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Il Modello Psicoanalitico
Psicologia Clinica
Università degli Studi di Perugia
31 pag.
La psicologia clinica prende avvio da un’esigenza concreta della società di entrare nei problemi reali, di
indagare ed esplorare comportamenti ed eventi psichici attraverso una modalità nuova basata
sull’osservazione, ovvero con un metodo che può essere definito “clinico”.
Il contesto teorico: gli antecedenti storici
La psicologia clinica è una branca disciplinare che trae le sue origini da contributi provenienti dalla
psicologia e dalla medicina.
• Merito della psicologia sperimentale è di aver dato il via allo sviluppo della ricerca nell’ambito degli
eventi e dei processi psichici, utilizzando un metodo che si avvalora di caratteristiche
rigorosamente scientifiche.
• Si deve alla psicologia differenziale e agli studi di Francis Galton il merito di aver focalizzato
l’attenzione sull’individuo e sulle sue differenze individuali, e di aver accreditato l’importanza
dell’analisi statistica dei dati psicologici come strumento attraverso cui ottenere misure
quantitative delle differenze, per lo studio e la classificazione degli individui.
• Anche il contributo della medicina, e in particolare della psichiatria, è essenziale per la costituzione
della psicologia clinica, soprattutto nell’impegno posto in essere nell’organizzare un sistema di
classificazione che potesse essere condiviso dagli specialisti del settore e costituisse fondamento
per un approccio scientifico alla diagnosi e alla cura della malattia mentale. Soltanto con Freud,
però, viene abbandonato un approccio puramente organico, a vantaggio di un orientamento
nuovo, psicologico, in cui viene proposta una lettura del disagio psichico attraverso il significato
inconscio.
• Infine, importante nella costituzione della psicologia clinica è il ruolo dei movimenti umanitari
rispetto alla concezione del malato mentale.
La psicologia clinica dalla fine dell’Ottocento alla metà del Novecento nel panorama internazionale
Il termine “psicologia clinica” viene utilizzato per la prima volta da Lightner Witmer, il quale fondò nel 1896
la prima “clinica psicologica”, con l’intento di fornire aiuto a bambini portatori di handicap o con problemi
di adattamento scolastico.
Una modalità diversa di intendere il termine “psicologia clinica” la suggerisce in Francia la pubblicazione
della “Revue de psychologie clinique et therapeutique”. Oggetto di interesse della rivista sono gli aspetti
della condotta concreta e dell’individualità, cioè la vita psicologica in sé, nelle sue reazioni reali, naturali e
spontanee.
Ancora, il termine “psicologia clinica” viene anche proposto da Freud in una delle sue lettere.
Fin dalle Origini si assiste alla compresenza di modalità diverse di intendere la psicologia clinica. Questa
eterogeneità di modelli ha determinato che il dibattito intorno alla disciplina prendesse due direzioni
evolutive diverse. Possiamo pertanto dire che sono rintracciabili due stili: uno che possiamo chiamare
americano e l’altro europeo.
Il modello americano
Negli Stati Uniti la psicologia clinica si è sviluppata intorno ad alcuni interessi principali, rappresentati dalla
consulenza nel campo dei disadattamenti infantili, dalla psicometria, specialmente in campo psichiatrico e
lavorativo, dalla psicologia militare, dai problemi sociali delle tossicodipendenze e della criminalità.
Nel vecchio continente, le prime radici possono essere individuate nella pedagogia e nella psichiatria. Agli
studi pedagogici si deve il merito di aver cercato di modulare e di intervenire all’interno del sistema
scolastico per studiare scientificamente il modo migliore di allevare i bambini. Ma la psicologia clinica deve
molto anche alla psichiatria che produrrà interessanti studi e contributi di grande valore scientifico.
La psichiatria in quel tempo si sviluppa sempre di più sul versante neurologico. Tale impostazione
determina uno studio del comportamento dell’uomo scevro però dalla sua realtà e dalla sua soggettività. Il
metodo “clinico”, pertanto, viene applicato non tanto all’osservazione delle persone, ma piuttosto a quella
del loro cervello.
Un cambio radicale di prospettiva si ha con la diffusione della psicoanalisi, che introduce un nuovo modo di
pensare alla psichiatria, spostandola dal versante medico-organicistico a quello psicologico. Sebbene Freud
provenga dalla tradizione medico psichiatrica di impostazione neurologica, egli abbandonerà presto
l’approccio organico, dando impulso alla psichiatria psicologica. Egli fondò la nuova e moderna psicologia
clinica: la psicoanalisi. Essa nasce con l’ambizione di diventare una “psicologia generale”, ovvero la teoria
psicologica per eccellenza, idonea a offrire la spiegazione di tutti gli eventi psichici attraverso il significato di
inconscio.
Una scienza che si occupa dell’interiorità umana, studiata attraverso un metodo nuovo, che si avvale di un
processo di astrazione operato dall’osservatore. La psicoanalisi ha aperto la strada a molte altre scienze
nuove, e in particolar modo alle scienze psicologiche. E in questo anche la psicologia clinica è tributaria.
Ciò che costituisce la caratteristica della psicoanalisi come dottrina scientifica è proprio il metodo clinico
La psicologia clinica si muove, in modo estremamente fluido, dalla psicologia dinamica alla psicologia della
personalità, incontrando la psicologia differenziale, la psicologia dell’età evolutiva, la psicologia sociale, la
psicopatologia, la psichiatria e la psicologia generale. Il suo assetto teorico presente, infatti, una natura
composita, includendo, al suo interno, aspetti teorici delle varie branche psicologiche e degli strumenti
diagnostici e delle tecniche di intervento di cui esse fanno impiego.
“Psicologia” è la scienza del comportamento umano. L’aggettivo “clinico” si riferisce alla sofferenza, a chi
se ne fa carico, al luogo di cura e alla cura stessa, e in particolare conoscenza e relazione, e solo in secondo
luogo intervento e mutamento: il concetto stesso di clinico, in psicologia, si riferisce al metodo e non alla
cura di una malattia.
L’elemento significativo che emerge e caratterizza la peculiarità della psicologia clinica è il configurarsi di
essa nella sua dimensione applicativa all’interno dei diversi contesti interpersonali in cui l’individuo vive, dal
contesto familiare a quello scolastico, fino a quello lavorativo. E per dimensione applicativa si intende la
possibilità di pensare alla psicologia clinica come una disciplina che fornisce allo psicologo le competenze e
le conoscenze psicologiche che gli permettono di affrontare i problemi di adattamento e i disturbi del
comportamento nell’ottica della ricerca, della prevenzione e della valutazione psicodiagnostica, al fine di
poter progettare un intervento psicoterapeutico.
Inoltre, come disciplina autonoma, essa si avvale nel suo ambito di un precipuo metodo di ricerca, che si
basa essenzialmente sul metodo storico-clinico o storico-motivazionale. È la relazione che caratterizza
1. Costruzione di una relazione personale autentica. Ed è proprio qui che si inserisce l’analisi della
domanda.
2. Valutazione clinica della persona, del gruppo, dell’organizzazione che si presenta alla
consultazione, attraverso gli strumenti che sono propri dello psicologo clinico.
3. Progettazione dell’intervento, che può assumere diverse sfaccettature a seconda della persona,
della sua struttura di personalità e del suo specifico bisogno.
4. Verifica dell’efficacia dell’intervento.
Lo psicologo clinico è un operatore con competenze specifiche, il cui compito fondamentale è quello di
elaborare, indagare e attivare interventi con valenze terapeutiche.
Una delle definizioni più diffuse circa gli obiettivi della psicologia clinica è quella di comprendere e di
aiutare le persona che presentano delle difficoltà di ordine psicologico, o che riferiscono di soffrire di un
disagio psichico. L’obiettivo primo della psicologia clinica dovrebbe allora essere quello di aiutare attraverso
una comprensione empatica, una ricerca e una formulazione di ipotesi circa l’origine dinamica del disagio
psichico.
L’oggetto di analisi della psicologia clinica è il comportamento umano, sia individuale che di gruppo.
All’interno di ciascuna teoria dell’intervento clinico si ritroveranno modelli esplicativi del sintomo e della
terapia più adatta per la sua remissione.
In psicologia clinica i sintomi ed ogni altra manifestazione comportamentale vengono ricondotti a una
teoria della personalità nelle sue più complesse articolazioni.
Il sintomi in psicologia clinica non è altro che un aspetto del comportamento della persona che determina
conflitti, problemi, difficoltà di relazione con altre persone. Ciò corrisponde all’emergenza di sentimenti o di
emozioni di qualità e di intensità tali da giustificare il ricordo allo psicologo; il vero “sintomo” del paziente
che si rivolge allo psicologo clinico è la sua stessa domanda, e come essa si presenta, si declina, si dispiega
nel rapporto con lo psicologo stesso.
Tuttavia quando tali emozioni non emergono, o non vengono “percepite”, saranno allora gli altri a farsi
portatori di una richiesta di intervento.
Con ciò si può affermare che la problematica psicologico-clinica si pone primariamente entro il contesto dei
rapporti sociali.
I punti e le premesse teoriche che i teorici considerano caratterizzanti dell’approccio relazionale e della
psichiatria tradizionale sono:
Il punto fondamentale che segna una contraddizione insanabile tra i due approcci, consiste nel fatto che per
l’ottica relazionale il senso va costruito, mentre per la psichiatria tradizionale il senso è dato a priori. Nel
caso dell’ideologia medica la funzione della parola in questa prospettiva è tradizionalmente quella di
indicare il referente oggettivo, e la comprensione è comprensione della “verità” della parola.
Per il modello relazionale invece il senso della parola è “costruito” nel contesto in cui la parola viene
inviata: è in gioco la ricerca di un senso che può essere anche fortemente individualizzato. Il che significa
che il sintomo rappresenta una delle possibili modalità comunicative, su cui si può e si deve esercitare
l’operazione di decodificazione. Ciò non significa ovviamente che il modello relazionale si ponga fuori dalla
logica asimmetrica, che rifiuti il principio di non contraddizione, il criterio vero/falso: la differenza rispetto
al modello medico si situa a un livello più generale di consapevolezza delle esclusioni cui il principio di non
contraddizione ha dato luogo nel corso della storia della nostra cultura.
Utilizzando diagnosi ed etichette di incomprensibilità che non sono verificabili proprio perché sono attente
alla devianza dalla norma, la psichiatria tradizionale priva dunque il sintomo dagli elementi significativi,
classifica la comunicazione sintomatica in una diagnosi che la semplifica e la riduce, e le vieta di aprirsi ad
altri possibili significati.
Rispetto a questo modello l’ipotesi relazionale appare diametralmente opposta: non avendo un corpus
dogmatico da proteggere, e quindi non dovendo riaffermare continuamente il dualismo norma/devianza, il
modello relazionale pone a fondamento della sua elaborazione teorica il concetto di contesto: questo gli
consente di intraprendere senza posizioni precostituite l’opera di decodifica dei diversi messaggi, che
vengono letti nella loro relazione con gli elementi che concorrono a definire la situazione del discorso. In tal
modo viene ricostruito il senso di messaggi, espressi tanto attraverso un uso “anormale” della parola
quanto attraverso l’uso di un linguaggio analogico fortemente ambiguo o contraddittorio.
L’applicazione della nozione di normalità tipica nel modello medico, etichettando come anormali certi
comportamenti, li priva di qualsiasi altra possibilità di apparire come significativi, la nozione di contesto,
invece, permette di trovare adeguati e congrui, in certe situazioni, comportamenti che in altre appaiono
Quella che abbiamo chiamato “ideologia medica” è stata sottoposta a una critica radicale dei suoi
presupposti:
È in questi elementi di rottura con la tradizione classica che si potrebbero rintracciare le linee evolutive
della psicologia clinica, tutta tesa al recupero del discorso sociale, del rapporto dell’individuo con il contesto
in cui egli si muove.
I modelli teorici che decodificano il disagio psichico fanno riferimento ad una lettura della sofferenza
mentale secondo due approcci che si differenziano, il modello relazionale-sistemico e il modello
psicoanalitico, che in quest’ultimo si integrano.
Il modello relazionale-sistemico non propone soltanto una ridefinizione del problema per il quale si chiede
aiuto, cioè uno spostamento del focus dell’analisi dal paziente “designato” al suo gruppo di appartenenza a
cui il problema viene “restituito” come problema comune, ma propone una diversa e più complessa lettura
della realtà in cui il disagio si struttura e manifesta.
È tuttavia importante precisare che, se questo modello teorico non è sufficientemente integrato con un
modello attento all’elaborazione negli aspetti emotivi consci e inconsci della relazione, può rischiare di
riprodurre nell’intervento un modello lineare di decodifica della patologia che designa non più l’individuo,
ma il contesto familiare o il gruppo a cui l’individuo fa riferimento.
Il modello psicoanalitico teorizza, invece, la compresenza nella mente dell’individuo del mondo inconscio e
conscio; tale compresenza permette all’individuo di conoscere e di pensare sulla propria storia e le proprie
esperienze. È proprio grazie alla struttura inconscia, alla compresenza nella mente di tutti gli individui di ciò
che è considerato bene e male, buono o cattivo, che è possibile distinguere e sviluppare pensieri, è
possibile stabilire relazioni tra diversi pensieri, nessi e correlazioni tra le differenti emozioni e le relazioni
affettive vissute.
Si può delineare una netta dicotomia tra il modello medico e quello relazionale-sistemico: appare
pertanto prioritario approfondire gli aspetti teorici a cui si correla un intervento diagnostico dei disturbi. Il
modello relazionale riformula il concetto di patologia, affermando la possibilità di comprendere la
comunicazione sintomatica purché la si inserisca nelle relazioni umane, sociali, in cui matura.
Il primo processo diagnostico si concentra sulla raccolta dei sintomi, inquadrandoli e rilevandoli,
dall’anamnesi, per arrivare ad una dimensione diagnostica inquadrabile in parametri oggettivi e ripetibili.
In medicina la malattia è configurata come l’elemento specifico di cui occuparsi, al di là della singolarità del
malato: si classificano i sintomi e la cura sarà finalizzata proprio alla remissione del particolare sintomo
La legge 180 per la psichiatria e la legge di riforma sanitaria hanno avviato in Italia un profondo processo di
trasformazione dell’assistenza psichiatrica, sociale, sanitaria e che la costituzione delle ASL ha segnato il
passaggio da una politica assistenziale, imperniata sulla centralità delle istituzioni, ad una dislocazione
territoriale dei servizi. Questo ha facilitato l’incontro tra l’operatore e il “luogo” in cui il disagio umano si
forma e si manifesta, creando presumibilmente possibilità più favorevoli perché esso venga riconosciuto e
prevenuto.
Contemporaneamente, le mutate condizioni di lavoro hanno proposto allo psicologo clinico nuovi compiti
davanti ai quali egli frequentemente verifica l’inadeguatezza degli abituali strumenti culturali e operativi,
non più commisurati alle esigenze di una realtà che cambia.
L’approccio relazionale-sistemico ha incontrato tanto favore in Italia probabilmente per la sua ambiguità.
Esso, infatti, può essere restrittivamente utilizzato come mera tecnica di manipolazione delle relazioni
interpersonali al piccolo gruppo e decadere allora a nuova forma di tecnicismo che, come tutte le forme di
controllo sociale, si limita a dare risposte tecniche a problemi e bisogni di ben altra natura; oppure quando
siano appieno le sue potenzialità, fornire un contributo importante alla chiarificazione e definizione dei
bisogni, innescando allora processi di cambiamento reale e di emancipazione dai ruoli di malattia e di
devianza.
È implicita nell’approccio relazionale, confermata dalle esperienze di lavoro e utilizzata ormai in gran parte
dei servizi, la tendenza a non dare risposte di tipo medico o rigidamente psichiatrico almeno in senso
tradizionale, alla domanda di assistenza e di aiuto.
La forma che assume la domanda non è, cioè, mai isolabile dall’incontro delle variabili che caratterizzano,
da un lato chi chiede aiuto, e dall’altro chi formula la risposta all’interno di un contesto sociale, culturale e
istituzionale dato. E solitamente la qualità della domanda si modella sul tipo di prestazioni erogate
tradizionalmente dal servizio, per cui la domanda stessa finisce per essere, nella maggior parte dei casi,
richiesta di medicalizzazione e psichiatrizzazione del disagio.
Il modello psicoanalitico
Merito principale del modello sistemico-relazionale è aver sottolineato la fondamentale importanza del
contesto come luogo in cui la situazione sintomatica di disagio emerge e acquisisce senso. Tuttavia esso,
nella sua applicazione terapeutica privilegiata – l’approccio familiare sistemico al disagio psichico – mostra
alcune lacune che il modello psicodinamico è in grado di colmare.
Per la terapia sistemico-relazionale la sofferenza interna è il frutto di disordini della relazione e della
comunicazione intrafamiliare. Una siffatta lettura del disagio emotivo ha il limite di non tener conto del
concetto di dolore psichico con una propria esistenza, frutto di uno specifico funzionamento mentale, di un
mondo psichico su cui agiscono il peso di fantasmi e di condotte interiorizzate, che costringono a
comportamenti ripetitivi e coatti.
Il rischio è che le differenze di struttura mentale individuale scompaiano davanti all’importanza accordata
alla rete di comunicazioni nella quale l’individuo si trova invischiato: ciò potrebbe dunque portare a un
esasperato utilizzo del modello relazionale in pura tecnica di terapia familiare come richiesta curativa per
eccellenza a discapito di un contemporaneo fondamentale lavoro sull’interiorizzazione, sull’organizzazione
fantasmatica e sulla complessa rete delle interazioni che costituisce il nucleo della sofferenza psichica.
Come già detto precedentemente, si deve a Freud la prima fondazione di una psicologia clinica, di un
sapere che permette di entrare nel mondo interiore dell’individuo per capire pensieri, sentimenti,
emozioni che lo muovono, o che creano disagio.
1. Un procedimento per l’indagine di processi emotivi cui altrimenti sarebbe pressoché impossibile
accadere;
2. Un metodo terapeutico per i disturbi psichici;
3. Una serie di conoscenze psicologiche acquisite per questa via che gradualmente si assommano e
convergono in una nuova disciplina scientifica.
Il punto I e il punto III, così come definiti da Freud, individuano una specifica scienza, e cioè una serie di
conoscenze acquisite attraverso una metodica specifica: è la metodologia che caratterizza una scienza e
non l’oggetto indagato. Lo stesso oggetto può essere indagato da scienze tra di loro molto diverse; le
scienze psicologiche sono numerose e tra di loro diverse, perché ognuna ha il proprio metodo, e la
psicoanalisi è una scienza psicologica specifica per il suo metodo.
Essa è oggi arricchita naturalmente dallo sviluppo dell’epistemologia e dalla filosofia della scienza.
Il grado di scientificità viene dato, come in ogni scienza, dal suo metodo: nel caso particolare della
psicoanalisi, il metodo è una articolata procedura per capire ciò che il soggetto non comprende, aiutarlo
eventualmente a convivere con una mente che ha delle difficoltà a funzionare, ad integrare aspetti di sé
Il considerevole sviluppo che ha avuto in Italia la professione dello psicologo è andato di pari passo con la
progressiva definizione di questo ruolo e delle relative competenze in un processo che ha portato ad
un’affermazione dello psicologo in diversi contesti sociali.
Solo verso la fine degli anni sessanta fu compiuto un reale bilancio della situazione in cui si trovava la
psicologia in Italia; ne emerse che le scienze psicologiche si trovavano, a livello di elaborazione teorica ed
operativa, in una situazione di grave inadeguatezza culturale e formativa: mancava una precisa definizione
delle competenze che individuasse con chiarezza la figura dello psicologo. Mancava una regolamentazione
dell’attività professionale e, soprattutto, erano totalmente carenti le strutture formative. Per quanto
riguarda poi le modalità operative, emergeva che lo strumento di gran lunga più utilizzato era l’uso dei test
tanto che il ruolo dello psicologo sembrava essere identificato con questa prassi.
Proprio attraverso questo tipo di tecnica, considerata “scientifica” in senso stretto e quindi autorevole, le
istituzioni assegnavano allo psicologo il compito di stabilire le differenze tra gli individui, di quantificare la
loro intelligenza e, quindi, di stabilire il discrimine tra idonei al lavoro e inidonei, tra normalità e patologia,
tra dotati e ipodotati. Sulla base di questo discrimine quelle istituzioni potevano separare gli alunni normali
dagli anormali, per estrometterli dalla scuola comune ed inviarli in scuole o strutture speciali. Potevano
separare gli individui normali dai malati, per relegarli in istituzioni totali.
È proprio in conseguenza dell’approfondimento, dell’elaborazione e della revisione critica di questo
esclusivo tipo di intervento che si delinearono, intorno agli anni settanta, una nuova fisionomia dello
psicologo e una nuova professionalità.
Lo psicologo optò per una figura di operatore sociale unico, dove col termine sociale si intendeva
sottolineare la rilevanza del rapporto tra contraddizioni sociali e disagio individuale, e con il termine unico si
intendeva rifiutare una risposta egemone e la disponibilità alla socializzazione reciproca delle competenze
tra altre figure professionali di operatori: strumento principale fu il “lavoro di gruppo”.
I nuovi obiettivi di intervento che l’operatore intendeva così assumere furono quelli dell’individuazione e
valutazione dei bisogni degli individui anche finalizzata alla riorganizzazione del sociale. La lettura attenta di
ogni contesto sociale diventava il vertice di ogni intervento.
Quello della psicologia del lavoro è stato uno dei primi campi di intervento dello psicologo.
Allo psicologo che lavorava nell’industria veniva tradizionalmente richiesto di ricercare, mediante la
somministrazione di batterie di test, le attitudini lavorative degli operai, di esaminarli e selezionarli per
assunzioni o avanzamenti di carriera, allo scopo di realizzare il massimo possibile di adattamento al
contesto industriale.
In questa prima fase mancava all’intervento psicologico la consapevolezza delle implicazioni politico-
culturali della sua modalità operativa, mentre emergeva la dipendenza dello psicologo dello staff
dirigenziale, nei riguardi del quale veniva posto come primo obiettivo non tanto l’intervento quanto la
possibilità stessa di affermare lo spazio operativo: all’imprenditore si chiedeva cioè di accettare non tanto
le modalità di intervento, quanto la stessa presenza dello psicologo e del suo nuovo ruolo.
Se dunque il primo obiettivo era farsi accettare, rimasero sullo sfondo, perché in questa fase considerati
secondari, tutti gli altri aspetti e tra questi, oltre alla riflessione sulla modalità di intervento, anche la
conoscenza della realtà in cui lo psicologo si trovava ad operare.
Anche in questo ambito, lo strumento “tecnico” che lo psicologo privilegiava erano i test, volti per
definizione a quantificare e “misurare le differenze tra gli individui”, ad accertare la “debolezza mentale”, a
studiare gli “individui emotivamente instabili”, i delinquenti e altri tipi di persone considerate “subnormali”.
In questo contesto l’intervento dello psicologo procedeva secondo un approccio finalizzato allo studio della
personalità con un’ottica strettamente individuale; venivano invece trascurati i problemi esistenti nel
campo del lavoro o le relazioni e i rapporti di potere all’interno del mondo del lavoro, per privilegiare quella
metodologia “neutrale”, finalizzata esclusivamente a selezionare per l’assunzione o a inviare i lavoratori più
adatti nelle attività prospettate dagli imprenditori.
La psicologia del lavoro, che oppone l’oggettività scientifica alla soggettività degli operai, diviene la scienza
a cui affidare la forma più diretta di controllo sulla classe operaia.
Alla fine degli anni sessanta gli psicologi svolsero anch’essi una riflessione sulla loro realtà lavorativa e
arrivarono a una visione critica del loro intervento, cogliendone i limiti e le collusioni principali, anzitutto
l’esclusione dalla procedura di valutazione della cultura degli operai e del loro modo di rapportarsi nel
contesto lavorativo. In tal modo venne stigmatizzato un approccio tecnico che si considerasse capace di
scegliere adeguatamente e selezionare in nome di realtà e bisogni sconosciuti, e quindi privo di un’attenta
analisi della domanda, attuando, di fatto, un intervento astratto e parziale, spesso accettato senza
un’adeguata elaborazione.
Parallelamente molte aziende modificarono la loro richiesta nei riguardi dei consulenti psicologici, e
rividero questo ruolo all’interno delle fabbriche; sostituirono gli psicologi consulenti esterni, appaltati per
selezionare gli operai, con gli psicologi interni, assunti invece con altre funzioni come dipendenti
dell’azienda. E lo stesso ruolo di tecnici neutrali venne rivisto, a vantaggio di un’integrazione dello
specialista nelle complesse funzioni amministrative e sindacali.
Lo psicologo entrava così nella complessa rete di funzioni che costituiva la realtà lavorativa della fabbrica, e
la sua figura si definiva come attiva, non più neutrale, implicata nel merito dei problemi.
Era la classe operaia stessa che chiedeva allo psicologo di avvicinarsi alla realtà del mondo del lavoro,
abbandonando la vecchia prassi a vantaggio dell’approfondimento della soggettività operaia, nella ricerca
di una nuova competenza, più vicina ai problemi reali. Allo psicologo si richiedeva una riflessione teorica sul
significato della psicologia all’interno di questo sistema, una coscienza critica della propria collocazione
all’interno delle istituzioni in cui operava.
Tutto questo si tradusse nel possedere strumenti teorici e critici che lo rendessero capace di analizzare i fini
Particolarmente significativa è l’evoluzione del ruolo assunto dallo psicologo in ambito psichiatrico.
Intorno agli anni sessanta è maturata la consapevolezza, in gran parte degli operatori che prestavano la loro
attività nell’ospedale psichiatrico, che questa struttura non poteva in alcun modo intervenire con una
funzione terapeutica. Era possibile assistere le persone con disturbo psichico facendo a meno di un luogo in
cui recluderle ed escluderle dalla società. L’unica modalità per riformare l’assistenza psichiatrica era abolire
l’ospedale psichiatrico per far esplodere a livello sociale il problema della malattia mentale. Con la legge
180, e la chiusura degli ospedali psichiatrici, si è realizzato un totale rovesciamento del punto di vista
rispetto alle leggi preesistenti. La logica su cui fondare l’assistenza psichiatrica è il trattamento della
malattia e la necessità di dare risposte attraverso servizi adeguati che permettano all’individuo, che vive
l’esperienza di una crisi, di mantenere i legami con le persone e i luoghi che gli sono propri. Il malato
mentale rinchiuso in ospedale psichiatrico, fino ad allora considerato e classificato come pericoloso e
irrecuperabile, diventa una persona con la sua storia non riducibile ad una diagnosi e ad un’etichetta. Si
svelava così l’inganno della psichiatria, la sua dannosità come strumento di oppressione e cronicizzazione.
Si delineò, così, la consapevolezza che esisteva un’altra modalità con la quale confrontarsi con il disagio
psichico. Ciò richiedeva una revisione radicale delle scienze psicologiche e psichiatriche, una messa in
discussione dell’immagine e della rappresentazione della patologia. L’ideologia psichiatrica aveva sancito,
fino a quel momento, l’impossibilità di una comunicazione reale tra paziente e operatore: psicologo,
psichiatra, assistente sociale o infermiere.
Iniziano, così, le prime esperienze di trasformazione dell’ospedale psichiatrico in comunità dove, attraverso
assemblee e incontri quotidiani, i protagonisti della vita manicomiale cominciano a conoscersi e
comunicare come non era mai avvenuto in precedenza. Dalle nuove comunicazioni e relazioni i pazienti
vengono riconosciuti come persone con una storia mai espressa in precedenza. I pazienti svestono le divise
di internati e, insieme agli operatori, dialogano dalle cure alle relazioni interpersonali, dalla reclusione ai
primi tentativi di “lettura” e di senso della malattia mentale.
L’obiettivo diventa la soppressione dell’ospedale psichiatrico e non solo una sua gestione più democratica.
Si susseguono azioni con il sociale e una nuova attività comunicativa finalizzate alla denuncia
dell’impotenza e della violenza delle modalità di intervento delle scienze psichiatriche e psicologiche e di
sensibilizzazione riguardo i concetti di emarginazione e esclusione. Si apre così un dibattito intorno al
discorso della salute mentale. Il vertice di questa riflessione è il diritto di cittadinanza della persona affetta
da disturbi mentali di raccontare di sé e della sua storia, di vivere nel contesto sociale cui tutti
appartengono.
La presa di coscienza di questo “inganno” istituzionale, portò sempre più alla volontà di rifiutare il mandato
sociale e di bloccare progressivamente i ricoveri presso gli ospedali psichiatrici.
Tutto ciò porto progressivamente alla conseguenza di un nuovo impegno degli operatori psichiatrici, i quali,
ridenominandosi operatori antipsichiatrici, si dislocarono e si attivarono nel territorio e nel tessuto sociale;
questo li spinse a confrontarsi e scontrarsi con tutte le istituzioni e servizi che, chiusi nella logica delle loro
regole, finivano per appiattire e sclerotizzare le individualità, risultando così veri e propri fattori di devianza.
Da questo confronto derivò un’analisi attenta delle finalità delle istituzioni, dei loro processi di
trasformazione, della messa in discussione della loro logica interna, per arrivare ad una ridefinizione del
concetto di malattia mentale e di devianza.
Diverse infatti furono le difficoltà circa l’attuazione della riforma psichiatrica, legge 180.
Non bastava una ridefinizione della malattia mentale come emergente solo dal sociale né era sufficiente
Nella metà degli anni settanta vengono istituiti i Centri di Igiene Mentale territoriali, dimensionati sulle
unità amministrative cittadine: le circoscrizioni. Inizialmente un unico CIM cittadino fungeva da propaggine
territoriale dell’ospedale psichiatrico come dispensario farmacologico e di assistenza sociale per i pazienti
dimessi dall’ospedale psichiatrico. Più che di strutture terapeutiche, dunque, si trattava di strutture
assistenziali per pazienti cronici.
Con la chiusura del manicomio e successivamente con la riforma sanitaria i CIM diventano le nuove
strutture generali deputate alla prevenzione, cura e riabilitazione della malattia mentale.
Contemporaneamente l’inserimento dei primi psicologi nelle équipe formate da psichiatri, infermieri ed
assistenti sociali gettava un ulteriore seme di rinnovamento teorico ed operativo.
Lo sviluppo dei servizi territoriali verso la conquista di un’identità terapeutica non fu lungo e vide il
contributo entusiasta di tutte le figure coinvolte, in una cornice politica ed amministrativa che registrò una
sinergia fra politici e tecnici difficilmente ripetibile.
In questo cammino inizialmente furono due gli atteggiamenti dominanti negli operatori: il primo, che
potremmo definire ideologico, annetteva grande potenzialità alle pratiche deistituzionalizzanti, riguardanti i
presupposti teorici della matrice sociale della malattia mentale; il secondo, che potremmo definire tecnico-
culturale, aveva come obiettivo la preparazione professionale degli operatori per attuare il desiderato
cambiamento terapeutico dei servizi.
Anche gli psicologi si divisero tra questi due schieramenti. Molti aderirono alla visione ideologica ma non a
quella professionale della psicologia clinica.
Altri si rivolsero alla teoria sistemico-relazionale e alla psicoanalisi. Essi si affacciarono a questo nuovo
contesto acquisendo progressivamente modelli teorici in grado di realizzare una migliore comprensione del
sintomo e tecniche in grado di realizzare una migliore comprensione del sintomo e tecniche in grado di
costruire una relazione terapeutica fondata sull’incontro e sull’ascolto dell’altro.
Ma, nonostante il rigore e l’impegno con il quale gli ideologi e i tecnici realizzavano i rispettivi programmi, i
malati continuavano a star male e ricoveri e crisi acute si riproducevano nei servizi, generando negli
Conclusioni
In questa prospettiva, la “nuova” figura dello psicologo clinico introdusse concetti nuovi, come
l’ampliamento del concetto di malattia e di disagio psichico, ribaltò la mentalità organicistica e mise
l’accento sul rapporto, sulla relazione paziente-terapeuta, riconoscendo superata la tradizionale modalità
oggettiva propria del momento diagnostico. Lo psicologo clinico ha acquisito competenze psicoterapiche
per intervenire nello specifico del disagio emotivo e quindi nello specifico della malattia mentale.
Negli anni sessanta, in concomitanza con l’aumento dalla richiesta d’istruzione, l’istituzione scolastica
potenziò i servizi nel campo dell’handicap psichico e fisico, istituendo i servizi medico-psico-pedagogici e
potenziando i finanziamenti per le classi differenziali e speciali. Fu su questa base che l’intervento
specialistico nella scuola dell’obbligo si configurò come intervento selettivo e discriminatore.
Da un lato lo psicologo si sentiva impegnato (almeno a livello di diagnosi) in un’operazione di avvio di
un’ipotetica fase terapeutica, dall’altro sapeva che il suo operare rispondeva a finalità istituzionali affatto
diverse, consistenti precisamente nell’estromissione del “diverso” dalla scuola di tutti.
Per l’invio nella classi differenziali era richiesto che il bambino presentasse lievi disturbi del carattere o lieve
insufficienza mentale”, sempre che queste carenze consentissero di prevedere un possibile riadattamento
alla scuola comune. Le classi speciali, invece, erano destinate a quegli alunni che, a causa della loro
incompleta e notevolmente ritardata evoluzione psichica non è prevedibile che possano attingere il comune
livello scolastico.
Come si vede, in un campo in cui il rischio dell’arbitrarietà è sempre presente, la circolare ministeriale finiva
di fatto con il sancire come unico criterio stabile cui attenersi: evitare alla scuola il confronto a livello
pedagogico con il problema della disabilità e della devianza.
Su questa base, l’apporto scientifico dello specialista diventava il modo tecnicamente ineccepibile per
operare un’esclusione sociale e valutare la possibilità di sviluppo dell’alunno. Anche la modalità con cui
venia realizzato non faceva che riconfermare il limite dell’intervento; la segnalazione dell’insegnante
interveniva entro il tempo ridottissimo del primo mese di scuola: dopo la segnalazione allo psicologo,
interveniva il dépistage con test intellettivi e proiettivi.
In tutto questo, ciò che rimaneva sullo sfondo è ciò che ad oggi è centrale: la conoscenza del contesto
socio-culturale in cui emerge la devianza, i problemi della prevenzione, del trattamento e del recupero.
Lo psicologo, nel suo intervento, si produceva come elemento di discriminazione piuttosto che come
agente di cambiamento, di sviluppo della personalità dell’alunno, e promotore di un intervento più ampio e
rispondente ai bisogni reali degli alunni.
Questi presupposti avevano portato nella prassi all’attuazione di strategie “scientifiche” che finiva con il
negare all’alunno “diverso” un rapporto con il gruppo sociale e la possibilità di esprimersi con canali
comunicativi diversi da quelli relativi alla sua differenza e patologia, privandolo della possibilità di sviluppo
nel contesto in cui viveva.
Ne conseguiva l’illusoria esaltazione di scuole e istituti speciali come luoghi di interventi “terapeutici” e
Nell’ultimo trentennio il nostro paese è stato protagonista di un processo di rinnovamento delle istituzioni
deputate all’intervento sulla devianza.
È soltanto con la legge n. 118 del 1971 che è stato possibile integrare persone affette da disagio fisico o
psichico nelle scuole comuni.
La consapevolezza raggiunta infatti ha determinato la forte pressione per aprire la scuola comune e
modificare la legislazione scolastica, adeguandola ai reali bisogni educativi e di inserimento degli alunni
portatori di handicap inseriti nelle classi speciali e differenziali.
Il problema dell’handicap pose in evidenza con una generalità fino ad allora sconosciuta alcune delle
questioni di fondo della nostra scuola. I bambini portatori di un disagio, infatti, avevano proposto alla
scuola un cambiamento dei metodi e degli obiettivi pedagogici che non riguardava solo il loro problema
specifico, ma l’intera popolazione scolastica; non solo, ma i bisogni di sviluppo dei bambini diversi avevano
proposto in modo perentorio l’assunzione di consapevolezza e di responsabilità, e avevano quindi costituito
un fondamentale deterrente nei confronti dei vecchi metodi educativi e pedagogici.
L’integrazione
Le prime normative in tale direzione complessivamente si può dire che tentano una distinzione della
categoria dei minorati fisici dalle altre categorie di handicappati e cerca di qualificare i servizi nel campo
dell’handicap, dichiarando “indispensabile” il possesso di titolo di specializzazione per gli insegnanti
destinati a operare nelle relative scuole. Le normative stabiliscono inoltre che la selezione degli alunni da
inserire in scuola speciale in classe differenziale debba essere “accuratissima e tale in ogni caso, da
escludere gli scolare che possono trarre profitto da un buon inserimento individualizzato nella scuola
comune. È su questa base che l’intervento specialistico nella scuola dell’obbligo si configura fin dall’inizio
come intervento selettivo e discriminatore.
Lo psicologo e le istituzioni “speciali”
Si cominciò a sentire la volontà di abbandonare i luoghi “speciali” e di iniziare esperienze di integrazione
nella scuola comune.
Questa volontà determinò una pressione per l’adeguamento della legislazione a queste nuove
consapevolezze e alla nuova situazione che si andava di fatto costruendo con le prime esperienze di
a) garantisce il pieno rispetto della dignità umana e i diritti di libertà ed autonomia della persona
handicappata e ne promuove la piena integrazione nella famiglia, nella scuola, nel lavoro e nella
società;
b) persegue il recupero funzionale e sociale della persona affetta da minoranze fisiche, psichiche e
sensoriali.
Viene inoltre data la definizione dei soggetti aventi diritto in tale normativa.
Sostanziali cambiamenti vengono fatti che nell’ambito del Diritto all’Educazione e all’Istruzione:
L’intervento dello psicologo nella scuola si è progressivamente evoluto da intervento sull’handicap e sulla
devianza a intervento preventivo, con riflessione sulle dinamiche interpersonali all’interno del gruppo
classe e alla disseminazione dell’intervento nei contesti nei quali gli alunni vivono.
La scuola progressivamente è riuscita a riappropriarsi delle proprie competenze pedagogiche e didattiche, a
rivolgere allo psicologo domande più pertinenti e articolate tanto da cambiare, talvolta radicalmente, il
rapporto e le richieste d’intervento. È quindi passata dal tradizionale rapporto di delega ad una richiesta
d’intervento progressivamente più complessa, attenta e articolata all’interno della quale il corpo
insegnante e lo stesso dirigente della scuola si sentono più spesso coinvolti in prima persona.
Lo psicologo clinico, in una situazione in cui venga richiesto il suo intervento, deve porsi interrogativi, che
riguardano non solo i modelli d’intervento e teorici cui fare riferimento, ma anche e, prioritariamente, il
rapporto tra la richiesta e il contesto nel quale è opportuno intervenire.
Gli interrogativi da porsi nell’affrontare i problemi del disagio all’interno dell’istituzione scolastica possono
essere così sintetizzati:
Il contesto definisce, delinea, “marca” il comportamento e l’azione all’interno della quale avviene
l’intervento.
La richiesta non è mai isolabile dall’incontro tra le variabili che caratterizzano da un lato chi chiede aiuto,
dall’altro chi (operatore o struttura) formula la risposta all’interno di quel determinato contesto (sociale,
culturale e istituzionale). Analizzare la richiesta può anche determinare un cambiamento del focus
dell’intervento fino a mettere in discussione o riformulare totalmente la richiesta stessa. Per lo psicologo
clinico la riformulazione è indispensabile per non colludere con l’interlocutore (con chi formula la
domanda), per non incorrere in fraintendimenti e quindi per arrivare all’esplicitazione e condivisione con il
committente e con l’utente dell’obiettivo dell’intervento. Senza la condivisione degli obiettivi l’intervento
rischia di certo il fallimento.
La risposta dello psicologo, se non decodificata, può cristallizzare, incapsulare, in modo spesso irreversibile,
il destino del portatore del disagio.
Sono quindi l’intervento dell’operatore e la risposta dell’istituzione che danno un contributo decisivo alla
designazione o allo sviluppo del disagio con il quale essi vengono a contatto.
L’approccio sistemico, se fatto proprio dagli psicologi clinici, permetterebbero il rifiuto di risposte
preformate del servizio o dell’istituzione, la sperimentazione di nuove modalità di intervento e
parallelamente l’avvio di un processo di “riformulazione” che dia un significato alla domanda, analizzando il
contesto nel quale emerge, così da permettere la comprensione del bisogno che la richiesta di aiuto
Il modello psicoanalitico teorizza, invece, la compresenza nella mente dell’individuo del mondo inconscio e
conscio; tale compresenza permette all’individuo di conoscere e di pensare sulle proprie esperienze. È
proprio grazie alla struttura inconscia, alla compresenza nella mente di tutti gli individui di ciò che è
considerato bene e male, buono o cattivo, che è possibile distinguere e sviluppare pensieri, è possibile
stabilire relazioni tra diversi pensieri, nessi e correlazioni tra le diverse emozioni.
L’introiezione della versione buona, rassicurante, e di quella cattiva, persecutoria dell’oggetto, e
l’integrazione di tali scissioni in una forma realistica svolgono un ruolo fondamentale per lo sviluppo della
realtà interna e quindi della personalità dell’individuo.
La possibilità di differenziazione è considerata per la Klein l’aspetto chiave dello sviluppo del sé; nel corso
dello sviluppo, l’individuo potrà rapportarsi con l’oggetto in modo più completo; gli oggetti verranno ad
avere intenzioni molteplici e sentimenti misti.
La capacità di integrare i due oggetti permette lo sviluppo della relazione anche se, nello svolgimento della
vita dell’individuo, in alcune situazioni conflittuali o problematiche, tali scissioni possono riproporsi anche
nella vita adulta.
La delusione, l’assenza dell’oggetto buono può determinare emozioni ostili verso l’oggetto, la delusione che
esso procura e la sua assenza lo trasforma in oggetto ostile, persecutorio, in una parola “cattivo”, che può
danneggiare l’”oggetto buono”.
Nell’adulto, a differenza del bambino, prevale il pensiero, il conscio sull’inconscio, la capacità di pensiero:
benché inevitabilmente ricca di emozioni, può contenere e riconoscere le emozioni presenti nella realtà in
cui vive, così da orientare il comportamento in funzione del pensiero. Tuttavia, il bambino, ma anche
l’insegnante, portano nella scuola tutte le emozioni, i conflitti e le inibizioni delle relazioni ed esperienze
primarie con le figure genitoriali, la conflittualità tra fratelli e con i pari.
Nelle situazioni di difficoltà anche nell’adulto, e quindi anche nell’insegnante, si possono ripresentare
queste modalità di funzionamento della mente, anche se, a differenza del bambino, e grazie all’acquisita
maturazione del sé e alla capacità di integrare gli oggetti buoni con quelli cattivi, la mente è in grado, se
non fortemente sofferente, di riconoscere, pensare e riflettere circa ciò che sta vivendo e provando.
Nella realtà di lavoro, in una situazione di difficoltà o conflittualità, l’individuo e quindi l’insegnante, il
responsabile dell’istituto, non potendo attingere all’oggetto interno buono le cui capacità di gratificazione e
contenimento vengono rese vane e inadeguate, attiva nei confronti dell’altro vissuti di estraneità, ostilità,
inimicizia, meccanismi difensivi volti ad isolare, neutralizzare e aggredire l’oggetto vissuto come
persecutore.
Il modello psicodinamico instaura con l’altro una relazione; prioritario è instaurare un rapporto di ascolto,
di condivisione degli obiettivi volti a comprendere insieme i significati sottesi alla situazione di difficoltà
denunciata. Lo psicologo clinico e colui che segnala la situazione di difficoltà non possono entrare
realmente in relazione se non si è instaurata tra di loro quella che in senso lato possiamo definire come
alleanza terapeutica, quella condizione cioè che permette di condividere con l’altro il desiderio di riflettere,
pensare sulle proprie emozioni, quindi sulla difficoltà segnalata. Solo così il problema segnalato, sia che
riguardi l’alunno problematico, la classe indisciplinata, il docente, il gruppo dei docenti “inadeguati” o la
“famiglia assente”, non sarà chiuso e incapsulato in sterili diagnosi ed etichette di alunno “patologico,
inadeguato, cattivo, nemico, incurabile”, perché la designazione sarà stata trasformata in riflessione sul
significato della situazione segnalata.
Il lavoro dello psicologo clinico deve essere finalizzato ad analizzare attentamente la relazione che sta
La valutazione del disagio emotivo in età evolutiva: dalla valutazione alla restituzione
Passando dunque all’analisi della costruzione della relazione terapeutica, è opportuno focalizzare gli aspetti
a cui lo psicologo clinico deve fare riferimento (anche nell’intervento breve di consultazione).
1. Il contratto. Quando viene indicata una valutazione dello stato di disagio emotivo del bambino, è
innanzitutto essenziale un coinvolgimento dei genitori nel “contratto” ed è importante stabilire con
loro una buona o sufficiente alleanza terapeutica. La presenza dei genitori nei colloqui psicoanalitici
con i bambini, tanto più piccoli essi sono, è infatti di rilevanza fondamentale. Spesso appare
indispensabile condurre in parallelo un lavoro con i genitori che permetta loro di collaborare alla
cura del figlio.
2. Il setting. Cioè dove e come le sedute hanno luogo, è di fondamentale importanza. Il corpo del
bambino, rappresenta uno strumento essenziale di espressione della sua realtà emotiva ed è anche
il luogo attraverso il quale si manifesta il mondo fantasmatico, che è prima agito e poi verbalizzato.
Il corpo, pertanto, è utilizzato come materiale analitico, insieme ai giochi, ai disegni e alla
verbalizzazione diretta.
3. Il transfert. Per quanto riguarda il transfert nei bambini possiamo affermare che le basi del transfert
sono costituite dalle strutturazioni psichiche delle relazioni precoci. Queste ultime vengono
proiettate nella relazione del bambino con il terapeuta, che potrà così comprendere e contenere
nella propria mente i vissuti del bambino per restituirglieli gradualmente, così da permettergli di
avviare un processo elaborativo. Se l’analista sarà in grado di contenere nella sua persona tutti gli
aspetti del transfert, compresi quelli negativi, l’Io del bambino potrà rafforzarsi e l’angoscia
modificarsi.
4. Modalità della valutazione. L’indicazione di un intervento psicoanalitico con i bambini nasce dalle
sedute di valutazione. Le sedute diagnostiche-valutative sono finalizzate ad analizzare e
comprendere il livello del disagio emotivo del bambino e l’opportunità di un intervento
psicoterapico. Nel lavoro di valutazione è fondamentale chiarire un dato di realtà, che l’esperienza
ha termine, che questa esperienza precipita inevitabilmente in un vissuto di separazione.
La consapevolezza del termine aiuta la relazione tra psicoterapeuta e bambino, a creare un’area di
condivisione di un’esperienza di contenimento senza alimentare presupposti illusori di uno spazio
senza limiti e/o confini.
Nel lavoro psicodiagnostico infantile è dunque inevitabile l’incontro dello psicoanalista con i genitori che
chiedono una valutazione diagnostico-clinica o terapeutica per il bambino. La modalità più adeguata della
consultazione psicodiagnostica, cioè la scelta di lavorare solo con i genitori, solo con il bambino o
separatamente con i genitori e il bambino, va operata secondo la formazione e le competenze del
Capitolo 5 - Dalla valutazione alla restituzione del disagio psichico: l’intervento nei servizi territoriali
Da ricerche effettuate presso i Servizi Territoriali è emerso che gli psicologi clinici che operano all’interno di
queste strutture svolgono prevalentemente interventi individuali di psicoterapie brevi e di psicoterapia con
la coppia e che i modelli di riferimento più frequentemente utilizzati sono quello relazionale-sistemico e
quello psicoanalitico.
Il modello relazionale-sistemico
La modalità relazionale-sistemica pone l’accento sulle caratteristiche del comportamento degli individui,
Gli operatori dei Consultori Familiari o dei Servizi Materno-Infantili sovente vengono consultati dal
tribunale per dare la propria consulenza e il proprio parere in situazioni di conflittualità della coppia, anche
al fine di facilitare l’individuazione delle modalità di affidamento dei figli.
Quando una coppia arriva ad una separazione legale mediante l’intervento del tribunale, vari contesti, con
valenze e contenuti diversi, vengono implicati nella situazione problematica: c’è il contesto giudiziario,
quello legale e quello familiare. Il giudice, gli avvocati e la coppia stabiliscono una serie di regole, finalizzate
a proteggere e tutelare i figli: i membri “più deboli” della famiglia. Tali regole, implicitamente, dovrebbero
definire gli spazi e delineare le modalità delle relazioni affettive con i genitori.
Si nota tuttavia che questo primo “accordo” tra le parti spesso non è adeguatamente esplorato ed
elaborato, anche perché ricalca ruoli, funzioni e norme predeterminati, e tende a riproporre le complesse
problematiche interne della coppia. Nella prima fase di separazione legale, quindi, il giudice stabilisce delle
regole riguardanti i figli a cui i componenti del nucleo familiare dovrebbero attenersi. Tali regolamentazioni,
finalizzate "alla primaria tutela del minore", modicano inevitabilmente le modalità relazionali esistenti
all'interno della famiglia; si dà vita, cosi, ad una sorta di "territorio franco", regolamentato da figure esterne
alla coppia.
Tali regole, se da un lato assolvono alla funzione di contenere il disagio emotivo dovuto alla separazione,
dall'altro si rivelano spesso inadeguate, perché spostano su un piano di realtà e concretezza la soluzione di
profonde problematiche interne. La coppia arriva, frequentemente, all'"accordo", formale e legale, senza
aver adeguatamente elaborato la separazione emotiva: conseguentemente, le regole poste in ambito
Le note difficoltà economiche dei servizi territoriali spesso impediscono che gli psicologi vengano impegnati
per interventi psicoterapeutici intensi; emerge, sempre più frequentemente, la necessità di effettuare
interventi psicoterapeutici limitati nel tempo, anche se non predefiniti nel numero degli incontri.
La psicoterapia breve: cenni storici
All'inizio della psicoanalisi il problema di una terapia “breve” non aveva motivo di porsi. Le analisi praticate
da Freud, e da coloro che condividevano il suo modello di intervento, avevano una durata molto contenuta
e nulla faceva pensare a un prolungamento del trattamento.
Ferenczi assunse un ruolo esplicitamente direttivo nella terapia, nel senso che richiedeva al paziente e al
terapeuta una partecipazione "attiva", proponeva prescrizioni o divieti al paziente, e anche un termine alla
durata del trattamento. Verso la fine degli anni trenta, Alexander e French sostennero che ogni forma di
terapia dovesse essere flessibile e dinamica. Essi considerarono la psicoterapia come un'esperienza
emozionale correttiva, un'esperienza vissuta dal paziente nella relazione con il terapeuta, diversa da quelle
vissute con le figure significative del passato. L'intervento andava accuratamente studiato e organizzato
dall'analista, sulla base di un'accurata indagine anamnestica e di una costante osservazione del paziente.
Alexander e French precisarono l'importanza di individuare il conflitto che si presentava come centrale, a
livello sia focale sia nucleare. Per conflitto focale intesero quel conflitto che si manifesta soprattutto a
livello superficiale, preconscio e quindi maggiormente modificabile dall'lo del paziente che si sottoponeva
ad una terapia di riapprendimento di risposte e comportamenti emozionali. Per conflitto nucleare intesero
quel conflitto di base che si colloca più propriamente nell'inconscio e la cui conoscenza è utile all'analista
per la comprensione del caso, ma che non è sempre possibile né utile elaborare. Fu sottolineata inoltre
l'importanza di utilizzare una notevole flessibilità nel fissare la frequenza delle sedute, la durata del
trattamento, le possibili o opportune interruzioni.
Un fondamentale progresso in questo campo si registrò grazie all'elaborazione di teorie e metodologie
d’intervento che non si indirizzarono a innovazioni prettamente tecniche, ma ricercarono un unitario
modello di intervento, ponendo particolare attenzione al transfert, al limite tempo e alla relazione
paziente-terapeuta. Di tale elaborazione ci sembra di poter sintetizzare i più significativi "strumenti"
metodologici:
Nei brevi incontri di consultazione sembra quindi importante che il terapeuta stimoli il paziente a riflettere
sull'esperienza emotiva che vive in quel rapporto, considerandola esemplificativa delle modalità con le
quali il paziente si rapporta con l'altro e si relaziona ad esso nel suo mondo interno ed esterno. Pensare e
riflettere insieme sulla modalità di rapporto e sulle proiezioni avvenute all'interno della consultazione
aiuterà il paziente a comprendere ciò che egli prova nei riguardi di se stesso e degli altri e a renderlo
consapevole di parti del suo sé di cui non era cosciente, parti che viveva con ansia e che non riusciva a
contattare perché considerate incontenibili o intollerabili.
La riflessione sulle comunicazioni di transfert del paziente è infatti il mezzo che permette al terapeuta di
comprendere il tipo di problemi che i paziente ha con se stesso e con gli altri, in relazione con il proprio
mondo interno. Cosi può essere dato contenimento ad aree dell'apparato psichico che non potevano
essere guardate e alle quali il paziente non poteva dare nome; in alcuni casi, questi può continuare
a pensare da solo alle proprie esperienze piuttosto che esserne atterrito e paralizzato.
Il limitato numero degli incontri rende particolarmente consapevoli e responsabili gli psicologi del fatto che
il paziente, quando la terapia breve sarà terminata, dovrà continuare i percorso da solo: per questo sembra
necessario trasmettergli la fiducia di poter pensare all'esperienza di comprensione condivisa. Sarà cosi
possibile nutrire fiducia di superare i vissuti di estraneità, confusione e non governabilità delle proprie
emozioni. La psicoterapia breve, se riesce a ridefinire e risignificare le esperienze emotive vissute dal
paziente, può permettere la prosecuzione del suo cammino emotivo poiché ha sperimentato una nuova
modalità di rapporto.
Tuttavia, gli psicologi clinici sono consapevoli che, in taluni casi, il compito della psicoterapia, per la
complessità e intensità della sofferenza sottesa alle problematiche portate, non può limitarsi ai pochi
incontri effettuati in un breve arco di tempo. L'obiettivo, certamente ambizioso, della psicoterapia breve
dovrebbe quindi essere quello di far sentire al paziente di poter essere in grado di identificare i propri
problemi e di iniziare a riconoscere e alleviare la propria ansia senza esserne dominato o paralizzato.