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Riassunto Psicologia Clinica -

Il Modello Psicoanalitico
Psicologia Clinica
Università degli Studi di Perugia
31 pag.

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Capitolo 1 - Lo statuto della psicologia clinica: alcune definizioni

Il contesto socio-economico in cui è nata e si è evoluta la psicologia clinica

La psicologia clinica prende avvio da un’esigenza concreta della società di entrare nei problemi reali, di
indagare ed esplorare comportamenti ed eventi psichici attraverso una modalità nuova basata
sull’osservazione, ovvero con un metodo che può essere definito “clinico”.
Il contesto teorico: gli antecedenti storici
La psicologia clinica è una branca disciplinare che trae le sue origini da contributi provenienti dalla
psicologia e dalla medicina.

• Merito della psicologia sperimentale è di aver dato il via allo sviluppo della ricerca nell’ambito degli
eventi e dei processi psichici, utilizzando un metodo che si avvalora di caratteristiche
rigorosamente scientifiche.
• Si deve alla psicologia differenziale e agli studi di Francis Galton il merito di aver focalizzato
l’attenzione sull’individuo e sulle sue differenze individuali, e di aver accreditato l’importanza
dell’analisi statistica dei dati psicologici come strumento attraverso cui ottenere misure
quantitative delle differenze, per lo studio e la classificazione degli individui.
• Anche il contributo della medicina, e in particolare della psichiatria, è essenziale per la costituzione
della psicologia clinica, soprattutto nell’impegno posto in essere nell’organizzare un sistema di
classificazione che potesse essere condiviso dagli specialisti del settore e costituisse fondamento
per un approccio scientifico alla diagnosi e alla cura della malattia mentale. Soltanto con Freud,
però, viene abbandonato un approccio puramente organico, a vantaggio di un orientamento
nuovo, psicologico, in cui viene proposta una lettura del disagio psichico attraverso il significato
inconscio.
• Infine, importante nella costituzione della psicologia clinica è il ruolo dei movimenti umanitari
rispetto alla concezione del malato mentale.

La psicologia clinica dalla fine dell’Ottocento alla metà del Novecento nel panorama internazionale

Il termine “psicologia clinica” viene utilizzato per la prima volta da Lightner Witmer, il quale fondò nel 1896
la prima “clinica psicologica”, con l’intento di fornire aiuto a bambini portatori di handicap o con problemi
di adattamento scolastico.
Una modalità diversa di intendere il termine “psicologia clinica” la suggerisce in Francia la pubblicazione
della “Revue de psychologie clinique et therapeutique”. Oggetto di interesse della rivista sono gli aspetti
della condotta concreta e dell’individualità, cioè la vita psicologica in sé, nelle sue reazioni reali, naturali e
spontanee.
Ancora, il termine “psicologia clinica” viene anche proposto da Freud in una delle sue lettere.
Fin dalle Origini si assiste alla compresenza di modalità diverse di intendere la psicologia clinica. Questa
eterogeneità di modelli ha determinato che il dibattito intorno alla disciplina prendesse due direzioni
evolutive diverse. Possiamo pertanto dire che sono rintracciabili due stili: uno che possiamo chiamare
americano e l’altro europeo.

Il modello americano

Negli Stati Uniti la psicologia clinica si è sviluppata intorno ad alcuni interessi principali, rappresentati dalla
consulenza nel campo dei disadattamenti infantili, dalla psicometria, specialmente in campo psichiatrico e
lavorativo, dalla psicologia militare, dai problemi sociali delle tossicodipendenze e della criminalità.

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La psicologia clinica della tradizione americana affonda parte delle sue radici nella psicometria. Con la
diffusione dei numerosi reattivi psicologici e con l’introduzione del concetto di Quoziente Intellettivo, i test
diventano tra gli strumenti elettivi. Ma è proprio alla somministrazione dei test che per decenni viene
legata la figura dello psicologo clinico, il quale assume dunque un ruolo di secondo piano rispetto a quello
dello psichiatra a cui è invece affidata, pressoché interamente, la valutazione e la scelta delle strategie
terapeutiche di matrice prettamente medica.
A partire dall’inizio della prima guerra mondiale e nei decenni successivi, però, la psicologia clinica viene
ancor più strettamente identificata quasi esclusivamente con la psicometria.
Gli ani trenta sono ricordati soprattutto per l’immigrazione di psicoanalisti europei in America. L’influenza
della psicoanalisi sposta progressivamente l’interesse degli psicologi americani dalla valutazione delle
abilità intellettive verso lo studio della struttura della personalità e dei problemi affettivi ed emotivi.
Ed è sempre durante questo periodo che Gordon W. Allport combatte il positivismo e il comportamentismo
dominanti rivendicando alla scienza psicologica l’importanza dell’approccio idiografico, piuttosto che
l’approccio nomotetico; ed è su queste basi che gli psicologi clinici assumono un ruolo anche terapeutico
oltre a quello tradizionale di “testista”.
La seconda guerra mondiale determinò un grande sviluppo della psicologia applicata e in particolare della
psicologia clinica. La necessità della guerra costrinse gli psicologi clinici, spesso provenienti da aree diverse
dal lavoro clinico, a familiarizzare con tutte quelle attività di assessment, di intervento terapeutico, di
ricerca, di consultazione, che ancora oggi costituiscono buona parte del lavoro di questi professionisti.
Durante tutti gli anni cinquanta la psicologia clinica continua nel proprio consolidamento. Si cominciano ad
affrontare e risolvere alcuni dei problemi legislativi che riguardano la professione; parallelamente si assiste
alla nascita e proliferazione di movimenti per la salute mentale e per la psichiatria di comunità.
Il ruolo degli psicologi clinici si apre alle attività di servizio all’interno delle comunità. Questi professionisti
vengono impiegati anche come consulenti per varie agenzie sociali e divengono supervisori nei programmi
di formazione delle figure paraprofessionali e dei responsabili della realizzazione di progetti comunitari.

Psicoanalisi e psicologia clinica in Europa

Nel vecchio continente, le prime radici possono essere individuate nella pedagogia e nella psichiatria. Agli
studi pedagogici si deve il merito di aver cercato di modulare e di intervenire all’interno del sistema
scolastico per studiare scientificamente il modo migliore di allevare i bambini. Ma la psicologia clinica deve
molto anche alla psichiatria che produrrà interessanti studi e contributi di grande valore scientifico.
La psichiatria in quel tempo si sviluppa sempre di più sul versante neurologico. Tale impostazione
determina uno studio del comportamento dell’uomo scevro però dalla sua realtà e dalla sua soggettività. Il
metodo “clinico”, pertanto, viene applicato non tanto all’osservazione delle persone, ma piuttosto a quella
del loro cervello.
Un cambio radicale di prospettiva si ha con la diffusione della psicoanalisi, che introduce un nuovo modo di
pensare alla psichiatria, spostandola dal versante medico-organicistico a quello psicologico. Sebbene Freud
provenga dalla tradizione medico psichiatrica di impostazione neurologica, egli abbandonerà presto
l’approccio organico, dando impulso alla psichiatria psicologica. Egli fondò la nuova e moderna psicologia
clinica: la psicoanalisi. Essa nasce con l’ambizione di diventare una “psicologia generale”, ovvero la teoria
psicologica per eccellenza, idonea a offrire la spiegazione di tutti gli eventi psichici attraverso il significato di
inconscio.
Una scienza che si occupa dell’interiorità umana, studiata attraverso un metodo nuovo, che si avvale di un
processo di astrazione operato dall’osservatore. La psicoanalisi ha aperto la strada a molte altre scienze
nuove, e in particolar modo alle scienze psicologiche. E in questo anche la psicologia clinica è tributaria.
Ciò che costituisce la caratteristica della psicoanalisi come dottrina scientifica è proprio il metodo clinico

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che essa individua, ovvero il metodo specifico di indagine e di verifica di ciò che si va “comprendendo” nel
riferimento all’utilità clinica, a cui la stessa psicoanalisi deve l’affermazione a livello internazionale di cui
oggi gode.
Oggi in campo medico si tende a trascurare la persona per concentrare l’attenzione sulle malattie da
combattere: il clinico è colui che cerca, che attua terapie. Diverso è invece il significato di clinico in
psicologia, dove clinica non significa cura né risultato, bensì conoscenza e relazione e, solo ad un secondo
livello, intervento e mutamento.
La psicoanalisi, infatti, basa il suo modello sulla relazione con il paziente, attraverso una modalità non
passiva e unidirezionale come quella del medico con il suo paziente, ma fondata sulla bi direzionalità, sulla
“con-laborazione”. Non si cura qualcosa, cioè la malattia, ma ci si “prende cura della persona”, lavorando
con questa e aiutandola a “lavorare” su se stessa.
La psicoanalisi può essere pertanto considerata la cornice di riferimento per goni intervento clinico e il
modello a cui, in modo esplicito o implicito, l’operatore clinico si riferisce nel suo rapporto interpersonale
con gli utenti.
Sostanzialmente si può quindi affermare che la psicologia clinica sia nata dalla psicoanalisi, andando però
ad integrarsi con altri indirizzi teorici, e con gli sviluppi della psicoanalisi stessa.
Tra i contributi più interessanti si possono segnalare quelli della psicologia dell’età evolutiva e della
psicologia del lavoro, in particolare negli aspetti comuni della psicometria e della ricerca mediante i test. In
questi casi, infatti, l’uso di strumenti adeguati a differenziare, selezionare, valutare hanno portato
all’individuazione delle differenze tra gli individui e alle teorie della personalità, in una prospettiva di
mutamento e intervento clinico con metodi sperimentali ed interventi clinici che, sebbene diversi dal
modello psicoanalitico, sono però stati assunti dalla psicologia clinica.
Sul piano più strettamente psicopatologico i contributi più interessanti possono essere attribuiti alla
psicodiagnostica.
Infine un significativo contributo alla psicologia clinica può essere attribuito alla Scuola Sistemica che si è
rapidamente diffusa con la sua teoria e pratica gruppale.

Definizione contemporanea della psicologia clinica

La psicologia clinica si muove, in modo estremamente fluido, dalla psicologia dinamica alla psicologia della
personalità, incontrando la psicologia differenziale, la psicologia dell’età evolutiva, la psicologia sociale, la
psicopatologia, la psichiatria e la psicologia generale. Il suo assetto teorico presente, infatti, una natura
composita, includendo, al suo interno, aspetti teorici delle varie branche psicologiche e degli strumenti
diagnostici e delle tecniche di intervento di cui esse fanno impiego.
“Psicologia” è la scienza del comportamento umano. L’aggettivo “clinico” si riferisce alla sofferenza, a chi
se ne fa carico, al luogo di cura e alla cura stessa, e in particolare conoscenza e relazione, e solo in secondo
luogo intervento e mutamento: il concetto stesso di clinico, in psicologia, si riferisce al metodo e non alla
cura di una malattia.
L’elemento significativo che emerge e caratterizza la peculiarità della psicologia clinica è il configurarsi di
essa nella sua dimensione applicativa all’interno dei diversi contesti interpersonali in cui l’individuo vive, dal
contesto familiare a quello scolastico, fino a quello lavorativo. E per dimensione applicativa si intende la
possibilità di pensare alla psicologia clinica come una disciplina che fornisce allo psicologo le competenze e
le conoscenze psicologiche che gli permettono di affrontare i problemi di adattamento e i disturbi del
comportamento nell’ottica della ricerca, della prevenzione e della valutazione psicodiagnostica, al fine di
poter progettare un intervento psicoterapeutico.
Inoltre, come disciplina autonoma, essa si avvale nel suo ambito di un precipuo metodo di ricerca, che si
basa essenzialmente sul metodo storico-clinico o storico-motivazionale. È la relazione che caratterizza

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infatti il metodo stesso, essa stessa è oggetto di osservazione.
Carli e Paniccia hanno individuato la peculiarità della psicologia clinica nell’essere la teoria della tecnica
riabilitativa e psicoterapeutica.
La teoria della tecnica ha come oggetto specifico l’analisi della domanda che il soggetto pone allo psicologo
clinico quando si rivolge a lui; essa presuppone una teoria generale dell’intervento clinico, un setting in cui
si attivi una relazione tra l’operatore e il soggetto che fa richiesta dell’intervento, un modello di analisi della
relazione stessa. È da questi presupposti che è stato possibile pensare alla psicologia clinica come a una
disciplina autonoma, la teoria della tecnica, individuando nell’analisi della domanda, la competenza
specifica dello psicologo clinico. Ed essendo disciplina autonoma, essa contiene strumenti idonei a stabilire
gli obiettivi degli interventi e conseguentemente a elaborare metodologie finalizzate alla conoscenza degli
individui intesi come persone, famiglie, gruppi ed organizzazioni, alla progettazione degli interventi ed
infine alla verifica della loro efficacia.
I momenti fondamentali di un intervento possono essere sintetizzabili nella:

1. Costruzione di una relazione personale autentica. Ed è proprio qui che si inserisce l’analisi della
domanda.
2. Valutazione clinica della persona, del gruppo, dell’organizzazione che si presenta alla
consultazione, attraverso gli strumenti che sono propri dello psicologo clinico.
3. Progettazione dell’intervento, che può assumere diverse sfaccettature a seconda della persona,
della sua struttura di personalità e del suo specifico bisogno.
4. Verifica dell’efficacia dell’intervento.

Lo psicologo clinico è un operatore con competenze specifiche, il cui compito fondamentale è quello di
elaborare, indagare e attivare interventi con valenze terapeutiche.

L’oggetto della psicologia clinica

Una delle definizioni più diffuse circa gli obiettivi della psicologia clinica è quella di comprendere e di
aiutare le persona che presentano delle difficoltà di ordine psicologico, o che riferiscono di soffrire di un
disagio psichico. L’obiettivo primo della psicologia clinica dovrebbe allora essere quello di aiutare attraverso
una comprensione empatica, una ricerca e una formulazione di ipotesi circa l’origine dinamica del disagio
psichico.
L’oggetto di analisi della psicologia clinica è il comportamento umano, sia individuale che di gruppo.
All’interno di ciascuna teoria dell’intervento clinico si ritroveranno modelli esplicativi del sintomo e della
terapia più adatta per la sua remissione.
In psicologia clinica i sintomi ed ogni altra manifestazione comportamentale vengono ricondotti a una
teoria della personalità nelle sue più complesse articolazioni.
Il sintomi in psicologia clinica non è altro che un aspetto del comportamento della persona che determina
conflitti, problemi, difficoltà di relazione con altre persone. Ciò corrisponde all’emergenza di sentimenti o di
emozioni di qualità e di intensità tali da giustificare il ricordo allo psicologo; il vero “sintomo” del paziente
che si rivolge allo psicologo clinico è la sua stessa domanda, e come essa si presenta, si declina, si dispiega
nel rapporto con lo psicologo stesso.
Tuttavia quando tali emozioni non emergono, o non vengono “percepite”, saranno allora gli altri a farsi
portatori di una richiesta di intervento.
Con ciò si può affermare che la problematica psicologico-clinica si pone primariamente entro il contesto dei
rapporti sociali.

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Capitolo 2 - L’evoluzione dei modelli teorici dell’intervento clinico: il modello medico, relazionale e
psicodinamico

Modello medico e modello relazionale

I punti e le premesse teoriche che i teorici considerano caratterizzanti dell’approccio relazionale e della
psichiatria tradizionale sono:

APPROCCIO RELAZIONALE PSICHIATRIA TRADIZIONALE


Ogni comportamento è comunicazione, sia che si Solo la parola normale e gli aspetti
tratti della normale comunicazione digitale, sia che immediatamente decodificabili dell’analogico
si tratti di un comportamento in tutto o hanno diritto ad essere considerati comunicazione.
prevalentemente analogico, e anche nel caso in cui
sembri da escludere un’intenzione comunicativa.
Nel caso di compresenza di un messaggio analogico, È rifiutata l’ambiguità della comunicazione: il
quest’ultimo svolge la funzione di precisare o anche messaggio digitale e il comportamento analogico
quella di smentire il messaggio digitale. non immediatamente decodificabili sono
considerati devianti.
È il contesto che permette di attribuire senso al È attribuito scarso rilievo al contesto per la
singolo atto comunicativo. comprensione della comunicazione sintomatica.
La comunicazione sintomatica perde la sua L’eziologia del disagio psichico si trova all’interno
incomprensibilità se inserita nel contesto. dell’individuo, nel suo soma, e comunque nella sua
realtà individuale.

Il punto fondamentale che segna una contraddizione insanabile tra i due approcci, consiste nel fatto che per
l’ottica relazionale il senso va costruito, mentre per la psichiatria tradizionale il senso è dato a priori. Nel
caso dell’ideologia medica la funzione della parola in questa prospettiva è tradizionalmente quella di
indicare il referente oggettivo, e la comprensione è comprensione della “verità” della parola.
Per il modello relazionale invece il senso della parola è “costruito” nel contesto in cui la parola viene
inviata: è in gioco la ricerca di un senso che può essere anche fortemente individualizzato. Il che significa
che il sintomo rappresenta una delle possibili modalità comunicative, su cui si può e si deve esercitare
l’operazione di decodificazione. Ciò non significa ovviamente che il modello relazionale si ponga fuori dalla
logica asimmetrica, che rifiuti il principio di non contraddizione, il criterio vero/falso: la differenza rispetto
al modello medico si situa a un livello più generale di consapevolezza delle esclusioni cui il principio di non
contraddizione ha dato luogo nel corso della storia della nostra cultura.
Utilizzando diagnosi ed etichette di incomprensibilità che non sono verificabili proprio perché sono attente
alla devianza dalla norma, la psichiatria tradizionale priva dunque il sintomo dagli elementi significativi,
classifica la comunicazione sintomatica in una diagnosi che la semplifica e la riduce, e le vieta di aprirsi ad
altri possibili significati.
Rispetto a questo modello l’ipotesi relazionale appare diametralmente opposta: non avendo un corpus
dogmatico da proteggere, e quindi non dovendo riaffermare continuamente il dualismo norma/devianza, il
modello relazionale pone a fondamento della sua elaborazione teorica il concetto di contesto: questo gli
consente di intraprendere senza posizioni precostituite l’opera di decodifica dei diversi messaggi, che
vengono letti nella loro relazione con gli elementi che concorrono a definire la situazione del discorso. In tal
modo viene ricostruito il senso di messaggi, espressi tanto attraverso un uso “anormale” della parola
quanto attraverso l’uso di un linguaggio analogico fortemente ambiguo o contraddittorio.
L’applicazione della nozione di normalità tipica nel modello medico, etichettando come anormali certi
comportamenti, li priva di qualsiasi altra possibilità di apparire come significativi, la nozione di contesto,
invece, permette di trovare adeguati e congrui, in certe situazioni, comportamenti che in altre appaiono

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incomprensibili e devianti.
La differenza fondamentale tra l’approccio medico e quello relazionale si trova proprio nell’attenzione di
quest’ultimo alle relazioni, alla realtà più ampia in cui l’individuo vive.
Nell’approccio medico il senso è tale perché sottoposto a un’autorità che ha il carattere di una norma
astratta, ipostatizzata, collocata fuori dalla storia; nell’approccio relazionale invece la costruzione del senso
rinvia a processi dinamici, tutti immersi nella storia e al rifiuto di ipostasi idealistiche.

Critica all’ideologia medica

Quella che abbiamo chiamato “ideologia medica” è stata sottoposta a una critica radicale dei suoi
presupposti:

• Critica all’organicismo, come concentrazione della terapia sul corpo;


• Critica dalla scissione pragmatica di anima e corpo;
• Critica dell’estromissione di ogni considerazione del capo storico-sociale;
• Critica all’isolamento dell’individuo dal contesto sociale.

È in questi elementi di rottura con la tradizione classica che si potrebbero rintracciare le linee evolutive
della psicologia clinica, tutta tesa al recupero del discorso sociale, del rapporto dell’individuo con il contesto
in cui egli si muove.
I modelli teorici che decodificano il disagio psichico fanno riferimento ad una lettura della sofferenza
mentale secondo due approcci che si differenziano, il modello relazionale-sistemico e il modello
psicoanalitico, che in quest’ultimo si integrano.
Il modello relazionale-sistemico non propone soltanto una ridefinizione del problema per il quale si chiede
aiuto, cioè uno spostamento del focus dell’analisi dal paziente “designato” al suo gruppo di appartenenza a
cui il problema viene “restituito” come problema comune, ma propone una diversa e più complessa lettura
della realtà in cui il disagio si struttura e manifesta.
È tuttavia importante precisare che, se questo modello teorico non è sufficientemente integrato con un
modello attento all’elaborazione negli aspetti emotivi consci e inconsci della relazione, può rischiare di
riprodurre nell’intervento un modello lineare di decodifica della patologia che designa non più l’individuo,
ma il contesto familiare o il gruppo a cui l’individuo fa riferimento.
Il modello psicoanalitico teorizza, invece, la compresenza nella mente dell’individuo del mondo inconscio e
conscio; tale compresenza permette all’individuo di conoscere e di pensare sulla propria storia e le proprie
esperienze. È proprio grazie alla struttura inconscia, alla compresenza nella mente di tutti gli individui di ciò
che è considerato bene e male, buono o cattivo, che è possibile distinguere e sviluppare pensieri, è
possibile stabilire relazioni tra diversi pensieri, nessi e correlazioni tra le differenti emozioni e le relazioni
affettive vissute.

Il modello medico e quello relazionale-sistemico

Si può delineare una netta dicotomia tra il modello medico e quello relazionale-sistemico: appare
pertanto prioritario approfondire gli aspetti teorici a cui si correla un intervento diagnostico dei disturbi. Il
modello relazionale riformula il concetto di patologia, affermando la possibilità di comprendere la
comunicazione sintomatica purché la si inserisca nelle relazioni umane, sociali, in cui matura.
Il primo processo diagnostico si concentra sulla raccolta dei sintomi, inquadrandoli e rilevandoli,
dall’anamnesi, per arrivare ad una dimensione diagnostica inquadrabile in parametri oggettivi e ripetibili.
In medicina la malattia è configurata come l’elemento specifico di cui occuparsi, al di là della singolarità del
malato: si classificano i sintomi e la cura sarà finalizzata proprio alla remissione del particolare sintomo

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evidenziato, ottenuta attraverso prescrizioni di cure specifiche per quel determinato sintomo.
La teoria sottesa a questa modalità di intervento intende infatti correggere l’aspetto disfunzionale evidente
del paziente; la diagnosi, secondo questo modello teorico, organizza i sintomi all’interno della realtà
strettamente individuale della persona. La diagnosi, quindi, incapsula e reifica la situazione sintomatica e
colloca l’individuo in una realtà deprivata da ogni relazione e significato.
In quest’ottica, l’unico intervento possibile è quello psicofarmacologico che interviene sulla realtà somatica
del paziente, mentre ogni energia terapeutica viene impegnata nel motivare l’individuo all’accettazione
della propria patologia e dell’intervento medico e, nei casi di maggiore gravità, nel motivare i contesti con i
quali il paziente si rapporta perché accettino il portatore di patologia. Viene così implicitamente reificata la
“differenza” ed esclusa la possibilità di sviluppo delle risorse emotive dell’individuo.
Riassumendo possiamo dire che la prospettiva teorica medica tende piuttosto a classificare e diagnosticare
l’individuo. L’intervento si indirizza alla medicalizzazione del sintomo. Questo modello teorico agisce la
sfiducia che nell’individuo non vi sia una possibilità di sviluppo all’interno del sistema sociale in cui è
inserito.
Il “modello sistemico-relazionale” appare attento alle relazioni dell’individuo, decodifica i significati del
sintomo all’interno del sistema interpersonale in cui l’individuo vive.
Appare allora importante riproporre la definizione di contesto: il contesto “marca” e definisce l’azione
entro la quale avviene l’intervento. Analizzare il contesto entro il quale avviene l’incontro tra psicologo
clinico e paziente diviene fondamentale per comprendere la situazione entro la quale si situa l’intervento e
per decodificare la richiesta di aiuto e i significati relazionali che essa sottende.

La “riformulazione della domanda” e il ruolo dell’approccio relazionale sistemico

La legge 180 per la psichiatria e la legge di riforma sanitaria hanno avviato in Italia un profondo processo di
trasformazione dell’assistenza psichiatrica, sociale, sanitaria e che la costituzione delle ASL ha segnato il
passaggio da una politica assistenziale, imperniata sulla centralità delle istituzioni, ad una dislocazione
territoriale dei servizi. Questo ha facilitato l’incontro tra l’operatore e il “luogo” in cui il disagio umano si
forma e si manifesta, creando presumibilmente possibilità più favorevoli perché esso venga riconosciuto e
prevenuto.
Contemporaneamente, le mutate condizioni di lavoro hanno proposto allo psicologo clinico nuovi compiti
davanti ai quali egli frequentemente verifica l’inadeguatezza degli abituali strumenti culturali e operativi,
non più commisurati alle esigenze di una realtà che cambia.
L’approccio relazionale-sistemico ha incontrato tanto favore in Italia probabilmente per la sua ambiguità.
Esso, infatti, può essere restrittivamente utilizzato come mera tecnica di manipolazione delle relazioni
interpersonali al piccolo gruppo e decadere allora a nuova forma di tecnicismo che, come tutte le forme di
controllo sociale, si limita a dare risposte tecniche a problemi e bisogni di ben altra natura; oppure quando
siano appieno le sue potenzialità, fornire un contributo importante alla chiarificazione e definizione dei
bisogni, innescando allora processi di cambiamento reale e di emancipazione dai ruoli di malattia e di
devianza.
È implicita nell’approccio relazionale, confermata dalle esperienze di lavoro e utilizzata ormai in gran parte
dei servizi, la tendenza a non dare risposte di tipo medico o rigidamente psichiatrico almeno in senso
tradizionale, alla domanda di assistenza e di aiuto.
La forma che assume la domanda non è, cioè, mai isolabile dall’incontro delle variabili che caratterizzano,
da un lato chi chiede aiuto, e dall’altro chi formula la risposta all’interno di un contesto sociale, culturale e
istituzionale dato. E solitamente la qualità della domanda si modella sul tipo di prestazioni erogate
tradizionalmente dal servizio, per cui la domanda stessa finisce per essere, nella maggior parte dei casi,
richiesta di medicalizzazione e psichiatrizzazione del disagio.

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Il tipo di risposta fornito dai servizi assistenziali psichiatrici, determinando, in molte occasioni, il tipo e la
qualità della domanda di assistenza, ne determina, conseguentemente, la stessa evoluzione della
situazione di disagio.
Soprattutto nei casi acuti di disagio, la domanda è fortemente influenzata dalla prestazione abitualmente
offerta dal servizio, ed è perciò, essa stessa, richiesta di contenzione farmacologica della crisi, di
designazione di malattia, di espulsione attraverso il ricovero.
Davanti a questa realtà, per un operatore che utilizzi l’approccio sistemico diventa allora necessario
rifiutare le risposte preformate del servizio, sperimentando nuove modalità di intervento e parallelamente
avviare un processo di “riformulazione” della domanda, in cui possa più autenticamente esprimersi il
bisogno mistificato. Se infatti esiste uno stretto rapporto dialettico tra domanda dell’utente e risposta
dell’operatore, quest’ultima modificandosi ed eventualmente contrapponendosi alle tradizionali
prestazioni del servizio, può orientare diversamente, dar forma nuova, “riplasmare” la domanda stessa.
La riformulazione della domanda diventa allora l’atto iniziale e indispensabile di ogni intervento che voglia
uscire dai binari precostituiti delle risposte tradizionali. Essa è più in generale una proposta di visione
diversa della realtà complessiva in cui matura il disagio: e diventa, perciò, premessa e condizione
essenziale per un effettivo processo di cambiamento.
Alla base di questa possibilità stanno indubbiamente le resistenze che un servizio tradizionale può
comprensibilmente opporre all’utilizzazione dell’approccio sistemico visto come veicolo di cambiamento
che può diventare pericoloso per il radicato equilibrio del servizio.
In conclusione, l’approccio sistemico, sulla base delle esperienze avviate in numerosi servizi, sembra
dunque poter dare un contributo importante nel processo di rinnovamento culturale e pratico, delle
abituali modalità con cui dialetticamente si articola l’interazione complessa tra domanda degli utenti e
risposta degli operatori; si tratta di un rinnovamento che è oggi essenziale se non si vuole che la
trasformazione culturale e assistenziale, iniziata con la legge 180 e con la riforma sanitaria, corra il pericolo
di una rapida involuzione. Al tempo stesso la difficoltà dell’incontro tra approccio sistemico e servizi, con le
proprie resistenze organizzative e ideologiche, lascia aperto il rischio che ne vengano isterilite le
potenzialità innovatrici.

Il modello psicoanalitico

Merito principale del modello sistemico-relazionale è aver sottolineato la fondamentale importanza del
contesto come luogo in cui la situazione sintomatica di disagio emerge e acquisisce senso. Tuttavia esso,
nella sua applicazione terapeutica privilegiata – l’approccio familiare sistemico al disagio psichico – mostra
alcune lacune che il modello psicodinamico è in grado di colmare.
Per la terapia sistemico-relazionale la sofferenza interna è il frutto di disordini della relazione e della
comunicazione intrafamiliare. Una siffatta lettura del disagio emotivo ha il limite di non tener conto del
concetto di dolore psichico con una propria esistenza, frutto di uno specifico funzionamento mentale, di un
mondo psichico su cui agiscono il peso di fantasmi e di condotte interiorizzate, che costringono a
comportamenti ripetitivi e coatti.
Il rischio è che le differenze di struttura mentale individuale scompaiano davanti all’importanza accordata
alla rete di comunicazioni nella quale l’individuo si trova invischiato: ciò potrebbe dunque portare a un
esasperato utilizzo del modello relazionale in pura tecnica di terapia familiare come richiesta curativa per
eccellenza a discapito di un contemporaneo fondamentale lavoro sull’interiorizzazione, sull’organizzazione
fantasmatica e sulla complessa rete delle interazioni che costituisce il nucleo della sofferenza psichica.
Come già detto precedentemente, si deve a Freud la prima fondazione di una psicologia clinica, di un
sapere che permette di entrare nel mondo interiore dell’individuo per capire pensieri, sentimenti,
emozioni che lo muovono, o che creano disagio.

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La psicoanalisi si fonda su un’indagine legata esclusivamente ad un’indagine della realtà emotiva
connotandosi come psicologia clinica in grado di spiegare gli eventi connotandosi come psicologia clinica in
grado di spiegare gli eventi psichici per approdare, attraverso l’indagine nella soggettività, a un insieme di
nozioni che si costituiscano come la “vera” spiegazione di tutto l’accadere psichico. Freud, infatti, mise
l’accento sulla psicologia del patologico, mettendosi “dentro” la soggettività del paziente. Origina così la
psicoterapia, del tutto diversa dalla terapia delle scienze mediche.
Si può comunque rilevare che l’ambito della psicologia clinica si è nel tempo ampiamente esteso e che oggi
non si identifica più esclusivamente con la psicoanalisi. A molti anni dalla morte del suo fondatore, la
psicoanalisi è diffusa largamente: praticata a livelli diversi, di terapia, di conoscenza, di miglioramento di se
stessi, per interventi psicosociali o come chiave di lettura di tutti i fenomeni, interpersonali o collettivi, essa
si è via via sviluppata con significativi cambiamenti rispetto alla fondazione e all’impostazione che ne aveva
dato il suo maestro.
Nonostante il suo espandersi e il suo continuo evolversi, la psicoanalisi, in particolare in Italia, è tutt’ora
considerata a volte un “oggetto” misterioso, sommerso di incertezze e di opinioni disparate, frutto
probabilmente di una “distorsione emotiva” che coinvolge gli animi nei casi in cui gli argomenti trattati
implicano un approfondimento e una revisione di se stessi a livelli profondi.
Proprio in questo senso opera la psicoanalisi: mettendo in discussione la coscienza ed indagando invece
l’inconscio, negando al soggetto la possibilità di rimanere fermo sulle proprie idee, creando
inevitabilmente una serie di difese e resistenze che si traducono in false concezioni.
La psicologia clinica, pur non coincidendo con la psicoanalisi, non ne può tuttavia prescindere. Potrebbe
pertanto essere utile pensare alla psicologia clinica partendo dalla psicoanalisi. Il successo della psicoanalisi
può essere attribuito a due diverse ragioni: la prima, quella di essere piuttosto un “metodo” e aver
condotto a scoperte fondamentali, la seconda, invece, la sua capacità di enucleare nuove teorie e
parametri.
Lo studio della psicologia clinica è focalizzato sull’individuo, nella sua globalità e nella sua soggettività,
attraverso un metodo che, prendendo spunto dall’antico modello medico, è stato denominato clinico,
“clinico” nell’accezione metodologica del termina, più che nel suo significato terapeutico.
Il metodo clinico in psicologia si è formato dal convergere dei contributi di diverse discipline, ma in
particolare dalla psicoanalisi, che lo ha fornito di una modalità più rigorosa e decisiva sia nella ricerca che
nella prassi operativa.
Nella definizione di Freud la psicoanalisi è:

1. Un procedimento per l’indagine di processi emotivi cui altrimenti sarebbe pressoché impossibile
accadere;
2. Un metodo terapeutico per i disturbi psichici;
3. Una serie di conoscenze psicologiche acquisite per questa via che gradualmente si assommano e
convergono in una nuova disciplina scientifica.

Il punto I e il punto III, così come definiti da Freud, individuano una specifica scienza, e cioè una serie di
conoscenze acquisite attraverso una metodica specifica: è la metodologia che caratterizza una scienza e
non l’oggetto indagato. Lo stesso oggetto può essere indagato da scienze tra di loro molto diverse; le
scienze psicologiche sono numerose e tra di loro diverse, perché ognuna ha il proprio metodo, e la
psicoanalisi è una scienza psicologica specifica per il suo metodo.
Essa è oggi arricchita naturalmente dallo sviluppo dell’epistemologia e dalla filosofia della scienza.
Il grado di scientificità viene dato, come in ogni scienza, dal suo metodo: nel caso particolare della
psicoanalisi, il metodo è una articolata procedura per capire ciò che il soggetto non comprende, aiutarlo
eventualmente a convivere con una mente che ha delle difficoltà a funzionare, ad integrare aspetti di sé

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limitanti la sua vita, offrirgli uno spazio per esprimere i propri vissuti circa un’esperienza. Essa pertanto si
propone come modalità per comprendere il soggetto, per capirne le caratteristiche, la normalità o la
patologia, sia quale metodo per la ristrutturazione della personalità. Freud aveva concepito la psicoanalisi
come una scienza della natura, avendo la convinzione che il modello delle scienze naturali potesse essere
trasposto fedelmente nella fondazione della psicoanalisi: tuttavia numerose e significative furono le
contraddizioni e le contorsioni teoriche tra quanto egli elaborava teoricamente e le scoperte scientifiche. Il
metodo clinico, che Freud stava fondando quasi senza accorgersene, e non la teoria, sulla quale invece si
concentrava, costituirono la caratteristica della psicoanalisi come scienza. L’affermazione della psicoanalisi
infatti a livello internazionale si deve proprio al metodo da lui innovato, perché è attraverso esso che si è
sviluppata e articolata. La scelta del modello psicoanalitico alla base dell’intervento clinico, adottato per la
sua coerenza e pertinenza, rileva una presa di posizione nettamente definita circa i fondamenti teorici dello
studio del funzionamento psichico umano: una teoria comprensiva e dinamica della personalità permette di
accostare secondo un valido costrutto i processi mentali.
Duplice in questo senso appare l’interesse. Da una parte la psicoanalisi costituisce un corpus teorico
psicologico che spiega o quanto meno formula ipotesi sui fenomeni che si vanno indagando, e sui possibili
interventi terapeutici. Dall’altra pone anche significati specifici al contesto entro cui si muove, e in
particolare alla relazione che si instaura tra paziente e terapeuta. Pone l’accento sulla relazione che si
instaura tra paziente e terapeuta nell’hic et nunc, spostando quindi il vertice osservativo dalla “cura” della
sintomatologia al suo significato, dall’organizzazione delle sintomatologie in una sclerotica diagnosi,
all’indagine sulle problematiche affettive e a quanto emerge nel “qui ed ora” della relazione. In quest’ottica
la diagnosi supera “l’oggettività” e la classificazione dei sintomi per darne senso ed elaborarli all’interno
della relazione che si instaura in quel determinato contesto tra paziente e terapeuta.
Vale la pena ricordare che la psichiatria interviene sull’individuo con prescrizioni psicofarmacologiche che
agiscono “all’interno” dell’individuo influenzandone lo stato emotivo. La mete, diversamente dal cervello, si
sviluppa all’interno di una relazione: senza relazione la mente dell’individuo non si può sviluppare; ogni
aspetto della realtà è infatti simbolizzato affettivamente e tale simbolizzazione non può strutturarsi se non
all’interno di una relazione. Quindi la psicologia è una scienza che studia le relazioni e interviene entro la
dinamica relazionale. La prospettiva teorica attenta alla relazione considera le situazioni sintomatiche o
problematiche quali situazioni di sofferenza psichica che nascono ed emergono all’interno di quel
determinato contesto, che si è cristallizzato nella relazione, strutturata e individuata da determinate
simbolizzazioni affettive; la situazione problematica e di sofferenza emotiva non può quindi essere riferita
alla stretta realtà del singolo individuo. L’assunto teorico di questo modello è che l’individuo ripropone
nella relazione terapeutica aspetti compensatori o complementare delle relazioni significative vissute nel
passato. I sintomi non sono infatti reificati, considerati a sé stanti, ma analizzati nel rapporto tra la persona
e il contesto di riferimento affettivo in cui vive.
La prospettiva teorica attenta alla relazione non utilizza codici, classificazioni e diagnosi proprio perché il
modello della mente è inevitabilmente legato alla relazione con l’altro. Per ricevere l’attenzione l’individuo
ha bisogno di sentire l’interessa dell’altro. La mente è una struttura unitaria che può essere compresa solo
a condizione che non sia svincolata dal contesto e dall’ambiente. La funzione dell’intervento dello psicologo
clinico è quella di trasformare e sviluppare i pensieri nella mente. I sintomi sono presi nel rapporto tra la
persona e il contesto in cui emerge il disagio, nell’analisi del possibile sviluppo che si può realizzare.
La peculiarità della psicoanalisi è espressa dal termine inconscio e dalla dialettica tra questo e il conscio.
Una dialettica è un processo nel quale i due opposti concetti ciascuno crea, presenta o nega l’altro, essendo
ciascuno in una relazione dinamica con l’altro. Il processo dialettico procede verso l’integrazione crea una
nuova opposizione dialettica e una nuova tensione dinamica. All’interno di una concezione dialettica non
può esistere il conscio senza l’inconscio. Ciò che quindi non è consapevole viene direttamente affrontato, in

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contrasto con ciò che è conosciuto dal soggetto, come egli si sente, si pensa e riferisce di sé.
Tale raffronto si costituisce a partire dall’interpretazione, ossia dall’esplicitare il non conosciuto in termini
simili a quelli che il soggetto esprimerebbe se ne fosse consapevole. In tal senso si potrebbe dire che la
psicoanalisi possa essere considerata una disciplina psicologica della coscienza, intesa però come
acquisizione di una coscienza diversa. Ma questa diversa acquisizione della coscienza viene sempre definita
come un evento esperibile nella soggettività del paziente, e non solo sull’intuizione cosciente dell’analista.
Ed è proprio su questa disparità tra la soggettività esperita dall’analista e quella del soggetto analizzato che
si basa il procedimento psicoanalitico che determina la traduzione dell’inconscio in termini di soggettività,
nei modi e nel momento in cui il paziente è in grado di esperirla. È una modalità, per colui che viene
analizzato, per divenire soggettivamente cosciente di ciò che accade nel suo mondo interno e regola la sua
condotta: ciò significa partecipare attivamente al lavoro terapeutico.
Lo sviluppo progressivo della psicoanalisi può essere espresso come affinamento del metodo rispetto ai
suoi scopi: comprendere la condotta umana, non solo dalla parte di chi la osserva, ma anche dalla parte di
chi quella condotta la vive o in taluni casi la subisce senza conoscerne le motivazioni.
Il valore terapeutico della psicoanalisi allora può essere ricondotto al processo autoconoscitivo.

Capitolo 3 - L’intervento dello psicologo clinico in Italia

Il ruolo dello psicologo nella società: evoluzione storica

Il considerevole sviluppo che ha avuto in Italia la professione dello psicologo è andato di pari passo con la
progressiva definizione di questo ruolo e delle relative competenze in un processo che ha portato ad
un’affermazione dello psicologo in diversi contesti sociali.
Solo verso la fine degli anni sessanta fu compiuto un reale bilancio della situazione in cui si trovava la
psicologia in Italia; ne emerse che le scienze psicologiche si trovavano, a livello di elaborazione teorica ed
operativa, in una situazione di grave inadeguatezza culturale e formativa: mancava una precisa definizione
delle competenze che individuasse con chiarezza la figura dello psicologo. Mancava una regolamentazione
dell’attività professionale e, soprattutto, erano totalmente carenti le strutture formative. Per quanto
riguarda poi le modalità operative, emergeva che lo strumento di gran lunga più utilizzato era l’uso dei test
tanto che il ruolo dello psicologo sembrava essere identificato con questa prassi.
Proprio attraverso questo tipo di tecnica, considerata “scientifica” in senso stretto e quindi autorevole, le
istituzioni assegnavano allo psicologo il compito di stabilire le differenze tra gli individui, di quantificare la
loro intelligenza e, quindi, di stabilire il discrimine tra idonei al lavoro e inidonei, tra normalità e patologia,
tra dotati e ipodotati. Sulla base di questo discrimine quelle istituzioni potevano separare gli alunni normali
dagli anormali, per estrometterli dalla scuola comune ed inviarli in scuole o strutture speciali. Potevano
separare gli individui normali dai malati, per relegarli in istituzioni totali.
È proprio in conseguenza dell’approfondimento, dell’elaborazione e della revisione critica di questo
esclusivo tipo di intervento che si delinearono, intorno agli anni settanta, una nuova fisionomia dello
psicologo e una nuova professionalità.
Lo psicologo optò per una figura di operatore sociale unico, dove col termine sociale si intendeva
sottolineare la rilevanza del rapporto tra contraddizioni sociali e disagio individuale, e con il termine unico si
intendeva rifiutare una risposta egemone e la disponibilità alla socializzazione reciproca delle competenze
tra altre figure professionali di operatori: strumento principale fu il “lavoro di gruppo”.
I nuovi obiettivi di intervento che l’operatore intendeva così assumere furono quelli dell’individuazione e
valutazione dei bisogni degli individui anche finalizzata alla riorganizzazione del sociale. La lettura attenta di
ogni contesto sociale diventava il vertice di ogni intervento.

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Lo psicologo nel mondo del lavoro

Quello della psicologia del lavoro è stato uno dei primi campi di intervento dello psicologo.
Allo psicologo che lavorava nell’industria veniva tradizionalmente richiesto di ricercare, mediante la
somministrazione di batterie di test, le attitudini lavorative degli operai, di esaminarli e selezionarli per
assunzioni o avanzamenti di carriera, allo scopo di realizzare il massimo possibile di adattamento al
contesto industriale.
In questa prima fase mancava all’intervento psicologico la consapevolezza delle implicazioni politico-
culturali della sua modalità operativa, mentre emergeva la dipendenza dello psicologo dello staff
dirigenziale, nei riguardi del quale veniva posto come primo obiettivo non tanto l’intervento quanto la
possibilità stessa di affermare lo spazio operativo: all’imprenditore si chiedeva cioè di accettare non tanto
le modalità di intervento, quanto la stessa presenza dello psicologo e del suo nuovo ruolo.
Se dunque il primo obiettivo era farsi accettare, rimasero sullo sfondo, perché in questa fase considerati
secondari, tutti gli altri aspetti e tra questi, oltre alla riflessione sulla modalità di intervento, anche la
conoscenza della realtà in cui lo psicologo si trovava ad operare.
Anche in questo ambito, lo strumento “tecnico” che lo psicologo privilegiava erano i test, volti per
definizione a quantificare e “misurare le differenze tra gli individui”, ad accertare la “debolezza mentale”, a
studiare gli “individui emotivamente instabili”, i delinquenti e altri tipi di persone considerate “subnormali”.
In questo contesto l’intervento dello psicologo procedeva secondo un approccio finalizzato allo studio della
personalità con un’ottica strettamente individuale; venivano invece trascurati i problemi esistenti nel
campo del lavoro o le relazioni e i rapporti di potere all’interno del mondo del lavoro, per privilegiare quella
metodologia “neutrale”, finalizzata esclusivamente a selezionare per l’assunzione o a inviare i lavoratori più
adatti nelle attività prospettate dagli imprenditori.
La psicologia del lavoro, che oppone l’oggettività scientifica alla soggettività degli operai, diviene la scienza
a cui affidare la forma più diretta di controllo sulla classe operaia.
Alla fine degli anni sessanta gli psicologi svolsero anch’essi una riflessione sulla loro realtà lavorativa e
arrivarono a una visione critica del loro intervento, cogliendone i limiti e le collusioni principali, anzitutto
l’esclusione dalla procedura di valutazione della cultura degli operai e del loro modo di rapportarsi nel
contesto lavorativo. In tal modo venne stigmatizzato un approccio tecnico che si considerasse capace di
scegliere adeguatamente e selezionare in nome di realtà e bisogni sconosciuti, e quindi privo di un’attenta
analisi della domanda, attuando, di fatto, un intervento astratto e parziale, spesso accettato senza
un’adeguata elaborazione.
Parallelamente molte aziende modificarono la loro richiesta nei riguardi dei consulenti psicologici, e
rividero questo ruolo all’interno delle fabbriche; sostituirono gli psicologi consulenti esterni, appaltati per
selezionare gli operai, con gli psicologi interni, assunti invece con altre funzioni come dipendenti
dell’azienda. E lo stesso ruolo di tecnici neutrali venne rivisto, a vantaggio di un’integrazione dello
specialista nelle complesse funzioni amministrative e sindacali.
Lo psicologo entrava così nella complessa rete di funzioni che costituiva la realtà lavorativa della fabbrica, e
la sua figura si definiva come attiva, non più neutrale, implicata nel merito dei problemi.
Era la classe operaia stessa che chiedeva allo psicologo di avvicinarsi alla realtà del mondo del lavoro,
abbandonando la vecchia prassi a vantaggio dell’approfondimento della soggettività operaia, nella ricerca
di una nuova competenza, più vicina ai problemi reali. Allo psicologo si richiedeva una riflessione teorica sul
significato della psicologia all’interno di questo sistema, una coscienza critica della propria collocazione
all’interno delle istituzioni in cui operava.
Tutto questo si tradusse nel possedere strumenti teorici e critici che lo rendessero capace di analizzare i fini

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espliciti e impliciti dell’istituzione in cui operava, nella consapevolezza che la riflessione sul ruolo della
psicologia era parte integrante dello stesso studio tecnico-psicologico.

L’ospedale psichiatrico: la revisione della logica dell’esclusione

Particolarmente significativa è l’evoluzione del ruolo assunto dallo psicologo in ambito psichiatrico.
Intorno agli anni sessanta è maturata la consapevolezza, in gran parte degli operatori che prestavano la loro
attività nell’ospedale psichiatrico, che questa struttura non poteva in alcun modo intervenire con una
funzione terapeutica. Era possibile assistere le persone con disturbo psichico facendo a meno di un luogo in
cui recluderle ed escluderle dalla società. L’unica modalità per riformare l’assistenza psichiatrica era abolire
l’ospedale psichiatrico per far esplodere a livello sociale il problema della malattia mentale. Con la legge
180, e la chiusura degli ospedali psichiatrici, si è realizzato un totale rovesciamento del punto di vista
rispetto alle leggi preesistenti. La logica su cui fondare l’assistenza psichiatrica è il trattamento della
malattia e la necessità di dare risposte attraverso servizi adeguati che permettano all’individuo, che vive
l’esperienza di una crisi, di mantenere i legami con le persone e i luoghi che gli sono propri. Il malato
mentale rinchiuso in ospedale psichiatrico, fino ad allora considerato e classificato come pericoloso e
irrecuperabile, diventa una persona con la sua storia non riducibile ad una diagnosi e ad un’etichetta. Si
svelava così l’inganno della psichiatria, la sua dannosità come strumento di oppressione e cronicizzazione.
Si delineò, così, la consapevolezza che esisteva un’altra modalità con la quale confrontarsi con il disagio
psichico. Ciò richiedeva una revisione radicale delle scienze psicologiche e psichiatriche, una messa in
discussione dell’immagine e della rappresentazione della patologia. L’ideologia psichiatrica aveva sancito,
fino a quel momento, l’impossibilità di una comunicazione reale tra paziente e operatore: psicologo,
psichiatra, assistente sociale o infermiere.
Iniziano, così, le prime esperienze di trasformazione dell’ospedale psichiatrico in comunità dove, attraverso
assemblee e incontri quotidiani, i protagonisti della vita manicomiale cominciano a conoscersi e
comunicare come non era mai avvenuto in precedenza. Dalle nuove comunicazioni e relazioni i pazienti
vengono riconosciuti come persone con una storia mai espressa in precedenza. I pazienti svestono le divise
di internati e, insieme agli operatori, dialogano dalle cure alle relazioni interpersonali, dalla reclusione ai
primi tentativi di “lettura” e di senso della malattia mentale.
L’obiettivo diventa la soppressione dell’ospedale psichiatrico e non solo una sua gestione più democratica.
Si susseguono azioni con il sociale e una nuova attività comunicativa finalizzate alla denuncia
dell’impotenza e della violenza delle modalità di intervento delle scienze psichiatriche e psicologiche e di
sensibilizzazione riguardo i concetti di emarginazione e esclusione. Si apre così un dibattito intorno al
discorso della salute mentale. Il vertice di questa riflessione è il diritto di cittadinanza della persona affetta
da disturbi mentali di raccontare di sé e della sua storia, di vivere nel contesto sociale cui tutti
appartengono.
La presa di coscienza di questo “inganno” istituzionale, portò sempre più alla volontà di rifiutare il mandato
sociale e di bloccare progressivamente i ricoveri presso gli ospedali psichiatrici.
Tutto ciò porto progressivamente alla conseguenza di un nuovo impegno degli operatori psichiatrici, i quali,
ridenominandosi operatori antipsichiatrici, si dislocarono e si attivarono nel territorio e nel tessuto sociale;
questo li spinse a confrontarsi e scontrarsi con tutte le istituzioni e servizi che, chiusi nella logica delle loro
regole, finivano per appiattire e sclerotizzare le individualità, risultando così veri e propri fattori di devianza.
Da questo confronto derivò un’analisi attenta delle finalità delle istituzioni, dei loro processi di
trasformazione, della messa in discussione della loro logica interna, per arrivare ad una ridefinizione del
concetto di malattia mentale e di devianza.
Diverse infatti furono le difficoltà circa l’attuazione della riforma psichiatrica, legge 180.
Non bastava una ridefinizione della malattia mentale come emergente solo dal sociale né era sufficiente

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indicare la funzione iatrogena dello spazio manicomiale segregante. La malattia mentale aveva radici, e
significati più profondi e sensi nell’individuo e nella famiglia, meritava un intervento più specifico. Si operò
in questo senso un vero e proprio ribaltamento dell’ottica con cui veniva guardato il fenomeno: la struttura
territoriale dapprima valse a sottrarre all’area del privato e del “disonore” il problema del malato mentale,
ponendolo in tutta la sua complessità e dignità nel dibattito sociale, politico e culturale; e in secondo luogo
produsse una riduzione delle richieste tradizionalmente rivolte all’ospedale psichiatrico. Questo movimento
produsse una nuova consapevolezza e una nuova conoscenza, che spinse a spostare il problema dal campo
della follia a quello della specificità della malattia mentale.
L’ottica degli interventi si spostò dall’analisi degli aspetti psicopatologici a quella dei bisogno.
La possibilità di “terapia” del malato venne localizzata nei momenti più significativi della sua esistenza sia
individuale sia sociale, con la conseguenza di far assumere un ruolo fondamentale ai bisogni reali e, per
questa via, al dibattito sul funzionamento delle istituzioni sociali quali la famiglia e sul rapporto di queste
con la malattia mentale.
Gli elementi di evoluzione della figura professionale dello psicologo hanno portato all’attuale fase di
elaborazione del ruolo. Detta elaborazione è caratterizzata dal privilegio accordato all’opera di prevenzione
dei disagi e all’organizzazione interdisciplinare delle diverse figure preposte all’intervento nel campo
sanitario, dalle competenze specifiche dello psicologo clinico, dalla ricerca di nuovi modelli operativi e
dall’approfondimento di strumenti terapeutici rispondenti all’ampiezza dei problemi di cui si sono fatte
carico le nuove strutture sanitarie.

Lo psicologo nelle strutture territoriali

Nella metà degli anni settanta vengono istituiti i Centri di Igiene Mentale territoriali, dimensionati sulle
unità amministrative cittadine: le circoscrizioni. Inizialmente un unico CIM cittadino fungeva da propaggine
territoriale dell’ospedale psichiatrico come dispensario farmacologico e di assistenza sociale per i pazienti
dimessi dall’ospedale psichiatrico. Più che di strutture terapeutiche, dunque, si trattava di strutture
assistenziali per pazienti cronici.
Con la chiusura del manicomio e successivamente con la riforma sanitaria i CIM diventano le nuove
strutture generali deputate alla prevenzione, cura e riabilitazione della malattia mentale.
Contemporaneamente l’inserimento dei primi psicologi nelle équipe formate da psichiatri, infermieri ed
assistenti sociali gettava un ulteriore seme di rinnovamento teorico ed operativo.
Lo sviluppo dei servizi territoriali verso la conquista di un’identità terapeutica non fu lungo e vide il
contributo entusiasta di tutte le figure coinvolte, in una cornice politica ed amministrativa che registrò una
sinergia fra politici e tecnici difficilmente ripetibile.
In questo cammino inizialmente furono due gli atteggiamenti dominanti negli operatori: il primo, che
potremmo definire ideologico, annetteva grande potenzialità alle pratiche deistituzionalizzanti, riguardanti i
presupposti teorici della matrice sociale della malattia mentale; il secondo, che potremmo definire tecnico-
culturale, aveva come obiettivo la preparazione professionale degli operatori per attuare il desiderato
cambiamento terapeutico dei servizi.
Anche gli psicologi si divisero tra questi due schieramenti. Molti aderirono alla visione ideologica ma non a
quella professionale della psicologia clinica.
Altri si rivolsero alla teoria sistemico-relazionale e alla psicoanalisi. Essi si affacciarono a questo nuovo
contesto acquisendo progressivamente modelli teorici in grado di realizzare una migliore comprensione del
sintomo e tecniche in grado di realizzare una migliore comprensione del sintomo e tecniche in grado di
costruire una relazione terapeutica fondata sull’incontro e sull’ascolto dell’altro.
Ma, nonostante il rigore e l’impegno con il quale gli ideologi e i tecnici realizzavano i rispettivi programmi, i
malati continuavano a star male e ricoveri e crisi acute si riproducevano nei servizi, generando negli

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operatori forti difficoltà e sofferenze.
Si comprese che l’attribuzione di nuovi significati ai tradizionali strumenti dell’assistenza psichiatrica
avrebbe potuto avviare una trasformazione dell’agire terapeutico.
Solo una nuova cornice avrebbe potuto rinnovare l’agire degli operatori; non si trattava di abolire il farmaco
o il sussidio economico o la visita domiciliare e sostituirli unicamente con interpretazioni psicologiche,
ascolti silenziosi o quant’altro di derivazione psicoterapica magari all’interno di un setting rigido e asettico.
Era necessario inserire quegli stessi strumenti, spesso indispensabili, in una relazione che avesse le
caratteristiche proprie della relazione terapeutica: un setting, cioè uno spazio e un tempo nel quale due
soggettività si incontrano e creano un campo emotivo ed esperienziale nel quale dialogare.
Il tentativo di razionalizzare questa situazione mediante l’introduzione di teorie e tecniche incontrava limiti
forti da un lato nella gravità dei pazienti, che difficilmente poteva essere contenuta esclusivamente in un
setting psicoterapico, e dall’altro nella disomogeneità del gruppo terapeutico formato da professionalità
diverse e dotate di livelli diversi di formazione. Era però possibile, anzi necessario, che ciascuno svolgesse il
proprio lavoro all’interno di un progetto che, in quanto fondato sulla valutazione dei bisogni del paziente,
avesse tutta la dignità di un trattamento terapeutico. Era necessario andare verso una cultura dei servizi
originale, arricchita da diversi contributi teorici e clinici.
Un esempio per tutti è l’introduzione di una “scheda per la raccolta di informazioni” all’atto della richiesta
di una prima visita: si trattava di richiedere al paziente che si rivolgeva telefonicamente al servizio, ai
familiari, una serie di informazioni sulla storia, sul contesto ambientale e sui motivi della richiesta.
La formalizzazione della domanda di prima visita obbligava i pazienti o i familiari a formulare una richiesta
più articolata e il servizio a discuterne prima di dare una risposta, dopo aver valutato il contesto generale
del paziente: era l’inizio di una modalità che organizzava la domanda del paziente e la risposta dei servizi in
una cornice spaziotemporale. Nella discussione della scheda, il servizio nella sua gruppalità valutava la
domanda, immaginava un progetto, rendendo possibile la strutturazione di un intervento terapeutico
integrato e condiviso che non avrebbe più potuto consentire un agire separato e parcellizzato.
Intorno a questo nucleo iniziale di lavoro di gruppo si avviò un processo formativo: formazione intesa non
come acquisizione di tecniche, ma come capacità di riflettere sul significato che per un paziente assumeva
qualsiasi comunicazione con il servizio e qualsiasi atto del servizio. Iniziava così il passaggio da un aggregato
confuso e frammentato di professionalità ad un gruppo di lavoro differenziato e aggregato.
Con l’inserimento degli psicologi in quelli che oggi sono strutturati come Dipartimenti di Salute Mentale (ex
CIM) il problema che dominava era quello della cura; lo psicologo si trovava inserito in un contesto
strettamente terapeutico e dotato perciò di una tradizione, sia pure criticata e rimessa in questione. La
tecnica non era mai messa in discussione, anche se continuo era il dibattito circa l’integrazione con la
necessità di dare risposte ai bisogni del paziente nei diversi contesti di vita. Risposte che tenessero conto
delle diverse problematiche e del contesto territoriale in cui l’attività terapeutica si svolgeva. A ciò va
aggiunta la specificità del lavoro nei DSM, che ha reso possibile un più alto livello di approfondimento
operativo e di conseguente intervento.
In questo contesto l’operatività dello psicologo interruppe definitivamente la vecchia ideologia
manicomiale, che riteneva impossibile attribuire senso e significato al linguaggio del paziente perché il
sintomo, e quindi la persona, era considerato ineludibilmente inscritto nella patologia e quindi
nell’incomprensibilità. Il vertice dell’operatività divenne quindi riconoscere il paziente come persona con i
suoi sintomi. Si può dire che l’identità professionale dello psicologo si correla e delinea direttamente con
l’impegno di conoscere, comprendere e rileggere la situazione sintomatica nella storia del paziente.
Venne sentito, quindi, in modo forte il bisogno di un approfondimento delle modalità di intervento non solo
per la presenza nel territorio di situazioni psichiatriche gravi e di crisi acute, ma anche per l’aggiungeersi di
richieste da parte di una nuova utenza caratterizzata da pazienti che rivolgevano richieste esplicite di

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psicoterapia per disagi psicologici non attinenti agli esiti di un’esperienza manicomiale nella quale i
significati della sintomatologia non erano stati identificati e affrontati.
Di fronte a queste richieste lo psicologo strutturò sempre più una modalità di intervento psicoterapeutico
prevalentemente secondo l’approccio relazionale-sistemico o psicoanalitico, delineando così la propria
identità di psicologo clinico.

Conclusioni

In questa prospettiva, la “nuova” figura dello psicologo clinico introdusse concetti nuovi, come
l’ampliamento del concetto di malattia e di disagio psichico, ribaltò la mentalità organicistica e mise
l’accento sul rapporto, sulla relazione paziente-terapeuta, riconoscendo superata la tradizionale modalità
oggettiva propria del momento diagnostico. Lo psicologo clinico ha acquisito competenze psicoterapiche
per intervenire nello specifico del disagio emotivo e quindi nello specifico della malattia mentale.

Capitolo 4 - Lo psicologo clinico per l’età evolutiva

Lo psicologo nell’istituzione scolastica

Negli anni sessanta, in concomitanza con l’aumento dalla richiesta d’istruzione, l’istituzione scolastica
potenziò i servizi nel campo dell’handicap psichico e fisico, istituendo i servizi medico-psico-pedagogici e
potenziando i finanziamenti per le classi differenziali e speciali. Fu su questa base che l’intervento
specialistico nella scuola dell’obbligo si configurò come intervento selettivo e discriminatore.
Da un lato lo psicologo si sentiva impegnato (almeno a livello di diagnosi) in un’operazione di avvio di
un’ipotetica fase terapeutica, dall’altro sapeva che il suo operare rispondeva a finalità istituzionali affatto
diverse, consistenti precisamente nell’estromissione del “diverso” dalla scuola di tutti.
Per l’invio nella classi differenziali era richiesto che il bambino presentasse lievi disturbi del carattere o lieve
insufficienza mentale”, sempre che queste carenze consentissero di prevedere un possibile riadattamento
alla scuola comune. Le classi speciali, invece, erano destinate a quegli alunni che, a causa della loro
incompleta e notevolmente ritardata evoluzione psichica non è prevedibile che possano attingere il comune
livello scolastico.
Come si vede, in un campo in cui il rischio dell’arbitrarietà è sempre presente, la circolare ministeriale finiva
di fatto con il sancire come unico criterio stabile cui attenersi: evitare alla scuola il confronto a livello
pedagogico con il problema della disabilità e della devianza.
Su questa base, l’apporto scientifico dello specialista diventava il modo tecnicamente ineccepibile per
operare un’esclusione sociale e valutare la possibilità di sviluppo dell’alunno. Anche la modalità con cui
venia realizzato non faceva che riconfermare il limite dell’intervento; la segnalazione dell’insegnante
interveniva entro il tempo ridottissimo del primo mese di scuola: dopo la segnalazione allo psicologo,
interveniva il dépistage con test intellettivi e proiettivi.
In tutto questo, ciò che rimaneva sullo sfondo è ciò che ad oggi è centrale: la conoscenza del contesto
socio-culturale in cui emerge la devianza, i problemi della prevenzione, del trattamento e del recupero.
Lo psicologo, nel suo intervento, si produceva come elemento di discriminazione piuttosto che come
agente di cambiamento, di sviluppo della personalità dell’alunno, e promotore di un intervento più ampio e
rispondente ai bisogni reali degli alunni.
Questi presupposti avevano portato nella prassi all’attuazione di strategie “scientifiche” che finiva con il
negare all’alunno “diverso” un rapporto con il gruppo sociale e la possibilità di esprimersi con canali
comunicativi diversi da quelli relativi alla sua differenza e patologia, privandolo della possibilità di sviluppo
nel contesto in cui viveva.
Ne conseguiva l’illusoria esaltazione di scuole e istituti speciali come luoghi di interventi “terapeutici” e

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“riabilitativi”; riabilitazione che di fatto si è rilevata molto parziale, se non del tutto fallimentare.
Il fallimento degli interventi “tecnici” e neutrali aveva gradualmente spostato l’interesse degli psicologi.
Alla fine degli anni sessanta, gruppi di tecnici avviavano un processo di profonda innovazione nell’affrontare
e definire l’handicap e la devianza in genere, ricercando un’identità che consentisse allo psicologo di dare
risposte esaurienti ed articolate che coinvolgessero non solo la prassi d’intervento, ma anche i problemi
riguardanti il rinnovamento della struttura psicosanitaria e della struttura scolastica.
Questo nuovo orizzonte culturale è stato caratterizzato dall’estensione all’intero contesto scolastico di
quell’approccio teorico e metodologico che vedeva il comportamento “disturbato” non come un
disadattamento o una patologia semplicemente individuale, ma come l’espressione di un disagio che
insorgeva nell’ambito di un sistema sociale e interpersonale. Tale consapevolezza portò alla necessità di
una formazione adeguata degli psicologi, volta in particolare a modelli teorici in grado di decifrare ed
analizzare la situazione problematica e il contesto sociale di riferimento.
Un riflesso di questa trasformazione era costituito dal cambiamento che ritroviamo anche a livello di
normativa istituzionale: lo psicologo scolastico era passato dalla fase i cui espletava il proprio compito
esclusivamente all’interno dell’istituzione scolastica, alla nuova fase in cui la sua funzione si svolgeva sul
territorio, e in cui, quindi, egli doveva confrontarsi con la complessità dei problemi del territorio stesso in
un lavoro di rete con le altre istituzioni in esso operanti.

L’handicap e la scuola: dalle scuole speciali alle prime esperienze di integrazione

Nell’ultimo trentennio il nostro paese è stato protagonista di un processo di rinnovamento delle istituzioni
deputate all’intervento sulla devianza.
È soltanto con la legge n. 118 del 1971 che è stato possibile integrare persone affette da disagio fisico o
psichico nelle scuole comuni.
La consapevolezza raggiunta infatti ha determinato la forte pressione per aprire la scuola comune e
modificare la legislazione scolastica, adeguandola ai reali bisogni educativi e di inserimento degli alunni
portatori di handicap inseriti nelle classi speciali e differenziali.
Il problema dell’handicap pose in evidenza con una generalità fino ad allora sconosciuta alcune delle
questioni di fondo della nostra scuola. I bambini portatori di un disagio, infatti, avevano proposto alla
scuola un cambiamento dei metodi e degli obiettivi pedagogici che non riguardava solo il loro problema
specifico, ma l’intera popolazione scolastica; non solo, ma i bisogni di sviluppo dei bambini diversi avevano
proposto in modo perentorio l’assunzione di consapevolezza e di responsabilità, e avevano quindi costituito
un fondamentale deterrente nei confronti dei vecchi metodi educativi e pedagogici.
L’integrazione
Le prime normative in tale direzione complessivamente si può dire che tentano una distinzione della
categoria dei minorati fisici dalle altre categorie di handicappati e cerca di qualificare i servizi nel campo
dell’handicap, dichiarando “indispensabile” il possesso di titolo di specializzazione per gli insegnanti
destinati a operare nelle relative scuole. Le normative stabiliscono inoltre che la selezione degli alunni da
inserire in scuola speciale in classe differenziale debba essere “accuratissima e tale in ogni caso, da
escludere gli scolare che possono trarre profitto da un buon inserimento individualizzato nella scuola
comune. È su questa base che l’intervento specialistico nella scuola dell’obbligo si configura fin dall’inizio
come intervento selettivo e discriminatore.
Lo psicologo e le istituzioni “speciali”
Si cominciò a sentire la volontà di abbandonare i luoghi “speciali” e di iniziare esperienze di integrazione
nella scuola comune.
Questa volontà determinò una pressione per l’adeguamento della legislazione a queste nuove
consapevolezze e alla nuova situazione che si andava di fatto costruendo con le prime esperienze di

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integrazione.
Così con la legge 118/1971, si cominciò a dare rilievo anche a una serie di provvedimenti atti a facilitare la
vita degli handicappati negli spazi speciali, e di conseguenza anche nella scuola comune.
Una prima significativa innovazione è contenuta nella circolare che regola l’intervento delle équipe-medico-
psico-pedagogiche: non si trattò più soltanto di reperire alunni handicappati, ma di operare in una
prospettica di inserimento nelle classi normali.
Da queste circolare apparve dunque la volontà di iniziare ad aprire le classi comuni ai “diversi”, ma apparve
anche ribadito il limite di questa apertura: l’approccio pedagogico previsto era specifico, non riguardava la
didattica dei sani e non metteva in discussione le regole pedagogiche e relazionali dell’istituzione.
Un passo avanti sulla linea del rinnovamento arrivò nel 1974, quando venne regolamentate l’attività
dell’équipe nella scuola: cambiò nome e divenne socio-psico-pedagogica, perdendo così la connotazione
medica ed accentuando le problematiche sociali dell’intervento. Lo psicologo in questa fase approfondisce
la sua modalità di intervento con la possibilità di analizzare il contesto sociale.
La presenza degli specialisti nella scuola era richiesta non solo per iniziare i primi inserimenti dei bambini
handicappati e per formare gruppi di recupero, ma anche per esperimenti di scuola a tempo pieno, attività
integrative e insegnamenti speciali, incontri con genitori, collaborazioni con organi collegiali, vale a dire
iniziative volte a offrire a tutti gli alunni possibilità educative più ampie e volte a prevenire e correggere
eventuali forme di disadattamento.
Tuttavia sarà necessario attendere il 1992 con la legge n. 104, e successive modifiche nel 2001, per
l’integrazione e l’attuazione non solo dell’handicappato nella scuola, ma anche della messa in atto dei suoi
diritti medici, sociali, politici ed economici.
Le finalità della legge possono essere così sintetizzate: la Repubblica Italiana

a) garantisce il pieno rispetto della dignità umana e i diritti di libertà ed autonomia della persona
handicappata e ne promuove la piena integrazione nella famiglia, nella scuola, nel lavoro e nella
società;
b) persegue il recupero funzionale e sociale della persona affetta da minoranze fisiche, psichiche e
sensoriali.

Viene inoltre data la definizione dei soggetti aventi diritto in tale normativa.
Sostanziali cambiamenti vengono fatti che nell’ambito del Diritto all’Educazione e all’Istruzione:

a) si garantisce il “diritto all’educazione e all’istruzione della persona handicappata nelle sezioni di


scuola materna, nelle classi comuni delle istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado e nelle
istituzioni universitarie”;
b) si sottolinea che “l’integrazione scolastica ha come obiettivo lo sviluppo delle potenzialità della
persona handicappata nell’apprendimento, nelle comunicazione, nelle relazioni e nella
socializzazione”;
c) si ribadisce che “all’individuazione dell’alunno come persona handicappata […] fa seguito un profilo
dinamico-funzionale ai fine della formulazione di un piano educativo individualizzato, alla cui
definizione provvedono, congiuntamente, con la collaborazione dei genitori della persona
handicappata gli operatori delle unità sanitarie locali […], personale insegnante specializzato della
scuola. Il profilo indica le caratteristiche fisiche, psichiche, sociali ed affettive dell’alunno e pone in
rilievo sia le difficoltà di apprendimento conseguenti alle situazioni di handicap, e le possibilità di
recupero, sia le capacità possedute che devono essere sostenute, sollecitate e progressivamente
rafforzate e sviluppate nel rispetto delle scelte culturali della persona handicappata”. Si afferma

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che “il profilo dinamico-funzionale è aggiornato a conclusione della scuola materna, della scuola
elementare e della scuola media e durante il corso di istruzione secondaria superiore.”

Il cambiamento nella scuola

L’intervento dello psicologo nella scuola si è progressivamente evoluto da intervento sull’handicap e sulla
devianza a intervento preventivo, con riflessione sulle dinamiche interpersonali all’interno del gruppo
classe e alla disseminazione dell’intervento nei contesti nei quali gli alunni vivono.
La scuola progressivamente è riuscita a riappropriarsi delle proprie competenze pedagogiche e didattiche, a
rivolgere allo psicologo domande più pertinenti e articolate tanto da cambiare, talvolta radicalmente, il
rapporto e le richieste d’intervento. È quindi passata dal tradizionale rapporto di delega ad una richiesta
d’intervento progressivamente più complessa, attenta e articolata all’interno della quale il corpo
insegnante e lo stesso dirigente della scuola si sentono più spesso coinvolti in prima persona.
Lo psicologo clinico, in una situazione in cui venga richiesto il suo intervento, deve porsi interrogativi, che
riguardano non solo i modelli d’intervento e teorici cui fare riferimento, ma anche e, prioritariamente, il
rapporto tra la richiesta e il contesto nel quale è opportuno intervenire.
Gli interrogativi da porsi nell’affrontare i problemi del disagio all’interno dell’istituzione scolastica possono
essere così sintetizzati:

• quali siano le richieste che la scuola sta rivolgendo;


• chi sia l’interlocutore di queste richieste;
• chi sia il portatore del disagio;
• chi sia il committente: chi rivolge la domanda è anche chi in prima persona è coinvolto nella
situazione problematica e ne chiede la soluzione;
• chi sia il cliente;
• se la richiesta rivolta allo psicologo clinico abbia come unico utente l’alunno o piuttosto il gruppo
classe, il singolo insegnante, il gruppo dei docenti, il dirigente della scuola o il contesto scolastico.

Il contesto definisce, delinea, “marca” il comportamento e l’azione all’interno della quale avviene
l’intervento.
La richiesta non è mai isolabile dall’incontro tra le variabili che caratterizzano da un lato chi chiede aiuto,
dall’altro chi (operatore o struttura) formula la risposta all’interno di quel determinato contesto (sociale,
culturale e istituzionale). Analizzare la richiesta può anche determinare un cambiamento del focus
dell’intervento fino a mettere in discussione o riformulare totalmente la richiesta stessa. Per lo psicologo
clinico la riformulazione è indispensabile per non colludere con l’interlocutore (con chi formula la
domanda), per non incorrere in fraintendimenti e quindi per arrivare all’esplicitazione e condivisione con il
committente e con l’utente dell’obiettivo dell’intervento. Senza la condivisione degli obiettivi l’intervento
rischia di certo il fallimento.
La risposta dello psicologo, se non decodificata, può cristallizzare, incapsulare, in modo spesso irreversibile,
il destino del portatore del disagio.
Sono quindi l’intervento dell’operatore e la risposta dell’istituzione che danno un contributo decisivo alla
designazione o allo sviluppo del disagio con il quale essi vengono a contatto.
L’approccio sistemico, se fatto proprio dagli psicologi clinici, permetterebbero il rifiuto di risposte
preformate del servizio o dell’istituzione, la sperimentazione di nuove modalità di intervento e
parallelamente l’avvio di un processo di “riformulazione” che dia un significato alla domanda, analizzando il
contesto nel quale emerge, così da permettere la comprensione del bisogno che la richiesta di aiuto

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sottende.
Tale rilettura diventa la condizione prioritaria per un reale processo di cambiamento.

Il modello psicoanalitico nella scuola

Il modello psicoanalitico teorizza, invece, la compresenza nella mente dell’individuo del mondo inconscio e
conscio; tale compresenza permette all’individuo di conoscere e di pensare sulle proprie esperienze. È
proprio grazie alla struttura inconscia, alla compresenza nella mente di tutti gli individui di ciò che è
considerato bene e male, buono o cattivo, che è possibile distinguere e sviluppare pensieri, è possibile
stabilire relazioni tra diversi pensieri, nessi e correlazioni tra le diverse emozioni.
L’introiezione della versione buona, rassicurante, e di quella cattiva, persecutoria dell’oggetto, e
l’integrazione di tali scissioni in una forma realistica svolgono un ruolo fondamentale per lo sviluppo della
realtà interna e quindi della personalità dell’individuo.
La possibilità di differenziazione è considerata per la Klein l’aspetto chiave dello sviluppo del sé; nel corso
dello sviluppo, l’individuo potrà rapportarsi con l’oggetto in modo più completo; gli oggetti verranno ad
avere intenzioni molteplici e sentimenti misti.
La capacità di integrare i due oggetti permette lo sviluppo della relazione anche se, nello svolgimento della
vita dell’individuo, in alcune situazioni conflittuali o problematiche, tali scissioni possono riproporsi anche
nella vita adulta.
La delusione, l’assenza dell’oggetto buono può determinare emozioni ostili verso l’oggetto, la delusione che
esso procura e la sua assenza lo trasforma in oggetto ostile, persecutorio, in una parola “cattivo”, che può
danneggiare l’”oggetto buono”.
Nell’adulto, a differenza del bambino, prevale il pensiero, il conscio sull’inconscio, la capacità di pensiero:
benché inevitabilmente ricca di emozioni, può contenere e riconoscere le emozioni presenti nella realtà in
cui vive, così da orientare il comportamento in funzione del pensiero. Tuttavia, il bambino, ma anche
l’insegnante, portano nella scuola tutte le emozioni, i conflitti e le inibizioni delle relazioni ed esperienze
primarie con le figure genitoriali, la conflittualità tra fratelli e con i pari.
Nelle situazioni di difficoltà anche nell’adulto, e quindi anche nell’insegnante, si possono ripresentare
queste modalità di funzionamento della mente, anche se, a differenza del bambino, e grazie all’acquisita
maturazione del sé e alla capacità di integrare gli oggetti buoni con quelli cattivi, la mente è in grado, se
non fortemente sofferente, di riconoscere, pensare e riflettere circa ciò che sta vivendo e provando.
Nella realtà di lavoro, in una situazione di difficoltà o conflittualità, l’individuo e quindi l’insegnante, il
responsabile dell’istituto, non potendo attingere all’oggetto interno buono le cui capacità di gratificazione e
contenimento vengono rese vane e inadeguate, attiva nei confronti dell’altro vissuti di estraneità, ostilità,
inimicizia, meccanismi difensivi volti ad isolare, neutralizzare e aggredire l’oggetto vissuto come
persecutore.
Il modello psicodinamico instaura con l’altro una relazione; prioritario è instaurare un rapporto di ascolto,
di condivisione degli obiettivi volti a comprendere insieme i significati sottesi alla situazione di difficoltà
denunciata. Lo psicologo clinico e colui che segnala la situazione di difficoltà non possono entrare
realmente in relazione se non si è instaurata tra di loro quella che in senso lato possiamo definire come
alleanza terapeutica, quella condizione cioè che permette di condividere con l’altro il desiderio di riflettere,
pensare sulle proprie emozioni, quindi sulla difficoltà segnalata. Solo così il problema segnalato, sia che
riguardi l’alunno problematico, la classe indisciplinata, il docente, il gruppo dei docenti “inadeguati” o la
“famiglia assente”, non sarà chiuso e incapsulato in sterili diagnosi ed etichette di alunno “patologico,
inadeguato, cattivo, nemico, incurabile”, perché la designazione sarà stata trasformata in riflessione sul
significato della situazione segnalata.
Il lavoro dello psicologo clinico deve essere finalizzato ad analizzare attentamente la relazione che sta

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strutturando con quell’utenza, istituzione o individuo, che propone o impone un rapporto sostenuto da
fantasia e agiti emotivi, che vengono espressi nella relazione con il consulente e sui quali pretendono di
strutturare il rapporto, al fine di non colludere con l’emergenza emotiva e di vanificare ogni possibile
intervento volto ad attivare risorse e cambiamento.
Il metodo di osservazione: l’osservazione partecipe
Gli psicologi clinici che operano nell’ambito del servizio materno-infantile stanno approfondendo
progressivamente modalità d’intervento per svolgere, con gli insegnanti e/o i genitori, un modello di
conoscenza e approfondimento di situazioni di difficoltà del bambino.
Tra queste, le tecniche osservative forniscono agli operatori della scuola una conoscenza dello sviluppo e
dei bisogni dei bambini, quindi offrono uno strumento che permette di capire e sentire insieme, prima di
dare giudizi. L’acquisizione di tale modello, se da un lato offre un aiuto emotivo all’educatore, dall’altro
crea le condizioni perché si sviluppi interesse e attenzione per lo sviluppo del bambino, insieme al desiderio
di aiutarlo nella crescita ed una preziosa curiosità agli aspetti individuali del suo sviluppo. L’intervento di
psicodiagnosi propone un’esperienza di condivisione con bambino e insegnante per restituire, dopo averlo
elaborato, ai genitori, all’insegnante e al bambino stesso ciò che si è condiviso, e permettere così una prima
lettura della situazione di difficoltà o per avviare un processo di cambiamento.
Uno strumento conoscitivo che gli psicologi clinico formati secondo il modello psicodinamico adottano per
analizzare tali situazioni è quello definito dell’osservazione partecipe.
L’approfondimento di tale metodo richiede un particolare training al cui centro si colloca l’analisi personale
dello psicologo, che riguarda l’elaborazione della propria affettività profonda, elaborazione che permette di
mediare le proprie consapevolezze e conoscenze con i processi affettivi che si costituiscono e vengono
proiettati “dall’altro” con il quale è in rapporto.
Dall’osservazione partecipe dei bambini nella prima infanzia si possono ricostruire gli aspetti generali dello
sviluppo motivo del neonato e la genesi relazionale dello sviluppo della sua mente.
L’acquisizione del metodo osservativo ha sostituito all’azione la riflessione: osservare vuol dire acquisire la
capacità di vedere non una parte, un pezzo della persona e della realtà, ma l’insieme: il bambino, la
situazione di disagio nel contesto naturale in cui egli vive, quindi un tutto unitario.
Nella baby observation l’osservazione del bambino si verifica nel suo ambiente naturale in “una situazione
prefissata”, lo psicologo si dispone con una funzione interpretante che presuppone l’astinenza dall’azione.
È necessario che l’osservatore non si limiti ad analizzare i dettagli comportamentali del soggetto, ma
acquisisca una visione della storia relazionale che si svolge nel setting dell’osservazione; per raggiungere
questo obiettivo è necessario avere il tempo, darsi del tempo per lasciar decantare ciò che si è visto e
sentito, per poter raggiungere una parziale messa a fuoco della situazione. Questo approccio si occupa
molto di più delle influenze interne ed esterne sullo sviluppo che, in quel determinato momento, si
svolgono nella realtà del bambino. Si deve quindi osservare, tener conto del rapporto tra il bambino e il suo
ambiente, ambiente che supporta l’Io e che costituisce un fattore importante nei primi stadi di sviluppo del
bambino.
L’osservazione diretta è quell’esperienza nella quale l’osservatore si pone con modalità neutrale e, nello
stesso tempo, partecipe come testimone dell’unicità della situazione che si sta svolgendo davanti a sé e
non ricerca dati che possano servire a costruire o a corroborare un determinato modello di sviluppo
infantile. L’attività mentale dell’osservatore diventa parte della relazione conoscitiva.
Questo metodo ha dato notevole impulso ed applicazione all’osservazione come strumento ideale per la
formazione, in quanto essa affina le capacità dello psicologo clinico a cogliere i dettagli della situazione e
l’evoluzione del processo che si svolge in sua presenza e che gli fornisce la possibilità di “leggere” e
decodificare il proprio controtransfert così da permettergli di arrivare ad una distinzione tra i dati
osservativi e le proprie inferenze.

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Lo psicologo che, dopo l’osservazione, analizza e riflette sui bisogni profondi del bambino con l’adulto che si
prende cura di lui, aiuta a garantire quella continuità di sostegno emotivo e quelle modalità relazionali che
risultano più favorevoli allo sviluppo della salute intellettiva e psichica.
Quest’ottica favorisce un miglioramento complessivo dell’ambiente e delle relazioni con il bambino e tra il
gruppo dei pari e sceglie il gruppo dei docenti come sede prioritaria dell’intervento. In alcuni casi sono
necessari un sostegno e un aiuto perché nasca un gruppo di lavoro in grado di affrontare i problemi di
gruppo dei docenti, in altri le difficoltà di relazione tra adulti e bambini, in altri ancora i problemi interni
della struttura.
Gli psicologi clinici formati ad un rigoroso modello psicodinamico per l’età evolutiva intervengono, oltre che
attraverso una modalità osservativa, anche con un intervento psicodiagnostico individuale. Tale intervento
permette di valutare non solo il livello di sofferenza del bambino, ma anche di offrirgli un incontro con un
adulto competente in grado di permettergli di fare un’esperienza di condivisione della sua sofferenza
emotiva.

La valutazione del disagio emotivo in età evolutiva: dalla valutazione alla restituzione

La diagnosi psicodinamica del bambino


In una situazione di sofferenza emotiva i colloquio di valutazione hanno come specifico compito quello di
analizzare se nel bambino vi sia la necessità di intraprendere un lavoro psicoterapico, oppure quello di
offrire un aiuto limitato nel tempo e nel numero degli incontri. Talvolta tale sofferenza viene segnalata
dall’istituzione scolastica o dalla famiglia stessa.
Per valutare la realtà psicodinamica del bambino sono necessarie esperienza clinica, molta attenzione ed
una particolare sensibilità psicologica da parte del terapeuta, nonché un’applicazione metodologica
flessibile o diversa per ogni età. È necessario, infatti, che in pochi incontri il terapeuta sia in grado di fornire
al paziente una restituzione elaborata di quanto è emerso nella consultazione. Ciò consente che tale
momento di valutazione venga vissuto dal bambino come un incontro in grado di fornire al giovane
paziente un’esperienza emotiva con un adulto in grado di contenerlo, comprenderlo, aiutarlo a riconoscere
alcuni aspetti della sua sofferenza, della costruzione dei suoi legami emotivi e delle relative
rappresentazioni.
I colloqui valutativi possono essere considerati un “breve intervento psicoterapeutico” nel quale il paziente
si avvicina per la prima volta al suo mondo interno; il terapeuta sostiene, accompagna e modula questa
prima esperienza, permettendo di sperimentare un positivo “incontro” di contenimento e condivisione
emotiva. Nei colloqui di valutazione è necessario che il terapeuta, per avvicinarsi al mondo interno del
paziente, possegga non solo un’approfondita formazione e sensibilità clinica, ma anche competenze
adeguate alle diverse età dei pazienti. Di grande rilevanza appare, infatti, non solo la necessità di
comunicare inizialmente al bambino la disponibilità dello psicologo all’ascolto, il suo intendo di partecipare
ad una comune esperienza, ma anche l’opportunità di esplicitargli subito che questa esperienza avrà
termine. Ciò è utile allo scopo di proteggere il bambino da un coinvolgimento emotivo che potrebbe
rendere molto dolorosa la separazione.
Occorre anche sottolineare che, in questi incontri, è essenziale usare molta cautela. L’attenzione rivolta alle
caratteristiche del transfert e del controtransfert ha lo scopo di farci meglio entrare in contatto con la
qualità dei rapporti interpersonali che il bambino tende a stabilire e non ha finalità di produrre dirette e
specifiche interpretazioni.
Il campo privilegiato in cui è possibile rilevare questi aspetti è, naturalmente, quello del gioco, attraverso il
quale il bambino riesce a esprimere i propri desideri, le proprie esperienze reali, le proprie fantasie, in
maniera simbolica; molta attenzione va dunque data a ogni comportamento, verbale e non verbale, messo
in atto negli incontri.

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Cenni storici sulla psicoanalisi infantile
Freud è stato il precursore di un metodo di studio dello sviluppo psichico del bambino: “l’osservazione
diretta”, che oggi occupa un posto di rilievo nello studio dello sviluppo psicoaffettivo infantile. Ma sarà solo
con le teorizzazioni di Melanie Klein e Anna Freud che si darà l’avvio a due correnti di pensiero nella
psicoanalisi infantile. Anna Freud elabora una tecnica intermedia fra il lavoro analitico e quello educativo;
Melanie Klein, invece, sottolinea che è l’interpretazione delle angosce nel transfert a far entrare il bambino
nel processo analitico, poiché il bambino è in grado di sviluppare un’autentica nevrosi di transfert.
L’influenza maggiore sullo sviluppo della psicoanalisi infantile risale, però, agli anni sessanta con Winnicott.
L’autore, ponendosi in una posizione intermedia tra la Klein e A. Freud, diventa portavoce del ruolo
fondamentale dell’ambiente nello sviluppo psichico del bambino.

La costruzione della relazione terapeutica

Passando dunque all’analisi della costruzione della relazione terapeutica, è opportuno focalizzare gli aspetti
a cui lo psicologo clinico deve fare riferimento (anche nell’intervento breve di consultazione).

1. Il contratto. Quando viene indicata una valutazione dello stato di disagio emotivo del bambino, è
innanzitutto essenziale un coinvolgimento dei genitori nel “contratto” ed è importante stabilire con
loro una buona o sufficiente alleanza terapeutica. La presenza dei genitori nei colloqui psicoanalitici
con i bambini, tanto più piccoli essi sono, è infatti di rilevanza fondamentale. Spesso appare
indispensabile condurre in parallelo un lavoro con i genitori che permetta loro di collaborare alla
cura del figlio.
2. Il setting. Cioè dove e come le sedute hanno luogo, è di fondamentale importanza. Il corpo del
bambino, rappresenta uno strumento essenziale di espressione della sua realtà emotiva ed è anche
il luogo attraverso il quale si manifesta il mondo fantasmatico, che è prima agito e poi verbalizzato.
Il corpo, pertanto, è utilizzato come materiale analitico, insieme ai giochi, ai disegni e alla
verbalizzazione diretta.
3. Il transfert. Per quanto riguarda il transfert nei bambini possiamo affermare che le basi del transfert
sono costituite dalle strutturazioni psichiche delle relazioni precoci. Queste ultime vengono
proiettate nella relazione del bambino con il terapeuta, che potrà così comprendere e contenere
nella propria mente i vissuti del bambino per restituirglieli gradualmente, così da permettergli di
avviare un processo elaborativo. Se l’analista sarà in grado di contenere nella sua persona tutti gli
aspetti del transfert, compresi quelli negativi, l’Io del bambino potrà rafforzarsi e l’angoscia
modificarsi.
4. Modalità della valutazione. L’indicazione di un intervento psicoanalitico con i bambini nasce dalle
sedute di valutazione. Le sedute diagnostiche-valutative sono finalizzate ad analizzare e
comprendere il livello del disagio emotivo del bambino e l’opportunità di un intervento
psicoterapico. Nel lavoro di valutazione è fondamentale chiarire un dato di realtà, che l’esperienza
ha termine, che questa esperienza precipita inevitabilmente in un vissuto di separazione.
La consapevolezza del termine aiuta la relazione tra psicoterapeuta e bambino, a creare un’area di
condivisione di un’esperienza di contenimento senza alimentare presupposti illusori di uno spazio
senza limiti e/o confini.

Nel lavoro psicodiagnostico infantile è dunque inevitabile l’incontro dello psicoanalista con i genitori che
chiedono una valutazione diagnostico-clinica o terapeutica per il bambino. La modalità più adeguata della
consultazione psicodiagnostica, cioè la scelta di lavorare solo con i genitori, solo con il bambino o
separatamente con i genitori e il bambino, va operata secondo la formazione e le competenze del

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terapeuta e il contesto nel quale si colloca l’intervento.
La rappresentazione simbolica del mondo interno del bambino
La valutazione del disagio emotivo infantile presenta delle peculiarità proprie, poiché diverse sono le
modalità con le quali il bambino comunica i propri pensieri e le proprie emozioni: il bambino utilizza il
gioco, il disegno, i comportamenti non verbali per rappresentare il suo mondo emotivo. Con tali modalità
egli esprime inconsapevolmente la propria realtà affettiva e propone, nella relazione con il terapeuta,
elementi per costruire “insieme” possibili storie da raccontare. Indica la traccia di un racconto in attesa di
uno svolgimento mediante il quale potrà essere sollevato dall’ansia e dall’angoscia.
È possibile considerare il disegno come una modalità con la quale avvicinarsi al bambino, perché permette
di osservare e analizzare i movimenti transferali, quindi ciò che sta avvenendo nel suo mondo interno. La
concretezza del disegno permette di cogliere aspetti del funzionamento mentale del bambino; in quanto
libera espressione grafica, permette l’esteriorizzazione del suo mondo inconscio. Nel transfert vengono
proiettati i contenuti della sua mente, arricchiti di significati simbolici decodificabili nel disegno. Il disegno,
quindi, può essere utilizzato per iniziare a verbalizzare ciò che simbolicamente è tracciato dal bambino e
che attende di essere tradotto, associato e interpretato.
Il disegno rimanda alla storia emotiva ed anche al funzionamento mentale della coppia bambino-terapeuta
nel qui ed ora, quindi ad un problema presente nella mente infantile, che è colto dal terapeuta come punto
di partenza per il processo trasformativo e creativo della loro coppia.
Anche il gioco può essere considerato un mezzo mediante il quale il bambino rappresenta, drammatizza,
comunica, scarica le proprie fantasie inconsce, ma anche un mezzo per elaborare e modulare le ansie ad
esse connesse. Il bambino, assumendo personificazioni diverse, distanzia i contenuti emotivi fortemente
ansiogeni e quindi intollerabili; rappresenta, rimaneggia e padroneggia fantasie ed angosce provenienti
dalla realtà esterna e dal suo mondo interno. Il gioco permette al bambino di narrare, di rappresentare e
drammatizzare storie che appartengono al suo mondo di affetti, pensieri, conflitti e al suo modo di vedere e
rapportarsi con la realtà. La storia che il bambino narra è sconosciuta al terapeuta ma, grazie alla
condivisione e al contenimento dello spazio terapeutico, può essere elaborata e riscritta per permettergli di
raggiungere un nuovo e condiviso vertice di osservazione.
Il bambino, proiettando nel gioco e nel disegno i propri desideri, le proprie angosce e i propri fantasmi,
segnala, nella relazione terapeutica, le difese e le fratture comunicative; permette così di essere raggiunto
dal terapeuta nei nuclei disfunzionali del proprio Sé che non sarebbe in grado di esplicitare e verbalizzare.
Il primo incontro con il bambino
Il primo incontro con il bambino rappresenta uno dei momenti più complessi della valutazione.
Prima che questa abbia inizio, essa assume, un significato nella mente del bambino: può essere vissuta con
un carattere di occasionalità o implicare una valutazione esterna sull’assetto emotivo e relazionale della
famiglia.

Capitolo 5 - Dalla valutazione alla restituzione del disagio psichico: l’intervento nei servizi territoriali

Da ricerche effettuate presso i Servizi Territoriali è emerso che gli psicologi clinici che operano all’interno di
queste strutture svolgono prevalentemente interventi individuali di psicoterapie brevi e di psicoterapia con
la coppia e che i modelli di riferimento più frequentemente utilizzati sono quello relazionale-sistemico e
quello psicoanalitico.

La terapia con la coppia

Il modello relazionale-sistemico
La modalità relazionale-sistemica pone l’accento sulle caratteristiche del comportamento degli individui,

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osserva le regole dei comportamenti ed è quindi focalizzata sulla remissione del sintomo.
Ponendo l’accento principalmente sull’interazione comportamentale e sulla realtà, l’approccio relazionale-
sistemico mette in secondo piano, appunto, gli aspetti emozionali e fantastici. Nell’intervento si riserva una
limitata attenzione ai meccanismi di funzionamento intimo della coppia, mentre è prevalente un impegno
nel fornire consigli tecnici come prescrizioni di comportamento “paradossali” e connotazioni positive. Non
viene inoltre analizzato il transfert.
Il modello psicoanalitico
Il modello psicoanalitico sottolinea che nella coppia i legami intrapsichici sono basati sugli affetti, perciò
sull’investimento libidico. Il legame è una relazione in cui ciò che conta è l’incontro fra due psichismi che,
mediante l’identificazione proiettiva, deposta un affetto o una rappresentazione nell’altro, determinando
un processo di identificazione per i quali ogni partner risponde all’altro in modo speculare.
Uno dei fenomeni costantemente osservati in ogni psicoterapia è l'intensità dell'identificazione con i
sentimenti dei genitori; ciò fa emergere quanto i pazienti siano molto coinvolti con le qualità più profonde
dei rapporti vissuti con le figure genitoriali.
Dicks teorizza che la coppia sia l’interscambio di oggetti inconsci, che crea un mondo oggettuale condiviso,
ed ha una dimensione organizzativa nella famiglia e afferma che questa è una struttura solo
apparentemente diadica poiché l'elemento predominante è l'aspetto del rapporto con il legame che si
costituisce tra due oggetti. Se la relazione è la matrice originaria della storia di ciascun individuo, il legame
di coppia è dunque il nuovo "elemento", in grado di esprimere un aspetto di sé complementare al'altro.
L'altro è, per ciò, oggetto della nostra proiezione, che rappresenta l'esternalizzazione della primitiva
relazione; la particolare relazione di coppia permette, quindi, che emergano parti di sé sconosciute che
l'altro oggetto rappresenta.
Il legame di coppia, secondo la teoria delle relazioni oggettuali, si costruisce attraverso l’identificazione
proiettiva che, insieme all'idealizzazione e alla scissione, sono gli elementi centrali della relazione; questi
sono meccanismi primitivi del funzionamento del sé che, se nelle abituali relazioni possono assumere
aspetti disfunzionali e connotazioni patologiche, nelle dinamiche di coppia possono svolgere un'importante
funzione di sviluppo e di evoluzione. La dinamica dell'identificazione proiettiva permette di comunicare,
controllare ed attaccare nell'altro parti rimosse o scisse del sé attivando, anche in senso positivo, il loro
sviluppo. Il partner non è solo recettore passivo delle proiezioni poiché ha la capacità di metabolizzarle
rendendole meno angosciose e più tollerabili, Si modulerebbe cosi, all'interno della coppia, un processo di
conoscenza, trasformazione e "guarigione" di sé e dell'altro.
I meccanismi primitivi di svolgono una diversa funzione a seconda delle diverse fasi evolutive e dei diversi
bisogni che in queste emergono: nel funzionamento "sano", infatti, si verificano ripetute oscillazioni tra
movimenti identificativi e di differenziazione, che permettono alla coppia di adattare e modificare la
propria organizzazione interna alle nuove istanze evolutive che progressivamente emergono.
Per costituirsi, una coppia deve strutturare una membrana diadica che definisca uno spazio di separazione
tra l'interno e l'esterno a essa; tale membrana si costituisce attraverso un contratto segreto, inconscio, le
cui motivazioni sono, in prevalenza, non conosciute agli stessi partner e che riguardano i desideri, le paure
che derivano dalle relazioni vissute con le figure significative prevalentemente nell'infanzia.
I partner si scelgono con valenze trasformative o difensive. Tale scelta, che può avvenire per
complementarietà - l'oggetto rappresenta il genitore del sesso opposto - o per contrasto - l'oggetto è
totalmente diverso dal genitore del sesso opposto -, è attuata su base analitica, narcisistica o edipica e,
laddove i meccanismi di funzionamento che sostengono la membrana di coppia siano troppo rigidi, può
essere disfunzionale.
La coppia è mantenuta in vita dalla collusione; questo meccanismo fa sì che ogni membro accetti di
sviluppare inconsciamente solo alcune parti di sé e - adeguandosi ai bisogni dell'altro - rinunci a svilupparne

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altre, le quali vengono invece proiettate sul partner. Lo sviluppo di ogni partner è favorito cioè
dall'interscambio. Si attiva cosi un processo trasformativo, ed è il processo di collusione che permette la
strutturazione della complementarità.
Nel funzionamento sano la coppia cerca di risolvere le proprie antiche e nuove frustrazioni e gli squilibri
legati al cambiamento delle fasi di vita attraverso modalità che favoriscono la crescita e permettono la
realizzazione di entrambi i partner. Se tale processo non si realizza, la coppia potrà vivere emozioni di forte
disagio e sofferenza accentuando i processi difensivi di dissociazione e di proiezione, fino a strutturarsi
secondo un alto livello di rigidità e ripetitività, escludendo il mondo esterno considerato fonte pericolosa di
differenziazione. I cambiamenti possono allora essere vissuti come una minaccia, anche rispetto al livello
fusionale della collusione che, se massiccio e totalizzante, determina il sorgere di ansie di frammentazione e
di perdita di senso di identità e la patologia di coppia.
Le funzioni della coppia
Le funzioni specifiche della coppia sono complesse: vanno naturalmente da quelle biologiche, che
includono la sessualità e la riproduzione, a quelle sociali, che promuovono il reciproco adattamento in un
sistema più vasto, ma anche a quelle introiettive, che sono fonti di amore e speranza, che contengono il
dolore e producono il pensiero.
La coppia è una struttura solo apparentemente diadica. Essa in realtà è un'unità integrata, in cui il legame
che unisce i membri è un terzo elemento significativo.
Certamente non è facile osservare quanto il legame, come terzo elemento, condizioni i partner in una
situazione nevroticamente normale, ma lo diventa in modo evidente in una situazione patologica dove il
clima esistente tra i membri è condizionato da un patto inconscio di controllo reciproco.
I rapporti di coppia si possono rivelare fondamente trasformativi, non solo perché modificano le nostre
esperienze interne, ma anche perché attivano versioni di noi che sarebbero rimaste altrimenti obsolete o
nascoste anche tutta la vita.
La presenza in un altro contesto di uno dei due membri della coppia fa rilevare quanto egli appaia
all'esterno diverso: l'assenza di quel legame consente di mostrare una versione del sé di uno o dell'altro dei
membri che, nella seduta congiunta, era sconosciuta. Nel rapporto di coppia si possono infatti rilevare
profonde trasformazioni. Ciò è possibile non solo perché I'identità della persona non è stabile ma in
continua evoluzione, ma anche perché la qualità della relazione permette l'emersione degli oggetti interni
con quelli esterni e, infine, perché ogni comportamento e modalità di relazione assumono un significato
diverso se osservati in diversi contesti interpersonali.
Proprio "la membrana diadica", che definisce lo spazio interno della coppia rispetto al mondo esterno, al
sottosistema dei figli, a quello dei genitori e della famiglia allargata, è ciò che lega la coppia.La resistenza e
la flessibilità della membrana garantiscono lo sviluppo della coppia e la capacità di integrare nuove
emozioni ed esperienze. All'interno del confine diadico della coppia sono presenti contemporaneamente
diverse simbolizzazioni che riguardano aspetti primitivi ed evoluti di entrambi i partner.
In ogni coppia, rileva chiaramente Dicks, esiste questo contratto segreto, le cui motivazioni sono
prevalentemente inconsce, che fanno riferimento a desideri, angosce, bisogni e frustrazioni legati alle
relazioni affettive significative vissute nei primi anni di vita. Nella struttura inconscia della coppia entrambi i
partner interscambiano e condividono i propri oggetti interni, e quindi le relazioni inconsce che permettono
loro una dimensione organizzativa della famiglia.
Relazione genitoriale e sviluppo del sé
L'individuo, e prima ancora il bambino, trova nella famiglia d'origine il riferimento ineludibile per soddisfare
e poi superare i propri bisogni nelle varie fasi della vita. L'accettazione dà al bambino la certezza di essere
oggetto di amore, il rifiuto, quando necessario, lo protegge dagli impulsi temuti. Nell'interazione madre-
bambino è infatti possibile individuare il nucleo più profondo dell'atteggiamento del bambino verso la

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realtà, in termini di amore, rifiuto, depressione, sicurezza, ansia.
Un'infanzia vissuta con una madre "sufficientemente buona" è il fondamento di un armonioso sviluppo,
perché la bontà degli oggetti interni non viene messa in dubbio. Crescendo, il bambino impara a
differenziarsi dalla madre vista come persona reale e a sviluppare una tolleranza alle frustrazioni. Dunque, il
bambino impara a contenere e accettare la propria ambivalenza e quella dell'oggetto. Quando il risultato di
questo complicato processo sia sufficientemente equilibrato la crescita può proseguire più liberamente
seguendo le nuove spinte biologiche e sociali. Se le esperienze infantili di dipendenza e gratificazione sono
state sufficientemente appagate, il bambino avrà acquisito una prima struttura di base in grado di condurlo,
nel tempo, ad un rapporto di coppia armonioso.
Il bambino trova identificazione all'interno di questo orizzonte emotivo e qui si formano le sue risorse
interne: apprende così come amare da adulto, nella misura in cui ha percepito amore adulto verso di sé.
Il bambino impara a tollerare i confitti si e può l'ambivalenza in sé e negli altri proprio perché ha potuto
sperimentare nei genitori la capacità di far fronte alla sua e alla loro rabbia con modalità prevalentemente
amorevoli.
Nella varie fasi dello sviluppo, e soprattutto nella fase edipica, la reciproca soddisfazione erotica dei
genitori ha un effetto profondo: l'immagine di un padre e di una madre uniti, che si amano, che
condividono profondamente le modalità di allevamento ed educazione dei figli, dona un senso di sicurezza
che attenua grandemente i conflitti infantili. II bambino si rende conto che la sua onnipotenza non è in
grado di separare i genitori o di incunearsi tra loro: così il bambino si riconcilia con l'inconsistenza delle sue
fantasie edipiche. Se, al contrario, la implicita o esplicita conflittualità dei genitori permetterà che il
bambino realizzi le proprie fantasie, è molto probabile che emergano seri conflitti, che difficilmente lo
porteranno, una volta cresciuto, a realizzare una coppia armoniosa.
Il fattore più significativo per l'armonia coniugale è l'esser stati figli di genitori coniugi felici.
I modelli fondanti di come essere marito o moglie, padre o madre, si formano in questo primo stadio,
attraverso una identificazione diretta o per opposto.
Nell'adolescenza le problematiche infantili di ambivalenza verso le figure genitoriali vengono riattivate e
rielaborate, per ritrovare l’intimità dell'oggetto perduto e arrivare a sperimentare una relazione amorosa e
sessuale con un compagno paritario.
Questo complicato processo propone complesse interferenze e problematiche evolutive. Anche nello
sviluppo normale questo processo comporta inevitabili conflitti: se poi si aggiunge un ambiente genitoriale
fortemente frustrante ed ostile verso i bisogni del figlio, questi bisogni potranno permanere come richieste
irrisolte verso la figura materna o paterna, vissute con sentimenti ambivalenti di odio e amore.
Il lavoro clinico evidenzia che le figure genitoriali vissute come "cattive" vengono anch'esse internalizzate, e
l'intero potenziale relazionale viene represso; si verifica così che gli oggetti genitoriali investiti con una
quantità di odio, e con l'inevitabile senso di colpa, vengono sentiti dal figlio interni a sé. L'unico modo per il
figlio di far fronte all'ulteriore carico di ansia sarà di mettere in atto rigidi meccanismi di difesa dell'Io.
Quanto più precocemente e intensamente avviene la frustrazione dei bisogni, tanto più grave sarà
l'impoverimento dei futuri potenziali relazionali. Tali potenziali saranno infatti incapsulati in nuclei scissi
dell'lo, che resteranno bloccati sull'originaria fonte di frustrazione: cioè sulle figure genitoriali primarie che
hanno provocato il convergere verso di loro di bisogni di dipendenza e libidici non appagati da risposte
adeguate. Dunque, il bisogno di amore non corrisposto può determinare il ritiro in una capsula scissa: e se
la scissione si verifica precocemente, questa parte dell'Io può rimanere estremamente infantile. All'interno
della capsula scissa restano inattingibili e nascosti i desideri di dipendenza, di tenerezza, di amore. In
un'altra capsula, anch’essa scissa, permangono invece gli affetti temuti, pericolosi, che suscitano
frustrazione ed ira nei confronti dell'oggetto che il bambino ha dovuto internalizzare per paura. E questa
scissione si riprodurrà nella relazione adulta.

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Nell'adulto, la parte funzionante di un lo scisso tiene separati gli investimenti relazionali ambivalenti e
frustranti: è per questo che molte persone possono divenire adulti intellettualmente competenti pur
rimanendo povere e infantili nelle relazioni oggettuali. In personalità che hanno vissuto gravi frustrazioni
infantili, l'attaccamento adulto può orientarsi su oggetti antilibidici con la scelta di partner frustranti.
Obiettivi della terapia
Quando dunque le aspettative idealizzate di un partner verso I'altro si infrangono, l'altro diventa portatore
di attributi del mondo oggettuale inconscio, contro i quali il partner avrebbe dovuto svolgere, a motivo del
processo di idealizzazione, una funzione di risarcimento: avviene quindi il passaggio alla deidealizzazione,
che determina sentimenti di sofferenza e rabbia che minacciano o mettono gravemente in crisi 'integrità
della membrana di coppia.
Nel processo terapeutico, primario è il lavoro di comprensione degli organizzatori inconsci che hanno
strutturato la coppia. Sarà quindi compito del terapeuta intervenire per analizzare ed elaborare con loro le
identificazioni proiettive, permettendo ai partner di prendere coscienza delle modalità inconsce di
funzionamento della loro coppia e della loro storia, per arrivare all'introiezione dei vissuti nei confronti
delle figure genitoriali, elaborando il transfert nei confronti del terapeuta che li riattiva. Il processo
terapeutico potrà permettere a ciascun partner di riappropriarsi dei bisogni depositati nell'altro sotto forma
di attese e speranze infantili.
Quando i coniugi arriveranno a reinternalizzare le parti di ognuno proiettate sull'altro, potranno essere in
grado di vivere il rapporto coniugale liberato dalla necessità di utilizzare le identificazioni proiettive.
Quando tali identificazioni saranno inutili, essi saranno in grado di riconoscere, come proprie, parti di sé
proiettate nell'altro, che, prima del trattamento, erano indotti inconsciamente a negare.
Obiettivo della terapia di coppia è quello di restituire a ciascuno dei partner i propri aspetti depositati
nell'altro sotto forma di bisogni e attese infantili non appagate o frustrate, di rinunciare ad indurre
comportamenti e sentimenti al partner che avrebbe dovuto agirli, liberandolo dalla delega di cui lo aveva
investito. Cosi l'altro non sarà più oggetto idealizzato, ma reale oggetto d'amore.

Lo psicologo clinico consulente del tribunale

Gli operatori dei Consultori Familiari o dei Servizi Materno-Infantili sovente vengono consultati dal
tribunale per dare la propria consulenza e il proprio parere in situazioni di conflittualità della coppia, anche
al fine di facilitare l’individuazione delle modalità di affidamento dei figli.
Quando una coppia arriva ad una separazione legale mediante l’intervento del tribunale, vari contesti, con
valenze e contenuti diversi, vengono implicati nella situazione problematica: c’è il contesto giudiziario,
quello legale e quello familiare. Il giudice, gli avvocati e la coppia stabiliscono una serie di regole, finalizzate
a proteggere e tutelare i figli: i membri “più deboli” della famiglia. Tali regole, implicitamente, dovrebbero
definire gli spazi e delineare le modalità delle relazioni affettive con i genitori.
Si nota tuttavia che questo primo “accordo” tra le parti spesso non è adeguatamente esplorato ed
elaborato, anche perché ricalca ruoli, funzioni e norme predeterminati, e tende a riproporre le complesse
problematiche interne della coppia. Nella prima fase di separazione legale, quindi, il giudice stabilisce delle
regole riguardanti i figli a cui i componenti del nucleo familiare dovrebbero attenersi. Tali regolamentazioni,
finalizzate "alla primaria tutela del minore", modicano inevitabilmente le modalità relazionali esistenti
all'interno della famiglia; si dà vita, cosi, ad una sorta di "territorio franco", regolamentato da figure esterne
alla coppia.
Tali regole, se da un lato assolvono alla funzione di contenere il disagio emotivo dovuto alla separazione,
dall'altro si rivelano spesso inadeguate, perché spostano su un piano di realtà e concretezza la soluzione di
profonde problematiche interne. La coppia arriva, frequentemente, all'"accordo", formale e legale, senza
aver adeguatamente elaborato la separazione emotiva: conseguentemente, le regole poste in ambito

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giuridico si rivelano spesso troppo pragmatiche rispetto ai problemi affettivi che il conflitto sottende.
L'accordo in sede giudiziale, quindi, propone soluzioni concrete alla conflittualità, piuttosto che rinviare ad
altro contesto la sua elaborazione emotiva.
Quando infatti la complessità dei legami e dei vissuti affettivi non è elaborata e la coppia non riesce ad
attingere alle proprie risorse interne, per adattare e rimodellare la nuova realtà affettiva e relazionale, si
arriva alla separazione legale senza aver elaborato quella emotiva e, dunque, in condizione di grave
conflittualità e "battaglia” su un piano di realtà. E, nelle situazioni in cui la tensione coinvolge gravemente i
figli il giudice dispone la Consulenza Tecnica d'Ufficio. Con tale intervento, allo psicologo clinico viene
chiesto di valutare la realtà emotiva del nucleo familiare, ed in particolare dei figli, e di valutare la modalità
di rapporto dei figli nei confronti di ciascun genitore e, in particolar modo, di quello non affidatario,
fornendo un parere sull'eventualità di modificare l'affidamento.
La richiesta di revisione dell’affidamento o di modificazione della frequenza e modalità degli incontri con il
figlio rappresenta solo una domanda apparente, che, in realtà, non è altro che un pretesto per manifestare
la sofferenza, la difficoltà o addirittura l’impossibilità di elaborare la separazione: la conflittualità funge da
nucleo di contenimento delle angosce e del rifiuto della separazione. La conflittualità, infatti, sembra
permettere alla coppia di mantenere collusivamente il legame: un legame "perverso" privo di vitalità,
alternative e speranze.
Lo psicologo entra in contatto con rigide e complesse dinamiche emotive: nota il verificarsi della
permanenza di un alto conflitto, la persistenza di un implicito e inconsapevole bisogno di mantenere aperto
il conflitto, incontra persone che non sono in grado di porsi in una posizione riflessiva e problematica nei
confronti della loro conflittualità.
Data la complessità e la varietà di situazioni con le quali si entra in rapporto, diventa allora necessario
assumere modalità d'intervento diversificate: incontrare alcune volte figli e genitori insieme, altre volte
separatamente.
Nell'affidare la consulenza allo psicologo si notano nei giudici atteggiamenti e aspettative diversi: alcuni,
dopo aver effettuato diversi interventi rivelatisi fallimentari, si rivolgono allo psicologo clinico con
l’aspettativa che gli incontri con l’operatore risolvano definitivamente la lunga catena di insuccessi. Altri,
invece, individuando l'incongruità tra la richiesta esplicitata e le problematiche implicite non esplicitabili,
cioè la inconsapevole volontà di uno o di entrambi i partner di non arrivare alla separazione emotiva,
chiedono l'intervento del consulente nella prima fase del procedimento giudiziario, con l'obiettivo di
limitare I'aggravarsi della conflittualità.
Il contesto peritale
Allo psicologo, sia pure, nei vari casi, con sfumature diverse, viene dato il mandato di fornire indicazioni
efficaci per dirimere la conflittualità, ma difficilmente viene dato l'incarico di analizzare e comprendere le
problematiche emotive implicite nella coppia.
Nell'intervento di consulenza, dunque, è fondamentale decodificare il significato profondo della
conflittualità, ma è anche importante prestare particolari cure per impedire che il contesto peritale scivoli
in un contesto unicamente valutativo e giudiziario. Per evitare questo, sembra fondamentale che tutte le
persone coinvolte trovino nel rapporto con lo psicologo un'occasione per analizzare la domanda e gli
aspetti collusivi ad essa sottesi; per arrivare ad una richiesta che trasformi il rapporto dell’individuo o
coppia che subisce l'incontro con lo psicologo, perché è stato loro imposto dal tribunale, a persone che
diventino utenti dello psicologo, attive e partecipi delle problematiche implicite della richiesta. Solo
diventando utente dello psicologo clinico la coppia potrà fare un'esperienza all'interno della quale venga
analizzata attentamente la domanda nei suoi complessi e articolati aspetti e venga loro fornita una
"restituzione" e una iniziale comprensione delle dinamiche che la conflittualità sottende.

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L'intervento nei Dipartimenti di Salute Mentale

Le note difficoltà economiche dei servizi territoriali spesso impediscono che gli psicologi vengano impegnati
per interventi psicoterapeutici intensi; emerge, sempre più frequentemente, la necessità di effettuare
interventi psicoterapeutici limitati nel tempo, anche se non predefiniti nel numero degli incontri.
La psicoterapia breve: cenni storici
All'inizio della psicoanalisi il problema di una terapia “breve” non aveva motivo di porsi. Le analisi praticate
da Freud, e da coloro che condividevano il suo modello di intervento, avevano una durata molto contenuta
e nulla faceva pensare a un prolungamento del trattamento.
Ferenczi assunse un ruolo esplicitamente direttivo nella terapia, nel senso che richiedeva al paziente e al
terapeuta una partecipazione "attiva", proponeva prescrizioni o divieti al paziente, e anche un termine alla
durata del trattamento. Verso la fine degli anni trenta, Alexander e French sostennero che ogni forma di
terapia dovesse essere flessibile e dinamica. Essi considerarono la psicoterapia come un'esperienza
emozionale correttiva, un'esperienza vissuta dal paziente nella relazione con il terapeuta, diversa da quelle
vissute con le figure significative del passato. L'intervento andava accuratamente studiato e organizzato
dall'analista, sulla base di un'accurata indagine anamnestica e di una costante osservazione del paziente.
Alexander e French precisarono l'importanza di individuare il conflitto che si presentava come centrale, a
livello sia focale sia nucleare. Per conflitto focale intesero quel conflitto che si manifesta soprattutto a
livello superficiale, preconscio e quindi maggiormente modificabile dall'lo del paziente che si sottoponeva
ad una terapia di riapprendimento di risposte e comportamenti emozionali. Per conflitto nucleare intesero
quel conflitto di base che si colloca più propriamente nell'inconscio e la cui conoscenza è utile all'analista
per la comprensione del caso, ma che non è sempre possibile né utile elaborare. Fu sottolineata inoltre
l'importanza di utilizzare una notevole flessibilità nel fissare la frequenza delle sedute, la durata del
trattamento, le possibili o opportune interruzioni.
Un fondamentale progresso in questo campo si registrò grazie all'elaborazione di teorie e metodologie
d’intervento che non si indirizzarono a innovazioni prettamente tecniche, ma ricercarono un unitario
modello di intervento, ponendo particolare attenzione al transfert, al limite tempo e alla relazione
paziente-terapeuta. Di tale elaborazione ci sembra di poter sintetizzare i più significativi "strumenti"
metodologici:

• l'obiettivo prioritario era coinvolgere emotivamente il paziente nel trattamento finalizzato ad


attenuare le barriere difensive, cosi da farle emergere nel transfert;
• La struttura limite tempo, che aiutava il paziente ad affrontare i propri conflitti di base e, quindi, le
ansie del processo separazione-individuazione;
• La relazione con il terapeuta, che era in grado di ascoltare e comprendere, che favorisce un legame
con il paziente, mentre il numero predefinito degli incontri porta in primo piano il problema della
separazione e dei limiti che il paziente affronta con le caratteristiche della sua modalità di
relazione.

La possibilità del paziente di elaborare e interiorizzare un'esperienza con un terapeuta in grado di


comprendere e condividere emozioni permetteva al paziente di differenziare questa relazione da quelle
deludenti vissute nel passato, permettendo che la separazione mobiliti un processo maturativo.
Intorno alla metà degli anni sessanta si formò, presso la Clinica Tavinstock di Londra, un gruppo per lo
studio della psicoterapia breve, condotto prevalentemente da Balint e Malan che, differenziandosi
nettamente dalle esperienze di Alexander, integrò i contributi di Davanloo e di Mann, ponendo una
particolare attenzione all'accurata selezione dei pazienti per conoscere ed accertare, anche con l’aiuto di
tecniche psicodiagnostiche, la struttura di base della loro personalità e la motivazione che li spingeva a

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richiedere una prestazione psicoterapeutica. Questi elementi portavano alla ricerca di un "focus"
terapeutico, cioè di quell'area conflittuale che veniva prescelta per essere elaborata. Questa elaborazione,
oltre a delimitare, sia pure con una certa elasticità, la modalità di frequenza e la durata del trattamento,
indicò quale fattore terapeutico decisivo il rapporto fra terapeuta e paziente e l'ambiente emozionale che si
viene a creare in quella relazione.
I colloqui clinici nella terapia breve
Nelle terapie brevi occorre assumere, già dal primo incontro, un assetto mentale e psicoterapeutico attento
alle difficoltà legate al setting definito, all'interno del quale è prioritario riuscire a fornire un'opportunità di
ascolto, di riflessione e di restituzione circa i problemi che il paziente incontra. È particolarmente
importante, infatti, riuscire a mettere a fuoco il problema che viene portato nel limitato numero degli
incontri, analizzando e dosando le comunicazioni di transfert che vengono attivate e che permettono allo
psicologo clinico di cogliere il modo in cui i paziente lo percepisce, percezioni utili per prestare ascolto ai
suoi vissuti e fargli sentire che la sua sofferenza può essere tollerata, contenuta, alleviata e quindi pensata
insieme.
II terapeuta riuscirà a mantenere attiva la sua sensibilità e potrà essere in grado di entrare in contatto e
contenere il disagio proiettato. La capacità di accogliere e contenere l'ansia, senza esserne sopraffatto,
trasmetterà al paziente il sentimento che gli aspetti temuti del suo sé possono essere tollerati,
determinando una situazione di sollievo dal disagio psichico.
Tale complessa modalità di rapporto con il paziente permetterà al terapeuta di essere recettivo nei
confronti delle proiezioni e dell’autoascolto rispetto a quanto il paziente gli fa sentire nell’hinc et nunc e, su
questa capacità di ascolto, di formulare i propri pensieri.

Nei brevi incontri di consultazione sembra quindi importante che il terapeuta stimoli il paziente a riflettere
sull'esperienza emotiva che vive in quel rapporto, considerandola esemplificativa delle modalità con le
quali il paziente si rapporta con l'altro e si relaziona ad esso nel suo mondo interno ed esterno. Pensare e
riflettere insieme sulla modalità di rapporto e sulle proiezioni avvenute all'interno della consultazione
aiuterà il paziente a comprendere ciò che egli prova nei riguardi di se stesso e degli altri e a renderlo
consapevole di parti del suo sé di cui non era cosciente, parti che viveva con ansia e che non riusciva a
contattare perché considerate incontenibili o intollerabili.
La riflessione sulle comunicazioni di transfert del paziente è infatti il mezzo che permette al terapeuta di
comprendere il tipo di problemi che i paziente ha con se stesso e con gli altri, in relazione con il proprio
mondo interno. Cosi può essere dato contenimento ad aree dell'apparato psichico che non potevano
essere guardate e alle quali il paziente non poteva dare nome; in alcuni casi, questi può continuare
a pensare da solo alle proprie esperienze piuttosto che esserne atterrito e paralizzato.
Il limitato numero degli incontri rende particolarmente consapevoli e responsabili gli psicologi del fatto che
il paziente, quando la terapia breve sarà terminata, dovrà continuare i percorso da solo: per questo sembra
necessario trasmettergli la fiducia di poter pensare all'esperienza di comprensione condivisa. Sarà cosi
possibile nutrire fiducia di superare i vissuti di estraneità, confusione e non governabilità delle proprie
emozioni. La psicoterapia breve, se riesce a ridefinire e risignificare le esperienze emotive vissute dal
paziente, può permettere la prosecuzione del suo cammino emotivo poiché ha sperimentato una nuova
modalità di rapporto.
Tuttavia, gli psicologi clinici sono consapevoli che, in taluni casi, il compito della psicoterapia, per la
complessità e intensità della sofferenza sottesa alle problematiche portate, non può limitarsi ai pochi
incontri effettuati in un breve arco di tempo. L'obiettivo, certamente ambizioso, della psicoterapia breve
dovrebbe quindi essere quello di far sentire al paziente di poter essere in grado di identificare i propri
problemi e di iniziare a riconoscere e alleviare la propria ansia senza esserne dominato o paralizzato.

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