisismo ricollegandolo a dimensioni come sicurezza, identità di base, regolazione dell'auto-
stima, attaccamento separazione, arresto evolutivo e deficit. In particolare, i teorici delle relazioni
oggettuali intesero il narcisismo patologico come compensazione legata a mancanze e delusioni
precoci sperimentate all'interno delle relazioni primarie. Queste prospettive mettono in luce rela-
zioni significative tra differenti manifestazioni di disagio psichico e problematiche riconducibili
all’identità e all’autostima. Le persone che presentano una struttura di personalità narcisistica di
personalità, pur mettendo in atto comportamenti compensatori differenti, condividono senso di ina-
deguatezza, invidia, vergogna, debolezza e inferiorità, che si collegano alla paura di essere giudicati
cattivi o indegni. Si tratta, quindi, di soggetti che invidiano l'altro perché lo reputano più forte e
capace e tentano di distruggerlo con giudizi sprezzanti. Le difese maggiormente utilizzate sono l'i-
dealizzazione, la svalutazione e un estremo perfezionismo che si accompagna ad un atteggiamen-
to ipercritico verso se stessi o gli altri. Kohut definisce i soggetti narcisisti come dominati da un
"Sé grandioso", frutto della percezione di superiorità che popola il loro mondo interiore e che può
essere percepita relativamente al proprio Sé o proiettata sugli altri. Kernberg sottolinea che tali
soggetti, se da una parte presentano definizioni di sé grandiose (totalmente buono), dall'altro pos-
sono sperimentare sentimenti di vuoto (totalmente cattivo). Il narcisista necessità dei cosiddetti
oggetti-sé, persone in grado di incrementare la sua autostima e il suo senso di identità attraverso
conferma, ammirazione e approvazione. Le componenti aggressive e minacciose delle figure geni-
toriali determinano il costruirsi di un Super-Io non integrato, persecutorio e severo contro il quale
viene eretto un Sé grandioso e patologico.
Tale configurazione di personalità appare alimentata da esperienze infantili in cui il bambino è stato
usato come estensione narcisistica dalle figure genitoriali 42. Si tratta, dunque, di persone che
hanno a loro volta incarnato la funzione di oggetto-sé per i loro caregivers.
Molti teorici cognitivo-comportamentali ipotizzano che il disturbo narcisistico possa manifestarsi
quando gli individui vengono trattati troppo oblativamente43 nella prima infanzia, acquisiscono cioè
un atteggiamento di superiorità quando genitori “adoranti e colmi di ammirazione” insegnano loro a
sopravvalutare il proprio valore, gratificandoli anche per traguardi modesti o inesistenti.

42
I genitori investono tanto sui propri figli: amore innanzitutto, ideali, speranze, sogni, desideri, aspettative. Sono pronti
a coprire le manchevolezze dei loro bambini e ad augurargli un destino migliore di quello che hanno avuto loro. Grazie
all’amore che il genitore mette sul figlio, questo può sentirsi desiderato, amato e amarsi a sua volta e non avere quella
che viene definita carenza narcisistica. L’amore parentale è il narcisismo dei genitori che torna con una vita nuova: è
adesso amore oggettuale, amore messo sul bambino e per questo costui è prolungamento narcisistico dei genitori (i ge-
nitori proiettano su di lui il loro narcisismo).
43
Oblativo: livello più alto di maturazione psichica e affettiva, caratterizzato dalla capacità di amare e offrire senza at-
tendersi alcun contraccambio

156
Riassunti di Silvia Varro

Infine, molti teorici di orientamento socioculturale vedono in questo disturbo la manifestazione


dell'”era del narcisismo” nella società. In alcune società il crollo progressivo dei valori familiari e
degli ideali sociali produce generazioni di giovani egocentrati e materialisti. Ciò avviene con mag-
giore frequenza nelle culture occidentale, in cui sono incoraggiati l’individualismo44 e la competiti-
vità. Da uno studio condotto a livello mondiale tramite internet è emerso che i partecipanti degli
Stati Uniti avevano punteggi più elevati per il narcisismo, seguiti dai partecipanti di Europa, Cana-
da, Asia e Medio Oriente.

Sguardi di sfuggita
22% Percentuale di persone che si specchia regolarmente nelle vetrine dei
negozi e simili.
69% Coloro che gettano un’occhiata almeno ogni tanto.
9% Coloro che non si guardano mai allo specchio in pubblico o nelle vetrine.

Tra i disturbi di personalità, il disturbo narcisistico è uno dei più difficili da trattare, perché i pazien-
ti non riescono a riconoscere la loro debolezza, a comprendere l'effetto del proprio comportamento
sugli altri o ad accettare commenti e critiche degli altri. I pazienti che si rivolgono al terapeuta lo
fanno a causa di un problema collegato, in genere di depressione. Una volta in terapia, gli individui
possono cercare di manipolare il terapeuta perché sostenga il loro senso di superiorità. Altri sem-
brano proiettare l’atteggiamento di superiorità sul terapeuta e sviluppano un sentimento di odio-
amore nei suoi confronti.
La terapia psicodinamica ha l'obiettivo di aiutare le persone con questo disturbo a riconoscere ed
elaborare le proprie insicurezze e difese di fondo. La terapia cognitiva, concentrandosi sul pensiero
egocentrico, cerca di reindirizzare la preoccupazione del giudizio degli altri, di insegnare loro a in-
terpretare le critiche in modo più razionale, a migliorare la capacità di empatia e a cambiare l'atteg-
giamento generico del tutto-o-niente. Tuttavia, nessuno di questi approcci si è dimostrato efficace.

Questi disturbi (disturbo di personalità evitante, dipendente e ossessivo-


compulsivo) sono tutti caratterizzati da un comportamento ansioso e
timoroso. Come nella maggior parte dei disturbi di personalità, le va-
rie spiegazioni a riguardo non hanno trovato chiare conferme nella
ricerca. Allo stesso tempo, i trattamenti sembrano avere
un’efficacia scarsa o limitata, ma comunque superiore rispetto
agli altri disturbi di personalità.

Le persone con disturbo evitante di personalità sono molto a disagio e inibite nelle situazioni so-
ciali, provano un forte senso di inadeguatezza e sono estremamente sensibili alle valutazioni nega-
tive. Hanno talmente paura di essere respinte da evitare del tutto di dare a qualcuno l’occasione di
accettarle oppure quella di rifiutarle. Evitano volutamente le occasioni di contatto sociale non tanto

44
In questo tipo di società la persona attribuisce importanza a quelli che sono i propri scopi e i propri successi e tende a
valutare il proprio comportamento in termini di costi e benefici. Viceversa, nelle società collettiviste si tendono ad an-
nullare le differenze individuali, a favorire il benessere del gruppo di appartenenza e creare in quest’ultimo relazioni in-
time e stabili, dove gli stessi membri risultano essere molto propensi nel sacrificare i propri desideri e scopi in favore
del raggiungimento di obiettivi e di un benessere comune.

157
Riassunti di Silvia Varro

per una scarsa abilità sociale, quanto per il timore di essere respinte, criticate o disapprovate. Nelle
situazioni sociali sono timide, temono di dire cose stupide e di trovarsi in imbarazzo perché arrossi-
scono o manifestano nervosismo. Anche nelle relazioni intime si esprimono con molta cautela per
evitare di essere umiliate o messe in ridicolo.
Questi individui si ritengono non attraenti o inferiori agli altri. Tendono a esagerare le potenziali
difficoltà delle situazioni nuove, pertanto raramente corrono dei rischi o provano attività nuove. In
genere non hanno amici intimi o ne hanno pochissimi, e si sentono spesso soli e depressi. Alcuni si
creano nella fantasia un mondo sostitutivo immaginario.
Il disturbo evitante di personalità è simile alla fobia sociale (cfr. capitolo 4), e mol-
to spesso chi ha uno di questi disturbi manifesta anche l’altro. Le somiglianze in-
cludono il timore di essere umiliati e la scarsa fiducia in se stessi. Tuttavia, vi è
una differenza essenziale tra i due disturbi: nella fobia sociale gli individui temo-
no in particolare le situazioni sociali, mentre nel disturbo di personalità tendono a
temere le relazioni sociali.
Una percentuale di adulti compresa tra l’1% e il 2% soffre di questo disturbo, uomini e donne in
eguale misura. Spesso bambini e adolescenti sono timidissimi ed evitano di trovarsi con altre perso-
ne, ma questo in genere fa parte del normale sviluppo.

In un’ottica psicodinamica coloro che presentano una struttura di personalità evitante vivono una
situazione emotiva contraddistinta da una forte ansia anticipatoria che porta loro all'isolamento e
all'emarginazione. Si tratta di soggetti con un basso livello di autostima, che temono le situazioni
che possono esporre a rifiuto, umiliazione, imbarazzo, vergogna e ansia. Nel tentativo di inibire la
propria aggressività essi si pongono in una condizione di inferiorità rispetto agli altri: l'insieme dei
sentimenti di vergogna, è interpretabile dal punto di vista psicoanalitico come formazione reattiva
(difesa dal desiderio di esibizione) e come derivato dall'angoscia legata alla ferita narcisistica pro-
dotta dalla consapevolezza di non riuscire a raggiungere l'Io-ideale.
Pur desiderando le interazioni sociali, questi soggetti temono a tal punto di essere giudicati da vive-
re in uno stato di costante apprensione sino a evitare qualsiasi tipo di coinvolgimento affettivo e so-
ciale.
I teorici cognitivi pongono l'accento sulla paura degli individui di essere giudicati dagli altri, una
preoccupazione che può avere le sue radici in un'infanzia dove il minore è stato ripetutamente criti-
cato e respinto. Coloro che hanno avuto esperienze infantili di questo tipo tendono ad adulti ad
aspettarsi di essere respinti, a interpretare in modo distorto le reazioni degli altri per dar ragione di
tali aspettative, a non considerare le osservazioni positive e a temere, in generale, il coinvolgimento
sociale. Numerosi studi in cui è stato chiesto ai soggetti con questo disturbo di ricordare la propria
infanzia hanno confermato sia la teoria psicoanalitica sia quella cognitiva.
Infine, per i teorici comportamentali le persone con questo disturbo non riescono in genere a svi-
luppare le normali competenze sociali. A sostegno di tale ipotesi, da diversi studi è emersa effetti-
vamente una carenza di abilità sociali in questi individui. Per la maggior parte dei comportamenti-
sti, tuttavia, tale carenza si sviluppa proprio perché è l'individuo a evitare costantemente le situazio-
ni sociali.

Gli individui con disturbo evitante di personalità arrivano in terapia nella speranza di trovare accet-
tazione e affetto. Tuttavia portare avanti il trattamento può essere molto difficile, in quanto molti di
essi cominciano dopo poco a saltare le sedute. Spesso non hanno fiducia nella sincerità del terapeuta
e iniziano a temere di essere respinti. Pertanto, come nel caso di altri disturbi di personalità, tra i
principali obiettivi del terapeuta vi è la necessità di guadagnarsi la fiducia del soggetto. Inoltre, il

158
Riassunti di Silvia Varro

terapeuta tende a trattare la persona con disturbo evitante un po' allo stesso modo in cui tratta il pa-
ziente con fobia sociale o altri disturbi d'ansia. Tali approcci si sono rivelati molto efficaci.
La terapia psicodinamica ha allo scopo di aiutare i pazienti a riconoscere e a risolvere i conflitti
inconsci che potrebbero essere operanti. La terapia cognitiva mira a modificare le convinzioni e i
pensieri angoscianti e a migliorare l'immagine che l'individuo ha di sé. Nella terapia comporta-
mentale si fornisce un addestramento alle abilità sociali, nonché trattamenti di esposizione che ri-
chiedono ai soggetti di incrementare i propri contatti sociali. I vari tipi di terapia di gruppo, specie
quelle che seguono i principi cognitivi e comportamentali, presentano l’ulteriore vantaggio di forni-
re ai partecipanti l'occasione di fare pratica nelle interazioni con gli altri. I farmaci antiansia e an-
tidepressivi possono essere di qualche utilità nel ridurre l'ansia sociale nelle persone con disturbo
evitante.

Le persone con disturbo dipendente di personalità hanno un bisogno persistente ed eccessivo di


essere accudite. Esse sono pertanto sottomesse e obbedienti, temono la separazione da un genitore,
dal coniuge, o da altri familiari stretti. Si appoggiano talmente agli altri da non riuscire a prendere
da soli la minima decisione. Quello di Matthew è un caso tipico:

CASO 13.9
Matthew è uno scapolo di 34 anni che vive con la madre e lavora come ragioniere. Si è rivolto al
terapeuta in quanto è molto abbattuto dopo avere appena rotto con la sua fidanzata. Sua madre
aveva manifestato disapprovazione all’idea del matrimonio tra i due, verosimilmente a causa del-
la religione diversa della ragazza. Matthew si è sentito intrappolato e obbligato a scegliere tra sua
madre e la fidanzata, e poiché “il sangue non è acqua” aveva deciso di non andare contro i desi-
deri della madre. Eppure è arrabbiato con ste stesso e con lei, crede che non gli permetterà mai di
sposarsi e che sia troppo possessiva nei suoi confronti. Matthew teme di mettersi contro sua ma-
dre per paura che lei gli volti le spalle e di essere costretto poi a badare a se stesso […]. I suoi
sentimenti oscillano tra il risentimento e un atteggiamento del tipo: “la mamma ha più esperienza
e sa meglio di me cosa devo fare”. Ha la sensazione di non saper valutare la propria situazione.
Matthew fa un lavoro dequalificato rispetto alla sua formazione e al suo talento. Ha rifiutato più
volte una promozione perché non voleva prendersi la responsabilità di gestire altre persone o di
prendere decisioni e iniziative personali. Lavora per lo stesso capo da dieci anni, va d’accordo
con lui, che lo stima e lo considera un lavoratore affidabile e riservato. Ha due amici che frequen-
ta da quando erano bambini. Pranza con uno di essi ogni giorno feriale e si sente perso quando
l’amico salta un giorno perché è malato.
Matthew aveva forti ansie da separazione da bambino; non riusciva ad addormentarsi senza la
mamma, aveva un certo rifiuto della scuola e provava un’insopportabile nostalgia di casa le po-
che volte che andava a dormire a casa di altri. Da bambino veniva preso in giro dai coetanei per-
ché era molto insicuro, e spesso gli davano del bamboccio. Era sempre vissuto in famiglia, a parte
un anno di università, che abbandonò per la troppa nostalgia.

Dipendenza da cellulare
Molti medici ritengono che la diffusione dei telefoni cellulari abbia creato una vera e propria di-
pendenza psicologica da questi apparecchi. Molti utenti sembrano concentrarsi più sulla connes-
sione telefonica che sui rapporti umani diretti. Gli studi rivelano che alcune persone reagiscono
con ansia elevata, disagio fisico, senso di privazione e mancanza di autostima quando sono co-
strette a spegnere il cellulare per più di qualche minuto.

È normale e anche sano dipendere in qualche misura dagli altri, ma gli individui con disturbo di-
pendente di personalità hanno un costante bisogno di appoggiarsi agli altri, anche nelle situazioni

159
Riassunti di Silvia Varro

più semplici, e dimostrano sensazioni di estrema inadeguatezza e sottomissione. Se nel disturbo evi-
tante di personalità le persone hanno difficoltà a iniziare una relazione, nel disturbo dipendente
hanno problemi di separazione, sentendosi completamente svuotate e disperate quando una rela-
zione stretta finisce, così che ne cercano rapidamente un'altra per riempire il vuoto. Molti restano
tenacemente legati alla relazione con partner che li maltrattano fisicamente o psicologicamente.
Mancando di fiducia nelle proprie capacità, raramente esprimono disaccordo
con gli altri e delegano tutte le decisioni importanti, anche riguardo a se stessi.
Possono quindi lasciare decidere a un genitore o al coniuge dove vivere, quale
lavoro fare, quali amicizie frequentare. Dal momento che temono il rifiuto,
sono ipersensibili alle critiche e alla disapprovazione e cercano costante-
mente di conformarsi ai desideri e alle aspettative degli altri, anche offrendosi
di svolgere compiti spiacevoli o umilianti.
Molte persone con disturbo dipendente di personalità si sentono a disagio, sole e infelici; sono dub-
biose, pessimiste e negative verso se stesse. Sono a rischio di depressione, ansia e disturbi
dell’alimentazione. La loro paura della separazione e la convinzione di essere degli incapaci li pon-
gono particolarmente a rischio di pensieri suicidari, specie quando si convincono che una relazione
stia per finire. Secondo le statistiche, oltre il 2% della popolazione ha il disturbo dipendente di per-
sonalità, con una predominanza femminile, anche se da alcune ricerche è emerso che è presente ne-
gli uomini in eguale misura.

Il funzionamento psicologico di coloro che presentano una struttura di personalità dipendente è


connotato da sentimenti di inadeguatezza: tali soggetti ricercano la sicurezza e la soddisfazione
nelle relazioni interpersonali e provano una forte sofferenza laddove percepiscano sentimenti di ab-
bandono. Bornstein ha messo in luce una possibile eziologia del disturbo, ossia uno stile genitoria-
le iperprotettivo e/o autoritario. Le persone dipendenti assumono atteggiamenti volte a compiace-
re gli altri, che considerano potenti e capaci: obiettivo, più o meno cosciente, del loro agire è instau-
rare relazioni di sostegno e di accudimento che permettano loro di essere sottomessi.
Alcuni individui dipendenti possono reagire in modo aggressivo al loro sentirsi legati a un'altra per-
sona e allo stesso tempo impossibilitati a separarsi da essa (modalità passivo-aggressivo45). Essi
tendono ad attaccare l’altro indirettamente, per paura di subire loro stessi un attacco.
Altri soggetti, invece, tendono a non riconoscere quel bisogno di dipendenza e a rinnegare la vulne-
rabilità emotiva che constatano in loro stessi e negli altri (modalità contro-dipendente).
In un'ottica psicoanalitica è stata sottolineata nei soggetti dipendenti la presenza di vissuti abban-
doni e di vuoto, spesso compensati dall'identificazione con la figura di riferimento da loro prescelta.
I teorici comportamentisti ritengono che i genitori delle persone con disturbo dipendente avrebbe-
ro involontariamente rinforzato l'attaccamento e il comportamento adesivo dei loro figli, punendo i
tentativi di indipendenza attraverso la negazione del loro affetto. Un'altra ipotesi lega la dipendenza
dei figli all'apprendimento di comportamenti dipendenti manifestati dai loro genitori.
Infine, i teorici cognitivi riconducono l'origine e il mantenimento del disturbo a due convinzioni di-
sfunzionali che inibiscono gli sforzi di questi soggetti verso l’emancipazione:
1. "Sono inadeguato e incapace di rapportarmi con il resto del mondo";
2. "Devo trovare una persona che possa proteggermi per poter funzionare adeguatamente".

Una volta in terapia, le persone con disturbo dipendente di personalità trasferiscono in genere tutta
la responsabilità del loro miglioramento al terapeuta quindi, la terapia ha tra gli obiettivi principali

45
Il comportamento passivo-aggressivo è definito come un modo deliberato e mascherato di esprimere sentimenti di
rabbia. Si basa su una sorta di non-azione, condita da emozioni e motivazioni negative e accompagnato da un'ostilità
occultata.

160
Riassunti di Silvia Varro

quello di far sì che i pazienti si assumano la responsabilità di se stessi. Poiché i sintomi dei pazienti
possono essere esacerbati (aggravati) dal comportamento dominante di un coniuge o di un genitore,
alcuni clinici propongono anche un percorso di terapia di coppia o familiare, o una terapia speci-
fica per queste persone.
Nel caso del disturbo dipendente di personalità, il trattamento ha comunque un’efficacia modesta.
La terapia psicodinamica per questo modello è simile alla terapia per la depressione e si focalizza
sul tema della perdita, reale o immaginaria. La terapia cognitivo-comportamentale aiuta il paziente
ad acquisire un maggiore controllo sulla propria vita. Dal punto di vista comportamentale, la tera-
pia prevede un addestramento all'assertività perché gli individui possano esprimere meglio i propri
desideri all’interno delle relazioni. In senso cognitivo, il terapeuta aiuta il paziente a mettere in di-
scussione l'idea di inadeguatezza e incapacità. Quando il disturbo è associato a depressione, la tera-
pia con farmaci antidepressivi si è dimostrata efficace. Infine, come nel disturbo evitante di perso-
nalità, la terapia di gruppo può essere utile perché fornisce al paziente l'opportunità di essere
ascoltato e sostenuto da persone come lui.

Le persone con disturbo ossessivo-compulsivo di personalità sono talmente preoccupate dell'or-


dine, della perfezione e del controllo da perdere ogni traccia di flessibilità, apertura ed efficienza.
La loro produttività è limitata proprio dall'ansia di dover far tutto nel modo giusto: si preoccupano a
tal punto dei particolari da perdere di vista lo scopo dell'attività. A causa di ciò sono spesso in ritar-
do con il lavoro (alcuni sembrano incapaci di portare a termine qualsiasi incarico) e possono trascu-
rare gli amici te le attività che non siano legate al lavoro.

Dipendenza da internet
Nel gergo clinico è entrata la nuova espressione “dipendenza da internet” per designare lo stato di
quelle persone in cui l’uso eccessivo del computer e la dipendenza dalla Rete interferisce pesan-
temente con la vita quotidiana. Tale quadro, che è stato legato al disturbo dipendente di personali-
tà, alla dipendenza da sostanze e al disturbo ossessivo-compulsivo, comporta una quantità di
tempo abnorme passata a navigare in Rete, sui social network, inviare e-mail e messaggi in tempo
reale, leggere blog, fare acquisti, giocare d’azzardo, visitare siti porno. Si calcola che almeno
l’1% della popolazione adulta sia dipendente da internet.

Le persone con questo disturbo pongono a se stesse e agli altri degli standard eccessivamente alti.
Tendono a non essere mai soddisfatte di quello che fanno, ma in genere si rifiutano di farsi aiutare o
di lavorare in gruppo, essendo convinte che gli altri siano troppo distratti o incompetenti per fare il
lavoro come si deve. Avendo il terrore di sbagliare, tendono a non prendere mai decisioni.
Queste persone tendono a essere rigide e ostinate, specialmente nei valori morali e nell’etica. Vivo-
no secondo un codice personale molto rigido che usa come unità di misura per valutare gli altri.
Possono avere problemi a esprimere affetto e avere relazioni piuttosto rigide e superficiali. Inoltre,
possono essere gelosi del loro tempo e avari con il denaro. Alcuni non riescono a disfarsi di oggetti
e abiti consumati o inutili.
Si ritiene che una percentuale compresa tra l’1 e il 2% della popolazione abbia un disturbo ossessi-
vo-compulsivo di personalità, con una prevalenza maggiore nei maschi bianchi, diplomati o laurea-
ti, coniugati e professionalmente attivi.
Il disturbo ossessivo-compulsivo di personalità e il disturbo ossessivo-compulsivo (disturbo d'an-
sia) hanno diverse caratteristiche in comune. Per molti individui che soffrono di uno dei disturbi si
possono applicare i criteri diagnostici anche dell'altro. Tuttavia bisogna mettere in luce una diffe-
renza essenziale:
- Gli individui con disturbo d’ansia ossessivo-compulsivo in generale non desiderano né gradi-
scono i propri sintomi;

161
Riassunti di Silvia Varro

- Nel disturbo ossessivo-compulsivo di personalità le persone spesso accettano i propri sintomi e


difficilmente intendono resistere ai propri impulsi.
Occorre inoltre notare che le persone affette da disturbo di personalità tendono a soffrire piuttosto di
disturbo depressivo maggiore, disturbo d'ansia generalizzato o disturbo correlato a sostanze che non
di disturbo ossessivo compulsivo. In realtà, dalla ricerca non è emerso un nesso specifico tra i due
disturbi sebbene le ipotesi eziologiche siano perlopiù analoghe.

Le ipotesi eziologiche relative al disturbo ossessivo-compulsivo di personalità sono per lo più ana-
loghe a quelle del disturbo d’ansia ossessivo-compulsivo, nonostante persistano dubbi sull’esistenza
di un effettivo nesso tra i due. Freud ipotizzò nei soggetti ossessivo-compulsivi una regressione al-
la fase anale: l’ostinazione, l’ordine, la puntualità e la preoccupazione per la pulizia sono ricondu-
cibili alla delicata fase di apprendimento delle norme igieniche. Il bambino, infatti, è costretto a ri-
nunciare per la prima volta a ciò che è naturale in favore di ciò che è socialmente accettabile: la pre-
senza di un genitore eccessivamente rigido, controllante e punitivo genera sentimenti di rabbia e
vergogna legati a parti negative e cattive di sé, che vengono evacuate. Per contrastare la sensazione
di essere sporco e disordinato, il bambino strutturerà la propria identità e autostima facendo affida-
mento a un costante controllo e un eccessivo investimento nella pulizia e nell'ordine; il conflitto si
manifesta tra le tendenze aggressive e un Super-Io castrante. Anche gli orientamenti contemporanei
concordano sull'esistenza di una forte connessione tra analità e ossessività.
Le principali difese messe in atto dall'ossessivo sono l'isolamento, la razionalizzazione, la mora-
lizzazione, e l'intellettualizzazione; mentre la difesa tipicamente adottata dal compulsivo è l'annul-
lamento. I soggetti ossessivi tendono a svalutare la vita emozionale e prediligere l’attività cogniti-
va: i sentimenti sono associati a debolezza, perdita di controllo, disorganizzazione e sporcizia. Le
persone compulsive, invece, si difendono da pulsioni, affetti e desideri attraverso specifiche azioni,
stereotipate e ripetute, che assumono una valenza espiatoria e protettiva.

Risentimento infantile
Freud sosteneva che l’addestramento all’uso del vasino genera risentimento nel bambino. Se i ge-
nitori hanno un approccio troppo rigido, il bambino può rimanere bloccato alla fase anale e può
successivamente sviluppare un disturbo ossessivo-compulsivo.

Le personalità ossessivo-compulsive fanno, infine, ricorso alla formazione reattiva: la meticolosità


e la diligenza mascherano un profondo desiderio di essere irresponsabili, disordinati e ribelli.
La teoria cognitiva non è così interessata alle origini del disturbo, ma suggerisce che esso venga
mantenuto in essere da processi di pensiero illogici. Ad esempio, il pensiero dicotomico (bian-
co/nero) può essere alla base della rigidità e del perfezionismo. Inoltre, gli individui con questo di-
sturbo tendono a esagerare l’effetto potenziale dei propri errori.

Le persone con disturbo ossessivo-compulsivo di personalità non pensano generalmente di avere


qualche problema. Difficilmente, perciò, si rivolgono ad un terapeuta, a meno che non soffrano di
qualche altro disturbo psicologico, come un disturbo d’ansia o depressivo, o che una persona vicina
li spinga a intraprendere una terapia. Spesso si ottengono buoni risultati con queste due terapie:
- Psicodinamica: mira a far sì che queste persone arrivino a riconoscere, comprendere e accettare
i sentimenti di insicurezza e perfezionismo, e allo stesso tempo ad accettare di correre qualche
rischio nell'ammettere i propri limiti personali.
- Cognitiva: è incentrata sull'aiuto al paziente affinché possa modificare il pensiero dicotomico, il
perfezionismo, l'indecisione, la tendenza a procrastinare e la preoccupazione cronica.

162
Riassunti di Silvia Varro

In base all'esperienza dei clinici, i pazienti rispondono bene ai SSRI (inibitori selettivi della ricap-
tazione della serotonina)46, i farmaci che potenziano l'attività della serotonina; tale risultato non è
stato però ancora confermato dalla ricerca.

Secondo il DSM-IV-TR, un modello che venga diagnosticato come un disturbo di personalità deve
“deviare marcatamente rispetto alle aspettative della cultura dell’individuo”. Considerata
l’importanza della cultura in questa diagnosi, è incredibile che le ricerche multiculturali sui disturbi
di personalità siano tanto carenti. Questo è particolarmente preoccupante per il disturbo borderline
di personalità, un quadro caratterizzato da variazioni estreme di umore e sensazione di vuoto, in
quanto molti clinici sono convinti che in questo disturbo il genere e le differenze culturali abbiano
un ruolo essenziale. Considerando che circa il 75% delle persone a cui viene diagnosticato un di-
sturbo borderline di personalità siano donne si può presupporre che vi siano cause biologiche o un
pregiudizio diagnostico, oppure potrebbe essere un riflesso del fatto che le donne hanno media-
mente più probabilità rispetto agli uomini di subire certi tipi di traumi durante l'infanzia. Ricorderai
che molti individui con disturbo borderline hanno avuto un’infanzia caratterizzata da traumi, vitti-
mizzazione, violenza, maltrattamenti e, a volte, abusi sessuali. Secondo alcuni teorici, le esperienze
traumatiche di questo tipo potrebbero essere delle condizioni che predispongono allo sviluppo del
disturbo borderline de personalità, tenuto conto del fatto che nella società attuale le donne sono più
soggette a esperienze di questo tipo; in effetti, il disturbo dovrebbe essere più correttamente consi-
derato una forma particolare di disturbo post-traumatico da stress. In assenza di studi sistematici le
spiegazioni alternative come queste restano prive di conferme e non vengono quindi messi in atto
trattamenti adeguati. Secondo alcuni teorici multiculturali, il disturbo borderline di personalità sa-
rebbe in gran parte una reazione all'impotenza e alla mancanza di opportunità. In questo senso
sarebbe causato più dalla disuguaglianza sociale (come il sessismo, il razzismo e l’omofobia) che
da fattori psicologici.
Da uno studio recente è emerso che il disturbo borderline è maggiormente diffuso tra gli ispanoa-
mericani che negli afroamericani o nei bianchi. Infine, alcuni teorici multiculturali hanno osservato
che le caratteristiche del disturbo possono essere dei tratti e comportamenti accettabili in certe cul-
ture. Nella cultura portoricana, ad esempio, gli uomini devono manifestare emozioni forti, come
collera e apprezzamento sessuale. Non è chiaro se caratteristiche radicate nella cultura potrebbero
contribuire a spiegare:
- l'elevato tasso di disturbo che si riscontra tra gli ispanoamericani;
- il fatto che tra gli ispanici il tasso del disturbo è simile per uomini e donne, rispetto al consueto
rapporto 3:1 che si trova negli altri gruppi culturali.
Vi è la necessità di nuovi studi multiculturali.

Attualmente i clinici ritengono per lo più che i disturbi di personalità siano condizioni importanti e
problematiche. Tuttavia la diagnosi pone particolari problemi ed è facile sbagliare; tali difficoltà in-
dicano seri dubbi relativi alla validità (accuratezza) e all’affidabilità (coerenza) delle categorie del
DSM-IV-TR. Consideriamo per esempio i seguenti problemi:

46
Gli SSRI sono una classe di psicofarmaci che rientrano nell'ambito degli antidepressivi. Si ritiene siano in grado di
modificare la concentrazione nel cervello della serotonina, neurotrasmettitore responsabile della regolazione del tono
dell’umore, bloccando il principale processo biologico di eliminazione di questa dal vallo sinaptico (reuptake).
Vengono perciò utilizzati per un'ampia varietà di disturbi psichiatrici quali depressione maggiore, disturbi
d'ansia (attacchi di panico, ansia generalizzata, disturbo ossessivo-compulsivo), disturbi dell'alimentazione (bulimia,
binge-eating), disturbo post-traumatico da stress; rappresentano attualmente il gold standard della medicina psichiatri-
ca, grazie anche alla minore incidenza di effetti collaterali e interazioni farmacologiche rispetto a classi di farmaci più
vecchi come i triciclici.

163
Riassunti di Silvia Varro

1. Alcuni dei criteri utilizzati per la diagnosi dei disturbi di personalità non possono essere osser-
vati direttamente. Per distinguere il disturbo di personalità paranoide dallo schizoide, per esem-
pio, è necessario chiedere non soltanto se vengono evitate relazioni strette con gli altri, ma an-
che perché.
2. Vi sono forti discrepanze tra i vari clinici nel giudicare quando uno stile normale di personalità
supera la linea di confine con il disturbo di personalità. Per alcuni è sbagliato anche solo pensare
agli stili di personalità come a psicopatologie, per quanto possano essere problematici.
3. Vi sono molte somiglianze e aspetti in comune nei disturbi di personalità entro lo stesso gruppo
del DSM, o anche tra un gruppo e l'altro. Accade spesso che gli individui con certi disturbi di
personalità rientrino nei criteri anche di numerosi altri disturbi.
4. A individui con disturbi di personalità alquanto diversi può essere diagnosticato il medesimo di-
sturbo di personalità.
5. Le categorie diagnostiche per i disturbi di personalità sono cambiate più volte. Per esempio, il
DSM-IV-TR include attualmente il disturbo passivo-aggressivo di personalità, caratterizzato
da un quadro pervasivo di atteggiamenti negativi e resistenza alle richieste degli altri, tra i di-
sturbi non altrimenti specificati (la ricerca ha dimostrato solo un singolo tratto di personalità)
In parte a causa di questi problemi, attualmente la critica principale all'approccio del DSM-IV-TR si
appunta sul fatto che il sistema di classificazione definisce i disturbi attraverso categorie anzichè
dimensioni di personalità. Come un interruttore della luce che può essere solo acceso o
spento, l'approccio per categorie del manuale diagnostico presume che i tratti problematici
di personalità siano presenti o assenti, che un individuo manifesti o non manifesti un da-
to disturbo di personalità e che una persona che soffra di un certo disturbo di personalità
non possa presentare anche tratti di personalità non caratteristici di quel disturbo.
Molti teorici sono invece del parere che i disturbi di personalità siano differenti più per grado che
per tipo di disfunzione. Essi propongono pertanto che i disturbi vengono classificati in base al gra-
do di intensità dei tratti fondamentali di personalità (o dimensioni) anziché secondo la presenza
o assenza di tratti specifici. In un approccio di questo tipo, ciascun tratto fondamentale (per esem-
pio, l’eccessiva concentrazione su di sé o la disonestà) sarebbe considerato nella sua variazione su
una scala continua, in cui non vi è un netto confine tra normale e patologico. Quindi si potrebbe
diagnosticare un disturbo di personalità solo in quelle persone che manifestano diversi tratti fonda-
mentali estremamente accentuati, una situazione non comune nella popolazione generale.

Secondo alcuni teorici, sarebbe opportuno basarsi sulle dimensioni iden-


tificate nella teoria di personalità dei "big five", il modello dimensionale
attualmente più condiviso. Da un cospicuo corpo di ricerche è emerso che
la struttura di base della personalità sarebbe costituita da cinque "super
tratti" o fattori: stabilità emotiva, energia, apertura mentale, ami-
calità e coscienziosità. Ognuno di questi fattori è costituito da diverse
sottodimensioni. Ansia e ostilità, ad esempio, sono sottodimensioni
del fattore stabilità emotiva, mentre ottimismo e cordialità fanno parte
del fat- tore energia. In teoria, la personalità di ognuno può essere riassunta in una com-
bina- zione dei cinque fattori principali. Un individuo può quindi manifestare un ele-
vato grado di stabilità emotiva ed energia, media amicalità e bassa coscienziosità e apertura menta-
le; un’altra persona può invece avere livelli elevati livelli di amicalità e coscienziosità, stabilità
emotiva ed energia medi e bassa apertura mentale, e così via. Molti sostenitori del modello sosten-
gono che sarebbe meglio descrivere tutte le persone con disturbi di personalità in base all'intensità
dei cinque fattori principali (livello elevato, basso, intermedio) e abbandonare del tutto i criteri at-
tuali del DSM-IV-R con le sue categorie dei disturbi di personalità. In base a questo modello, ad
esempio:

164
Riassunti di Silvia Varro

o Un individuo attualmente definito con disturbo evitante di personalità verrebbe descritto con un
elevato grado di stabilità emotiva, grado medio di amicalità e coscienziosità e grado molto basso
di estroversione e apertura all'esperienza;
o Un individuo con diagnosi di disturbo narcisistico di personalità potrebbe essere definita con un
grado molto elevato di stabilità emotiva ed energia, grado medio di coscienziosità e apertura
mentale e grado molto basso di amicalità.
Non tutti però ritengono che il modello dei big five sia l'approccio dimensione più utile e centrato.
Per alcuni gli aggettivi che descrivono i tratti di personalità nel modello dei cinque fattori sono
troppo pochi, altri sostengono che le valutazioni implicate da uno scarno elenco di aggettivi non
siano in grado di definire la complessità dei problemi degli individui con disturbi della personalità.
Sono stati quindi proposti altri modelli dimensionali in alternativa. Uno di questi identifica 12 fat-
tori principali anziché 5, i quali sono costituiti in totale da 200 affermazioni descrittive del tipo:
“Il soggetto suscita simpatia negli altri”, “Tende a farsi coinvolgere in lotte di potere”, o “Le emo-
zioni del soggetto tendono a cambiare in modo repentino ed eccessivo”. In base a questo modello è
possibile descrivere il disturbo di personalità di un individuo valutando ciascuna delle 200 afferma-
zioni su una scala da 0 a 7. Secondo i ricercatori, le descrizioni che ne risultano rilevano la com-
plessità del disfunzionamento della personalità, e, allo stesso tempo, forniscono punteggi numerici
che potrebbero essere utilizzati per studiare ulteriormente questo tipo di disturbi.

La task force del DSM-5, in risposta alle critiche e ai problemi sopramenzionati, ha proposto un
quadro ibrido per diagnosticare questi disturbi. Nel quadro sono conservate molte delle categorie
dei disturbi di personalità ma, al contempo, si impone ai clinici di valutare la gravità dei disturbi.
La task force ha proposto di conservare sei delle categorie dei disturbi di personalità: schizotipico,
antisociale, borderline, narcisistico, evitante e ossessivo-compulsivo, e eliminare il disturbo para-
noide, schizoide, istrionico e dipendente perché le loro caratteristiche si sovrappongono alle caratte-
ristiche di una o più categorie conservate. A un soggetto il cui modello di sintomi rientra in una del-
le sei categorie deve essere diagnosticato il disturbo di personalità (per esempio, disturbo borderline
di personalità). I clinici, però, devono valutare il funzionamento personale (quanto risultano com-
promessi il senso di identità e l’autodeterminazione dell’individuo?) e il funzionamento interper-
sonale (quanto risulta compromessa la sua capacità di empatia e intimità?). L'inclusione di questa
valutazione dovrebbe consentire di distinguere i casi di disturbo di personalità che comportano una
maggior menomazione da quelli in cui la menomazione è minore. Se gli individui non rientrano in
una delle sei categorie può essere diagnosticato loro il disturbo di personalità tratto specifico
(PDTS). Nell’emettere la diagnosi, i clinici identificano ed elencano i tratti problematici e giudica-
no la gravità della menomazione per il funzionamento personale interpersonale. Circa 30 tratti pos-
sono essere presi in considerazione per emettere una diagnosi di PDTS, ad esempio l’invadenza, la
disonestà, la grandiosità, la ricerca di attenzione, l’insensibilità e l’ostilità.
Caso citato dalla task force del DSM-5
Il paziente, un maschio adulto di vent’anni con una storia di abuso di sostanze e molti compor-
tamenti criminali mostra comportamenti insoliti e strani, come far finta di poter controllare gli
altri con la mente, una propensione al sospetto e a evitare le interazioni sociali, ed esplode in at-
tacchi di collera quando viene provocato. Secondo la proposta del DSM-5, questa persona soddi-
sfa i criteri per il disturbo di personalità tratto specifico. In questo caso, gli aspetti problematici
della personalità (impulsività, convinzioni ed esperienze insolite, diffidenza, tendenza a evitare
gli altri, ostilità) sarebbero ulteriormente specificati dal clinico.
La proposta del DSM-5 relativa i disturbi di personalità ha determinato una confusione nella comu-
nità clinica. Coloro che erano favorevoli al sistema di classificazione dimensionale si rifiutano di
conservare tante categorie del DSM-IV-TR, altri ritengono che i cambiamenti proposti concedano
troppa libertà d'azione e siano poco strutturati permettendo così ai clinici di diagnosticare il disturbo
di personalità a una serie enorme di modelli di personalità.

165
Riassunti di Silvia Varro

Capitolo 1

Una delle peculiarità della psicologia, rispetto alle altre discipline scientifiche, è la mancanza di un
nucleo fondamentale di principi unanimemente condivisi dagli addetti ai lavori e di conseguenza un
diverso modo di definire l’oggetto di studio, i meccanismi del funzionamento psichico e i criteri
metodologici utilizzabili nella ricerca e nelle applicazioni. Ci sono diverse tradizioni di ricerca che
focalizzano l'attenzione su diversi aspetti del funzionamento psicologico. Tutto ciò si deve alla
complessità dell'oggetto di studio.
Ogni teoria ha sviluppato un proprio lessico, nessuna ha "vinto" sulle altre (vale anche per la psico-
terapia); nelle diverse parti del mondo ha preso diverse inclinazioni culturali e sociali – psicanalisi
nella cultura europea, cognitiva e comportamentista in quella anglosassone. L'attuale varietà dei
modelli d'intervento psicoterapeutici comporta una difficoltà nel trovare una definizione comune di
psicoterapia. Nonostante le differenze epistemologiche, tutti gli approcci posseggono quattro carat-
teristiche fondamentali (Frank):
1. Una relazione interpersonale del tutto particolare fra paziente e terapeuta che comporta
un’alleanza a esclusivo beneficio del paziente;
2. Un luogo specifico – il setting – all’interno del quale si svolge questa relazione, luogo sicuro
nel quale tutto ciò che avviene è confidenziale e distinto dal resto delle normali attività e rela-
zioni interpersonali;
3. L’offerta, da parte del terapeuta, di nuove prospettive, nuovi modi di vedere o fare le cose diver-
si da quelli abituali e in grado di dare un senso a sensazioni confuse e indefinite;
4. Un insieme di procedure o tecniche che specificano il modo di operare del terapeuta.
La psicoterapia è una modalità d'intervento che utilizza mezzi psicologici che differiscono tra loro
in base all'inquadramento teorico di riferimento, è finalizzata ad aiutare le persone per la soluzione
di problemi emotivi, affettivi, familiari e sociali di vario genere, mira al miglioramento della qualità
della vita. Inoltre, qualcosa nella vita del paziente lo limita e gli impedisce di vivere nel pieno delle
sue capacità.
Allo stesso tempo però ogni approccio terapeutico differisce sensibilmente dagli altri sotto molti
punti di vista. Troviamo diverse modalità di:
• Definire gli obiettivi dell’intervento: riduzione dei sintomi mediante una modifica dei compor-
tamenti e/o processi di pensiero e/o emozioni considerati “disadattivi” o “disfunzionali”, inte-
grazione di parti scisse del Sé, comprensione intellettuale e superamento delle resistenze per
rendere conscio l’inconscio, esperienze emozionali correttive, comprensione e accettazione dei
propri limiti personali che permetta l’acquisizione di maggiore congruenza e padronanza del sé,
riattivazione del “movimento” del sistema-persona che consenta un diverso stato di equilibrio
rispetto alla propria struttura identitaria, superamento di blocchi evolutivi che ostacolano la pos-
sibilità di differenziare il proprio Sé dalla famiglia di origine ecc.;
• Articolare il setting con il coinvolgimento di una persona (terapie individuali) o più persone
(terapie familiari e di gruppo) con una diversa durata (dai 45 minuti alle 2 ore) e frequenza degli
incontri (dalle 3-4 sedute settimanali a frequenza quindicinale o mensile);
• Impostare il contratto terapeutico con una diversa gestione delle assenze, l’uso o meno di
strumenti audio o video di registrazione, durate previste del trattamento (dalle 15-20 sedute per
le terapie cosiddette brevi che si propongono cambiamenti più “periferici”, ad alcuni anni per le
terapie che si propongono cambiamenti più strutturali o nucleari);
• Effettuare la valutazione clinica delle problematiche presentate dal paziente, in relazione a
una diversa concettualizzazione del disagio psicologico e dei relativi criteri diagnostici: maggio-
re/minore utilizzazione delle categorie nosografiche, diagnosi esplicative, uso prevalente di mo-
dalità legate alla “comprensione” dell'altro e della sua modalità di essere-nel-mondo ecc.;

166
Riassunti di Silvia Varro

• Attribuire alla relazione terapeutica un ruolo più o meno centrale ai fini del cambiamento,
sottolineando primariamente la funzione pedagogica, strategica, di incontro tra persone e inter-
pretandola come una relazione “reale” o piuttosto attraverso i concetti di transfert e controtrans-
fert;
• Utilizzare tecniche e procedure per la conduzione del trattamento basate prevalentemente su:
interpretazione, prescrizioni, persuasione, richiesta di mettere in atto determinati comportamenti
in seduta e/o mediante home-work, ascolto e comprensione, manovre relazionali, empatia ecc.
Un altro problema da analizzare nell'ambito psicoterapeutico, più che nelle altre professioni, è il
problema della coerenza tra il pensare e l'agire: “il terapeuta del lavoro di solito non è un teorico
troppo convinto. Nella sua pratica quotidiana egli tiene assai meno in conto la propria scienza di
quanto non faccia ad esempio il medico internista”. L'esperienza della psicoterapia è qualcosa di di-
verso dalla teoria della psicoterapia; quando riflettiamo sulla terapia, riflettiamo su un qualcosa in
parte differente dalla situazione in cui ci troviamo mentre lavoriamo. Questo contrasto costituisce
contemporaneamente sia una difficoltà, per il rischio di scollamento sempre presente tra teoria e
pratica, sia un'opportunità. Quando l'agire di un buon terapeuta si discosta dalla sua teoria, ciò av-
viene presumibilmente poiché egli si trova ad affrontare problemi che non sono stati ben definiti
dalla teoria stessa e una riflessione sul proprio agire può portare, in questi casi, ad uno sviluppo e
una revisione critica di essa. Questo tipo di riflessione può condurre nel tempo ad un graduale pro-
cesso d'integrazione fra i modelli differenti: gli sviluppi verificatisi all’interno di tutti gli indirizzi
esistenti hanno portato infatti a un lento e graduale processo di relativo avvicinamento reciproco, a
scambi e confronti prima inimmaginabili e a una sostanziale legittimazione reciproca, pur nelle re-
stanti diversità.

In Italia, la legge 56/1989 stabilisce che per fare lo psicoterapeuta è necessaria una specializzazione
almeno quadriennale (dopo la laurea in Psicologia o in Medicina e Chirurgia) presso una Scuola
pubblica o privata che abiliti a tale professione. Gli interventi psicologico-clinici, nell’ambito delle
attività di “aiuto alla persona”, non sono però limitati esclusivamente alla psicoterapia ed è oppor-
tuno distinguere le differenze fra psicoterapia, counseling psicologico e sostegno psicologico (attivi-
tà, queste due, riservate esclusivamente agli psicologi) e aver ben presente che una richiesta di aiuto
non implica necessariamente e automaticamente un invio in psicoterapia.
È quindi opportuno operare una differenziazione tra:
(1) Intervento di sostegno psicologico: è rivolto al miglioramento del benessere globale della per-
sona che viene aiutata a fronteggiare una situazione problematica, presente nel qui ed ora e in
qualche modo inevitabile, come una fase particolarmente difficile della propria vita caratterizzata da
eventi più o meno penosi o catastrofici, da passaggi esistenziali, da un momento temporaneo di crisi
(come una malattia cronica o terminale propria o di persone affettivamente vicine) ecc. è quindi ba-
sato sull'ascolto e sul supporto emotivo, ed è finalizzato ad accompagnare la persona in un momen-
to difficile, ad accogliere i bisogni emergenti nelle diverse fasi della situazione critica, a mobilitare
le risorse per il raggiungimento di obiettivo concreti, a stimolare la capacità di programmare e ope-
rare scelte, nonché a fornire suggerimenti utili alla gestione della vita quotidiana.
(2) Counseling psicologico: è un processo relazionale caratterizzato da una maggiore direttività e
attività dello psicologo nei confronti del cliente: non si concretizza solo in un “essere con”, quanto,
piuttosto, in un "fare con". Si presenta come intervento di elezione quando il problema psicologico
non necessita di un intervento “pervasivo” come quello della psicoterapia: è
quindi finalizzato ad aiutare la persona a risolvere un problema o a prendere
una decisione mediante la riorganizzazione delle proprie risorse personali,
per rendere possibili scelte e cambiamenti percepiti individualmente come dif-
ficili, in quel momento. Il problema presentato dovrebbe essere ben definibile
e circoscrivibile. Il ruolo del counselor è quello di guidare attivamente il

167
Riassunti di Silvia Varro

cliente, mantenendo il focus strettamente sul problema, di stimolarlo nell’esplorazione di tutte le


possibili alternative di risoluzione – validando le risorse già presenti nel cliente e utilizzandole ai
fini del cambiamento. Si presenta come un intervento di breve durata (tendenzialmente non più di
10-12 sedute), in un tempo prestabilito fin dall’inizio.
Rispetto alla psicoterapia, è essenziale tener conto anche del fatto che un processo di cambiamento
che implichi dimensioni strutturali della persona richiede necessariamente che il paziente presenti
una motivazione intrinseca al cambiamento, ovvero che percepisca gli aspetti del sé rispetto ai quali
richiede tale cambiamento come “portatori di sofferenza” e che sia disponibile a mettersi in gioco
all’interno di un percorso che può comportare anche momenti emotivamente difficili da affrontare.

In termini generali la relazione può essere descritta come


“probabilmente dissimile da ogni altra di cui si sia fatto esperienza; una curiosa combinazione
di intensità emozionale e distacco, di coinvolgimento intimo e distanza oggettiva che permette
di condividere e confrontare i propri problemi personali, la propria vulnerabilità, le proprie
fantasie più oscure e le proprie paure più profonde con un’altra persona addestrata ad aiutare
senza giudicare, il cui esclusivo interesse è rappresentato dai tuoi bisogni e dal tuo beneficio”
(Engler, Goleman, 1992)

La relazione terapeutica, nonostante sia utilizzata in modo differente in base a ciascun approccio,
rappresenta l’elemento sul quale si registra il maggior accordo rispetto alla sua rilevanza nel proces-
so terapeutico. Gli aspetti fondamentali che rendono possibile la sua efficacia sono la fiducia e lo
stabilizzarsi di un'alleanza cooperativa. La relazione psicoterapeutica è profondamente diversa da
quella medica; nessuno psicoterapia è in grado indurre autonomamente e automaticamente dei cam-
biamenti, come tendenzialmente può fare un medico, mediante un farmaco, con un organismo bio-
logico. Non può quindi offrire una cura immediata al paziente, ma solo offrire gli strumenti attra-
verso i quali il soggetto potrà riuscire a trovare la propria strada verso il cambiamento.
È importante che le regole del setting abbiano una chiara definizione fin dall’inizio, in modo da
precisare i ruoli che ciascuno deve giocare all’interno della relazione e garantire il paziente rispetto
a:
- dimensioni fondamentali di riservatezza
- assenza di giudizio
- disponibilità del terapeuta
- assenza di un suo interesse personale
- interferenza dei suoi principi, valori e visione del mondo nel percorso che si sta intraprendendo

Il problema dell’ortodossia ha diviso e continua a dividere gli psicoterapeuti:


- Alcuni ritengono che ogni approccio faccia esclusivo riferimento ad una cornice teorica definita,
che possa vantare di una lunga storia e un’ampia letteratura a proprio sostegno e che comune-
mente si riconosce in una delle comunità scientifiche e associative consolidate (ortodossia);
- Altri, a partire dalla constatazione che nessuno degli approcci esistenti può considerarsi del tutto
esaustivo e completo, sostengono l’opportunità di utilizzare tecniche provenienti da psicoterapie
diverse in maniera nuova e originale (ecletticismo tecnico)
- Altri, ancora, ritengono sia opportuno oltrepassare i confini dei singoli approcci costruendo, an-
che a livello teorico, una sintesi tra differenti approcci psicoterapeutici (integrazionismo)
La modalità più "morbida" di ortodossia parte dall’assunto che sia necessario offrire una griglia di
riferimento sufficientemente precisa e coerente con i fondamenti teorico-epistemologici di uno spe-
cifico approccio clinico che permetta di assimilarli e guidare l’agire terapeutico coerentemente con

168
Riassunti di Silvia Varro

essi, ritenendo che, solo in un secondo momento quest’ultimo possa essere personalizzato in rela-
zione alle caratteristiche individuali del terapeuta e coniugato con i bisogni che ogni relazione tera-
peutica determina. D'altra parte, tuttavia, il richiamo all'ortodossia ha rappresentato da sempre un
modello rigido e conformista nella sua chiusura intellettuale, demonizzando le spinte innovative
verso possibili sviluppi teorici.
L’ecletticismo tecnico parte, all’opposto, da una posizione ateoretica e sostiene – con un approccio
relativista – l’utilità di servirsi di tecniche provenienti da orientamenti diversi combinandole poi
sulla base della loro efficacia clinica. Le critiche più radicali a questa posizione sostengono che
quest’ultima viene spesso invocata per validare un’assenza di formazione e un pressapochismo me-
todologico. Quindi, secondo un’ottica contestuale “un evento può essere valutato solo in relazione
alla più ampia struttura della teoria o del discorso di cui fa parte.”
La spinta verso l’integrazionismo, viceversa, è sostenuta dalla considerazione che nessuno degli
attuali approcci terapeutici sia in grado di spiegare in modo del tutto esaustivo la complessità del
funzionamento dell'essere umano. In un’ottica pluralista, quindi, nessun approccio psicoterapeutico
può essere considerato in assoluto migliore rispetto a qualsiasi altro.
Per parlare di integrazione è però necessario distinguerne almeno due forme che si pongono obietti-
vi, e seguono criteri, del tutto diversi:
1. Integrazione metateoretica: si propone di superare il relativismo dell'ecletticismo tecnico per
costruire una teoria della psicoterapia di ordine superiore, attraverso la combinazione di diffe-
renti sistemi teoretici. Il problema fondamentale ha a che vedere col fatto che le diverse teorie
partono da visioni della realtà e dell’uomo ampiamente diversificate, e per molti aspetti incom-
patibili fra loro. Bisogna quindi riconcettualizzare e tradurre concetti e assunti di base delle sin-
gole teorie, all’interno di un sistema diverso, distorcendone l’originale significato; singoli aspet-
ti teorici perdono il loro significato quando inseriti all’interno di un contesto diverso.
2. Integrazione assimilativa: condivide sia la prospettiva contestualista che quella pluralista, si
propone di incorporare concetti derivanti da altri approcci all'interno di uno specifico orienta-
mento mantenuto come riferimento base. L’assimilazione integrativa deve garantire, in questo
caso, la compatibilità degli elementi assimilati con i principi e i presupposti della teoria di base.

La FIAP (Federazione Italiana delle Associazioni di Psicoterapia) è nata grazie all'unione di or-
todossia e integrazionismo mediante un processo di allentamento e restringimento ciclico delle teo-
rie esistenti (attuabile solo se si accentano le differenze ma si uniscono i punti in comune).
Quindi il termine ortodossia descrive un tipo di approccio basato sul riferimento rigido ad un unico
quadro epistemologico/teorico di riferimento, diversamente dall’ecletticismo tecnico. Per quanto ri-
guarda l’integrazionismo, invece, oggi, a differenza del passato, è possibile e diffusa l'integrazione
tra modelli differenziali per colmare gli ipotetici vuoti o per adattare meglio un intervento. La FIAP
stessa propone lo scambio di idee ed il pluralismo.

Si possono distinguere diverse tipologie di ricerca i cui obiettivi sono ampiamente diversificati:
1. Un primo filone si è occupato della verifica dell’outcome, ovvero gli esiti della psicoterapia at-
traverso confronti prima-dopo. In questo ambito una distinzione netta può essere fatta fra le ri-
cerche che si propongono di valutare l’efficacia sperimentale della psicoterapia, le quali ven-
gono condotte in un contesto da laboratorio che permetta un controllo di tutte le variabili consi-
derate e la possibilità di giungere a inferenze causali fra tipologie di tecniche e/o interventi e ri-
sultati, e quelle che si propongono una valutazione dell’efficacia clinica (detta anche efficien-
za), le quali sono interessate a ciò che avviene nella pratica clinica reale.
2. Verifica del processo, si propone di rispondere all’interrogativo relativo a ciò che avviene nel
corso di una terapia, attraverso l’analisi di trascritti delle sedute (ad esempio il PQS o AR o l'a-
nalisi del transfert), indipendentemente dal risultato.

169
Riassunti di Silvia Varro

3. Verifica dell'outcome e ricerche del processo (process-outcome research): tale tipo di ricer-
ca tende a coniugare entrambi gli obiettivi precedenti; studia quindi la relazione tra ciò che av-
viene in terapia ed il risultato della stessa.
I primissimi pioneristici tentavi descrittivi di valutare l’efficacia della psicoterapia furono effettuati
da Abraham negli anni venti del Novecento, Glover negli anni trenta e Rogers negli anni quaranta
che per primo utilizzò il registratore e pubblicò i trascritti delle sedute di una breve terapia; ma la
prima ricerca su vasta scala sui risultati della psicoterapia con pazienti nevrotici fu effettuata nel
1952 da Eysenck. Egli sostenne l’inefficacia della psicoterapia poiché trovò che, nell’arco di due
anni, il miglioramento ottenuto con trattamenti di diverso tipo corrispondeva al tasso di remissioni
spontanee (circa i due terzi del campione) in gruppi di controllo non trattati. Numerosi studi suc-
cessivi hanno però evidenziato una serie di errori metodologici e interpretativi della ricerca di Ey-
senck.
Così, nel corso degli anni cinquanta, ebbe inizio la prima fase della ricerca sull’efficacia speri-
mentale della psicoterapia, i cui obiettivi erano quelli di dimostrare che la psicoterapia nel suo
complesso funziona, confrontando i cambiamenti ottenuti da gruppi di soggetti che ricevevano un
trattamento psicoterapeutico con gruppi di controllo lasciati in lista di attesa o trattati con interventi
placebo47 o con farmaci.
Per identificare le relazioni causali tra variabili indipendenti (trattamento) e dipendenti (risultato), i
ricercatori definiscono i fattori terapeutici (variabile indipendente), stabiliscono le condizioni nelle
quali agire, i parametri rispetto ai quali i risultati e i criteri misurabili attraverso essi. Questa meto-
dologia richiede una operalizzazione di tutte le procedure e a tale scopo, alla fine degli anni sessan-
ta, furono messi a punto i manuali psicoterapia, guide pratiche che definiscono una chiara defini-
zione dei principi di alcuni specifici tipi di psicoterapia, con esempi concreti di ogni principio e del-
le modalità di utilizzazione delle diverse tecniche, scale per valutare la coerenza tra quanto è previ-
sto dal manuale e ciò che viene fatto, e precisi criteri per misurare i cambiamenti.
La metodologia considerata ottimale (gold standard) in questo ambito è quella dei Trial Clinici
Controllati e Randomizzati (RCT) che viene tipicamente utilizzata nell’ambito della ricerca me-
dico-farmacologica. I criteri principali che vengono seguiti in questo caso prevedono che:
- I pazienti siano monosintomatici (presentano un solo disturbo di Asse I del DSM) e vengano
attribuiti casualmente al gruppo di trattamento o al gruppo di controllo;
- I terapeuti si attengano fedelmente ad un manuale di psicoterapia;
- I trattamenti siano standardizzati e di breve durata (usualmente intorno alle 10-15 sedute);
- I risultati del trattamento vengano valutati con strumenti psicometrici e misure comportamen-
tali (solitamente l’attenzione è centrata sul sintomo);
- Coloro che valutano i risultati del trattamento siano all’oscuro del tipo di trattamento ricevuto
dai pazienti.
Per verificare i risultati cumulativi di un insieme di ricerche sull’outcome venne inizialmente utiliz-
zato il metodo box scores che consisteva nel contare quali ricerche avevano dato esiti positivi, neu-
tri o negativi. In questo modo, nella seconda metà degli anni settanta i ricercatori giunsero a due
conclusioni:
1. La psicoterapia produce effetti migliori rispetto alle altre condizioni considerate anche se le dif-
ferenze riscontrate non sembravano particolarmente significative;
2. Nessuna delle psicoterapie considerate risultava avere efficacia diversa rispetto alle altre; venne
così definito il “paradosso dell’equivalenza” e Luborsky e Singer proclamarono il cosiddetto

47
Cosa può essere considerato placebo in psicoterapia? Il placebo in realtà è in sé stesso un agente psicologico e quindi
si può dire che sia in senso lato una forma di “psicoterapia”. La complessa situazione emotiva che si crea
nell’interazione tra due persone, anche nel caso si tratti solo della somministrazione di un test (aspettativa di guarigione,
interessamento delle problematiche del paziente ecc.) può già di per sé stessa modificare lo stato psicologico di un pa-
ziente in modo tale da influire, nel breve periodo, sulle scale di valutazione.

170
Riassunti di Silvia Varro

“verdetto di Dodo” (l’uccello di Alice nel paese delle meraviglie): “Tutti hanno vinto e ognuno
deve ricevere un premio.”
Risultati decisamente più significativi emersero dagli anni ottanta quando venne adottata una nuova
metodologia statistica – la meta-analisi – attraverso la quale il risultato cumulativo viene valutato
utilizzando un indice di misura comune chiamato effect size; l’effetto del trattamento viene espres-
so in questo caso in termini di deviazione standard rendendolo così indipendente dalla dimensione
del campione considerato. I risultati delle meta-analisi, effettuate su molte centinaia di ricerche,
condotte da ricercatori diversi e con criteri parzialmente diversi, confermano l’efficacia delle psico-
terapie che in generale risultava superiore a quella dei gruppi di controllo, gruppi sottoposti a place-
bo e ai trattamenti farmacologici, con percentuali varianti fra il 60% e l’80%.
Su questa base sono stati compilati gli elenchi di una serie di terapie di “provata efficacia” (evi-
dence-based) o “trattamenti supportati dall’evidenza scientifica” (EST-Empirically Supported
Treatment) che, secondo i sostenitori di questo approccio, sarebbero le uniche che funzionano (e
quindi le sole ad avere il diritto di essere praticate). Tuttavia, esami retrospettivi evidenziano che “la
maggioranza dei pazienti sottoposti a trattamento, qualunque sia il loro disturbo, non guarisce com-
pletamente. Pur mostrando un’effettiva riduzione della sintomatologia i pazienti rimangono sinto-
matici, finiscono col chiedere una nuova terapia, oppure a un certo punto, a uno o due anni di di-
stanza, hanno una recidiva”.
Altri limiti delle ricerche sull’efficacia sperimentale vengono evidenziati dagli stessi e da altri ri-
cercatori. Tra questi:
• I risultati RCT non sono generalizzabili nella misura in cui la maggior parte dei pazienti che si
propongono per questi studi (dal 40% al 70%) viene esclusa poiché non rientra nei criteri restrit-
tivi di selezione adottati.
• Definire il cambiamento soltanto in termini somatici costituisce una scelta che mette fuori gioco
quelle terapie che si propongono cambiamenti strutturali o di personalità. Le liste EST sono po-
co utili per quegli psicoterapeuti i cui pazienti e i cui concetti teorici non cadono entro categorie
di disturbi discreti; non tutte le psicoterapie né tutti gli psicoterapeuti utilizzano un modello
orientato all’azione e focalizzato sul sintomo.
• I pazienti trattati nella pratica clinica ordinaria sono più comunemente polisintomatici, richie-
dono terapie più lunghe e con esiti, a priori, più incerti.
• I manuali di psicoterapia funzionano più come camicie di forza che come insiemi di linee gui-
da, portano a una diminuzione dell’efficacia dei trattamenti e a un ulteriore scollamento fra ciò
che avviene nella normale pratica clinica e nella ricerca di laboratorio.
• Alcuni studi evidenziano una correlazione positiva tra risultati e durata della terapia: più lunga è
la terapia, maggiori sono i risultati e maggiore è la probabilità che essi si consolidino.
• Sebbene la ricerca sull’efficacia sperimentale della psicoterapia sia riuscita a confermare che
questa nel complesso funziona, tali studi, proprio perché ben controllati, analizzano situazioni
così distanti da ciò che avviene nel mondo reale della psicoterapia da essere privi di validità
ecologica (i risultati sono difficilmente generalizzabili)
• Raramente gli psicoterapeuti utilizzano trattamenti o tecniche in forma pura, attenendosi stret-
tamente ai manuali, piuttosto adattano le tecniche e l’ordine della loro applicazione alle caratte-
ristiche del paziente e alle sue reazioni alla psicoterapia.
• Le psicoterapie non prevedono un numero fisso e predeterminato di sedute e sono finalizzate
non solo alla soluzione di problemi focali, bensì a un miglioramento delle capacità generali di
funzionamento del paziente e a un incremento della qualità della sua vita.
• Talvolta i pazienti scelgono il proprio terapeuta in modo casuale, ma più spesso i pazienti ven-
gono indirizzati da un altro professionista ad un certo tipo di psicoterapia oppure scelgono il ti-
po di terapia alla quale rivolgersi percependola come più congruente al proprio modo di essere e
ai propri problemi.

171
Riassunti di Silvia Varro

• Gli studi sull’efficacia sperimentale sono difficilmente applicabili alle terapie lunghe, che dura-
no diversi anni; il loro costo sarebbe enorme e la possibilità di tenere per anni senza trattamento
persone che richiedono psicoterapia sarebbe di dubbia eticità.
• Sebbene si possa condividere la validità e l’utilità degli EST, in nessun caso può essere confusa
l’assenza di ricerche o di dati sull’efficacia di un trattamento con la prova dell’inutilità del trat-
tamento stesso.

Gli studi sull'efficacia clinica (efficiency) invece sono costruiti per verificare che cosa avviene
realmente nella pratica clinica. Sono studi naturalistici rispetto a pazienti che sono liberi di sce-
gliere il trattamento che preferiscono, pazienti che si sottopongono alla psicoterapia per i loro pro-
blemi, che cercano attivamente di fare qualcosa per risolverli e che credono quindi alla possibile uti-
lità di un trattamento psicologico per affrontare i loro disturbi. Le psicoterapie non hanno una durata
o un termine prefissato, i terapeuti vengono identificati dal loro approccio di appartenenza e sono
liberi di condurre il trattamento modificandolo in corso d’opera in funzione delle reazioni del pa-
ziente. Essendo relativamente meno costosi, questi studi possono prendere in esame campioni di
dimensioni molto più ampie.
Per definire i criteri di valutazione ci serviremo di Strupp e Hadley (1977), i quali sostengono che,
per tentare di superare gli innumerevoli problemi connessi alle definizioni non univoche di psicote-
rapia e di salute mentale, dovrebbero essere prese in considerazione prospettive multiple:
1. Prospettiva della società (incluse le persone importanti nella vita del paziente): definisce la sa-
lute mentale in termini di stabilità, prevedibilità e conformità alle norme;
2. Prospettiva del professionista: definisce la salute mentale in base al proprio modello teorico
del funzionamento mentale;
3. Prospettiva del paziente: considera il proprio benessere da un punto di vista soggettivo. Tale
prospettiva dovrebbe essere specificata distinguendo la soddisfazione personale per i cambia-
menti ottenuti, i miglioramenti specifici rispetto ai problemi portati in terapia, gli effetti di que-
sti miglioramenti sulla propria vita lavorativa, affettiva, interpersonale ecc.
Critiche agli studi sull’efficacia clinica:
- Mancanza di rigore metodologico.
- Gli studi naturalistici non permettono di effettuare inferenze su relazioni causali tra psicoterapia
ed effetti; i miglioramenti potrebbero essere avvenuti a prescindere dal fatto di aver ricevuto o
meno il trattamento.
- Mancanza di veri e propri gruppi di controllo; ciò non consente di discriminare gli effetti della
terapia dalle remissioni spontanee in particolare per le terapie di lunga durata.
- Risultati di difficile interpretazione in quanto basati su sistemi metrici privi di un significato
inerente.
- Difficoltà di stabilire l'accuratezza di valutazioni soggettive e retrospettive che potrebbero
amplificare i reali effetti del trattamento.
- Talvolta i pazienti possono non essere in grado di riferire con esattezza l’orientamento teorico
del loro psicoterapeuta e ciò rende impossibile trarre conclusioni valide relativamente alla re-
lazione fra il tipo di trattamento e le altre variabili considerate.
Comunque, per ciascuna di queste critiche esiste una risposta che rimette la partita in gioco. Ad
esempio che, nonostante l’esperimento sia il metodo per eccellenza che permette di verificare ipote-
si relative ai rapporti di causa-effetto tra le variabili considerate, anche le ricerche naturalistiche
possono essere condotte con criteri metodologici più stringenti e portare ad inferenze di questo tipo
mediante il ricorso a modelli causali che misurino specifiche cause alternative giungendo a scartar-
le. Non è poi detto che gli studi sull’efficacia clinica ricorrano solo a valutazioni retrospettive, ma è
anche possibile organizzarli secondo una metodologia longitudinale che analizzi un campione di
persone subito prima dell’inizio della terapia, durante il corso della stessa, al suo termine e mesi do-
po, talvolta anni, dalla conclusine con verifiche di follow-up.

172
Riassunti di Silvia Varro

Inoltre, alcuni autori, come Sandell, si pongono anche un altro tipo di problema: “il cambiamento è
una dimensione misurabile solo quantitativamente, o piuttosto, quando si parla di cambiamenti
strutturali e di personalità, ciò che conta maggiormente è la qualità di ciò che si è modificato? E ri-
spetto a quest’ultimo criterio, perché non dovrebbe essere tenuto in considerazione, in primo luogo,
un parametro soggettivo come “l’esperienza di essere cambiati”? Ci si può sentire più o meno di-
versi rispetto a prima, ad esempio quando ci si rende conto che il proprio modo di fare o di provare
qualcosa è diverso da prima o proviamo una sorta di estraneità nei confronti della persona che era-
vamo; il cambiamento, in questo caso, consiste nell’essere giunti ad avere un’immagine di sé nuova
rispetto a prima.” Per questo, sostiene Sandell, il cambiamento non può essere valutato soltanto at-
traverso un confronto prima-dopo, poiché vi sono aspetti che prima non c’erano e che sono emersi
grazie alla psicoterapia: soltanto i metodi retrospettivi possono individuare nuove dimensioni pre-
cedentemente non presenti. Si può concludere che entrambi i metodi hanno punti di forza e di debo-
lezza complementari. La complessità del campo rende d’altra parte insolubile il problema di una ri-
cerca perfetta dal punto di vista metodologico e contemporaneamente di piena validità ecologica.
Per quanto riguarda l'analisi del processo e dei risultati è più attendibile quella naturalistica (clini-
ca), tuttavia ci sono palesi limiti metodologici che impediscono la generalizzazione dei risultati.

Le metodologie di analisi delle trascrizioni di sedute di psicoterapie indagano variabili diverse re-
lative al paziente, al terapeuta e alla relazione tra essi o al processo generale. Tra le più note:
- PSQ (Psychoterapy Process Q-short) di Jones: utilizzato per valutare intere sedute di psicotera-
pia, prendendo in considerazione il paziente, il terapeuta e le loro interazioni.
- CCRT (Core Conflictual Relationship Theme) di Luborsky e Crits-Christoph: finalizzato a mo-
nitorare l'andamento del transfert nel corso di una seduta o di un'intera psicoterapia. La valuta-
zione deve identificare i cosiddetti episodi relazionali48, oltre che, al loro interno, il cosiddetto
nucleo relazionale conflittuale centrale, ovvero il pattern relazionale, tendenzialmente ripeti-
tivo, che il paziente adotta in tutte le sue interazioni con il Sé e con le altre persone.
- AR (Referential activity) di Bucci e Miller: valuta l'attività referenziale, ovvero il grado in cui
il linguaggio del parlante si collega alla sua esperienza non verbale permettendogli di esprimere
e condividere con l’ascoltatore tale esperienza attraverso simboli linguistici.
Infine, le ricerche processo-esito si propongono di studiare la relazione tra ciò che accade in terapia
e il risultato della stessa. Grazie ad analisi di tipo longitudinale è possibile osservare l’andamento
nel tempo di cambiamenti che possono riguardare, ad esempio, il modo in cui la persona si pone in
relazione a sé e agli altri, le variazioni nelle sue capacità metacognitive, se e come sia stata acquisita
una maggiore capacità di integrare le esperienze emotivo-affettive con quelle dichiarative, corporee
ecc. L’efficacia del trattamento viene così valutata riferendosi non solo agli aspetti sintomatici ma
anche alle dimensioni psicologiche considerate essenziali per un maggior benessere individuale.

La psicoterapia non è per tutti e non può fare tutto; esistono limiti che attengono alle caratteristiche
personali dei pazienti, limiti relativi al tipo di problema presentato, al tipo di orientamento teorico,
limiti di compatibilità fra le caratteristiche personali di ciascun paziente e di ciascun terapeuta, limi-
ti relativi agli obiettivi che ci si possono porre.
Un aspetto rilevante, ma non spesso considerato dalla letteratura sul tema, è quello di potenziali ri-
schi iatrogeni della psicoterapia. Con questo termine ci si riferisce alla possibilità che gli effetti
della terapia siano dannosi anziché benefici ovvero che il trattamento si concluda con un peggiora-
mento delle condizioni del paziente, rapportabile in qualche modo alla cura stessa.
Il tema dei rischi implicati nel processo della psicoterapia viene spesso trattato nei testi di psicote-
rapia in quanto risulta più gratificante per gli psicoterapeuti riportare i propri successi piuttosto che i

48
Momenti distinti della narrazione in cui il paziente interagisce con altre persone o con il Sé e nei quali sono espressi i
suoi bisogni-intenzioni-desideri, le risposte affettive o attese degli altri e la risposta del Sé

173
Riassunti di Silvia Varro

propri fallimenti; inoltre, interrogarsi su questi ultimi può implicare la necessità di prendere in con-
siderazione eventuali errori nella conduzione del trattamento e mettere in discussione alcuni aspetti
del proprio modello teorico e/o metodologico di riferimento.

Di fronte ad un esito infausto della cura i tipi di spiegazione che i terapeuti hanno dato ruotano in-
torno a due cardini:
1. Quello più rassicurante tende ad attribuire la responsabilità al paziente con i concetti di “resi-
stenza al cambiamento”, “gravità diagnostica”, “incurabilità”;
2. L’altro consiste nel considerare responsabili del fallimento gli errori del terapeuta.
Bergin e Lambin stimano che il 5,10% dei pazienti peggiori durante la terapia in quanto ci sono
pazienti che peggiorerebbero con qualunque terapeuta e terapeuti disturbati che non riescono ad evi-
tare che i loro problemi interferiscano con il processo clinico.
I possibili errori del terapeuta sono stati classificati in vario modo e da diversi autori come:
• Eccessivo attivismo del terapeuta nella relazione o una sua eccessiva passività;
• Cattiva valutazione dell’opportunità di far intraprendere una psicoterapia a determinati pazienti;
• Sottovalutazione del rischio di scompenso psicotico particolarmente con pazienti borderline;
• Caratteristiche del terapeuta come un eccessivo narcisismo;
• Superficiale considerazione della necessità di voler mantenere il setting nei propri limiti.
Fruggeri, dopo aver analizzato tutti questi possibili errori, ipotizza che la possibilità dei fallimenti,
cui anche “bravi” terapeuti possono andare incontro, sia relazionale, ovvero il prodotto di una catti-
va interazione tra riferimento epistemologici di significato del terapeuta, del paziente e del contesto
socio-familiare più allargato. In questo caso non si dovrebbe parlare di un vero e proprio errore del
terapeuta, quanto di una sua responsabilità nella mancata lettura di ciò che sta avvenendo.
Fruggeri afferma che mentre il paziente è responsabile del proprio punti di vista e delle proprie
azioni, attraverso cui partecipa alla costruzione del processo terapeutico, il terapista è anche respon-
sabile del processo interattivo che emerge dal coordinamento del proprio e dell’altrui punto di vista,
delle proprie e delle altrui azioni.
Similmente Bianciardi e Telfner sostengono che i successi e i fallimenti della psicoterapia non so-
no da ascrivere in modo unilaterale al paziente o al terapeuta, ma si generano nella storia della loro
relazione e da un felice o infelice coordinamento fra le premesse implicite del paziente e le teorie
del terapeuta. Dal punto di vista teorico affermano che due sono i rischi iatrogeni principali:
1. La sua cecità rispetto a ciò che il paziente porta in terapia o a quanto avviene nella relazione. Il
problema consiste non tanto nel fatto che il terapeuta ignori, non sappia, una serie di cose relati-
ve al paziente (fatto inevitabile), ma che “non sappia di non sapere”, ovvero che ignori le ca-
ratteristiche di riduttività e parzialità delle proprie modalità conoscitive.
2. La confusione che il terapeuta può fare tra la realtà oggettiva delle cose e le proprie teorie inter-
pretative della realtà. In questo caso il problema consiste nell’utilizzare i concetti teorici del
proprio modello come se questi fossero dati di realtà e non modi di interpretare la realtà.
Ogni lettura ed ogni intervento potranno rivelarsi dannosi piuttosto che utili se li crediamo veri
o giusto e quindi se ci affidiamo ad essi piuttosto che alla pratica della relazione che costante-
mente li rimetterà in discussione.
È solo attraverso un'adeguata gestione del processo formativo che i rischi iatrogeni possono essere
minimizzati: una formazione, cioè, che non sia soltanto in grado di fornire una buona preparazione
teorica, personale e tecnica, ma che risulti anche capace di trasmettere il messaggio della relatività
dei propri punti di vista e che quindi crei terapeuti aperti a considerare (non necessariamente con-
dividere) prospettive epistemologiche diverse e disponibili a sintonizzarsi su una propria continua
autoverifica, in base alla consapevolezza dei limiti del proprio sapere.

174
Riassunti di Silvia Varro

Capitolo 2

Per “terapie psicodinamiche” (o “psicoterapie psicoanalitiche”, o “a orientamento psicoanaliti-


co” ecc.) in genere si intende una serie di tecniche terapeutiche derivate dalla psicoanalisi fondata
da Sigmund Freud (1856-1939) più di un secolo fa. Si tratta ormai di un insieme variegato di pra-
tiche e di teorie perché il movimento psicoanalitico si è frammentato in molte scuole, al punto che
la psicoanalisi oggi non esiste più, esistono molte psicoanalisi. Inoltre, dato che la psicoanalisi è il
primo importante movimento psicoterapeutico (se si escluse l’ipnosi, che l’ha preceduto e da cui la
psicoanalisi ha preso le mosse), i movimenti che sono sorti dopo (come quello cognitivo-
comportamentale, quello umanistico ecc.) a volte ne hanno assimilato alcuni aspetti, anche miglio-
randoli o aggiornandoli, per cui dietro a linguaggi diversi possono esistere aree di somiglianza e in
certi casi anche di equivalenza concettuale. Questa “fertilizzazione trasversale” tra i diversi ap-
procci non può che giovare allo sviluppo della psicoterapia nel suo complesso, e rimangono co-
munque delle differenze importanti che emergono con chiarezza soprattutto se si osserva lo svilup-
po storico di un approccio, le ragioni della sua nascita e così via.
Data l’esistenza di orientamenti diversi nel panorama psicoanalitico, oggi non vi è quindi un unico
“modello di uomo”, bensì concezioni dell’uomo e del funzionamento della mente più o meno diffe-
renziate. Il modello di uomo di Freud, neurologo il quale aderiva pienamente allo Zeitgeist (lo “spi-
rito del tempo”) positivista della sua epoca, si basava in origine su una visione materialista, in cui
la biologia, cioè la natura umana (oggi potremmo dire le neuroscienze), doveva costituire il fonda-
mento dell’indagine scientifica. Il suo interesse poi all’inizio era meramente pratico, quello appunto
di un medico cui interessava curare i disturbi dei suoi pazienti.

Freud inizialmente si era accorto che i disturbi che cercava di curare – allora si trattava di sintomi
isterici, essendo l’isteria la malattia mentale a quei tempi più diffusa – scomparivano se la paziente
ricordava un trauma subito nell’infanzia. Questo ricordo avveniva sotto ipnosi (unica psicoterapia
esistente in quegli anni), che Freud
praticava avendola perfezionata nel
PICCOLE CURIOSITÀ SU FREUD suo soggiorno parigino nel 1885
IL COSTO DI UNA SEDUTA PSICANALITICA DI FREUD ERA DI 20 DOLLARI, all’ospedale della Salpetrière diretto
CHE CORRISPONDEREBBERO OGGI A 160 DOLLARI. dal famoso neurologo Jean-Martin-
Charcot. Fu un’osservazione casuale
PER CIRCA QUARANT’ANNI FREUD CURÒ I PAZIENTI PER 10 ORE AL GIOR-
NO E PER CINQUE O SEI GIORNI ALLA SETTIMANA. – il notare che una paziente sotto ip-
nosi raccontasse un abuso infantile e
QUANDO SIGMUND ERA PICCOLO, I GENITORI, PER LA SUA INTELLIGENZA che questo recupero del ricordo
PRECOCE, GLI CONCEDEVANO SPESSO DEI PRIVILEGI RISPETTO AI FRATEL-
portasse a una scomparsa del sintomo
LI: AD ESEMPIO, GLI AVEVANO DATO UNA STANZA PERSONALE, IN CUI
POTEVA STUDIARE SENZA ESSERE DISTURBATO. isterico – che gli fece ipotizzare, con
un procedimento tipicamente indutti-
vo, che:
- Un trauma infantile potesse essere la causa dell’isteria;
- Questa malattia potesse guarire se il trauma, rimosso perché troppo doloroso, tornava alla co-
scienza e veniva reintegrato nella personalità globale.
In un primo momento il bambino è incapace di elaborare l’esperienza e scaricare gli affetti. Dopo la
pubertà ogni associazione con la scena produce un’eccitazione endogena da cui il soggetto si difen-
de con la rimozione. L’ipnosi permetteva la rievocazione della scena e l’abreazione degli affetti
bloccati (catarsi).

175
Riassunti di Silvia Varro

Quindi il modello di uomo che emerge da queste prime ipotesi pre-psicoanalitiche (“pre” perché la
psicoanalisi vera e propria nascerà quando queste idee verranno abbandonate) è rappresentato da un
organismo che reagisce a stimoli esterni, ambientali. Freud, in un certo senso, aderiva ad una teo-
ria comportamentista stimolo-risposta ante literam, in cui l’uomo reagisce passivamente a stimo-
li ambientali.
Questo primo modello, basato su quella che verrà chiamata “teoria del trauma” o “teoria della se-
duzione” entusiasmò molto Freud perché credeva di aver scoperto la causa dell’isteria, confidò così
tale scoperta ad un collega amico caro, Wilhelm Fliess, con il quale condivideva fantasie, speranze
e progetti per mezzo di una fitta corrispondenza. Tuttavia, Freud si accorse presto che la sua ipotesi
era sbagliata e ciò rappresentò per lui una grossa delusione che gli procurò anche vissuti depressivi,
al punto che ebbe il coraggio di rendere pubblico il suo abbandono della teoria della seduzione solo
nel 1905, ben otto anni dopo averlo confessato in una lettera a Fliess.
Come mai Freud arrivò alla conclusione che l’isteria non era causata meramente da un trauma in-
fantile, ad esempio da una seduzione sessuale? Egli scrive: “Voglio subito confidarti il grande se-
greto che ha cominciato lentamente a chiarirsi in me negli ultimi mesi. Non credo più ai miei neuro-
tica.” Il motivo fu che si accorse che non tutte le pazienti avevano realmente subìto un trauma, mol-
te avevano fatto ricorso all’immaginazione, avevano fantasticato, lo avevano forse desiderato. Il
problema teorico sottostante è quello del ruolo della realtà esterna in quanto tale – e non solo del-
le fantasie – nella genesi della psicopatologia; per cui, all’interno del movimento psicoanalitico si
aprirono due strade, due teorie, ciascuna legata a un diverso modello di uomo:
1. Teoria psicoanalitica classica: assegna grande importanza al mondo interno e non solo
all’ambiente;
2. Teorie interpersonali, relazionali, esperienziali: assegnano molta importanza al mondo esterno,
alle esperienze di vita.

La teoria del trauma non rendeva conto della complessità della malattia mentale e del funzionamen-
to psicologico: l’individuo non risponde semplicemente a stimoli esterni, ma agisce attivamente su
di essi, anzi produce stimoli all’interno che interagiscono con quelli ambientali (traumatici o
anche non traumatici). Freud intendeva ricostruire un modello di uomo che includesse tutte le va-
riabili possibili, quelle interne e quelle esterne (modello che potrebbe anche essere chiamato “co-
struttivista” o “sistemico) e in particolare studiare l’importanza delle fantasie, della vita psichica
inconscia in generale e non semplicemente della realtà esterna. È questa enfasi sul mondo intra-
psichico che caratterizza l’identità della psicoanalitica classica, al cui interno un ruolo centrale vie-
ne giocato dal concetto di conflitto: se alberghiamo dentro di noi queste fantasie, alcune delle quali
non accettate da tutta la nostra personalità, dobbiamo difendercene, quindi, siamo in conflitto con
noi stessi, e non semplicemente con la realtà esterna quando è traumatica o frustrante.
Il conflitto è dunque, secondo un punto di vista economico, una presenza e contrapposizione di
forze (punto di vista economico) contrastanti. Questo conflitto può essere manifesto, quindi può es-
sere conscio, cioè tra un desiderio cosciente e un'esigenza morale, ad esempio; e latente, inconscio,
per esempio tra quelli che sono i poli descritti nelle Topiche Freudiane. Quest'ultimo conflitto si
esprime deformato in ogni manifestazione della vita psichica, quindi attraverso i sogni, attraverso i
sintomi, attraverso gli atti mancati e così via.
Il conflitto si verifica tra i diversi poli:
1. Punto di vista dinamico: desideri e difese
2. Punto di vista topico: luoghi o strutture
3. Punto di vista economico: pulsioni
Il conflitto si manifesta quindi sulla base di specifiche leggi, principi e processi e sottoforma di
formazioni di compromesso. Il problema successivo fu concettualizzare tale vita psichica caratte-
rizzata da fantasie così vive e spesso sessuali o aggressive: quali solo le forze che spingono l’essere

176
Riassunti di Silvia Varro

umano (teoria della motivazione)? Fu allora che Freud fondò la “teoria delle pulsioni”, e precisa-
mente ipotizzò un’energia psichica, che lui chiamò libido, che preme internamente e richiede di
scaricarsi (molto tempo dopo Freud, 1920, ipotizzerà una seconda pulsione, quella aggressiva, per
cui le pulsioni diventeranno due, chiamate anche istinto di vita e istinto di morte, o Eros e Thana-
tos).

Inizialmente Freud, in accordo con i biologi del tempo, pensò che esistessero due tipi di pulsioni
(prima teoria freudiana delle pulsioni):
1. Pulsione sessuale (libido): conservazione della specie;
2. Pulsione dell’Io (o di autoconservazione): perseverazione dell’individuo (ad esempio la fame).
La pulsione sessuale all’origine è autoerotica (senza oggetto) e costituita da
pulsioni parziali che cercavano soddisfacimento su parti del corpo (le zone
erogene orale, anale e fallica). C’è quindi un organo che è tramite
dell’eccitazione e del soddisfacimento (zona erogena). La pulsione poi di-
viene alloerotica, cioè con scelta oggettuale. In seguito, postulò una fase in-
termedia tra le due, detta narcisistica, in cui il soggetto unifica le
sue pulsioni sessuali parziali autoerotiche e prende sé stesso
come primo oggetto d’amore (ciò implica che anche la suc-
cessiva scelta oggettuale sia, in via transitoria, di tipo omoses-
suale, cioè rivolta a un oggetto simile a quello che ha amato,
per poi passare alla definitiva scelta eterosessuale).
Freud postulò anche che, dopo la fase di investimento oggettuale,
la libido – a causa ad esempio di una frustrazione – potesse essere ritirata da-
gli oggetti in una fase chiamata narcisismo secondario49, e ridefinì quindi
narcisismo primario quello prima descritto.
Ricapitolando quindi gli stadi libidici, si avrebbero quattro fasi: autoerotismo,
narcisismo primario, amore oggettuale e narcisismo secondario. Va ricordato inoltre che Freud
identificò quattro aspetti della pulsione:
1. Spinta: carica energetica
2. Fonte: stato di eccitamento del corpo
3. Meta: azione verso cui la pulsione spinge
4. Oggetto (esplicato nel 1915): persona dalla quale parte l’attrazione sessuale
Se nella fase di narcisismo primario il soggetto ama sé stesso, diventa difficile distinguere le pul-
sioni dell’Io da quelle sessuali, in quanto entrambe rivolte a sé. Nel risolvere questo problema,
Freud decise di mantenere una dualità delle pulsioni, ma di riferirla non alla loro fonte (sessuale o
dell’io) ma alla loro direzione (narcisistica o oggettuale): è questa la seconda teoria freudiana del-
le pulsioni. E in introduzione al narcisismo propose la famosa metafora dell’ameba e dei suoi pseu-
dopodi, implicando una sorta di vasi comunicanti tra libido narcisistica e libido oggettuale, nel sen-
so che se aumenta l’una si depaupera l’altra (se un’ameba estende uno pseudopodo diminuisce il
suo centro, cioè più investiamo sull’esterno più si depaupera l’investimento su sé stessi). Tuttavia
questa idea, basata su alcuni fenomeni clinici, si rivelò inadeguata in quanto nel narcisismo secon-
dario si postula che la libido dagli oggetti può essere ritirata sull’Io, e in questi casi si può trattare di
una svariata serie di fenomeni clinici e di regressioni sia normali che patologiche: sonno, autismo,
ipocondria, malattie organiche, innamoramento, persino vanità, autoammirazione ecc. In tutti questi
casi la libido “si ritirerebbe dagli oggetti” e, secondo la teoria dei vasi comunicanti, più diminuisco-

49
Un esempio di narcisismo secondario può essere quello di una persona che, dopo una delusione amorosa, sente il bi-
sogno di ritirarsi in sé stessa, frequentare poco gli altri ed eventualmente dedicarsi maggiormente alla cura del proprio
corpo.

177
Riassunti di Silvia Varro

no gli investimenti sugli oggetti, più aumentano i suddetti fenomeni narcisistici e viceversa. Ovvia-
mente sappiamo che ciò non è vero per alcuni fenomeni clinici: se si può essere d’accordo che
quando abbiamo il mal di denti amiamo meno nostra moglie perché siamo presi dal dolore che ci
affligge, oppure che quando dormiamo ci distacchiamo dal mondo esterno, è dimostrato che sono
proprio coloro che hanno una buona autostima, quelli che amano di più gli altri e investono mag-
giormente negli oggetti esterni (hanno successo, traggono soddisfazione dal proprio lavoro ecc.).

Il 1905 è una data fondamentale per la disciplina psicoanalitica, perché è quella che vede la scrittura
e la stesura dei tre saggi sulla teoria sessuale (in tedesco Drei Abhandlungen zur Sexualtheorie)
quindi quelli di maggiore risonanza nella teoria Freudiana.
1. Le aberrazioni sessuali: ha per oggetto il tema delle perversioni sessuali, quindi esamina quelle
che rappresentano deviazioni o condotte abnormi in materia sessuale; diventa centrale il concet-
to di pulsione.
2. La sessualità infantile: rappresenta una riflessione rispetto ad un elemento unico, mai messo in
luce fino a quel momento e cioè che il modo in cui la sessualità si intreccia con l'infanzia. Scrive
Freud: “Nessuno autore per quel che ne so, ha riconosciuto chiaramente la regolarità e la norma-
lità di una pulsione sessuale nell'infanzia.”
3. Le trasformazioni della pubertà: è dedicato alla sessualità adolescenziale. Con la pubertà av-
vengono i cambiamenti (rinvenimento dell’oggetto sessuale, procreazione come nuova meta
sessuale e sottomissione delle zone erogene al primato della zona genitale) che portano la vita
sessuale infantile alla sua definitiva strutturazione normale.
Quello che Freud dice in “Eziologia dell'isteria” è: “Fin dal 1896 ho sottolineato il significato degli
anni dell'infanzia per l’insorgere di importanti fenomeni dipendenti dalla vita sessuale e da allora
non ho mai smesso di porre in primo piano per la sessualità il momento infantile.” Quindi, nei tre
saggi Freud solleva il velo sugli anni dell'infanzia evidenziando che la sessualità è da intendersi solo
come genitalità, quindi non è legata specificatamente ai genitali, ma è una dimensione psichica
messa a fondamento del corpo e ha un'organizzazione specifica. Quindi la sessualità per Freud ha a
che fare con una questione di pensiero, di fantasia, di energia vitale che forma tanto il corpo quanto
lo psichico. Quali sono i caratteri della vita sessuale infantile per Freud? La sessualità infantile è
una sessualità autonoma, cioè non c'è bisogno della seduzione di un adulto perché il bambino si ri-
volga a fatti e questioni sessuali. Nei tre saggi il bambino è definito da Freud come perverso poli-
morfo, quindi ha una sorta di disposizione all'attività sessuale che può incontrare o meno il favore
del mondo esterno, attraverso sia aspetti seduttivi sia aspetti di educazione e repressione. Una ses-
sualità molteplice che non si riduce al primato genitale, è bensì caratterizzata da una serie di pulsio-
ni parziali, le quali ognuna, indipendentemente da un'altra, cerca di conseguire il piacere. Quindi il
bambino ha un interesse pregenitale alla sessualità. I primi impulsi della sessualità si manifestano
nel lattante appoggiandosi ad altre funzioni vitali, quindi la pulsione si appoggia al bisogno fisio-
logico di nutrimento, quindi nasce per appoggio, e poi se ne rende indipendente. Si appoggia
all'ingresso del latte caldo nel proprio corpo, però poi si autonomizzerà, è qualcosa che il bambino
cercherà di rivivere come dimensione invece di piacere, per procurarsi a sua volta piacere. Quindi, il
lattante sostituisce l'oggetto del seno materno, così come del biberon, con una parte del proprio cor-
po rendendosi indipendente nell'atto di procurarsi piacere.
Lo sviluppo sessuale è quindi un percorso che va dall' autoerotismo della pulsione sessuale alla riu-
nione delle singole pulsioni parziali sotto il primato genitale, che poi predispongono ad una scel-
ta oggettuale matura.
Lo sviluppo psicologico dell’infanzia avviene avviene attraverso stadi psicosessuali. Parliamo di
fasi quando è contemplata una dimensione evolutiva a sé stante, per cui è necessario un passaggio
da una fase all'altra o quando invece contempliamo che tali stadi possono svolgere una particolare
funzione. Sono stadi nei quali è possibile ritornare, regredire, fissarsi. In alcuni alcuni disturbi, co-

178
Riassunti di Silvia Varro

me per esempio quello ossessivo compulsivo, viene espressa una questione di difficoltà o di fissa-
zione allo stadio anale; per cui nella fase sadico-anale è contemplata una forte lotta rispetto all'area
della pulizia, del controllo sfinterico ecc. Lo stadio in termini psicoanalitici è caratterizzato dalla
dall'accostamento di una particolare sorgente pulsionale, un oggetto particolare e un certo tipo di
conflitto: il tutto determina un temporaneo equilibrio tra la soddisfazione pulsionale e i contro inve-
stimenti difensivi. Nel tempo si osserva una certa successione di questi stadi, ma bisogna immagi-
narli come un incastro progressivo. Quindi non c'è eterogeneità formale da uno stadio all'altro:
ogni stadio ricopre il precedente, che resta sempre presente. Questo contrappone, per esempio, la
concezione di stadio psicoanalitico alla concezione di stadio di Piaget, che invece ha un'altra visione
rispetto agli stadi evolutivi.
Le fasi dello sviluppo libidico, caratterizzate dalle zone erogene che si attivano una dopo l’altra –
ovviamente con aree di sovrapposizione, e continue progressioni e regressioni dello sviluppo o “fis-
sazioni” a determinate fasi, causate anche da eventuali traumi – sono:
(1) Stadio orale: caratterizza all'incirca il primo anno di vita, è uno stadio in cui l'attività sessuale
non è ancora separata dall'assunzione di cibo. La bocca è la sede dell’eccitazione e del piacere ses-
suale. L'incorporazione è il modello di relazione con l'oggetto, quando per esempio l'oggetto è
messo dentro, perché proprio la dimensione dell'oralità rimanda al mettere dentro. Tant'è che l'eroti-
smo orale è considerata la prima esperienza di incontro profondo e intimo con la madre, il prototipo
della soddisfazione del desiderio. Questo soddisfacimento orale poi si distacca
dalla funzione nutritiva e diviene ricerca di piacere indipendente.
(2) Stadio anale: va all'incirca dal secondo al terzo anno di vita, si
organizza intorno al primato della zona anale. Vi sono signifi-
cati espulsivi e ritentivi che sono alla base della defecazio-
ne. Vi è anche un'area simbolica importante del significato
che hanno le feci, sia nell'esperienza del proprio corpo, sia
nel rapporto con gli oggetti esterni. Nella funzione del con-
trollo degli sfinteri il bambino sperimenta l'esercizio della volon-
tà e del dominio sul suo corpo, nonché il controllo sulle figure
parentali. Si attiva tutta un’aria di soddisfazione, di rivincita
narcisistica, per cui il bambino può capovolgere l'esperienza
passiva e dipendente vissuta nella fase orale, in un'esperienza di
relativa autonomia. Esempio: nel caso delle lotte tra bambino e genitore rispetto a togliere il panno-
lino, questo viene lasciato perché si verifica proprio tale lotta di potere e perché da una posizione
poi passiva e di dipendenza come quella orale, adesso il bambino può giocarsi un piano di autono-
mia, “Decido io, espellere, non espellere” che non è più quindi un movimento involontario, ma che
diventa anche un movimento controllato.
(3) Stadio fallico: è predominante fino ai 5 anni. Le pulsioni parziali si organizzano e si riuniscono
sotto il primato della zona erogena genitale, che sia per i maschi che per le femmine, per un certo
momento della teoria freudiana, è il fallo. In questo senso l'opposizione tra i sessi diventa fallico-
castrato e la bambina non conosce la vagina, conosce però la clitoride come piccolo fallo. Tale fase
è caratterizzata dal complesso edipico, cioè l’insieme organizzato di desideri amorosi e aggressivi,
in massima parte inconsci, che il bambino sperimenta nei confronti dei genitori: il quale il bambino
vive un conflitto con il padre poiché vorrebbe la madre tutta per sé. È lo snodo e fondamento della
concezione psicoanalitica classica dello sviluppo mentale, l’organizzatore del caos dei primi anni di
vita. Ci sono due forme dell’Edipo: positiva, propria dell’Edipo re e negativa, cioè l'amore per il
genitore del proprio sesso e una gelosia mista ad odio per il genitore di sesso opposto. Questo desi-
derio suscita nel bambino fantasie di castrazione a opera del padre. Se supera questa fase in modo
ottimale, scompare l’angoscia di castrazione poiché rimuove per sempre un polo del conflitto, cioè
il desiderio della madre, e interiorizza l’altro polo, cioè la “legge del padre”, regole morali, norme
della civiltà, quello che Freud chiamerà Super-io. Non a caso si instaura il tabù dell’incesto: il

179
Riassunti di Silvia Varro

bambino non desidera assolutamente più la madre, anzi gli fa orrore questa idea, e rivolgerà il suo
desiderio verso altre figure femminili.
La formulazione fatta interamente sul modello maschile e nella forma positiva non è altro che una
semplificazione, in quanto il bambino non è soltanto ambivalente verso il padre e ama teneramente
la madre, ma si situa anche in una posizione femminile verso il padre nutrendo ostilità. Quindi
l’Edipo è un passaggio importante: si passa da una relazione duale madre-bambino ad un'immissio-
ne nel rapporto di una dimensione triangolare.
(4) Stadio di latenza: va dai 5/6 anni alla pubertà. Vi è un declino della sessualità infantile,
quindi un assopimento di tutta questa dimensione pulsionale, come diceva Freud, “con la promessa
che diventerai come il padre, perché adesso non ti è permesso essere come lui”, si quietano quindi
tutte le pulsioni sessuali attive in queste fasi. C'è un periodo di quiete e riparo dalle tempeste istin-
tuali, un investimento di nuovi compiti e curiosità spostata su aspetti conoscitivi diversi, è l'epoca
della scolarizzazione e quindi è l'epoca in cui il bambino e la bambina si occupano di altre questio-
ni.
(5) Stadio genitale: ha inizio con la pubertà e riguarda l'organizzazione delle pulsioni parziali sot-
to il primato delle zone genitali. Il maschile è visto come soggetto, attività, possesso del pene, il
femminile come oggetto, passività. La vagina viene vista come luogo per il pene ed erede del ventre
materno. Entra in campo la scelta oggettuale, un impasto di pulsioni sessuali aggressive, una più
piena e compiuta reciprocità relazionale.

La prima teoria della mente, ossia la prima topica, detta anche “teoria topografica” concepiva la
mente come suddivisa in luoghi diversi e prevedeva che la mente fosse divisa in tre parti:
1. Conscio: vi sono i pensieri di cui siamo consapevoli in un dato momento
2. Preconscio: vi sono i pensieri che conosciamo ma non immediatamente nel senso che dobbiamo
prestarvi attenzione affinchè divengano propriamente consci
3. Inconscio - rimosso: vi sono pensieri, fantasie, immagini ecc. che non possiamo conoscere
neppure con uno sforzo di volontà. Tali contenuti non sono dunque presenti nel campo attuale
della coscienza, questo secondo la prima e la seconda topica. Topico è il sistema inconscio,
quindi costituito dai contenuti rimossi cui è stato rifiutato l'accesso alla coscienza a causa della
censura mediante rimozione.
Il materiale inconscio però può a volte tornare alla coscienza, ad esempio in un sogno, oppure
quando recuperiamo un ricordo doloroso che per anni avevamo rimosso e che ora possiamo rivive-
re, eventualmente grazie a una psicoterapia o a esperienze positive che ci hanno dato la forza di ri-
cordarlo senza essere sopraffatti dal dolore; ugualmente, possiamo rimuovere un contenuto conscio,
sia temporalmente sia in modo definitivo, e sia in modo disadattivo (come ad esempio in un lutto
non elaborato in cui non riusciamo a tollerare il dolore del ricordo della persona perduta) sia in mo-
do adattivo (ad esempio quando risolviamo un conflitto rimuovendone uno dei due poli).
Per questo l’inconscio psicoanalitico viene anche chiamato “dinamico”, perché certi contenuti pos-
sono passare dal conscio all’inconscio e viceversa, e anche in questo si differenzia da quello che
viene chiamato “inconscio cognitivo”, il quale deposita informazioni tacite, implicite, generalmente
mai recuperabili dalla coscienza – cioè non possono mai essere né ricordate né dimenticate perché
non sono mai state consce – ma sono importanti per il nostro funzionamento.
La prima topica viene integrata con la seconda topica, detta anche “teoria strutturale” o “triparti-
ta”: postula che la mente sia divisa in strutture in conflitto tra loro o alla ricerca di un equilibrio ot-
timale, indipendentemente dal fatto che siano consce o inconsce. I conflitti non sono quindi adegua-
tamente rappresentati solo dalla dicotomia conscio-inconscio: il ruolo dell’inconscio viene relativiz-
zato. In particolare, tale topica prevede tre strutture:
1. Es: è un termine tedesco impersonale, che sta a rappresentare quindi qualcosa di estraneo a noi e
che in inglese verrà tradotto col termine latino Id, che significa “esso”. È il depositario delle

180
Riassunti di Silvia Varro

pulsioni, la parte biologica o “animale” che è in noi, il motore o la spinta istintuale, ad esem-
pio la sessualità o l’aggressività. Ovviamente è inconscio, ne possiamo conoscere solo le rap-
presentazioni consapevoli, quindi trasformate, a volte sublimate, maggiormente adattare alla
realtà, come ad esempio le fantasie.
2. Io: rappresenta la nostra persona, la nostra agentività (agency) o il centro decisionale che me-
dia tra le varie richieste che provengono dall’esterno o dall’interno (la realtà esterna e le pres-
sioni dell’Es o del Super-Io). Ma l’Io non è del tutto conscio, perché una parte del suo funzio-
namento è conscia. Si pensi alle difese, le quali sono la sostanza stessa di cui è composto l’io:
sono sempre inconsce, cioè agiscono automaticamente senza che possiamo controllarle con la
volontà (es. rimozione, proiezione, negazione ecc.; esiste solo una difesa che opera consciamen-
te ed è la repressione, con la quale cerchiamo di scacciare
dalla mente un pensiero sgradevole). La funzione dell’Io è
soprattutto quella di gestire i conflitti (con i meccanismi di
difesa – vedi tabella che segue), cercare di mantenere il più
possibile una coerenza del funzionamento psicologico, an-
che allo scopo di favorire l’azione.
3. Super-Io: si può dire che sia una “specializzazione” dell’Io, nel senso che rappresenta i nostri
valori, gli ideali, l’etica, la guida del nostro comportamento. Si forma con l’interiorizzazione
delle regole morali: col superamento del complesso edipico una parte dell’Es si trasforma in Su-
per-io, cioè si capovolge nel suo opposto, ed è per questo che sembra quasi che l’energia utiliz-
zata dal Super-Io sia la stessa che aveva l’Es. Tipicamente, se l’individuo non riesce a soddisfa-
re le richieste del Super-Io può sentirsi in colpa (a volte soffrendo molto), si crea cioè un conflit-
to tra Io e Super-Io. Il Super-Io, in altre parole, è il giudice o censore nei confronti dell’Io.
Nella prima topica rappresenta quindi una censura, vieta cioè l’appagamento e la presa di co-
scienza dei desideri. Ne parliamo poi invece come erede del complesso edipico, quindi come in-
teriorizzazione delle esigenze e dei divieti dei genitori.

I meccanismi di difesa sono operazioni psichiche utilizzate dall’individuo per due ragioni:
✓ Evitare o comunque gestire qualche sentimento intenso e minaccioso, di solito l’angoscia, tal-
volta un dolore non affrontabile e altre esperienze emotive disorganizzanti per la persona;
✓ Mantenere l’autostima.
Vengono suddivise convenzionalmente in due grosse categorie:
1. Difese primarie: operano in modo globale ed indifferenziato in tutta la dimensione sensoriale
della persona, fondendo dimensioni cognitive, affettive e comportamentali. Per essere definita
primitiva, la difesa mostra due qualità distintive: un mancato raggiungimento del principio di
realtà e la mancata percezione della separatezza e della costanza di coloro che sono esterni al
Sé;
2. Difese secondarie: operano trasformazioni specifiche del sentimento, della sensazione, del
comportamento o di una loro combinazione. Tali difese contemplano il riconoscimento del prin-
cipio di realtà e la possibilità di contattare la separatezza tra sé e l’altro e il mantenimento della
costanza dell’oggetto.

Ritiro primitivo: risposta autoprotettiva che si Proiezione: l’individuo affronta conflitti emo-
osserva in persone che si sottraggono a stimo- tivi e fonti interne o esterne di stress attribuen-
lazioni esterne, sostituendo gli stimoli del pro- do ad altri i propri sentimenti, impulsi o pensie-
prio mondo interiore alle tensioni esercitate dal ri non riconosciuti e non riconoscibili, rinne-
mondo esterno. gandoli inconsciamente.

50
Integrazione dal manuale Comer

181
Riassunti di Silvia Varro

Diniego: il soggetto affronta conflitti o fonti di Introiezione: si considera proveniente


stress rifiutando inconsciamente il riconosci- dall’interno qualcosa che in realtà esterno. Nel-
mento dell’esperienza dolorosa. L’esempio più le sue forme benigne equivale
lampante è la maniacalità, stato in cui le perso- all’identificazione primitiva che il bambino fa
ne possono denegare le proprie limitazioni fisi- con altre persone importanti del suo ambiente
che, necessità di dormire, emergenze finanzia- esterne; in quelle problematiche è assai distrut-
re, debolezze personali ecc. tivo (es. identificazione con l’aggressore).
Controllo onnipotente: l’individuo affronta Scissione: l’individuo affronta conflitti emotivi
conflitti emotivi e fonti interne o esterne di e fonti interne o esterne di stress considerando
stress attribuendo qualità esageratamente posi- se stesso o gli altri come completamente buoni
tive a se stesso o agli altri. Di solito ha lo scopo o cattivi non riuscendo a mettere insieme né a
di fornire una gratificazione al soggetto, e al integrare le specificità positive e negative di sé
contempo, funziona come protezione da senti- e degli altri.
menti di impotenza e di poco valore che egli
inconsciamente prova.
Svalutazione: l’individuo affronta conflitti Dissociazione: l’individuo risponde a conflitti
emotivi e fonti esterne o interne di stress attri- o fonti di stress attraverso un’alterazione tem-
buendo caratteristiche esageratamente negative poranea delle funzioni integrative della co-
a se stesso o agli altri. Ha spesso la funzione di scienza o dell’identità. L’idea o l’affetto troppo
difendere il soggetto dalla consapevolezza dei dolori restano inconsci, ma al tempo stesso si
desideri o dalla delusione per quelli inappagati. esprimono attraverso un’alterazione dello stato
di coscienza.

Rimozione: respinge (rimuove) nell’inconscio Volgersi contro di sé: indica lo spostamento di


una rappresentazione legata a una pulsione. un affetto o di un atteggiamento negativo che
Protegge la persona dalla consapevolezza di ciò un individuo fa da un oggetto esterno verso di
che sta provando o ha provato in passato: in al- sé con la percezione inconscia che questo pro-
tre parole, se da un lato la dimensione emotiva cesso conferisca un maggiore controllo delle
è chiaramente percepita e presente, l’aspetto situazioni disturbanti per il Sé. L’uso sistemati-
cognitivo (il ricordo) rimane al di fuori della co di questa difesa si trova nelle personalità
coscienza. depressive.
Regressione: l’individuo affronta conflitti Spostamento: l’individuo risponde a conflitti o
emotivi e fonti interne o esterne di stress ritor- fonti di stress generalizzando o indirizzando su
nando temporaneamente a uno stadio evolutivo un oggetto, di solito avvertito come meno mi-
precedente. naccioso, un sentimento o una condotta origi-
nariamente indirizzata a un altro oggetto.
Isolamento: l’individuo risponde a conflitti o Formazione reattiva: l’individuo risponde a
fonti di stress mostrandosi incapace di speri- conflitti o fonti di stress sostituendo i propri
mentare al tempo stesso le componenti cogniti- pensieri o sentimenti sentiti come inaccettabili
ve e quelle affettive di un’esperienza in quanto o dolorosi con comportamenti o sentimenti op-
l’affetto e l’emozione vengono esclusi dalla posti riuscendo così ad evitare i sentimenti di
consapevolezza. colpa per lui intollerabili da gestire.
Intellettualizzazione: l’individuo risponde a Capovolgimento: utilizzato per fronteggiare
conflitti o fonti di stress attraverso un uso ec- sentimenti che rappresentano una minaccia psi-
cessivo e rigido del pensiero astratto per evitare cologica per il Sé creando uno scenario nel
sentimenti ed emozioni di dolore e disturbanti. quale la propria posizione psichica passa da
soggetto a oggetto e viceversa. Se si percepisce
che il desiderio di attenzioni è vergognoso è
possibile occuparsi di un’altra persona e identi-
ficandosi inconsciamente con la sua gratifica-

182
Riassunti di Silvia Varro

zione.
Razionalizzazione: entra in gioco quando non Acting out: l’individuo affronta conflitti emo-
riusciamo a raggiungere qualcosa che vogliamo tivi e fonti interne o esterne di stress agendo
e retrospettivamente affermiamo che non era senza riflettere né preoccuparsi delle possibili
poi alla fine così appagante o desiderabile. conseguenze delle sue azioni: è una forma di
Quando una persona razionalizza, cerca incon- espressione del comportamento incontrollato e
sciamente delle basi cognitivamente accettabili implica spesso un comportamento dannoso o
per il comportamento che ha intrapreso. etero/autodistruttivo.
Moralizzazione: meccanismo simile alla ra- Sessualizzazione: l’individuo connota ses-
zionalizzazione. In questo caso l’individuo cer- sualmente le sperienze con l’intento inconscio
ca inconsciamente di pensare che sia doveroso di convertire il terrore o la sofferenza per lui
e giusto moralmente seguire una linea di con- non tollerabile in eccitazione.
dotta.
Comportamentalizzazione: permette a due Sublimazione: l’individuo affronta conflitti
condizioni psichiche in conflitto all’interno di emotivi e fonti interne o esterne di stress inca-
un individuo di esistere senza creare confusio- nalando sentimenti o impulsi potenzialmente
ne, sensi di colpa, vergogna o angoscia sul pia- pericolosi o disadattivi in comportamenti so-
no consapevole. cialmente accettabili. Ad es. impulsi ostili e
aggressivi possono essere sublimati attraverso
la pratica di sport violenti come la boxe o il ka-
rate.
Annullamento: si tratta dello sforzo inconscio
di controbilanciare un affetto e un’emozione,
solitamente la vergogna o il senso di colpa, at-
traverso un atteggiamento o un comportamento
che magicamente lo cancelli.

I concetti psicoanalitici sopracitati (libido, Es, Io, Super-Io) ecc. appartengono alla teoria generale
della psicoanalisi, quella che Freud chiamò “metapsicologia”: meta è un suffisso greco che signifi-
ca “al di là”, “sopra”51, per cui metapsicologia si riferisce a quello che è al di là della psicologia, al
di là del comportamento in quanto tale, che possa spiegarlo con una teoria generale a un livello di
astrazione più alto. Freud riteneva che la sua metapsicologia fosse provvisoria, che un giorno
avrebbe dovuto essere modificata o aggiornata alla luce delle scoperte scientifiche, ed era anche
ambivalente verso di essa, tanto che la chiamava “la mia strega” o “mitologia”. L’ambizione di
Freud era quella di costruire un modello neurologico, e già nel 1895 aveva provato a disegnare il
“progetto di una psicologia” di stampo neurologico, ma consapevole dei limiti non volle pubblicar-
lo. Dovette così rassegnarsi a disegnare un modello “psicologico” con termini provvisori; Freud
espose per la prima volta in modo compiuto la sua metapsicologia nel settimo capitolo de
L’interpretazione dei sogni.

In una delle più originali teorizzazioni della psicoanalisi Freud formulò due diverse modalità di fun-
zionamento del pensiero:
1. Processo primario: chiamato così perché si forma per primo nello sviluppo del bambino. In es-
so prevale il principio di piacere, e caratterizza non solo il bambino ma anche i sintomi nevroti-
ci, i sogni, l’arte, il gioco, la fantasia ecc. Tale processo è caratterizzato da energia “mobile”
(non legata a una rappresentazione oggettuale), prevalenza di immagini più che di linguaggio

51
Si pensi ai termini “fisica” e “metafisica”

183
Riassunti di Silvia Varro

verbale, assenza di logica e del senso del tempo, prevalenza della condensazione (nel senso che
due immagini possono essere fuse in una sola, come spesso accade nei sogni), mancanza del
principio di non contraddizione e di negazione ecc. Il bambino, procedendo nello sviluppo, gra-
dualmente abbandona il principio di piacere e accetta di realtà (passaggio dal processo primario
al processo secondario).
2. Processo secondario: si forma successivamente ed è tipico dell’adulto, guidato dal principio di
realtà. Questo processo è invece caratterizzato dalla logica basata sul principio di non contraddi-
zione, dal senso del tempo, dalla capacità di dilazionare la scarica e così via.

Freud scrisse L’interpretazione dei sogni nel 1899, e il libro uscì con la data del 1900, allo sbocca-
re del nuovo secolo. Fu l’unico vero suo libro nel senso che aveva un carattere compiuto, con un
inizio, una fine e una struttura interna coerente e ben organizzata. Tutti gli altri suoi scritti sono in
realtà articoli o saggi che affrontano temi relativamente circoscritti, e ciò non stupisce se si pensa
alla difficoltà (o a una vera e propria impossibilità) di una trattazione della psicoanalisi come se fos-
se una disciplina scientifica completa.
L’ipotesi di Freud era che, tranne alcune eccezioni, i sogni (così come del resto altri comportamen-
ti) fossero essenzialmente motivati dalla soddisfazione di un desiderio. Nel sogno questo desiderio
veniva censurato dal lavoro onirico con la produzione di un contenuto manifesto che tramite simbo-
li nascondeva un messaggio sottostante, parallelo, appunto il contenuto latente. Questa censura ave-
va uno scopo difensivo, per permettere la gratificazione di certi impulsi senza però disturbare il so-
gnatore, infatti il sogno poteva essere considerato il “guardiano del sonno” (ma non sempre è così,
infatti certi sogni o incubi, con un contenuto così angoscioso che non riesce a essere mascherato o
spostato nei simboli onirici, possono farci svegliare improvvisamente). Freud definì il sogno la via
regia dell’inconscio, nel senso che permettono un accesso diretto, privilegiato, all’inconscio.
- Contenuto manifesto: sogno che ricordiamo (censurato, mascherato, simbolizzato)
- Contenuto latente: ciò che emerge dopo che il sogno è stato interpretato, “tradotto”
Freud riteneva che in genere si trattasse di desideri sessuali o aggressivi, o di desideri primitivi non
accettati dalla parte adulta o più matura di noi.
Per Freud l’inconscio era “un crogiuolo di eccitamenti ribollenti” che premono per essere scaricati e
che possono essere bloccati da forze contrarie o che si scaricano in modo parziale mediante forma-
zioni di compromesso indirette o camuffate; i sintomi, o appunti i sogni e più in generale tutto il no-
stro comportamento, possono essere visti infatti come un compromesso tra le pulsioni e una loro
trasformazione necessaria per adattarci alla realtà. Per Freud, infatti, la realtà esterna era sem-
pre un po’ frustrante, e l’uomo, in eterno conflitto con sé stesso, doveva barcamenarsi tra Eros e ci-
viltà.
Oggi la maggior parte degli psicoanalisti lavora sui sogni in modo un po’ diverso dai tempi di
Freud:
- Allontanamento dalla teoria del “doppio binario”: non credono più tanto che vi siano due
racconti paralleli, quello del sogno manifesto e quello del sogno manifesto. Le immagini mani-
feste del sogno potrebbero invece non esprimere qualcos’altro ma avere valore in sé stesse, e
rappresentare semplicemente un modo di elaborare le informazioni n modo attivo durante il so-
gno, e anche una specifica modalità di funzionamento cerebrale.
- Rivalutazione del processo primario: non è vero che il processo primario, di cui il sogno se-
condo Freud era la tipica espressione, rappresenta una modalità regressiva di funzionamento che
deve trasformarsi nel processo secondario. Deve rimanere tale ed è importante per un ottimale
equilibrio psicologico e anche per la sopravvivenza. Inoltre, una traduzione diretta di contenuti
del processo primario in contenuti del processo secondario sarebbe impossibile perché il modo
in cui essi sono codificati è diverso, sono irriducibili gli uni dagli altri.

184
Riassunti di Silvia Varro

- Funzioni del sogno: funzioni di crescita, problem-solving, mantenimento, regolazione, e, se ne


necessario, riparazione dei processi psichici allo scopo di favorire un migliore adattamento e
funzionamento mentale (nei sogni ad es. verrebbero più volte recitate e messe in scena situazio-
ni di vita per dare loro una soluzione migliore o per prepararsi alla possibilità che possano ripe-
tersi. Questa visione, coerente con la Psicologia del Sé, prevede che il sé abbia un programma
innato di sviluppo volto alla crescita, all’adattamento e alla socializzazione, in armonia col
mondo esterno, diversamente dalla concezione freudiana, che prevedeva un conflitto innato con
la realtà esterna sulla quale l’Io aveva bisogno di scaricare energie pulsionali.

Le scissioni iniziarono presto: Jung e Adler, collaboratori di Freud,


diedero avvio, già ai primi del Novecento, a movimenti separati –
purtroppo anche a livello istituzionale (creando associazioni, riviste
e congressi autonomi), e questo avvenne per motivi intrecciati a questioni affettive e personali – che
permangono ma che oggi hanno molto meno giustificazione che in passato. Infatti, sono nate altre
scuole che sono rimaste all’interno della International Psychoanalytic Association (IPA), mentre
i filoni junghiano e adleriano purtroppo sono rimasti fuori. Questo sviluppo, che ha danneggiato la
crescita della psicoanalisi, non sarebbe concepibile in altre discipline scientifiche, e non a caso ha
fatto dire a molti che la storia della psicoanalisi assomigli a quella di un movimento religioso o co-
munque caratterizzato da forti personalismi e legami affettivi. Il modo corretto di intendere la psi-
coanalisi dovrebbe essere quello di un unico movimento allargato, con idee nate in un settore e a
volte subito assorbite in altri (mentre invece è accaduto che certe idee venivano ignorate, oppure
fatte proprie senza riconoscerne la paternità).

Carl Gustav Jung, occupandosi in prevalenza di pazienti schizofrenici ospedalizzati da lungo tem-
po, venne in contatto con le opere di Freud che studiò con enorme interesse, schierandosi dalla parte
di quest’ultimo e difendendone le idee dai detrattori. Le differenze tra i due però emersero presto:
un distacco esplicito con Freud avvenne quando in Simboli della trasformazione modificò il concet-
to freudiano di libido intendendolo in senso non esclusivamente ses-
suale, cioè non come motivazione primaria, e propose una concezione
più allargata di libido intesa come energia psichica che si manifesta
nel processo virale ed è sempre percepita dall’individuo come aspira-
zione e desiderio. In seguito al distacco con Freud, Jung ai ritenne fuo-
ri dall’ambito psicoanalitico e ribattezzò “psicologia analitica” la pro-
pria costruzione teorica.

Alfred Adler, che lavorava come medico a Vienna, incontrò Freud nel 1902 e presto entrò nel pri-
mo gruppo di psicoanalisti che si incontravano alle famose riunioni del mercoledì sera a casa di
Freud.
Entrò presto in contrasto con Freud:
- non accettando l’importanza della sessualità e la teoria della libido;
- approfondì lo studio del sentimento sociale, avvicinandosi anche al socialismo che riteneva
portatore di progresso e benessere per l’intera collettività;
- fece importanti sperimentazioni nel settore pedagogico, lavorando nelle scuole, nei consultori
pedagogici e negli asili.
La psicologia individuale, da lui fondata, si basa su un modello di uomo a orientamento olistico,
teologico e fenomenologico, ed è una terapia pragmatica applicabile a campi diversi quali psicote-
rapia, psicologia clinica, psicosomatica, antropologia, pedagogia, sociologia ecc.

185
Riassunti di Silvia Varro

Per Adler vi sono nell’uomo due motivazioni principali:


1. Volontà di potenza: spinta a superare l’inferiorità
2. Sentimento sociale: bisogno di comunità e appartenenza

Wilhelm Reich fu il primo psicoanalista a intuire l’importanza del carattere, e con i suoi studi sul-
la corazza caratteriale anticipò temi come quelli dei disturbi di personalità. Reich prese alla lettera
certi concetti freudiani, come quello di energia libidica, ed era convinto che una società repressiva
impediva il sano e libero sfogo della sessualità conducendo quindi alla nevrosi. Cercò anche di co-
niugare psicoanalisi e marxismo, convinto che il capitalismo avesse un ruolo importante nel genera-
re alienazione e sofferenza nevrotica.
La sua tecnica terapeutica prese sempre più le caratteristiche di una terapia corporea, e fu sviluppa-
ta dai suoi allievi, tra cui va ricordato Alexander Lowen.

Si sviluppò soprattutto in Nord America, dove la psicoanalisi si diffuse con grande rapidità dopo la
visita di Freud nel 1909 e trae radici dal concetto di Io, cioè dalla seconda topica freudiana, e dal
concetto di difesa52. Il manifesto della Psicologia dell’Io fu scritto da Heinz Hartmann col titolo
Psicologia dell’io e problema dell’adattamento. Con la Psicologia dell’io si spostò l’attenzione
dall’Es all’Io, guardando maggiormente le parti sane e adattive del paziente e non solo quelle pato-
logiche, non chiedendosi tanto, ad esempio, “perché un paziente è malato” quanto “come mai è così
sano nonostante la malattia”.
Un importante contributo di Hartmann è stato quello di concepire nell’uomo due aree fin dalla na-
scita:
1. Autonoma primaria libera da conflitti (memoria, percezione, motricità, intelligenza, linguag-
gio, ecc.): cioè un apparato cognitivo che si sviluppa indipendentemente dalle pulsioni, mentre
Freud aveva postulato che in origine c’è solo un Es indifferenziato e che l’Io si forma dopo, a
causa del conflitto con la realtà. Ad esempio, il bambino, quando il seno è assente, nel tentativo
di autogratificarsi può allucinare l’immagine del seno, e questa rappresentazione sarebbe il pri-
mo abbozzo della costruzione dell’apparato cognitivo, che si formerebbe quindi dalla frustra-
zione, dal conflitto con la realtà.
2. Area secondaria costituita da quei comportamenti che iniziano come difese ma che in seguito
si autonomizzano stabilmente. Ad esempio, un adolescente può ricorrere spesso alla intellettua-
lizzazione come difesa della pulsionalità e da emozioni che non sa ancora gestire, mentre poi in
seguito, superata l’adolescenza e avendo imparato a regolare meglio le emozioni legate alla sfe-
ra sessuale, le capacità intellettuali che aveva esercitato a scopo difensivo si autonomizzano,
cioè gli rimangono appunto come un’area stabile di autonomia secondaria che formerà la base
della sua intelligenza.
L’Io per Hartmann, grazie alle sue funzioni, diviene l’organo specifico dell’adattamento in pre-
senza di un ambiente medio prevedibile.

All’interno del corpus psicoanalitico si è sviluppata una corrente di pensiero detta psicoanalisi
delle relazioni oggettuali di Melanie Klein, la quale sostiene che le pulsioni emergono
all’interno della relazione (diade madre-bambino). Da qui il ruolo centrale delle relazioni inter-
personali che diventano rappresentazioni interiorizzate di relazioni. I neonati non interiorizzano
solo una persona, piuttosto interiorizzano l’intera relazione con la persona. Il prototipo di questa
relazione è l’esperienza dell’allattamento, la quale può essere positiva o negativa; in ogni caso le
52
La prima descrizione sistematica delle difese fu fatta da Anna Freud nel 1936, che ne descrisse inizialmente nove.

186
Riassunti di Silvia Varro

esperienze vengono interiorizzate e integrate nella rappresentazione del Sé. Il conflitto consiste
quindi nello scontro tra coppie contrapposte di unità interne di relazioni oggettuali interiorizzate.
Fantasia: le fantasie inconsce sottostanno a ogni processo mentale e accompagnano tutte le atti-
vità mentali; è l’espressione mentale degli istinti ma anche delle difese che l’io mette in atto per
opporsi agli impulsi.
Oggetto: ciò verso cui è diretta l’azione o il desiderio della persona e che serve per ottenere la
gratificazione istintuale. L’oggetto è mentale, ovvero è una componente della rappresentazione
mentale di un istinto e viene fantasticato come se fosse dotato di impulsi propri (buoni o cattivi).
Ad esempio, la sensazione di fame viene vissuta come oggetto interno cattivo che si sviluppa da
una sensazione corporea negativa. Per costruire una mente stabile è necessario aver potuto in-
troiettare un oggetto buono durante lo sviluppo psichico.
Posizione schizoparanoide: se l’oggetto buono si perde o entra in conflitto con quello cattivo, la
persona entra in una situazione caratterizzata da insicurezza e angoscia definita posizione schizo-
paranoide. Il bambino sente pericoli esterni che minacciano la sua sopravvivenza e non sopporta
l’angoscia di essere lasciato solo con il terrore. Predomina il meccanismo di scissione e di fram-
mentazione oltre che quello di proiezione. Il bambino non è ancora in grado di tenere dentro di sé
la rappresentazione dell’oggetto buono quando questo è assente quindi non può tollerare
l’assenza della madre. La possibilità di riconoscere che nello stesso oggetto sono presenti sia ca-
ratteristiche buone sia caratteristiche cattive si aprirà con la posizione depressiva.
Posizione depressiva: le angosce per la propria sopravvivenza vengono spostate sulla paura di
aver danneggiato l’oggetto per questo la posizione depressiva è caratterizzata da senso di colpa,
lutto e riparazione. Per accedervi bisogna aver superato le emozioni di invidia e avidità. Final-
mente raggiunge la consapevolezza che la madre è un oggetto intero e da questo momento in poi
si può sviluppare un’autentica capacità di relazione.
Meccanismi di difesa
• Scissione: meccanismo di elezione per la sopravvivenza emotiva dei primi mesi di vita caratte-
rizzati dalla posizione schizoparanoide. Nello specifico, separa l’uno dall’altro i sentimenti con-
traddittori e le rappresentazioni del Sé e dell’Altro.
• Identificazione proiettiva: gli aspetti propri vengono separati, disconosciuti e attribuiti
all’altro.
• Diniego: misconoscimento diretto di dati sensoriali angosciosi e traumatici per il soggetto. Al
contrario della rimozione che è utilizzata per difendersi da impulsi o desideri, il diniego è una di-
fesa dalla realtà quando viene vissuta come insopportabile.

Nella psicoanalisi infantile presto avvenne lo scontro tra:


- Anna Freud, a Vienna, che – seguendo i principi della Psicologia dell’Io – riteneva che la tec-
nica dovesse tenere in considerazione il livello di maturazione del bambino;
- Melanie Klein, a Berlino, che privilegiava le precoci interpretazioni di transfert, in particola-
re le pulsioni aggressive. Riteneva che nel bambino vi fossero già molto presto fantasie sessuali
e aggressive abbastanza elaborate, e per giustificarle dovette retrodatare la formazione del Su-
per-Io ipotizzando che entrasse in conflitto con l’Es precocemente.
Quando sia Anna Freud che Melanie Klein si trasferirono a Londra, lo scontro tra queste due prime
donne della psicoanalisi fu molto acceso al punto che all’Istituto psicoanalitico di Londra si forma-
rono due gruppi con corsi separati. La teoria kleiniana si diffuse in Sud America e in altri paesi neo-
latini come l’Italia e la Spagna. In seguito, i kleiniani furono influenzati dai contributi di Wilfred
Bion e dai suoi numerosi seguaci che diventeranno neo-kleiniani, modificando la teoria e la tecnica
della Klein (es. relativizzazione del ruolo dell’interpretazione per privilegiare il “contenimento” del-
le emozioni del paziente). Presto si formò un middle group (gruppi di mezzo) di cui Donald Win-
nicott fu uno dei principali esponenti. Altri autori, che si possono idealmente collocare all’interno

187
Riassunti di Silvia Varro

di tale gruppo (soprattutto Fairbairn, Balint ecc.) fin dagli anni trenta fondarono una teoria delle
“relazioni oggettuali”, che assegna importanza alle relazioni interpersonali e non solo alla teoria
delle pulsioni.

Quasi contemporaneamente nella scuola inglese e negli Stati Uniti, Sullivan e altri percorsero vie
simili fondando il movimento di psicoanalisi interpersonale (detta anche culturalista, revisioni-
sta, neofreudiana ecc.). La differenza tra la scuola inglese delle relazioni oggettuali di Fairbairn e la
psicoanalisi interpersonale americana di Sullivan è la seguente: mentre gli inglesi continuavano ad
intendere le relazioni oggettuali come rappresentazioni intrapsichiche, gli interpersonalisti america-
ni vedevano le cose in termini più concretamente interpersonali e meno intrapsichici. Infatti, tra le
altre cose, rinnegarono la teoria delle pulsioni e ritenevano che fossero soprattutto i rapporti “reali”
quelli responsabili della formazione della personalità, la quale sarebbe influenzata più dalla cultura
che dalla natura (per questo furono chiamati “culturalisti”).

La psicologia del sé di Heinz Kohut appartiene anch’essa a una teoria delle relazioni oggettuali nel
senso che assegna molta importanza al mondo esterno per lo sviluppo della personalità. Kohut
propose radicali trasformazioni teoriche e cliniche rilanciando il concetto di empatia (peraltro già
sottolineato, al di fuori della psicoanalisi da Carl Rogers) e ribadendo l’importanza delle figure pa-
ternali e dell’interazione con esse a scapito delle pulsioni freudiane.
Kohut, partendo dallo studio delle personalità narcisistiche, descrisse nuove configurazioni transfe-
rali (transfert idealizzante, speculare ecc.), parlò della madre come “oggetto-Sé”, sottolineandone il
ruolo di regolatore esterno di una crescita armoniosa del bambino il cui sviluppo viene ostacolato
non da conflitti interni (come sottolinea la teoria freudiana) ma da conflitti con l’ambiente (per
esempio rotture empatiche da parte delle figure genitoriali).

Parallelamente negli anni sessanta in Inghilterra si sviluppò la teoria dell’attaccamento di John


Bowlby (con Mary Ainsworth), un naturale sviluppo di certe idee del middle group londinese.
Bowlby, il cui bagaglio teorico era costituito dall’evoluzionismo darwiniano e dall’etologia umana,
studiò gli stili di attaccamento del bambino (sicuro, insicuro-evitante ecc.) da una prospettiva na-
turalistica e sperimentale, in questo modo differenziandosi dall’approccio psicoanalitico tradiziona-
le che privilegiava l’analisi delle fantasie all’interno della situazione clinica. Il punto di rottura con
Freud avvenne con la tesi secondo la quale il sistema motivazionale dell’attaccamento è autonomo e
indipendente dalla sessualità (mentre per Freud vi era solo una pulsione, la pulsione sessuale o libi-
do, per cui tutte le motivazioni venivano concepite come derivate da essa, per esempio come “su-
blimazioni”).
Mary Ainsworth, continuando l’opera di Bowlby, propose la Strange Situation (ss), una condizio-
ne sperimentale che permette di osservare l’attivarsi degli stili di attaccamento, mentre, dopo di lei,
Mary Main propose la Adult Attachment Interview (AAI), un’intervista semistrutturata per i sog-
getti adulti che esplora i “modelli operativi interni” (MOI), cioè le rappresentazioni mentali dei
modelli di attaccamento.

In netto antagonismo con la Psicologia dell’Io e con il punto di vista adattivo e dello sviluppo, Jac-
ques Lacan (considerato da alcuni il più controverso psicoanalista dopo Freud) propose un ritorno
a Freud e dichiarò che l’inconscio è strutturato come un linguaggio, riferendosi esplicitamente alle

188
Riassunti di Silvia Varro

teorie linguistiche di Ferdinand de Saussure e Roman Jakobson53. Tra le sue principali concettualiz-
zazioni ci sono: la fase dello specchio, la riorganizzazione della psiche nei tre ordini del Reale,
dell’Immaginario e del Simbolico, l’insistenza sulla funzione del padre (Nome-du-Père).

Perché una persona si ammala secondo la psicoanalisi? Freud offrì una spiegazione psicologica del
disturbo mentale non sottovalutando cause biologiche ed ereditarie. Volendo includere tutte le va-
riabili parlò delle serie complementari per la scienza che studia le cause delle malattie: la predi-
sposizione ha quindi un ruolo complementare con fattori psicologici e traumi. Ad esempio, se rap-
presentiamo il manifestarsi della malattia con il numero cento, essa può essere causata da una predi-
sposizione minima 10%, sommata ad un grave fattore scatenante.
Questo schema delle serie complementari rappresenta un modello della vulnerabilità e il rapporto
tra fattori interni ed esterni. Freud mirava a costruire una teoria completa dell’insorgenza della psi-
copatologia, ma limitandosi alla teoria delle pulsioni per la componente genetica.
Il ruolo del trauma risulta sempre basilare per Freud che ne capisce l’importanza e lo sviluppò so-
prattutto quando il paziente, mediante l’aiuto dello psicologo, riusciva a superarlo non esternando
più il dialogo con il corpo, ma mediante il linguaggio e la mente. L’efficacia della psicoanalisi qui è
indiscussa.

La diagnosi o la valutazione clinica non si basa solo su criteri meramente descrittivi, ma su quelli
strutturali, cioè basati su un’ipotesi di funzionamento mentale che a sua volta è legata ad un certo
modello o ad una teoria della mente.
Un noto modello della diagnosi strutturale è quello di Kernberg (1981) secondo cui esistono tre
principali strutture intrapsichiche (nevrotica, borderline, psicotica) e tre criteri diagnostici (esame
di realtà presente o assente, difese mature o primitive, identità integrata o diffusa) e a queste
strutture corrispondono quadri clinici diversi.
Questo modello è stato seguito da un sistema recente chiamato PDM, il Manuale Diagnostico Psi-
codinamico, prodotto dalle principali associazioni psicoanalitiche internazionali, il quale elenca
quattro diversi livelli strutturali: normalità, nevrosi, borderline, psicosi.
Qui il border viene considerato come un aggravamento della sindrome nevrotica più che come una
vera e propria categoria.
Ma cosa si intende esattamente per psicoanalisi? Per Freud la psicoanalisi specifica contempora-
neamente tre diverse cose: un metodo di ricerca, una tecnica terapeutica e una psicologica e che
quindi si può intendere ogni psicoterapia che si basa su concetti di transfert e resistenza.
Valutazione clinica: si esamina in primo luogo la risposta positiva o negativa del paziente al tratta-
mento, se ha o meno una tendenza antidiagnostica. In questo approccio non c’è una vera e propria
diagnosi classica, si basa su aspetti più strutturali che descrittivi.

Chiaramente sia il contratto, che il setting e la durata del trattamento possono variare e di molto in
base alle diverse terapie seguite. Per quanto concerne la frequenza nella psicoanalisi classica, il
contratto prevede quattro sedute minime settimanali; si riteneva che essa dovesse durare svariati an-
ni ma anche questo è un cliché poiché esistono anche terapie brevi e altre che per svariati motivi
possono essere interrotte in ogni momento. Solitamente il setting è lo studio dello psicologo e il
dialogo è vis a vis, l’uso del lettino è comune oppure l’uso di due sedie con una scrivania tra esse.

53
Saussure è considerato uno dei fondatori della linguistica moderna, Jakobson uno dei principali iniziatori della stessa.

189
Riassunti di Silvia Varro

L’analista deve essere anonimo e neutrale, cosicché il paziente possa proiettare al meglio aspetti del
passato, anche se in un certo modo è impossibile non influenzare il paziente.
Nella psicoterapia non psicoanalitica invece si aggiungono cose al paziente fornendogli nuove espe-
rienze e influenzandolo mentre nella psicoanalisi si fa emergere la verità che è già in lui rimuoven-
do gli ostacoli. Abbiamo detto quindi che è impossibile non influenzare il paziente, ma come pos-
siamo fare in modo che esso si senta a suo agio e si riveli nella sua autenticità subendo il minor
condizionamento possibile? Freud suggerì una regola chiamata regola fondamentale o aurea della
psicoanalisi, e consisteva nelle associazioni libere, cioè nel chiedere al paziente di dire tutto quello
che gli passava nella testa senza nascondere, decidere, cancellare, giudicare nulla. Mediante un dia-
logo collaborativo Freud si rese conto che non serviva interpretare direttamente l’inconscio per ren-
derlo conscio, perché se è stato rimosso c’è un motivo e va indagato quello, ed è ingenuo pensare
che basti rivelarlo.
Per cui la psicoanalisi divenne presto analisi delle difese partendo dalla superficie arrivando alla
profondità nel tentativo di renderle più mature e adattive. Inizialmente le associazioni libere sem-
bravano quindi utili all’inizio dell’analisi, ora si può dire il contrario, e cioè che quando il paziente
riesce a fare ciò ha cambiato il suo funzionamento psicologico, e quindi l’analisi è terminata.

Freud paragona la psicoanalisi al gioco degli scacchi perchè anche nella psicoanalisi tutto ciò che si
può prevedere sono le mosse di apertura e di chiusura e mai quelle intermedie.
Problematico è il concetto di programmazione perché in termini analitici la pianificazione in anti-
cipo di un progetto potrebbe essere considerata difensiva rispetto al corso della terapia e quindi
vengono privilegiate parole come scoperta e sorpresa.
Bisogna però adattare la tecnica del paziente seguendo una teoria generale e comprensiva che riesce
a rendere conto in modo coerente della causa o della terapia di tutti i disturbi mentali, e questa è la
sfida di ogni scuola psicoterapeutica.
Blagys e Hilsenroth propongono le sette caratteristiche della terapia psicodinamica:
1. Focalizzazione sugli affetti ed emozioni
2. Esplorazione dei tentativi tesi ad evitare pensieri e sentimenti disturbanti
3. Identificazione di temi e modalità ricorrenti (transfert)
4. Discussione di esperienze passate
5. Focalizzazione su rapporti interpersonali
6. Esplorazione di desideri e fantasie
7. Analisi della relazione terapeutica

La relazione terapeutica gioca un ruolo centrale nella terapia psicodinamica e il concetto chiave qui
è quello del transfert. Con questo termine si si intende ogni tipo di reazione sia positiva, che nega-
tiva. In particolare, allude alla possibilità che il paziente trasferisca nel presente comportamenti che
derivano dal passato, c’è una distorsione nel presente di tali vissuti e motivazioni e questi compor-
tamenti sono in qualche modo disfunzionali. Un momento cruciale della terapia è quando il terapeu-
ta fa riflettere il paziente sul fatto che le sue modalità dipendono da esperienze passate ed aspettati-
ve più che dal suo comportamento. Il transfert è un esempio di coazione a ripetere tipica degli orga-
nismi viventi e un esempio di costruttivismo: il passato influenza anche la percezione del presente
deformandolo sulla base delle aspettative frutto d’esperienze passate.
Si può intendere anche il trasporto verso il terapeuta, in generale ogni emozione positiva o negativa
che suscita nel paziente; il controtransfert, fornisce ulteriori informazioni sul paziente e ci permet-
tono di conoscerlo meglio. Ciò che caratterizza la terapia dinamica è proprio l’analisi di queste rela-
zioni transferali.

190
Riassunti di Silvia Varro

Tradizionalmente due sono i fattori curativi in psicoanalisi:


1. Comprensione intellettuale o cognitiva. Fattore cognitivo.
2. Relazione emozionale con l’analista (transfert positivo), fattore emotivo/di comprensione o at-
taccamento.
La comprensione risulta fondamentale. Freud ripete più volte in questo caso l’importanza dei fatto-
ri cognitivi come l’interpretazione, la spiegazione, l’educazione. Si può dire che il fattore curativo
per eccellenza della psicoanalisi sia l’interpretazione che appartiene a questo primo gruppo di fat-
tori.
Questa tendenza a sottolineare l’importanza della comprensione emerge ancora di più quando si
parla di relazione emozionale, poiché Freud non ha mai minimizzato l’importanza
dell’attaccamento, del legame affettivo tra paziente e analista, sottolineando l’importanza della na-
scita di una nuova fonte di forza che deriverebbe dal rapporto stesso.
I due principali fattori curativi sono quindi l’interpretazione e l’attaccamento, due fattori terapeutici
principalmente responsabili dell’esito della terapia, uno cognitivo ed uno affettivo.

Una paziente richiede la terapia perché è angosciata e depressa a causa di una dolorosa separazione
da un uomo alla quale lei era molto legata e il tacito accordo era che lei parlasse di questa relazione
e del modo in cui era finita, per poterla elaborare terapeuticamente.
A causa della relativa facilità di questo caso clinico, l’analisi non durò a lungo ma solo due anni e
mezzo di sedute settimanali e, volendo descrivere questo caso in termini psicoanalitici, a causa di
un rapporto difficile con il padre la paziente aveva sviluppato un particolare transfert che aveva ri-
petuto più volte nella vita come una coazione a ripetere perché si può dire che il padre aveva impa-
rato che lei fosse una persona che non meritava amore. Questa idea, che i terapeuti cognitivi chia-
mano credenza patogena e che gli psicoanalisti chiamano transfert, l’aveva accompagnata per tut-
ta la vita e mentre consciamente cercava di essere felice e di trovare una persona giusta, le fantasie
che guidavano la sua vita facevano in modo che capitasse sempre con uomini sbagliati. “Chi non ri-
corda il proprio passato è condannato a ripeterlo”: grazie alla terapia e al rapporto di fiducia col te-
rapeuta, la paziente è diventata più consapevole di queste dinamiche.

Infiniti dibattiti sul modello ideale di training. Tre sono i pilastri:


1. Supervisione: tutti concordano sulla sua utilità, importante non avere un unico supervisore ed
essere esposti a diversi modelli di lavoro, cercando di sentirci ogni volta a nostro agio.
2. Apprendimento teorico: è ovviamente importante conoscere la teoria, ma si è notato che ci
possono essere molti terapeuti poco preparati a livello teorico ma molto bravi in casi clinici e
viceversa.
3. Analisi personale: è complessa perché ha molte contraddizioni, si ritiene utili che lo studente
faccia un’esperienza personale, studi la teoria ma è altrettanto importante sapere che chi crede
che un diploma scolastico possa rappresentare il traguardo finale della sua formazione non ha
assolutamente capito nulla della psicoanalisi.

191
Riassunti di Silvia Varro

Capitolo 3

La terapia cognitivo-comportamentale (TCC) nasce dalla fusione di due modelli teorici e clinici:
1. Il comportamentismo e la terapia comportamentale da esso derivata.
Questi hanno come antecedenti filosofici:
a) Empirismo (la genesi e l’evoluzione dei processi psicologici di base dipendono
dall’ambiente);
b) Positivismo (l’insistenza su ciò che è osservabile, registrabile e quantificabile);
c) Evoluzionismo (la possibilità di generalizzare leggi comportamentali da una specie all’altra e
l’attenzione ai legami dinamici uomo-ambiente;
d) Materialismo (la predilezione per concettualizzazioni della vita mentale fondate su aspetti
materiali e non mentalistici/metafisici);
e) Pragmatismo (il desiderio di produrre tecnologie in grado di modificare l’ambiente nelle sue
componenti).
2. Il cognitivismo e la terapia cognitiva associata. Questi hanno come modelli filosofici molto
antichi nello stoico Epitteto: “gli uomini non sono disturbati dalle cose, ma dalla visione che
hanno di essi”.
Kant fece una distinzione fondamentale per il cognitivismo tra noumeno (cosa in sé inconoscibile
agli uomini) e fenomeno (ciò che noi possiamo conoscere del noumeno). Si basa sul presupposto
che la cosa fondamentale è l’interpretazione (appraisal) che ciascuno di noi dà alle cose, le strut-
ture concettuale filtrano le informazioni della realtà.
Dunque il modello di uomo basa il suo essere sull’interazione fra le proprie esperienze di vita trami-
te l’apprendimento e la conoscenza e l’interpretazione che viene loro data mediante le strutture co-
noscitive che ha elaborato nel corso dell’esistenza, e quindi l’uomo è sempre visto in una posizione
attiva e costruttiva rispetto al proprio ambiente.

Storicamente la TCC può essere suddivisa in tre generazioni:


1. La prima, quella della vera e propria teoria comportamentale, era una ribellione delle conce-
zioni cliniche prevalenti, poiché i primi terapeuti erano fissati nello sviluppo di trattamenti su
principi scientifici chiari, mentre i concetti del comportamentismo si focalizzano su comporta-
menti problematici manifestati, al fine di ridurre la gravità applicando tecniche derivate dalla
teoria dell’apprendimento. Il comportamento disturbato è il risultato di un apprendimento disa-
dattivo.
2. Negli anni Sessanta ci fu un cambiamento dei metodi cognitivi e con esso ebbe vita la seconda
generazione TCC per la quale la persona è prima di tutto un essere pensante in grado di orga-
nizzare il proprio comportamento e di modificarlo a seconda delle circostanze, ma a causa di la-
cune e di qualche errore cognitivo, si decise poi di integrare le due teorie e così nacque
l’etichetta della terapia cognitivo-comportamentale.
3. Hayes ha descritto l’emergere di una terza generazione all’interno delle psicoterapie cognitivo
comportamentali che comprende la terapia dell’accettazione e dell’impegno, quella dialettica
comportamentale analitica funzionale, la terapia comportamentale integrata di coppia e la cogni-
tiva.
Si basa sui principi classici della TCC ma differisce per alcuni aspetti, propongono enfasi sulle stra-
tegie di cambiamento e mettono il focus alla riduzione della sintomatologia – empowerment del re-

192
Riassunti di Silvia Varro

pertorio comportamentale. Anche se la terza generazione non è condivisa da tutti, queste forme di
psicoterapia potranno apportare contributi innovativi sia nella teoria che nella pratica della TCC.
Nella realtà italiana la TCC si caratterizza in due associazioni scientifiche, la SITCC (nasce nel
1972 basata sul versante cognitivo) e l’AIAMC (nasce nel 1977 e si basa sullo stile cognitivo-
comportamentale in senso classico).

Lo scopo è quello di individuare la radice dell’apprendimento e delle credenze negative al fine di


modificare le distorsioni e le emozioni legate; l’intervento è mirato sia a cambiamenti cognitivi che
affettivi. Il modello clinico della TCC unisce in sé i presupposti della tradizione comportamentista e
quella cognitiva e quindi vengono presi in considerazione tre grandi ambiti su cui si basano la valu-
tazione e il trattamento:
COMPORTAMENTALE: i comportamenti possono essere la conseguenza di apprendimenti disa-
dattivi o di mancati apprendimenti, che andranno via via individuati nelle esperienze di vita del pa-
ziente.
EMOTIVO: le emozioni che caratterizzano il quadro clinico sono considerate il risultato di due
processi (1) apprendimenti associativi (legati al condizionamento classico o pavloviano) per cui
determinate risposte emotive sono state legate, associate, a specifici stimoli e quindi si ripresentano
automaticamente quando ci si trova in presenza di tali stimoli, come ad esempio nelle fobie specifi-
che; (2) interpretazioni cognitive, mediante cui determinati stimoli-situazioni vengono interpretati
dal soggetto in base alla struttura cognitiva e quindi originano specifiche emozioni congruenti con
tale interpretazioni. Ad esempio, se io vedo che qualcuno per strada mi guarda e sorride, posso in-
terpretare ciò come atto di derisione e quindi provare rabbia e risentimento. Emozioni che inizial-
mente sono frutto di interpretazioni cognitive possono col tempo condizionarsi alla situazione e
quindi sono attivate automaticamente: per esempio, posso provare rabbia per la strada tutte le volte
che qualcuno mi guarda, anche se non sorride, e potrei non capire il perché ciò mi succeda.
COGNITIVO: la TCC si concentra su tre livelli di pensiero del paziente:
(1) Pensieri automatici negativi: si riferiscono allo svolgersi di un comportamento in senso cata-
strofizzante e svalutativo (es.: “Non riuscirò mai a finire in tempo questo lavoro. Cosa potrò fare?
Perderò il lavoro se continuo così!). Possono essere coscienti ma anche non esserlo; sono comunque
consapevolizzabili se il soggetto riesce a prestarvi sufficiente attenzione con un adeguato allena-
mento.
(2) Assunzioni, credenze o convinzioni (assumptions e beliefs sono sinonimi): rappresentano rego-
le tacite (cioè non sempre consapevoli) che si ipotizza facciano sorgere i pensieri automatici. Gran
parte di tali credenze si manifestano come affermazioni condizionali del tipo “se-allora”. I pazienti
non necessariamente hanno chiaro in mente il contenuto di tali credenze, ma sembrano essere alla
base di molte reazioni, esprimendosi nei loro pensieri automatici, nelle azioni e nei comportamenti
(es.: “Devo avere successo in tutto ciò che faccio per potermi amare”, “Se fallisco, gli altri mi puni-
ranno”, “Sono una persona brava solo nella misura in cui sono competente”). Il paziente manterrà
una visione critica di sé a meno che non vengano soddisfatte tali condizioni, come l’avere successo
in un compito e quindi mantenere l’approvazione degli altri.
(3) Schemi cognitivi: interpretati come credenze latenti del nucleo centrale e in questo caso definite
in base al loro contenuto, come per esempio “Io sono una persona cattiva” o “Non ci si può fidare di
nessuno”. Gli schemi sono quindi le regole base che una persona utilizza per organizzare le proprie
percezioni del mondo, del sé e del futuro e per adattarsi alle sfide della vita. Vengono considerati
materiali del nucleo centrale per i seguenti motivi:
- Sono assoluti e non condizionali.
- Danno origine ad altre convinzioni di livello superiore.
- È difficile avere accesso ad esse durante il trattamento e valutarle, in quanto sono inconsce e
difficilmente verbalizzabili.

193
Riassunti di Silvia Varro

Tali schemi non sono di per sé né positivi né negativi, ma vanno interpretati in termini della loro
capacità di adattarsi alle esperienze della vita; possono essere sia attivi sia latenti, a seconda che i
soggetti debbano affrontare o meno le situazioni di vita che attivano le loro individuali aree di vul-
nerabilità. I pazienti si impegnano a mantenere latenti alcuni propri schemi, allo scopo di non desta-
re (stimolare, svegliare) le proprie paure. Così, persone con schemi di incompetenza accertano o ri-
cercano lavori troppo facili per loro al fine di evitare le sfide; altre che temono di perdersi in rappor-
ti personali intimi, rifuggono le relazioni romantiche. Ma ciò a lungo termine fa perdere loro delle
occasioni per una migliore qualità di vita.
Un’altra dimensione degli schemi è quella di essere pervasivi (si attivano in un’ampia gamma di
situazioni) o discreti (si attivano solo in alcune situazioni).
Per la psicoterapia cognitiva sono particolarmente rilevanti due categorie di schemi:
1. Self-Schermata (SS, Schemi di Sé): determinano i nostri atteggiamenti verso noi stessi e il no-
stro ambiente. Mediante il ricordo delle diverse esperienze, e il loro confronto, si sviluppa un Io
più globale che procura una maggiore sensazione di stabilità personale e di continuità. Esso
permette, specie nell’adolescenza, l’integrazione delle reazioni emotive con le differenti situa-
zioni incrociate in un lungo periodo. La perturbazione di questo processo potrebbe essere re-
sponsabile di una autonomatizzazione di alcuni ss, i quali potrebbero imporre pensieri intrusivi
nel corso di stati di forte attivazione affettiva.
2. Schemi interpersonali (SI): consistono in una schematizzazione mentale delle caratteristiche
relative a sé e agli altri e in una sorta di scenario di ciò che ciascuno può fare all’altro in una se-
quenza di interazioni (desiderio del Sé-risposta attesa dell’altro-reazione del sé). Contengono le
regole che si applicano alle condotte interpersonali e si sviluppano probabilmente nelle prime
fasi dello sviluppo infantile.
L’organizzazione del sé dipende dallo sviluppo degli SI e dall’intreccio degli SS con questi, SS e SI
sono posti gerarchicamente in alto nell’organizzazione psichica, occupandovi una posizione centra-
le e coordinando numerosi schemi subordinati.
Gli schemi possono essere modificati dall’informazione in entrata e venire rinnovati, eccettuati
quelli consolidati precocemente durante l’infanzia, i quali risultano più persistenti e tendenti ad in-
fluenzare le nuove costruzioni mentali. Gli SS hanno quindi la capacità di ignorare selettivamente
tutte le informazioni non congruenti con l’immagine di sé mantenendosi mediante una selezione
dell’informazioni, che costituisce le cosiddette distorsioni cognitive.
Un bias cognitivo o distorsione sistematica è una tendenza esagerata dell’apparato psichico a ela-
borare di preferenza certi tipi di informazione rispetto ad altri o in un certo modo piuttosto che in un
altro. Essi in genere:
• Sono connaturati al funzionamento dello psichico normale, sono cioè congeniti;
• Non sono specifici di una patologia e si distribuiscono lungo un continuum dal
normale al patologico (a seconda della frequenza e della rigidità maggiori o
minori con cui sono usati);
• Sono più facilmente attivati nelle situazioni di tensione o d’incertezza, quando
le capacità di elaborazione dell’informazione sono disorganizzate.

Nella tabella che segue sono riportate le principali distorsioni cognitive:


Personalizzazione Tendenza ad attribuire tutto a se stessi
Pensiero polarizzato o dicotomico Vedere tutto in bianco/nero e non vedere le sfumature
Astrazione selettiva Astrarre un dettaglio dal contesto senza porlo in relazione
con tutto
Inferenza arbitraria Giungere a una conclusione da dati insufficienti o inadatti
Ipergeneralizzazione Da un singolo elemento astrarre una regola generale

194
Riassunti di Silvia Varro

In una situazione che porta all’attivazione del sistema degli schemi, si attua, quindi, il processo co-
gnitivo a partire da uno stimolo dato: attivazione di uno schema disfunzionale, percezione e inter-
pretazione della situazione mediante le distorsioni cognitive associate a quel dato schema, infine
produzione dei pensieri automatici, con le emozioni ad essi connesse.
Scopo della TCC è individuare e definire questa sequenza di eventi, allo scopo di modificare i pen-
sieri negativi, le distorsioni cognitive e se possibile gli schemi cognitivi di base, che inducono i
comportamenti, i pensieri e le emozioni alla base del disturbo lamentato dal paziente. L’intervento è
mirato anche ai cambiamenti comportamentali e affettivi, con procedure specifiche per ciascuno di
tali livelli.

Una persona, in base alle esperienze di vita precoci e successive, elabora tutta una serie di schemi di
sé e interpersonali positivi e negativi e apprende a emettere in determinate circostanze dei compor-
tamenti che sono stati utili ad affrontarle oppure sono serviti a ridurre delle emozioni negative (e
quindi sono stati consolidati e appresi in questo caso per rinforzo negativo).
Per esempio, ripetute malattie infantili, una madre iperprotettiva o eccessivamente preoccupata per
la propria salute modella simili preoccupazioni nel figlio, il quale metterà maggiormente in atto i
comportamenti cura e attenzione alla propria salute precedentemente appresi come conseguenza
dell’attivazione di uno schema di fragilità personale (es. evitare sforzi, monitorare eventuali sintomi
corporei, farsi controllare da un medico). A breve termine tali condotte sono rinforzate
dall’abbassamento dell’ansia, a lungo termine hanno conseguenze negative:
- Livello comportamentale: tali comportamenti protettivi vengono rinforzati e quindi divengono
sempre più frequenti;
- Livello affettivo: le emozioni di ansia e preoccupazione per la propria salute perdurano;
- Livello cognitivo: vengono confermati lo schema di fragilità (se prendo tali precauzioni, vuol
dire che sono davvero fragile) e le convinzioni relative alla necessità e utilità delle precauzioni;
ciò porta a pensieri automatici negativi riguardanti la propria salute e la possibilità di essere ma-
lati.
In tal modo si origina un disturbo ipocondriaco, rispetto al quale possiamo distinguere:
• Fattori predisponenti o di vulnerabilità: vicende di vita e schemi e convinzioni cognitive;
• Fattori partecipanti o innescanti: grave malattia dell’amico;
• Fattori perpetuanti o di mantenimento: comportamenti protettivi circa la propria salute, che
autorinforzano e confermano schemi e convinzioni cognitive.
Possono essere contemporaneamente attivabili anche più schemi. Per esempio, nel caso di un di-
sturbo borderline di personalità, sono particolarmente attivabili schemi di sé di non amabilità per-
sonale e schemi interpersonali di sfiducia nei confronti degli altri, per cui queste persone cercano
disperatamente altri che diano segnali d’interesse e approvazione nei propri confronti.

L’assessment o valutazione cognitivo-comportamentale è tradizionalmente


mirato ai tre ambiti sopra descritti: comportamentale, affettivo-emotivo
e cognitivo. Ciò avviene tramite l’ABC comportamentale, il quale ana-
lizza:
A. per Antecedenti, cioè la situazione in cui viene attivato un certo
comportamento problematico: per esempio trovarsi fuori di casa o
da un luogo ritenuto sicuro, in caso di agorafobia.
B. per Behaviour, cioè Comportamento, l’insieme di azioni
che cercano il problema: ritorno subito a casa e fuggo la si-
tuazione A, nel caso precedente.

195
Riassunti di Silvia Varro

C. per Conseguenze, cioè tutto ciò che segue al comportamento e che lo rinforza, mantenendolo
nel tempo: quando torno a casa, l’ansia scende e mi rassereno e quindi, per rinforzo negativo, il
mio comportamento di fuga si manterrà sempre più, consolidando la mia agorafobia.

L’ABC cognitivo valuta:


A. per Antecedenti, cioè la situazione in cui si manifesta una certa convinzione o belief: per esem-
pio essere a un congresso e dover fare una relazione dinanzi al pubblico.
B. per Belief, cioè Convinzione, l’insieme di regole più o meno consapevoli
che impostano il mio comportamento in tale situazione: per esempio
“un bravo relatore a un congresso deve concentrare su di sé
l’attenzione di tutto l’uditorio”, “la mia voce non deve tradire ansia
o preoccupazione, altrimenti apparirò insicuro”; come si nota sono
convinzioni rigide e con elevati standard, che sono le due caratteri-
stiche tipiche delle convinzioni che creano problemi.
C. per Conseguenze, cioè tutto ciò che segue ai pensieri di B:
ansia elevata al pensiero di dover fare la relazione, molto
probabile rinuncia alla partecipazione al congresso e conse-
guenti pensieri autosvalutanti. Ciò può portare a una fobia specifica per
il parlare in pubblico.
I due ABC permettono di individuare alcuni degli elementi fondamentali per programmare
l’intervento:
- Analisi funzionale: permette di chiarire i processi di rinforzo che mantengono determinati
comportamenti disadattivi;
- Alcuni dei contenuti cognitivi alla base del disturbo, pensieri automatici negativi e convin-
zioni, che successivamente potranno portare a enucleare54 gli schemi cognitivi coinvolti nella
loro generazione.
Si possono inoltre somministrare al paziente anche test psicologici e psicopatologici standardizzati
e ben validati, che contribuiscono a confermare la diagnosi e permettono una quantificazione dei
sintomi, anche a scopo di valutazione del successo e dell’efficacia del trattamento.

Dopo la valutazione approfondita del caso del paziente (assessment) si fa una seduta di concettua-
lizzazione, in cui viene presentata al paziente la diagnosi, un modello eziopatologico del disturbo in
cui sono esplicati i fattori predisponenti e perpetuanti, e infine si propone un progetto d’intervento.
Si può fare una previsione di durata del trattamento (di solito, escludendo i disturbi di personalità
che richiedono più tempo, dieci mesi più o meno due), e si specifica che l’intervento richiederà in
media una seduta alla settimana, di durata di un’ora.
Solitamente il setting è lo studio del terapeuta, ma sono talvolta frequenti sedute in ambienti
esterni, naturali, per esempio nel caso di esposizioni graduate o di training che devono necessaria-
mente avvenire in altre situazioni. In certi casi, come nel disturbo ossessivo-compulsivo grave, è il
terapeuta che può recarsi a domicilio dal paziente; tale forma di intervento risulta particolarmente
efficace in questi casi.

L’intervento terapeutico segue il progetto proposto in sede di concettualizzazione, ma si possono


eseguire cambiamenti e aggiustamenti che lo migliorano e lo rendono più adeguato. L’intervento
non è mai qualcosa di rigido e pre-programmato, ma sempre adeguato al caso del singolo paziente e
all’andamento della terapia nel suo procedere. Sono importanti i colloqui che vengono condotti in

54
Individuare, focalizzare

196
Riassunti di Silvia Varro

terapia, ma anche gli esercizi che possono essere svolti insieme al terapeuta (nello studio e fuori),
ma soprattutto “a casa”, cioè gli esercizi che di settimana in settimana vengono assegnati al paziente
affinchè li esegua da solo, in modo graduato (talvolta col sostegno iniziale del terapeuta prima in
studio appunto e poi tramite contatto telefonico).

Dopo la fondamentale seduta di concettualizzazione, si possono individuare le seguenti fasi in cia-


scuna seduta:
• Inchiesta sullo stato attuale e sugli avvenimenti di rilievo accaduti al paziente nel tempo trascor-
so dalla seduta precedente (temi da discutere?)
• Riassunto da parte del paziente di ciò che si è discusso nella seduta precedente e delle conclu-
sioni cui si è giunti
• Rassegna dei compiti a casa (omissioni? difficoltà?)
• Accordo sull’agenda della seduta attuale
• Aderenza al tema/i stipulato/i
• Riassunto della seduta attuale (conclusioni?)
• Assegnazione dei compiti a casa
• Inchiesta su come il paziente ha vissuto la seduta
Prima della fine del trattamento si programmano una-due sedute di controllo (booster sessions,
cioè sedute che servono a dare ulteriore impulso) a qualche mese di distanza al fine di permettere al
paziente di sperimentare in proprio nella pratica e per un certo tempo il nuovo insight acquisito du-
rante la terapia, nonché poter tornare dal terapeuta se difficoltà impreviste dovessero insorgere.

La TCC comporta varie procedure, di natura comportamentale o cognitiva, che vengono utilizzate
in funzione della situazione specifica del paziente.

1. Attività graduate: si tratta di concordare col paziente, soprattutto nei disturbi dell’umore, di
impegnarsi giornalmente in attività per periodi sempre più lunghi e più coinvolgenti.
2. Programmazione delle attività: di solito associata alla precedente procedura, consiste
nell’organizzare per ogni giorno della settimana una serie di attività, graduate per durata e com-
plessità, che il soggetto accetterà di compiere indipendentemente dal fatto che ne abbia voglia o
ne tragga piacere, al fine di ridurre l’inattività tipica della depressione o delle alterazioni
dell’umore.
3. Training di rilassamento e di respirazione: particolarmente utile nei casi dei disturbi d’ansia e
di panico, permette al soggetto di acquisire maggiore controllo sulle proprie risposte di attiva-
zione fisiologica.
4. Controllo dello stimolo: organizzare il proprio ambiente in modo da eliminare stimoli, oggetti
o altro facilitanti l’emissione di comportamenti problematici (per esempio nei disturbi alimenta-
ri o nelle dipendenze).
5. Esposizione graduata: nei casi di fobia o in cui vi sono evidenti comportamenti di evitamento,
si tratta di fare affrontare ai soggetti in modo molto graduare le situazioni temute, al fine di pro-
durre l’estinzione delle risposte emotive eccessive loro associate. Nel caso di DOC, viene asso-
ciata alla “prevenzione o dilazione della risposta”, la quale mira a eliminare poco a poco i com-
portamenti di tipo compulsivo che il paziente mette in atto allo scopo di rassicurarsi.
6. Training di abilità specifiche: come per esempio quello di competenza sociale, per pazienti
con problematiche interpersonali, o quello di gestione della rabbia, per soggetti inclini a com-
portamenti aggressivi.

197
Riassunti di Silvia Varro

Elicitare i pensieri automatici:


1. Domande dirette: si interroga il paziente allo scopo di appurare quali pensieri negativi si pre-
sentino nelle situazioni problematiche; tale fine può essere facilitato tramite un processo di sco-
perta guidata in base a domande induttive o approfittando di momenti di forte emozione o au-
menti di tensione fisica in cui si può chiedere al paziente “cosa gli passa per la mente” in quel
momento.
2. Accertare il significato degli eventi: è fondamentale comprendere il significato che un dato
evento ha per il paziente, l’interpretazione che ne viene data; è clinicamente diverso se un osses-
sivo-compulsivo teme di contaminarsi col proprio sperma perché, essendo omosessuale e omo-
fobico, lo considera disgustoso moralmente oppure in quanto teme di potere con esso indurre
gravidanze indesiderate.
3. Impegnarsi in compiti comportamentali e registrare i pensieri che li accompagnano.
4. Tenere un diario dei cambiamenti di umore e dei pensieri automatici concomitanti, impiegando
delle schede di registrazione dei pensieri disfunzionali.

Modificare i pensieri automatici:


1. Esaminare le prove a favore e contro ciascun pensiero automatico negativo.
2. Sostituire con le interpretazioni alternative (più ragionevoli e realistiche) i pensieri automati-
ci negativi.
3. Stabilire le probabilità realistiche di ogni interpretazione.
4. Raccogliere informazioni, mediante esperimenti comportamentali (affrontando ad esempio una
situazione temuta senza le solite precauzioni, al fine di rendersi conto che non accade nulla di
disastroso) o raccogliendo i pareri di un campione di persone per confrontarli con i propri.
5. Decentrarsi o distanziarsi dalle interpretazioni: considerarle solo un modo possibile di vede-
re una situazione e non un dato di fatto (l’unico reale).
6. Ridefinire i termini impiegati: per esempio non dire “sono uno stupido” ma “ho fatto un com-
portamento stupido”.
7. Riattribuzione: individuare eventuali distorsioni sistematiche di attribuzione, come quello di
attribuire gli insuccessi a sé e i successi agli altri o al caso.

Identificare gli schemi di base o assunzioni tacite:


1. Estrapolare regole generali da esempi specifici tratte dalle schede di registrazione o cercare di
individuare in esse i temi comuni.
2. Identificare le regole personali espresse nei “Devo” o “Dovrei” espressi dal paziente; tali re-
gole sono le convinzioni, per esempio “per essere una persona amabile, devo ricevere chiari se-
gni di approvazione da tutti” (standard eccessivo).
3. Ottenere le implicazioni logiche dei pensieri automatici con la tecnica della freccia discen-
dente: si parte immaginando che ciò che il paziente teme sia vero (“il mio amico ha fatto dire al
telefono che non era in casa sua”) e gli si chiede cosa questo fatto pos-
sa significare per lui (“non mi vuole parlare”) e si continua chiedendo
cosa ciò significhi per lui (“non gli piace parlare con me”) fino a che
non si arriva a individuare lo schema cognitivo alla base delle inter-
pretazioni (“non mi vuole bene e quindi io non sono amabile”; in
questo caso si tratta di uno schema di sé di non amabilità).

Modificare gli schemi e le convinzioni di base:


1. Soppesare i vantaggi e gli svantaggi di mantenere la convinzione, al fine di dimostrare che vi
sono più vantaggi che svantaggi.

198
Riassunti di Silvia Varro

2. Esaminare le prove a favore e contro la convinzione, sempre allo scopo di evidenziare che le
prove non sono molto solide.
3. Confrontarsi con ogni argomentazione nell’esercizio della freccia discendente, in modo tale
da dimostrare che ogni successiva interpretazione è alterata di distorsioni sistematiche.
4. Valutare l’utilità a breve e a lungo termine della regola personale: di solito i comportamenti
emessi dal paziente per soddisfare le sue regole hanno risultati positivi a breve termine (abbas-
sano l’ansia) ma negativi a lungo termine (amplificano l’ansia e abbassano la sua qualità di vi-
ta).
5. Prova di realtà: valutare le conseguenze del disubbidire alla regola (prevenzione della rispo-
sta), cioè astenersi dal prendere le precauzioni rassicuranti e vedere cosa succede (ad esempio,
“non mi lavo le mani dopo avere toccato qualcosa che mi sembra sporco”).
6. Tecniche di accettazione e mindfulness: comportano la consapevolezza e l’accettazione in-
condizionata delle proprie esperienze interne, così come sono sperimentate nell’hic et nunc55.
L’accettazione è un processo che permette di provare le esperienze interne (sensazioni corporee,
pensieri, emozioni indesiderate) senza agire per ridurre o manipolare le stesse.

Una prima concettualizzazione della relazione terapeutica prende in considerazione il concetto di


empiricismo collaborativo, descritto da A.T. Beck, che sostiene che terapeuta e paziente somiglia-
no a due ricercatori (uno senior, il terapeuta che conosce il metodo, e uno junior, il paziente cui è
ben noto il problema) che tendono alla soluzione del problema del paziente, formulando degli as-
sunti e verificando l’attendibilità prima di accettarli o respingerli.
L’altro concetto è quello di base sicura formulato da Bowlby: il terapeuta deve saper creare una
condizione di sicurezza per il paziente, affinchè questi esplori i modelli operativi che ha costruito
nelle proprie relazioni con l’ambiente (teoria dell’attaccamento) nonché gli aspetti più problematici
della propria vita sapendo che alle spalle c’è sempre qualcuno di cui può fidarsi e su cui può ripie-
gare per ottenere sostegno, incoraggiamento, e, se necessario, una guida.
Come si può fare per fornire una base sicura?
- Considerare il paziente come un “unico”, accettarlo genuinamente così com’è (accettazione
senza riserve)
- Stimolare l’esplorazione e quindi facilitare l’apprendimento, per portare a un grado più ele-
vato di autonomia. In caso di difficoltà di esplorazione essere flessibili, empatizzare, “saper fare
da specchio” (mirroring) è di particolare importanza per aiutare il paziente a sviluppare un sen-
so positivo di sé.
- Porre dei limiti precisi; soprattutto con i pazienti borderline, è importante una struttura ben so-
lida e limiti esplicitamente definiti.

La TCC non si prefigge il fine di controllare o eliminare i sintomi o semplicemente modificare i


comportamenti problematici, mira bensì a rendere il paziente meno vulnerabile all’impatto degli
avvenimenti stressogeni e quindi ni grado di poter vivere la propria vita con minore rischio di futu-
re reazioni psicopatologiche. Ha dunque un orientamento verso il futuro, sebbene non si trascuri
un’eventuale ricostruzione del passato.

55
La locuzione latina hic et nunc, tradotta letteralmente, significa «qui e ora, adesso». Tale locuzione è adoperata come
espressione della filosofia esistenzialista, per la quale l'uomo è considerato nella fragilità della sua condizione finita. In
particolare l'espressione è usata in Essere e tempo da Martin Heidegger, che afferma come la nostra soggettività non fa
riferimento all'Essere come principio metafisico ma riguarda sempre l'hic et nunc in cui agiamo, cioè il nostro esistere
nello spazio e nel tempo, e il Dasein ("esser-ci"), sempre connesso alla temporalità, laddove però il "ci" non sta a indi-
care una mera localizzazione spaziale, ma qualcosa di più ambiguo e complesso, ovvero il modo in cui concretamente
(fenomenologicamente) l'Essere si dà nella storia, ad es. nell'esistenza dell'uomo.

199
Riassunti di Silvia Varro

Relativamente al cambiamento terapeutico acquisisce importanza il concetto di competenza, che


può essere definita nelle sue componenti:
• Modificazione degli schemi cognitivi disfunzionali, nel senso di rendere meno attivabili quelli
negativi e nel contempo più stabile e durevole l’attivazione di quelli positivi.
• Acquisizione di abilità (sociali, di autocontrollo, di autoregolazione, di problem-solving ecc.)
importanti per aumentare l’autonomia, il benessere e la qualità di vita del paziente.
• Ampliamento e consolidamento di una concezione funzionale delle proprie emozioni, così
da permettere al paziente non solo di riconoscerle e definirle, ma anche di accettarle e accoglier-
le, rendendosi conto della loro fondamentale utilità per la sopravvivenza.
• Apprendimento di abilità di prevenzione della ricaduta (aspetto fondamentale al termine
della terapia) mirate a permettere al soggetto di riconoscere eventuali primi segnali di ricompar-
sa sintomatica così da mettere in atto le strategie più utili a scopo preventivo.
• Promozione di una visione realistica del futuro.

Caso complesso di abuso in età evolutiva


Laura al momento del trattamento aveva 12 anni, ma l’abuso, ad opera del padre, era avvenuto
per circa un anno a partire dai 10 anni della bambina. La vittimizzazione sessuale di Laura, e del-
la sorella maggiore quattordicenne, avveniva in casa, durante le assenze della madre per motivi
lavorativi, ma talora anche nel letto matrimoniale, dove i genitori e le figlie spesso dormivano tut-
ti insieme. In quest’ultimo caso il padre svegliava a turno le figlie e, in silenzio, ne approfittava,
con pratiche penetrative condotte solo sulla maggiore, mentre con Laura si “limitava” a procedure
orali e di manipolazione. La madre non si era accorta di nulla; il racconto di tali fatti venne infatti
fatto da Laura e dalla sorella, educatori e assistenti sociali che seguivano il nucleo familiare pro-
blematico, cui seguì la denuncia e il processo con la condanna del padre.
L’esposizione del caso verrà divisa nei suoi aspetti e componenti fondamentali.

Il terapeuta deve mostrarsi affidabile, disponibile e capace di comprensione; è necessario che sap-
pia gestire eventuali acting out sessuali o aggressivi nei propri confronti. D’altro canto è importante
che si astenga dal concedere privilegi speciali, regali o favori ai minori trattati, perché spesso gli au-
tori della violenza sessuale hanno agito inizialmente proprio attraverso tali tecniche indirette.
La relazione terapeutica fu, fin dall’inizio, resa difficoltosa da uno stile ansioso-evitante di Laura,
che si mostrava diffidente e lontana: sedeva composta sulla sedia ben scostata dalla scrivania del te-
rapeuta, teneva gli occhi bassi e rispondeva a monosillabi. Sono state necessarie almeno cinque se-
dute per riuscire ad ottenere una collaborazione attiva e un certo interesse. Ciò è stato conseguito:
✓ Abbreviando la durata degli incontri;
✓ Introducendo vari giochi che si sapevano essere interessanti e amati dalla ragazzina, dispo-
nendoli alla sua portata e lasciandola liberamente interagire con essi;
✓ Adottando un atteggiamento non invasivo: il terapeuta non tentava di ottenerne l’attenzione a
tutti i costi, ma si limitava a cercare di giocare con alcuni giocattoli presenti, talvolta chiedendo
aiuto o ostentando ignoranza a proposito del loro corretto utilizzo.
Risulta importante chiarire subito, ove possibile, gli scopi del processo terapeutico (trovare un mo-
do per stare meglio dopo quanto accaduto), creare un’atmosfera di sicurezza e prevedibilità, in cui
il minore sappia che la seduta verrà condotta sempre secondo determinate procedure. Occorre inol-
tre fare attenzione al contatto fisico, riducendolo all’essenziale e rispettando i limiti posti dal giova-
ne paziente.

200
Riassunti di Silvia Varro

È utile esporre chiaramente quali sono i benefici che il minore può trarre dal parlare dell’abuso.
Scopo della terapia non è dimenticare l’abuso, ma imparare a dominare i sentimenti associati ad es-
so e pensare in modo diverso a quanto è accaduto. In ogni caso, il terapeuta deve assicurare al bam-
bino di essere consapevole delle emozioni negative che lui potrà provare, per cui procederà in modo
da non sottoporlo a stimolazioni eccessive. Ciò è importante sia come prova di comprensione da
parte del terapeuta, sia come mezzo per tranquillizzarlo relativamente al fatto che non si farà nulla
che gli risulti intollerabile. Inoltre, il terapeuta può consentire un controllo relativamente ampio al
minore circa la scelta dell’argomento collegato alla vittimizzazione sessuale da discutere.
Mentre il minore riferisce le sue esperienze, il terapeuta dovrebbe ascoltare senza intervenire, alme-
no all’inizio, ma semplicemente incoraggiando il bambino a proseguire. In un secondo momento,
può aiutare il bambino a ricordare maggiori particolari tramite l’uso di domande più specifiche e
chiuse, riguardanti i luoghi, il momento della giornata, il comportamento preciso dell’abusatore, le
sensazioni corporee ed emozionali del bambino, stando tuttavia attento che il minore le comprenda.
Il terapeuta è inoltre interessato a empatizzare col minore, legittimare tali sentimenti, affermando
che la maggior parte dei bambini abusati prova contenuti emotivi analoghi.

T. Hai provato qualche sensazione quando eri toccata sulla patatina (termine usato dalla ra-
gazzina per indicare la vulva)?
L. (con atteggiamento vergognoso e dopo alcune esitazioni) Beh, qualche volta provavo una
strana sensazione… piacevole nella… pancia. Non capisco com’è stato possibile.
T. Quando si tocca la patatina in quel modo, in genere si provano delle sensazioni piacevoli;
quella parte del corpo è formata in modo da produrre tale tipo di sensazione, se stimolata; que-
sto è normale. Anche se tu eri impaurita e non ti piaceva quanto stava accadendo, pure potevi
provare piacere. Altre bambine che sono state toccate così mi hanno riferito la stessa cosa.

In alcuni casi l’abuso induce nel minore la comparsa di fantasie a sfondo sessuale che possono
spaventarlo o fargli credere di essere deviante; anche in questo caso la cosa va normalizzata e spie-
gata, tranquillizzando sul fatto che non si tratta di presunte “perversioni”. In questi casi si opera una
ristrutturazione cognitiva di tipo informativo/educativo, cioè si forniscono al paziente informa-
zioni nuove o in contrasto con le sue convinzioni/conoscenze del momento, allo scopo di corregger-
le e di permettergli divedere le cose in un modo più adeguato, corrispondente alla realtà e meno in
grado di farlo soffrire.
Riguardo al comportamento di abuso, esso corrisponde a un copione, così come avviene per l’abuso
di donne adulte. L’abusante si assicura dapprima la fiducia della vittima, se si tratta di un genitore o
un parente stesso, il ruolo stesso lo pone in una posizione privilegiata, per cui il bambino è fiducio-
so nei suoi confronti. Questa è una delle ragioni per cui il bambino, accorgendosi dopo l’evento che
l’adulto in cui credeva lo ha portato a fare cose “proibite”, proverà molto forte il sentimento del
tradimento e dell’impotenza, proiettando anche sul futuro l’impossibilità di fidarsi, costruendo co-
sì uno schema interpersonale di sfiducia verso gli altri.
Fa parte del copione l’imposizione del segreto al bambino dopo l’abuso mediante minacce o sedu-
zione (“non devi tradire il nostro segreto”) e in base alle pressioni di tale segreto il bambino comin-
cia poco a poco a comprendere che quello che sta accadendo è qualcosa di negativo che non si do-
vrebbe fare. A questo punto si attiva un dilemma cognitivo di difficile soluzione: “Com’è possibile
che una persona che mi ama mi faccia queste cose cattive?”. Piuttosto che scegliere l’alternativa in-
sopportabile in base alla quale ciò significherebbe che l’abusatore non gli vuole bene o lo ama poco,
il minore opta per addossarsi la colpa della cattiva azione; diventa quindi il responsabile di tutto.
Da ciò consegue l’autoemarginazione dal gruppo dei compagni di scuola, la tristezza, il rancore e
l’ostilità verso gli adulti, senza una causa apparente e logica di tale comportamento. Per i bambini

201
Riassunti di Silvia Varro

ancora più piccoli c’è anche la difficoltà di contenere emozioni di segno opposto, risulta cioè dif-
ficile concepire l’aspetto negativo e l’aspetto positivo riferiti alla stessa persona.
La psicoterapia deve confrontarsi con tutti questi aspetti, affrontando in primo luogo il più difficile
dei processi: i meccanismi difensivi che il bambino mette in atto per la sopravvivenza psicologica,
che sono l’autocolpevolizzazione oppure l’ipervigilanza e l’ipercontrollo (per combattere il senso
di impotenza), la cancellazione del ricordo e la segregazione delle emozioni (sintomi post-
traumatici). Anche il modello Social Sharing (condivisione sociale) di Pennebaker offre elementi
efficaci per il superamento di eventi traumatici, comprendendo: disambiguazione di stati interni (ri-
conoscimento ed espressione delle emozioni con l’obiettivo di dare a queste un’etichetta più speci-
fica), articolazione ed elaborazione cognitiva dell’evento, ricostruzione del concetto di sé e della
stabilità delle credenze, ricerca ed accettazione del sostegno sociale e ripresa del contatto con
l’ambiente sociale.
Laura non riusciva a discriminare correttamente le sue emozioni: confondeva la tristezza con la rab-
bia e affermava genericamente di sentirsi bene o male, polarizzando e ipersemplificando la gam-
ma affettiva. Il terapeuta, nel momento in cui la ragazza raccontava un episodio della sua vita, le
domandava in modo esplicito quale sensazione stesse provando in quel momento, aiutandola a defi-
nirla e riconoscerla, dandole una corretta etichetta. Si è poi iniziato con semplici disegni di visi che
contenevano i tratti caratteristici delle emozioni di base (si può cominciare con gioia, paura, tristez-
za, disgusto e rabbia), per poi passare a fotografie ritagliate da riviste illustrate.

Il trauma irrompe le credenze positive: la vittima cerca con ogni sforzo di assimilare l’esperienza
traumatica alle precedenti assunzioni, o, più frequentemente, di cambiare le assunzioni perché esse
possano adattarsi all’esperienza traumatica. È così che il bambino comincia a pensare in termini di
“tutto va male… non ci si può fidare… avrò sempre paura… sono incapace e sporco”.
Edna Foa e Barbara Olasov Rothbaum (1998) hanno formulato la teoria del processo emotivo,
secondo cui la vittima di abuso sessuale sarebbe portata a sperimentare di nuovo i sentimenti di ter-
rore e di impotenza che, all’origine, ha provato durante l’abuso. Tale fenomeno può essere conside-
rato una riesperienza emotiva, la cui intensità diminuisce nel tempo, analogamente a quanto av-
viene nel processo del lutto per la perdita di una persona cara. Quando tale processo non si verifica
adeguamene, l’indice del mancato superamento del trauma è la persistenza o il ritorno di segni in-
trusivi di attività emotive come le ossessioni, gli incubi, le fobie, sintomi indicativi della presenza
di PTSD.
L’ansia patologica può essere spiegata mediante la teoria della bioinformazione di Lang, in cui
la paura è considerata come una struttura cognitiva che serva da programma per fuggire al pericolo;
ciò implica che, nella percezione del soggetto, stimoli e risposte siano pericolosi. La paura diventa
patologica quando è intensa oltre ogni misura e coinvolge numerosi elementi di risposta che resi-
stono al cambiamento. Il PTSD costituisce il rinnovarsi della memoria della paura con associazioni
e valutazioni errate per cui il mondo risulta costantemente pericoloso per il soggetto (“La strada per
andare a scuola è pericolosa… tutte le strade sono pericolose”).
Secondo Foa e Kozak, la tecnica terapeutica dell’esposizione graduata da un lato interrompe le
associazioni con stimoli non pertinenti (decondizionamento), dall’altro elabora una ristrutturazione
cognitiva correggendo in modo più realistico le valutazioni sbagliate e le convinzioni di base. Tale
processo richiede l’attivazione della paura attraverso la presentazione graduale degli stimoli perico-
losi e contemporaneamente di informazioni corrette che risultano incompatibili con gli elementi
psicologici della struttura della paura (mi espongo a ciò che temo e non mi succede nulla di male o
ciò che temevo). Il trauma deve essere sviluppato e metabolizzato per essere percepito meno dolo-
rosamente. Ancora Foa e Kozak individuano i processi mediante i quali avviene la riduzione dei
sintomi:
1. Trovarsi in una situazione sicura nel ricordare il trauma (ad esempio nel setting terapeutico);

202
Riassunti di Silvia Varro

2. Riconoscere che il richiamare il trauma non vuol dire riviverlo nella realtà;
3. Circoscrivere l’ansia attraverso il ricordo dei particolari del trauma, abbandonando le generaliz-
zazioni dei ricordi spiacevoli;
4. Sperimentare che non si perde il controllo;
5. Rendersi conto che, con una figura di sostegno, come il terapeuta, si può gradualmente vedere il
mondo in modo nuovo e riacquistare fiducia.
La tecnica terapeutica cognitivo-comportamentale specifica per affrontare questo tipo di problemi è
l’esposizione graduata. Foa e Rothbaum definiscono questo modello prima sulla base di stimoli
condizionati e dopo aver terminato questa fase si passa all’esposizione agli stimoli incondizionati
dell’abuso sessuale. L’esposizione graduata consiste nel presentare situazioni via via più ansiogene
al soggetto fino ad arrivare a quella massimizzante in grado di attivarne le paure più forti; ciò pro-
duce l’estinzione della reazione di ansia associata a stimoli post-traumatici permettendo al soggetto
di superare le paure.
Un altro modo per facilitare la gestione dell’ansia è il training auto-istruzionale elaborato da Mei-
chenbaum e Goodman, suddiviso in cinque fasi specifiche:
1. Un modello adulto esegue il compito problematico, parlando ad alta voce (modeling o model-
lamento cognitivo) e definendo così i passi istruzionali;
2. Il bambino esegue lo stesso compito, diretto dalle istruzioni del modello (esecuzione guidata
dall’esterno), che, sempre ad alta voce, gli suggerisce uno alla volta i passi istruzionali per
l’esecuzione del compito;
3. Il bambino esegue il compito dandosi le istruzioni ad alta voce (esecuzione autoguidata, ad al-
ta voce);
4. Il bambino esegue il compito, sussurrando appena le istruzioni (attenuazione dello stimolo di
guida);
5. Il bambino esegue il compito, ripetendo mentalmente le istruzioni (esecuzione autoguidata,
con guida covert).
Inizialmente il darsi le istruzioni mentali comporta uno sforzo consapevole e mediato; con la ripeti-
zione l’esercizio, però, il comportamento originariamente guidato dalle auto-istruzioni si automatiz-
za e diviene spontaneo e immediato. Ogni comportamento spontaneo non è altro che il risultato
dell’automatizzarsi, tramite apprendimento ed esercizio, di qualcosa che all’inizio era voluto e me-
ditato.
Nell’esperienza abusiva di Laura era stato presente un singolo episodio particolarmente traumatico,
che aveva lasciato esiti PTSD piuttosto rilevanti. Una volta, come conseguenza di un comportamen-
to della ragazzina giudicato dal padre gravemente inadeguato, l’uomo la punì orribilmente pene-
trandola con il manico di uno specchietto che faceva parte di una serie di giocattoli ispirati alla fiaba
della Bella e la Bestia. Laura presentava dei flashback relativi all’episodio e aveva sviluppato con-
dotte di evitamento rispetto sia allo specchietto sia a tutto ciò che riguardava la fiaba e i cartoni
animati ad essa collegati. Fu condotta un’esposizione graduata mirata prima ai cartoni animati e poi
ai giochi legati a tale fiaba fino allo specchietto stesso usato dal padre, prima in immaginazione e
poi in vivo. Al termine del percorso riprese a guardare i cartoni animati, che aveva sempre seguito
con piacere.
Per quanto riguarda i flashback, Laura impiegò le seguenti autoistruzioni, che riuscirono a tranquil-
lizzarla:
1. “Devo stare calma. Questo è solo un flashback”;
2. “Questo è solo un ricordo; non vengo nuovamente abusata”;
3. “Sono capace di controllare la mia mente; posso distrarmi e pensare ad altro”;
4. Laura si concentra su un pensiero distraente, concordato in precedenza col terapeuta (in questo
caso una visita a un allevamento di cavalli, che le era risultata particolarmente gradita);
5. “Ci sono riuscita, sono stata proprio brava!” (auto-rinforzo finale).

203
Riassunti di Silvia Varro

Questi comportamenti possono manifestarsi in due direzioni:


- Comportamenti aggressivi, sia come conseguenza dell’imitazione e del modellamento e sia
per l’identificazione con l’aggressore; allo scopo di mascherare i sentimenti di vulnerabilità e
impotenza. La giovane vittima dovrebbe imparare a gestire la rabbia ma solo simbolicamente,
mediante il gioco o altro, in luoghi e momenti ben precisi e prestabiliti.
- Comportamenti sessualizzati o ipersessuali, anche in questo caso si può trattare di identifica-
zione con l’aggressore ma più spesso si tratta di apprendimenti di modalità disadattive mirata ad
attrarre l’attenzione e ottenere affetto. Tali giovani tendono a confondere le relazioni affettive da
quelle sessuali, in quanto in entrambe vi può essere vicinanza fisica e perché l’abusatore può
aver detto loro che si dimostra il proprio affetto facendo certe cose.
Non è certamente facile modificare tali condotte perché i minori devono prima acquisire le abilità
di auto-monitoraggio, relative all’identificazione e al riconoscimento dei contenuti emozionali che
innescano e accompagnano la manifestazione comportamentale.
Per quanto riguarda i sentimenti di rabbia, è necessario che il minore riconosca di essere arrabbia-
to, prima di esplodere in un’aggressione. Ciò è ad esempio possibile mediante l’identificazione di
segnali somatici connessi alla rabbia, quali l’aumento della tensione muscolare o l’avvampare del
volto.
Molto più difficoltoso è l’affrontare con bambini il discorso dei sentimenti sessuali in quanto non
sono abituati a parlare di tale argomento né possiedono un vocabolario condiviso con l’adulto in
proposito. In questi casi si potrebbe parlare al bambino della necessità di riuscire a individuare in sé
stesso la presenza del desiderio di toccare certe parti del corpo altrui. L’importante è far comprende-
re al bambino la differenza tra il provare un sentimento o un desiderio (del tutto lecito) ed espri-
merli nel comportamento (in alcuni casi non lo è).
Va sottolineato che l’intervento terapeutico qui proposto non si limita semplicemente a un trat-
tamento di tipo catartico, in cui si facilita l’espressione emozionale e basta. Tale modalità terapeu-
tica è insufficiente; occorre sempre proporre e introdurre modalità alternative di comportamento
in modo che i minori possano esprimere le proprie emozioni in modo appropriato; non farlo equiva-
le ad acconsentire tacitamente ai moduli comportamentali disadattivi del minore.
Per quanto riguarda i comportamenti esternalizzanti, Laura non mostrava condotte aggressive ma,
quando era in un gruppo con coetanei maschi ed era molto eccitata per gli scherzi o per un gioco di-
vertente, tendeva a buttarsi addosso ai compagni, mimando un coito o cercando di toccare loro i ge-
nitali. Fu stabilito un training auto-istruzionale anche in questo caso, che fu prima provato recitan-
dolo con delle bambole (due pupazzi di sesso maschile mossi e fatti parlare dal terapeuta e uno di
sesso femminile animato da Laura stessa) e quindi attuato nelle situazioni reali, con successo cre-
scente, mediante: inibizione della risposta impulsiva iniziale (“Provo il desiderio di toccare i ge-
nitali di qualcuno, conto fino a 10”), definizione del problema (“Vorrei toccare i genitali di qual-
cuno, ma so che non va bene”), scelta di una meta (“Cosa posso fare per non mettermi nei guai?”),
pensiero alternativo (“Potrei allontanarmi e andare a parlare con la maestra o giocare al compu-
ter”), pensiero consequenziale (“Cosa succederebbe se facessi questo?” sulla base di tale valuta-
zione, sceglie la soluzione e la realizza) e auto-rinforzo finale (“Brava, ci sono riuscita, non ho
toccato i genitali a nessuno”),
Altri interventi relativi ai CE consistono nell’incrementare le abilità sociali e personali mediante
training di assertività e il miglioramento delle capacità di em-
patia e di presa di prospettiva altrui (perspective taking). Con
il termine “assertività” (dall’inglese to assert, “affermarsi, farsi
valere”) ci si riferisce alla capacità di riconoscere le proprie
esigenze e di affermarle (o esprimerle) all’interno del proprio
ambiente con una buona probabilità di raggiungere gli obiettivi
personali, mantenendo contemporaneamente positive le relazioni

204
Riassunti di Silvia Varro

con gli altri. È necessario per questo che l’individuo produca pensieri positivi riguardo sé stesso in
relazione a quelle situazioni, sia privo di paure e inibizioni sociali e possieda abilità sociali che
gli consentano di esprimersi in modo adeguato, ossia funzionale a stimolare nell’interlocutore
l’accettazione anziché il rifiuto del messaggio inviato.
Il training dovrebbe mirare al conseguimento della competenza sociale tramite tre procedure:
1. Role-playing: simulazione delle interazioni sociali che si manifestano nella vita sociale;
2. Modeling: si mostra al soggetto come una persona più assertiva si comporterebbe nella stessa
situazione;
3. Rinforzo sociale e feedback sulla prestazione del soggetto. Il trainer sottolinea i lati positivi
della prestazione e dà dei suggerimenti per ulteriormente migliorarla (coaching).

Purtroppo la letteratura scientifica ha dimostrato che chi ha subito un abuso sessuale non sempre è
in grado di dare ai bambini capacità di riconoscimento di una possibile situazione di abuso: circa il
25% dei minori abusati non era in grado di riconoscere chiaramente tale situazione come abusiva,
anche se seguiva una terapia per l’abuso subito. Inoltre, essere stato vittima di abuso sessuale in età
precoce aumenta il rischio, soprattutto nelle ragazze, di patire nuovi abusi in età adolescenziale.
Occorre dunque, nel corso della terapia, fornire un intervento educativo sulle abilità di auto-
protezione, che solitamente vengono inserite nei programmi di sicurezza personale. Fondamental-
mente, tutti i programmi hanno punti in comune, definiti le quattro R:
1. Riconoscere (saper discriminare fra contatti buoni e cattivi);
2. Resistere (dire di no, allontanarsi);
3. Riferire (ad adulti di cui ci si fida o a figure con ruoli istituzionali);
4. Rassicurare (relativamente al fatto che qualsiasi cosa accada con un adulto non è colpa del mi-
nore);
Con Laura tutti questi punti vennero ripresi ed affrontati esplicitamente con lei. Particolarmente uti-
le fu affrontare il tema del “riconoscere”:

L. Come faccio a capire quando una persona mi tocca in un modo che va bene e quando lo fa
in un modo che non va bene?
T. Fidati delle tue sensazioni; quando ti senti a disagio, imbarazzata, quando decidi che l’altra
persona si è presa con te delle libertà eccessive, che non ti rispetta, questo è sufficiente, non oc-
corre altro. Interrompi la relazione e allontanati e cerca l’aiuto di qualcuno che ti possa aiutare
e proteggere. Se si sarà trattato di un malinteso, potrete spiegarvi successivamente, ma tu hai il
diritto di accettare solo ciò che non ti crea disagio, quando si tratta di contatto corporeo.

Soprattutto nell’abuso sessale intrafamiliare su minori, la vittima può patire vari tipi di lutto: la per-
dita del genitore abusatore che viene allontanato e/o incarcerato; quella di una figura parentale (il
genitore non abusatore), che si rivela non più affidabile in quanto non è stata in grado di proteggerlo
contro l’abusatore; talvolta quella della propria casa e delle proprie abitudini di vita; di amici e altri
parenti; quella della propria immagine di sé, deteriorata dai sensi di colpa e dalla sensazione di esse-
re un “bene danneggiato”.
L’elaborazione di tali lutti non è facile. Vi sono tre specifiche circostanze che rendono particolar-
mente difficile l’elaborazione del lutto:
- Il carattere inaspettato della perdita;
- L’ambivalenza nei confronti della persona perduta;
- La dipendenza eccessiva da essa che suggerisce un sottostante attaccamento insicuro.
In base a tali considerazioni si evidenziano due componenti da affrontare terapeuticamente prima di
poter accostare il processo dell’elaborazione delle perdite. Nell’incesto gli elementi del lutto intera-
giscono con importanti elementi del trauma e la combinazione tra essi può portare a intensificare i

205
Riassunti di Silvia Varro

sintomi, i pensieri relativi alle persone coinvolte possono indurre ricordi traumatici, gli aspetti
traumatici possono ostacolare il processo di lutto e la sensazione di estraneità o solitudine post-
traumatica può interferire con le interazioni terapeutiche. In secondo luogo, la difficoltà deriva dal
fatto che in questo caso una delle mete prerequisite per l’elaborazione del lutto consiste nel ricono-
scere l’incapacità dei genitori di fornire amore in modo adeguato.
Laura presentava una forte alternanza di schemi operativi nei confronti del padre abusatore: da un
lato provava forte rabbia per ciò che lui aveva fatto a lei e alla sorella, dall’altro, però, dichiarava
con orgoglio di essere sempre stata la preferita del padre, che voleva sempre stare con lei e averla
vicina. In alcuni momenti mostrava addirittura di essere pentita di aver parlato ad altri dell’abuso,
portando così il padre in carcere; in altri gridava rabbia verso di lui, ricordando soprattutto
l’episodio dello specchietto. Si cominciò quindi ad analizzare una situazione in cui Laura aveva
provato un’alternanza di sentimenti opposti verso la medesima persona (per esempio, un’amica o
un’insegnante) mostrando così come questo fosse possibile e normale. Inoltre, fu posto in evidenza
come la bambina provasse un’emozione dominante (in genere positiva) verso tale persona, mentre
quella contraria (negativa) si attivava solo in determinate circostanze.
Fu dunque possibile passare all’analisi delle situazioni che portavano ad affetti negativi, spostando
così l’attenzione di Laura da ciò che lei provava, e di cui si sentiva responsabile, a quanto gli altri
potevano fare per indurre in lei determinate emozioni. In tal modo, si cominciava a cercare di muo-
vere il suo locus of control, cioè l’attribuzione dell’origine della casualità degli eventi, da
un’eccessiva internalità, portante a forti autocolpevolizzazioni, a una prudente esternalità, che
prendesse anche in considerazione responsabilità di altri.

La stigmatizzazione è tipica del bambino abusato e viene incrementata dall’eventuale biasimo geni-
toriale per aver partecipato all’attività sessuale o addirittura per averla indotta. Molto spesso
l’attribuzione di responsabilità al minore viene operata anche dall’abusatore che accusa di averlo
sedotto o provocato, o di desiderare l’abuso perché prova piacere nel corso di questo. In altri casi,
inoltre, il minore viene considerato responsabile della propria protezione, e quindi incolpato nel ca-
so che non sia stato in grado di operare efficacemente in propria auto-difesa. Ovviante, tutte queste
colpevolizzazioni vengono fatte proprie dalla vittima che comincia a biasimare se stessa. La depres-
sione e la stigmatizzazione vengono aumentate da quella che Sgroi chiama la sindrome dei beni
danneggiati, per cui le giovani vittime credono di essere permanentemente rovinate dall’attività
sessuale tanto da non potersi più spostare o avere figli.
Di fronte a tali situazioni occorre che il terapeuta intervenga in modo efficace: il tema della respon-
sabilità deve essere affrontato in modo precoce. Lamb sostiene che i terapeuti di solito evidenziano
sempre che la responsabilità degli abusatori e che il minore in ogni caso è esente da ogni biasimo.
Tali dichiarazioni possono avere degli effetti controproducenti, in quanto confermano lo status di
vittima e diminuiscono il senso di potere e di controllo dei minori: affermando che in ogni caso è
colpa loro, può essere eliminato ogni senso di efficacia eventualmente posseduto dai minori. Al
momento dell’abuso i minori operarono la migliore scelta che allora erano in grado di fare, ma ora
devono comprendere di poterne fare altre diverse, in quanto sono cresciuti e hanno appreso cose uti-
li.
Un altro tema difficoltoso è spiegare ai bambini perché l’abusatore abusa. Anche in questo caso
non è utile spiegarlo in termini di malattia poiché indebolisce il concetto di responsabilità
dell’abusatore stesso e, inoltre, può indurre ulteriori sensi di colpa nel minore per aver denunciato
una persona “malata”. Può essere sufficiente esprimere qualcosa di simile: “Tuo padre ha grossi
problemi di controllo, quando desidera qualcosa non riesce a pensare alle conseguenze negative che
potrebbe provocare negli altri e in te in particolare”. In tal modo si lascia la aperta la porta
all’eventualità che l’abusatore possa imparare in futuro a controllare i propri impulsi, così da per-
mettere eventuali nuovi rapporti positivi; si tratta di un aspetto di non trascurabile importanza nel

206
Riassunti di Silvia Varro

caso che l’abusatore stesso sia un genitore, che non deve necessariamente essere per sempre cancel-
lato dalla vita del minore.
Un altro aspetto frequente nei bambini abusati è la tendenza a ritenere che l’abuso ormai sia qualco-
sa di inevitabile, in quanto non ci si può fidare di nessuno. In tal caso è opportuno attrarre la sua at-
tenzione su tutte le persone con le quali, in passato e nel presente, ha ottenuto rapporti amichevoli e
prove d’affetto e interesse positivo.
Infine, va preso in considerazione il fatto che i bambini sessualmente abusati spesso hanno timori
circa l’integrità dei propri genitali, il loro funzionamento sessuale, e l’essere stati contagiati da
malattie a trasmissione sessuale. Tali preoccupazioni vanno, ove possibile, ristrutturate mediante
una visita medica che accerti le normali condizioni degli organi sessuali e l’assenza di contagi. Il te-
rapeuta, dovrebbe, però, dare in ogni caso delle informazioni relativamente alla sessualità, spiegan-
do le funzioni dei genitali e la loro normale risposta di eccitamento. Più complessa è la questione
relativa all’orientamento sessuale: non è possibile assicurare al bambino che non svilupperà mai
un orientamento di tipo omosessuale; occorre infatti dichiarare esplicitamente che nessuno, nemme-
no i medici e i terapeuti, sono in grado di prevedere quali saranno le preferenze sessuali di una per-
sona, in quanto non sono noti tutti gli elementi che contribuiscono al loro sviluppo.
Nel caso di Laura fu molto importante condurre tutte le ristrutturazioni cognitive sopra descritte cir-
ca il concetto di responsabilità. In particolare, Laura non riusciva a spiegarsi come il padre, pur vo-
lendole bene, avesse potuto farle delle cose così brutte e, in particolare essere responsabile del terri-
bile episodio dello specchietto. Rispetto a ciò fu necessario un intervento delicato ed esteso, ripreso
in diverse sedute spiegando, ad esempio, che quanto più si è legati affettivamente a qualcuno, tanto
più si tende ad arrabbiarsi se questo non si comporta come si ritiene giusto; tale forte rabbia, se la
persona è poco capace di controllo, peggiora ulteriormente il suo autocontrolla, portandola così a
comportamenti dannosi e negativi, come nel caso del padre. In tal modo si spiegò il comportamento
di quest’ultimo come conseguenza di un amore male espresso e controllato, ma non come segno
di mancanza di amore (alternativa intollerabile per la ragazza). Ciò, naturalmente, non significava
che lei dovesse giustificarlo, ma almeno era compatibile col fatto che il genitore le volesse almeno
un po’ bene.

Tutte le procedure descritte fino ad ora aiutano a migliorare l’autostima del minore abusato, indebo-
lita dalla stigmatizzazione, da sentimenti di inadeguatezza e depressione. Quanto avviene in terapia
costituisce un potente fattore in grado di agire sull’immagine di sé del bambino. Il terapeuta deve,
però, ricordare che, invece di usare etichette di tratto (del tipo: “Tu sei un bambino intelligente”),
che hanno scarso impatto e hanno un carattere comunque valutativo, è sempre meglio cercare di
indicare le capacità e i comportamenti specifici che ne stanno alla base e dire, ad esempio “Oggi
ti sei veramente impegnato, malgrado il fatto che ricordare l’incredulità di tua madre al tuo racconto
ti abbia fatto piangere, sei stato forte hai continuato a parlare della cosa con me”, o semplicemente
“Oggi sei stato proprio bravo”. Il terapeuta può, inoltre incoraggiare il bambino ad affrontare la vita
di tutti i giorni con nuovi interessi e attività, anche di tipo sportivo.
Nel caso di Laura, che ha sempre avuto gravi problemi scolastici, ci siamo concentrati nel suo inse-
rimento in una scuola di danza classica, che era stato da lungo tempo il suo sogno, non realizzato
per problemi finanziari. Qui trovo un ambiente accogliente e la bambina, molto impegnata e con un
corpo agile e aggraziato, diede subito ottimi risultati. Ciò la aiutò a consolidare la sua immagine di
sé.

I sintomi di tipo dissociativo più frequenti possono essere:


1. Cambiamenti estremi di umore, comportamento e preferenze;

207
Riassunti di Silvia Varro

2. Stati simili a trance (il minore si chiude in un mondo di fantasia, dimenticando l’ambiente cir-
costante): è possibile che segua amnesia relativa alle azioni fatte in questi stati trance-simili o
negazione della propria responsabilità relativa a esse, tanto che talvolta questi minori vengono
definiti “mentitori patologici”;
3. Persistenza di compagni immaginari ben oltre i 6-7 anni d’età del minore (a volte fino
all’adolescenza);
Se tali sintomi si presentano, essi vanno trattati in quanto ostacolano il processo di espressione di
sentimenti e pensieri connessi all’abuso; il terapeuta deve valutare il grado di consapevolezza del
minore del loro impiego della dissociazione, individuando un’etichetta con cui essi possono comu-
nicare in proposito. Così, i bambini imparano a identificare le situazioni in cui si dissociano, esami-
nando nel contempo le funzioni che tali meccanismi protettivi svolgono e analizzandone sia i van-
taggi che gli svantaggi.
Laura presentava occasionalmente degli stati trance-simili, in cui si assentava dall’ambiente circo-
stante e questo viene spiegato come un atteggiamento difensivo da emozioni negative sopraffacenti.
Fu deciso di chiamare di comun accordo questi episodi con il termine “staccare la spina”, suggerito
dalla bambina stessa, che in tal modo ne sottolineava l’atteggiamento di chiusura e protezione. Fu-
rono poi studiate strategie per contrastare ciò e con l’aumento della percezione dell’autoefficacia da
parte di Laura, poco a poco essi diminuirono.

La terapia dovrebbe terminare quando sono state raggiunte le mete che sono stabilite dopo
l’assessment. Non bisogna credere al principio che quanto più protratta è la terapia, tanto meglio sa-
rà, anche a scopo preventivo. Non possiamo trattare ciò che non è ancora emerso e il tentare di farlo
comporta mete diffuse e indefinite e ciò può essere solo un danno. La psicoterapia non fornisce
un’immunità assoluta e quindi potrà accadere che il minore, dopo alcuni anni, debba ritornare per
un trattamento, senza che questo debba essere considerato un fallimento. I minori possono provare
affetti ambivalenti circa il termine della terapia innescando emozioni presenti fin dall’inizio. I sog-
getti con attaccamento ansioso-resistente possono riattivare forti sentimenti di dipendenza, mentre
quelli con attaccamento ansioso-evitante tendono a riutilizzare difese come la negazione o
l’evitamento; altri ricorrono ad attribuzioni interne, immaginando di avere commesso qualcosa
che ha fatto arrabbiare il terapeuta e l’ha alienato nei loro confronti.
In ogni caso è utile sottolineare che la terapia viene terminata a causa dei progressi del bambino e
non per qualche sua cattiva disposizione nei confronti del terapeuta; nel contempo è possibile ricor-
dargli che, se ve ne sarà bisogno, potrà sempre tornare dal terapeuta.
Nel periodo finale della terapia si può assistere a una regressione con comparsa dei sintomi che
avevano indotto l’intervento stesso. Questo non andrebbe inteso come segno della necessità di un
ulteriore trattamento, ma dovrebbe portare ad aiutare il minore a esprimere i sentimenti sottostanti a
tali comportamenti. Anche i genitori dovrebbero essere rassicurati e preavvisati circa tale possibili-
tà.
L’intervento terapeutico con Laura durò circa un anno, con sedute settimanali per 8 mesi e quindi-
cinali per altri tre e infine un’ultima seduta dopo un mese dalla pre-
cedente. I risultati furono buoni: scomparsa sei sintomi PSTD, mi-
glioramento dell’immagine di sé, superamento delle autocolpe-
volizzazioni, riduzione degli stati dissociativi, ampliamento delle
relazioni sociali e delle attività.
La minore non ha più rivisto il padre, ormai incarcerato e condanna-
to; ha però, in progetto, quando sarà più grande, di andarlo a trovare
presso l’istituto dove è recluso e non esclude di riavere dei contatti
con lui una volta scarcerato. Rimane collocata con la sorella presso
la comunità, recandosi in visite settimanali in casa della madre, che,

208
Riassunti di Silvia Varro

malata e con precedenti d’incapacità genitoriale, ha ammesso di non riuscire a riassumersi la piena
responsabilità della gestione delle figlie. A scuola ora va piuttosto bene e ha un certo numeri di
amicizie, il suo punto di forza è la danza classica, che continua a praticare on grande successo e che
considera un punto centrale nel suo progetto di vita a lungo termine.

Con soggetti adulti la terapia è in gran parte simile, ma con alcune differenze. Tutto ciò che riguar-
da la creazione di un rapporto terapeutico fondato sulla fiducia risulta fondamentale anche con gli
adulti: il paziente si deve sentire sicuro, accettato e non valutato, qualunque siano state le circostan-
ze che hanno portato all’abuso. Anche gli adulti sono spesso preoccupati e vergognosi per le sensa-
zioni di piacere sessuale che possono aver provato durante l’abuso. Talvolta, i partner della persona
vittimizzata possono provare sensazioni di disgusto/repulsione nei confronti di chi è stato abusato,
come se la violenza ne avesse corrotto l’integrità e la purezza fisica, ciò può creare problemi di
coppia e/o sessuali. In questi casi è utile indirizzare il partner che prova tali sensazioni a una terapia
mirata con un professionista differente rispetto a quello che si occupa della persona vittimizzata.
Anche con gli adulti è, inoltre, importante individuare le emozioni che il paziente prova relativa-
mente all’abuso (senso di colpa, vergogna, lutto per la perdita di sicurezza ecc.).
È bene evidenziare operare delle differenziazioni tra:
- Abuso sessuale in età adulta: in tal caso gli aspetti PTSD vanno affrontati, in primo luogo, se-
condo procedure di esposizione, in immaginazione e in vivo, simili a quelle utilizzate per Laura,
con la differenza che con gli adulti si possono realizzare esposizioni in vivo anche ripetute e mi-
rate a riportare alla memoria particolari sempre più completi dell’evento abusivo, al fine di per-
mettere una profonda elaborazione. In genere non vi sono problemi di comportamenti esterna-
lizzanti, ma problemi internalizzanti, spesso di tipo ansioso e depressivo, legati alle modifica-
zioni degli schemi cognitivi di sé e interpersonali conseguenti all’abuso.
- Abuso sessuale in età evolutiva: in questo caso la persona va in terapia solo molti anni dopo,
quando è adulta. La cosa è più complessa, in quanto non si è sicuri del fatto che il ricordo sia
completo e sicuro oppure comparso, in modo più o meno nebuloso, durante la psicoterapia. Se
la rievocazione è chiara e certa ed è stata riferita anche ad altre persone all’epoca, allora bisogna
analizzare come tale effetto abbia influito sugli schemi cognitivi della persona.
In alcuni casi, durante una psicoterapia mirata ad altri problemi, il paziente può rievocare ricordi
che possono far pensare a un abuso/incesto in età evolutiva. In questi casi bisogna essere molto cau-
ti. È assolutamente sconsigliabile tendere a ogni costo ad una rievocazione di altri ricordi, condu-
cendo interviste suggestive e pressanti; si corre il rischio così di creare implanted memories, cioè
falsi ricordi che vengono creati per suggestione da un terapeuta convinto che i problemi attuali di
un paziente siano sempre creati da un abuso infantile. Tale convinzione è del tutto infondata: la
maggior parte delle patologie in età adulta non è creata da traumi sessuali infantili. Se il pa-
ziente ha ricordi nebulosi e che non interpreta direttamente in senso di abuso bisogna non interpre-
tare in tale direzione e lasciare cadere l’argomento, qualora questo venisse ripreso in modo più
esplicito dal paziente. Se invece valuta spontaneamente il ricordo in senso dell’abuso, le si può
chiedere su quali basi interpreti il ricordo in tal modo, dato che all’inizio la rievocazione mnestica
può non essere esplicita. Le motivazioni del paziente potrebbero, ad esempio, evidenziare un cattivo
rapporto con una figura genitoriale, non necessariamente, però, abusante. Solo se i ricordi, parlan-
done, si sviluppano da soli (senza cioè che il terapeuta suggerisca nulla), l’ipotesi dell’abuso può
essere presa in considerazione.

In Italia gli psicoterapeuti di formazione cognitivo-comportamentale sono psicologi o medici che


hanno frequentato una scuola di specializzazione in psicoterapia riconosciuta dal ministero

209
Riassunti di Silvia Varro

dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca e caratterizzata da un orientamento cognitivo-


comportamentale.
Il modello formativo segue nelle linee generali quelle dettate dalle norme ministeriali: 4 anni di
studio, ogni anno costituito da 500 ore didattiche.
- Nei primi due anni vi sono per anno 300 ore di docenza, divise in una parte generale e una spe-
cifica. Inoltre, nei primi due anni devono essere condotte 200 ore di tirocinio in strutture pub-
bliche o private accreditate.
- Negli ultimi due anni sono effettuate ogni anno 250 ore di docenza, 150 ore di tirocinio e 100
ore di supervisione.
La supervisione consiste in una parte personale, dove vengono affrontati eventuali problemi nel
rapporto con i pazienti legati ad aspetti personologici del terapeuta in formazione, una parte di
gruppo allargato in cui si discutono i casi clinici con il supervisore, e infine una parte individuale o
di piccolo gruppo, dove vengono analizzati in profondità i casi che ciascun partecipante sta seguen-
do al momento in terapia. Al termine dei 4 anni di corso (ciascuno caratterizzato da valutazioni in
itinere ed esami finali), avviene l’esame di specializzazione, per il quale il candidato deve portare
una tesi in cui sono esposti 8 casi di psicoterapia seguiti in supervisione, di cui almeno 6 del tutto
portati a termine, in modo da poter avere a disposizione prove sostanziali delle sue capacità psicote-
rapeutiche in una gamma abbastanza vasta di psicopatologie

210
Riassunti di Silvia Varro

Capitolo 5

La psicologia umanistica nasce negli anni quaranta del secolo scorso come “terza forza” fra psi-
coanalisi e comportamentismo. Tra gli studiosi di tale movimento ricordiamo Abraham Maslow,
Carl Rogers, Viktor Frankl (fondatore della logoterapia), Martin Buber, Erich Fromm e Rollo May.
La psicologia umanistica deriva dall’incontro fra la cultura americana, espressa nel movimento filo-
sofico del Pragmatismo, e l’apporto degli intellettuali ebrei e antinazisti fuggiti dall’Europa negli
anni attorno alla seconda guerra mondiale. Determinanti gli influssi della fenomenologia e
dell’esistenzialismo.
L’essere umano, secondo la psicologia umanistica, è un “soggetto”, cioè un agente di scelte, libero
e responsabile. Lo è potenzialmente, non a priori, e tende a realizzarsi, se le condizioni lo consento-
no, in una personalità sana, matura, capace di relazione. Perciò la terza forza è contraria a qualsiasi
versione meccanicistica e riduzionistica che rischia di funzionare come profezia che si autoavvera.
Se infatti inquadriamo l’individuo in gabbie diagnostiche, lo appiattiamo a livello biologico, lo
identifichiamo con il suo comportamento o lo consideriamo in balìa di forze inconsce, non solo non
ne cogliamo la vera natura, ma rischiamo di omologarlo a queste descrizioni. Due fondamenti:
1. Principio olistico: l’individuo costruisce un insieme psicofisico inscindibile e la personalità è
vista come un insieme coerente ed armonico. Il conflitto psichico, il disfunzionamento, la pato-
logia derivano dalla mancata soddisfazione dei bisogni e motivazioni fondamentali da parte
dell’ambiente interpersonale del bambino.
2. Principio dinamico: la vita non consiste in una mera sopravvivenza, in un semplice manteni-
mento dello status quo, bensì in un continuo processo verso la differenziazione, l’autonomia e lo
sviluppo delle risorse innate.
Negli anni sessanta la psicologia umanistica raggiunse l’apice del suo sviluppo: nel 1962 venne
fondata la Association for Humanistic Psychology all’interno della American Psychological As-
sociation.

Tale terapia è un approccio teorico-clinico sviluppato dallo psicologo americano Carl Ransom Ro-
gers, il quale intendeva mettere l’accento sull’incontro, sulla parità esistenziale, conferendo al pa-
ziente uguale dignità e responsabilità all’interno della relazione e ridimensionando il potere
dell’esperto; per questo motivo è stata a lungo definita come “terapia non-direttiva”. Successiva-
mente, estendendo i suoi principi a numerose altre relazioni di aiuto, fu adottato il termine più gene-
rale di Person-centered Approach da cui anche Person-centered Therapy.

La terapia centrata sul cliente viene considerata un indirizzo fenomenologico, in quanto si occupa
del vissuto soggettivo della persona, nonché di cogliere le emozioni, i punti di vista, i desideri
dall’interno, collegandoli ai comportamenti, ai problemi e ai sintomi.
Di solito per fenomenologia intendiamo la disciplina filosofica fondata da Husserl e applicata alla
psichiatria da Jaspers e Binswanger, qualcosa di europeo, quindi. Ma esiste anche una fenomenolo-
gia americana, poco conosciuta.
Snygg e Combs, nel libro Individual Behaviour, proponevano tale assunto: la realtà di per sé è in-
conoscibile; quella che consideriamo tale è invece ciò che ci appare (dal verbo greco fainomai),
una nostra percezione, ed è a quest’ultima che il comportamento risponde. Gli autori partivano da
una critica al comportamentismo: se il legame fra la causa e l’effetto si riduce in termini di Stimolo-
Risposta si elude la complessità della psiche. Viceversa, l’approccio fenomenologico, ponendosi

211
Riassunti di Silvia Varro

domande del tipo: “Qual è il punto di vista in base al quale l’individuo si comporta così?”, mira ad
affinare la ricerca e a fornire modelli più esatti e complessi.

Snygg e Combs ipotizzano una struttura unica della personalità: il campo fenomenico o percettivo,
formato in ogni momento dall’insieme degli elementi della vita psichica, da tutto ciò che appare sul-
lo schermo tridimensionale della nostra mente: sensazioni, pensieri, emozioni e così via. Non esiste,
in questo sistema, alcunchè di inconscio, in quanto quest’ultimo, ciò che non appare, costituirebbe il
rappresentante di una realtà per definizione non conoscibile. Esistono invece vari
gradi di consapevolezza organizzati nell’insieme figura-sfondo.
- Non Sé: ciò che viene attribuito al mondo esterno;
- Sé: ciò che risulta proprio, sia a livello fisico che psichico, il sé;
- Concetto di sé: è il fulcro del precedente, un insieme tendenzial-
mente stabile e coerente di elementi autodescrittivi e autovalutanti.
Prescott Lecky aveva concluso che all’origine dell’azione umana non
stanno né gli stimoli né il conflitto. La vita stessa si identifica con
l’azione, la quale è necessariamente unificata: l’organismo tende a dare
una singola risposta fra le molte che lo stimolo potrebbe suscitare. Sebbene
dunque il conflitto sia usualmente presente, esso non è dovuto a opposizioni
intrinseche tra le strutture psichiche, bensì ai cambiamenti ambientali, che presentano una conti-
nua serie di problemi da risolvere.
La personalità può dunque definirsi come un sistema di valori coerenti, alcuni dei quali trasmessi da
una generazione all’altra, ed il comportamento esprime lo sforzo di mantenere l’integrità e l’unità di
queste organizzazioni. Il nucleo di questo sistema è la valutazione che l’individuo dà di sé stesso.
Ogni valore in entrata nel sistema che non sia coerente con questa valutazione non può essere assi-
milato.
Secondo Snygg e Combs, un cambiamento del concetto di Sé, reso possibile da una terapia, deter-
mina il cambiamento dell’intero campo fenomenico, che a sua volta cambierà il comportamento.
Se, ad esempio, una persona si considera debole e indifesa, il mondo esterno le appare ostile e mi-
naccioso, ma se inizia a sentirsi più forte la situazione sembrerà meno pesante ed anche il modo di
agire diventerà più deciso e sicuro. Tale modello presenta un punto debole: dal momento che il mo-
dello intende il cambiamento del campo fenomenico come un ampliamento, risulta difficile non ipo-
tizzare una struttura che si trovi al di fuori della consapevolezza.

Diversamente dal precedente, questo modello è bifocale: divide la personalità in due grandi
strutture: l’esperienza e il concetto di sé.
L’esperienza riguarda il vissuto psichico nella sua immediatezza, cioè ciò che accade
nell’immediato. Nel neonato le sensazioni di provenienza interna (ad es. la fame) o esterna (ad es. il
rumore) si susseguono senza essere ancora ben distinte in una percezione, né elaborate dalla co-
scienza. Questo non gli impedisce di adeguare il suo comportamento (pianto, sonno) alle diverse
necessità, in quanto vi è una tendenza attualizzante: motivazione intrinseca alla sopravvivenza,
all’accrescimento e alla realizzazione delle proprie risorse. Il meccanismo per cui l’esperienza si
colloca nella coscienza viene definito simbolizzazione (simbolo: qualcosa sta per qualcos’altro e a
cui si riferisce).
Viene dunque a stabilirsi un rapporto triadico i cui componenti sono:
1. Oggetto A, ad esempio un gatto in carne ed ossa;
2. Simbolo B, che può essere un’immagine mentale, un pensiero, una figura disegnata o la parola
gatto, cat ecc.
3. Soggetto, necessariamente umano, per cui il simbolo significa e rappresenta l’oggetto.

212
Riassunti di Silvia Varro

Crescendo, il bambino organizza l’esperienza nella percezione e poi la simbolizza. Ad esempio, la


sensazione di fastidio nello stomaco (esperienza) viene individuata (percezione) e verbalizzata: “Ho
fame”. L’insieme delle simbolizzazioni costituisce la coscienza.
Tuttavia, persino nell’adulto, se una parte dell’esperienza ha un’intensità che non supera un valore-
soglia oppure è ritenuta irrilevante, non verrà simbolizzata. Ecco, quindi che l’esperienza si pone
come qualcosa di reale e presente nella psiche nonostante possa stare anche al di fuori della co-
scienza. Questa è una delle più importanti differenze col modello di Snygg e Combs ed è il motivo
per cui la teoria della personalità Client-centered non si può definire interamente fenomenologica.
L’esperienza non simbolizzata è affine all’inconscio freudiano, sebbene Rogers non adotti tale ter-
mine perché lo ritiene confusivo e inappropriato alle sue concezioni.
Le esperienze più importanti nel funzionamento della personalità sono quelle di natura emotiva, le
quali non entrano a far parte della coscienza a causa di meccanismi di difesa che le escludono, e
non perché sono deboli o irrilevanti. Ciò accade quando la simbolizzazione costituirebbe una mi-
naccia al concetto di sé, l’identità soggettiva indispensabile per sostenere la libertà e la responsabi-
lità, la quale obbedisce sia al principio olistico che a quello dinamico: tende cioè a mantenersi omo-
geneo, coerente e costante nel tempo pur andando incontro a continui rimodellamenti.

Il meccanismo dello sviluppo ruota attorno al bisogno psicologico fondamentale del bambino, quel-
lo di accettazione positiva incondizionata (unconditional positive regard), che comprende e sinte-
tizza i vari bisogni carenziali56 (quello che deve essere soddisfatto, in particolare nell’infanzia, da
qualcuno che non sia l’individuo stesso cui appartiene) illustrati da Maslow nella piramide dei bi-
sogni. È importante che anche gli altri favoriscano la tendenza attualizzante, attraverso
l’accettazione positiva incondizionata, cioè una tendenza a riconoscere l’altro come altro, a ricono-
scere che l’altro è diverso da sé e quindi talvolta può capitare di non riuscire ad accettare le sue idee
in quanto diverse dalle proprie. Invece, secondo Rogers, è necessario accettare le idee altrui in
quanto costituiscono il nucleo del sé dell’altro. Ad esempio, se dico ad una persona che non deve
provare determinate emozioni in quanto sono sbagliate si crea un’incongruenza nell’altro. Non è
possibile ritenere sbagliate le emozioni o stati d’animo dell’altro e far presente ciò all’altro. Posso
non accettare le idee altrui ma devo comunque condividere ciò che una persona esterna mi sta rife-
rendo e restituirgli, ad esempio, una competenza, nel momento in cui riconosco un determinato sta-
to d’animo, come, ad esempio la tristezza.
Se i genitori provvedono a un’adeguata soddisfazione, il concetto sé verrà a plasmarsi
sull’esperienza in modo libero: il locus of evaluation57 rimarrà interno. Se, viceversa, essi leghe-
ranno l’accettazione positiva a particolari caratteristiche o atteggiamenti, mandando un messaggio
del tipo “Ti amo se sei così”, il bambino, privilegiando per natura la soddisfazione del bisogno, in-
troietterà la valutazione che lo condiziona, arrivando a convincersi: “Io sono così”. Ma così come?
Possiamo individuare due situazioni-tipo:
1. Valori sociali rigidamente imposti: “Devi essere bravo a scuola”, “Se sei geloso sei cattivo”,
“Mentire è una cosa spregevole”, che vengono fatti propri diventando nell’adulto costrutti indi-
viduali: “Io sono una persona perbene”, “Non dico mai bugie”, “Non sono geloso”.
2. Proiezioni: una donna ambiziosa, in carriera, dedica molto tempo al lavoro e trascura il figlio.
Contemporaneamente vuole sentirsi una madre presente e premurosa; ciò che risultata è che
quando il bambino reclama più attenzioni viene qualificato come lagnoso, assillante, insoppor-

56
Secondo Maslow, alla base della piramide dei bisogni si trovano quelli fisiologici legati alla sopravvivenza (fame,
sete, riposo, riparo). Seguono il bisogno di sicurezza e protezione, quello di amore e appartenenza e infine il bisogno di
stima e valorizzazione. All’apice si trovano le motivazioni all’autorealizzazione (che sono bisogni non carenziali), quali
ad esempio la creatività e il senso morale.
57
Ciò a cui le persone si riferiscono per esprimere giudizi su se stesse, sugli altri e sul mondo, o, in altre parole, il luogo
(locus) da cui una persona fa un giudizio di valore.

213
Riassunti di Silvia Varro

tabile, così per evitare tali critiche, crescendo, si formerà un concetto di sé del tipo: “Sono una
persona che non si lamenta mai”, con il costrutto “Fare presenti le mie esigenze è ingiusto e mi
impedisce di essere accettato” o addirittura “Non sono degno di attenzioni e di amore”. Il con-
cetto di sé viene così costruito sulla valutazione della madre e quindi su base eteronomiche (il
locus of evalutation sarà decentrato) e rigide. Tale meccanismo escluderà dalla simbolizzazio-
ne legittime esigenze e necessità, con risultati negativi nelle relazioni interpersonali e
nell’autorealizzazione. Infatti la tendenza attualizzante viene ostacolata da meccanismi di valu-
tazione che non sono più liberi, ma condizionati.
Quella che viene solitamente definita come una proiezione da parte della madre sul figlio è, in ter-
mini umanistici, un insufficiente senso di responsabilità, con due risvolti:
1. Etico (il figlio paga incolpevolmente);
2. Gnoseologico58 (sia il figlio che la madre non hanno accesso alle cause del problema).
Ben diversamente andrebbero le cose se la donna si assumesse le sue responsabilità esprimendo ad
esempio: “Tu vai bene così ed è normalissimo che ti lamenti!” Mi dispiace e cercherò di essere più
presente, però non è facile… e poi tengo molto al mio lavoro”. Si tratterebbe di un modo adulto e
consapevole di affrontare il problema senza scaricarlo sul figlio. Quest’ultimo non si sentirebbe in
colpa, potrebbe arrabbiarsi oppure comprendere la situazione, cercare attenzioni da qualche altra fi-
gura familiare, immaginare che la mamma venga licenziata di botto e molto altro. In tal caso avreb-
be una “libertà di esperienza” sulla quale potrebbe costruire direttamente il concetto di sé.
Il risultato sarebbe ciò che Rogers definisce congruenza, ossia integrazione fra esperienza e simbo-
lizzazione. Secondo Rogers quando operiamo delle valutazioni a partire dagli incontri che facciamo
nel mondo, possiamo categorizzare gli oggetti nel seguente modo: “come me e come altro da me”.
A partire da questo vissuto interiore facciamo esperienze delle cose con la nostra percezione, quindi
si percepiamo l’oggetto, dopodichè lo simbolizziamo grazie ad una rielaborazione della nostra men-
te. La percezione è individuata, verbalizzata, ed infine simbolizzata.
Se però si fa esperienza di una cosa nel mondo ma questa non la si percepisce come appartenente a
sé, ai propri valori, si può generare un’incongruenza. Ad esempio, se un individuo decidere di
commettere un furto nonostante ritiene e riconosce di essere fatto diversamente, l’azione del furto
può generare incongruenza. Rogers sostiene, di fatti, che per il funzionamento della personalità è
necessario che ci sia una congruenza, ovvero che tutti gli elementi che appartengono al concetto del
sé siano congruenti tra di loro e con i propri valori di riferimento. La tendenza attualizzante riporta a
sviluppare la personalità all’interno di una crescita positiva o meglio definita come “congruenza di
sé”. Nel momento in cui vi è un’incongruenza e non c’è sovrapposizione tra l’esperienza che si fa e
il concetto di sé è possibile che insorga un malfunzionamento psichico e che avvenga la messa in
atto di meccanismi di difesa; possiamo quindi avere delle percezioni che giungono alla coscienza in
maniera immediata, oppure percezioni che danno luogo a delle simbolizzazioni distorte e quindi c’è
un’incongruenza. Lo psicologo può riconoscere in tali percezioni alterate delle forme di nevrosi,
dove il sé è alienato ma è comunque integro, l’esame di realtà è cioè preservato, diversamente da
una condizione psicotica dove l’esame di realtà è assente il soggetto non percepisce se stesso come
integro.
Caso tratto da Psicoterapia e relazioni umane di Rogers: un bambino risulta geloso del fratello neo-
nato e dichiara di volerlo uccidere. La madre, anziché sgridare o punire il bambino per i suoi senti-
menti e le sue parole ostili, potrebbe fargli un discorso di questo genere: “Caro, capisco che tu non
vuoi ancora bene al tuo fratellino e capisco che non ti piace che la mamma se ne occupi tanto. Ciò
ti può forse far pensare che io non ti voglia più tanto bene e ti fa dispiacere, vero? E vuoi buttare
via il bimbo e ucciderlo. Capisco benissimo tutto ciò e me lo puoi dire francamente. Tu non devi
amare tuo fratello così, improvvisamente. Ma non puoi fargli del male”.

58
L'indagine e la dottrina filosofica relativa al problema della conoscenza, cioè della verifica delle forme e dei limiti
dell'attività conoscitiva umana.

214
Riassunti di Silvia Varro

La madre, dunque, da un lato riconosce ed accetta i sentimenti del bambino, dall’altro fa chiaramen-
te intendere che non deve metterli in atto. L’importante è che non venga leso il concetto di sé con
valutazioni del tipo: “Se sei geloso sei cattivo”. Infatti, mentre è possibile ed auspicabile controllare
il proprio comportamento, le emozioni sorgono spontaneamente nella psiche e qualificarle negati-
vamente significa qualificare negativamente la persona stessa.

Una volta formato, il concetto di sé va salvaguardato in ogni caso, sia che risulti funzionale e flessi-
bile sia che finisca per essere rigido e condizionato, pertanto, le esperienze vengono esaminate mi-
nuziosamente e discriminate. Questo avviene a livelli più bassi di quelli percettivi, secondo un mec-
canismo definito subcezione (discriminazione di un’esperienza senza piena coscienza).
a. Se l’elemento esperienziale risulta compatibile con il concetto di sé, viene percepito e simbo-
lizzato correttamente nella coscienza;
b. Se non è compatibile può essere simbolizzato solo tramite una modificazione del concetto di
sé, ma questo accade soltanto nel caso più favorevole, quando quest’ultimo è plastico.
c. Se le esperienze vengono subcepite come incoerenti con il concetto di sé saranno intercettate
prima di arrivare alla percezione e alla coscienza (primo meccanismo di difesa) oppure perce-
pite correttamente ma simbolizzate in modo distorto (secondo meccanismo di difesa).
Nei primi due casi una quantità sufficiente di esperienze significative viene simbolizzata e si deter-
mina uno stato di congruenza, di buon funzionamento della personalità. Nel terzo caso, invece, a li-
vello della coscienza prevarrà qualcosa di non accurato oppure niente del tutto.
Primo meccanismo di difesa: miss Har è vissuta fin da piccola soltanto con la madre, perché il padre
le ha abbandonate poco dopo la nascita. La donna ha inculcato nella figlia un profondo disprezzo
nei suoi confronti, che si manifesta con un costrutto del tipo: “Mio padre è un disgraziato, se gli vo-
lessi bene offenderei la mamma, che si è sacrificata tanto per me! Ma io le sono molto grata e non
farei mai qualcosa del genere”. Così eventuali sentimenti di affetto non raggiungono la consapevo-
lezza.
Secondo meccanismo di difesa: un signore di mezza età è convinto di essere un buono a nulla, inca-
pace di cavarsela nella vita. Un giorno resta in panne con la macchina, però inaspettatamente riesce
ad improvvisare un rimedio e arrivare all’autofficina. Se lo spiega pensando che si è trattato di
grande fortuna, non certo di capacità. Questo è un esempio paradossale ma molto frequente nelle
persone depresse: pur di mantenere stabile il concetto di sé accettano, con grandi sofferenze, di
averlo negativo, e tutto ciò che costituirebbe una disconferma benefica viene distorto.
È questa la situazione di malfunzionamento della personalità; la distanza tra concetto di sé ed
esperienza priva l’individuo del contatto, della consapevolezza dei propri contenuti profondi e lo
mantiene in uno stato di incongruenza.

Vengono segnalate due equivalenze concettuali fra sistemi teorici diversi che approdano a conclu-
sioni simili. La prima riguarda il meccanismo interpersonale patogeno descritto nell’esempio del-
la madre ambiziosa: da un genitore incongruente, che nona accetta e non comprende le esigenze del
bambino, risulterà un figlio altrettanto incongruente, ma con un disagio psicologico più conclamato.
Lo stesso ragionamento si potrebbe applicare al genitore, che a sua volta probabilmente è stato cre-
sciuto con poca attenzione. Una celebre metafora di Winnicott rende bene l’idea:
“LE PERSONE PASSANO LA VITA A REGGERE IL Quest’ultimo apparterrebbe al-
LAMPIONE A CUI SI APPOGGIANO, MA IN la persona realizzata in quanto
QUALCHE LUOGO, ALL’INIZIO CI DEVE ESSERE soggetto; famiglie come quella
UN LAMPIONE CHE STA IN PIEDI DA SOLO.” descritta, invece, ricordano i vec-
chi film comici, in cui un lampione
crolla su un altro, che a sua volta fa lo stesso, finchè l’ultimo crolla sulla testa del malcapitato, cioè

215
Riassunti di Silvia Varro

della persona sintomatica. Si è creato nella famiglia un degrado strutturale che ostacola il normale
sviluppo dei singoli. La perdita di un equilibrio etico nelle relazioni familiari viola un diritto natura-
le del bambino, inducendo patologia. Queste sono, a grandi linee, le basi teoriche della trasmissione
transgenerazionale del disfunzionamento.
Secondo la prospettiva Client-centered la tendenza attualizzante, diversamente dagli stili di attac-
camento di Bowlby e della terapia familiare, consente al bambino di attingere alle proprie risorse,
alla resilienza, oppure rivolgersi a significant social others più adeguati e gratificanti (prospettiva
meno deterministica).
L’altra equivalenza concettuale, almeno parziale, è quella fra simbolizzazione e mentalizzazione.
In entrambi i casi si tratta del processo attraverso il quale elementi spontanei ed immediati che sor-
gono nella nostra psiche diventano coscienti, presenti e disponibili nei rapporti interpersonali e nel
comportamento. Il concetto di mentalizzazione, però, prevede che lo stesso meccanismo venga ap-
plicato alla comprensione dei contenuti altrui. Allen e Fonagy si occupano della mentalizzazione
soprattutto riguardo ai disturbi di personalità, fanno riferimento alla teoria dell’attaccamento di Bo-
wlby, lo studio dei processi di pensiero di Bion, i lavori di Baron-Cohen e Frith sull’autostimo e la
schizofrenia. Condividono tuttavia con la terapia centrata sul cliente il fatto che l’(in)capacità di
mentalizzare è il risultato di relazioni (in)soddisfacenti. “Capire le menti è difficile per chi non
abbia avuto l’esperienza di essere capito da una persona con una mente”. Da questo deriva che alla
base della comprensione di sé stessi e della comprensione dell’altro vi è il medesimo meccanismo.
La capacità di mentalizzare di tradurrebbe quindi in congruenza (cioè in accurata simbolizzazione)
quando applicata a sé stessi, in accettazione ed empatia quando applicata agli altri.

La terapia centrata sul cliente ha continuato, prima e dopo la morte di Rogers, ad arricchirsi di nuo-
vi contributi:
• Gendlin ha sviluppato l’approccio in senso fenomenologico;
• Rice ha applicato la lettura cognitivista;
• Zucconi e Silani, in ambito italiano, hanno messo in luce le conferme ai principi clinici prove-
nienti dalle neuroscienze.

Tornando al modello della personalità, il disfunzionamento può assumere due forme:


a. Problematica di tipo nevrotico: nel migliore dei casi il concetto di sé rimane alienato ma inte-
gro. L’individuo è incongruente, il contatto con i propri contenuti, in particolare quelli emotivi,
è precluso (negato) dai meccanismi di difesa.
b. Crisi psicotica che frammenta la coscienza: nel peggiore, questi ultimi non reggono e
l’irruzione massiva di elementi esperienziali incoerenti disintegra il concetto di sé.
Con umiltà e consapevolezza dei limiti, Rogers definisce chiaramente l’ambito di validità della sua
terapia, individuando dei parametri minimi che non si traducono in vere e proprie diagnosi, per i
motivi illustrati in seguito. Tuttavia, a posteriori, possiamo stabilire connessioni in base alla tipolo-
gia di cliente, il quale:
• Dev’essere in grado di entrare in contatto psicologico con il terapeuta; l’autismo e i disturbi
affini sono quindi esclusi;
• Dev’essere in grado di percepire correttamente le attitudini di accettazione, congruenza ed
empatia del terapeuta; in varie forme psicotiche quest’ultima può invece venire scambiata per
invasione o “lettura del pensiero”, mentre l’accettazione può essere confusa con l’approvazione
o la condivisione del delirio;

216
Riassunti di Silvia Varro

• Deve trovarsi in uno stato di vulnerabilità e di ansia, dovuti all’incongruenza, che lo induca a
cercare l’aiuto terapeutico; nelle dipendenze, l’uso di sostanze placa il malessere e indebolisce
la motivazione; nei disturbi di personalità manca, addirittura, la consapevolezza dei problemi.

Rogers si batteva contro il modello psichiatrico tradizionale ed era avverso alla classificazione
diagnostica nell’ambito clinico, considerata un’etichetta che mortifica la persona nonché un intral-
cio alla dimensione umana del rapporto terapeutico. Diversa è ovviamente la sua posizione rispetto
alla ricerca, in cui la diagnosi costituisce un indispensabile strumento di indagine.
La client-centered Theraphy non prevede alcun test diagnostico preliminare alla psicoterapia: sia
nei primi colloqui che in quelli ulteriori, il terapeuta segue il filo del discorso del cliente senza
schemi precostituiti.
La massima cura è volta ad instaurare e mantenere quel clima facilitante interpersonale senza il
quale la terapia non funziona. Il principio-guida che viene fruttuosamente seguito è: “Più vuoi sa-
pere, meno chiedi”. Una raffica di domande, per quanto competenti, rischia di deviare i processi
psichici del cliente, di raffreddare sul nascere il rapporto terapeutico e fornisce in definitiva meno
dati che un ascolto attento ed incoraggiante. Viceversa, pochi rimandi mirati sui punti focali
dell’esposizione risultano più efficaci e meno disturbanti; semmai, nelle fasi iniziali, i rimandi em-
patici servono a raccogliere informazioni e ad analizzare la domanda in vista di una corretta formu-
lazione del contratto. Naturalmente è lecito che il terapeuta ponga qualche domanda, se lo ritiene
necessario.

Il setting della terapia centrata sul cliente non ha particolari caratteristiche se non quella di rimarca-
re la sostanziale parità fra i due interlocutori. La posizione sarà dunque vis-à-vis e ci si accomo-
derà in seggiole o poltrone simili, evitando con cura l’effetto sultano-suddito. Rogers non da parti-
colari indicazioni sulla durata della seduta, che attualmente varia, a scelta dei singoli professionisti,
da cinquanta minuti ad un’ora. La frequenza è in linea di massima settimanale. Dai tempi di Ro-
gers si è verificato un progressivo aumento della lunghezza complessiva della terapia.
L’accettazione incondizionata non si applica alle regole del setting, che il cliente è tenuto a rispetta-
re come in qualsiasi altro tipo di terapia; ci sono piuttosto maggiore flessibilità e simmetria contrat-
tuale per quanto riguarda la gestione delle malattie, delle ferie, degli imprevisti.

Forse in nessun approccio quanto in quello client-centered, il processo terapeutico è così stretta-
mente legato alla relazione. La terapia è considerata innanzitutto un incontro fra due persone e la
tecnica, per quanto brillante ed efficace, è subordinata a questa dimensione. Così si esprime Rogers
nel famoso dialogo con Martin Buber (filosofo, teologo e pedagogista austriaco):

Non penso che la mia mente sia completamente occupata dal pensiero: “Adesso voglio aiutarti”.
È molto di più: “Adesso voglio capirti”. Sapere quale persona si nasconde dietro a quel para-
vento paranoico, a quelle confusioni schizofreniche, oppure “Chi c’è al di sotto di quelle ma-
schere che indossi nella vita di tutti i giorni? Chi sei?”. A me sembra che questo esprima il de-
siderio di incontrare una persona e non la frase “adesso ti voglio aiutare”. Mi pare di aver im-
parato dalla mia esperienza che quando ci possiamo incontrare, allora, si verifica l’aiuto ma es-
so è un effetto secondario.
Rogers definisce, in particolare, tre attitudini: la congruenza, l’accettazione positiva incondizionata
e l’empatia. Queste sono tradizionalmente definite condizioni necessarie e sufficienti (o core con-
ditions) a promuovere una modificazione costruttiva della personalità del cliente.

217
Riassunti di Silvia Varro

Applicata alla figura del terapeuta, essa comporta che i sentimenti provati nei confronti del cliente
siano pienamente disponibili alla sua coscienza. Il terapeuta deve essere quindi in uno stato di buon
funzionamento della personalità, se non in ogni momento della sua vita, almeno entro i limiti del-
la seduta. Rogers insiste sulla congruenza come prerequisito alle altre due condizioni: l’apertura
all’esperienza propria rende possibile l’apertura a quella altrui.
La congruenza costituisce anche un modello per il cliente, che impara a familiarizzare con i propri
sentimenti così come vede fare al terapeuta. Ciò non significa che
quest’ultimo comunichi direttamente tutto ciò che gli passa per la mente. Que-
sta attitudine si esprime per lo più come un fare spontaneo ed autentico, un es-
sere sé stessi nella relazione.
Talvolta il terapeuta può comunicare qualcosa di personale, dando luogo ad
un’operazione di trasparenza (self-disclosure), la quale risulta efficace quando
effettuata al momento opportuno ed il suo contenuto è sincero e rilevante.
Rogers fa l’esempio di quando, preoccupato per le condizioni
della moglie ricoverata in ospedale, ne accennò sobriamente in
seduta. Il cliente fu molto sollevato: pensava di essere lui
l’origine dell’ansia che aveva percepito.
Un collega americano narra questo episodio: una donna si pre-
sentò al colloquio e dopo qualche minuto gli disse: “Ho una pistola nella borsetta. Se ora la tiro fuo-
ri e te la punto contro, tu che fai?! E lui, congruente e imperturbabile: “Prendo il tavolo e te lo lan-
cio addosso”. La cliente fu molto soddisfatta: la capacità del terapeuta di autoproteggersi le dava
contenimento e sicurezza.

L’accettazione positiva incondizionata è un modo di accostarsi alla persona rispettandone


l’alterità. Ognuno di noi, venendo al mondo, ha il bisogno di trovare uno spazio di accoglienza del-
la sua unica e irripetibile individualità. Tale bisogno può restare insoddisfatto: la psicoterapia ha
sotto questo aspetto una funzione riparatoria, perché offre al cliente la possibilità di essere sé stes-
so senza la minaccia costante del giudizio altrui. L’accettazione viene infatti definita come:
“l’opposto dell’atteggiamento di valutazione selettiva: “In questo sei cattivo, in quello sei buono”.
Perciò devono essere accolti tutti i sentimenti espressi dal cliente: tanto quelli negativi, cattivi, pieni
di paura e dolore, difensivi e anormali, quanto quelli buoni, positivi, maturi, fiduciosi, sociali. Ac-
cettare “significa che ci interessa del cliente, ma non in modo possessivo o comunque tale da soddi-
sfare solamente i bisogni del terapeuta; significa che ci si interessa del cliente come una persona di-
stinta che ha sentimenti ed esperienze personali.
Rispettare questa alterità può non essere facile: il cliente con valori molti diversi o addirittura in-
compatibili coi nostri, quello che non migliora mai, quello che manipola, quello che ha comporta-
menti inaccettabili come il pedofilo e tanti altri mettono a dura prova la disposizione d’animo del
terapeuta. Può giocare un ruolo fondamentale, in questi casi, il ricorso alla pietas, ad uno sguardo
meno legato alle vicende del trattamento terapeutico ma consapevole delle asperità 59 della condi-
zione umana.
Viceversa, il terapeuta, anziché limitarsi a delle manifestazioni di comprensione e di rispetto, po-
trebbe adottare un atteggiamento che rasenta l’approvazione o anche un sottile incoraggiamento,
soprattutto nei casi in cui sia un forte sostenitore dell’idea di libertà. Certi terapeuti giungono anche
a far scattare delle vere esplosioni emotive, che considerano come scariche catartiche e perciò co-
me indici di progressi del caso. La reazione catartica ha un forte valore terapeutico, tuttavia, quando
59
Irregolarità, avversità

218
Riassunti di Silvia Varro

è provocata mediante condizionamento (cioè tramite l’azione sistematica di ricompense, verbali o


non verbali) il valore di queste reazioni violente sembra dubbio.
D’altra parte, dal punto di vista del buon funzionamento psichico, cioè dalla corrispondenza tra
esperienza e rappresentazione, questi metodi e metodi tradizionali sono identici: entrambi falsano la
presa di coscienza dell’esperienza, l’uno nel senso della repressione, l’altro nel senso
dell’intensificazione.

Il termine “empatia” (in tedesco Einfühlung) comparve alla fine dell’Ottocento nella
teoria dell’Estetica di Robert Vischer indicando l’immedesimarsi nelle bellezze natu-
rali e nelle opere d’arte. Si contrapposero due posizioni rispetto all’immedesimarsi de-
gli esseri umani. Lipps (psicologo della Gestalt), il quale vedeva l’empatia come una
fusione e la sua allieva Husserl Edith Stein (morta ad Auschwitz) che nella tua tesi di dottorato
gettava le basi di una visione assolutamente moderna: definiva l’empatia come un atto in cui si co-
glie l’esperienza vissuta dell’altro e le attribuiva le seguenti proprietà:
1. È possibile soltanto quando la personalità di chi la mette in atto è ben distinta dall’altra. Non si
tratta quindi in alcun modo di una fusione;
2. Si basa sulla comune condizione esistenziale degli esseri umani, quella che Husserl definisce
“intersogettività”;
3. Non consiste solo nel capire (Einsicht), ma è anche un sentire, un percepire;
4. È rivolta all’altra persona nel suo insieme: corporeo, psicologico e spirituale;
5. Si distingue dal condividere con l’altro un sentimento, ad esempio perché si è entrambi contenti
per qualcosa (Einsfühlen), oppure perché si è contenti per lui (Mitfühlen).
Sempre nei primi anni del secolo, il termine tedesco venne trasposto nell’inglese empathy, che a
sua volta riprende il greco antico nella parola pathos (emozione, passione, sofferenza), scelto da
Rogers, attorno agli anni cinquanta, per indicare un ampio respiro esistenziale rispetto al tecnicismo
di Counceling and Psychoterapy, in cui si parlava semplicemente di “chiarificazione dei sentimen-
ti”.
La definizione classica di empatia, tratta da Psicoterapie e relazioni umane è: percepire il mondo
soggettivo altrui “come se” si fosse questa persona, senza tuttavia mai perdere di vista che si tratta
di una situazione analoga, come se. Se quest’ultima condizione è assente, o cessa di avere la sua
parte, non si tratta più di empatia, ma di identificazione. L’empatia è al tempo stesso percezione
dell’altro e percezione di me stesso che non sono quest’altro e non lo sarò mai.
La differenza fra empatia e identificazione è sostanziale: al cliente non serve un alter ego, bensì un
interlocutore capace di comprendere l’angoscia o la depressione ma anche di non angosciarsi o de-
primersi a sua volta. Perciò, l’empatia si fonda sulla congruenza del terapeuta.
Alla luce del rinnovato interesse per l’empatia conseguente ala scoperta dei neuroni a specchio e al-
le recenti possibilità offerte dalle tecniche di neuroimaging, distinguiamo due tipologie di empatia:

Moto immediato che ci pone nei panni dell’altro; è una prerogativa poten-
zialmente universale.
Alla sua origine ci sono diversi fattori:
(1) Sintonizzazione emotiva: il contagio emotivo è un fenomeno automati-
co e involontario, descritto come la tendenza a imitare e a sincronizzarsi
automaticamente con le espressioni facciali, vocali, posturali e gestuali
di un’altra persona, e quindi, a convergere emotivamente. Un esempio
è ciò che avviene nei reparti di ostetricia, in cui i neonati si contagiano
reciprocamente al pianto. Come hanno dimostrato Rizzolatti (vedi pa-

219
Riassunti di Silvia Varro

gina 14) e la sua équipe, l’osservazione di azioni in altri individui attiva nel soggetto le aree cere-
brali deputate alla medesima azione. Questo costituisce la base anatomica dell’intersoggettività e
sembra valere non soltanto per i movimenti ma anche per le emozioni: le informazioni provenienti
dalle aree visive che descrivono i volti o i corpi che esprimono un’emozione arrivano all’insula,
dove attivano un meccanismo specchio autonomo e specifico, in grado di codificarle immediata-
mente nei corrispondenti formati emotivi. Tale meccanismo sembra essere alla base della nostra ca-
pacità di percepire e comprendere il dolore degli altri.
Questa ipotesi è stata confermata da studi di neuroimaging funzionale condotti su volontari sani
che hanno mostrato la presenza di aree cerebrali comuni coinvolte sia nella percezione sensoriale in
prima persona sia nell’osservazione del dolore altrui. La presenza di aree cerebrali comuni non si-
gnifica che la sovrapposizione sia totale: questo permette di mantenere propria individualità.
Tuttavia, condividere a livello viscero-motorio lo stato emotivo di un altro è diverso dal provare un
coinvolgimento empatico nei suoi confronti. Per esempio, se vediamo una smorfia di dolore non per
questo siamo automaticamente indotti a provare compassione. Ne risulta che la possibilità del pas-
saggio di vari contenuti da un individuo a un altro è un prerequisito, ma non ancora empatia.
(2) Altruismo: Tomasello, nel suo Altruisti nati afferma che i bambini si dimostrano collaborativi e
propensi all’aiuto in molte situazioni; tale propensione all’aiuto non deriva da un comportamento
appreso dagli adulti, è bensì un qualcosa di assolutamente spontaneo e mediato dalla partecipazione
empatica. Quado bambini tra i diciotto e i ventiquattro mei osservavano un adulto afferrare il dise-
gno che un altro aveva appena fatto e strapparlo intenzionalmente, questi guardavano la vittima (che
non lasciava trapelare alcuna emozione) con un’espressione partecipe. Cercavano, in altre parole, di
“mettersi nei panni” e si preoccupavano per la presunta vittima. Una delle valenze dell’altruismo è
l’attenzione alla persona, che si abbina alla curiosità (positiva, non pettegola) nei confronti
dell’interlocutore. In questi tempi di narcisismo imperante60, si tratta di un atteggiamento raro. Tutti
abbiamo presenti le persone che, quando accenniamo a dire qualcosa di noi stessi, ci bloccano:
“Anch’io…” e cominciano a parlare di sé senza respirare nel timore di venire interrotte. Non si
chiedono se per caso le troviamo noiose. Anche in ambito terapeutico l’attenzione alla persona non
è così scontata. In Un modo di essere Rogers critica il caso Ellen West, conclusosi tragicamente col
suicidio della paziente: i medici sono scrupolosamente impegnati in diagnosi e prognosi, ma non
contattano veramente Ellen e la sua solitudine.
(3) Capacità cognitiva: si parla di una vera e propria “intelligenza” interpersonale, aspetto pro-
babilmente innato e sicuramente importante. Capire gli altri non è tuttavia la stessa cosa che capire
un’equazione matematica: occorre anche una sorta di decentramento da sé stessi legato al processo
di maturazione individuale che renda possibile il perspective talking della psicologia sociale, la
comprensione intuitiva dal punto di vista altrui.
Adottare il punto di vista di un’altra persona richiede: la capacità di rappresen-
tare se stesso come distinto dagli altri, lo sviluppo di una Teoria della Men-
te per rendersi conto che gli altri possiedono credenze e pensieri e il ricono-
scimento esplicito che gli stati mentali e le percezioni altrui potrebbero essere
diversi dal proprio.
Inaugurate da Piaget, le ricerche in questo campo fecero un passo avanti con gli studi sulla “falsa
credenza”. Un bambino sta nella stanza con un ricercatore, insieme vuotano un tubetto di Smarties e
ci mettono delle matite. Viene chiesto al bambino: “Se facciamo entrare il tuo amico che sta fuori e
non ha visto nulla, cosa penserà che ci sia nel tubetto?”. I bambini più piccoli e gli affetti da auti-
smo rispondono: le matite. Dal loro punto di vista, gli altri sanno ciò che loro stessi sanno. I bambi-
ni “normali” più grandi rispondono invece: gli Smarties. Riescono cioè a mettersi nei panni di chi
non ha visto nulla e hanno perciò una “teoria della mente” adeguata. Con questo termine si fa rife-

60
Che domina e condiziona le azioni di tutti, che è molto diffuso.

220
Riassunti di Silvia Varro

rimento alla capacità di figurarsi gli altri simili a noi in quanto portatori di una mente, che però non
è identica alla nostra, e di comprenderne i contenuti.
Dal punto di vista clinico, ed anche sociale, è importante chiedersi: come mai l’empatia viene a
mancare o non si sviluppa proprio? Diverse sono le possibilità di annullamento dell’empatia:
1. Autismo: è per definizione connotato dalla radicale assenza di empatia, per cui il rapporto con
l’altro risulta minaccioso e incomprensibile;
2. Disturbi di personalità: c’è una grave compromissione connessa ad un atteggiamento ostile,
crudele o indifferente; a mancare è la componente dell’altruismo;
3. Proiezione: viene intesa come attribuzione errata, l’individuo non si mette nei panni dell’altro
ma lo riveste con i propri. Una ragazza si lamenta perché la madre la obbliga a cucinare, a fare
le pulizie e ad occuparsi della casa mentre il fratello passa le ore giocando alla play-station. “Sei
gelosa” sentenzia la madre, evocando un sentimento che non c’è, o magari c’è da qualche parte,
ma non è di sicuro quello in primo piano. Infatti la figlia è comprensibilmente indignata per la
disparità di trattamento. Si tratta dello stesso meccanismo della “madre in carriera” descritto
nelle pagine precedenti, rigido e resistente all’evidenza perché, attribuendo all’altro qualcosa
che risolve il proprio conflitto, mantiene un equilibrio all’economia psicologica dell’individuo.
In generale, possiamo dire che l’empatia non si manifesta quando il legame intersoggettivo viene a
mancare, quando un individuo sente l’altro come estraneo, come controparte o avversario in un con-
flitto.
Nel Settecento, grazie a tre grandi libri “psicologici” incentrati su figure femminili, Pamela, Claris-
sa e Giulia, i lettori potevano “sentire” le emozioni delle sfortunate protagoniste, si commuovevano
per loro e intanto, nella realtà, i diritti umani progredivano. L’empatia si basa infatti
sull’intersoggettività e dunque sull’uguaglianza e il rispetto fra gli individui. Così poco dopo si svi-
luppò il movimento per l’abolizione della tortura e della pena di morte, che ebbe in Cesare Beccaria
un precursore. Così come nel corso della storia, l’empatia non è diffusa neppure nell’epoca contem-
poranea. Il titolo originale dell’ultimo libro di Baron-Cohen (2011), in italiano La scienza del ma-
le, è Zero Degrees of Empathy. L’autore, che proviene da una famiglia ebrea scampata
all’Olocausto, nelle prime terribili pagine riporta esempi sconvolgenti. E si pone una domanda:
com’è possibile che meccanismi così profondi, innati, condivisi come quelli che sono alla base
dell’empatia e dell’altruismo si disattivino in maniera così totale e inesorabile? Le risposte di Ba-
ron-Cohen sono soddisfacenti sul piano psicopatologico, ma il tema è molto più vasto e coinvolge,
per l’appunto, l’origine del male.
Tuttavia, esistono persone empatiche, al di là della professione che svolgono, che possiedono le ca-
pacità descritte e sanno dosarle bene: troppo altruismo conduce all’identificazione, poco dà luogo
all’empatia effimera (“Lui si che mi capiva”, dice delusa la ragazza che ha incontrato in discoteca
un tizio poi subito dileguatosi). Perché connoti stabilmente la personalità, l’empatia deve costituire
un valore permanente, affiancato a tutti quelli che regolano i rapporti interpersonali. La persona
empatica crea fiducia intorno a sé: è un’amica sollecita e premurosa, un partner rasserenante, un ge-
nitore comprensivo ma fermo, una figura di riferimento cui chiedere consigli nei momenti difficili.

Fa riferimento alla capacità del terapeuta di rimandare ciò che ha colto in modo utile per il cliente.
Rispetto all’empatia 1, è molto più specifica e viene in parte acquisita durante la formazione.
Forse tutti i clienti sognano come terapeuta una persona che li capisca al volo e che sia capace di ri-
conoscere sentimenti, dubbi, difficoltà che non hanno mai confessato neppure a sé stessi, sintomi
“strani” di cui si vergognano, e che lo faccia all’interno di una conversazione fluida e poco costrui-
ta, in cui la comprensione si manifesta senza sforzo. Questo sarebbe anche, a grandi linee, il model-
lo del terapeuta Client-centered dietro il quale, però, c’è una formazione lunga e complessa.
Il problema consiste nel passaggio dall’empatia 1, che è una caratteristica della personalità,
all’empatia 2, che è la capacità terapeutica di trasmettere in modo efficace per il cliente la propria

221
Riassunti di Silvia Varro

comprensione. Mentre un’amica empatica può benissimo dire: “Come ti capisco!”, e questo basta, il
terapeuta deve articolare cosa ha compreso empaticamente e trasmetterlo, oltre che con
l’atteggiamento complessivo, anche verbalmente, nonché farlo nei modi e nei tempi opportuni. Il
cosiddetto rispecchiamento è di estrema importanza perché costituisce un’attività conoscitiva
dell’altro e della sua interiorità, una forma di riconoscimento che lo aiuta a definirsi.
“Non esiste un Io senza un Tu che lo conosca” (Buber): l’empatia permette al cliente di esistere,
di presentarsi ed esprimersi per come è, nella relazione. In un certo senso, essa è la naturale prose-
cuzione dell’accettazione, perché definisce ciò che viene compreso. Gli esempi che abbiamo visto,
infatti, hanno qualcosa in comune: la ragazza gelosa, il figlio lamentoso, miss Har condividono la
mancanza di riconoscimento delle loro legittime istanze da parte dei genitori e questo ha pesato
sulla formazione del concetto di sé, sulla capacità di contatto con sé stessi. Queste considerazioni
portano a sottolineare il ruolo fondamentale del linguaggio nell’empatia del terapeuta.

Nel senso comune, il linguaggio è l’attività che ci permette di dare un nome, di simbolizzare gli og-
getti del mondo esterno (gatto, albero, ciabatta) o interno (“penso che…”, “sono arrabbiato”). Il
meccanismo è in realtà più complesso. Secondo Vygotskij, il pensiero non nasce già confezionato e
poi trasposto nel linguaggio, ma all’origine si trova lo scambio linguistico, attraverso il quale il
bambino acquisisce dei significati indispensabili per sviluppare un pensiero autonomo. Paivio, con
la teoria del dual code, ha dimostrato che il linguaggio possiede un codice specifico, costituito da
elementi che interagiscono con quelli dell’immagine mentale, del pensiero, della memoria. Questo è
facilmente comprensibile: comunicare a qualcun altro un’impressione, un pensiero, uno stato
d’animo, o magari soltanto esprimerli a sé stessi, è diverso che semplicemente lasciarli scorrere nel
continuo flusso della coscienza (stream of consciousness). Essi ne risultano più reali e consolidati,
pronti per reggere altri significati, in un circolo inesauribile. Il linguaggio quindi non soltanto
esprime, ma contribuisce a creare ciò che esprime. Questo è ciò che Heiddeger chiama Vollzugs-
sinn61, il “senso che si costituisce mentre lo si riconosce”. Da qui l’enorme potere del linguaggio
nella psicoterapia, che, non a caso, è nata come talking cure negli Studi sull’isteria (Freud).
La dimensione verbale dell’empatia consente un progressivo sviluppo di significati, connessioni, ri-
cordi, che riassorbono il sintomo nello sviluppo della persona, nel “divenire quella che è”.
L’esperienza non simbolizzata costituisce, secondo Gendlin, un felt meaning, un significato sentito
ma non simbolizzato. I sintomi derivano quindi da significati incompleti, impliciti, che devono tro-
vare una simbolizzazione tramite la parola per divenire pienamente compiuti.
Perciò, a differenza di come viene impiegato nella cornice psicoanalitica, in cui non si esprime di-
rettamente ma è al servizio dell’interpretazione, nella terapia centrata sul cliente l’intervento empa-
tico opera in una dimensione puramente fenomenologica. L’intervento empatico offre strumenti
cognitivi in abbondanza. Il terapeuta, infatti, cerca di dare una forma verbale a ciò che ha colto del
mondo soggettivo del cliente, del suo schema di riferimento interno (internal frame of reference).

Le parole del terapeuta hanno la forma di risposta-riflesso o rimando empatico. In generale, vengo-
no verbalizzati tre tipi di contenuti:
1. Emozioni, desideri e affetti nelle loro innumerevoli gradazioni e sfumature: la vergogna, ad
esempio, è più forte dell’imbarazzo, che è più forte del disagio. La rabbia e il risentimento han-
no qualcosa in comune ma non sono sovrapponibili, così come il rimpianto e il rammarico;
2. Punti di vista, che sono strettamente connessi all’aspetto emotivo: “Quindi lei è convinta che
suo marito abbia un’amante…”; “Trova ingiusto questo modo di fare ed profondamente ama-
reggiata”; “Se l’azienda chiude sarà una catastrofe…”;

61
La “v” in tedesco si pronuncia “f” proprio come Volkswagen si pronuncia Folkswagen

222
Riassunti di Silvia Varro

3. Costrutti e valori che li sottendono. Spesso questi compaiono nel discorso del cliente come
“implicature conversazionali”62 descritte da Grice (noto per la teoria delle massime conversa-
zionali) in Logica e conversazione. Se ad esempio qualcuno dice: “Quello è un extracomunita-
rio, però è una brava persona”, cosa se ne può inferire? Oppure: “Quando mia madre ha bisogno
di me, non posso certo dire di no!”. Evidentemente, alla mamma si dice sempre di sì!
Riflettere i costrutti, e in generale tutti i contenuti descritti, da parte del terapeuta, aumenta il grado
di libertà del cliente perché gli permette di vederli, di valutarli ed eventualmente anche di cambiarli.
Secondo alcuni, Rogers è sbilanciato sul versante emotivo e trascura quello cognitivo. Non è assolu-
tamente così: Tausch ha dimostrato che nel famoso caso di Gloria (che fa parte di un video con se-
dute di psicoterapeuti di tre diversi approcci), le risposte-riflesso a contenuti cognitivi sono circa i
due terzi del totale. Quale sia il rimando, non va mai considerato come pura tecnica, bensì manife-
starsi con una particolare attenzione alla soggettività del singolo cliente. Di solito, nella formulazio-
ne, si premette qualcosa del tipo: “Mi sembra che…” per lasciarlo libero di confermare oppure no.
Se esiste un’ambivalenza è importante rifletterla come tale per non direzionare l’esplorazione o la
scelta verso una delle due opzioni.
Secondo Rogers, il rimando empatico non deve cogliere ciò che sta sepolto nelle profondità della
psiche, perché questo potrebbe essere incoerente con il concetto di sé e far scattare meccanismi di
difesa o, peggio, indurre una frammentazione. Deve piuttosto riflettere ciò che è ad un passo dalla
coscienza, dall’edge of awareness, il limite della consapevolezza. Deve riflettere lo sfondo, in sen-
so gestaltico, della figura del discorso: il cliente si vedrà quindi rispecchiato sia in modo familiare
che innovativo.
In conclusione, il terapeuta si muove, in generale, con l’empatia 1, che gli consente di capire che ti-
po di intervento è opportuno fare, in che momento e quando è il caso di ascoltare in silenzio. Con
l’empatia 2 formula ed esprime la risposta riflesso.

La presa di coscienza e la simbolizzazione non sono un evento puramente razionale. È frequente in-
contrare persone che, dopo lunghi anni di terapia, sanno “tutto su sé stesse” ma continuano a stare
male. Questo è del tutto spiegabile, essendo la coscienza qualcosa di profondamente radicato
nell’esperienza, nella valutazione condizionata o incondizionata e nei bisogni. Il primo fattore di
guarigione è quindi di ordine motivazionale.
In una relazione accettante ed empatica il cliente soddisfa un bisogno carenziale ancora attivo,
(ri)componendo un equilibrio. Sentirsi a proprio agio, inoltre, favorisce l’espressione di contenuti
interiori e questo dà luogo ad una sorta di libera associazione che avviene spontaneamente, a diffe-
renza di quella usata in psicoanalisi che costituisce una tecnica, non del tutto agevole, cui il paziente
si adegua. L’empatia permette di costruire nuovi significati più consoni e adeguati al vissuto di
quelli precedentemente introiettati. Per esempio, nel caso della ragazza etichettata dalla madre come
gelosa sarebbe importante che qualcuno capisca che non si tratta di gelosia ma di senso di ingiusti-
zia. In tal caso, il riconoscimento di un’emozione (indignazione), di un punto di vista (la disparità
fra lei e il fratello) e di un costrutto-valore (le donne valgono quanto gli uomini e hanno gli stessi
diritti) schiude un mondo di ulteriori significati. Nel caso specifico consentì alla ragazza di confron-
tarsi con la storia della madre, comprendendo le ragioni del suo atteggiamento.
Il cambiamento di significati che avviene in terapia, con la sostituzione di quelli condizionati, porta
ad una visione più ampia e lucida della famiglia e della sua storia. Il cliente non la subisce più ma si
sente un soggetto partecipe e riesce a comprendere ed accettare le debolezze e i limiti umani che
hanno pesato su di lui. A tal proposito è da segnalare l’importanza della congruenza: il terapeuta
congruente si assume sempre le sue responsabilità, non dice “le cose stanno così”, ma “io penso,

62
L’implicatura conversazionale consiste nel collegare in modo sistematico quanto viene detto a quanto viene fatto in-
tendere.

223
Riassunti di Silvia Varro

sento ecc.” e in tutto l’atteggiamento si fa conoscere per quello che è. Blankenburg, descrivendo il
caso clinico di Anna Rau, dimostra che non poter accedere alla realtà interiore della madre sta
all’origine del tormentoso stato della paziente e della sua patologia (non esiste un Io che non cono-
sca un Tu).
Quanto scritto finora non è il primum movens (causa prima, motivazione) della terapia, che invece
risiede nella tendenza attualizzante nel cliente, visibile nel sollievo con cui risponde ad un riman-
do empatico, nei tentativi spesso malriusciti, però utili, di trovare strade alternative, nella progressi-
va presa di coscienza. Questo (ri)appropriarsi di sé stessi secondo un principio dinamico è la solu-
zione al problema dell’interminabilità della terapia, ben noto agli psicoanalisti.
Il processo terapeutico è stato analizzato in base ad una serie di parametri e diviso in sette stadi che
si succedono lungo un continuum. Secondo Rogers, l’aspetto più significativo è il passaggio dalla
fissità alla modificabilità della struttura rigida, alla fluidità, dalla stasi al processo.
• Primi stadi: il soggetto è in situazione di totale incongruenza e malfunzionamento, incapace di
percepire le proprie emozioni e inconsapevole dei suoi problemi, i costrutti sono estremamente
rigidi e le relazioni interpersonali inesistenti o vissute come minacciose;
• Stadi intermedi: inizia a mostrare qualche miglioramento, i costrutti iniziano ad essere ricono-
sciuti e i sentimenti accettati, appare la tendenza ad instaurare rapporti interpersonali e insorge
un senso di responsabilità e padronanza di sé;
• Ultimi stadi: viene raggiunta la congruenza, che permette all’individuo di sperimentare un senso
di pienezza, spontaneità e integrare le sue esperienze, sia quelle piacevoli sia quelle penose, in
modo libero e responsabile.
È utopistico pensare che il cliente compia integralmente il percorso dei sette stadi, anche perché chi
si trova al livello più basso del continuum, non avendo coscienza dei propri disturbi, raramente
chiede un aiuto psicoterapico. Realisticamente, viene considerato un buon successo lo sviluppo dal
secondo/terzo stadio al quarto/quinto.
Anche nella terapia centrata sul cliente si presentano fenomeni di transfert, ma differenza della
psicoanalisi sono meno intensi, perché sia il tipo di setting sia l’atteggiamento del terapeuta scorag-
giano la regressione. Inoltre non ricevono una particolare attenzione interpretativa, ma vengono ac-
colti, così come tutti gli altri man mano che si presentano.

Irene, ragazza di 29 anni, lavora come impiegata in una ditta di spedizioni. La madre è morta qual-
che anno fa, il padre e il fratello con problemi di tossicodipendenza abitano lontano. Il suo problema
sono le ossessioni.
La relazione terapeutica che si instaura è buona e la ragazza si rivelerà molto acuta
nell’autocomprensione. (Dialogo da pag. 242 fino a pagina 246 del manuale).

La qualità della relazione è determinante nell’ambito formativo: è stata costruita una comunità di
apprendimento, con la partecipazione di docenti e allievi, in cui le risorse e lo stile personale di
ciascuno trovino spazi e valorizzazione.
Il clima facilitante è rilevante perché non soltanto promuove un migliore apprendimento teorico e
pratico-applicativo, ma costituisce una delle basi su cui il futuro terapeuta imposterà la relazione
con il cliente. In quest’ottica, il processo formativo implica una serie di equilibri:
✓ fra le tre aree del sapere, del saper fare e del saper essere;
✓ fra il momento della soddisfazione del bisogno di accettazione incondizionata da parte
dell’allievo e quello della verifica necessaria delle sue capacità;
✓ fra le risorse innate e le capacità apprese.
Il percorso formativo è diviso in tre grandi aree:
1. Teorica: prevede lezioni frontali con discussione dei contenuti proposti;

224
Riassunti di Silvia Varro

2. Esperienziale: formata da laboratori ed esercitazioni che sviluppano l’attitudine empatica e le


capacità di riflesso empatico verbale;
3. Di crescita personale: costituita da gruppi d’incontro che promuovono lo sviluppo della con-
gruenza dei singoli e dell’ascolto reciproco.
La finalità del modello formativo non è riprodurre un sapere rigido bensì incentivare un processo di
sviluppo emotivo, intellettuale e relazionale di cui l’allievo ha piena responsabilità.

225
Riassunti di Silvia Varro

Capitolo 7

La psicologia sistemico-relazionale coglie i processi di crescita di una persona, sia essa un bambino
o un adulto, all’interno dei suoi contesti relazionali, in quanto capace di ricercare i nessi più signifi-
cativi tra l’individuo e il suo mondo familiare e sociale. Allo stesso tempo è in grado di registrare
l’impatto dei cambiamenti sociali all’interno del gruppo familiare e di descrivere le capacità di
quest’ultimo nell’affrontare variazioni di stato e di funzioni per la sua sopravvivenza.
La visione monadica di un individuo prigioniero dei propri guasti viene superata dall’immagine di
un essere sociale, il cui comportamento è comprensibile alla luce dell’organizzazione e del funzio-
namento del sistema di relazioni in cui è inserito.
La psicologia relazionale nasce da un movimento di pensiero che si struttura intorno a idee condivi-
se:
1. La famiglia (e gli altri contesti interattivi umani) viene considerata come sistema;
2. Ogni comportamento, e dunque ogni cambiamento, viene letto e compreso come funzionale al-
la relazione;
3. Il contesto in cui il fenomeno si verifica può essere inteso come la cornice che delimita e confe-
risce significato a ciò che avviene al suo interno. Le parole e le azioni prive di contesto non
hanno alcun significato;
4. I vari livelli di comunicazione si influenzano costantemente, per cui non solo il tipo di relazione
definisce il contesto entro il quale interpretare il livello di contenuto, ma i contenuti stessi pos-
sono modificare il contesto, diventando anch’essi marche di contesto;
5. I parametri storici e temporali della famiglia rendono il contesto in costante evoluzione, mai
definibile una volta per tutte, ma suscettibile a continue ridefinizioni. Il contesto è quindi un
luogo di apprendimento in cui è possibile acquisire, durante la nostra vita relazionale, ciò che
riguarda i vari contesti in cui ci possiamo trovare ad agire o che possiamo creare.
6. Il sintomo non è più soltanto la manifestazione di un disagio individuale, ma acquista un valore
comunicazionale, in quanto si ricollega a un’organizzazione disfun-
zionale del sistema nella sua totalità, a un disagio relazionale
dell’intera famiglia; l’individuo sintomatico diventa il portatore del
sintomo che esprime, anche a nome degli altri membri del sistema,
le difficoltà legate alla crescita e all’evoluzione.

La psicologia relazionale affonda le sue radici nella cultura americana degli anni cinquanta, che
puntava al superamento della settorializzazione degli studi e al recupero di un approccio olistico ai
problemi. Qui trovano terreno fertile le scienze che indagano i contesti socio-culturali in cui
l’individuo vive (antropologia, sociologia). In particolare, nel campo della psicologia, emerge la
tendenza dell’osservatore a spostare la sua attenzione dai fattori intrapsichici ai fenomeni interper-
sonali e ai contesti in cui avvengono.
Impalcatura teorica di questo cambiamento è la Teoria generale dei sistemi, struttura che connette
i diversi settori della conoscenza (dalle scienze matematiche/naturali a quelle umane), che vede im-
possibile considerare un fenomeno come somma di parti scomponibili, analizzabili in termini di
causa-effetto. La teoria generale dei sistemi, elaborata dal biologo Von Bertalanffy (dagli anni ’30
alla versione definitiva del 1968) nasce dunque dall’esigenza di superare il modello meccanicistico
di causalità lineare a favore di un modello di causalità circolare che tenga invece conto delle com-
plesse interazioni tra le parti e le valuti globalmente nelle loro connessioni reciproche: l’interesse

226
Riassunti di Silvia Varro

dell’osservatore non è più focalizzato su fenomeni isolati ma su “totalità organizzate”, secondo


una concezione organistica (da organismo, nel senso di complesso globale).
Questa teoria guarda il mondo in funzione dell’interdipendenza e dell’interrelazione di tutti i feno-
meni, punta ad estrarre le caratteristiche comuni e favorisce il processo unificante della conoscenza.
L’introduzione della prospettiva sistemico-cibernetica allo studio della famiglia si deve al gruppo di
Palo Alto (Watzlawik, Jackson, Haley, Weakland). Secondo questi autori la chiave di accesso alla
famiglia, vista come un sistema auto-correttivo, stabilmente collegato e tendente all’omeostasi, è
data dal disagio psichico individuale, che viene riletto nei termini di una distorsione del comporta-
mento comunicativo. In altre parole, si deve a questi autori l’ipotesi che le famiglie abbiano la ten-
denza a mantenere lo status quo (omeostasi), organizzata da regole comunicative e di interazione
più o meno rigide. Il modello proposto dal gruppo incentra il focus sugli aspetti osservabili dei
comportamenti/comunicazioni considerati nel qui ed ora. Il tentativo è abbinare un particolare modo
di comunicare con una specifica sintomatologia ed il proposito che ne emerge è aiutare le persone a
comunicare meglio.
A metà degli anni cinquanta, gli stessi autori elaborano il concetto di doppio legame, inteso come
comunicazione disfunzionale tipica delle relazioni diadiche, allo scopo di spiegare i disturbi psi-
chiatrici maggiori (in primis la schizofrenia) nei termini di una causalità circolare e dunque secondo
una logica di interazione tra le parti, ma in realtà essa permane intrisa di una concezione meccanici-
stica di causalità lineare, volta a ricercare le cause ultime delle manifestazioni sintomatiche: una
comunicazione disturbata tra due individui coinvolti in un legame significativo conduce sempre al
manifestarsi della patologia; uno dei due partecipanti alla relazione non è in grado di risolvere i
messaggi contraddittori che gli vengono inviati dall’altro.
Esempio di comunicazione disturbata tra una madre e bambino, in cui la prima dice al bambino “ti
voglio bene” ma l’intonazione della voce e il comportamento non verbale dimostrano il contrario e
il secondo non riesce a dare un senso a tale paradosso.
Nel 1959 Jay Haley ha l’intuizione di considerare l’interazione non più solo come una comunica-
zione diadica, ma come modello descrittivo di un sistema familiare in cui interagiscono tre prota-
gonisti; col tempo poi si allontanerà dal modello di Palo Alto aprendosi a nuove influenze (es. teoria
strutturale di Minuchin) ferma restando la sua collocazione all’interno di un approccio sistemico
che continua a privilegiare come punto di osservazione il problema individuale presentato nel qui ed
ora.

Dagli anni sessanta cominciano a delinearsi in America due differenti anime nell’ambito degli studi
sulla famiglia:
1. West Coast nordamericana (Palo Alto): si studiano gli assiomi della comunicazione e sviluppa
la teoria del doppio legame;
2. East Coast: i suoi studiosi contribuiscono ad orientare gli studi verso una prospettiva evolutiva
che tenga conto degli aspetti soggettivi e storici della famiglia.
Nelle formulazioni teoriche del movimento sistemico l’interesse si focalizza soprattutto interazio-
ni/comunicazioni osservabili dei sistemi familiari e sulle dinamiche del loro equilibrio e del loro
funzionamento. Il modello proposto da questo gruppo prevede un lavoro sulle modalità comporta-
mentali/comunicative in atto nel qui ed ora (senza il processo evolutivo). Conseguenza inevitabile
di tale visione è la messa tra parentesi dell’individuo, che viene considerato impenetrabile (come se
fosse in una scatola nera) nella sua soggettività, ovvero nei suoi pensieri, emozioni, motivazioni,
aspettative, immaginazione, significati ecc. Ciò significa che l’osservazione viene ridotta esclusi-
vamente agli aspetti pragmatici, dimenticando il fatto che dietro quest’armatura vi è un essere uma-
no con un passato, un presente, un futuro e un proprio mondo di significati. In tal senso, la teoria del
doppio legame rappresenta l’impossibilità dell’individuo di attingere al proprio bagaglio emotivo e
cognitivo per poter risolvere una situazione comunicativa contraddittoria.

227
Riassunti di Silvia Varro

Al contempo, tuttavia, questa visione è importante in quanto consente di scoprire l’esistenza di vei-
coli comunicativi multipli, verbali e non verbali, attraverso i quali possono circolare messaggi non
necessariamente contraddittori, ma congruenti gli uni con gli altri, come nel caso in cui una manife-
stazione verbale di gioia venga rinforzata da un tono vibrante della voce.
Sembra, comunque, che l’esclusione dal campo di indagine degli aspetti soggettivi e storici della
famiglia e l’individuazione di modalità comunicative differenti, consentano alla prospettiva sistemi-
ca di assumere un’identità autonoma importante rispetto all’approccio psicoanalitico, che pare foca-
lizzato esclusivamente sullo studio delle dinamiche intrapsichiche del soggetto isolato, privilegian-
do la componente verbale della comunicazione.
Questo gruppo, tuttavia, non lavora realmente con le famiglie, ma compie solo brevi interventi, in-
dividuali ad orientamento strategico. Nonostante ciò, il testo Pragmatica della comunicazione uma-
na (Watzlawik, 1967) diviene la Bibbia per gli operatori familiari, soprattutto in Europa, caratteriz-
zata da una maggiore discontinuità psicoanalitica.
In Italia risulta rilevante il contributo di Mara Selvini Palazzoli, alla quale si deve il merito di ap-
plicare le teorie sistematiche alla comprensione della famiglia e all’intervento con il gruppo fa-
miliare congiunto, cioè presente con tutti i suoi componenti durante il colloquio, piuttosto che in-
centrato sull’individuo (gruppo Palo Alto). Ma in questo ambito la Pelazzoli costituisce più
un’eccezione che una regola, perché nel corso degli anni si sono sempre più definiti sistemici quei
gruppi di lavoro che operano in vari contesti, anche non propriamente clinici (es. scuola, aziende,
istituzioni di cura) e, se clinici, non essenzialmente di tipo familiare.
Tornando agli Stati Uniti, contemporaneamente alla diffusione della prospettiva sistemica nello stu-
dio delle relazioni familiari nella West Coast, altri teorici relazionali cercano di affermare una con-
tinuità con la tradizione psicoanalitica puntando l’attenzione sugli aspetti soggettivi e storici della
famiglia: il tempo viene così reintrodotto nel sistema. Anche questi autori escono dall’ortodossia
psicoanalitica, ma per ampliarla, non per negarla.
Nessuno di loro si definisce sistemico, la matrice culturale di questi autori è ancorata profondamen-
te alla dimensione psicodinamica e alle teorie evolutive. La stessa Palazzoli abbandonerà l’ottica
sistemico-comunicazionalista per avvicinarsi alle teorie evolutive. A questi pionieri e i loro seguaci
sarà chiaro che lavorare con la famiglia significa incontrare gruppi familiari in diverse configura-
zioni con un’attenzione fondamentale allo studio dell’individuo, ai suoi processi di crescita, senza
metterlo tra parentesi, ma sollecitandolo a ricucire antichi tagli emotivi o a differenziarsi in modo
più chiaro dalle proprie dipendenze intergenerazionali per vivere in modo più autentico, non più
gravato da pesi intergenerazionali. C’è un’attenzione ai sintomi individuali, si storicizzano i com-
portamenti e si cerca di riportare il senso di responsabilità sia generazionale che individuale della
famiglia (responsabilità quasi negata dall’approccio con l’enfasi sulla causalità circolare).
Questa prospettiva si concentra su interazione (comportamento osservabile nel qui ed ora) e sulla
relazione (aspetto sottostante all’interazione, non sempre osservabile).
Dalla nascente prospettiva si differenziano sul piano applicativo due filoni:
1. Puristi dei sistemi come Haley, Hoffman e Palazzoli, che studiano la famiglia come sistema di
interazioni, ponendosi in una posizione di relativa distanza da ogni tipo di coinvolgimento per-
sonale e/o risonanza emotiva;
2. Operatori come Ackerman, Satir e Whitaker che usano la propria personalità, incluso l’istinto e
la creatività, come strumenti di valutazione e di intervento nelle relazioni familiari.
Il modello sistemico conosce un’evoluzione importante, che lo vede facondo di nuovi contributi.
Soprattutto negli ultimi trentacinque anni, grazie all’incontro con altri paradigmi concettuali (cogni-
tivo-costruttivisti, modelli evolutivi, ottica della complessità), vengono valorizzati aspetti inizial-
mente in ombra:
✓ Ricostruzione delle storie transgenerazionali e recupero del passato;
✓ Importanza del ciclo vitale;
✓ Rilievo delle soggettività individuali;

228
Riassunti di Silvia Varro

✓ Esplorazione dei miti e dei fantasmi familiari;


✓ Concezione del colloquio relazionale ispirata al dialogo e alla co-costruzione della relazione
con il cliente.

Per quanto riguarda l’Italia, e più tardi l’Europa, la psicoterapia familiare si afferma attraverso il
modello pragmatico-comunicazionale, forse proprio grazie alla sua discontinuità rispetto alla tra-
dizione. In Italia, infatti, il clima dei primi anni settanta è caratterizzato dal movimento dell’anti-
psichiatria che pone l’accento sulle determinanti socioeconomiche, “sistemiche” della malattia
mentale, in contrapposizione alla visione più introspettiva della psicoanalisi. Tuttavia, questo mo-
dello viene messo ben presto in crisi per lasciare spazio a una riconsiderazione del rapporto fami-
glia-individuo.
A Milano si sviluppano maggiori cambiamenti su due filoni: un gruppo si rifà alla seconda ciberne-
tica e si interroga sulla comunicazione prendendo in considerazione sia gli aspetti pragmatici che
semantici, qui la psicoterapia con la famiglia è co-costruzione di nuovi significati per permettere al-
la famiglia di organizzarsi secondo modalità più funzionali; mentre il Gruppo di Milano (Palazzoli)
recupera l’individuo attraverso la considerazione di strategie da lui utilizzate per la partecipazione
al gioco familiare. Il terapeuta, esterno alla famiglia, viene ritenuto colui che può, una volta ipotiz-
zato il gioco familiare, renderne impossibile la continuazione e favorire così la ricerca di nuove mo-
dalità di incontro, con un temperamento tecnocratico: l’approccio è quindi posto sulla tecnica e
sull’individuazione di principi e regole precise in base ai quali il sistema famiglia organizza i suoi
comportamenti. Risonanze affettive e movimenti transferali del terapeuta sono totalmente estranei
dalla terapia.
A Roma, nello stesso periodo, si sviluppano il pensiero trigenerazionale e i principi della teoria
evolutiva. Qui la comprensione dell’individuo e dei suoi processi di sviluppo avviene attraverso
l’osservazione trigenerazionale che guarda i comportamenti attuali come metafore relazionali, come
segnali indiretti di bisogni. Obiettivo del terapeuta è costruire una storia con la famiglia nel contesto
della terapia, che renda possibile apprendere come ricercare significati diversi negli eventi e nei
comportamenti reciproci, sperimentando nuove alternative di rapporto. L’obiettivo è costituito non
tanto da nuovi contenuti, quanto dall’apprendimento da parte dei membri della famiglia di una me-
todologia di lavoro, che permetta loro di conciliare l’essere di ciascuno con l’appartenere alla stessa
storia evolutiva e di continuare a farlo fuori dalla relazione con il terapeuta.
Il terapeuta ha così un’impostazione fenomenologica: ha di fronte a sé per tutto il tempo la soffe-
renza della famiglia e i modi con cui quest’ultima affronta questa esperienza. Il suo interesse è ri-
volto all’essenza stessa della famiglia e non solo alle sue funzioni e disfunzioni.

Per lungo tempo le teorie sistemiche hanno negato o almeno sottovalutato la componente strettamente
individuale delle forme di psicopatologia, infatti il portatore di patologie era descritto come “pazien-
te designato”, come a voler sottolineare che fosse la famiglia nel suo complesso a indicare proprio
lui come sintomatico. Questo è dovuto alle ricadute negative della teoria del doppio legame (in parti-
colare ne ha risentito la Scuola di Milano).
A partire dagli anni ottanta, con la riscoperta dell’individuo e della sua storia dello sviluppo, e re-
stituendo pieno valore ai sentimenti del paziente, come dei famigliari e del sistema dei terapeuti, ci
si è spostati nel versante relazionale. Quando ci troviamo di fronte a un bambino o un adolescente
con problemi psicosomatici o di apprendimento, ad esempio, ci interessa sia comprendere il funzio-
namento di quel bambino come entità complessa, servendoci di prove testologiche e/o consulenze
neuropsichiatriche, sia formulare una diagnosi relazionale che ci permetta di comprendere cosa vuol

229
Riassunti di Silvia Varro

dire quel disturbo alimentare o dell’apprendimento in quella famiglia, in quello specifico momento
del suo ciclo vitale.
Esempio: una coppia, dopo lunghi e faticosi tentativi di procreazione medicalmente assistita, adotta
un bambino vietnamita, vivendo esclusivamente in funzione di quest’ultimo e della sua crescita, di-
visi su tutto: modelli educativi, regole da far rispettare al bambino ecc. La situazione precipita
quando viene emessa una diagnosi di lieve ritardo mentale; i due genitori non accettano la diagnosi,
che sentono come un verdetto sul bambino e sui loro metodi educativi e sul loro fare i genitori: il
padre, che investe tutto su di lui e su cui proietta la sua infanzia infelice e la sua solitudine coniuga-
le, osteggia tutto ciò che gli esperti dichiarano, mentre la madre sente nel fallimento del bambino la
conferma degli errori educativi del marito, che non sa dare regole e si comporta come un bambino
lui stesso.
In tal caso bisogna ricostruire un confine tra adulti e bambino e restituire ai genitori una compe-
tenza condivisa, superando blocchi che riguardano innanzitutto i due adulti.
Un lavoro intergenerazionale è fondamentale per la diagnosi e la terapia del bambino, che tra l’altro
manda vistosi segnali di miglioramento ogni qual volta i genitori sono in grado di trovare e mante-
nere posizioni ferme e condivise nei suoi confronti. Allo stesso tempo, non bisogna sottovalutare la
dimensione scolastica del bambino, che già parte con l’handicap di essere stato abbandonato in un
altro paese e portato a vivere in un contesto ambientale e linguistico assai diverso, con ovvi proble-
mi di ritardo evolutivo e di non facile adattamento. Inoltre, risulta doveroso tradurre in concreto e in
interventi specifici (come la logoterapia) quando emerge dai test, che sono strumenti per orientarci
verso una guarigione piuttosto che giudizi sull’operato dei genitori o un verdetto sul futuro del
bambino.
Prendere in carico una famiglia vuol dire essere disponibili a incontrare i principali attori della vi-
cenda: genitori e bambino in quanto squadra primaria, le famiglie di origine dell’uno e dell’altra
e gli attori sociali (scuola, servizi psicologici dell’infanzia). Vanno inoltre favoriti i processi di in-
serimento del bambino nel gruppo dei pari (quartiere, campi scuola, luoghi di aggregazione ecc.).
La “patologia individuale” è una fase critica nell’evoluzione della famiglia, incapace di utilizzare
adeguatamente le proprie risorse nel momento in cui si trova ad affrontare un particolare stadio di
sviluppo. Ciò può causare blocchi dello sviluppo che possono manifestarsi attraverso la comparsa
di sintomi in uno o più componenti familiari, spesso nei figli adolescenti. Il comportamento sinto-
matico diventa allora il “materiale” su cui il terapeuta dovrà lavorare: proprio per la spiccata rela-
zionalità di quest’ultimo e per gli atteggiamenti correlati degli altri membri della famiglia, i sinto-
mi/disturbi di un individuo acquistano una straordinaria importanza come indicatori generazionali,
di genere o di trasmissione culturale.
I sintomi per cui vinee fatta una richiesta di intervento vengono generalmente presentati dalla fami-
glia come negativi, sbagliati, indesiderati o addirittura denunciati come qualcosa di riprovevole. Il
terapeuta deve però porsi rispettoso nei confronti di qualsiasi sintomo/disturbo, in quanto rappresen-
tano il primo legame significativo con la famiglia, non deve porsi come agente di controllo. Se il te-
rapeuta “sposa” il comportamento distruttivo o psicopatologico del paziente, allora la famiglia si
sente più sicura e libera di mostrare le proprie contraddizioni e paure, spesso trasmesse di genera-
zione in generazione.
Il modello trigenerazionale permette di superare una crisi su una persona per affrontare una crisi di
sviluppo in un gruppo con storia. Introdurre la generazione dei nonni nell’osservare il rapporto ge-
nitori-figli permette non solo di vedere le interazioni in atto tra più persone in seduta, ma soprattutto
di capire meglio l’individuo, il quale appare come un’entità più ricca di risorse, perché non è più
costretto nelle strettoie del qui ed ora. L’interazione tra più generazioni permette di accedere al
mondo interno dell’individuo e cogliere il legame tra le esperienze attuali e i bisogni irrisolti del
passato.

230
Riassunti di Silvia Varro

L’approccio relazionale-sistemico dà molta importanza al processo di differenziazione del Sé dalla


propria famiglia di origine, quindi l’individuo dovrebbe essere in grado di emanciparsi dalla propria
famiglia, superando i bisogni di dipendenza.
Il modello trigenerazionale, così come proposto da diversi pionieri della terapia familiare, prevede
l’osservazione delle relazioni familiari nella loro evoluzione del tempo, nonché tiene conto sia della
dimensione strutturale, sia della dimensione storico-evolutiva del sistema familiare.
Il modello strutturale di Minuchin può essere esemplificato dall’immagine di una casa a tre piani,
il piano dei bambini, il piano degli adulti e il piano degli anziani, in cui vi è un ascensore che sale e
scende a seconda dei bisogni di ciascuno dei componenti della famiglia. Ad
esempio un bambino può salire al piano dei genitori o a quello dei nonni, il
nonno può fare il bambino, il genitore il bambino, il bambino il nonno e così
via. L’ascensore però rimane un mezzo utilizzato per spostarsi da un piano
all’altro, mentre il piano è lo spazio in cui ci si colloca stabilmente. La pla-
nimetria di questa casa può essere rilevata dopo dieci minuti di gioco con
un bambino o parlando con una coppia di genitori, ciò è utilissimo per mo-
strare il delinearsi dei confini tra un piano e l’altro, la loro rigidità, la loro inesistenza o la loro chia-
ra presenza. La famiglia è considerata funzionante quando la casa è solida, con un ascensore che
sale e scende e con i piani delle generazioni ben definiti, questo solo in termini strutturali; per quan-
to riguarda il funzionamento familiare nella sua interezza è necessario valutare il processo evoluti-
vo che la famiglia compie negli anni, il suo ciclo di vita, il quale prevede la continua ristruttura-
zione della trama dei rapporti e dei suoi membri. Oltre ai momenti critici della vita della famiglia, i
quali apportano cambiamenti nell’organizzazione del sistema, ve ne sono altri non caratteristici
dell’evoluzione familiare e spesso non previsti. Per valutare il funzionamento è fondamentale os-
servare come le diverse generazioni, quella degli anziani, degli adulti e dei figli, dialoghino con il
mondo dei loro pari e come ciascuno rispetti il mondo relazionale dell’altro.
Nella valutazione clinica della famiglia vengono esplorati i momenti di transizione del ciclo vita-
le, le vicende familiari come nascite, aborti, separazioni, uscita di casa dei figli, crolli economici,
processi migratori, nonché osservato il modo in cui la famiglia ha reagito e reagisce a questi eventi.
In sostanza, la dimensione strutturale della famiglia permette di orientarci nel suo spazio, mentre i
processi di sviluppo ci parlano delle qualità affettive delle generazioni nel loro divenire.

?
Con il termine terapia individuale intendiamo un rapporto duale tra terapeuta-paziente; con tera-
pia di gruppo intendiamo invece un piccolo gruppo di persone (pazienti), sedute in circolo con la
presenza di uno o più terapeuti. Per quanto riguarda la terapia con la famiglia, è complesso capire
se c’è una regola univoca. Innanzitutto, parlare di sistema e parlare di famiglia non è antitetico, ma
non siamo neanche in presenza di due sinonimi.
• Sistema: teorie sistemiche (Teoria generale dei sistemi e System Theory);
• Famiglia: gruppo sociale con storia, non implica una specifica modalità con cui osservarla e de-
finirla. Esistono nuove e variegate forme di famiglia (famiglie nucleari, ricostruite, adottanti, di
cultura mista, di coppie omosessuali) ed è anche molto diverso parlare di famiglia intendendo
l’insieme di persone che vivono sotto lo stesso tetto, oppure se vogliamo riferisci alla sua storia
di sviluppo, e quindi osservare i piani generazionali.
Come si definiscono gli psicoterapeuti?
1. Sistemici: chiariscono così il modello a cui si rifanno e soprattutto non identificano la famiglia
come il target principale, o quanto meno, unico dell’intervento. Un intervento sistemico può ri-
ferirsi a una famiglia, una coppia, un individuo, un’équipe o un’organizzazione, un servizio di
salute mentale o un’azienda;

231
Riassunti di Silvia Varro

2. Sistemico-relazionali: si riferiscono a un modello misto, dove accanto alle teorie sistemiche


vengono studiati gli aspetti connessi alle relazioni umane mediante l’integrazione di alcuni ca-
pisaldi della teoria psicodinamica, che pone al centro della conoscenza e dell’esperienza tera-
peutica la relazione;
3. Familiari: ritengono che la terapia con la famiglia debba basarsi su un processo di collabora-
zione. In passato non è stato facile far accettare la proposizione con al posto di della famiglia.
La differenza è tuttavia sostanziale: la terapia con la famiglia parla di una terapia in collabora-
zione con il gruppo della famiglia; la terapia della famiglia, invece, vede la famiglia come og-
getto di osservazione e di terapia per l’esperto. Inoltre, affermare di fare terapia con la famiglia
fa intuire che si incontrano famiglie e non singoli individui che parlano della loro famiglia.

Fin dai lontani tempi di Virginia Satir si è scritto sulla cosiddetta Conjoint Family Theraphy vo-
lendo far capire che la vera novità di quegli anni fosse lavorare con famiglie intere e non con singoli
individui. Questa rivoluzione era ancora più significativa nel lavoro di Whitaker, Minuchin e An-
dolfi sui bambini e sugli adolescenti (riferendosi ai ragazzi da 14 ai 18 anni); tali autori, opponen-
dosi con forza al trattamento individuale di bambini, pratica comune ai neuropsichiatri infantili, si
rifiutavano di considerare i bambini come pazienti e trattavano sempre problemi-disturbi infantili
con la presenza attiva della famiglia. Oggi, tra gli stessi terapeuti sistemico-relazionali, esiste una
diatriba:
• I più sistemici affermano di fare terapia famigliare con un singolo individuo e che la presenza
degli altri componenti non è necessaria;
• Altri lavorano sui problemi infantili incontrando solo i genitori e magari convocando sporadi-
camente il bambino-problema.
Fare terapia sistemica oggi significa immergersi con il cliente in una complessa rete di idee, emo-
zioni, persone significative esplorate da due interlocutori mediante lo strumento linguistico. Il tera-
peuta deve trasmettere al cliente un modo di connettere le cose e le persone, gli eventi e i significa-
ti, liberandosi così dalla rigida visione di sé che lo circonda, nonché da una sua storia, divenuta in-
gombrante e fonte di sofferenza, per entrare in una nuova storia che gli offra maggiore libertà e au-
tonomia.

Mentre le terapie individuali, in genere, si basano su forti aspetti di co-dipendenza, nelle terapie
gruppali, in particolare quelle familiari, il concetto di dipendenza è assolutamente fuori luogo: una
famiglia può decidere di non tornare in terapia dopo pochi incontri. Inoltre, se un individuo sceglie
autonomamente di andare in terapia, una famiglia non lo fa mai, perché la scelta e l’accordo di un
gruppo sono soggetti a compromessi e a una costante dialettica, e la motivazione a intraprendere la
terapia, in genere, non è condivisa da tutti i membri della famiglia. Dar vita a una motivazione
congiunta è il primo obiettivo di un terapeuta familiare per costruire il sistema terapeutico; spesso
tuttavia due genitori o una coppia di coniugi, o un adolescente problematico, arrivano in terapia non
condividendo la stessa natura del problema o l’eventuale ricerca di soluzioni.
Una famiglia può dirsi motivata se ciascuno dei suoi componenti sente di poter ottenere dal tratta-
mento qualcosa di buono per sé stesso, cioè se sente che il lavoro che sta facendo potrà di riflesso
portargli dei vantaggi personali, anche se la richiesta è centrata sul comportamento sintomatico di
un solo componente familiare, ad esempio un figlio fobico o dai comportamenti depressivi, psicotici
ecc.
Deve esserci un problema che crea una sofferenza sufficiente a venire in terapia; la motivazione, in
questo caso, nasce da una situazione di impotenza e disagio del gruppo nei confronti di una pro-
blematica grave di uno dei suoi membri.

232
Riassunti di Silvia Varro

È poi nel corso della terapia che da questa problematica concentrata sulla sofferenza di un membro
del gruppo si può passare ad una ricerca motivazionale gruppale. Ad esempio, partendo dalla soffe-
renza generata dall’anoressia di una ragazza, si potrebbe passare ai problemi di controllo, negazione
del sé, autodistruzione agli altri componenti del gruppo, per cui ognuno, alla fine, potrà trovare
un’occasione di arricchimento personale.
È solo nel momento in cui si passa da una posizione di attesa e delega da parte dei membri del
gruppo nei confronti del terapeuta al momento in cui questi ultimi si propongono come risorsa tera-
peutica, assumendosi la responsabilità di quanto accadrà, che si mette in moto la terapia. Si apre co-
sì la possibilità per il terapeuta di utilizzare un setting multiplo.
Ad esempio, una coppia si trova in una situazione che sembra tormentare entrambi i membri, che
non sanno cosa fare della propria vita, dei figli e sono incerti sul restare insieme o separarsi. Viene
richiesta loro la partecipazione, nel processo terapeutico, delle proprie famiglie di origine. Ciò è una
provocazione che costringe entrambi a riesaminare la possibilità di chiedere ancora aiuto e di rimet-
tere in discussione su un piano emotivo rapporti interrotti o irrisolti con i propri gruppi originari. Se
la coppia accetta significa che è motivata a fare una terapia di coppia per il fatto che accoglie una
proposta che chiede loro in realtà di mettere in moto energie vitali, livelli di richiesta e di aiuto che
sembrano altrimenti impensabili; poter indirizzare una richiesta di aiuto a terzi significativi in una
situazione in cui si pensa di non essere in grado di aiutarsi reciprocamente, è un elemento importan-
te della motivazione e della capacità della coppia di iniziare una terapia.

Il discorso circa i tempi della terapia è molto eterogeneo:


• Tempi estremamente brevi: addirittura, l’effetto di contesto di una singola seduta può produrre
risultati terapeutici;
• Tempi lunghi: periodi che difficilmente superano i due anni, con sedute a frequenza quindicina-
le o mensile. Mediamente, una terapia si conclude nell’arco di alcuni mesi o, al massimo, di due
anni.
I tempi di verifica delle motivazioni personali di un cliente che chiede una psicoterapia individuale
possono invece essere decisamente più lunghi (dai due ai tre mesi). Per quanto riguarda la famiglia,
i cui conflitti sono più evidenti, i tempi per valutare l’opportunità della sua presa in carico sono no-
tevolmente più brevi (tre sedute circa). Come nella psicoterapia individuale, anche in quella fami-
liare vale il discorso secondo cui la terapia non inizia necessariamente quando le persone si incon-
trano: il fatto che la famiglia venga tutta insieme non significa di per sé che abbia già operato delle
scelte. Per tale motivo non è utile parlare fin dall’inizio di terapia, ma solo di “incontri preliminari
per valutare insieme se cominciare una terapia”, o consultazione. D’altra parte, in termini non for-
mali, secondo alcuni (gli autori del manuale Cionini) la terapia nasce già dal primo incontro, spesso
dalla prima richiesta di intervento formulata per telefono, tuttavia è più rassicurante, sia per il tera-
peuta che per la famiglia, pensare di avere del tempo per poter riflettere e scegliere se intraprendere
o meno insieme un cammino.
A differenziare ulteriormente la terapia familiare dalla terapia individuale sono la struttura e i
tempi della terapia: la terapia individuale prevede l’incontro con il paziente almeno una o due volte
alla settimana, in un setting duale che non prevede alcuna variazione; si tende invece ad incontrare
le famiglie su base quindicinale o talvolta mensile, allo scopo di non creare un’eccessiva dipenden-
za.
La terapia ha due dimensioni temporali:
1. Incontri terapeutici;
2. Intervalli tra gli incontri.
L’obiettivo è che la terapia si sposti rapidamente dallo studio privato a casa in modo che la famiglia
possa cimentarsi nel quotidiano in azioni e operazioni concrete, volte a produrre dei cambiamenti
relazionali. Gli incontri terapeutici saranno così una palestra per apprendere a muoversi in modo più

233
Riassunti di Silvia Varro

armonico e validare insieme le trasformazioni in atto. Così facendo, la terapia si prolunga nel tem-
po, anche se riduce notevolmente il numero delle sedute, diventando una terapia breve in un lungo
periodo (20-25 incontri in due anni circa).

La terapia relazionale, sin dalle prime fasi, prevede alcuni passaggi rilevanti, tra i quali
l’accoglienza, o joining e l’analisi della domanda, la quale consente di organizzare la conoscenza
del contesto entro cui si intende intervenire e perciò prevede l’indagine sulle motivazioni e sulle
aspettative che il paziente pone. È bene ricordare che ogni evento critico, ogni difficoltà del pazien-
te non vanno considerate semplicemente come incidenti da superare, bensì importanti segnali da
decifrare, di fatti, ciò che appare disfunzionale ad una visione immediata e superficiale, può far in-
travedere potenzialità di sviluppo.
È indispensabile partire da un’attenta valutazione del sistema di invio, considerando i presupposti
dell’inviante ben distinti da quelli della famiglia rispetto alla funzione che dovrà assolvere il tera-
peuta. In alcuni casi, infatti, la preoccupazione dei genitori può essere assai maggiore di quella del
figlio problematico, che viene pertanto spinto in terapia. Ciò che viene inviato in terapia non è sol-
tanto un problema da risolvere, ma una complessa rete di significati, che contiene al suo interno i
motivi e i sentimenti di un gruppo familiare spesso ipercoinvolto.
Successivamente, il terapeuta inizia la raccolta delle informazioni entrando in contatto con perce-
zioni interne, emozioni e affetti ed esplorando i significati che questi hanno assunto per le persone
coinvolte. È necessario assumere una posizione meta, mantenendo una certa distanza ma utilizzan-
do tutta la propria curiosità in modo da vedere le cose senza rimanerne coinvolto (equilibrio tra
l’agire e il reagire).
Spesso il paziente si crea una “corazza protettiva” rispetto a uno specifico problema, spetta al tera-
peuta promuovere una rilettura degli eventi. La metafora dell’imbuto rovesciato è utile per illustra-
re la situazione che caratterizza un primo modo di raccogliere le informazioni nel colloquio: nella
parte superiore dell’imbuto, quella larga, c’è il cliente con la sua storia particolare, le sue relazioni
ed esperienze significative, che nel tempo hanno delineato la sua visione della realtà e la sua perso-
nalità. Durante il colloquio l’individuo espone la propria lettura degli eventi, rispondendo al natura-
le bisogno di dare un senso riduttivo alle cose. Quanto più l’informazione viene indi-
rizzata in una specie di canale rigido dove non c’è più spazio per il dubbio, tanto più si
ha una conoscenza sclerotica e riduttiva. Se il terapeuta sceglie di stare dalla parte stretta,
terminale dell’imbuto, sarà inevitabilmente sopraffatto dalle informazioni che provengono
dall’alto, senza possibilità di osservazione e discriminazione. Il terapeuta competente do-
vrebbe essere in grado di cogliere gli elementi più salienti e carichi di emotività del racconto e ricol-
legarli in modo adeguato tra loro, costruendo nuove ipotesi relazionali, compiendo un’operazione di
capovolgimento dell’imbuto: allargare permette di collegare avvenimenti e persone in modo diverso
e ricevere risposte più ricche che danno un senso di maggiore complessità all’individuo.
Un elemento importante è dove si colloca il terapeuta nell’osservare ed effettuare connessioni: col-
legandosi in una posizione troppo riavvicinata, rischia di farsi coinvolgere al punto di assorbire pas-
sivamente ciò che l’altro porta; a una distanza giusta può vedere l’insieme, ma nello stesso tempo
avvicinarsi e cogliere il particolare. Può addirittura spostarsi nella parte superiore dell’imbuto, come
se fosse il cliente.

I triangoli relazionali sono le strutture elementari di tutte le relazioni, comprese quelle in cui appa-
rentemente sono interessate solo due persone, in cui è possibile vedere come esista, per ciascuno dei
soggetti coinvolti, una figura di riferimento che fa da terzo nella relazione, pur appartenendo a un
altro spazio, tempo o livello generazionale.

234
Riassunti di Silvia Varro

Una tipologia di triangolo relazionale è il triangolo trigenerazionale, in cui le persone coinvolte


sono collocate su tre piani generazionali diversi (ad esempio nonno, genitore, nipote). Per famiglia
trigenerazionale intendiamo una mappa familiare allargata, che si dispone lungo un piano vertica-
le, attraversato da almeno tre piano orizzontali. Su ciascun piano vengono collocati tutti coloro che
appartengono alla stessa generazione, per cui, dall’alto in basso la generazione dei nonni, quella dei
figli e quella dei nipoti.
La comprensione dell’individuo e dei suoi processi di sviluppo viene favorita dalla costruzione di
uno schema di osservazione che permette di leggere i comportamenti attuali di una persona come
metafore relazionali, ovvero come segnali indiretti di bisogni e coinvolgimenti emotivi del passato
che si manifestano nelle relazioni presenti.
Acquistano grande importanza i miti familiari, griglie di lettura della realtà, in cui coesistono ele-
menti reali ed elementi fantastici. Forti risposte emotive e tensioni familiari importanti, causate da
eventi specifici della vita (separazioni coniugali, malattie croniche, lutti ecc.), fanno assumere a cia-
scun membro della famiglia e mantenere nel tempo ruoli e funzioni diversi a seconda della posizio-
ne di ciascuno all’interno di quella particolare “costellazione mitica”. Poiché tanti credono nella sua
verità, il mito può evolvere attraverso almeno tre generazioni, rappresentando un elemento di unio-
ne e coesione. Tuttavia, aderire ai miti familiari senza senso critico può essere limitante e ingabbia-
re le nuove generazioni in comportamenti ripetitivi e prevedibili.
La storia della famiglia trova una rappresentazione grafica nel genogramma, un diagramma delle
relazioni della famiglia estesa, che include almeno tre generazioni, utilizzato dal terapeuta per avere
una rappresentazione visiva del mondo familiare e i suoi significati affettivi. Il genogramma include
particolari in rilievo tra cui:
✓ Nomi e età di tutti i membri della famiglia;
✓ Date specifiche di eventi significativi (nascite, morti, matrimoni, separazioni ecc.);
✓ Cenni su attività lavorative;
✓ Titoli di studi;
✓ Modelli comportamentali.
Il genogramma permette alla persona che lo descrive di vedere sé stesso nel quadro più vasto della
propria famiglia, di portare alla luce elementi rimossi o rimasti in ombra, di rivivere il proprio pas-
sato facendo emergere ricordi, affetti e rancori nel contesto delle relazioni con la famiglia di origine
e consentendo la scoperta e la ridefinizione degli eventi più significativi che li collegano. La lettura
critica che ne deriva svela blocchi emotivi, segreti, miti e alleanze, elementi che offrono
all’individuo la possibilità di migliorare un progetto di vita.
Un’altra modalità, questa volta analogica e non verbale per osservare “dal
vivo” le relazioni familiari è la scultura familiare, introdotta nell’ambito
della psicoterapia sistemico-relazionale da Virginia Satir. La scultura
consiste nella “costruzione” di una rappresentazione visiva e spaziale
delle relazioni familiari da parte di uno o più membri della famiglia in
seduta attraverso la disposizione dei corpi nello spazio, le posture, il gioco
delle vicinanze e delle distanze, la direzione degli sguardi. La lettura della
realtà viene così ampliata saltando la mediazione del linguaggio e superando i vincoli della logica
razionale. Possono quindi emergere le immagini mitiche della famiglia, gli stereotipi di genere e i
pregiudizi verso un membro familiare, nonché visualizzare i vuoti e i pieni delle relazioni affettive.
Una volta individuati i nodi problematici, il terapeuta, insieme alla famiglia potrà permettersi di uti-
lizzare al meglio risorse e competenze di ciascun individuo: il sintomo, la malattia, il disturbo psi-
cologico/relazionale non sono più fonti di malessere per l’intera famiglia, ma diventano ponti di
conoscenza e occasioni vitale per ritrovare il senso del Noi e per riscoprire il valore della solida-
rietà e del sostegno reciproco.
Molto spesso, il paziente sintomatico che porta la famiglia in terapia è un bambino, il cui disturbo
psicologico è sempre un problema familiare. Il bambino può rivestire la valenza simbolica di un

235
Riassunti di Silvia Varro

ponte tra le generazioni, ma viene spesso caricato di eccessivi pesi e responsabilità relazionali. Il
modo migliore per prendersi cura di lui e valutare il grado di flessibilità della famiglia verso un
cambiamento è sollecitare una collaborazione attiva del bambino e restituirgli una voce nel conte-
sto delle sedute familiari; ciò permette di restituire indirettamente competenza e responsabilità ai
genitori.
La forma migliore di co-terapia è quella in cui, da un lato, si utilizzano le conoscenze e le esperien-
ze professionali del terapeuta, e dall’altro, le risorse umane sperimentate sul campo attraverso soffe-
renza e difficoltà della famiglia, in cui il portavoce più rappresentativo è il bambino.
Il modello trigenerazionale permette di utilizzare la competenza del bambino nel mediare tra la ge-
nerazione degli adulti e quella degli anziani. È una mediazione concreta, ottenuta dalla presenza
fisica degli attori principali della famiglia. Perché l’incontro sia efficace, questo dovrà essere un in-
contro per tutti: il filo rosso che connette le persone ai significati delle storie diverse di sviluppo do-
vrà correre sempre lungo un continuum al quale tutti i membri potranno riconoscere la propria ap-
partenenza. Tutto ciò potrà tanto più facilmente verificarsi quanto più il linguaggio del terapeuta sa-
rà semplice e concreto: sono proprio le domande semplici e comprensibili che dovranno poter sca-
turire dalla complessità del modello ben presente nella mente del terapeuta.
Gli effetti positivi della terapia sono il risultato di un’esperienza vissuta in gruppo che ha come con-
tenuto speciale la rivisitazione al presente della storia passata, in modo da rendere immediata-
mente visibile la connessione tra i due tempi che diventano un punto di partenza dal quale potersi
muovere o indietro o avanti nel tempo:
1. La problematica per cui la famiglia è venuta in terapia;
2. Il presente dei problemi (spesso rappresentato proprio dal bambino).

Nel 1971 Jim Framo sbarcò in Italia (suo paese di origine) per presentare il suo lavoro clinico a
Roma. Ciò sorprese l’uditorio fu la sua profonda umanità, il suo calore nell’intervistare una coppia
di terapeuti familiari di fronte a tutti i presenti, nonché la sua partecipazione emotiva alla sofferenza
della coppia, che era passata attraverso il dolore di ripetuti aborti, senza riuscire ad avere figli. Riu-
scì a far questo senza ricorrere a particolari tecniche. Colpiva anche la sua affermazione: “Therapy
is an experience!”, inoltre, il fatto di esporre tematiche coniugali così delicate e personali di fronte
ad un pubblico vasto, senza tener conto della privacy, era per molti presenti piuttosto inconsueto e
appariva un po’ esibizionista. Soltanto qualche decennio dopo, si scoprì il valore dell’esperienza
condivisa in seduta con la famiglia, come elemento fondante dell’intera impalcatura terapeutica.
Il lavoro di Whitaker ci ha permesso di riscoprire il valore dell’essere e non del fare il terapeuta,
tuttavia descrivere l’essenza è difficile, si corre il rischio di trasformarlo in un dogma religioso per-
dendo il limite nell’operare, che è pur sempre quello di una professione di cura.
Andolfi descrive come spesso i terapeuti siano concentrati sui cambiamenti perdendo il valore dello
stare nel dolore, nelle difficoltà, capacità che invece permette quel processo di normalizzazione.
Whitaker afferma di ricercare nella terapia quei frammenti di esperienze passate dei clienti che non
sono state ancora rivelate o assimilate, le quali quando diventano consapevoli, gettano ombre su tut-
to ciò che è stato detto o sentito in terapia (e ciò non lo fa solo il paziente ma anche il terapeuta con
la sua esperienza professionale).
Nello spazio terapeutico si sperimenta qualcosa di profondamente umano e creativo, ma “Cosa ci
mette di suo il terapeuta?”. La risposta “la sua competenza professionale” è banalizzante e lo priva
della parte più autentica e umana. Il dilemma tra ruolo e persona è sempre esistito nelle profes-
sioni di aiuto. È indubbio che le terapie che si basino su una forte dipendenza, come quelle indivi-
duali, tenderanno ad organizzare l’incontro su basi maggiormente gerarchiche e asimmetriche, dove
il terapeuta può trovarsi costretto a giocare un ruolo genitoriale; nelle terapie gruppali, in particolare
in quelle familiari, il concetto di dipendenza è fuori luogo, mentre è necessario costruire una moti-
vazione congiunta, compito peraltro non così facile.

236
Riassunti di Silvia Varro

Quando il terapeuta inizia una terapia familiare si prepara ad un incontro tra due mondi familiari:
quello della famiglia, presente nella seduta con tutta la sua problematica, e quello della famiglia in-
terna del terapeuta; sono innumerevoli le sollecitazioni che il terapeuta può ricevere dai suoi clien-
ti, che possono riattivare, nel momento presente, immagini, espressioni, gesti, parole, domande, stati
d’animo, battute, che riguardano il suo mondo familiare o le sue esperienze terapeutiche precedenti.
Lutti, separazioni, nascite, malattie, raccontati dalla famiglia, possono sovrapporsi a ricordi di even-
ti simili vissuti dal terapeuta nel corso della sua esistenza. Tale concetto di esperienza condivisa
insieme dalla famiglia e dal terapeuta viene definita da Elkaim come risonanze terapeutiche o rea-
zioni emozionali, mentre Whitaker parla di ombre di contesto.
Il terapeuta, osservando la famiglia fin dalle battute iniziali, i modi in cui ciascuno si siede e intera-
gisce con gli altri, può immaginarne il funzionamento e intuirne le aree di sofferenza, spesso nasco-
ste dietro la maschera familiare e i sintomi del paziente; ciò può spingerlo a indagare su cose non
esplicitamente visibili, cercando di andare al cuore di ciò che ritiene sia il nocciolo duro del loro
star male.
È utile lasciarsi guidare da un componente della famiglia, spesso quello più problematico; spesso si
tratta di un bambino o un adolescente.
Il terapeuta quindi, da un lato crea un’alleanza con il paziente, e dall’altro inizia un
dialogo interno volto a dar senso alle reazioni emotive; questo aiuta nella
selezione dei frammenti delle proprie esperienze associate appropriamene
alle situazioni del momento. Così inizia la costruzione del puzzle dove
ciascuno, terapeuta incluso, mette parti di sé, per formare il sistema tera-
peutico. Successivamente la famiglia sceglierà quali parti tenere e svilup-
perà un proprio puzzle.
Chi opera nella sofferenza e nel senso di impotenza delle famiglie deve
stare molto attento a non sovrapporre problematiche proprie, c’è il rischio di non essere consapevoli
del contro transfer (proiettare parti di sé nello scenario terapeutico). A tale ragione è consigliata la
co-terapia e il lavoro di équipe, cioè avere un vertice critico e non autoreferenziale.
Basilari per la formazione del terapeuta sono gli scritti di Stern, che pur non essendo un terapeuta
della famiglia, studia il conoscere implicito: l’assunto è che il cambiamento sia fondato
sull’esperienza vissuta e che molto di quanto vissuto nel momento presente rientri nell’ambito del
conoscere implicito. Arriva ad affermare che il presente e la coscienza sono i centri di gravità, non
il passato e l’inconscio. Il conoscere relazionale implicito viene definito da Stern come campo di
conoscenza e rappresentazione non verbale, non simbolico, non narrato, non cosciente. Consiste in
procedure motorie, pattern affettivi, aspettative e anche schemi cognitivi. La maggior parte di tutto
ciò che conosciamo del nostro rapporto con gli altri (incluso il transfert) rientra nel conoscere rela-
zionale implicito. L’80% di ciò che accade in seduta avviene sul piano della coscienza fenomeno-
logica, che consiste di esperienze di cui siamo consapevoli solo mentre accadono, dopodichè svani-
scono, non sedimentano nella memoria. Quando, invece, due individui co-creano un’esperienza in-
tersoggettiva in un momento presente condiviso, la coscienza fenomenologica di uno si sovrappone
a quella dell’altro, generando un sincronismo tra qualcosa che uno dei due mostra di sé e che l’altro
coglie. Tale esperienza viene vissuta da entrambi, ciascuno partecipa intuitivamente all’esperienza
dell’altro. Tale condivisione intersoggettiva entra a far parte della coscienza implica sulla loro rela-
zione.
È la storia che guarisce: Stern permette di andare oltre tale intuizione ed aprire un campo di ricer-
ca e di studio straordinario, così da allargare le strettoie del modello sistemico-relazionale.

Il processo di unione tra famiglia e terapeuta inizia sin dalla prima telefonata, contemporanea-
mente inizia anche il processo di separazione, in quanto il terapeuta non accetta passivamente le
richieste, ma amplia costantemente il quadro di riferimento, cercando di introdurre nuove variabili,
ridefinendo le affermazioni dell’interlocutore, tentando di creare all’interno della sua visione del

237
Riassunti di Silvia Varro

problema un nuovo schema percettivo. È proprio la possibilità di esplorare aree sempre nuove e
problematiche che permette di differenziare in esse quegli aspetti che servono a costruire una nuova
realtà, separandosi da quella vecchia. Solo grazie al tempo si potrà parlare di particolari intimi o
problemi spinosi e questo grazie al processo di unione, all’intimità raggiunta. La separazione non è
quindi un evento che si verifica in un momento ben preciso, ma un processo che inizia con la tera-
pia e l’accompagna fino alla sua conclusione. Un passaggio importante di tale processo è
l’allargamento del contesto che segue la richiesta di far partecipare alla seduta i membri della fa-
miglia di origine dei pazienti, in un continuo movimento tra unione e separazione: egli lo provoca
nel momento in cui unisce le generazioni, riscoprendo aspetti comuni delle storie personali, per poi
separarle quando qualcuno verifica che i vuoti della propria storia non possono essere riempiti dalla
storia di un altro. Il terapeuta, a sua volta, entra in gioco in questo processo quando durante il joi-
ning si accosta il più possibile alla famiglia (unione) per separarsene proponendo nuovi triangoli re-
lazionali (separazione).
Secondo Bateson (1979) ciò che viene appreso sono certi contesti in cui i fatti e gli oggetti si collo-
cano e l’apprendimento più difficile è quello di un contesto dei contesti, contesto che permette di
“comprendere” i vari contesti. L’esperienza dei diversi contesti appresi rappresenta la nostra storia,
ogni contesto è un insieme di più elementi (oggetti, persone, contenuti ecc.) e la perdita di uno di
questi è un’esperienza di separazione. La domanda è quindi “Come mantenere una continuità nono-
stante le differenze e le perdite?”. La risposta è quella di cercare un contesto dove dare una nuova
forma e unificazione alle diverse esperienze di separazione, trovare gli elementi di mediazione che
supportino le situazioni contraddittori. Ecco perché il terapeuta, in questa prospettiva, diventa il
tramite per l’unione di contesti e di esperienze diversi. Lo spazio terapeutico, il luogo materiale do-
ve si svolgono le sedute, diventa il punto di incontro di contesti diversi e lontani nel tempo e il luo-
go di costruzione del contesto dei contesti.
Il “tempo” degli incontri segue il ritmo della relazione terapeutica e la sua naturale evoluzione. Un
intervallo tra le sedute dai quindici ai trenta giorni è il più adatto a rispecchiare il “periodo di laten-
za” di ogni nuova manifestazione delle relazioni familiari. Gli intervalli rappresentano lo spazio per
la famiglia di elaborare gli stimoli e produrre elementi di novità, nonché riflettono le diverse fasi
della terapia. Infatti, nella formazione del sistema terapeutico (primi incontri) ci saranno intervalli
non troppo ampi, mentre quando la famiglia sentirà il bisogno di sperimentare l’autonomia (bisogno
che il terapeuta deve cogliere, favorire e rassicurare) diminuirà la frequenza degli incontri.
Secondo Karen Horney (1964), psicoanalista neo-freudiana e precursore dei pionieri della terapia
familiare, la conquista del Sé reale è un processo lungo e faticoso, che fa oscillare l’individuo tra
un’immagine idealizzata di sé, una sorta di Sé grandioso senza confini, e quella opposta, dove inve-
ce prevale il disprezzo di sé (“Non valgo nulla”).
Donald Williamson (vero caposaldo delle terapie sistemico-relazionali) vede la crescita come dif-
ferenziazione del proprio Sé dalle rispettive famiglie di origine; tale processo di autonomia indivi-
duale è spesso chiamato svincolo familiare.

Andolfi afferma che la terapia finisce quando comincia, volendo esprimere il fatto che la terapia
può terminare quando la famiglia fa proprio un metodo di lavoro che le permetta di sentirsi compe-
tente, di affrontare autonomamente nuove crisi evolutive. Per questo è importante verificare il per-
corso della famiglia dopo il processo terapeutico. Le sedute di follow-up sono sempre presenti, si
tratta di incontri organizzati dopo almeno sei mesi, a volte anche dopo alcuni anni dal termine della
terapia, per dare voce ai familiari sul significato della loro esperienza terapeutica. Somigliano spes-
so più all’incontro a distanza di tempo di vecchi amici che hanno condiviso momenti emotivi di
grande intensità. Queste sedute rappresentano il rito di chiusura della terapia, qui la famiglia con-
divide i passaggi trasformativi vissuti in autonomia estinguendo il debito di riconoscenza, toglien-
dosi l’etichetta di pazienti e chiudendo il cerchio.

238
Riassunti di Silvia Varro

Da tempo nell’Accademia di Psicoterapia della Famiglia vengono offerti servizi clinici. Si operano
prevalentemente nell’area di età evolutiva affrontando quindi un ampio spettro di problemi infantili
(disordini relazionali, autismo, disturbi dell’apprendimento e della condotta). Recentemente ci si sta
muovendo in aree di frontiera come la psico-oncologia e l’ampio e variegato territorio delle perdite
traumatiche.

Situazione clinica paradigmatica incontrata in terapia da Andolfi a Toronto


Thomas e la violenza paterna: Thomas è un ragazzo di 11 anni, ha comportamenti aggressivi a
scuola e una forma di rabbia esasperata nei confronti del padre, il quale alterna assenza a pre-
senza. Il fratello di Thomas, Alex, è risparmiato dal modello educativo centrato sulle percosse
del padre grazie al suo handicap psicomotorio. La mamma è ipercoinvolta, non sa aspettare
l’aiuto del marito o la sua assenza, fa da mediatore tra Thomas e il padre cercando di evitare il
peggio (dialogo pag. 343 del manuale di Cionini).
Emerge la distanza esasperata tra padre e figlio e il terapeuta cerca di ridefinirla come possibilità
di vicinanza attraverso un confronto fra i due cambiando canale comunicativo (dal parlare
all’agire) (dialogo pag. 345-346).
L’eredità del padre, far entrare la storia del padre (scappato di casa perché maltrattato dal padre,
lontano dalla madre separata) permette un punto di viraggio. I figli vedono nel padre il coraggio
di abbandonare la famiglia a 12 anni quindi non più solo un padre violento e depresso (dialogo
pag. 347)
La forza percepita come pericolosa e distruttiva viene trasformata (forza di affrontare la depres-
sione) in un elemento che unisce padre e figlio, in questo Thomas sostiene il padre e lo conferma
(dialogo pag. 347-348).
“Penso che lei abbia sofferto molto, che abbia dimostrato una forza incredibile a dodici anni, ma
è molto difficile trasmetterla ai suoi figli, se prima non la ritrova in sé stesso” (terapeuta rivolto
al padre).

La formazione teorica e tecnica non è sufficiente, il terapeuta deve saper entrare in una relazione in-
tesa e personale per costruire un’esperienza trasformativa. Quindi deve comprendere e saper uti-
lizzare gli aspetti della propria personalità, fare pratica di una comprensione sistemica della realtà
terapeutica (può richiedere tempi lunghi).
Whitaker vede il percorso (che può essere lungo un’intera vita professionale) come passaggio dal
fare il terapeuta all’essere terapeuta. Due livelli di formazione:
1. Formazione personale: si occupa dello studio dell’osservazione relazionale dello sviluppo di
famiglie normali, quindi attraverso role-playing si sperimentano domande circolari e diagnosi
relazionali. Si incrementa la capacità auto-riflessiva studiando in un gruppo in genogrammi fa-
miliari di ciascun allievo e poi la rappresentazione spaziale (scultura familiare). Ciò permette di
osservare le diversità notevoli. In questo caso l’allievo acquisisce sulla propria pelle un modo
più autentico di sentirsi nella propria famiglia e come persona adulta.
2. Training clinico: l’obiettivo formativo sono le basi della psicoterapia familiare. Si segue un
modello integrato (teorie sistemico-relazionali e aspetti psicodinamici) e consiste nel cimentarsi
in una terapia in solitaria o in co-terapia sotto la supervisione diretta di un trainer. L’allievo è
sollecitato a mettere in pratica quanto appreso dalla teoria e dai role-playing: analisi della do-
manda, diagnosi relazionale, costruzione di una motivazione congiunta e formulazione di un
piano terapeutico. Inoltre, analizzerà le proprie reazioni emotive per poterle usare al servizio
della terapia. Dalle sedute con la famiglia emergeranno le potenzialità creative come gli handi-
cap personali che il trainer dovrà saper accogliere (così come accoglie quelli della famiglia) per
poterli poi trasformare in risorse attive.

239
Riassunti di Silvia Varro

Se il termine inter-venire suggerisce l’attiva partecipazione ad una situazione, il termine processo


estende tale partecipazione in un tempo più o meno lungo, indicando il “modo di procedere in
rapporto ad un determinato fine”. Il termine intervento è rintracciabile in qualunque ambito
(l’intervento dell’arbitro in campo, l’intervento idraulico, l’intervento dei Caschi blu ecc.), si riferi-
sce a specifiche professioni, riconoscendogli le competenze necessarie ad affrontare determinate si-
tuazioni. Ogni professione, d’altro canto, si distingue dalle altre, in ragione dell’oggetto su cui in-
terviene e delle prassi che riconosce valide per raggiungere determinati obiettivi.
Ogni intervento si attiva in ragione di una richiesta, la quale esplicita la distanza percepita tra il
modo in cui stanno andando gli eventi e il modo in cui si ritiene che dovrebbero andare (es. si chia-
ma l’idraulico nel caso di un bagno allagato); la richiesta comporta, da parte del professionista
chiamato in causa, l’attivarsi di un processo conoscitivo e operativo che non può essere ridotto ad
una singola prestazione; l’intervento si attua in uno spazio/tempo dedicato.
L’intervento trova luogo in un campo che spazia dalla promozione del benessere al confronto con il
disagio psicopatologico, delineando ambiti spesso raccolti sotto la voce tutela della salute, potendo-
si rivolgere a individui, gruppi e comunità (es. intervento realizzato presso le scuole, richieste
espresse da parte degli operatori di servizi pubblici ecc.).
La psicologia non offre un prodotto ma un servizio: non offre cioè un oggetto tangibile che prevede
tempi diversi per la produzione, la verifica del prodotto e il consumo, bensì un oggetto è immateria-
le:
• Il momento della produzione e del consumo coincidono;
• Non si può immaginare una verifica se non dopo il consumo;
• La realizzazione non può prescindere dal coinvolgimento delle persone implicate nel processo
di produzione.
In psicologia, inoltre, ci si rivolge a clienti, che pur patendo la propria condizione, non sono rap-
presentabili come soggetti passivi. Si pensi che il termine “paziente”, con cui si designa chi si ri-
volge al medico, etimologicamente rimanda sia al significato di sofferenza che ad un comportamen-
to passivo da contrapporsi a quello agente, proprio del curante. L’intervento psicologico richiede,
invece, l’attiva partecipazione dell’interlocutore, necessariamente implicato nel cambiamento da
lui auspicato.
A causa della molteplicità delle richieste che possono essere rivolte ad uno psicologo, è utile diffe-
renziare richiesta e oggetto dell’intervento:
• Richieste: esprimono il punto di vista del cliente e possono indicare diversi fenomeni di interes-
se, i quali si riferiscono alla concretezza dei fatti, un comportamento, una questione critica, un
insieme di caratteristiche personali così come sono interpretate dal senso comune (es. Antonio è
simpatico);
• Oggetto di analisi: riguarda la modellizzazione del fenomeno in termini teorici, ovvero nei ter-
mini dei costrutti psicologici adottati dal clinico.
Lo psicologo compie una prima traduzione del fenomeno in un oggetto concettuale. Ciò nono-
stante l’intervento deve essere condotto in un linguaggio sempre vicino ad entrambi gli interlocuto-
re. Per questo il clinico sarà impegnato anche in una seconda traduzione, ovvero nella capacità di
esprimere l’oggetto in termini comprensibili al paziente.
In breve, l’intervento psicologico è caratterizzato da una continua e necessaria circolarità tra un
approccio nomotetico (riconduzione del fenomeno ad un oggetto concettuale) e approccio idio-
grafico (attenzione alla soggettività del cliente).

240
Riassunti di Silvia Varro

È la dimensione spazio/temporale del processo di intervento. In termini generali, esso può essere
definito come l’insieme delle condizioni che delimitano, ospitano e sostengono l’intervento. In que-
sta accezione tutti i mestieri e le professioni si svolgono in un setting (il pasticcere in laboratorio, il
meccanico in officina, ecc.). Esso può essere concepito come una cornice (frame, cadre) che distin-
gue un dentro (delimita), debitamente predisposto per l’obiettivo che in esso si persegue (ospita), e
un fuori.
Il setting ha diverse caratteristiche che nel complesso costituiscono lo scenario:
• Materiali, nel caso dello psicologo, spazio silenzioso, accogliente, protetto, atto a portare avanti
un colloquio o, comunque, una attività psicologica (sostiene), in un tempo predefinito e concor-
dato (delimita);
• Procedurali (regole di comportamento: onorario, assenze, ritardi ecc.);
• Processuali (relative alla dimensione tecnica).
Molti autori sottolineano come questo debba rimane stabile, affidabile, costante, prevedibile, così da
offrire continuità al processo, fornire contenimento, favorendo la costruzione di un clima empati-
co e conferendo identità alla relazione.
Fino agli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso si è ritenuto che il setting fosse necessario, ma
chiaramente distinto dal processo. Tale distinzione è stata messa in discussione: oggi possiamo af-
fermare che il setting è un con-testo, ovvero un “luogo” che contribuisce alla formulazione del testo
(colloquio/attività) poiché esprime, sollecita e contiene i pensieri e i vissuti dello psicologo e del
cliente. Tale setting andrà rimodulato in ragione del singolo cliente e arriverà a configurarsi, ogni
volta, come unico. Parallelamente, il setting assume un significato per il cliente e tale significato
andrà esplorato. L’istituzione di un setting richiede uno specifico lavoro, poiché le scelte compiute
contribuiranno ad orientare il processo che si intende realizzare; come afferma Bass “una sola taglia
non si adatta mai a tutti”.

Colui che si rivolge allo psicologo, in condizioni di criticità o sofferenza, un individuo o un gruppo
(es. famiglia, organizzazione rappresentata dalla dirigente di una scuola o da un primario ospedalie-
ro) esercita una funzione di committenza, ossia di implicazione dello psicologo nel suo problema e
porge in delega, a quest’ultimo, alcuni aspetti (o la totalità) delle strategie da lui impiegate nella
gestione/soluzione della propria condizione critica. Il cliente può veicolare una richiesta per se stes-
so o, in alcuni casi, può farsi portatore di una preoccupazione per un altro: un figlio, un coniuge,
uno studente della propria scuola; la richiesta può riguardare sintomi invalidanti o aspetti di sé che
non si è in grado di integrare, o esperienze difficili da metabolizzare. In tutte queste situazioni, il
cliente chiederà allo psicologo di intervenire dove lui si sente inadeguato e impotente.
Ogni richiesta di aiuto psicologico è inscritta in una rete di relazioni significative, reali e fantasma-
tiche, che contribuiscono a strutturare il significato dell’intervento richiesto e che vanno tenute in
considerazione. Si pensi, per esempio, alla relazione tra il committente (ad es. il padre, la preside, il
medico, ecc) e la fonte delle sue preoccupazioni (ad es.:il figlio, lo scolaro, i pazienti di un reparto,
ecc.), quella tra eventuali ulteriori professionisti implicati nel processo di invio (si pensi, ad esem-
pio, all’invio da parte di un medico di base che
spera di risolvere le persistenti richieste di aiuto
di una signora che non presenta problematiche
somatiche), e quella tra lo psicologo e
l’istituzione in cui opera.
In linea generale, la prima funzione del lavoro dello
psicologo è accogliere la complessità, osservare il mo-
do in cui essa si declina nella stessa richiesta di aiuto,

241
Riassunti di Silvia Varro

istituendo un processo di intervento che è volto proprio a istituire con il cliente un pensiero sulla
propria delega e a restituire la capacità autonoma di orientare le sue azioni. Esempi:
• Una giovane donna richiede un incontro perché insoddisfatta delle sue relazioni sentimentali, si
sente incapace di intraprendere una relazione stabile e vuole capire i motivi che la portano a
scegliere sempre partner sbagliati. La donna delega quindi allo psicologo la comprensione di
quei meccanismi della sua psiche che le impediscono una relazione sentimentale soddisfacente;
• Una equipe di medici pediatri chiede un colloquio con uno psicologo per potergli sottoporre
l’ansia crescente osservata nei genitori dei loro piccoli pazienti e che loro non si sentono in gra-
do di gestire. In tal caso l’equipe delega allo psicologo la gestione dell’ansia genitoriale.
L’attenzione dello psicologo non sarà diretta solo all’analisi dei fatti e degli accadimenti, né a cerca-
re una soluzione (soluzionare potrebbe depotenziare il cliente instillando la convinzione di non esse-
re in grado di trovare soluzioni autonomamente), piuttosto a comprendere le ragioni che ostacolano
l’interlocutore nella ricerca della propria soluzione. Accogliere un problema da un punto di vista
psicologico significa in ogni caso occuparsi di una realtà psichica e cioè dei modi in cui i fatti
concreti sono trasformati ed esperiti dal soggetto in termini psicologici. Per esempio, a cosa si rife-
risce la giovane donna quando parla di incapacità a stringere rapporti sentimentali e quando parla di
partner sbagliati, e cosa è per lei una relazione soddisfacente? O ancora a cosa si riferiscono i medi-
ci quando parlano di ansietà? Per lo psicologo, si profila l’esigenza di esplorare il punto di vista di
colui che pone la richiesta, di comprendere il modo in cui il cliente categorizza gli eventi proble-
matici. La natura della sofferenza psichica è, infatti, indissolubilmente connessa con la percezione
soggettiva di essa. Sospendere63 una risposta immediata alle richieste del cliente non è un’azione
semplice, lo psicologo, specialmente se si tratta di un giovane professionista, è chiamato in questa
fase dell’intervento ad elaborare il timore di non essere all’altezza, la paura di deludere il bisogno
del cliente per poter fare spazio all’esercizio dell’ascolto e al riconoscimento dell’altro.
L’accoglienza è attesa, curiosità sollecita, disponibilità a tollerare l’incertezza, è propensione a
non ridurre prematuramente la complessità esposta entro categorie teoriche note.

Il termine richiesta ed il termine domanda, nel linguaggio comune sono sinonimi. In ambito psico-
logico, invece, i due termini hanno significato diverso:
• Richiesta: contenuto espresso dal cliente (per esempio: ho pensieri ricorrenti, provo molta an-
sia, non riesco a laurearmi, non so come affrontare la relazione con mia figlia, ecc);
• Domanda: sistema di significati che orienta la formulazione della richiesta.
Quando un cliente si reca da uno psicologo:
a. Ha formulato un’ipotesi sul proprio problema, ha una teoria sulle ragioni che lo spiegano e che
lo portano in consultazione;
b. Ha formulato ipotesi circa le modalità di soluzione del problema e, dunque, sul ruolo che dovrà
assumere lo psicologo;
c. agisce una sollecitazione nei confronti del consulente, affinché assuma la funzione prevista.
Definiamo domanda questo sistema di significati che orienta la richiesta di un intervento psicologi-
co. Essa può divenire il primo oggetto a cui lo psicologo rivolge la propria attenzione. Perché quella
persona viene da noi? Cosa ci sta chiedendo di fare? Come mai è venuta proprio adesso e, non ulti-
mo, come mai ha scelto proprio noi? Tutti questi interrogativi tendono a problematizzare la richiesta
del cliente, non dando per scontato che essa esprima specifici dati di realtà, e ad iniziare ad esplora-
re quel sistema di significati. Il cliente mette in atto una sollecitazione allo psicologo, che non si
muove solo sul piano di ciò che viene riferito, ma, anche in ragione di ciò che viene agito, dramma-
tizzato attraverso la stessa richiesta di aiuto. L’equipe di medici, per esempio, mette in atto attraver-

63
Secondo Husserl la sospensione del giudizio riguarda sia i propri vissuti che quelli altrui. Lo psicologo, in questo sen-
so, dovrebbe sospendere il sapere che ha sulle cose.

242
Riassunti di Silvia Varro

so la sua richiesta di intervento il modello culturale della medicina, ritenendo, coerentemente ad es-
so, che la soluzione del problema (ansia dei genitori) vada garantita attraverso una puntuale prescri-
zione di terapia psicologica rivolta ai singoli genitori.

Questa fondamentale fase riguarda la comprensione del problema, il processo di categorizzazio-


ne delle difficoltà presentate dal cliente e la formulazione di ipotesi circa i processi che hanno
contribuito a generare, nella storia e nel campo di vita del cliente, la condizione problematica.
Ogni problema clinico può essere considerato un problema conoscitivo. La fase di analisi del pro-
blema può avvalersi di alcuni colloqui clinici (in genere dai due ai quattro incontri), così come di
strumenti di valutazione quali test o interviste strutturate. Questa fase può prevedere l’attivazione di
altri colleghi, pensiamo, per esempio, alle situazioni in cui la somministrazione dei test viene con-
dotta da un professionista psicologo diverso da quello che ha accolto la domanda di intervento.
La funzione di analisi del problema richiede la gestione di diverse tensioni che riguardano:
✓ Le modalità di categorizzazione del problema, in tensione tra necessità diagnostiche, di di-
stinzione e inquadramento del problema nell’ambito di una casistica e necessità di comprensio-
ne della soggettività unica e irripetibile che organizza l’esperienza del nostro interlocutore;
✓ Le modalità di interpretazione del problema, in tensione tra logiche fondate sulla ricerca di
una specifica causa e logiche interpretative di comprensione delle ragioni64 e dei processi psico-
genetici che danno senso alle difficoltà espresse dal cliente e al modo in cui esse si sono svilup-
pate e mantenute nel tempo.
✓ Le modalità legate all’unità di analisi del problema, in tensione tra prospettive individualiste
che permettono di analizzare e comprendere i processi intrapsichici e prospettive relazionali e
situazionali che permettono di interpretare il problema in ragione dei rapporti con i sistemi rela-
zionali e contestuali attraverso cui si sono sviluppati. L’ambito psicologico, infatti, è ancora og-
gi attraversato dal confronto tra due diverse prospettive, l’una portata a considerare il compor-
tamento dell’individuo come dovuto primariamente ai suoi processi intrapsichici, l’altra orienta-
ta a considerare l’influenza che il contesto ha sul comportamento del singolo.
È importante precisare che nessuno dei poli che organizzano tali tensioni, preso singolarmente, può
essere assunto in modo assoluto; ogni punto di vista, adottato nel processo di conoscenza, illumina
la questione da un vertice osservativo ed è sempre parziale. Il clinico si deve occupare di assumere
un vertice di osservazione e, attraverso di esso, di modellizzare l’oggetto della propria conoscenza,
riconoscendone l’incompletezza e le tensioni che si generano con altri punti di vista.

In ambito psicologico, al contrario di quanto accade per la scienza medica, è difficile rintracciare
una causa biologica, che sia essa genetica, neurochimica o anatomica in ragione della quale spiegare
in modo univoco ed esaustivo il comportamento umano e le sue problematicità. Nonostante lo stu-
dio delle neuroscienze stia apportando, negli ultimi anni, un contributo fondamentale alla compren-
sione dei processi di connessione tra mente e corpo e dei processi fisiologici che regolano il funzio-
namento psichico, ad oggi è del tutto illusorio immaginare di associare in modo lineare ed univoco
specifiche difficoltà a specifiche disfunzioni fisiologiche in grado di spiegarle e prevederle. La
comprensione di una condizione problematica richiede l’adozione di una prospettiva aperta alla
complessità.
64
I termini causa e ragione nello studio della conoscenza hanno significati molto diversi: la ricerca di una causa è la
ricerca di un elemento materiale A che ha determinato l’evento B osservato dallo psicologo (ad esempio: osservo il sin-
tomo B dovuto alla causa A). La ricerca di una ragione rimanda all’esperienza del soggetto, al modo in cui ha esperito
e interpretato gli eventi della sua vita. Chiedersi quale ragione sostenga il comportamento di un soggetto significa inter-
rogare la sua prospettiva di riferimento, mentre domandarsi quale causa sostiene quel comportamento significa cercare
l’evento materiale che lo sostanzia.

243
Riassunti di Silvia Varro

Lo psicologo potrebbe cadere nella tentazione di stabilire leggi causali lineari ed univoche, chie-
dendosi per esempio, quali sono i processi predisponenti, biologici e psichici, in ragione dei quali il
lutto ha generato per quella persona un’ansietà ipocondriaca? Così facendo dimenticherebbe di in-
contrare il soggetto nel suo specifico ed unico modo di trasformare l’esperienza.
La comprensione del comportamento umano e delle dinamiche relazionali in cui è iscritto, richiede
la capacità di confrontarsi con un essere vivente in continuo mutamento, come un fiume che scor-
re, considerando la complessità generata dall’intreccio tra la qualità della sua acqua, l’ambiente in
cui è inserito, le montagne da cui origina ed al lago o il mare verso cui è diretto.

L’analisi del problema rappresenta un atto professionale attraverso cui lo psicologo interpreta in
chiave psicologica la crisi, le difficoltà, la sofferenza e/o le esigenze presentate dal cliente. Ogni
clinico può adottare diverse traiettorie conoscitive per trattare i problemi che gli vengono posti,
opererà delle scelte in ragione dei modelli che adotta, e della direzione che intende imprimere al
processo conoscitivo, la direzione assunta lo orienterà anche nella identificazione di metodi e stru-
menti utili per la sua analisi. Scegliamo il termine traiettoria conoscitiva, invece di limitarci a ri-
prendere il concetto di vertice osservativo o di punto di vista, per tenere in conto della qualità di-
namica del processo di conoscenza. Il punto di vista definisce le griglie concettuali attraverso cui
viene individuato l’oggetto di conoscenza, la traiettoria imprime una direzione al processo conosci-
tivo e all’incontro clinico.

Attraverseremo il processo di analisi del problema lungo tre traiettorie conoscitive:

Riguarda il che cosa narra la richiesta portata dal cliente. Questa traiettoria risponde alla necessità
di inquadrare il problema in una categoria nota di problemi come, ad esempio, una categoria noso-
grafica di psicopatologia o anche la definizione di non idoneità delle funzioni genitoriali. Assume
quindi una funzione di classificazione diagnostica. Letteralmente anamnesi significa reminiscenza
(ricordo vago e remoto) e consiste in un processo di indagine volto all’acquisizione della storia cli-
nica del paziente attraverso la raccolta dei sintomi e dei fatti di interesse medico, riferiti dal pa-
ziente o dai suoi familiari, con esplicito riferimento ai principali periodi di sviluppo del ciclo vitale,
all’esperienza familiare, scolastica e professionale, agli eventi di vita significativi e,
non ultimo, alla storia del disturbo dalle sue prime manifestazioni sino alle fasi at-
tuali. Il metodo anamnestico aiuta a creare un contesto noto al cliente, ma allo
stesso tempo rischia di rinforzare gli atteggiamenti di passività, le funzioni di de-
lega del problema al clinico, e di inibire i necessari processi di coinvolgimento at-
tivo del cliente nella relazione.

In una chiave nosografica-descrittiva, i sintomi, sono gli elementi ne-


cessari e sufficienti per delineare uno stato di malessere (es. il DSM classifica le diverse sindromi
attraverso un elenco di sintomi tra loro associati); in una chiave interpretativo esplicativa, invece, il
sintomo è inteso come un indizio, un segno che rimanda, per esempio, ai modi di funzionamento
della persona.
È con James che comincia a svilupparsi il paradigma funzionalista: la psicologia inizia ad occu-
parsi delle funzioni della mente piuttosto che dei suoi contenuti. Gli esponenti di questo paradigma
abbracciavano una visione pragmatica ed evoluzionistica della mente umana, secondo i quali i fe-
nomeni psichici, quali, per esempio, la coscienza si sono sviluppati per permettere un migliore adat-
tamento dell’individuo al suo ambiente. Il Funzionamento di una persona riguarda il modo attra-

244
Riassunti di Silvia Varro

verso cui la persona entra in contatto con il mondo e organizza la sua esperienza di vita e può essere
esplorato in ragione di diversi domini psichici (es. attenzione, pensiero, affettività). Una funzione è
il processo psichico attraverso cui singoli atti mentali (per esempio una sensazione corporea) sono
organizzati in ragione di uno scopo. Pensiamo per esempio alla funzione di regolazione emotiva, in-
tesa quale processo tramite il quale gli individui influenzano le proprie emozioni, il momento in cui
provarle e il modo in cui farne esperienza ed esprimerle. Lo stato e le modalità di lavoro delle fun-
zioni psichiche variano da persona a persona e si organizzano in strutture mentali più stabili e glo-
bali quali: la personalità (cfr. capitolo 13 Comer) o anche gli schemi di base del sé. Tali strutture
stabili e globali, organizzano e orientano, in maniera continuativa e più o meno flessibile, la convi-
venza tra le varie parti del sé, l’interazione con le richieste del mondo esterno e con le persone si-
gnificative.
Lungo un piano metacognitivo l’essere umano è in grado di osservare riflessivamente la propria
esperienza mentale, il proprio funzionamento, ponendola ad oggetto del pensiero, facendo esperien-
za conoscitiva di sé. La Funzione riflessiva (o mentalizzazione) permette di divenire consapevoli
dei propri stati mentali, di cogliere il ruolo degli stati mentali nell’orientare il proprio comportamen-
to, di immaginare gli stati mentali propri e altrui come opachi al proprio sguardo proprio in quanto
rappresentazioni mentali e non cose in sé direttamente percepibili. La funzione riflessiva permette
di riconoscersi come soggetti agenti, impegnati continuativamente nella costruzione del significato
della propria esperienza e da questa posizione capaci di negoziare tale significato con una mente
rappresentata come altra da sé. Il piano riflessivo rappresenta un asse fondamentale di lavoro nella
fase di analisi del problema sia in ragione della necessità di comprendere la qualità del suo funzio-
namento nell’interlocutore, sia in ragione della funzione che assume nel regolare l’andamento della
relazione clinica. Si tratta di ingaggiare il nostro interlocutore non solo nel narrare la sua storia, così
che noi si possa raccogliere informazioni o osservare e analizzare le sue modalità di funzionamento,
ma anche di invitarlo a interrogarsi, in modo riflessivo, sul suo comportamento, sui motivi a esso
sottesi e sulla formulazione di sue ipotesi personali al riguardo.

Tutte le volte che ci occupiamo di classificare problemi, sintomi o il funzionamento psichico, non
dobbiamo perdere di vista che persone diverse, con le medesime modalità di funzionamento psichi-
co, o con le stesse esperienze, non necessariamente presenteranno la medesima declinazione del di-
sagio e soprattutto una medesima significazione dello stesso. Alcune strategie di gestione dello
stress, per esempio, possono essere uguali per tutti ma il senso che per ognuno assume l’ansietà che
ne emerge può essere molto diverso. Il processo di costruzione del significato delle proprie espe-
rienze rappresenta una delle caratteristiche distintive della mente umana. L’attività psichica ha sem-
pre a che fare con la produzione di immagini, segni, rappresentazioni, essa si sviluppa all’interno di
prassi e relazioni intersoggettive che sono guidate da processi simbolici. Il termine simbolo deriva
dal greco Symbàllein, il cui significato è mettere insieme, lo spirito umano è caratterizzato dalla ca-
pacità di organizzare la molteplicità degli stimoli cui è sottoposto tramite attività di significazione
come il linguaggio, il mito, e anche la stessa produzione scientifica.
Lungo questa traiettoria di analisi, pertanto, il problema portato dal cliente viene conosciuto in ra-
gione dei processi simbolici che danno forma ai discorsi costruiti nell’incontro tra clinico e cliente.
Per Freud, il simbolo assume un ruolo centrale nel processo terapeutico, esso consiste in una idea
concreta, di solito una rappresentazione visiva, che viene utilizzata come sostituto di un’altra idea
che appartiene all’inconscio e che deve essere, dal clinico, compresa e interpretata.
Per significazione possiamo intendere un modo specifico e soggettivo di stabilire una relazione tra
sè e qualcosa, o tra sè ed un'altra persona; può essere distinta in signific- e azione. Il termine in tal
modo rimanda sia al significare, inteso com processo di costruzione di un significato riguardo la
propria esperienza, sia all’agire, processo dinamico attraverso cui i propri significati contribuiscono
a orientare le proprie azioni.

245
Riassunti di Silvia Varro

Bisogna specificare che una significazione non va intesa come processo unicamente cognitivo, di
attribuzione di un significato agli eventi, ma è un’esperienza totale in cui è centrale il ruolo svolto
anche dai processi emotivi e affettivi. L’emozionalità si configura come un campo di esperienza
che contribuisce a dare forma all’interpretazione degli eventi e ad orientare i comportamenti.
Esempio: un ragazzo che significa il rapporto con la propria madre in termini oppressivi; mentre sta
studiando, sua madre entra nella stanza e rapidamente si preoccupa di accendere la luce, orientando-
la sul libro del figlio, e di rimettere in ordine le cose lasciate sul pavimento. Possiamo ipotizzare che
la sollecitudine materna sarà interpretata dal ragazzo quale espressione di un controllo sul suo ope-
rato e genererà un sentimento di stizza. Probabilmente abbiamo simpatizzato con la reazione del ra-
gazzo, ma potremo ugualmente comprendere che essa non è generata dalle specifiche azioni della
madre, piuttosto tale reazione prende forma in ragione del modo più generale in cui è significato
quel rapporto.
In base a tale prospettiva la relazione clinica si caratterizza come luogo di ri- costruzione del sen-
so, in cui sono impegnati tutti e due i protagonisti della relazione; il lavoro del clinico si muove nel-
la direzione di generare connessioni simboliche che permettano al cliente di connettersi riflessiva-
mente a se stesso e di riconoscere il processo di significazione attraverso cui da forma al problema
che porta in consultazione e attraverso il quale categorizza la stessa consultazione clinica.
Per meglio comprendere questa traiettoria conoscitiva è utile soffermarci sul termine intersoggetti-
vità, il quale può essere impiegato per riferirsi al rapporto di reciproca influenza che si genera tra il
soggetto che conosce e l’oggetto che deve essere conosciuto. Gli oggetti non possono essere cono-
sciuti nei termini delle loro proprietà assolute, essi sono descritti da variabili che assumono valore
rispetto all’interazione in atto. In altre parole, in ogni processo di conoscenza ci troviamo ad esperi-
re una situazione circolare: ciò che “vediamo” dipende da ciò che illuminiamo. La relazione cli-
nica non esula da tale dinamica circolare: quanto avviene nella relazione clinica è prodotto di un
processo di co-costruzione tra lo psicologo ed il suo cliente.
Il termine intersoggettività, d’altra parte, in ambito psicologico, richiama gli studi dell’Infant Re-
search che hanno focalizzato la diade madre-bambino, rilevando come, sin dai primi momenti,
emerga una interazione, reciprocamente regolata: l’infante è precocemente dotato delle abilità ne-
cessarie per stabilire interazioni sociali ed affettive. La diade si troverà a costruire un contesto co-
municativo che, all’inizio si baserà su un lessico affettivo, corporeo, sensoriale, fonetico e, succes-
sivamente, sulla condivisione degli affetti, delle motivazioni, delle intenzioni; solo più avanti la
comunicazione potrà ricorrere al linguaggio verbale simbolico. Le esperienze precoci, così come
quelle avute durante la gestazione (il battito cardiaco, il respiro, l’intonazione della voce della ma-
dre), infatti, costituiranno ricordi carichi di affetto, di natura preverbale e presimbolica, che si depo-
siteranno nell’inconscio non rimosso, formando il nucleo precoce del sé, capace di orientare, incon-
sapevolmente, la percezione degli oggetti. Le ricerche dell’Infant Research conducono ad alcune
considerazioni particolarmente rilevanti sul piano dell’intervento. La mente, piuttosto che un co-
strutto che si riferisce all’intrapsichico, può essere concepita come la risultante dei processi inter-
personali che hanno costellato la vita di un individuo, contribuendo a conformare un certo mo-
dello di relazione con il mondo. Ne segue che il problema che viene portato ad uno psicologo può
essere concepito nei termini di un modello di relazione, non funzionale per il cliente, che viene riat-
tualizzato, agito nella relazione con lo psicologo. L’analisi del problema, dunque, si focalizzerà sul-
le possibili connessioni tra quanto espresso nella richiesta e quanto messo in campo attraverso la
domanda, ovvero sul modo in cui il cliente contribuisce a costruire il campo relazionale e investe lo
psicologo di ruoli e funzioni.
In questa concezione il concetto di domanda è prossimo al concetto di transfert, individuato dallo
stesso Freud, il quale ha una funzione adattiva, include la relazione con gli oggetti interni ed ester-
ni, ha componenti cognitive e motivazionali, esprime le attuali modalità relazionali di un individuo
e la motivazione a riprendere, nell’ambito della relazione clinica, un processo evolutivo interrotto.

246
Riassunti di Silvia Varro

La riformulazione del concetto di transfert, come quella di controtransfert (il vissuto del clinico nei
confronti del cliente), avvenuta in Europa a partire dagli anni ’30, ha condotto gli autori a conside-
rare la centralità della relazione, così come l’inevitabile soggettività del clinico e la necessità di una
sua piena partecipazione al processo di intervento allo scopo di comprendere e gradualmente ristrut-
turare gli schemi emotivi e cognitivi registrati nella memoria procedurale.
L’incontro genera quindi un’area comune, le dinamiche che accadono in questa area non riguardano
la somma dei movimenti dei singoli individui, ma piuttosto lo sviluppo di un insieme di forze in-
teragenti che, appunto, si intrecciano e agiscono nella stessa area.
L’analisi del problema portato dal cliente si sviluppa entro una relazione ed è ad essa che si rivol-
gerà l’attenzione. I problemi psicologici, infatti, non stanno come allo psicologo come i denti al
dentista, e questo non perché i denti siano più semplici da comprendere dal punto di
vista medico, ma in quanto il dentista si può occupare del dente a prescindere dalla
relazione con il cliente. Lo psicologo, invece si troverà a dar senso ad una rela-
zione, avviata con una richiesta e conformata da una domanda di relazione,
provando a costruire, con il cliente, nuove narrazioni dell’esperienza, do-
vendo ricorrere al proprio vissuto (controtransfert) per cogliere ciò che non
può essere verbalizzato.
Lo psicologo non lavora mai con singoli individui e con le univoche problematiche del loro modo di
funzionamento, le persone si rivolgono allo psicologo perché hanno specifici problemi nel loro mo-
do di relazionarsi, di appartenere e convivere entro specifici contesti; si pensi per esempio alla fa-
miglia, ad una relazione sentimentale, ad una difficoltà con gli amici o in ambito lavorativo. Ciò si-
gnifica che quanto accade nel processo di intervento va considerato sempre e comunque in ragione
del più ampio contesto in cui si iscrive.
La mente ci consente di categorizzare qualunque elemento percepito attraverso due diverse logiche:
1. Inconscia, che attribuisce un valore simbolico ed emozionale agli oggetti della realtà;
2. Cosciente, mediata dal pensiero, che ci permette di differenziare e classificare i singoli oggetti.
La logica emozionale ed inconscia è quella che primariamente orienta la nostra relazione con il
mondo.
Esempio
Marco guarda Beatrice, la vede nei suoi lunghi capelli, nella armoniosità del suo corpo, e la consi-
dera assolutamente desiderabile. È proprio in ragione di tale simbolizzazione che Marco cercherà
di avvicinarsi il più possibile a Beatrice, di conoscerla, di passarci del tempo insieme. Possiamo
dire, dunque, che Marco simboleggia emozionalmente Beatrice come un oggetto desiderabile e
ciò orienta il suo comportamento. “La percezione consente di organizzare il contesto nel suo signi-
ficato cognitivo; la simbolizzazione affettiva consente di organizzarlo emozionalmente”. La sim-
bolizzazione affettiva, inconscia, tende ad organizzare il campo relazionale riducendo la percezio-
ne della variabilità che lo attraversa, (Beatrice sarà osservata da Marco solo nei termini della sua
desiderabilità, e sentita al pari di un bel periodo estivo, di un bel voto all’esame, ecc.), e, inoltre,
Marco tenderà a generalizzare le sue qualità (Beatrice è non solo desiderabile, ma sicuramente una
donna fantastica!). Quanto detto ci aiuta a dispiegare il processo di costruzione del significato co-
me un processo che dalla omogeneità e generalizzazione della significazione affettiva, gli affetti
fanno di tutta l’erba un fascio, va verso la differenziazione operata dal pensiero e, dunque, verso
le possibilità di una rappresentazione articolata e differenziata degli oggetti della realtà (Beatrice è
una ragazza, il periodo estivo non lo è; Beatrice è attraente, ma forse antipatica).

Il contributo proposto da Renzo Carli65 introduce una prospettiva dell’intervento clinico che centra-
lizza la relazione tra gli individui ed i contesti attraverso la proposta del concetto di collusione, ov-

65
Psicologo e psicoanalista. Professore Ordinario dal 1975, ha insegnato alla Facoltà di Sociologia dell’Università di
Trento, alla Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università Cattolica di Roma, alla Facoltà di Lettere e Filosofia

247
Riassunti di Silvia Varro

vero la “simbolizzazione affettiva del contesto da parte di chi a quel contesto partecipa”. La collu-
sione è un tramite emozionale che fonda ed organizza la costruzione delle relazioni sociali. Collu-
dere significa condividere emozionalmente un contesto. La collusione può operare:
• In modo convergente, es. idealizzazione della squadra del cuore condivisa da un gruppo di tifosi
e comune connotazione in termini di nemici della squadra avversaria);
• In modo complementare, si pensi ad una relazione formativa esperita dai suoi attori allo stesso
modo di una relazione genitoriale: lo studente può significare la docente come madre buona in-
tenta in un processo nutritivo, l’insegnante può partecipare alla proposta collusiva simbolizzan-
do in modo complementare, gli studenti come infanti bisognosi, di cui prendersi cura.
La collusione, in breve, ci porta a parlare e a comportarci in modo ovvio, “senza bisogno di pensarci
su”. Tutti viviamo dentro collusioni perché questo rende prevedibili affettivamente le nostre rela-
zioni e facilita la nostra relazione con il mondo.
Il concetto di collusione, dunque, consente di allargare lo sguardo della psicologia clinica, passando
dal singolo individuo alle organizzazioni, quali i gruppi familiari, sociali e le istituzioni. In questa
direzione, uno psicologo può chiedersi quale collusione orienti l’organizzazione di una famiglia, di
un gruppo, di un’azienda e può interrogarsi sulla circolarità che si istaura tra gruppo di riferimento e
comportamento del singolo individuo.
Ciò che, lungo questa traiettoria, si propone sul piano teorico e metodologico è un ampliamento
della prospettiva: la domanda rivolta allo psicologo esprime sempre il posizionamento del singolo
entro una specifica dinamica collusiva con il suo contesto (es. psicologo che lavora in Ospedale).
Per lo psicologo, analizzare la domanda significa, assumere una logica relazionale e contestuale per
istituire un pensiero sul modello collusivo che orienta la stessa richiesta d’intervento (domanda).

In una prospettiva classica della medicina il soggetto richiedente rimane passivo rispetto all’azione
diagnostica del medico. Alla diagnosi segue, da parte del medico, la prescrizione (farmaci, opera-
zione chirurgica, rassicurazione sullo stato di salute, ecc.) e ci si attende che il soggetto richiedente
assuma la prescrizione senza interferire. Al contrario, in ambito psicologico, la proposta di un
eventuale prosieguo dell’intervento non può essere concepita come una prescrizione, essa va consi-
derata proprio come proposta, essa è sempre lo sviluppo di una restituzione di quanto compreso
nella fase di consultazione e deve istituire un processo di negoziazione in cui al cliente sia ricono-
sciuta una funzione attiva e partecipe.
Semi sintetizza tale restituzione affermando la regola della reciprocità, in ragione della quale un
paziente quando lascia lo psicologo deve aver ricevuto almeno quanto ha dato. Le modalità di ta-
le restituzione invece possano cambiare in ragione del tipo di setting istituito nelle fasi di analisi del
problema: la restituzione può essere posta al termine del processo di valutazione oppure la si può
diluire nel corso del processo di conoscenza.

La fase della programmazione è fondata su una negoziazione con il cliente


delle possibili alternative e dei metodi che ci si prospetta di adottare. Clinico e
cliente sono chiamati a condividere un contratto, vale a dire un accordo
sull’analisi della situazione, sugli obiettivi di un cambiamento e sui compiti ne-
cessari a realizzare tale cambiamento. Una conduzione attenta, collaborativa ed
empatica di questa fase è fondamentale per porre le basi di una buona alleanza
terapeutica. Non esiste, infatti, un unico protocollo terapeutico corretto per
ogni condizione, così come non esiste un solo versante da cui è possibile

dell’Università di Palermo ed alla Facoltà di Psicologia di Roma “La Sapienza”. Ha tenuto corsi e cicli di lezioni alle
Università di Parigi, Barcellona, Lione ed in numerose università italiane.

248
Riassunti di Silvia Varro

raggiungere la cima di una montagna. Ogni montagna ha le sue caratteristiche, versanti più agevoli
e versanti meno agevoli, così come ogni scalatore dispone di alcuni metodi e di alcune tecniche per
scalare e non di altre. Vi è sempre il rischio, nella fase di programmazione dell’intervento, di limi-
tarsi a valutare l’idoneità per il cliente della propria tecnica psicoterapeutica, una supremazia del
clinico e della sua dottrina teorica che limita le possibilità di esplorazione delle strategie di interven-
to percorribili, la considerazione delle esigenze di vita di quel cliente e non ultimo la promozione di
una partecipazione attiva del cliente nelle scelte che riguardano la sua salute ed il suo benessere.
Progettare un’azione di intervento significa porsi, in primo luogo questioni relative agli obiettivi di
lavoro e al setting dell’intervento. L’obiettivo implica l’elaborazione delle finalità alla luce
dell’analisi del problema, richiede interrogativi sui processi attraverso cui sia possibile intervenire,
e sulle risorse di cui l’intervento può disporre. La definizione degli obiettivi è un processo che ri-
guarda sia la declinazione del tipo di cambiamento che si intende generare, sia la formulazione di
ipotesi sugli esiti
perseguibili attraverso l’intervento. È possibile distinguere tre declinazioni degli obiettivi:
1. Obiettivi di cura e riabilitazione che si occupano di prendere in carico e ridurre la condizione
di malessere;
2. Obiettivi di prevenzione che si occupano di ridurre l’impatto dei fattori di rischio e di promuo-
vere fattori protettivi;
3. Promozione della salute psicologica volta a sostenere lo sviluppo di funzionamenti positivi e
di competenze utili al mantenimento della propria salute e alla autorealizzazione delle persone e
dei sistemi sociali.
La scelta della declinazione degli obiettivi non è obbligata in ragione della tipologia del problema.
Potrebbe risultare più immediato associare un obiettivo di cura ad una condizione di psicopatologia
e un obiettivo di prevenzione a condizioni caratterizzate da alti fattori di rischio sociale, bisogna,
però, considerare che individui e sistemi sociali oscillano tra condizioni di salute e malattia, che
salute e malattia non rappresentano i due poli opposti del medesimo continuum, e che in alcune si-
tuazioni si può opportunamente, scegliere di lavorare attraverso metodi di promozione della salute
anche nelle condizioni di sofferenza e malattia.
La seconda questione fondamentale della programmazione riguarda la proposta di un setting
dell’intervento. Ogni contesto (ospedale, studio professionale, scuola, tenda emergenziale, domici-
lio del cliente) persegue specifici obiettivi, per esempio un obiettivo educativo la scuola ed uno cu-
rativo e riabilitativo un ospedale; tali obiettivi contribuiranno a definire gli obiettivi dell’intervento,
nonchè la configurazione del setting dell’intervento.
Lo psicologo nella progettazione del proprio setting di lavoro può assumere tre strategie diverse:
1. Replicativa, che non tiene in conto dell’organizzazione che ospita l’intervento e, appunto, re-
plica in qualsiasi contesto una configurazione del setting classica, unica ritenuta idonea, che ri-
prende molto da vicino la configurazione di una psicoterapia in uno studio privato. Es. scuola in
cui è collocata una stanza per lo psicologo che aspetta di essere interpellato;
2. Adesiva al contesto ospitante, propria di chi accetta, senza interrogarsi su di esse, le condizioni
che gli vengono proposte. Lo psicologo, in questo caso, delega la progettazione dei modi del suo
lavoro all’istituzione ospitante, senza occuparsi di significare e negoziare la specificità del pro-
prio ruolo. Es. uno psicologo che opera presso un ospedale in stanze attrezzate per indagine me-
diche;
3. Contestuale, derivante della possibilità di considerare i vincoli posti dall’organizzazione in cui
si opera (es. psicologo che lavora in ambito ospedaliero, in un contesto medico), volta ad istitui-
re un pensiero sulle richieste che da tale contesto provengono, sugli obiettivi che l’intervento
psicologico intende perseguire e sulle condizioni che tali obiettivi richiedono.

249
Riassunti di Silvia Varro

Una volta definiti gli obiettivi dell’intervento e considerate le variabili di contesto, è necessario pre-
cisare il tipo di percorso che si ritiene utile per realizzare tali obiettivi. Si tratta, in altri termini, di
costruire un modello clinico del cambiamento, chiarire che cosa si propone di fare, come lo si in-
tende fare ed in quali tempi. Quando si parla di modelli dell’intervento psicologico, in modo imme-
diato si pensa alla psicoterapia, la via regia per promuovere cambiamento, è un trattamento struttu-
rato, generalmente prolungato nel tempo, volto a produrre una modifica strutturale della personalità.
Una delle peculiarità della psicologia clinica, rispetto ad altre discipline riguarda la mancanza di un
sistema unitario ed univoco di definire l’oggetto di studio ed i metodi operativi dell’intervento.
Lo psicologo clinico deve necessariamente assumere una teoria di riferimento, in quanto deve di-
sporre di una griglia di costrutti e criteri per conferire significato a quanto il cliente porta alla rela-
zione, ma allo stesso tempo deve essere consapevole che ogni modello psicoterapeutico focalizza la
propria attenzione e da significato a certi aspetti del funzionamento psicologico e non è in grado di
interpretare la totalità dei processi. Tuttavia, è bene individuare alcune dimensioni metodologiche
che caratterizzano in modo convergente le diverse prassi di psicoterapia:
• La psicoterapia si attiva in ragione di una domanda;
• Ha il fine di aiutare le persone, i gruppi e/o i sistemi sociali ad affrontare/gestire meglio i pro-
blemi e si muove in una direzione di incremento del benessere e della qualità della vita;
• Si avvale di una relazione interpersonale tra clinico e paziente che comporta un’alleanza a bene-
ficio del cliente;
• Promuove cambiamento avvalendosi di strumenti prettamente psicologici:
• Si muove nella convinzione che in ogni caso il cliente, per quanto in crisi o sofferente, abbia
delle risorse e delle capacità che possono essere individuate e catalizzate attraverso la stessa
psicoterapia;
• Si sviluppa sempre all’interno di un setting.
In linea generale l’intervento psicoterapeutico riguarda lo sviluppo di una relazione, attraverso un
incontro tra almeno due persone, in un luogo ed in un tempo (setting) in cui sia garantita la confi-
denzialità, in cui siano sospese le normali attività della vita e le relazioni interpersonali quotidiane,
così come sia sospesa una funzione di giudizio sui fatti della vita; attraverso un dialogo, (in alcuni
orientamenti teorici è prevista anche la realizzazione di compiti) che renda possibile conferire senso
a sensazioni confuse e indefinite, connettere in modo inedito comportamenti, emozioni e pensieri,
rendere disponibile al pensiero ciò che non è immediatamente disponibile alla coscienza.
Secondo Marco Batacchi la psicoterapia è un laboratorio per imparare a pensare emozioni come
pensieri in forma condivisa. Laboratorio rimanda all’idea di un setting definito, tramite il quale la
situazione terapeutica è separata e protetta dalla vita reale e dalla urgenza di agire in essa. Pensare
le emozioni è inteso quale processo di elaborazione e trasformazione dell’esperienza emotiva, un
pensiero che si connette con la sua matrice emozionale e la trasforma in una rappresentazione; in
forma condivisa, fa riferimento alla relazione come funzione di contenimento e al ruolo del terapeu-
ta nella sua funzione di validazione intersoggettiva dei pensieri; Imparare, il rimando al concetto di
apprendimento fa riferimento all’idea che una psicoterapia delimita un percorso finito condotto con
la collaborazione di un terapeuta, in un processo di connessione a se stessi e agli altri che non può
dirsi mai del tutto compiuto.

I format e i dispositivi dell’intervento psicologico si distinguono per orientamenti teorici, tipologia


dei setting proposti, durata, tecniche adottate e tra l’altro ci troveremmo confrontati con una varietà
di proposte in continua evoluzione.

250
Riassunti di Silvia Varro

Intervenire in un’ottica preventiva implica lo spostamento del focus dal disagio ai fattori di rischio
e quei fattori che possono assumere una funzione di protezione e promuovere resilienza, includendo
almeno uno dei seguenti obiettivi:
a. Impedire che un comportamento problema si verifichi;
b. Ritardare l'insorgenza di un comportamento problema;
c. Ridurre l'impatto di un comportamento problema;
d. Rafforzare la conoscenza, gli atteggiamenti e i comportamenti che promuovono il benessere
emotivo e fisico;
e. Supportare le politiche istituzionali, comunitarie e governative che promuovono il benessere fi-
sico ed emotivo.
Le dimensioni (a), (b) e (c) possono essere concettualizzate in termini tradizionali, rispettivamente
come interventi di prevenzione primaria, secondaria e terziaria, invece le dimensioni (d) ed (e)
sono concettualizzate all'interno di un quadro di "riduzione del rischio". Le strategie di riduzione
del rischio tentano di ridurre caratteristiche personali, variabili o condizioni relazionali che aumen-
tano la vulnerabilità di una persona a un disturbo o di rafforzare i fattori protettivi.
Negli ultimi venti anni, la ricerca psicologica si è molto focalizzata sul concetto di benessere (well-
being) e sul suo legame con i diversi domini del funzionamento psicologico (cognitivo, emoti-
vo/affettivo, motivazionale), una concettualizzazione delle dimensioni del benessere psicologico se-
condo un così detto approccio eudaimonico, in grado di esplorare non solo il benessere soggettivo
dato dal grado di felicità e soddisfazione personali, ma il benessere quale risultato di un funziona-
mento psicologico positivo, del perseguimento di scopi personali, attraverso un processo dinamico e
multidimensionale di autorealizzazione della persona. Gli interventi di promozione della salute psi-
cologica, si muovono lungo le dimensioni del benessere psicologico, sono volti a potenziare proces-
si di accettazione di sé, di competenze relazionali, competenze per affrontare i problemi contri-
buendo alla crescita personale e alla capacità di vivere in modo più completo pur essendo maggior-
mente in grado di resistere a eventuali eventi stressanti della vita. L'obiettivo è ridurre il potenzia-
le di stress rafforzando le capacità di fronteggiare ostacoli, resistere ai rischi e apprendere dalle
esperienze critiche. Il raggiungimento del benessere non va, però, immaginato come una condizione
statica, piuttosto esso rappresenta un processo dinamico di un equilibrio continuamente riconqui-
stato a partire da fasi critiche, errori e disarmonie. Occuparsi di salute e benessere pone in primo
piano la questione dell’autonomia e dell’autodeterminazione della persona nella costruzione del
proprio ordine di vita.

In alcuni casi lo psicologo può prestare la sua azione professionale presso un’istituzione diversa da
quella in cui opera abitualmente; in ogni caso assume la responsabilità della costruzione del campo
di intervento, dei metodi adottati, dell’andamento del processo e del raggiungimento degli obiettivi.
Il clinico deve in modo continuativo prendersi cura dell’intervento in corso, monitorarne il proces-
so in rapporto alla qualità della relazione, alla congruenza con il funzionamento del soggetto, alla
realizzabilità degli obiettivi. Le funzioni di monitoraggio e verifica:
• Riguardano rispettivamente la valutazione dell’andamento e dell’esito dell’intervento;
• Sono di fondamentale importanza anche per motivi economici e sociali legati ad es. alla consi-
derazione del rapporto tra costi e benefici degli interventi psicologici nei contesti sanitari pub-
blici o al riconoscimento del rimborso assicurativo in quelli privati.
Per almeno un secolo la riflessione sulla pratica clinica è stata quasi l’unica fonte dell’avanzamento
delle conoscenze, essa si è basata sulla costruzione di ipotesi emerse dall’analisi di singoli casi e sul
confronto tra i clinici. Negli ultimi decenni si è sentita l’esigenza di sviluppare una ricerca empi-
rica e sperimentale dell’intervento psicologico, fondata sull’adozione di metodi quantitativi con-
siderando, ad esempio, il confronto tra interventi condotti con diverse metodologie, o cercando di

251
Riassunti di Silvia Varro

analizzare le variabili che generano e sostengono il cambiamento; tale direzione della ricerca è sta-
ta, in ambito clinico, prevalentemente rivolta alla verifica delle psicoterapie.
Presumibilmente, quando un intervento non si rivela efficace rispetto ai suoi obiettivi è perché si
stanno affrontando problemi che non sono ben definiti dai propri criteri teorici e metodologici; in
casi come questi la disponibilità a metter in discussione il proprio agire può consentire uno sviluppo
delle conoscenze ed un ampliamento dei criteri metodologici.
Concetti basilari della funzione di verifica cui faremo riferimento sono:
• La soddisfazione del cliente: si assiste ad una crescente attenzione per la soggettività del pa-
ziente e ai modi che consentono il suo coinvolgimento nelle decisioni che riguardano la sua sa-
lute. La soddisfazione globale è un indice che riguarda la percezione generalizzata che il clien-
te ha del servizio ricevuto considerato nel suo complesso. Essa può essere misurata attraverso la
somministrazione di questionari o attraverso interviste strutturate, solitamente successive alla
conclusione dell’intervento. In genere le rilevazioni della soddisfazione affiancano alla richiesta
di una valutazione globale del servizio, la raccolta di valutazioni più analitiche relative, per
esempio, alle diverse componenti del servizio (spazi, orari, operatore ecc.) oppure proprietà del
servizio (affidabilità, utilità, puntualità ecc.). Il giudizio di soddisfazione non va inteso mera-
mente come una descrizione delle qualità oggettive ed intrinseche del servizio erogato e nean-
che come una rappresentazione dello stato interno del cliente, piuttosto esso esprime una posi-
zione rispetto al servizio, ci racconta dei modi con cui il cliente si sta rapportando al servizio.
• Gli esiti dell’intervento ed il processo di intervento: il giudizio di soddisfazione si incrocia
con l’utilità percepita dell’intervento e dunque con i suoi risultati, ma essa non coincide con la
verifica degli esiti, che richiedono un processo più complesso che coinvolge diversi interlocuto-
ri. La traiettoria conoscitiva di verifica degli esiti risponde alla domanda se e in quale misura, il
cliente ne ha tratto beneficio e l’intervento ha raggiunto i risultati attesi. La determinazione del
risultato di un intervento potrà cambiare a seconda dei punti di vista, del clinico, del cliente, di
un familiare o del committente, si pensi per esempio al punto di vista del responsabile della isti-
tuzione in cui l’intervento si è svolto (dirigente della scuola o di un carcere ecc.). Solitamente il
professionista individua gli esiti in ragione di una riduzione dei sintomi o di cambiamenti defi-
niti in ragione del proprio modello teorico, per il cliente l’esito si fonda sulla sua percezione
soggettiva di benessere e per i familiari e/o altri significativi l’esito risulta ancorato ad una
maggiore prevedibilità e stabilità degli assetti relazionali.
Prendiamo ad esempio l’insegnamento di una abilità, come andare in bicicletta: l’esito del processo
di insegnamento riguarda l’acquisizione della competenza ad utilizzare il mezzo bicicletta; il risul-
tato riguarda invece ciò che l’apprendista otterrà come conseguenza del saper andare in bicicletta,
vale a dire il servizio che potrà realizzare grazie a questa acquisizione. Se dunque possiamo provare
a definire in modo univoco l’esito previsto dell’intervento, saremo sempre confrontati con un ampio
margine di variabilità nella definizione del risultato, vale a dire nella considerazione del servizio
che l’esito dell’intervento svolge per quello specifico cliente, che interagisce con quello specifico
contesto in una specifica fase del suo ciclo di vita.
Le caratteristiche che rendono un intervento psicologico efficace (fattori comuni) riguardano:
a. Lo sviluppo di una relazione emotivamente significativa che preveda la partecipazione attiva
del cliente;
b. Un contesto di cura e di sicurezza e lo sviluppo di fiducia;
c. Uno schema concettuale di orientamento del clinico in ragione del quale fornire un significa-
to ai sintomi e a quanto viene portato nella relazione;
d. L’esperienza per il cliente di essere compreso.

252
Riassunti di Silvia Varro

Il termine colloquio deriva dal latino colloqui e significa parlare con, parlare insieme.
Per avere un colloquio in senso lato è necessario che ci sia:
• La presenza di almeno due persone;
• Un accordo comune;
• Un oggetto o argomento;
• Un fine ed uno scopo;
• Un clima di agevolazione della conversazione.
Cos’è un colloquio? Alcune definizioni:
• Un particolare tipo di test in cui il processo di conoscenza viene attuato attraverso il crearsi di
un rapporto emotivo tra psicologo e soggetto, nel corso del quale il conduttore sospende ogni at-
teggiamento valutativo.
• Motivazione/scopo del colloquio: processo di conoscenza.
• Medium relazionale di tipo emotivo.
• Mezzo di scambio: la parola.
Altra definizione di colloquio: un particolare tipo di strumento caratterizzato da uno scambio ver-
bale in una situazione dinamica di interazione psichica che permetta lo svilupparsi di un proces-
so di conoscenza. Per raggiungere tale obiettivo ci si basa sul consenso tra conduttore e partecipan-
te, a trattare, discutere insieme un argomento o un tema. Per facilitare la comunicazione il condutto-
re usa tecniche non direttive, consente al soggetto di sentirsi valorizzato, non sottoposto a giudizio
valutativo, trattato come persona da una persona di cui percepisce la disponibilità.
Entro un colloquio strutturato abbiamo un argomento circoscritto e un ambiente più rigido. In un
colloquio non strutturato c’è uno scopo, ma è uno scopo più fluido e gli argomenti sono più vari,
non unico come nel caso di un colloquio strutturato. Ad esempio, un colloquio strutturato è un col-
loquio scuola-famiglia, mentre un colloquio non strutturato è un colloquio di famiglia o tra amici.
Se durante un colloquio con un amico inizio a parlare di un film che ho visto non sto andando fuori
argomento, cosa che invece accade se ne parlo in un colloquio strutturato scuola-famiglia.
Immaginiamo ora un colloquio psicologico. Perché ci sia un colloquio psicologico è necessario che
ci sia una richiesta del cliente, che implichi lo psicologo in un suo problema.
Frase di Renzo Carli: “le persone vanno dallo psicologo perché lo psicologo esiste”, ciò significa
che un certo tipo di richiesta diventa richiesta di tipo psicologico perché lo psicologo esiste. Nel
1700 non esistevano richieste psicologiche perché la figura dello psicologo non esisteva. Ogni psi-
cologo imposta un campo relazionale differente. Nell’entrare in contatto con lo psicologo, il cliente
declina il proprio problema in funzione del campo relazionale che lo psicologo costruisce. La pro-
posta relazionale che lo psicologo fa gli permette di accogliere delle richieste. Qualcuno busserà al-
la porta dello psicologo per implicarlo nel proprio problema. Questo evento istituisce l’intervento
psicologico. Istituisce la relazione psicologica, attraverso cui si realizzerà l’intervento psicologico.
Dunque l’intervento psicologico viene istituito dalla richiesta del cliente. Questo campo che acco-
glie la relazione deve essere un campo strutturato in modo congruo rispetto allo scopo che si propo-
ne: questo significa organizzare un setting, ossia qualsiasi campo relazionale organizzato per il rag-
giungimento di uno scopo. Ad esempio, cosa costituisce il setting della nostra lezione universitaria?
La professoressa che, attraverso il microfono, espone un argomento - la professoressa seduta dietro
la cattedra con il volto rivolto agli studenti - gli studenti che, in silenzio, sono sulle panche di fronte
alla professoressa e ascoltano la lezione - gli studenti che da casa seguono la lezione - la relazione è
di tipo asimmetrico - c’è un tempo stabilito di durata. Il break, ad esempio, non è una pausa del set-
ting, ma è una regola del setting, della nostra relazione, non rompe il setting, ma fa parte di esso.

253
Riassunti di Silvia Varro

Il setting è una cornice spaziale che contiene, ma è anche un sistema di regole che regola appunto
la relazione. Allo stesso tempo, la nostra relazione ha uno scopo che struttura la trama della no-
stra relazione: questa dimensione di scopo orienta il setting, pertanto anch'esso è il setting stesso.
Si presta anche a diverse interpretazioni: l’esame è scopo o parte del setting? Per laurearsi è neces-
sario superare tutti gli esami, quindi in questo senso l’esame è scopo, uno scopo in relazione al con-
testo universitario. Se lo guardiamo invece nell’ottica del corso di psicologia clinica, lo scopo è la
costruzione della conoscenza e l’esame è il modo di verifica di tale conoscenza. In ogni caso, che
sia esso scopo o modalità di valutazione, l’esame è parte del setting universitario. Ci siamo detti,
quindi, mettendo l’esame come parte del setting, che la nostra relazione ha lo scopo di costruire
competenza, e lo fa all'interno di una dinamica relazionale particolare: quella docente-discente in
quanto c’è una persona che ha conoscenza e che lo trasmette ad altri (gli studenti). La relazione è di
per sé quindi asimmetrica. Il colloquio psicologico ha lo stesso scopo, costruire conoscenza anche
se intorno a temi differenti. Non possiamo assumere però che lo psicologo ne sappia più del cliente,
cosa che invece possiamo assumere nella relazione formativa (possiamo dare per scontato che il do-
cente ne sappia più del discente). Addirittura, nella relazione psicologo cliente, possiamo dire che il
cliente ne sappia di più sulla sua storia rispetto a quanto ne sappia lo psicologo. Il colloquio psico-
logico è chiamato a costruire conoscenza con il cliente, sul cliente, non su un oggetto terzo. La rela-
zione psicologo-cliente è molto più simmetrica di quella docente-discente. Ciò che lo psicologo sa
più del cliente sono i metodi di conoscenza: non ne sa di più sull’oggetto, sui contenuti, ma sui mo-
di di conoscenza. Lo psicologo conosce molto meno della vita del cliente di quanto ne sappia il
cliente stesso.

• L’intervista è uno strumento che ha la finali- • Il colloquio è uno strumento volto a costrui-
tà di conoscere opinioni, atteggiamenti, per- re conoscenza attraverso una relazione.
cezioni, caratteristiche della personalità del • La relazione è sia medium della conoscenza
soggetto. che fonte di informazione.
• Si avvale di una struttura di domande strut- • Il colloquio può essere strutturato o non
turate o semi strutturate. strutturato.

Ciò che differenzia intervista e colloquio è la dimensione relazionale: la relazione nell’intervista


c’è ma non è strumento. Nel modello psicoanalitico la dimensione relazionale che permette la cono-
scenza ed è quindi usato come strumento nella terapia è il transfert. In un modello cognitivista meno
rilevante è il ricorso al concetto di transfert.

Accoglienza della richiesta e diagnosi: strumento di conoscenza del soggetto e della problematica.
Psicoterapia: medium verbale che consente di costituire quella specifica relazione con il terapeuta
attraverso cui si sviluppa una trasformazione della stessa relazione e una ristrutturazione della per-
sonalità.
Se è vero che il colloquio clinico nasce con la psichiatria ed è usato sin dall’inizio come metodo cli-
nico per distinguere la normalità dalla patologia, è proprio con il lavoro di Freud e con
l’introduzione della psicoanalisi che il colloquio clinico ed il mezzo verbale acquistano nuovi si-
gnificati.

La relazione psicologico-clinica è, come ogni relazione, un processo che trasforma chi vi prende
parte. Essa modifica non solo il paziente, ma anche lo psicologo. «La tecnica è in questo senso
uno strumento che noi abbiamo elaborato per far sì che queste modificazioni avvengano in

254
Riassunti di Silvia Varro

modo conoscibile coscientemente». Ogni psicologo, col tempo, svilupperà una sua personale tec-
nica. Ma, così come prima di sviluppare la propria calligrafia ciascuno di noi deve imparare
l’alfabeto, così ogni psicologo, prima di sviluppare il proprio stile per condurre un colloquio, deve
cominciare a familiarizzare con una delle possibili tecniche.
In che senso il colloquio modifica non solo il paziente, ma anche lo psicologo? La dinamica rela-
zionale è bidirezionale non monodirezionale. In una relazione clinica c’è una trasformazione di te-
rapeuta e paziente, ma questa trasformazione deve essere intesa come a vantaggio del cliente. Lo
scopo della relazione è lo sviluppo del cliente, non lo sviluppo dello psicologo. Lo psicologo bravo
mantiene uno spazio aperto, che permette al cliente di conoscere quei lati di sé che ancora non co-
nosce. L’altro incontra una curiosità sollecita nello sguardo e nel comportamento dell’altro.

«Noi e i nostri pazienti siamo fatti della stessa pa-


sta, anche se si spera sia una pasta organizzata
diversamente. Comunque non si tratta mai di
un'organizzazione radicalmente diversa».
Gli aspetti mentali del setting del colloquio sono:
1. Lo scopo generale: Il colloquio è lo strumento che lo psicologo utilizza per comprendere, nella
maniera più precisa possibile, la mente del paziente. L’obiettivo del colloquio è dunque quello
di capirci qualcosa della realtà psichica di chi ci sta di fronte. Infatti, come psicologi, l’unica
realtà a cui siamo interessati è quella psichica. In questo senso, consideriamo la storia di sé che
il paziente ci racconta non come rappresentazione di una realtà oggettiva, ma come
un’interpretazione che egli si costruisce di sé stesso e della propria esperienza. È forte in questa
definizione di Semi il riferimento alla realtà, la realtà psichica. Nella sua prospettiva la relazione
è un medium per conoscere l’altro, ma ciò che il lavoro di Semi fa è distinguere un ragionamen-
to sulla realtà da un ragionamento sulla realtà psichica. Ci interessa comprendere la storia del
paziente e di come egli funziona, come costruisce il significato del senso del suo esistere, il mo-
do in cui quel fatto è processato dal cliente. A noi interessa il processo di costruzione della real-
tà dell’altro, più che la realtà dell’altro.
2. Gli scopi specifici (relativi alla specifica richiesta del cliente): così come una persona che chie-
de un colloquio ha degli scopi che spera, grazie allo psicologo, di poter raggiungere, così anche
lo psicologo deve avere degli scopi quando accetta di fissare un appuntamento per un colloquio.
È importante, cioè, che sia in grado di rispondere alla domanda: perché farò questo colloquio?
E dunque: ho tempo per questo colloquio? ho la disponibilità emotiva? I miei interessi scientifi-
ci sono in linea con questo colloquio? quali sono le caratteristiche del mio ambiente lavorativo?
Ci sono colleghi a cui potrò eventualmente indirizzare questa persona?
3. I prerequisiti mentali: «[...] potrei riassumere questi requisiti in poche parole: una disponibilità
attenta e rispettosa, una curiosità non invadente, una capacità di essere attivamente neutrali, una
coscienza sufficiente del proprio stile comunicativo (e quindi anche delle sue indicazioni o con-
troindicazioni ad affrontare certi tipi di persone)». Se volessimo descrivere in pochissime parole
i prerequisiti mentali necessari per la conduzione del colloquio potremmo dire: lo psicologo de-
ve essere in grado di ascoltare davvero. Lo psicologo non deve sapere tutto, ma deve essere in
un attivo atteggiamento di ascolto del cliente. Essere attivamente neutrali, ovvero bisogna essere
non valutativo: lo psicologo non deve mai valutare il cliente. Lo psicologo non sa cos’è giusto
per la vita dell’altro. Bion diceva che lo psicologo deve essere “senza memoria e senza deside-
rio” - deve liberare il campo della relazione da queste dimensioni.

«Non seccatevi se vi ricordo che un colloquio che si svolge tra due persone avviene in un luogo e
che questo luogo ha una grande importanza nello svolgimento del colloquio stesso. [...] Vi siete mai
chiesti che cos’è una stanza?”».

255
Riassunti di Silvia Varro

Mentre possiamo dire che un setting formativo è fatto di un’aula, di una prof, di una cattedra, di al-
lievi, di cosa deve essere fatto un setting psicologico? Gli aspetti materiali del setting del colloquio
sono:
1. La stanza: affinché sia adatta per un colloquio è importante che vi sia una porta, e
che questa possa realmente assolvere al suo compito reale e simbolico di separare il
dentro dal fuori. Dovrebbe dunque essere in grado di isolare la stanza dai rumori,
dovrebbe essere dotata di una maniglia, di una chiave, e non dovrebbe essere traspa-
rente.
2. L’arredamento: in una stanza per un colloquio dovrebbero esserci un tavolo comu-
ne, due sedie comode, una luce soffusa, pareti semplici ma non completamente spo-
glie. Un arredamento che sia in grado di contribuire a rendere umano lo spazio che
ospita il colloquio.
3. Il corpo dello psicologo: fa parte della Gestalt che il paziente percepisce quando entra nella
stanza del colloquio. Sebbene non ci siano regole sullo stile d’abbigliamento, sulla mimica, sulla
gestualità, è comunque importante usare il buon senso ed evitare casi limite: ad esempio, pre-
sentarsi al paziente in tuta da ginnastica.
Il colloquio psicologico ha funzione di conoscenza, ma che conoscenza? Dobbiamo per forza, per
rispondere a questa domanda, far riferimento ai vari modelli. Se volessimo parlare in generale, co-
me dice Semi, potremmo dire che obiettivo di conoscenza è la modalità di funzionamento
dell’altro. Il colloquio è la carota del geologo. Quando Semi parla di “carota del geologo” fa rife-
rimento ad un macchinario che permette di prelevare un campione di terreno che assume proprio la
forma di una “carota”. Egli dice che il colloquio sta allo psicologo come la carota sta al geologo:
nessuno di noi può funzionare diversamente da come funziona. Lo psicologo, attraverso il col-
loquio, coglie un campione del funzionamento del cliente. Il rapporto tra il problema e la modalità
di funzionamento diventa lo scopo di comprensione del colloquio psicologico.

«Ogni gioco ha le sue regole e il colloquio psichiatrico non sfugge a questa legge. [...] a
me pare che possano essere sostanzialmente ridotte a tre [...] mi immagino que-
ste tre regole come i fili di una treccia o come tre voci che solo se sono
ben armonizzate si fondono a costruire un’unica melodia». Abbiamo
evidenziato quali sono gli elementi necessari purché si parli di col-
loquio: scopi specifici, scopi generali, elementi del setting.
Iniziamo ora ad analizzare alcune regole del colloquio.
Quando parliamo di regole parliamo di aspetti metodologici,
di atteggiamenti dello psicologo.

In linea di massima, durante un colloquio il linguaggio adoperato dovrebbe essere quello del pa-
ziente, quindi si dovrebbe accuratamente evitare di utilizzare un lessico tecnico-scientifico. Ci si
dovrebbe situare al livello linguistico del paziente, e dunque dosare la semplicità o la sofisticatezza
del linguaggio in ragione di chi ci si trova di fronte.
È importante osservare il linguaggio del paziente: la lingua (parla italiano o dialetto?), il vocabola-
rio, la ricchezza del lessico, la sintassi, lo stile, le metafore… Ad esempio, può essere importante
chiedersi se la lingua che il paziente sta usando durante il colloquio è la stessa che usa nella sua
quotidianità: una persona che è abituata a parlare in dialetto ma che durante il colloquio parla in
italiano, potrebbe star comunicando rispetto ma anche un tentativo di mettere una distanza tra la pa-
rola e l’emozione. Anche il tentativo, da parte del paziente, di utilizzare un lessico scientifico può

256
Riassunti di Silvia Varro

voler significare un tentativo di distacco emotivo dai propri problemi - potremmo dire un mecca-
nismo difensivo di intellettualizzazione.
Anche riflettere sul lessico del paziente è importante: in particolare, è utile notare se il paziente
adotta un lessico più ricco o più povero rispetto alle diverse aree della propria esperienza. Ad esem-
pio, potrebbe descrivere con un lessico molto ricco la sua vita lavorativa, e utilizzare un lessico più
scarno quando parla delle sue relazioni.
L’utilizzo delle figure retoriche è di estrema rilevanza: un paziente che dice di essersi sentito «co-
me un verme» non sta dicendo la stessa cosa di uno che dice di essersi sentito «umiliato». La meta-
fora mantiene un legame più forte con l’emozione, e può avvicinarci, se sappiamo ascoltarla, al vis-
suto affettivo di chi la utilizza. Da un punto di vista dello psicologo, stiamo osservando la sua capa-
cità di ascoltare, non solo i contenuti di ciò che viene raccontato, ma anche i modi in cui ciò che
viene raccontato è espresso dal paziente. L’ascolto deve fluttuare con il linguaggio dell’altro: i mo-
menti delle figure retoriche, delle metafore, sono momenti molto densi del colloquio. Chiedere al
paziente ‘’cosa intende? perché il verme? cosa fa un verme?’’ per aiutarlo a dare simbolo a
quell’immagine agita linguisticamente attraverso quella metafora.

Lo psicologo non dovrebbe aderire alle richieste implicite che il paziente fa, attraverso le sue comu-
nicazioni, di soddisfacimento dei propri desideri e bisogni. Aiutare il paziente non può avvenire con
l’immediata soddisfazione dei bisogni e dei desideri dell’altro, ma è necessario fare in modo che il
cliente si prenda carico dei suoi bisogni e dei suoi desideri. Lo psicologo non soddisfa i bisogni del
paziente, ma costruisce la capacità del paziente di soddisfarli.
Questa regola può essere applicata laddove lo psicologo abbia compreso la struttura mentale del pa-
ziente abbastanza bene da comprendere i desideri che, non potendo essere soddisfatti in altro modo,
lo hanno spinto a chiedere un colloquio. Rispettare la regola della frustrazione non significa es-
sere sadici o scontrosi con il paziente! Significa piuttosto sostenere il paziente nel percorso che lo
porta ad essere cosciente dei propri desideri: questo non è possibile se il paziente e l’analista agi-
scono insieme per soddisfarli. Ad esempio, se il paziente agisce, durante il colloquio, il desiderio di
essere rassicurato circa il fatto di essere «sano», sarebbe importante che lo psicologo non aderisse a
questo desiderio. Piuttosto, potrebbe invece portarlo all’attenzione del paziente, dicendo ad esem-
pio: «mi sembra che in questo momento lei abbia bisogno che io la rassicuri sul fatto che sta bene».
Durante il primo colloquio, è la regola del linguaggio a fungere da declinazione della regola della
frustrazione. Infatti, riproponendo al paziente il suo stesso linguaggio, lo psicologo evita di usare il
proprio: in questo modo, evita di comunicare – per quanto possibile – al paziente aspetti di sé, non
aderendo al desiderio del paziente che invece vorrebbe conoscerli. Perché non parliamo al paziente
di noi? Oppure lo facciamo in rare situazioni (self disclosure)? Il clinico non parla di sé per evitare,
prima di tutto, fenomeni di transfert. Non svelare aspetti di sé permette anche di garantire la regola
della frustrazione: l’altro non entra in ruoli diversi da quello Cliente/Clinico. Il clinico uscirebbe
dalla sua figura, che deve limitarsi a permettere all’altro di entrare in contatto con se stesso non con
la persona Clinico.

Uno dei modi per rispettare la regola della reciprocità, è quella di fare un intervento. Durante i
primi colloqui, un intervento interpretativo sarebbe probabilmente prematuro: può essere adatta una
riformulazione. Con la riformulazione, lo psicologo ripete il contenuto proposto dal paziente, sen-
za aggiungervi elementi nuovi, ma appunto riformulandolo in maniera più complessa e individuan-
do alcuni nessi che nel discorso del paziente erano latenti. Ad esempio:
Pz: «credevo di avere un forte legame con mio padre ma da quando si è trasferito si è molto allonta-
nato da me»

257
Riassunti di Silvia Varro

Psi: «quindi fino ad ora lei sentiva di essere molto legato a suo padre, mentre da quando siete fisi-
camente lontani lei sente che vi siete allontanati anche emotivamente»
Lo psicologo non aggiunge niente, non è un’interpretazione: è una riformulazione, lo restituisce,
assume una funzione di rispecchiamento dei contenuti espressi. Un intervento del genere fa sentire
al paziente che è stato realmente ascoltato, e può restituirgli una visione più chiara e complessa di
ciò che ha appena detto. Naturalmente, lo psicologo non è obbligato a fare un intervento se sente
che non è il momento: in questo caso, possono andar bene anche un semplice commento, o la ri-
chiesta di rivedersi per un secondo colloquio.

«La barca del colloquio viaggia e la barra del timone viene tenuta da entrambi i
colloquianti. Non tenetela rigida: la barca sussulterà, prenderà male le onde, il
vostro compagno di timone si sentirà inutile. E non lasciatela andare: il mare
può gonfiarsi in un attimo ed il vostro compagno vuole sentirsi libero di impa-
rare da sé a parlare, ma non abbandonato» (p. 48)

.
Intendiamo sia i requisiti mentali e materiali
di cui abbiamo precedentemente parlato (la
stanza, l’arredamento, il corpo dello psichia-
tra, la disponibilità ad ascoltare...) sia il mo-
mento in cui viene fissato un appuntamento
per il colloquio, assieme alle modalità con cui
questo viene fissato… Come avviene la ri-
chiesta di appuntamento? →

.
Dopo esserci presentati e aver invitato chi arriva ad accomodarsi, comincia davvero il colloquio. È
questo il momento in cui psicologo e paziente si conoscono, anzi, si ri-conoscono dopo essersi pre-
sentati al telefono: le fantasie che entrambi si sono costruiti dell’altro, della relazione, del momento
del colloquio, ora si incontrano con la realtà. Lo psicologo può riprendere le informazioni prelimi-
nari che ha ottenuto durante la chiamata, o può semplicemente invitare il paziente a parlare: ora ha
di fronte uno sconosciuto e deve cercare di comprenderlo, lasciandolo parlare liberamente. Si ripor-
ta nel colloquio quanto appreso durante la telefonata: in questo modo il campo diviene condiviso.

In questa fase lo psicologo deve saper utilizzare le sue capacità di tolleranza, discrezione ed empatia
per ascoltare ciò che dice il paziente. Tipicamente, il paziente può presentarsi raccontando i suoi
sintomi, raccontando la propria storia, o parlando del proprio ambiente. Ovviamente, ciascun pa-
ziente può presentarsi in modo diverso e possono esserci anche delle aperture di colloquio piuttosto
atipiche. Lo psicologo nel momento della fase libera pensa, cerca di sintonizzarsi con il paziente,
sia con il suo modo di funzionamento mentale, sia nella comprensione dei significati messi in cam-
po dal paziente. La tollerabilità del paziente ad esempio, può riguardare anche lo psicologo: egli
può chiedersi quanto per lui sia tollerabile il paziente. Non è detto che il clinico sia sempre capace
di rispondere ad ogni tipo di richiesta. Se la fase libera del colloquio è dunque libera sia per il pa-
ziente, ma lo stesso non vale per lo psicologo, che deve sondare almeno tre elementi:
1. La tollerabilità del paziente: lo psicologo ha, come tutti, un funzionamento mentale, delle atti-
tudini, delle particolarità e può trovarsi bene con alcune persone, molto male con altre. Riflette-

258
Riassunti di Silvia Varro

re su quanto si sente in grado di tollerare la persona che ha dinanzi è importante per capire se è
il caso di proporre, eventualmente, un percorso insieme.
2. La tollerabilità della libertà di parola: osservare la reazione che il paziente ha quando la sua
richiesta, implicita o esplicita, di un intervento da parte dello psicologo viene frustrata. Cosa gli
succede quando si trova a parlare – e dunque a pensare – da solo? È in grado di farlo? Produce
libere associazioni? Fa connessioni spontanee, flessibili, anche caotiche, tra passato e presente?
Gli vengono in mente immagini, ricordi, cose anche strane? Se sì, lo psicologo può immaginare
che il paziente non abbia rinunciato alla possibilità di pensare. Se l’io del paziente, quando vie-
ne messo in condizioni di pensare da solo, da segni di non reggere l’angoscia, si può portare
l’attenzione a come il paziente fa esperienza di questo fenomeno, ad esempio chiedendo: cosa fa
quando succede così? Le succedono spesso queste cose? Come si sente quando pensa da solo?
Si fa esplicito riferimento a delle situazioni in cui c’è una destrutturazione durante il colloquio
del funzionamento del paziente: ad esempio un pianto disperato. Lo psicologo deve in qualche
modo fermarsi, per aiutare il paziente a contenere questo momento di angoscia, chiedendo ad
esempio al paziente se gli succede spesso e come le affronta di solito. Fermarsi accogliendo il
picco di angoscia e destrutturazione.
3. La tolleranza degli stop: come reagisce il paziente se lo psicologo interrompe il suo discorso?
Ascolta, ignora, sembra infastidito? Sarebbe opportuno che lo psicologo proponesse il suo inter-
vento a circa tre quarti della fase libera, così da avere il tempo di vedere se l’idea proposta al
paziente è stata ignorata o stia piano piano cominciando a lavorare dentro di lui. In merito alla
regola della reciprocità abbiamo detto che il paziente deve ricevere durante il colloquio almeno
quanto egli ha dato. Nei primissimi colloqui questa restituzione può essere fatta tramite la ri-
formulazione. Quando offrire le proprie ipotesi, le proprie ristrutturazioni? Se si fa negli ultimi
minuti del colloquio non si riesce ad osservare come il paziente accoglie tale intervento: è bene
quindi farlo intorno ai 35 minuti dall’inizio del colloquio (rispetto ad un colloquio di 45 minuti).
In questo modo si avrà il tempo di comprendere come l’intervento dello psicologo impatta sul
paziente.

( .
A questo punto, lo psicologo, accuratamente ma brevemente, ha il compito di farsi un’idea piuttosto
chiara del materiale raccolto durante la fase libera del colloquio: è questo il momento di valutare il
materiale raccolto per costruire una prima ipotesi di lavoro. La valutazione viene condotta in ra-
gione degli scopi del colloquio, che ricordiamo essere:
• Capire qualcosa della realtà psichica del paziente;
• Avere chiari la propria disponibilità (in termini di tempo, emotività, competenze e interessi) a
trattare quel paziente;
• Conoscere l’eventuale disponibilità del proprio ambiente lavorativo se si decidesse di inviarlo a
qualcuno.
Ovviamente, la valutazione che possiamo fare dopo il primo colloquio è una valutazione parziale.
Infatti, in meno di un’ora possiamo dire di aver conosciuto qualcosa, ma certo non tutto, della per-
sona che abbiamo di fronte... è su questo «qualcosa» che lavoreremo.
Il materiale raccolto fino a questo momento, secondo Semi, è la «carota» dello psichiatra: i geolo-
gi chiamano «carota» il materiale terrestre che viene estratto con le trivelle allo scopo di compren-
dere le caratteristiche di una zona geologica. Allo stesso modo, il materiale psichico raccolto duran-
te i primi 30-35 minuti di colloquio è una «carota» che ci consente di sondare il terreno e di intuire
alcune delle caratteristiche della realtà psichica del paziente.
Intuire - possiamo rilevare degli aspetti, ma non possiamo vederli. Il processo attraverso cui si
traggono delle conclusioni è pur sempre un processo che passa attraverso una intuizione e una in-
terpretazione di ciò che si coglie durante un colloquio.
Ma quali sono gli «strumenti di prelievo» della carota?

259
Riassunti di Silvia Varro

Disponibilità, discrezione, consapevolezza del proprio stile di conduzione del colloquio, ma anche
gli strumenti culturali a disposizione dello psicologo, i suoi interessi, le sue curiosità, naturalmente
le sue conoscenze scientifiche. Insomma, tutto ciò che costituisce la griglia attraverso cui lo psico-
logo potrà guardare e lavorare il materiale raccolto. Il materiale su cui lavoriamo non è la realtà og-
gettiva del paziente, ma un modello della sua realtà psichica che abbiamo costruito in ragione del-
la relazione con lui. È utile, in altre parole, capire se siamo riusciti a costruire un’immagine nostra,
soggettiva e personale del paziente, perché è solo attraverso la nostra soggettività che possiamo co-
noscerlo, ed è su quest’immagine costruita che dobbiamo interrogarci, e in particolare…

Sul testo - ci permette di


capire se il cliente è sta-
to chiaro rispetto al rac-
contare la sua storia. Bi-
sogna chiedersi se il pa-
ziente ha fornito una
storia: una persona ca-
pace di raccontare è ca-
pace di produrre delle
connessioni di elementi
della sua esistenza. Un
paziente che non riesce a
fare ciò è una persona
che non riesce a fare
proprie le esperienze che
vive, ci racconta il mon-
do come un insieme di
fatti e non come elemento che attraversa la sua esperienza di quei fatti. Bisogna chiedersi se si pos-
siede la sua storia, se si è quindi capaci di raccontare la storia del cliente.
Quando Semi scrive questo libro siamo intorno agli anni 80, tra il passaggio da DSM 3 e DSM 4 -
il 4 mette la diagnosi di personalità su un piano diverso dalla diagnosi sindromica. L’insieme di
domande non è una griglia, ma è un insieme di domande dello psicologo: sono delle aree che se-
gnano gli elementi su cui si interroga lo psicologo durante lo svolgimento del colloquio. Questi le
menti non si traducono mai in domande specifiche rivolte al cliente. Non attendono risposte, sono
domande interne dello psicologo che rintracciano nella conversazione con l’altro indizi: sono
domande e risposte nella mente dello psicologo. Quando si possono fare domande specifiche? Ad
esempio quando nel racconto del cliente mi rendo conto che non emerge alcuna storia sulla propria
famiglia. In questo caso il clinico può porre delle domande specifiche sull’argomento, per osservare
come il cliente reagisce: se esprime difficoltà in quello specifico ambito o meno. Se presenta delle
difficoltà, però, non si andrà a chiedere specificatamente.

Al termine della fase di valutazione, lo psicologo dovrebbe essere in grado di costruire una prima
ipotesi di lavoro: cosa è possibile offrire a questa persona? Posso essere io ad offrirglielo? L’ipotesi
di lavoro comprende un inquadramento diagnostico ma non si esaurisce in esso. Infatti, si tratta di
un’ipotesi personalizzata per il paziente, e dunque fondata non solo sulle caratteristiche che lo ren-
dono simile ad altri pazienti inquadrabili nello stesso quadro diagnostico, ma anche sulle caratteri-
stiche peculiari che lo rendono diverso. Al termine della valutazione, dunque, lo psicologo non dia-
gnostica una sindrome (o almeno non solo), ma restituisce al paziente il senso del materiale che
egli ha condiviso durante la fase libera. La proposta dell’ipotesi di lavoro al paziente chiama in cau-
sa due regole fondamentali del colloquio: quella della reciprocità e quella del linguaggio. Infatti,

260
Riassunti di Silvia Varro

proporre un’ipotesi al paziente permette di «dargli» qualcosa in cambio di ciò che lui ci ha offerto.
Affinché la regola della reciprocità sia rispettata, l’ipotesi va restituita in un linguaggio il più possi-
bile simile a quello del paziente.
Lo psicologo ad esempio potrebbe proporre, alla fine del colloquio, un riassunto. Questo è un in-
tervento in cui lo psicologo appunto riassume ciò che è successo durante il colloquio, individuando
dei nessi tra vari elementi: il modo in cui la persona si è presentata, il modo in cui ha iniziato il rac-
conto, i sintomi presentati, le emozioni raccontate, aspetti legati all’hic et nunc della relazione... Si
distingue dall’interpretazione perché si rivolge sempre a ciò che il paziente ha detto: non si intro-
ducono elementi espliciti di novità.
Un esempio... «In fondo è questo quello che la preoccupa di più di sé: sia che me lo dica attraverso
una rapida stretta di mano, sia attraverso un rapido racconto della sua storia, sia attraverso l’urgenza
di ricordarsi dove ha messo la macchina... un certo tipo di fretta che le impedisce di fare le sue cose
in modo soddisfacente». In termini clinici stiamo parlando di ansia, ma il clinico non dice al cliente
“lei ha l’ansia”. Questo ha a che fare con il processo di rispecchiamento. Il modo in cui lo espone
semi è quello di connettere, cioè quello che vuole evidenziare è che ciò che viene restituito al pa-
ziente sono le sue parole, ma con delle connessioni che a lui non sono immediatamente evidenti. Lo
psicologo non aggiunge niente alle parole del cliente, ma le restituisce con delle connessioni al
cliente non chiare.
La riformulazione, invece, è un intervento in cui lo psicologo ripete ciò che viene detto dal pazien-
te, organizzando però il materiale in forma diversa e suggerendo dunque un significato diverso, in
genere più complesso, di quello proposto dalla narrazione del paziente. Attraverso la riformulazio-
ne, lo psicologo individua alcuni nessi (pochi) che non erano evidenti nel materiale portato dal
paziente. La riformulazione non è un’interpretazione! Non mira a comunicare al paziente i suoi de-
sideri inconsci. Spesso, viene posta in forma interrogativa.
Un esempio... «Quindi lei mi sta descrivendo le stesse emozioni quando parla di sua moglie e del
suo capoufficio... è una mia impressione o lei tende a considerare sua moglie come un capo?».
Il cliente non ha detto questo, ma lo psicologo riformula il suo pensiero cogliendo dei nessi nel suo
discorso e restituendogli il suo pensiero. La riformulazione è un livello diverso dalla domanda, per-
ché organizza il materiale dell’altro. Lo psicologo deve assumersi la responsabilità di ciò che sta
pensando e porlo al servizio dell’altro. Cosa non deve mai fare lo psicologo? Trasformare la sua ri-
formulazione in una domanda diretta. Se penso qualcosa che penso possa essere utile al cliente la
riformulo, non la pongo al cliente sotto forma di domanda.
In ogni caso, l’intervento che lo psicologo propone in questa fase del colloquio serve a mettere alla
prova la sua ipotesi di lavoro e a fare una proposta al paziente. Il modo in cui il paziente reagirà
all’intervento dello psicologo darà delle informazioni sulla validità o meno dell’ipotesi, che dunque
potrà essere, almeno parzialmente, rielaborata per la proposta da fare al paziente.
Alla fine di un colloquio ci sono almeno 4 proposte che lo psicologo può rivolgere al cliente:
1. Proposta di trattamento;
2. Proposta di invio;
3. Proposta di un altro colloquio;
4. Proposta di ospedalizzazione.
Potremmo aggiungere una quinta proposta: niente (non sempre c’è bisogno di un trattamento).

Il paziente, naturalmente, reagirà alla proposta che lo psicologo gli farà: potrà accettarla, rifiutar-
la, discuterla. In ogni caso, sarà una reazione a caldo a cui potrà sempre ripensare nei giorni suc-
cessivi, cambiando idea e comunicandola allo psicologo. A questo punto, dopo i saluti e il paga-
mento, il colloquio è finito, almeno sul piano della realtà concreta.

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Riassunti di Silvia Varro

In realtà, anche dopo la fine concreta del colloquio, l’esperienza relazionale appena vissuta conti-
nuerà ad essere psichicamente elaborata dai colloquianti.
Al termine del colloquio, il paziente avrà tre immagini: una di sé stesso, una dello psicologo, una
della relazione. Un insieme di ricordi, emozioni e fantasie rimarrà nell’apparato psichico del pazien-
te e in qualche modo verrà naturalmente elaborato.
La fisiologica attività mentale di rielaborazione dell’esperienza non è sufficiente per lo psicologo,
che ha invece il compito di effettuare una stesura scritta del colloquio, allo scopo di comunicare a sé
stesso ed eventualmente a colleghi, ciò che ha vissuto durante il colloquio. La stesura scritta del col-
loquio costituisce il passaggio dall’attività clinica a quella scientifica in senso lato: sulla base dei
dati disponibili, lo psicologo si costruirà un modello del paziente. Naturalmente, la revisione del
colloquio riguarda un’esperienza relazionale con due protagonisti: inevitabilmente, emergeranno
non solo caratteristiche del paziente ma anche dello psicologo. Per questo motivo, la revisione scrit-
ta è utile al clinico anche per riflettere su ciò che ha fatto e sentito durante il colloquio. Avere un
testo scritto di fronte, consente allo psicologo di lavorarci: può osservarlo, aggiungere pensieri, ipo-
tesi, considerazioni, e può eventualmente condividerlo con i colleghi.
Semi ha proposto due modalità di scrivere un colloquio:
1. Si scrivono le idee man mano che vengono in mente, senza seguire un ordine preciso;
2. Ci si attiene all’ordine cronologico di come si sono svolti gli eventi.
Non c’è un modo migliore di un altro: ognuno sceglierà lo stile di scrittura che preferisce. In ogni
caso, ciascuno scritto rivelerà qualcosa del paziente e dello psicologo, e potrà essere utilizzato come
base da cui partire per un lavoro di comprensione del colloquio.
Il resoconto è un fondamentale strumento dello psicologo clinico, e può essere definito come il
complemento necessario dell’esperienza relazionale che fonda la professione psicologico-clinica.
Resocontare (un colloquio, un seminario, un incontro di gruppo) vuol dire utilizzare delle categorie
psicologiche per poter pensare le emozioni vissute durante la relazione clinica, in ragione di speci-
fici obiettivi. Il resoconto è dunque quello strumento che ci permette di istituire un pensiero sulla
relazione, permettendoci di dotarla di un nuovo significato, un significato che non era pensabile
all’interno della relazione stessa.
Quando resocontiamo, ci troviamo fuori dall’esperienza, e questa posizione esterna ci consente di
trasformare le emozioni che abbiamo vissuto, agito o pensato nell’hic et nunc dell’esperienza rela-
zionale, in pensieri sulle emozioni. Il resoconto di un colloquio, dunque, non è assimilabile a ciò
che viene scritto in una cartella clinica: non riguarda l’altro e la sua psicopatologia, riguarda la
relazione e le emozioni in essa implicate. Se durante il colloquio lo psicologo può dare un senso ad
eventi specifici, il resoconto permette di recuperare la dimensione processuale della relazione, di
identificare nuovi nessi, di riflettere su ciò che è successo e di individuare linee di sviluppo della re-
lazione. Dunque, il resoconto è uno strumento che aiuta sia a comprendere meglio ciò che è suc-
cesso, da un punto di vista emotivo, durante il colloquio, sia ad avere le idee più chiare sulle propo-
ste di intervento. Sebbene non ci siano «regole» per la stesura del resoconto, in linea di massima è
utile descrivere il contesto in cui si è situata la relazione e ripercorrere i momenti che si ritengono
soggettivamente significativi. Durante la stesura del resoconto, è importante provare a ripercorre i
propri vissuti emotivi, i propri pensieri, le proprie sensazioni… il resoconto non è una cronaca
puntuale di ciò che è successo: è una narrazione attraverso la quale possiamo dare parola (e pensie-
ro) a ciò che abbiamo vissuto durante l’esperienza relazionale. A chi si resoconta?
• A sé stessi: lo psicologo può stendere un resoconto dopo un colloquio senza necessariamente
condividerlo con qualcuno, ma per avere uno spazio attraverso cui riflettere sull’esperienza;
• Ai colleghi: il resoconto può essere condiviso con i colleghi, ad esempio all’interno di un grup-
po di supervisione o intervisione;
• Alla comunità scientifica: il resoconto può essere condiviso, dallo psicologo, con una parte del-
la comunità scientifica, allo scopo di condividere eventi e riflessioni su questi ultimi.

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Riassunti di Silvia Varro

In genere parte da una domanda sui modelli, passa alla psicopatologia chiedendo un disturbo e in-
fine fa una domanda su tecniche di colloquio o chiede di esporre brevemente la rassegna bibliogra-
fica.
• Cosa si intende per psicoterapia in generale? → differenza tra counseling, sostegno e terapia,
alleanza terapeutica, relazione terapeutica
• Concetto di congruenza di Rogers
• Domanda generica sui disturbi dell’umore
• La maniacalità secondo l’approccio psicodinamico → meccanismo di difesa, diniego ed idealiz-
zazione
• Caratteristiche generali del colloquio, conoscenze, scopi
• Le regola del linguaggio secondo Semi → il clinico deve utilizzare un linguaggio accessibile,
analisi del linguaggio del paziente, uso delle figure retoriche
• L’approccio psicodinamico, soprattutto a livello metodologico → metodo ipnotico, poi catarti-
co, associazioni libere, interpretazione onirica, ricostruzione del passato e dei traumi, dinamiche
transferali, controtransferali. (parla tanto) → priorità
• Domanda sui modelli, spesso generica
• Domanda generica disturbi somatoformi
• Cos’è l’ipocondria
• Le fasi del colloquio secondo Semi
• Gli strumenti del clinico, test
• Domanda sui disturbi post traumatici da stress capitolo 5
• Processo di valutazione e diagnosi
• Domanda sui disturbi d’ansia
• Differenze tra ansia e fobia
• Regola della reciprocità secondo Semi
• Regola della frustrazione secondo Semi
• Concetto di diagnosi differenziale collegato ai disturbi somatoformi
• Disturbo di attacco di panico

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