Sei sulla pagina 1di 29

DISTURBI E TRAIETTORIE ATIPICHE DEL NEUROSVILUPPO

SVILUPPO TIPICO E ATIPICO


SVILUPPO ATIPICO: funzionamenti o ritmi di acquisizione che si discostano dalle caratteristiche tipiche previste per certe fasi dello sviluppo

Parametri qualitativi e quantitativi che definiscono quando un funzionamento è considerato ATIPICO:
I parametri qualitativi rientrano in un approccio di tipo “categoriale”, per cui le Parametri quantitativi, invece si riferiscono a un approccio dimensionale per cui
traiettorie atipiche sarebbero qualitativamente diverse da quelle dello sviluppo tipico. gravità, intensità e frequenza delle caratteristiche dello sviluppo atipico si
manifesterebbero in una successione di variazioni quantitative.
ATIPICITA’: può manifestarsi
1. fin dalle prime fasi dello sviluppo: spettro dell’autismo
2. emergere tardivamente; manifestarsi inizialmente come ritardo nell’acquisizione delle tappe dello sviluppo tipico ed evolvere poi in un disturbo: dislessia evolutiva
STUDIO IN PASSATO: partendo dallo studio dello sviluppo tipico, come il mancato raggiugimento di certe tappe evolutive, ma questo non spiegava come i bambini con Disabilità
intellettiva evolvono nelle varie fasi evolutive. Lo sviluppo atipico non veniva interpretato in un’ottica evolutiva.
TEORIE COSTRUTTIVISTE: hanno contribuito a questo cambiamento spiegando lo sviluppo psicologico in termini di cambiamenti qualitativi caratterizzati da nuove strutture di pensiero.

L’interazione fra ricercatori dello sviluppo tipico e clinici e ricercatori dello sviluppo atipico è la grande novità degli ultimi decenni. Un esempio è costituito dal
“neurocostruttivismo” la cui teorica principale è Annette Karmiloff-Smith, di matrice piagetiana, che concilia una prospettiva psicologica dello sviluppo con quella
dello studio del substrato neurale dei disturbi dello sviluppo, attraverso tecniche di esplorazione della struttura e funzionalità del cervello come quello del
neuroimaging: tali tecniche di neuroimaging o brain imaging permettono di visualizzare in dettaglio la struttura e il funzionamento del sistema nervoso centrale così da
identificare eventuali alterazioni e permettere di ricostruire il funzionamento dei circuiti e specifiche aree cerebrali in condizione di riposo o durante lo svolgimento di compiti.
Il modello di Karmiloff-Smith afferma che le traiettorie dello sviluppo atipico hanno la loro radice in perturbazioni di processi di base nelle fasi precoci dello sviluppo. La
sua idea di sviluppo tipico è che neonati nascano dotati di un cervello in grado di apprendere dall'ambiente grazie a meccanismi generali di elaborazione (es. attenzione, memoria,
abilità percettive) e a meccanismi di sviluppo uniti a particolari propensioni per certe classi di stimoli domain relevant che costituiscono il vettore della traiettoria iniziale nello spazio
cognitivo .
Lo sviluppo atipico viene considerato come una traiettoria evolutiva peculiare che può dar luogo ad associazione tra disturbi: non ci si dovrebbe attendere di trovare deficit
isolati o specifici in bambini con disturbi del neuro- sviluppo, ma atipie diffuse nei vari ambiti dello sviluppo.
- Lo studio dei primi segnali di sviluppo atipico o di fattori di rischio noti ha un importante valore per la realizzazione di interventi precoci, personalizzati e intensivi, al fine di
sfruttare al massimo le potenzialità legate alla neuroplasticità fin da epoche precocissime dello sviluppo.

NEUROBIOLOGIA DELLO SVILUPPO


Gli studi che esplorano il ruolo della genetica e dell’ambiente sullo sviluppo hanno permesso di superare la contrapposizione fra natura e cultura, in quanto è nelle interazioni
molecolari fra ambiente e patrimonio genetico aperto alle influenze ambientali che si definisce lo sviluppo individuale sin dalle primissime fasi di vita – questa interazione viene detta
epigenetica.
• Sappiamo che nelle fasi precoci lo sviluppo del sistema nervoso centrale è guidato dai geni (intervengono nella formazione di circuiti neurali e connessioni) e dai fattori
ambientali, come nutrizione, situazioni di stress ed esperienze emotive e cognitive (influenzano il cervello in via di sviluppo attraverso meccanismi come la sinaptogenesi
e la potatura assonale - pruning).
• Meccanismi epigenetici che non alterano la sequenza del DNA ma ne modificano l'espressività operano da tramite fra ambiente e genoma influenzando la varietà di
manifestazioni fenotipiche.
La caratteristica del cervello umano che rende modificabile la complessa rete neurale di ogni individuo per tutto il corso della vita e soprattutto durante lo sviluppo è la
neuroplasticità, in particolare la plasticità detta “dipendente dall’esperienza -experience dependent che guida la maturazione di circuiti corticali durante periodi critici. E questo
tipo di neuro plasticità che modifica lo sviluppo di una fitta rete di connessioni che contraddistinguono in modo originale ogni cervello umano, rete definita connettoma”.
Le differenze individuali dello sviluppo tipico e atipico troverebbero la loro base biologica in questa rete di circuiti dipendenti dall’interazione fra il proprio patrimonio genetico e le
proprie esperienze ambientali. Studi riguardanti ciò hanno evidenziato gli effetti della plasticità in riposta a situazioni ambientali avverse o favorevoli, gettando le base per
interventi precoci su neonati a rischio neuroevolutivo. Le modificazioni indotte da situazioni ambientali sfavorevoli possono essere studiate con tecniche di visualizzazione del
funzionamento cerebrale, come la risonanza magnetica funzionale che fornisce misure del funzionamento del SNC sulla base delle variazioni del flusso ematico cerebrale.
- Data la grade neuroplasticità del cervello infantile è possibile compensare situazioni di svantaggio ambientale (orfanotrofi) attraverso la messa in atto precoce, ove possibile, di
stimolazioni e ambienti favorevoli:
• Le tecniche che vanno sotto il nome di “Arricchimento ambientale” hanno come obiettivo quello di fornire un ambiente ricco di stimolazioni che indicono
modificazioni strutturali e funzionali del cervello.
• Tecniche di stimolazione ambientale come il massaggio neonatale si sono dimostrati utili nel promuovere lo sviluppo visivo in bambini con rischio neuroevolutivo
come quelli nati pretermine.
Tali tecniche oltre a dimostrare la plasticità del sistema nervoso centrale offrono spunti di riflessione in campo riabilitativo ed educativo
MOULTON: in uno studio longitudinale su bambini che imparano a leggere, usando tecniche di DTI a messo in evidenza modificazioni in diversi circuiti cerebrali indotte
dall'apprendimento della lettura tra cui le connessioni fra area della forma visiva delle parole e aree deputati all'elaborazione attiva dell'informazione fonologica - DTI: diffusion
Tensor Imaging - tecnica di risonanza magnetica che permette di acquisire ricostruire immagini della sostanza bianca per lo studio della connettività cerebrale.

COMORBIDITA’
La comorbidita o co-occorrenza di disturbi diversi è molto frequente nei disordini del neurosviluppo probabilmente a causa delle forti interazioni che caratterizzano il sistema in via
di sviluppo.
Infatti, l’eziologia di molti disturbi del neuro-sviluppo (come l’ADHD, il Disturbo dello spettro dell’autismo, i Disturbi del linguaggio, la Dislessia evolutiva...) è multifattoriale e molti
dei fattori implicati si sovrappongono parzialmente così che la possibile associazione tra diversi disturbi dipende dalla condivisione di alcuni fattori eziologici di rischio.
Per affrontare il problema della comorbidità serve un modello che prenda in considerazione i diversi livelli di descrizione dei disturbi.Un modello di questo tipo è quello di:
Uta Frith, che considera tre livelli di descrizione, neurobiologico, cognitivo e comportamentale, tutti interagenti con l'ambiente.
La comprensione di un disturbo richiede l'integrazione di diversi livelli di descrizione secondo un’ottica causale multifattoriale e dinamica. Si opera cercando di integrare il
piano dei sintomi (prevalentemente comportamentale – fenotipo) con quello dei processi alterati (prevalentemente biologici, cognitivi e socio-emotivi e sottostanti - underpinning - il
disturbo endofenotipo). Le interazioni tra i diversi livelli di descrizione, comportamentale, cognitivo-emotivo e ambientale-biologico, non sono mai unidirezionali e
univoche, ma sono piuttosto complesse, multi-direzionali e dinamiche, in quanto possono cambiare in funzione dell’età e delle condizioni ambientali.
1. A livello cognitivo è raro che un singolo deficit spieghi un singolo disturbo neuro-evolutivo.
2. A livello genetico sono rare le condizioni patologiche in cui un singolo gene è responsabile della malattia, mentre più frequentemente più geni sono responsabili delle
manifestazioni dei disturbi.
3. Anche in ambito psicopatologico si possono trovare numerosi esempi di associazione tra disturbi, siano essi di tipo internalizzante (in cui il disagio e la sofferenza sono
vissuti interiormente e tendono ad associarsi a comportamenti di ritiro sociale e passività - ansia, depressione) o esternalizzante (in cui il disagio viene rivolto verso l'esterno
attraverso azioni dirette a oggetti o persone - ADHD, disturbo positivo provocatorio, della condotta).
Le ricerche fatte nel campo della comorbidità hanno una notevole importanza per le loro ricadute sul piano diagnostico e riabilitativo: l’associazione di più disturbi aumenta la gravità
della patologia che necessita quindi di interventi riabilitativi più efficaci e multidimensionali. Una diagnosi precoce e corretta di disturbi e della loro comorbidità permette di
predisporre interventi adeguati e tempestivi sul piano psicologico ed educativo

DIAGNOSI
La diagnosi dei disturbi del neurosviluppo e dei disordini dell’età evolutiva richiede un sistema di classificazione condiviso dalla comunità clinica (diagnosi nosografica) ed è il primo
passo per l’adozione di un linguaggio comune, necessario per avviare un'adeguata presa in carico riabilitativa del soggetto.
• La comprensione del disturbo deve avvenire attraverso la diagnosi funzionale ed esplicativa.
Si cerca “cosa ha” il bambino e il “come” del funzionamento, per fare previsioni sull’evoluzione naturale.
• La diagnosi funzionale deve descrivere e valorizzare i punti di forza, le abilità residue e le potenzialità̀ del bambino in condizioni di sviluppo atipico. È importante rispettare la
variabilità̀ individuale, che è un requisito essenziale per creare ambienti educativi in grado di valorizzare specifiche competenze, siano esse più (tipiche) o meno (atipiche)
frequenti nella popolazione.

• La diagnosi funzionale richiede un monitoraggio costante e sistematico, soprattutto nei passaggi da una fase di sviluppo alla successiva, attraverso tipologie diverse di
strumenti di osservazione e raccolta dati come test, questionari, colloqui psicodiagnostici.
• Risulta opportuno che alla diagnosi funzionale si affianchi una diagnosi di sviluppo per descrivere, oltre alle competenze acquisiste in un dato momento, i processi
cognitivi ed emotivi potenziali, rilevabili nella zona di sviluppo prossimale, che assumono un importante valore prognostico per l’adattamento.
• La diagnosi esplicativa cerca invece di rispondere al perché di un certo funzionamento attraverso l’identificazione dei fattori causali che contribuiscono ai sintomi.
Le cause funzionali di un disturbo possono essere distali e prossimali:
1. le prime si riferiscono in genere a processi più precoci e di base,
2. le seconde fanno riferimento a processi più recenti e più simili ai sintomi e ai fattori che caratterizzano il contesto ambientale prossimo il bambino.
Un elemento fondamentale della diagnosi è la definizione del grado di disabilità, cioè l’impatto del disordine sulle capacità d’adattamento dell’individuo all’ambiente. La necessità
di considerare la disabilità come un processo evolutivo è alla base del ICF-CY (International Classification of Functioning, Children and Youth version), che si basa sulla
considerazione che il funzionamento associato a condizioni di disabilità in età evolutiva si differenzia da quello dell’adulto con disabilità per la natura, l'intensità̀ e le conseguenze.
Inoltre, alla diagnosi concorrono molte professionalità diverse e raramente viene raggiunta la fase diagnostica finale. Sarà il percorso terapeutico e d’intervento a consentire la
verifica delle ipotesi sulla veridicità di un certo endofenotipo (=processi alterati) e quindi a riportare, eventualmente, a una fase di revisione della diagnosi.
Tipologia di diagnosi:
1. Diagnosi eziopatogenetica: studia le cause di una malattia e la sua evoluzione.
2. Diagnosi nosografica: porta all’identificazione, ossia alla classificazione e all’etichetta diagnostica del disturbo in funzione dei sintomi e dei criteri di inclusione.
3. Diagnosi funzionale: deriva dalla combinazione di elementi clinici e psicosociali con le caratteristiche funzionali dell'individuo a livello cognitivo, affettivo-relazionale,
linguistico, sensoriale, motorio-prassico e personale-sociale.
4. Diagnosi di sviluppo: formula ipotesi sulle traiettorie evolutive di un dato disordine e su eventuali indicatori di rischio per lo sviluppo futuro.
ICF: sviluppata per gli adulti nel 2001 e seguita dalla versione per bambini del 2007 per fornire un linguaggio standard unico che serva da modello di riferimento per la
descrizione della salute e degli Stati essa correlati è composta da due parti a loro volta composte da due componenti:
1. FUNZIONAMENTO E DISABILITA’ - 1. Funzioni corporee e strutture 2. Attività e partecipazione.
2. FATTORI CONTESTUALI - 1. Fattori ambientali 2. Fattori personali.
Ogni componente può essere espressa in termini positivi o negativi e consiste di vari domini e categorie che sono le unità di classificazione.
INTERVENTO
Nella presa in carico riabilitativa del bambino con disordini del neurosviluppo è necessaria l'integrazione di punti di vista specializzati. L'ambiente del bambino che presenta un
disordine di sviluppo si fonda su tre colonne portanti fortemente interconnesse: l’equipe clinica, la famiglia e la scuola.
- Principi a cui la ricerca clinica cerca oggi di attenersi:
• Evidence based: pratica basata sull’evidenza – incoraggia a scegliere metodologie di intervento sulla base di studi di ricerca selezionati e interpretati secondo specifici
criteri
• Generalizzabilita: la generalizzazione degli effetti di un intervento è maggiore quando esso si estende al contesto familiare e alle pratiche educative e viceversa,
quando queste sono ben fondate sulla conoscenza dei processi cognitivi, emotivi e neurofunzionali sottostanti
• Replicabilita: è necessario seguire una metodologia rigorosa che prevede raccolta dei dati amnestici relativi ai percorsi riabilitativi già intrapresi e agli esiti degli stessi,
riferimento a un modello, documentazione dettagliata della attività e dei progressivi cambiamenti, misurazione dell’efficacia dell’intervento, ruolo attivo e consapevole del
bambino e della famiglia
• Specificita e globalita: è sempre necessario integrare gli interventi specifici con quelli più globali
In un'ottica riabilitativa è importante il rapporto con gli insegnanti curriculari dei bambini, ai quali, con il consenso dei genitori, viene illustrata la diagnosi funzionale che, se
necessario, costituisce la prima tappa del PDP (Piano Didattico Personalizzato) e PEI (Piano Educativo Individualizzato).
È importante che gli insegnanti abbiano un dialogo con i professionisti clinici, fondamentale per la traducibilità della diagnosi funzionale nel progetto educativo individuale, dato che
mette in evidenza punti di forza e aree di debolezza del bambino.
Il deficit di maturazione psicologica riconosce sempre fattori interni esterni con prevalenze, sequenze peculiarità molto specifiche che la patologia dovrebbe conoscere meglio per
impostare l'intervento di recupero.
L'intervento deve avere alcune fondamentali condizioni:
- la conoscenza dei processi di sviluppo della mente, normali e devianti
- la conoscenza degli aspetti specifici dell'immaturità̀ , del ritardo globale o selettivo
- la conoscenza delle strategie relazionali più idonee per favorire tutti i processi di maturazione e compenso.

1. NEUROPLASTICITA’ E AMBIENTE - Plasticita e interazioni geni-ambiente


Il comportamento umano deriva dall’intreccio di tre diversi fattori che rappresentano le fonti della variabilità interindividuale: i geni, l’organizzazione personale e l’ambiente.
La conoscenza di tali meccanismi sottolinea l’importanza di pianificare strategie terapeutiche precoci e multidisciplinari, fondate anche su un empowerment familiare e
scolastico al fine di promuovere lo sviluppo e/o il ripristino delle funzioni compromesse.
La plasticita del SMN suggerisce che l’ambiente ha un ruolo fondamentale nel definire i confini ed i passaggi fra sviluppo tipico e atipico: un ambiente giustamente arricchito,
cioè in grado di rispondere ai bisogni neuromotori/emotivo-cognitivi/relazionali, ha un valore preventivo dei disturbi del neurosviluppo o delle eventuali comorbidità
correlate.
NEUROPLASTICITA’
Il Sistema Nervoso (SN) è costituito da una rete di circuiti neuronali (network) volti a diverse funzioni quali la rappresentazione del mondo esterno e l’esecuzione di attività motorie.
Esso è costituito da 100miliardi di cellule, ognuna delle quali è collegata con 10.000 neuroni – le cellule nervose che compongono ogni circuito devono essere tra loro collegate in
modo specifico in modo tale da garantire una corretta performance del SN.
Una delle scoperte più importanti in ambito neurobiologico è quella relativa agli studi sull’encefalo “plastico” (termine usato per distinguerlo da quello “deterministico” o fisso,
espressione dell’azione del genoma, cioè del corredo genetico contenuto nei 46 cromosomi) soprattutto nelle sue componenti anatomiche dei lobi frontali e temporo-parietali. Infatti
l’encefalo-plastico è capace di modificarsi e strutturarsi sull’esperienza in base all’interazione con l’ambiente. Il cervello plastico è capace di costruire strutture (network
neurale) che non sono geneticamente determinate. L’ambiente quindi assume un ruolo cruciale nella maturazione finale dei network cerebrali.
Il comportamento umano è determinato dalla componente genetica (i geni), dall’ambiente (esperienza), dal vissuto personale e, in una buona percentuale, dal caso.
Il termine epigenetica è stato coniato negli anni ’50 da Conrad Hal Wadington e indicava lo studio delle interazioni tra fattori genetici e sviluppo embrionale:
L’interazione tra fattori genetici e fattori ambientali permette la modifica di funzioni neurali sia in termini strutturali che funzionali:
1. i geni guidano le fasi iniziali dello sviluppo del Sistema Nervoso Centrale (SNC) e dei circuiti neurali,
2. l’environment (l’ambiente) influenza e modella la struttura e la funzione nel corso della maturazione neuronale determinando la sinaptogenesi, le formazioni dendridiche e
il rimodellamento assonale.
La plasticità cerebrale può essere definita come l’insieme dei cambiamenti che si verificano nell’organizzazione anatomica e fisiologica del cervello come risultato dell’esperienza.
Il termine “plasticità” esprime, infatti, il significato di flessibilità e malleabilità; tale proprietà è di fondamentale importanza per l’adattamento del nostro comportamento, per i processi
di apprendimento e di memoria, per lo sviluppo cerebrale e la riparazione del danno cerebrale.
L’esperienza si traduce in pattern di energia elettrica all’interno delle reti neurali che guidano le diverse forme di plasticità funzionale e strutturale. La plasticità neurale può
determinare modifiche anche sui circuiti neurali già esistenti: può rafforzarli o inibirli.
• I circuiti corticali mostrano la loro massima sensibilità agli stimoli sensoriali indotti dall’esperienza in epoca postnatale; col passare degli anni fino all’età adulta le strutture
cerebrali mostrano via via un grado di plasticità inferiore (per esempio, i bambini sono più veloci degli adulti nell’imparare una nuova lingua).
Nel primo anno di vita il SNC va incontro ad un imponente sviluppo e riorganizzazione: le sue dimensioni incrementano, l’organizzazione elettrofisiologica e la citoarchitettura
corticale si modifica e si verificano fenomeni di potatura assonale (le connessioni utilizzate sopravvivono e si rafforzano, quelle non usate vengono sostituite o eliminate),
neurogenesi e migrazione neuronale: i bambini che non ricevono adeguati e precoci input ambientali nei primi mesi di vita sono più predisposti ad avere un anomalo sviluppo delle
funzioni connesse a tali input.
Vi sono momento dello sviluppo in cui si crea un alterato equilibrio fra sistemi: durante l’adolescenza la maturazione completa di strutture implicate nell’espressione
emotiva (come l’amigdala) possono in qualche modo contribuire a situazioni di scompenso emotivo-comportamentale.

IL PERIODO CRITICO
Il concetto di “periodo critico” (periodo di vulnerabilità o periodo sensibile) rappresenta uno specifico arco di tempo in cui la plasticità neuronale risulta massima e i circuiti neuronali
sono maggiormente sensibili agli stimoli esterni, sia in termini di sviluppo che di recupero funzionale.
“I primi 1000 giorni di vita del bambino” è un progetto che ha come obiettivo la realizzazione a domicilio dei bambini nati a rischio un programma di protezione, diagnosi e cura dei
disturbi neuropsichiatrici nelle prime settimane di vita e di fornire gli stimoli giusti per uno sviluppo ottimale del sistema nervoso.
La presenza di meccanismi di plasticità neuronale più potenti durante le prime fasi di sviluppo implica che la riparazione del danno cerebrale è più efficace per lesioni insorte
precocemente.
Tuttavia, alcuni studi dimostrano la complessità del sistema che regola questi meccanismi che tiene conto di diversi fattori come:
1. la localizzazione e l’estensione della lesione (focale o diffusa);
2. il timing dell’insorgenza lesionale, cioè il momento in cui avviene il danno celebrale - durante il periodo di sviluppo i cambiamenti determinati dalla plasticità neuronale sono
graduali e i periodi critici sono diversi per i vari sistemi funzionali. Quindi, i tipi di danno cerebrale possono avere un’influenza variabile sul SN in funzione dello stadio di
maturazione cerebrale in cui avvengono. Per esempio, un aspetto cruciale della fisiopatologia del danno cerebrale congenito è l’insorgenza della lesione in epoca pre- o
perinatale (dalla 28° settimana di gravidanza fino alla 4°settimana di vita approssimativamente).
3. Suscettibilità genetica;
4. e le correlazioni cliniche.
Vi sono numerosi studi relativi alla plasticità cerebrale che hanno focalizzato l’attenzione sullo sviluppo del sistema visivo. In esso, il periodo critico svolge un ruolo fondamentale
perché permette la maturazione e la stabilizzazione postnatale dei circuiti neurali. Il cambiamento della dominanza oculare dei neuroni della corteccia visiva in risposta all’occlusione
di un occhio e il recupero delle funzioni visive dopo un periodo di deprivazione sensitiva rappresentano due classici modelli nello studio del periodo critico relativo alla corteccia
visiva. Una volta che l’esperienza ha esercitato il suo ruolo di guida dello sviluppo, la riduzione della plasticità è funzionale alla stabilizzazione dei circuiti e delle funzioni neurali.
Tuttavia, quando i periodi critici si sono chiusi, c’è lo svantaggio della difficoltà di recupero dagli effetti di una difettiva o carente esperienza. Nonostante l’infrastruttura corticale
essenziale sia già presente alla nascita, la sua organizzazione definitiva matura nel corso delle prime settimane di vita, quando il sistema visivo viene per la prima volta esposto agli
stimoli luminosi.
Se la deprivazione sensoriale si prolunga per tutta la durata del periodo critico, le conseguenti alterazioni anatomo-funzionali sono definitive – questi effetti potrebbero essere
reversibili qualora l’occhio deprivato venisse esposto agli stimoli visivi prima della conclusione di questo periodo. L’esperienza sensoriale e la conseguente attività elettrica dei
neuroni visivi inducono quindi una profonda riorganizzazione delle connessioni corticali che comporta la crescita e retrazione di ramificazioni assonali con la
conseguente formazione ed eliminazione di contatti sinaptici: la plasticità sinaptica è la caratteristica principale della plasticità neuronale.
Un sito cerebrale molto vulnerabile all’esperienza (soprattutto allo stress) è l’ippocampo: è una formazione cerebrale, inclusa nel sistema limbico – svolge un ruolo importante nei
processi di apprendimento e memoria. L’esposizione a fattori stressanti (malnutrizione o assenza di cure materne) può interferire con la sua maturazione funzionale e strutturale
anche in modo permanente.
È stato dimostrato anche che soggetti precocemente esposti a esperienze sfavorevoli precoci mostrano una maggiore vulnerabilità all’insorgenza di psicopatologie quali disturbi del
neurosviluppo e disturbi dello spettro d’ansia, che perdurano anche nell’età adulta.
Sono quindi molto importanti i fattori ambientali precoci sull’outcome di sviluppo (insieme dei risultati ottenuti nella storia naturale del bambino o a seguito di eventuali interventi,
nel breve o nel lungo termine). Tuttavia, risulta anche che una esposizione costante a minimi livelli di stress può “immunizzare” il soggetto e renderlo più resistente allo
stress (resilienza) – questo effetto è correlato alla suscettibilità genetica individuale e lo stesso concetto va esteso anche per la risposta all’esposizione di fattori
ambientali protettivi.
Per fornire l’ambiente giusto al momento giusto è necessario conoscere le tappe tipiche dello sviluppo così da poterle sfruttare come finestre terapeutiche.

AMBIENTE ARRICCHITO
Le caratteristiche ambientali in cui un soggetto si sviluppa risulta fondamentale. Negli ultimi anni, in ragione di quest’aspetto, è stata posta molta attenzione al concetto di ambiente
arricchito (enriched enrivonment) che rappresenta “la combinazione di stimoli inanimati e sociali complessi”. Per queste sue caratteristiche, l’ambiente arricchito, offre multiple
stimolazioni visive, olfattive, somato-sendoriali, motorie, cognitive e sociali di variabile complessità, determinando un maggior grado di plasticità neuronale e un conseguente
aumento dei fenomeni di neurogenesi, ramificazione dendritiche e formazioni sinaptiche.
Tutto ciò si traduce con un migliore outcome funzionale nelle capacità di memoria e apprendimento.
Inoltre garantisce un effetto neuroprotettivo dato che riduce il declino cognitivo e attenua gli esiti di danno cerebrali in condizioni patologiche.
Anche le cure materne nei primi mesi di vita favoriscono la sinaptogenesi (processi che portano alla formazione di sinapsi) delle cellule ippocampali, come anche il massaggio
sui neonati pretermine che è una forma di contatto fisico combinato con altre attività (ascolto della voce, contatto oculare) influisce favorevolmente sulla maturazione dell’attività
cerebrale.
Un altro esempio dell’effetto delle cure umane sull’organizzazione neurofunzionale è dato dagli studi di Patricia Kuhl sull’apprendimento del linguaggio nel primo
anno di vita – il neonato, capace inizialmente di percepire i suoni di tutte le lingue del mondo, si specializza in pochi mesi per i suoni della propria lingua. Questo fenomeno
chiamato restringimento percettivo, può essere modificato se in quella finestra temporale il neonato viene esposto a una seconda lingua tramite la relazione concreta con
una persona umana.
In conclusione si può affermare che l’arricchimento ambientale stimola la plasticità assonale e la riorganizzazione sinaptica e le esperienze sensoriali precoci sono
essenziali per lo sviluppo delle connessioni sinaptiche dei diversi sistemi. Quindi, modificare l’ambiente rendendolo più facilmente percettibile gioca un ruolo chiave
nell’attivazione della plasticità cerebrale.

FAMILY CENTRED CARE E COMUNICAZIONE DIAGNOSTICA


L’intervento precoce risulta indispensabile sia nel danno neurologico sia in quello da alterazione genetica e sarà importante farsi carico non solo del bambino ma anche
dell’ambiente in cui vive, (famiglia ristretta, genitori, caregiver) – che se opportunamente informati e supportati nell’iter diagnostico-terapeutico possono contribuire alla
determinazione di un esito di un outcome clinico più favorevole.
Il benessere del bambino è legato al benessere della sua famiglia e della comunità in cui vive. La “Family Centred Care” è un sostegno assistenziale che riconosce la
centralità della famiglia nella vita del bambino con problemi di salute e l’inclusione e il suo coinvolgimento sul piano assistenziale – questo approccio è nato dall’esigenza di
cercare di soddisfare i bisogni non solo del bambino ma di tutta la famiglia impegnata accanto a lui nel processo di recupero di salute e autonomia. Si tratta di un supporto
professionale al bambino e alla famiglia attraverso un processo di coinvolgimento, partecipazione e condivisione sostenuto da empowerment e negoziazione.
Si parla di enpowerment familiare per indicare l’aumento di capacità, lo sviluppo delle potenzialità, il processo di responsabilizzazione, il potenziamento della persona, della coppia
e della famiglia: è un intervento che vuole attivare le potenzialità delle relazioni familiari, facendo leva sulle capacità possedute e cercando di attivare i potenziali latenti.
Il momento della comunicazione della diagnosi alla famiglia è cruciale tanto per la famiglia quanto per il medico che se ne fa carico perché nel comunicare una diagnosi il medico
dovrà considerare il “dinamismo” implicito dell’età evolutiva, quindi influenzato da predisposizione genetico-costituzionali e da fattori emotivo-ambientali, ma dovrà anche assicurarsi
dell’attendibilità e della validità della diagnosi: l’attendibilità diagnostica sottende la replicabilità della diagnosi tra due operatori differenti (inter-rater reliability) o da parte
dello stesso operatore in due momenti diversi (intra-rater reliability) – per la validità si intende la probabilità che i sintomi manifestati dal bambino siano riferibili alla
patologia e non determinati dal caso.
Non esistono linee guida o protocolli definiti su come comunicare ai genitori la diagnosi di una patologia neuropsichiatrica e/o eredo-degenerativa e risulta altrettanto importante non
dimenticare che è un momento di forte emotività per i genitori e la famigli, ma anche per il medico che sarà colui che dovrà cercare di creare un’alleanza terapeutica con la famiglia.
In questa fase vengono ribaltate una serie di aspettative e speranze poste dai genitori nei confronti dei propri figli – si ha quindi un crollo delle attese previste che genera reazioni
emotive, variabili da caso a caso, ma che seguono un decorso piuttosto tipico: inizialmente sia uno stato di shock seguito poi da incredulità alternata da angoscia, tristezza e a volte
sensi di colpa, impotenza e rabbia. Sono reazioni di normale adattamento ed è opportuno che si manifestino apertamente e che vengano accolte dal personale medico di
riferimento. L’ansia e l’impotenza si trasformano successivamente in accettazione e adattamento fino alla riorganizzazione di un nuovo approccio alla vita. L’accettazione è
evidente quando i genitori smettono di volere ad ogni costo una guarigione (che nella maggior parte dei casi non esiste) e cercano un “recupero funzionale” che riesca
a migliorare e attenuare i sintomi e fornire al bambino gli strumenti per vivere al meglio la quotidianità. Confrontarsi con la capacità di un adattamento sociale (capacità di
adattarsi ai vari contesti di vita nel miglior modo possibile considerando le difficoltà e i limiti della nuova situazione familiare) costituirà un inizio del percorso di convivenza con lo
stato di disabilità.
La mancanza di una guarigione non indica che non si possa raggiungere una favorevole evoluzione clinica: è possibile raggiungere, in alcuni casi, un discreto recupero
funzionale e/o buon adattamento all’ambiente. Fattori influenti sull’outcome sono la severità della sintomatologia di base, le eventuali comorbidità e la fiducia/alleanza con il medico.
La comunicazione diagnostica dovrà fornire dati precisi e sinceri sulla malattia. Dopo la descrizione della condizione si dovrà procedere alla presentazione dei trattamenti possibili.
Sarà inoltre importante valutare le conoscenze che i genitori possiedono su tale malattia e anche la comprensione rispetto a quanto spiegato, è opportuno, sin dal primo colloquio,
aprire spazio per incontri successivo in modo da dare del tempo ai genitori per riflettere e far emergere dubbi e problematiche.È inoltre consigliato condividere le informazioni con il
pediatra di riferimento o altri specialisti coinvolti e con l’ambiente scolastico.
In fase diagnostica, i genitori sono le persone maggiormente indicate a fornire informazioni circa il profilo funzionale del bambino. A questo scopo sono stati adottati nella pratica
clinica questionari e interviste semi-strutturate che servono a integrare il colloquio con i genitori.
• Un altro elemento importante è che la comunicazione diagnostica fece fornire dati precisi sulla malattia ma senza la pretesa di completezza: i genitori preferiscono
informazioni limitate alle caratteristiche principali della patologia perché l’emozione del momento iniziale può impedire la comprensione di tutte le informazioni
fornite.

ITER TERAPEUTICO
È necessario che il personale medico di riferimento fornisca tutte le opzioni terapeutiche percorribili, le informazioni sui progressi della ricerca a livello internazionale e sulle
eventuali nuove sperimentazioni cliniche. I genitori hanno il compito di informare il personale scolastico delle problematiche legate alla condizione clinica del proprio figlio al fine di
instaurare un costruttivo rapporto scuola-famiglia – è importante però che l’équipe clinica si renda disponibile fin dall’inizio a comunicare con la scuola sui bisogni e le specifiche
necessità del bambino per potergli permettere di intraprendere percorsi formativi che consentano lo sviluppo di tutte le sue potenzialità.
La collaborazione tra docenti, genitori e clinici permette di operare efficacemente per ridurre le problematiche e riuscire a valorizzare le risorse del bambino.
È utile suggerire alle famiglie e alla scuola indicazioni e consigli sui possibili atteggiamenti educativi alterativi a quelli abituali.
Fondamentale è la definizione di un Piano Didattico Personalizzato (PDP) e di un Piano Educativo Individualizzato (PEI) che garantiscono un approccio dinamico e
multidisciplinare e indirizzato al raggiungimento di specifici obiettivi. La scuola dovrà accogliere il bambino e operare per il suo sviluppo e la crescita delle sue funzionalità,
facendo in modo che sia parte integrante del contesto scolastico, insieme e alla pari degli altri alunni.
Nella dinamica terapeutica il medico di riferimento deve sempre suggerire indicazioni sull’eventuale presenza di associazioni di genitori o di persone con la stessa condizione clinica
– è importante avere contatti con chi ha già vissuto esperienza simili.
Un altro momento cruciale e delicato è anche quello della condivisione della malattia con il bambino interessato, il genitore deve porsi in una posizione di ascolto ed essere chiaro e
trasparente comunicando e condividendo informazioni.
Inoltre, è rilevante la comunicazione delle difficoltà al bambino affetto e ad eventuali fratelli o sorelle, è necessario fornire giuste spiegazioni in modo che per loro sia più semplice la
comprendere perché il fratellino o la sorellina abbia bisogno di particolari cure e attenzioni.
. Molti genitori trovano difficile parlare con i propri figli e questo può generare un circolo vizioso: bisogna essere il più possibile chiari e trasparenti comunicando e condividendo
informazioni e ponendosi in una prospettiva di ascolto. Per quanto riguarda la comunicazione con fratelli o sorelle, essa risulta molto importante dato che spesso vengono posti in
secondo piano.
Infine, si sottolinea che il bambino in età evolutiva con patologia neuropsichiatrica non ha una condizione definita e immutabile nel tempo, piuttosto è la risultante dell’interazione tra
problematiche intrinseche al soggetto e risposte esterne che possono accrescere o ridurre la partecipazione della persona alla società.
Infine è importante sottolineare l’importanza di un approccio multidisciplinare dove la dimensione sanitaria lavori a stretto contatto con quella educativa e sociale al fine di ridurre le
barriere e garantire professionalità, innovazione/ricerca e umanità.

2. LA PRESA IN CARICO DELLA FAMIGLIA - GENITORIALITÀ E STILI GENITORIALI


Non è possibile confinare la genitorialità solo all’evento biologico della nascita ma sarà necessario assolvere impegni differenti e adottare modalità comunicative e
interattive diverse secondo l’età dei figli. Ciò implica quindi la capacità di rivisitare continuamento il proprio sé genitoriale e il proprio stile educativo in modo flessibile.
Per stili genitoriali (il modo di essere di una persona come genitore), si intende l’insieme dei comportamenti educativi cioè il grado di vicinanza affettiva, di tolleranza e autonomia
concessa ai figli che variano in base a come le persone percepiscono la crescita e il ruolo del genitore nella formazione dei propri figli.
Alla fine degli anni Settanta, Diane Baumrind ha definito quattro dimensioni fondamentali alla base della genitorialità:
1. Controllo
2. Richieste di maturità
3. Chiarezza di comunicazione
4. Sollecitudine
La combinazione di queste dimensioni individua tre stili genitoriali.
• Lo stile autoritario: combina ad alti livelli di controllo e richieste, con bassi livelli di affettività e chiarezza nella comunicazione
• Lo stile permissivo: basato su alti livelli di accettazione e chiarezza nella comunicazione, ma adopera bassi livelli di controllo e richieste di maturità
• Lo stile autorevole: caratterizzato da livelli elevati in tutte le dimensioni ed è associato da Steinberg a maggiore efficacia nella genitorialità e nello sviluppo di maggiori
competenze strumentali in bambini e adolescenti
Lo stile genitoriale non costituisce un tratto invariante della personalità del genitore – dispone di una natura interattiva e contestuale che può essere influenzata dal contesto e da
fattori che riguardano il genitore stesso, ad esempio la propria storia di vita.
• Proprio per la sua natura molto complessa, la presa in carico della famiglia richiede un approccio multiprofessionale costituito da una équipe che coinvolga il bambino
e la coppia genitoriale. L’équipe multiprofessionale, grazie al bagaglio conoscitivo di ciascun operatore, consente una più ampia esplorazione della totalità psicologica,
socio-relazionale e affettiva del bambino e la sua famiglia. Il percorso di presa in carico comincia già con il percorso di assessment e la successiva formulazione
diagnostica, la quale richiede l’attenta costruzione di una buona relazione terapeutica tra l’operatore e tutti i membri del nucleo familiare. Si parla infatti di alleanza
terapeutica, la quale, se ben salda, porta ad una buona riuscita del percorso terapeutico. Essa è in primo luogo influenzata dalla percezione di accettazione, di
confidenza e di sensazioni positive nel corso di ciascun incontro. Un’altra caratteristica fondamentale è il grado di accordo sugli obiettivi del corso, che devono essere
condivisi e riformulati nel corso degli incontri. Infine, alla base di una buona alleanza terapeutica c’è la condivisione dei ruoli reciproci e delle strategie che verranno
utilizzate per raggiungere gli obiettivi.
La qualità di questa relazione risulta essere collegata non solo ai significativi cambiamenti nel bambino ma anche a un evidente incremento delle competenze genitoriali
e nella percezione dei miglioramenti nella situazione problematica da parte del genitore.
È quindi necessario facilitare la costruzione di un clima di condivisione emotiva e di rapporto collaborativo con i genitori, non giudicare o fare affermazione svalutanti nei
confronti dei genitori e verificare con la famiglia che non ci siano ostacoli o limitazioni alla partecipazione degli incontri.
Il percorso di assessment non dovrebbe rappresentare soltanto la mera raccolta di dati clinici finalizzata al raggiungimento di una diagnosi descrittiva, bensì una più
complessa analisi che consenta di giungere a un quadro esplicativo sul funzionamento generale, sui meccanismi di regolazione, sulla qualità delle relazioni e sulle
risorse familiari.

DALLA VALUTAZIONE ALLA COMUNICAZIONE DELLA DIAGNOSI


Obiettivo principale della valutazione è quello di giungere a una sintesi diagnostica co-funzionale complessa che consenta di conoscere le caratteristiche funzionali del bambino. Il
percorso di valutazione dovrebbe consentire ai genitori e successivamente agli operatori di leggere i sintomi o più in generale i comportamenti disfunzionali del bambino come una
manifestazione dei suoi bisogni emotivi e come un mezzo di mantenimento dello stato di relazione con gli adulti di riferimento del momento specifico.
Spesso la definizione del sintomo/problema è riportata dai familiari come qualcosa di poco coerente e integrabile nel funzionamento del bambino, la cui manifestazione appare
poco comprensibile, attribuibile a condizioni esterne. Uno strumento che può aiutare nella definizione può essere rappresentato dalle schede (schema) ABC: che guida il
genitore, attraverso una descrizione della situazione antecedente al comportamento problema, del comportamento problema e delle conseguenze dello stesso, in una
ridefinizione interna e funzionale del sintomo.
- La casella A “situazione” invita il genitore a riflettere sul contesto ambientare ed è utile a limitare le generalizzazioni che spesso riportano i genitori di fronte a un
sintono o a una situazione problematica – si aiuta quindi ad ancorare il sintomo al contesto.
- La casella B “comportamenti” aiuterà il genitore nella descrizione precisa del comportamento del bambino.
- La casella C “conseguenze” permette di soffermarsi sulle reazioni degli altri e dell’ambiente al comportamento.
Questo strumento non è rivolto solo ai genitori ma può essere utilizzato dagli insegnanti o dagli educatori grazie ai quali è possibile accedere ad altre
informazioni preziose per una corretta diagnosi e per una buona impostazione di un percorso di trattamento.
Esempio di scheda ABC
A - Situazione B - Comportamenti problematici C - Conseguenze
Dove? Quando? Con chi? Che cosa ha fatto/detto esattamente il bambino? Come hanno reagito al sintomo i presenti?
La comunicazione della diagnosi rappresenta un momento molto delicato e va comunicato con la massima attenzione e accuratezza, perché potrebbe costituire in sé una
potenziale barriera al coinvolgimento dei genitori nel successivo processo terapeutico. La reazione dei genitori a questa comunicazione può essere influenzata dagli stili di
regolazione emotiva specifici di ciascun genitore e a loro volta collegati ai modelli rappresentativi interni, ovvero quelle strutture schematiche di conoscenza e modelli mentali che si
formano a partire dalla propria storia di sviluppo.
• Per esempio, alcuni genitori potrebbero attivarsi intensamente e in maniera drammatica, altri invece potrebbero porsi in una posizione estremamente difensiva, che può variare
dalla negazione assoluta di qualsiasi difficoltà del loro bambino a un atteggiamento intensionale di sfida nei confronti degli operatori.
Una ricerca sui fattori che favoriscono la partecipazione dei genitori ai gruppi di Parent Training, suggerisce che, al di là delle caratteristiche e del sistema di credenze del genitore,
è il modo in cui il clinico negozia le varie possibilità di trattamento con i genitori all’inizio della terapia a influenzare in modo significativo la partecipazione – non è tanto il contenuto
delle informazioni che il clinico comunica alla famiglia a favorire una maggiore soddisfazione nella relazione terapeutica, ma il grado di accordo che viene raggiunto rispetto alle
cause del problema.
Purtroppo, nell’ambito degli interventi terapeutici e/o riabilitativi per i bambini può accadere che nella relazione con i genitori si condivida, anche in maniera non
intenzionale, il presupposto che le condotte problematiche del figlio siano una diretta conseguenza dei loro comportamenti e che siano loro stessi la causa dei
problemi del bambino. Quindi è necessario, al fine di promuovere un atteggiamento empatico verso il bambino, mantenere viva nella mente dell’operatore l’idea che ciò che
osserva nei comportamenti reciproci del bambino e dei genitori ha un valore funzionale e un significativo adattivo nel mantenere la loro relazione e lo svolgimento di eventuali
“compiti a casa” previsti nel percorso di trattamento.
.
PERCORSI DI SOSTEGNO ALLA GENITORIALITA’
La maggior parte degli interventi di sostegno alla genitorialita sono caratterizzati da un insieme diversificato di strategie volte ad aumentare la sensibilità genitore-bambino e a
modificare le rappresentazioni mentali che i genitori hanno costruito sulla base della propria storia di attaccamento infantile (che influiscono sulla qualità delle cure che danno al
bambino).
Il sostegno alla famiglia e alla genitorialità comprende una vasta gamma di azioni e di servizi che aiutano i genitori a sviluppare le competenze necessarie al compimento delle
proprie funzioni e che supportano i minori all’interno delle famiglie. Tali azioni variano da un sostegno generalizzato a tutti i genitori attraverso informazioni e consigli cosiddetti “a
bassa soglia” (es. sulle cure del neonato, sull’affiancamento ai compiti per casa, ecc..) sino a provvedimenti mirati e specialistici fatti per i soggetti più vulnerabili.
Tra gli interventi evidence-based di sostegno alla genitoralità il Parent Training è uno dei modelli maggiormente diffusi. È una forma di intervento in cui il terapeuta fornisce a un
gruppo di genitori, accomunati dall’esperienza di relazione con un figlio con problematiche specifiche, tecniche educative e di gestione delle situazioni problematiche. Questi
percorsi si propongono in generale di incrementare le abilità del genitore nella gestione quotidiana del figlio e nella soluzione dei problemi, riducendo così il livello di stress
genitoriale e familiare.
• I percorsi di Parent Training sono accomunati dall’utilizzo di specifiche tecniche di matrice cognitivo-comportamentale che si susseguono secondo uno schema
comune.
1. Ad esempio, usando il Modelling, cioè il terapeuta assume il ruolo del genitore mentre applica quella specifica tecnica,
2. o attraverso il Role-Playing, viene realizzata una rappresentazione di una possibile situazione problematica che si potrebbe verificare nel contesto familiare.
Tutti i programmi di Parent Training prevedono la compilazione di schede specifiche per monitorare l’andamento dell’esperienza pratica (homeworks).
Il Parent Training si svolge in gruppi chiusi di 5-6 coppie di genitori di figli con pari età e con problemi analoghi; può durare dai 10 ai 20 incontri con sedute di 1,5-2 ore a cadenza
settimanale o quindicinale.
In base all’età e alle difficoltà del bambino ci sono diverse tipologie di Parent Training (PT).
Vio, Marzocchi e Offredi (1999) hanno proposto un percorso di PT specifico per i genitori di bambini con ADHD con l’obiettivo di aiutare il genitore a conoscere e
accettare i comportamenti disfunzionali del figlio, analizzare i contenuti e le strategie della relazione educativa, individuare gli stili di comunicazione alternativi e le
tecniche assertive efficaci, trasmettere competenze genitoriali efficaci.
Due importanti programmi multimodali dei disturbi della condotta propongono interessanti modelli di PT:
• Coping Power Program è un protocollo di trattamento per i Disturbi dei Comportamento Dirompente e ha l’obiettivo di sviluppare nei genitori la tendenza a gratificare e
fornire attenzione positiva ai loro figli, stabilire regole chiare ed esprimere le aspettative sul comportamento del figlio, promuovere l’organizzazione e le abilità di studio,
utilizzare appropriate pratiche educative, modulare lo stress genitoriale e incrementare la comunicazione familiare.
• Incredible Years prevede tre percorsi di trattamento complementari rivolti ai genitori, insegnanti e bambini. Il PT è suddiviso per fasce di età e gli obiettivi sono fatti
apposta sulle necessità e i bisogni evolutivi tipici di ciascuna fase di sviluppo – includono la promozione di competenze attraverso la stimolazione della genitorialità
positiva, della relazione di attaccamento e dell’efficacia percepita del genitore nello svolgere il proprio ruolo.
Programmi di sostegno alla genitorialità basati sulla pratica di mindfulness:
- Mindfulness Parenting che si propone di aiutare i genitori a coltivare la presenza nella relazione con i figli, a prestare attenzione in maniera non giudicante, a gestire lo stress in
maniera diversa guardando e accettando la realtà così come è, diventando consapevoli delle proprie reazioni automatiche e di come questi schemi di reazione siano legati alla
propria esperienza
Programmi di intervento basati sulla teoria dell’attaccamento:
• Connect Parent Group è un programma rivolto ai genitori di adolescenti (12-18 anni) che manifestavano comportamenti disadattivi di varia natura, quali
comportamenti aggressivi, impulsivi, autolesivi, violenti e antisociali. Il trattamento è strutturato su specifici aspetti tematici della relazione genitore-figlio adolescente,
come l’empatia, il bisogno di autonomia e il conflitto. Il programma è a conduzione interattiva di giochi di ruolo, momenti di riflessione guidata e discussione
psicoeducativa.
• Circle of Security è un programma che si struttura in due fasi: l’assessment e l’intervento vero e proprio. Nella prima fase vengono analizzate le problematiche
specifiche del bambino e della relazione genitore-bambino. Nella seconda fase viene sostenuta la capacità riflessiva del genitore nella lettura del significato delle
dinamiche relazionali con il proprio figlio e da questa consapevolezza si potrà poi apprendere un nuovo modo di stare in relazione.
Programmi di intervento di sostegno alla genitorialità che prevedono tecniche di video feedback: questi interventi utilizzano videoriprese di interazione tra genitore-bambino.
Questi interventi permettono al genitore di cogliere la struttura di questi scambi e di costruire una conoscenza specifica delle dinamiche relazionali che possono essere alla base
della formazione e del mantenimento del disagio.
- VIPP è un programma che si articola in 7 visite domiciliari, durante le quali vengono effettuate delle brevi registrazioni di interazione tra genitore e bambino. L’intervento presenta
diverse versioni, con un range di età che oscilla dai 18 mesi a 5 anni.
Le videoriprese domiciliari, dopo un’attenta analisi da parte del terapeuta, vengono visionate e commentate insieme con il genitore. L’obiettivo è quello di promuovere la sensibilità
genitoriale, ossia la capacità del genitore di leggere i segnali di richiesta di attaccamento del bambino e di esplorazione e di rispondervi in maniera adeguata.
- WIMS-WP è un modello di lavoro sulle funzioni genitoriali che coinvolge la coppia genitoriale per indagare le dinamiche relazionali collegate ad aspetti di problematicità.

3. BILINGUISMO E MULTICULTURA
Il bilinguismo e il plurilinguismo sono una tematica che coinvolge molteplici discipline, tra cui l’entopsichiatria, le neuroscienze e la linguistica acquisizionale.
• L’etnopsichiatria è una branca della psichiatria chesi occupa dei disturbi con riferimento al contesto culturale e al gruppo etnico di appartenenza, descrivendo in particolare
aspetti legati alla comunicazione interculturale – alcune conoscenze di base sono indispensabili per comprendere nella loro globalità il bilinguismo e il plurilinguismo, intrecciati
con la pluriculturalità.
• Le neuroscienze apportano contenuti importanti che riguardano lo sviluppo del cervello bilingue ma anche elementi essenziali in relazione allo sviluppo tipico e atipico del
bambino multilingue.
• Cruciali sono anche gli studi di linguistica generale e linguistica acquisizionale la quale si occupa dei processi e delle fasi attraverso le quali viene appresa una nuova lingua.
LE DIMENSIONI DEL FENOMENO
Negli ultimi anni la richiesta di attenzione in ambito scolastico e l'accesso ai servizi sanitari di bambini di diversa età, bilingui e multilingui, sono notevolmente aumentati, in relazione
ai fenomeni di tipo migratorio che interessano globalmente l'intero pianeta.
Nel 2015 è stato registrato un aumento del disagio scolastico riferibile ai vari livelli di insuccesso all’interno del mondo dell’istruzione: i dati riportati e le trasformazioni
che vengono ipotizzate comportano necessità di conoscenze ed esperienze al riguardo – i fattori di esposizione alla cultura e alla lingua cambiano radicalmente a seconda del tipo
di fenomeno in atto.
I bambini stranieri inseriti nelle scuole, nati in Italia, rappresentano il 40% della presenza globale dei soggetti stranieri in età evolutiva e nei prossimi anni il numero sarà destinato a
diventare praticamente uguale oppure superiore a quello dei bambini residenti in Italia ma nati in un paese straniero.
È possibile affermare che il fattore di esposizione precoce alla lingua italiana determina risultati molto diversi rispetto a quello più tardivo in termini di maggiore o minore successo
scolastico. Sotto il profilo sociale e culturale, però, un altro fattore che necessità di riflessione è quello legato alla condivisione di interessi e conoscenze, visto che il 21,6% degli
alunni stranieri non frequenta i compagni di scuola, contro il 10% di quelli italiani che li frequentano, mentre il 14% frequenta solo compagni di scuola stranieri connazionali e non,
creando di fatto un rallentamento di acquisizione e condivisioni culturali, spesso indispensabili per una vera inclusione.
Le diverse eta alle quali è avvenuta l’acquisizione dell’italiano come seconda o terza lingua determinano il maggiore o minore insuccesso scolastico (anche se non ne
rappresentano l’unico fattore).
È possibile affermare che il fattore di esposizione precoce alla lingua italiana determina risultati molto diversi rispetto a quello più tardivo in termini di maggiore o minore successo
scolastico. Sotto il profilo sociale e culturale però un altro fattore che necessita di riflessione è quello legato alla condivisione di interessi e conoscenze, dato che il 21,6% degli
alunni stranieri non frequenta i compagni di scuola, contro il 10% di quelli italiani che li frequentano, mentre il 14% frequenta esclusivamente compagni di scuola connazionali e non,
creando di fatto un rallentamento di acquisizioni e condivisioni culturali, spesso indispensabili per una vera inclusione.

GLI ALUNNI E GLI STUDENTI STRANIERI NELLA REALTÀ SCOLASTICA E SANITARIA


La mancanza di solide conoscenze riguardanti il multilinguismo e la multiculturalità determina un clima di incertezza che ha accresciuto in modo considerevole l'invio
ai servizi sanitari di soggetti in età evolutiva da parte del mondo della scuola. In primo luogo, una fonte di grande insicurezza riguarda il modo di considerare lo sviluppo
linguistico del bilingue e il suo impatto sull'accesso all'istruzione. Spesso gli invii avvengono perché l'insegnante, non avendo punti di riferimento precisi su cosa aspettarsi circa le
abilità di linguaggio dell'alunno straniero, utilizza criteri individuali per decidere se sia trascorso o meno un tempo sufficiente da permettere un livello accettabile di prestazioni (i
criteri usati non riguardano spesso i fattori di esposizione reali bensì quelli presunti.
Per i soggetti nati in Italia, ad esempio, i fattori di esposizione all'italiano vengono dati per scontati, senza che avvenga una verifica, anche per tutti quei casi in cui, invece,
nonostante la nascita avvenuta nel nostro paese, l'esposizione all'italiano sia stato inesistente nei primi anni di vita oppure molto debole o molto tardiva. Per i soggetti nati in un altro
paese arrivati successivamente in Italia, gli insegnanti fanno ricorso a un tempo teorico, ritenuto sufficiente per acquisire l'italiano, spesso identificato in uno o due anni.
Inoltre, ci sono fattori come l'assente ricognizione circa la qualità dell'esposizione, che può essere molto bassa al di fuori del tempo trascorso a scuola, e la mancata
considerazione dei fattori che possono accelerare o rallentare l'acquisizione della seconda lingua, come ad esempio la maggiore o la minore vicinanza tra le lingue. Altri
elementi sono legati allo status socio-economico della sua famiglia oppure alla storia migratoria.
Gli invii da parte degli operatori scolastici agli operatori sanitari rappresentano spesso un ulteriore fattore di rischio per la salute di questi soggetti, in quanto, a sua volta, il mondo
della sanità potrebbe fornire risposte inadeguate o inappropriate, in quanto poco preparato ad affrontare il plurilinguismo e la multiculturalità. Il percorso valutativo cognitivo, quando
avviene a brevissima distanza dall’arrivo in Italia del bambino straniero, senza che si siano ancora avviati i processi significativi di esposizione alla lingua e alla cultura, può risultare
erroneo nei risultati in relazione alla distanza tra le diverse culture. La testistica può risultare poco idonea nei casi che richiederebbero valutazioni nel tempo che correlino le
prestazioni all’aumento dei fattori di esposizione. I percorsi di valutazione logopedica utilizzano a loro volta dati normativi di riferimento ricavati per i bambini italiano,
anche quando sarebbe indicato ottenere informazioni sulla lingua nativa. Molto frequentemente gli operatori usano test e prove tradotti dall’italiano in un’altra lingua,
non adattati e neppure revisionati secondo le diverse caratteristiche grammaticali.
Ne deriva che si creano situazioni inappropriate per la presa in carico riabilitativa.
I soggetti stranieri che frequentano la scuola e che possono trovarsi all'interno dei percorsi diagnostico-valutativi sanitari rappresentano un gruppo molto variegato, anche se ogni
gruppo è descrivibile secondo caratteristiche comuni importanti.
• Il primo gruppo di bambini stranieri che andiamo esaminare è quella dei soggetti che sono nati in Italia da genitori immigrati nel nostro paese in modo regolare ovvero con il
permesso di soggiorno. A seconda del tipo di esposizione che hanno ricevuto possono essere distinti in bilingui simultanei precoci, bilingui sequenziali o bilingui tardivi.
Definizione di soggetto bilingue o multilingue: acquisisce le varie lingue precocemente – usano più di una lingua nella vita di tutti i giorni, a prescindere dall’epoca di acquisizione.
A seconda di come variano i parametri di inclusione, possiamo distinguere:
• Bilinguismo effettivo e potenziale: due diverse situazioni in base alle quali esistono le possibilità ambientali perché l'individuo sviluppi più lingue, che non vengono in
realtà maturate a causa di fattori che intervengono nel corso dello sviluppo
• Bilinguismo additivo: si realizza quando lo sviluppo della seconda lingua non avviene a discapito della prima lingua
• Bilinguismo sottrattivo: l'acquisizione della seconda lingua si verifica a spese della prima lingua
• Bilinguismo equilibrato: L1 e L2 mostrano gli stessi livelli
• Bilinguismo dominante e minoritario
• Bilinguismo simultaneo precoce: soggetto viene esposto contemporaneamente a due o più lingue nella fascia di età compresa tra 0 e 3 anni.
• Bilinguismo simultaneo consecutivo o sequenziale: la seconda lingua viene introdotta nella fascia di età compresa tra i 3 e i 6 anni
• Bilinguismo tardivo: soggetto esposto alla seconda lingua dopo i 6-8 anni
• Bilinguismo sbilanciato: dovuto alla “fobia della prima lingua”, credenza dei genitori stranieri che lo sviluppo della lingua madre sia nocivo per un buon apprendimento
della lingua italiana – L1 nativa, che diventa di fatto L2 minoritaria – a volte questo meccanismo prodotto produce un mancato bilinguismo, noto come monolinguismo
sottrattivo
Per i bambini nati in Italia da genitori stranieri la situazione potrebbe essere molto variabile:
• Bambino nato in Italia ed esposto precocemente alla L1 della madre e alla L2 del padre in modo equilibrato rispetto alla L3 italiana del nido nel quale viene
inserito precocemente – si sviluppo un plurilinguismo precoce simultaneo
• Bambino nato in Italia che si trova a contatto con la sola lingua della madre nei suoi primi anni di vita, sviluppando essenzialmente una L1 maggioritaria
rispetto alla L2 del padre (alla quale viene esposto poco durante la giornata) e con nessun sviluppo di una L3 italiana, dato che non avvengono contatti fino
ai 3 anni – l’esposizione all’italiano, che avviene dopo tale età, realizzerebbe un bilinguismo sequenziale
• Bambino nato in Italia viene inserito direttamente nella Scuola Primaria (quindi a 6 anni) con scarsissimi o inesistenti contatti con l’italiano precedenti,
realizzando quindi una situazione di bilinguismo tardivo (nonostante la nascita in Italia)
• Bambino nato in Italia viene inserito nel Nido molto precocemente per un numero di ore molto altro durante la giornata – la L1 diventa di fatto l’italiano e la
L2, spesso poco utilizzata, la lingua dei genitori
• Bambino italiano (nato in Italia da genitori italiani) viene esposto per scelta familiare a una lingua diversa dall’italiano mediante l’inserimento in appositi asili o
scuole, magari con il rinforzo della baby-sitter, con il desiderio di creare competenze utili per il futuro – si crea in tal caso una situazione anomala di
bilinguismo minoritario per l’italiano e maggioritario per l’altra lingua.
La descrizione della biografia linguistica del bambino è quindi indispensabile per definire la tipologia di bilinguismo.
• Il secondo gruppo di soggetti esposti all'italiano è rappresentato dai bambini nati in un altro paese ed emigrati successivamente in Italia. Potremmo trovare situazioni di
bilinguismo simultaneo consecutivo o sequenziale o anche di bilinguismo tardivo a seconda dell’età di arrivo nel nostro paese. A seconda della storia migratoria della famiglia
possiamo trovarci di fronte a un plurilinguismo piuttosto composito, con diversi livelli di abilità.
• Un terzo gruppo di soggetti potenzialmente bilingui è rappresentato dai minori che sono rimasti nel paese di origine senza genitori, immigrati in Italia, quasi sempre per motivi di
lavoro. Alcune volte questi bambini si ricongiungono alla famiglia dopo alcuni anni e sono esposti all'italiano in momenti diversi della loro evoluzione. Anche questi soggetti
richiedono un accurato esame della biografia linguistica.
• Un quarto gruppo è quello dei bambini nati in un altro paese, presenti in Italia, con i genitori che sono immigrati non regolari. Di norma non appaiono numericamente molti
all’interno della scuola e della sanità perché i genitori non possiedono le caratteristiche di regolarità necessarie a una piena socialità. Il loro sviluppo della lingua italiana può
essere influenzato in modo importante, rispetto agli altri gruppi, da fattori di attrattività piuttosto che da quelli di repulsione. Per alcuni l'arrivo in Italia rappresenta un forte fattore
di accelerazione dell'acquisizione della L2, in quanto molto attrattiva, perché il nuovo paese e la nuova lingua vengono investiti di connotati positivi, legati al senso di
sopravvivenza rispetto alla guerra, al pericolo di vita in generale e alla tortura. In altri casi invece il processo di acquisizione potrebbe essere rallentato qualora il nuovo paese
una nuova lingua assumono un valore di tipo repulsivo, in quanto legati all'obbligo e non alla scelta di aver dovuto abbandonare il paese di appartenenza.
Il gruppo di bambini che arrivano in Italia mediante l’adozione internazionali presenta linee di sviluppo della lingua diverse tra loro. La maggior parte dei bambini perde
di fatto le abilità maturate nella lingua madre e diventa monolingue italiano – in una piccola percentuale di così i genitori adottivi italiani creano le condizioni per evitare
tale perdita.
Emerge come sia indispensabile per gli operatori scolastici e sanitari possedere conoscenze utili a evitare l’attribuzione di alcune linee di sviluppo normali in presenza di disturbi di
sviluppo. Tale appropriatezza di intervento necessita l’acquisizione di nuove conoscenze, diverse da quelle possedute in relazione al bambino monolingue anche alla luce del fatto
che i fenomeni migratori in atto e quelli futuri impongono nuovi atteggiamenti culturali e operativi.

LA COMUNICAZIONE CON I BAMBINI STRANIERI


La comunicazione ha un ruolo importante nel rapporto con i bambini stranieri e le loro famiglie. Alcuni problemi comunicativi sono legati alla lingua, in quanto non tutti gli
elementi appartenenti a una determinata lingua sono traducibili in un'altra.
• L'intraducibilità da una lingua all'altra è riferibile alle differenze di concetti, di esperienze e di vissuti esistenti fra le varie lingue – ad esempio il termine cronico riferito ad una
malattia acquisisce un peso differente in base alla sanità pubblica offerta dal Paese di appartenenza. Può succedere, quindi, che si generino equivoci e conflitti legati alla
comunicazione interculturale, laddove non si tiene conto di questi aspetti caratterizzati da reazioni emotive, ritenute esagerate da parte dei sanitari del Paese di accoglienza
che non trovano spiegazioni logiche alla sproporzione tra il messaggio prodotto e il comportamento reattivo delle persone straniere.
• Un'altra fonte di conflitto può essere rappresentata dalla pragmatica del linguaggio. Un esempio è rappresentato dalla pragmatica linguistica di alcune culture orientali,
all'interno delle quali è ritenuto del tutto in accettabile socialmente, all'interno di una conversazione anche tra conoscenti, affrontare immediatamente il motivo dell'incontro e
della conversazione stessa.
• Anche le differenze relative alla comunicazione non verbale non devono essere sottovalutate. Se prendiamo il gesto del no e del sì, ad esempio, in alcune popolazioni slave
esprimono significato inverso.
• Anche il valore del contatto oculare non può essere dato per scontato nelle varie culture – in quella giapponese può essere interpretato come un elemento di sfida o
maleducazione invece che come segnale di attenzione.
Tutto ciò determina la necessità di non dare per scontata la condivisione immediata degli elementi pragmatici, prossemici, gestuali, mimici e linguistico-verbali, nel caso dell'incontro
tra le culture e di non credere che una buona comunicazione dipenda essenzialmente da una buona traduzione da una lingua all’altra.
La soluzione ottimale sarebbe quella di affrontare un percorso di formazione interculturale completo ed esaustivo, cosa che avviene spesso in maniera ridotta, ma è
comunque possibile adottare una serie di strategie: ad esempio quelle che prevedono la sospensione del giudizio, l’ascolto attivo e l’uso sistematico di feedback, spiegare cosa
significa un determinato comportamento nella propria cultura e chiedere cosa rappresenta invece nell’altra – altre possono essere lo sviluppo delle abilità personali legate
all’atteggiamento (come l’empatia) e l’assunzione di informazioni sull’altra cultura.
Per facilitare l’accesso rapido alle informazioni è stata istituita la Mappa della Comunicazione Interculturale nata con l’obiettivo di fornire informazioni rapide all’utente che la
consulta sugli aspetti culturali che potrebbero creare difficolta all’interno della comunicazione interculturale.
LO SVILUPPO MULTILINGUE
Lo sviluppo delle lingue nella persona che ne sta acquisendo due o più di due nello stesso momento, quindi nella fascia di età tra 0 e 3 anni, non avviene mediante la semplice
somma della prima lingua con la seconda lingua oppure utilizzando forme di traduzione in senso stretto da una lingua all'altra. Nel corso dell'esposizione delle lingue, vengono
attivate aree diverse del cervello connesse tra di loro. Lo sviluppo bilingue o multilingue crea una rappresentazione mentale delle varie lingue in aree contigue, ma in
gran parte diverse.
1. Sul versante psicologico, invece, la struttura della persona bilingue o multilingue prevede uno sviluppo di tipo integrativo, all'interno del quale sono presenti tutti gli
elementi culturali ai quali afferiscono quelli relativi alle lingue che ne esprimono la sostanza e la forma. Se tale sviluppo armonico non avviene, si possono presentare
disarmonie di natura psicologica, che possono esprimersi in rifiuti di una delle due culture, con il massimo investimento e la citazione di una sola delle due. Si possono
osservare rallentamenti o eliminazione di una delle lingue.
In alcuni adolescenti bilingui, si rileva la scelta disarmonica di adottare solamente la cultura e la lingua italiana, laddove la prima lingua si è ritenuta fonte di imbarazzo o
vergogna. In altri casi accade il contrario, il bambino rifiuta di fatto la cultura diversa rispetto a quella di origine rallentando in modo vistoso l'acquisizione della L2
italiana, in quanto ritenuta estranea e in qualche modo nemica. In questi casi l'inclusione dei bambini nella società italiana può rilevarsi molto problematica.
2. Il versante cognitivo può essere influenzato da fattori culturali – gli studi dimostrano come esistano differenze tra le diverse culture in relazione alla classificazione degli
oggetti, alla fluidità e al problem solving, alla flessibilità a posizionale – studi documentano la presenza di differenze anche a livello motorio e persino per i colori.
Fin dall’epoca gestazionale, l’esposizione ai suoni di lingue diverse crea una flessibilità del tutto particolare a livello discriminativo, che rimane una caratteristica
peculiare dei soggettibilingui: sono potenzialmente e spesso facilitati in senso generale nell’acquisizione di ulteriori lingue.
3. Le ricerche condotte in ambito neurologico dimostrano come la rappresentazione delle lingue in aree cerebrali diverse ma contigue rappresenti una fonte di forte
stimolazione cerebrale.
Alcune ricerche hanno concluso che maggiore è il numero delle lingue conosciute e precocemente acquisite, maggiore è la flessibilità cognitiva generale. Altre ricerche
hanno concluso che maggiore è il numero di lingue, maggiore è il livello di flessibilità cognitiva.
- Lo sviluppo dell'lessico e della morfosintassi non avviene per traduzione da una lingua all'altra, bensì come sviluppo separato seguendo traiettorie diverse correlate
alle singole lingue per quanto riguarda la pragmatica, il lessico e la morfosintassi (=studio delle regole che stanno alla base della produzione linguistica di parole e
frasi).
- L'acquisizione della fonetica della seconda lingua, quando avvenga tra gli 8 e i 20 anni, è considerata relativamente buona, ma progressivamente peggiore ma mano
che ci si avvicina all'età di 20 anni. L'acquisizione della seconda lingua dopo il 20 anni appare marcata ad accento straniero, maggiore o minore, ma comunque
presente.
- L'acquisizione bilingue viene descritta come una condizione di vantaggio e quindi una risorsa aggiuntiva che rende la popolazione bilingue è dotata di possibilità
cognitive e di apprendimento particolari e durature.
Occorre tener presente che i bambini monolingui e plurilingui possono avere profili di sviluppo molto diversi tra di loro. Il bilinguismo o il plurilinguismo non sembrano rappresentare
un fattore negativo o di svantaggio per lo sviluppo linguistico nelle varie lingue, mentre esistono evidenze sulla negatività del monolinguismo sottrattiva, ovvero per quella condizione
che vede l'acquisizione di una lingua a venire a totale discapito di un'altra.
Occorre tenere presente che esistono cruciali differenze tra chi acquisisce le lingue simultaneamente e precocemente, rispetto a chi li acquisisce consecutivamente; nella seconda
condizione possono presentarsi e ritardi di acquisizione delle diverse competenze e occorre, pertanto, che queste differenze siano note, visto che la mancata conoscenza dei profili
diversi tra bilingui simultanei e bilingui sequenziali potrebbe generare un in appropriato dubbio di presenza di disturbo linguistico. Dagli studi emerge che il lessico dei bambini
bilingui non sembra differire da quello dei monolingui, tuttavia risulta spesso meno ampio se conteggiato separatamente per ogni lingua.
Lo sviluppo bilingue atipico
Risulta chiaro che nei genitori dovrebbe essere incoraggiato un atteggiamento che abbia come obiettivo il bilinguismo precoce per la fascia tra 0 e 3 anni e il bilinguismo più
possibile bilanciato per i bilingui sequenziali e tardivi. Non dovrebbe essere praticato il bilinguismo sottrattivo e il monolinguismo sottrattivo.
• Un altro gruppo di studi si è occupato di definire se la condizione di bilinguismo e plurilinguismo rappresenti una situazione sfavorevole nel caso dello sviluppo
atipico.
Nei bambini sordi e portatori di impianto cocleare sono stati studiati i fattori che possono determinare rallentamenti nello sviluppo del linguaggio, cercando di comprendere il
ruolo del bilinguismo. Le evidenze dimostrano che il grado di successo o insuccesso per quanto riguarda lo sviluppo linguistico è ascrivibile ai fattori elencati in modo uguale tra
bambini monolingui e bambini bilingui. Per quanto riguarda i bambini con Disturbo Primario di Linguaggio le evidenze dimostrano come i bambini bilingui presentino abilità del
tutto in linea con quelle dei bambini monolingui con analogo disturbo del linguaggio. Si può concludere che il bilinguismo non rappresenta un fattore negativo neanche per lo
sviluppo atipico e che anzi tale fattore negativo sia rappresentato semmai dal monolinguismo.
La conclusione generale è che i confronti fatti tra i bambini monolingui tipici e i bambini bilingui con disturbo dello sviluppo non siano idonei a rappresentare la situazione e che sia
necessario scegliere eventualmente studi che mettono a confronto bambini monolingui e bilingui che presentano lo stesso disturbo dello sviluppo.
I fattori di esposizione alle diverse lingue sono cruciali per lo sviluppo del bilinguismo. Possono essere riassunti nel seguente elenco:
1. l’epoca di esposizione alle lingue, sono già state descritte le caratteristiche che dividono i soggetti bilingui simultanei dai sequenziali e dai tardivi
2. la qualità delle lingue per le quali avviene l’esposizione, una buona esposizione prevede che vengano acquisite mediante l’interazione con i parlanti nativi – questa
indicazione spesso non viene considerata quando per esempio si indica ai genitori stranieri (che possono presentare livelli molto diversi tra loro e a volte quasi inesistenti di
abilità nell’italiano) di parlare al bambino sempre in italiano
3. i tempi e le forme dell'esposizione alle lingue, quantità giornaliera di ore
4. gli effetti positivi o negativi di trasferimento tra le lingue, sono gli effetti legati alla maggiore o minore vicinanza tra le lingue alle quali li bambino viene esposto – un effetto
generale negativo è legato al transfer delle lingue tonali a quelle fonematiche e viceversa. Il trasferimento linguistico (interferenza linguistica o trans-linguistica) è
rappresentato dall’effetto della lingua madre sulla produzione di una seconda lingua. Le lingue tonali sono caratterizzate dalla determinazione del significato data dalla
variazione di tono prodotta dalla laringe (come il cinese). Le lingue fonematiche vengono invece prodotte mediante la combinazione di un numero variabile di fonemi e il
significato è legato alla variazione di questi fonemi.
L'epoca di esposizione riguarda i soggetti bilingui simultanei, sequenziali o tardivi. Una buona esposizione alle lingue prevede che queste vengano acquisite mediante
l'interazione con i parlanti nativi per ciascuna lingua.
Un altro fattore di esposizione importante è legato alla quantità giornaliera in termini di ore, stimabili come percentuale quotidiana. Il minimo ritenuto indispensabile per una buona
esposizione alla lingua è stimato al 60% delle ore della giornata. Esistono poi gli effetti favorevoli o sfavorevoli legati alla maggiore o minore vicinanza tra le lingue alle quali il
bambino viene esposto, e questo risulta particolarmente importante per i bilingui sequenziali e soprattutto per i bilingui tardivi.
Il bambino bilingue e l’apprendimento
L'apprendimento della lettoscrittura negli alunni bilingui è condizionato da molteplici fattori visto che possono presentare una tipologia di bilinguismo variabile. Un primo fattore è
legato alla
1. maggiore trasparenza e opacità della lingua scritta, ovvero a una maggiore o minore corrispondenza tra gli aspetti fonemici e quindi grafemici.
2. Un secondo fattore è legato alle differenze tra i fattori predittivi studiati per il monolingue rispetto al bilingue.
3. La comprensione del testo appare fortemente correlata alle abilità linguistiche generali, in modo particolare per l’italiano, e rappresenta un’area di fragilità dei bambini
bilingui in relazione alla comprensione orale della L2 (varia da alunno ad alunno).
Visto il ruolo cruciale svolto dalle abilità linguistiche maturate nella L1 e nella L2 anche in rapporto tra loro sono utili alcune valutazioni al momento dell’ingresso nella scuola
primaria, al fine di identificare eventuali aree da potenziare così da prevenire il rallentamento delle acquisizioni necessarie alla comprensione del testo scritto legate alla
comprensione del testo orale.

LA VALUTAZIONE DEL BAMBINI BILINGUE E PLURILINGUE


La valutazione linguistica di un bambino bilingue o plurilingue appare caratterizzata dalla necessità di utilizzare prassi e strumenti sostanzialmente diversi rispetto a
quelli comunemente indicati per il bambino monolingue. La raccomandazione sempre presente riguarda la necessità di eseguire ricognizioni, effettuare valutazioni in tutte le
lingue alle quali il bambino sia stato esposto e per le quali esistano i presupposti minimi per identificare lo status di bilingue o multilingue.
1. La raccolta amnestica deve contenere oltre che agli elementi standard riguardanti lo stato di salute pregresso anche tutti quelli necessari a identificare le caratteristiche
particolare dello status di bilinguismo. Vengono prese in esame le biografie linguistiche, non solo del bambino, ma anche dei genitori, e in alcuni casi si chiede ai genitori
un'autovalutazione rispetto alla conoscenza della lingua italiana. La biografia linguistica dei genitori ed eventualmente dei fratelli consente di definire quale contributo possa
portare la famiglia nel percorso di sviluppo linguistico del bambino sia in L1 che in L2. Dati come il livello di istruzione maturato nel luogo di origine, insieme allo status
economico, sia al momento della migrazione sia al momento della consultazione clinica che al momento della scolarizzazione, sono in grado di far comprendere il rapporto
tra lo sviluppo linguistico e lo status socio-economico e anche quale sia il tipo di fattore propulsivo, rispetto all’acquisizione linguistica del figlio, maturato dai suoi genitori.
Molto spesso la popolazione immigrata si caratterizza per la divergenza tra due aspetti: a dispetto di un livello socio-economico spesso basso, il numero di anni di istruzione dei
genitori spesso è molto alto e nel paese di origine sono stati maturati titoli di studio legati all'istruzione superiore.
- Un secondo elemento importante è rappresentato dalla storia migratoria della famiglia, che fornisce sia i dati di natura culturale e linguistica riguardanti i fattori di attrazione
e di repulsione rispetto al paese di accoglienza, sia quelli legati a livello di stress da transculturazione: viene descritto in etnopsichiatria come la sensazione di sradicamento
che la migrazione inevitabilmente comporta – è costituito da fattori diversi variamente combinati tra di loro come il sesso, l'età, il bagaglio culturale, le esperienze e i fattori
sociali, le variabili che hanno operato durante la migrazione, come l'ansia legata a cambiamento, e infine le variabili che operano dopo la migrazione, quali l'atteggiamento
dell'ambiente nei confronti dell'immigrato.
I fattori di rischio psicopatologico descritti dall'etnopsichiatria riguardano la perdita dei legami parentali e amicali, della lingua, della cultura di origine, dello stato sociale e del
paesaggio, come simbolo della propria terra. Anche quello che interviene nelle varie fasi successive alla migrazione determina maggiori o minori rischi psicopatologici, quali quelli
legati al fallimento o alla minaccia di fallimento del progetto migratorio.
Tutti questi elementi sono in grado di influenzare lo sviluppo emotivo, cognitivo, sociale e linguistico dei bambini bilingui, laddove il bilinguismo sia legato a effetti migratori.
- Un terzo elemento strettamente collegato alla storia migratoria è rappresentato dal progetto migratorio. Molti genitori stranieri hanno affrontato lo stress da transculturazione
spinti dal desiderio di assicurare un futuro migliore ai propri figli. Questo progetto potrà riflettersi sulle scelte linguistiche o sullo strutturarsi della fobia della prima lingua,
ritenuta un ostacolo al progetto stesso.
2. Il secondo passo necessario è definire il tipo di bilinguismo del bambino. A questo livello è già possibile intravedere quale possa essere la situazione, soprattutto rispetto
al quesito se il bambino sia un apprendente la L2 oppure un soggetto con disturbo linguistico, in quanto il disturbo del linguaggio è presente prima di tutto nella lingua madre
e a seguire in tutte le lingue conosciute dal bambino. Per effettuare la valutazione nelle due lingue, la letteratura indica diverse possibilità come l’utilizzo di un
logopedista bilingue, l’utilizzo di un mediatore culturale o di un mediatore linguistico oppure la possibilità di usare il genitore, un fratello, un parente o un
membro della comunità se sufficientemente competenti nelle due lingue.
La collaborazione della famiglia per la valutazione è importante. La letteratura indica possibile la collaborazione di fratelli più grandi anche se controindicato perché in molti casi i
bambini figli di genitori stranieri nati in Italia diventano ottimi bilingui (contrariamente a quando accade ai genitori, per vari motivi): ne nasce un vincolo di dipendenza dei genitori
stranieri dai loro figli che produce una serie di effetti negativi, quali il sovvertimento gerarchico all’interno della famiglia in termini educativi. Sembra quasi che utilizzando il potere
dato dalla buona acquisizione della seconda lingua, i ragazzi che parlano bene italiano in famiglie nelle quali loro genitori non lo sanno fare, acquisiscano psicologicamente una
sorta di dominio sui genitori stessi, finendo per non riconoscerne più, in parte o in tutto, l'autorità e il potere culturale.
Per quanto riguarda i parenti o membri di una comunita occorre che sia presente la manifesta volontà da parte dei genitori stranieri di accettare la mediazione: spesso
manca la fiducia da parte del genitore intervistato e questo causa difficoltà – inoltre possono presentarsi sentimenti come la vergogna o atteggiamenti come eccesso di
riservatezza se il colloquio avviene in presenza o con l’aiuto di un parlante nativo, nonostante sia un parente o un amico.
- Il mediatore linguistico è l'operatore che normalmente si occupa delle traduzioni da una lingua all'altra ed è di solito non proviene da una formazione specifica, è
semplicemente un parlante in L1 che ha acquisito buone competenze in L2 italiana – viene spesso utilizzato nelle scuole come supporto all’alunno per poter seguire le
spiegazioni orali e scritte.
- Il mediatore culturale è invece in grado di fornire una consulenza e informazioni importanti circa la cultura di appartenenza, le abitudini e il background culturale degli utenti
che sta aiutando – di norma ha seguito un percorso formativo e possiede un livello elevato di competenze anche nella L2. Le funzioni di questo operatore deve svolgere
comprendono i colloqui con i genitori e il supporto alla valutazione del bambino nella L1.
Alcune volte sono gli operatori italiani a nutrire perplessità circa l’operazione di mediazione culturale e linguistica, in quanto esiste sempre un dubbio circa la possibilità che il
mediatore manipoli in qualche modo le informazioni o sovrastimi alcune risposte – questo rischio esiste ma in relazione ad alcune informazioni sulla famiglia o sul bambino che
potrebbero essere giudicate dal mediatore come risposte poco accettabili. Il rimedio più efficace sono la quantità e la qualità delle spiegazioni che l’operatore italiano investe nella
preparazione alla mediazione.
I sospetti di una traduzione manipolata sono spesso infondati, quando si basano sul preconcetto che la traduzione si attui attraverso la corrispondenza del numero di elementi e la
lunghezza del parlato, nel passaggio da una lingua all’altra.
Ulteriore passo importante per la valutazione dei bambini bilingui è la somministrazione di prove e test. È ottimale l’uso di test tarati sulla popolazione bilingue, utilizzando le
versioni disponibili per le varie coppie di lingue.
Le differenze tra le lingue sono veramente molte, sul piano pragmatico, lessicale, morfosintattico, fonologico, e pertanto alcune strutture sono assenti nella L1 non perché esiste un
disturbo ma perché quella lingua non le prevede.
• La regola del divieto di traduzione diretta dei test è estesa in modo ancora più netto a quella dell’utilizzo dei dati normativi studiati per una popolazione monolingue. Per
i casi in cui non siano disponibili test e prove tarate o standardizzate per una determinata popolazione bilingue, si raccomanda l’adozione di un’osservazione longitudinale
dinamica.
• La valutazione dinamica si basa sui passi dell’osservare, stimolare e osservare nuovamente.
Il presupposto di base è che il bambino bilingue, che abbia ricevuto una bassa esposizione alla L2, migliori le proprie abilità nel tempo, proporzionalmente all'aumento
dell'esposizione in L2, mentre il bambino affetto da Disturbo del Linguaggio, oltre a presentare scarse abilità nei vari domini della L1, non sia così modificabile di fronte a un
generico potenziamento dell'esposizione alla lingua. Questa strategia valutativa viene indicata come quella più appropriata nel caso dei bambini bilingui e plurilingui.
Un dato importante da rilevare è la presenza del code-mixing e del code-switching.
1. Il code-mixing è caratterizzato dalla mescolanza tra le due lingue durante la produzione. È stato dimostrato che questo non rappresenta una confusione tra le lingue bensì
una strategia nello sviluppo del bilingue apprendente la L2: appare molto utile in quanto permette al bambino di proseguire con la comunicazione, utilizzando momento per
momento i punti di forza di una lingua o dell'altra per colmare lacune lessicali nella L2, cosa che il bambino che sta sviluppando invece un monolinguismo sottrattivo non può
fare.
2. Il code-switching rappresenta quel fenomeno per cui una lingua viene utilizzata in modo esclusivo per comprendere e l'altra per produrre, oppure una lingua viene scelta
per esprimere determinati concetti e l'altra per esprimerne altri, in quanto ritenuta maggiormente efficace. Questa alternanza tra le lingue è indice di buone competenze in L1
e L2, dato che il bambino con sviluppo atipico non possiede questo livello di utilizzo delle lingue.
È necessario conoscere le caratteristiche dell’interlingua che può essere definita come la forma di passaggio maturativo, tipica dell’apprendente la L2.
La valutazione linguistica dei bambini bilingui che afferiscono ai servizio per un sospetto disturbo del linguaggio, prevede una prassi piuttosto articolata, all’interno della quale
occorre un’integrazione tra i dati: risultano necessari per verificare i fattori di esclusione e inclusine per Disturbi di Linguaggio nei bambini bilingui, che corrispondono solo in parte a
quelli descritti per il monolingue. I fattori di esclusione sono rappresentati dalla presenza di buone competenze nella L1 rispetto alla L2, di difficoltà cognitive, di fattori di
esposizione scarsi o assenti, di strategie acquisizionali. I fattori di esclusione prevedono la presenza di fattori di rischio, di scarsa risposta alla stimolazione e di scarse
competenze nella L1 o nella L2.
4. PREMATURITA'
Con il termine prematurita ci riferiamo a una condizione di nascita che anticipa l’età attesa del parto, tipicamente corrispondente a un’età gestazionale (EG) tra le 38 e le 41
settimane.
Questa condizione si associa ad un rischio neuroevolutivo correlato al grado di prematurità e alla presenza di altre condizioni cliniche pre, peri e post-natali. I progressi tecnologici e
farmacologici hanno permesso di aumentare significativamente il tasso di sopravvivenza anche nei nati con estrema prematurità.
Inoltre, la prematurità è intesa come una condizione familiare che richiede una risposta family-centered.
DATI EPISTEMOLOGICI, CLASSIFICAZIONI E DIAGNOSI DIFFERENZIALE
L’OMS stabilisce un’età gestazionale (EG) di 37 settimane come soglia di definizione di nascita pretermine. Circa 15 milioni di neonati pretermine nascono ogni anno.
• L'EG indica il livello di maturazione fisica e neurologica e consente di differenziare i nati lievemente pretermine o quasi a termine (36-64 sett.), i moderatamente pretermine
(33-32 sett.), i nati molto pretermine (31-28 sett.), i nati estremamente pretermine (< 28 sett.).
• Altro importante criterio di gravità è il peso neonatale, il quale distingue i neonati di peso basso (< 200 g), di peso molto basso (< 1500 g) e di peso estremamente
basso (< 1000 g).
Ci sono molti fattori di rischio per una nascita pretermine, tra i quali troviamo l'età materna avanzata, precedenti parti pretermine, svantaggi socio-economici o socio-culturali,
problemi di salute della madre o di problematiche placentari condizione di gemellarità, problematiche del feto, eventi esterni che richiedono una nascita anticipata indotta per evitare
rischi per la salute della madre e del bambino (traumi, infezioni, patologie materne croniche).
Le complicanze della nascita pretermine rappresentano una delle principali cause di mortalità e morbilità (= freq % di una malattia nella popolazione) nella prima infanzia.
Per quanto riguarda l’outcome neuroevolutivo del bambino includiamo fattori quali l’età gestazionale e il livello di prematurità, il peso alla nascita e indici di crescita prenatali e
post-natali, il sesso del bambino (maggiore vulnerabilità dei maschi in caso di maggiore prematurità), la tipologia e severità di eventuali danni neurologici e l’indice di Apgar
(strumento utile per valutare le condizioni di salute del neonato alla nascita).
Crescente importanza viene data ai fattori ambientali quali il livello socio-economico della famiglia, la modalità di parenting, i programmi di presa in carico ed
intervento precoce.
Particolare attenzione va posta al calcolo dell’eta del bambino pretermine che nei primi due anni viene solitamente definita non sulla base dell’età cronologica ma sulla base
dell’età corretta, ovvero l’età calcolata a partire dalla data presunta del parto.
In funzione delle caratteristiche neurobiologiche e neurofunzionali, la suddivisione in sottogruppi distinti offre utili cornici di riferimento nella definizione di programmi di follow-up e di
intervento. Numerosi studi si focalizzano su popolazioni estremamente o molto pretermine considerate ad alto rischio neuroevolutivo.
Nell'ottica di diagnosi differenziale però, bisogna ricordare che la prematurità non rappresenta di per sé una patologia, ma una condizione di rischio neuro-evolutivo e che pertanto
necessità di follow-up longitudinali ben strutturati e tarati su grado e tipologia di rischio. (Diagnosi referenziale: processo decisionale di definizione diagnostica che si basa
sull'analisi dei segni e dei sintomi del paziente – grazie alla lettura di dati strumentali e funzionali, è possibile arrivare a una definizione e categorizzazione della problematica clinica
escludendo condizioni simili)
4.2 LA TERAPIA INTENSIVA NEONATALE: QUANDO TUTTO INIZIA PRIMA
Oltre a rappresentare una condizione di rischio neuro-evolutivo, la nascita pretermine rappresenta un evento molto traumatico, con ricadute multiple sia su aspetti neuro-biologici
che affettivo-relazionale del bambino e della famiglia, sia sull'interazione precoce bambino-genitori.

IL BAMBINO PRETERMINE (FOCUS SUL BAMBINO)


La nascita pretermine avviene in un periodo critico legato al rapido sviluppo del sistema nervoso che, ancora fortemente immaturo, si trova ad essere esposto alle
stimolazioni invasive e spesso dolorose dell’ambiente extra-uterino che interagiscono con fattori neurobiologici nella definizione delle traiettorie di sviluppo.
- Essa interrompe improvvisamente i fisiologici processi maturativi prenatali che coinvolgono la crescita degli organi del corpo, del sistema nervoso, dell'organizzazione del ciclo
sonno-veglia, dei sistemi sensoriali e motori, e il continuo della crescita viene affidato alle incubatrici presenti nei reparti di Terapia Intensiva Neonatale (TIN), ambiente
artificiale e fortemente medicalizzato.
- Il rischio neuroevolutivo nei neonati pretermine dipende in primo luogo dal livello di immaturità e dalle co-complicanze mediche. Su questa generale condizione di rischio
biologico, agiscono i fattori di rischio ambientale: nell’incubatrice vengono a mancare le stimolazioni prenatali ritmiche, il continuo contatto con il corpo materno, l’esperienza
arriva del proprio corpo – si aggiungono invece frequenti e intense stimolazioni visive ed acustiche, vincoli al movimento, procedure mediche invasive o che interferiscono con i
processi di stabilizzazione funzionale e nell’organizzazione sonno-veglia con aumento della condizione di stress del neonato.
Come ambiente sociale, sono sempre le caratteristiche della TIN a isolare e proteggere la vulnerabilità del neonato, condizionando le primissime relazioni madre-bambino, i primi
processi di co-regolazione sensoriale-affettiva in risposta allo stress e di stabilizzazione/organizzazione di stati comportamentali e intersoggettivi basati su esperienze di responsività
e sintonizzazione affettiva.
La necessità di prolungare la degenza per persistenze instabilità neonatale o per l’insorgenza di complicanze incide fortemente sulla quantità e qualità delle
stimolazioni fisiche e sociali, legate all’ambiente o alla relazione, in un periodo di elevata plasticità.
Limitazioni successive alla dimissione unite ai programmi di follow-up (percorso periodico e programmato di monitoraggio e controllo dello sviluppo, attivato in condizioni cliniche o
di rischio neuroevolutivo) neonatologico e neuropsichiatrico rappresentano un altro fattore di rischio rispetto allo sviluppo di funzioni cognitive e relazionali e al
benessere/qualità di vita dell’intero nucleo familiare. Ormai sono diffusi percorsi follow-up che proseguono in età prescolare e scolare al fine di monitorare le aree di
rischio neuroevolutivo attivando specifici percorsi di prevenzione, inquadramento diagnostico e intervento.
Nei reparti di neonatologia risultano ormai sempre più diffuse pratiche di care neonatale e percorsi di formazione degli operatori, con l'obiettivo di creare un ambiente quanto più
contenitivo e meno invasivo, favorendo durante l'ospedalizzazione il contatto e il coinvolgimento attivo con i genitori, promuovendo spazi dedicati alla famiglia e alla progressiva
ripresa del ruolo genitoriale.
• Sempre più diffuso risulta anche il riferimento al programma NIDCAP, ovvero un insieme di pratiche assistenziali e interventi sull'ambiente per minimizzare lo stress neonatale
e supportare la famiglia, basato sulla teoria sinattiva di Als, la quale evidenzia l'importanza di un'accurata osservazione dei comportamenti del neonato e dei suoi sottoinsiemi
per cogliere e rispondere ai segnali di benessere/stress e di un precoce coinvolgimento dei genitori nelle cure rivolte al bambino.

LA FAMIGLIA DEL BAMBINO PRETERMINE (focus sul genitore)
La nascita pretermine rappresenta un evento stressante e traumatico anche per i genitori: si ha una brusca interruzione di un percorso maturativo sia biologico-fisiologico, sia
psichico riguardante la maternità interiore e la mentalizzazione del proprio bambino immaginario e del progetto familiare. Con il passare dei giorni, superate le crisi o
complicanze che spesso portano angoscia di morte e meccanismi difensivi di distanza e blocco emotivo per paura, le probabilità di sopravvivenza aumentano, così
come la necessità del genitore di affrontare e recuperare il rapporto che il parto improvviso aveva traumaticamente interrotto, di fronte ai bisogni di un bambino
prematuro. Il genitore di un bambino pretermine si trova di fronte a compiti di cura più complessi, inoltre i segnali del neonato si presentano più complessi, meno definiti e talvolta
più disorganizzati – sono frequenti esperienze frustanti con l’alimentazione e l’allattamento anche per l’elevata instabilità del bambino, i brevi stati di veglia e difficoltà di suzione.
• Dopo la dimissione, possono persistere difficoltà nella stabilizzazione e nella gestione dei ritmi sonno-veglia, così come si mantengono elevati i livelli di stress e la
preoccupazione per la cura e la crescita del bambino. L’alto livello di stress e il momento di crisi incidono inoltre sul benessere della coppia genitoriale, provata da uno
stravolgimento delle abitudini di vita con ricadute sulla gestione di eventuali altri figli e della famiglia. Diventa dunque importante prevedere uno spazio di supporto
psicologico, coinvolgimento e aiuto volto anche a ridurre la tendenza all’isolamento e a contenere dinamiche disfunzionali della coppia, promuovendo fattori protettivi di
resilienza e qualità del parenting.
Viene descritto l’impatto della nascita pretermine sui genitori, con ricadute di natura post-traumatica e una maggiore incidenza di sintomatologia ansiosa, sia durante i periodi post-
partum e di ospedalizzazione, sia alla dimensione e per tutta la prima infanzia.
La nascita pretermine rappresenta per le madri una condizione di alto rischio per la comparsa di sintomi depressivi o forme più gravi di depressione post-partum che
ricade sui processi di interazione, sintonizzazione emotiva, reciprocità e stimolazione, con un rallentamento della capacità genitoriale di rispondere in modo
contingente ai segnali del proprio bambino.
Anche nei padri si riscontrano, più tardi, maggiori livelli di ansia e di depressione – vari studi riconoscono infatti al padre una funzione di protezione e sostegno alla relazione madre-
bambino e di promozione e tutela rispetto ai processi di attaccamento e di sviluppo.
Grazie agli approcci di family centered-care che coinvolgono i caregiver per rispristinare il senso di continuità dell’esperienza psicofisica tra genitori e bambino, il reparto di
neonatologia rappresenta il primo contenitore che accoglie il dolore, la paura e lo stress dei genitori, promuovendo risorse, strategie, competenze e nuove rappresentazioni di sé,
del bambino e della famiglia. Interventi successivi di supporto alla genitorialità e parent-training o percorsi di psicoterapia individuale o di coppia possono rendersi utili di fronte a
problematiche più specifiche o a nuovi momenti di crisi.
L’INTERAZIONE PRECOCE NELLA PREMATURITA’ (FOCUS SULLA RELAZIONE)
I momenti immediatamente successivi alla nascita rappresentano un periodo critico per lo sviluppo del legame di attaccamento. Un'ampia letteratura descrive, rispetto alla
nascita prematura, un'elevata vulnerabilità e rischio nell'interazione precoce madre-bambino per tutto il primo anno di vita – condizionerebbe i legami di attaccamento e la qualità
delle prime interazioni, con maggior rischio di sviluppare pattern disorganizzati e insicuri.
• All’interno della diade interattiva il bambino con alta prematurità appare più irritabile, più difficile da consolare, con espressività emozionale meno variata, meno sorridente e
meno fluido nel dialogo motorio e fisico, più esauribile sul piano attentivo, più lento nella maturazione e coordinazione del sistema visivo e motorio e più tardivamente
polarizzato verso il volto della madre.
Ciò determina risposte comportamentali più ambigue e disorganizzate, segnali più deboli e difficili da cogliere, maggiori instabilità di risposta e minore mantenimento dello sguardo e
responsività verso stimoli esterni, con ricadute sulla percezione genitoriale sui meccanismi di reciprocità e rinforzo interattivo.
• D’altro canto, le madri dei bambini prematuri, condizionate dalla difficoltà di natura emozionale e post-traumatica, appaiono spesso intrusive e attive nell’interazione, con
maggiori sollecitazioni tattili e vocali, ricercando una maggiore prossimità fisica ma risultando meno sensibili e sincrone rispetto ai segnali del figlio.
Studi più recenti hanno analizzato la relazione padre-bambino, la quale appare anch'essa caratterizzata da scambi interattivi più poveri, ridotta reciprocità e difficoltà di
sincronizzazione visiva e attenzione condivisa.
Diviene quindi di fondamentale importanza l'instaurarsi di una partecipazione attiva di entrambi i genitori alla routine del bambino, di un supporto reciproco e dell'inclusione del
partner. La qualità della relazione precoce madre-bambino, del benessere familiare e della resilienza genitoriale, delle competenze di sintonizzazione e responsività materna, delle
strategie di stimolazione e promozione dello sviluppo rappresentano importanti fattori neuro-protettivi alla base di modelli attuali delle neuroscienze di neuro-plasticità adattiva e
arricchimento ambientale.
4.3 ESITI A MEDIO E LUNGO TERMINE DELLA NASCITA PRETERMINE
Rispetto ai bambini pretermine, viene descritta una maggiore incidenza di problematiche neuro-motorie minori, difficoltà cognitive e di linguaggio, disturbi dell'attenzione e
dell'apprendimento, disturbi del comportamento e della socializzazione. Studi longitudinali supportano l'importanza di programmi di sorveglianza dello sviluppo e intervento precoce,
spesso preventivo rispetto a condizioni sub-cliniche, le quali incidono sulla qualità d vita e sul percorso di crescita del bambino e della sua famiglia.
4.3.1 ESITI NEUROLOGICI MAGGIORI NELLA NASCITA PRETERMINE
1. La paralisi cerebrali (PC) rappresenta l'esito neurologico più severo nel neonato pretermine, di natura motoria ma spesso associato a deficit sensoriali visivi e/o uditivi e/o
disabilità intellettiva. Rappresenta l’esito fisico, motorio e spesso sensoriale, di un danno a carico del SMN avvenuto nelle fasi precoci di sviluppo del feto o del neonato, nel
caso della nascita prematura reso altamente vulnerabile dalla condizione di forte immaturità del cervello in via di sviluppo.
La forma prevalente di PC nel pretermine è quella spastica – meno frequenti sono le forme discinetiche e atassiche.
La diagnosi di PC può avvenire già nelle prime settimane di vita, grazie alle metodiche di neuroimaging e strumenti clinici standardizzati.
L’obiettivo primario di una diagnosi precoce è quello di sfruttare al massimo le potenzialità dei meccanismi di plasticità cerebrale neuroadattiva, più potenti durante le fasi precoci di
sviluppo del cervello immaturo.
Un altro esito neurologico severo è rappresentato dalla disabilità neurosensoriale e dalla disabilità cognitiva di grado moderato o grave, la quale può essere associata a danni della
sostanza bianca o a deficit di connettività.

4.4 PROFILI NEUROPSICOLOGICI E PSICOPATOLOGICI - Area cognitiva e neuropsicologica


Rispetto alle competenze cognitive generali, è emerso che i bambini pretermine presentano in media 10 punti di differenza nel quoziente intellettivo, con ampie variazioni inter-
individuali in funzione del grado di prematurità e della presenza o meno di lesioni cerebrali.
Lo studio dei profili neuropsicologici e di funzioni e competenze precise evidenzia specifiche vulnerabilità nei bambini pretermine a carico dell'attenzione, della memoria,
dell'integrazione visuo- motoria e nelle funzioni esecutive, riguardanti principalmente la memoria di lavoro, l'abilità di linguaggio orale, di letto-scrittura e di cognizione numerica.
Gli ambiti che appaiono più compromessi nei primi anni di vita sono quello motorio, quello visuo-motorio e quello cognitivo non-verbale. (con effetti sul funzionamento
cognitivo misurato con scale di sviluppo e una certa persistenza nello sviluppo, soprattutto rispetto all’acquisizione di abilità più complesse sia nell’infanzia che in età
scolare)
4.4.2 ATTENZIONE E FUNZIONI ESECUTIVE
Anche l'area dell'attenzione e del funzionamento esecutivo appaiono particolarmente vulnerabili, con effetti a cascata sullo sviluppo del linguaggio, della memoria,
dell'apprendimento scolastico e sull'organizzazione psicologica – maggior rischio psicopatologico per diagnosi di disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività (ADHD).
Con il termine di attenzione intendiamo solitamente un insieme di diversi network attentivi, legati all'attivazione di differenti aree cerebrali e neurotrasmettitori.
Con il termine di funzione esecutiva intendiamo, invece, un insieme di processi cognitivi di ordine superiore legati a comportamenti finalizzati a uno scopo.
Alcune delle funzioni attentive ed esecutive seguono traiettorie evolutive differenti nei bambini pretermine, con fluttuazioni legate all’età gestazionale (principale fattore di outcome) –
l’attenzione selettiva e la concentrazione risentono del genere (svantaggio per i maschi), del livello socio-economico e dell’età gestazionale a fronte di effetti più evidenti in epoca
prescolare e progressivo riallineamento con la crescita.
4.4.3 LINGUAGGIO
La letteratura evidenzia anche un'immaturita di sviluppo e difficolta linguistiche nei pretermine, con maggiori ricadute nei bambini molto/estremamente pretermine che si
mantengono fino all’adolescenza.
In modo consistente tra le lingue diverse è presente una maggiore incidenza di ritardi di linguaggio nella prima infanzia nei bambini di età gestazionale molto o estremamente bassa,
con difficoltà nella comprensione e produzione lessicale e grammaticale e nello sviluppo fonologico a partire dal secondo-terzo anno di vita, con un andamento opposto rispetto a
quello dei nati a termine.
Nei nati molto ed estremamente pretermine, studi italiani confermano che il ritardo persiste in epoca prescolare, spesso associato a ritardi in altri ambiti e/o esiti neurologici maggiori
e/o complicanze mediche croniche che condizionano anche le competenze pragmatiche.
Nell’insieme appare consistente il risultato di una maggiore eterogeneità di outcome nel caso di funzioni linguistiche semplici e di popolazioni meno pretermine, a fronte di dati più
univoci rispetto a funzioni linguistiche complesse e di memoria di lavoro fonologica che presentano un andamento più persistente e a tratti ingravescente (che va a peggiorare) fino
all’adolescenza.
4.4.4 APPRENDIMENTO SCOLASTICO
La globale fragilità sopra descritta a carico dei prerequisiti specifici e non dell’apprendimento espone il bambino pretermine a un alto rischio di sviluppare quadri di ritardo globale o
immaturità di apprendimento nei primi due anni di scuola primaria, difficoltà che nei quadri più gravi permangono nel passaggio alla scuola secondaria di primo e secondo grado, e
in alcuni casi fino all’età adulta (il rischio appare maggiore e più persistente nei nati estremamente pretermine).
I. Rispetto all’area di letto-scrittura gli studi mostrano difficoltà diffuse e persistenti nei nati estremamente pretermine nell’apprendimento della lettura e della scrittura, area di
maggiore immaturità nei nati molto pretermine. Nei moderatamente pretermine sono descritte iniziali difficoltà di letto-scrittura, con migliore recupero in lettura nel corso dello
sviluppo e incertezze più persistenti nella scrittura.
II. Sono anche descritte difficoltà a carico della comprensione testuale, con incertezze che aumentano con l’età e che risentono delle debolezze linguistiche e attentive – nei
lievemente pretermine le debolezze nella comprensione sembrano tuttavia attenuarsi al termine della scuola secondaria di secondo grado, mentre appaiono più persistenti
al decrescere dell’età gestazionale.
III. L’area della matematica rappresenta per i bambini pretermine l’ambito di apprendimento di maggiore difficoltà, con discrepanze significative e diffuse negli indici di
rendimento nei bambini estremamente pretermine che si mantengono fino all’adolescenza. Difficoltà in matematica si confermano anche nelle popolazioni di nati molto
pretermine, con evoluzioni nel corso dello sviluppo. Nei nati moderatamente pretermine si osservano simili difficoltà nei prerequisiti e nelle competenze legate alla
cognizione numerica, che persistono nella scuola primaria e diventano più sfumate in adolescenza.
4.5 ORGANIZZAZIONE PSICOLOGICA E RISCHIO PSICOPATOLOGICO
Molti studi descrivono nei bambini pretermine un minor coinvolgimento nell'interazione sociale durante il primo anno di vita, con un'iniziativa meno attiva e ridotte vocalizzazioni.
Rispetto al temperamento il profilo appare compatibile con la cultura di appartenenza, ma presenta alcune peculiarità come un minor livello di controllo motorio e attentivo, reattività
emozionale negativa e minore orientamento sociale e attentivo. In particolar modo, nei primi mesi di vita si rileva un maggior livello di reattività negativa, una ridotta capacità di
modulazione dell'arousal e una bassa soglia di emozionalità negativa. Nel periodo pre-scolare si rileva invece una maggiore espressione di emozionalità negativa, che potrebbe
essere predittivo di problematiche emozionali internalizzanti ed esternalizzanti.
La letteratura afferma che il prematuro è contraddistinto da un fenotipo comportamentale caratterizzato da vulnerabilità/difficoltà nell'area inattenzione/impulsività, socio-
relazionale ed emozionale, con un generale rischio per problematiche di natura internalizzante piuttosto che esternalizzante.
Il disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività (ADHD) rappresenta un disturbo frequente nei bambini pretermine o di basso peso alla nascita, caratterizzandosi per
una minore prevalenza del genere maschile, una ridotta comorbidità con i disturbi della condotta, un più debole ruolo di fattori socio-demografici e ambientali.
• Più recente è lo studio della relazione tra nascita pretermine e Disturbi dello Spettro dell'Autismo, viene descritta un’incidenza di diagnosi nella popolazione pretermine che
aumenta al decrescere dell’età gestazionale, con un rischio tre volte maggiore nei nati estremamente pretermine. i questionari compilati dai genitori evidenziano una maggiore
sintomatologia autismo-like che sembra caratterizzare il funzionamento emotivo-comportamentale del pretermine, con difficoltà socio-comunicative associate a difficoltà di
attenzione e distraibilità, fattori cognitivi, linguistici, motori e di regolazione emozionale.
Infine, problematiche e vulnerabilità socio-emozionali di natura ansioso-depressiva vengono descritte nella popolazione di pretermine intesa come gruppo, con maggiore incidenza
nell’alta prematurità. Uno studio longitudinale mostra una prevalenza di disordini emozionali del 9% rispetto al 2% osservato nei controlli, con prevalenza di problematiche di ansia e
minore prevalenza nel genere femminile.
4.6 MISURE DI TUTELA, CORNICE LEGISLATIVA, INDICAZIONI DI PRESA IN CARICO
Nel dicembre 2010 è stata messa a punto in Italia la “Carta dei diritti del bambino nato prematuro” con l'obiettivo principale di affermare e rinforzare il diritto prioritario dei neonati
prematuri e delle loro famiglie di usufruire fin dalla nascita del massimo di cure e di attenzione a tutela dello sviluppo, del benessere e della qualità di vita. In accordo con i diritti
descritti nel manifesto, la condizione di prematurità permette alla famiglia di usufruire di una copertura globale dei costi per la salute e l'assistenza da parte del sistema sanitari,
grazie a un codice di esenzione valido per i primi 3 anni di vita.
Importanti risposte ai bisogni della famiglia provengono (come per altri ambiti) dalle associazioni dei genitori che rappresentano riferimenti di supporto psicologico e rispecchiamento
emotivo, guida pratica e orientamento, mediazione di conoscenze e consigli pratici.
Oltre al reparto di neonatologia, che rappresenta un punto di riferimento per le famiglie, si creano stretti rapporti di fiducia anche con le equipe di neuropsichiatria infantile e con il
pediatra di base. Se indicato, il percorso neuropsichiatrico può prevedere percorsi di fisioterapia, psico-motricità, logopedia e supporto alla genitorialità.
Per quanto riguarda il contesto scolastico, è importante tutelare il bambino pretermine attraverso misure di aiuto previste dal MIUR e dal sistema scolastico. Fin dalla scuola
dell’infanzia è auspicabile l’attivazione di percorsi e strategie pedagogico-didattiche proiettate allo sviluppo delle competenze più vulnerabili e alla stimolazione dei prerequisiti
scolastici, con personalizzazione dell’attività in presenza.

5. Disturbi neurovisivi
La disabilita visiva rappresenta un gruppo eterogeneo di disturbi che riguardano il malfunzionamento del sistema visivo, che possono limitare il funzionamento generale
dell’individuo e le sue autonomie. La funzione visiva ha molta importanza nello sviluppo di un individuo.
5.1 CECITA’ E IPOVISIONE: DEFINIZIONE, EPIDEMIOLOGIA E CARATTERISTICHE FUNZIONALI
L’OMS definisce come disturbo del sistema visivo qualsiasi disordine che riguardi gli occhi o i loro annessi, le aree cerebrali che permettono la percezione e il comportamento
visivo dell’individuo. La disabilita visiva rappresenta quindi un gruppo eterogeneo di disturbi che ostacolano e limitano alcune attività della vita quotidiana tipicamente collegate alla
processazione dell’immagine visiva, come l’orientamento nell’ambiente, la mobilità, la lettura e l’apprendimento. Per caratterizzare l’handicap visivo e quindi la reale condizione di
svantaggio provocata dal disturbo, è necessario tener conto
• dell’acuità visiva (capacità di discriminare differenze minime nella configurazione spaziale degli oggetti)
• e del campo visivo (parte di spazio in cui gli oggetti sono visibili nello stesso momento durante il mantenimento dello sguardo in una direzione).
In Italia la legge n. 138 del 3 Aprile 2001 definisce le varie forme di minorazione visiva e ne determina la quantificazione secondo i seguenti criteri:
● Ciechi totali: colpiti da totale mancanza di visione da entrambi gli occhi, che hanno la mera percezione dell’ombra e della luce, o del moto della mano in
entrambi gli occhi o nell’occhio migliore e il cui residuo perimetrico binoculare è inferiore al 3%
● Ciechi parziali: che hanno un residuo visivo non superiore a 1/20 in entrambi gli occhi o nell’occhio migliore, anche con eventuale correzione e il cui residuo
perimetrico binoculare è inferiore al 10%
● Ipovedenti gravi:che hanno un residuo visivo non superiore a 1/10 in entrambi gli occhi o nell’occhio migliore, anche con eventuale correzione e il cui residuo
perimetrico binoculare è inferiore al 30%
● Ipovedenti medio-gravi: che hanno un residuo visivo non superiore a 2/10 in entrambi gli occhi o nell’occhio migliore, anche con eventuale correzione e il cui residuo
perimetrico binoculare è inferiore al 50%
● Ipovedenti lievi: che hanno un residuo visivo non superiore a 3/10 in entrambi gli occhi o nell’occhio migliore, anche con eventuale correzione e il cui residuo
perimetrico binoculare è inferiore al 60%
Il fattore di rischio più importante per i disturbi visivi è l’età, questo non esclude però la possibilità che alcune tipologie di disturbi visivi colpiscano la popolazione
infantile.
5.1.1 EZIOLOGIA E QUADRI CLINICI
La visione può essere vista come la capacità dell’individuo di organizzare e dare significato a dati sensoriali raccolti dal sistema visivo. Questa funzione è varia ed
eterogenea e comprende diversi aspetti funzionali che corrispondono alla complessità delle strutture che interagiscono nel sistema per permettere la percezione e l’elaborazione
dell’immagine visiva, e il controllo sensoriale del movimento. Sulla base delle strutture e dei network che compongono il sistema visivo, è possibile classificare quattro categorie
principali di disturbi:
1. Deficit visivi periferici, dovuti a una compromissione della via visiva primaria prechiasmatica – comporta riduzione acuità visiva, riduzione della sensibilità al contrasto,
nistagmo (oscillazione involontaria e ritmica degli occhi), strabismo, anomalie delle risposte pupillari e comportamento visivo povero
2. Deficit visivi centrali, secondari a lesioni della via visiva primaria
retrochiasmatica – la sintomatologia riguarda l’utilizzo del canale visivo, che risulta fluttuante e discontinuo, ma possono esserci anche riduzione dell’acuità visiva e della
sensibilità al contrasto, anomalie nella percezione del colore e alterazioni del campo visivo
3. Disturbi legati al malfunzionamento dei sistemi visivi associati che provocano difficoltà visuo-cognitive e visuo-prassiche: un deficit della via ventrale (del what) può
coinvolgere il riconoscimento delle caratteristiche degli oggetti, delle forme e dei volti – un deficit della via dorsale (del where) può influenzare negativamente la
percezione del movimento, la localizzazione spaziale e l’integrazione visuo-motoria
4. Patologie del sistema oculomotorio che possono portare a disturbi dell’esplorazione visiva e dell’oculomozione come per esempio strabismo o nistagmo, ovvero
oscillazione ritmica e involontaria degli occhi.
Per quanto riguarda le cause è importante il timing, l’epoca di insorgenza del disturbo.
I deficit congeniti sono di natura prevalentemente genetica, malformativa, infettiva o secondari a danni cerebrali da sofferenza pre-perinatale e possono influire sullo sviluppo
neuropsichico del bambino, questo perché la vita risulta un prerequisito essenziale per l’evolvere dello sviluppo psicomotorio e neuropsicologico e per la crescita emotiva e affettiva
del bambino.Se l’esordio avviene in fase post-natale ha conseguenze sullo sviluppo inferiori, perché le competenze già apprese hanno maggiori possibilità di rimanere indenni.

5.1.2 I DISTURBI VISUO-COGNITIVI E VISUO-PRASSICI


Le disfunzioni legate al malfunzionamento delle vie associative riguardano l’elaborazione e la processazione delle informazioni visive, e i sintomi diventano più evidenti all’ingresso
nella scuola dell’infanzia e della scuola primaria, dove le richieste visuo-cognitive e visuo-motorie diventano più alte. Le funzioni visive danneggiate in questi casi sono
denominate “di alto livello” e sono distinte in base al ruolo svolto dalle due vie visive associate (what/where).
Sono due gruppi di disturbi:
1. Nel primo gruppo troviamo i disturbi riferiti alla via ventrale (what) che riguardano la visione per la percezione: i sintomi comprendono la difficoltà a riconoscere le unità
percepite, quindi il riconoscimento delle forme, degli oggetti, dei volti umani e del colore.
Il bambino percepisce l’ambiente con una modalità alterata e questo influenzerà le sue capacità di categorizzazione percettiva e semantica. È un tipo di deficit molto
frequente nei bambini con leucomalacia periventricolare (lesione cerebrale) e conseguente paralisi cerebrale infantile di tipo diplegico.
2. Nel secondo gruppo troviamo i disturbi riferiti alla via dorsale (where) che riguardano la visione per l’azione: le difficoltà hanno a che fare con il riconoscimento dei
rapporti spaziali tra le unità percepite, quindi competenze visuo-spaziali, in quanto la via dorsale è coinvolta nella percezione del movimento, nella localizzazione
spaziale e nell’integrazione visuo-motoria. Il bambino non riesce a comprendere per esempio la direzione di una macchina in movimento, oppure a individuare le
possibili differenze spaziali tra due oggetti. La presenza del malfunzionamento di questa via è stata documentata ampiamente in numerosi disturbi del neurosviluppo,
non solo su base lesionale ma anche di tipo genetico-malformativo.

5.1.3 IL RUOLO DELLA FUNZIONALITA’ VISIVA NELLO SVILUPPO NEUROPSICHICO


La visione ha una funzione adattiva che ha un ruolo determinante nello sviluppo neuropsicomotorio del bambino, in quanto è necessaria per creare una relazione con i caregiver,
per sviluppare la comunicazione preverbale e strutturare l’intenzionalità motoria, cognitiva, affettiva e sociale.
La funzionalità visiva inoltre ha un ruolo chiave nell’evoluzione delle competenze posturo-motorie dato che guida l’esecuzione dell’azione finalizzata, permettendo la
conoscenza dell’oggetto, la comprensione del suo funzionamento e la sua rappresentazione mentale. Durante l’apprendimento di una nuova attività, i movimenti oculari
forniscono numerosi feedback rispetto alle prestazioni motorie, ma una volta eseguita l’azione, forniscono anche informazioni feed-forward per consentire la ricerca dell’oggetto
successivo su cui agire e permettere il collegamento di più azioni tra loro.
La qualità della processazione delle informazioni visive già in epoche precoci sembra avere un ruolo predittivo sullo sviluppo neuropsicologico. Le abilità visive e di processazione
visiva dei volti a 9 mesi sono buoni predittori dello sviluppo neuropsichico a 2 anni in bambini prematuri ad alto rischio: questo sottolinea l’importanza dell’esperienza
visiva precoce per la normale maturazione cognitiva e neuropsicologica. Tale aspetto appare collegato al fatto che nel bambino con sviluppo tipico la vista veicola e sostiene
l’attenzione nei confronti dell’ambiente, mentre in assenza di un adeguato controllo visivo, mantenere l’attenzione risulterà più difficile, rendendo vulnerabile la sua predisposizione
all’apprendimento.
Inoltre, la vista è il canale attraverso cui il bambino sperimenta le proprie capacità imitative, che hanno un ruolo determinante nell’apprendimento e nello sviluppo dell’intelligenza
rappresentativa.
5.2 DIAGNOSI FUNZIONALE
La valutazione del bambino con disturbo visivo dovrebbe basarsi sia sull’attuazione di metodiche strumentali sia sull’analisi e osservazione del suo comportamento generale.
La formulazione della diagnosi, infatti, ha come obiettivo finale l’identificazione del disturbo, la stesura di un bilancio del funzionamento generale e delle capacità di adattamento
all’ambiente, al fine di fornire gli elementi necessari per strutturare la proposta terapeutica.
I nuovi metodi di valutazione permettono un’analisi approfondita delle capacità visive, visuo-motorie e visuo-cognitive e sono adatti anche alla valutazione di pazienti non
collaboranti o in cui il disturbo visivo è associato ad altre problematiche del neurosviluppo.
Ne deriva la necessità di effettuare un’anamnesi familiare, un esame oftamologico pediatrico e una valutazione neuropsichiatrica infantile. Successivamente la valutazione della
funzionalità visiva del bambino deve prendere in considerazione degli elementi fondamentali: il comportamento visivo spontaneo, le abilità oculomotorie, l’acuità visiva, la visione
binoculare e la stereopsi, la sensibilità al contrasto e al colore, il campo visivo, l’attenzione visiva, le abilità visuo-percettive e visuo-prassiche, ma anche la valutazione dell’uso dei
sensi vicarianti, nel caso in cui il residuo visivo sia assente o poco utilizzabile.
In aggiunta ci sono gli esami elettrofisiologici e neuroradiologici, che consentono di formulare una diagnosi completa e di identificare meglio il grado di
compromissione.
APPROFONDIMENTO 5.2 Metodiche di valutazione della funzionalità visiva di base nella prima infanzia
● Fissazione e inseguimento visivo: la fissazione consiste nella capacità di piazzare e mantenere la fovea su un target ed è una competenza che il bambino ha dalla nascita.
L’inseguimento visivo consiste nel mantenere la fissazione sul target mentre è in movimento.
● Movimenti saccadici: movimenti rapidi degli occhi, caratterizzati da una minima lentezza e da una buona accelerazione, necessari per cambiare la fissazione tra un target e
l’altro.
● Acuita visiva di risoluzione: l’acuità visiva è molto bassa alla nascita. Con le tecniche relative a essa si osserva la risposta visiva del bambino sulla base della direzione dei
suoi movimenti di sguardo.
● Stereopsi e visione binoculare: la stereopsi è la più alta forma di coordinazione binoculare e consente di percepire un oggetto tridimensionale. Il bambino deve rilevare con lo
sguardo, all’interno di un mosaico di forme geometriche, un cerchio di diversa profondità fisica.
● Campo visivo: si può valutare attraverso metodi come la tecnica del confronto. L’esaminatore si pone di fronte al bambino, e mentre il soggetto fissa il suo volto, l’operatore
avvicina un oggetto colorato, che proviene dalla periferia, e osserva la risposta.

5.3 PROFILO NEUROPSICOLOGICO E PSICOPATOLOGICO


Il bambino con disturbo visivo precoce va considerato come un soggetto a rischio in cui il disturbo sensoriale primario può comprometterne il funzionamento sociale
per via del ruolo chiave che la visione ricopre nell’apprendimento delle modalità di interazione con la realtà circostante. La visione, infatti, permette la detenzione, la
decodifica, la processazione e la risposta comportamentale risetto alla maggior parte delle informazioni provenienti dall’ambiente esterno e, per questo motivo, l’insorgenza precoce
di un disturbo visivo può avere conseguenze a cascata sulle varie aree dello sviluppo neuropsichico, compromettendo il comportamento adattivo e successivamente la qualità della
vita dell’individuo.
La presenza di difficoltà cognitive e comunicative in bambini con grave disturbo visivo è stata ampiamente indagata ed è stato dimostrato come sia frequente lo sviluppo di atipie
comportamentali, associate a disturbi sociocomunicativi e stereotipie – queste difficoltà sono maggiori se il disturbo visivo è più profondo.
• È possibile ipotizzare che la mancanza di un feedback visivo adeguato da parte dell’ambiente non permette al bambino di sperimentare completamente le proprie capacità
sensomotorie, con l’effetto finale di una ridotta variabilità degli schemi d’azione e la messa in atto di comportamenti ripetitivi (per esempio il gioco funzionale e di costruzione si
evolve in maniera lenta e atipica).
Spesso si pensa che questi bambini, specie quelli con patologia di origine periferica, possano avere uno sviluppo tipico delle competenze sensomotorie e successivamente dei
processi mentali. Nella maggior parte dei casi questo avviene però è importante sapere che la mancanza o l’estrema riduzione della vista può metterli a rischio di uno sviluppo
atipico.
Nel bambino con sviluppo tipico gli schemi di azione appresi durante il periodo sensomotorio vengono gradualmente memorizzati e interiorizzati, permettendo successivamente la
costruzione di una rappresentazione mentale e simbolica della realtà circostante.
L’evoluzione di un pensiero simbolico di questo tipo risulta a rischio nel bambino con disturbo visivo dato che l’esperienza ridotta nella fase sensomotoria può influenzare
negativamente lo sviluppo successivo della rappresentazione mentale e delle capacità immaginative.

5.4 PRESA IN CARICO RIABILITATIVA


L’identificazione precoce del disturbo visivo è molto importante perché è collegata all’implementazione di programmi di riabilitazione precoce finalizzati a promuovere lo sviluppo
neuropsichico del paziente in età evolutiva. La diagnosi e l’intervento precoce consentono di sfruttare il potenziale della plasticità cerebrale, provando a modificare l’outcome visivo,
posturomotorio, cognitivo e sociocomunicativo.
La presa in carico è multidisciplinare e prevede la presenza di più figure professionali, e deve essere modificata in base alle specifiche caratteristiche funzionali. Inoltre,
considerando l’eterogeneità e la complessità dei quadri clinici che vengono a configurarsi all’interno dei disturbi visivi, risulta evidente che non esiste una terapia elettiva per questi
bambini, ma una serie di criteri che andranno presi in considerazione di volta in volta per rispondere ai bisogni specifici del paziente e della sua famiglia.
Nella formulazione del progetto terapeutico andranno tenuti in considerazione alcuni obiettivi chiave che permetteranno al bambino di accedere gradualmente al processo di
organizzazione della realtà:
• Promuovere la consapevolezza del residuo visivo e l’autoregolazione sensoriale-emotiva
• Sostenere una relazione positiva nel bambino con i caregiver attraverso il dialogo tonico-fusionale (prima forma di comunicazione madre-bambino attraverso la quale il
neonato sente il proprio corpo e inizia a strutturare la sua vita mentale)
• Favorire l’integrazione multisensoriale
• Ottimizzare l’uso del canale visivo nella comunicazione
• Migliorare l’oculomotricità e l’esplorazione visiva dell’ambiente prossimale
• Guidare l’acquisizione di strategie durante la manipolazione e l’esplorazione degli oggetti
• Educare all’autonomia nell’orientamento e mobilità
Setting educativo-riabilitativo per il bambino con disturbo visivo
1. Illuminazione degli ambienti: la migliore situazione per il bambino con disturbo visivo è quella in penombra o con una luce molto soffusa, diffusa e omogenea – la fonte
luminosa deve trovarsi sempre dietro le spalle del bambino al fine di illuminare meglio l’ambiente e gli oggetti senza provocare effetti di abbagliamento.
2. Postura: una postura adeguata permette al bambino di concentrarsi sul compito, sull’utilizzo delle mani ed eventualmente sull’utilizzo del residuo visivo.
3. Suoni ambientali: i suoni proveniente dall’ambiente circostante possono interferire sulle opportunità di apprendimento del bambino perché se non significativi possono
confonderlo e non permettergli di utilizzare l’udito per interpretare gli eventi che si stanno svolgendo intorno a lui: è necessario che ci sia silenzio.
4. Modalita comunicative dell’adulto verso il bambino: il bambino con disturbo visivo non può identificare i segnali non verbali della comunicazione, per cui è molto
importante rivolgersi a lui sempre chiamandolo per nome, utilizzando un linguaggio semplice, chiaro e conciso e facendo attenzione al tono di voce – narrare gli eventi e
cosa sta accadendo intorno può aiutare a comprenderli meglio o a prevedere cosa potrebbe accadere dopo senza spaventarsi.
5. I giochi e gli oggetti: il bambino con disturbo visivo percepisce meglio oggetti con motivi strutturati (righe e bande, cerchi, spirali...) e/o ad alto contrasto percettivo (bianco-
nero, rosso- nero, giallo-rosso...)

5.5 INDICAZIONI EDUCATIVE E LEGISLATIVE


Nel 2013 l’OMS ha approvato il Piano d’Azione Globale di Prevenzione della Disabilita Visiva 2014-2019, con l’obiettivo di ridurre del 25% i deficit visivi evitabili, ponendo alla
base 5 principi fondamentali nell’approccio diagnostico-terapeutico: accesso universale ed equità dei servizi sanitari, diritti umani, pratiche basate su evidenze scientifiche,
approccio mirato all’intero corso dell’esistenza ed empowerment delle persone affette dal deficit visivo.
La legge 104/92 detta i principi dell’ordinamento in materia di diritti, integrazione sociale e assistenza della persona con handicap e stabilisce che la gravità è legata al fatto che
la minorazione abbia ridotto in maniera più o meno grave l’autonomia personale. Il soggetto con disabilità ha quindi diritto a una pensione mensile.
Questa legge poi riconosce e tutela la partecipazione alla vita sociale delle persone con disabilità, riconoscendo la scuola come luogo di integrazione principale durante l’infanzia e
l’adolescenza. Sulla base di questa legge il MIUR ha messo in atto delle misure di accompagnamento, tra cui la presenza di docenti di sostegno, il finanziamento di progetti e attività
per l’integrazione, l’istituzione di iniziative di formazione del personale docente di sostegno e curriculare.

6 Disturbi della regolazione della processazione sensoriale


I Disturbi della regolazione della processazione sensoriale sono un’entità nosografica introdotta per la prima volta nella prima edizione della Classificazione Diagnostica “Zero-
to-Three” (DC:03, 1994) per descrivere le difficoltà che i bambini piccoli possono incontrare nella maturazione dei sistemi sensoriali e i loro effetti sul comportamento,
interpretandole alla luce della maturazione del profilo sensoriale di ogni bambino.
6.1 AUTOREGOLAZIONE
Durante i primi tre anni di vita il bambino impara a organizzare le sue sensazioni e pianificare le risposte verso l’ambiente, all’interno di un flusso di afferenze sensoriali, presenti fin
dalla nascita e che contribuiscono alla maturazione del sistema nervoso centrale e periferico, oltre che alla promozione della capacità di modulare queste afferenze. Ogni bambino
ha un profilo sensoriale individuale unico, ovvero un modo diverso di recepire e rispondere alle informazioni che tramite i sensi gli derivano dalle sollecitazioni dell’ambiente.
Lo sviluppo dell’autoregolazione implica l’uso di piani di azione, strategie comportamentali e cognitive e si sviluppa per la maggior parte nella prima e seconda infanzia.
Nel modello di Barry Lester, l’autoregolazione si sviluppa attraverso “le quattro A della prima infanzia” che rappresentano la capacità del bambino di integrare e modulare le
sensazioni e di rispondere all’ambiente in modo finalizzato e adattivo e sono:
• Arousal: indica lo stato di attivazione del sistema nervoso centrale ed è il frutto di un’oscillazione tra livelli di eccitazione e stati di quiete – consente al bambino di
passare dai livelli di veglia al sonno – correlato all’intensità potenziale dell’attenzione
• Attenzione: capacità del bambino di focalizzarsi su un determinato stimolo o
compito – implica capacità di concentrazione, ascolto e comprensione del messaggio verbale e non – è correlata all’interesse e al desiderio di apprendere, rielaborare e
produrre
• Affetto: capacità del soggetto di esprimere le proprie emozioni, di riconoscerle, sperimentarle e associarle in modo congruo e sintonico a contenuti psichici che
riguardano se stesso e gli altri
• Azione: capacità del soggetto di finalizzare le proprie intenzioni, organizzando e coordinando le proprie abilità per pianificare il proprio intervento sulla realtà esterna.
Arousal, Attenzione e Affetto sono ingredienti essenziali per l’azione
Queste quattro dimensioni sono interdipendenti e mutualmente influenzabili.
Ad esempio, l’attenzione è influenzata dai livelli di arousal ed è determinante per le azioni finalizzate. Nei primi anni la maturazione dei sistemi di autoregolazione
assume un ruolo centrale nel processo di sviluppo e nelle capacità di regolare gli stati fisiologici e comportamentali nella relazione con l’ambiente.

Secondo Greenspan, i sistemi di auto-regolazione costituiscono i meccanismi che consentono di processare le sensazioni, filtrare gli stimoli, discriminare le sollecitazioni
sensoriali entero- ed esterocettive ed escludere le sensazioni disturbanti, adattando le risposte per il rispristino dell’omeostasi.
• L'autoregolazione consiste nella capacità del bambino di controllare un proprio sentimento e comportamento in funzione della capacità di differenziare la propria risposta
comportamentale dall’impulso emozionale ed è imprescindibile dalla presenza di un ambiente esterno interattivo.
• Il concetto di autoregolazione (self-regulation) è imprescindibile dalla presenza di un ambiente esterno interattivo e lo sviluppo dei meccanismi di autoregolazione è il
legame cruciale fra le componenti genetiche, le prime esperienze relazionali e il successivo funzionamento sociale.
• Le strutture sottostanti all’autoregolazione sono immature alla nascita e maturano con l’esperienza all’interno della relazione con l’altro che agisce in qualità di regolatore
psico-biologico esterno – nei primi anni di vita l’interazione di gioco tra bambino e caregiver rappresenta una esperienza relazionale importante in cui il caregiver assume il
ruolo di regolatore esterno e il bambino influisce sullo stile genitoriale: queste due componenti costituiscono un sistema di co-regolazione.
L’abilità di agire in accordo alle richieste dell’ambiente sociale primario e di regolare il proprio comportamento in funzione delle sollecitazioni che da questo provengono
costituisce il presupposto per lo sviluppo delle abilità di relazione e di socializzazione durante i primi anni di vita.
Una vulnerabilità specifica o immaturità delle basi neurobiologiche preposte alla maturazione dei meccanismi dell’autoregolazione possono creare una discrepanza
rispetto alle aspettative dell’ambiente – fallimenti ripetuti dei primi tentativi del bambino di auto-regolare il comportamento e le risposte all’ambiente di cura creano una maggiore
fragilità del sistema di co-regolazione, su cui fattori di stress differenti possono agire più facilmente in modo negativo.
Studi di Howard e Melhuish evidenziano che l’autoregolazione ha uno sviluppo precoce nei primi cinque anni di vita, ed è implicata nello sviluppo successivo, in particolare
per quanto riguarda il rendimento scolastico, maggiormente dipendente dal funzionamento esecutivo piuttosto che dal quoziente intellettivo.

6.2 DISTURBI DELLA REGOLAZIONE DELLA PROCESSAZIONE SENSORIALE


La ricerca sulla prima infanzia ha portato maggiore consapevolezza dell’importanza della diagnosi precoce e del trattamento tempestivo.
La valutazione e la diagnosi nell’infanzia devono considerare che il bambino partecipa attivamente fin dalla nascita alle relazioni, con modalità e specifiche differenze individuali
nelle diverse aree dello sviluppo – l’individuazione di sintomi e comportamenti manifesti deve accompagnarsi a un’indagine approfondita sul percorso di sviluppo e sulle
caratteristiche maturazionali e costituzionali del bambino: gli aspetti dell’affettività, del linguaggio, delle attività cognitive, motorie e sensoriali. Tale indagine deve estendersi al
funzionamento del sistema familiare, alle caratteristiche dei genitori (come individui e come coppia), alle caratteristiche della relazione adulto-bambino e alle modalità interattive
all’interno della triade genitori-bambino.
Nel classificare i disturbi psichiatrici in bambini in età prescolare l’ICD-11 e il DSM-5 non tengono conto delle variazioni di sviluppo e che, nei bambini piccoli, l’espressione
del disturbo è sostenuta dalla relazione genitore-bambino e dalle caratteristiche dell’ambiente.
La Classificazione Diagnostica 0-3 (CD:03) ha costituito il primo strumento diagnostico complementare al DSM e in grado di essere applicato meglio alle età più precoci. È
stata revisionata nel 2005 (CD:03R) e nel 2016 (CD:05) e consente di valutare i sintomi del bambino, il suo funzionamento e le sue relazioni e i fattori biologici e di stress
ambientale associati, grazie alla sua forma pluriassiale:
- asse I - Disturbi Clinici,
- asse II - Qualità delle relazioni familiari,
- asse III - Salute a livello organico,
- asse IV - Stressor Ambientali,
- asse V - Competenze di Sviluppo.
Abbiamo visto che la maturazione delle competenze di autoregolazione occupa un ruolo centrale per lo sviluppo dell’individuo: è quindi necessario rilevale eventuali anomalie
nell’acquisizione di tali competenze.
Alla fine degli anni ‘70, Ayres introduceva il concetto di “disturbo dell’integrazione sensoriale” e sollecitava clinici e genitori a esplorare le aree della maturazione sensoriale
per comprendere le difficoltà comportamentali, emotive e attentive dei bambini.
- Nella CD:03 i Disturbi della regolazione dei processi sensoriali vengono introdotti come categoria nosografica indipendente e suddivisi in diversi sottotipi a seconda
delle aree di maggior compromissione e dei pattern comportamentali associati, modificati poi nella CD:03R.
- Nella CD:05, invece, il focus si è basato sull’Iper- e Ipo-responsivita, con la categoria “Altro” per manifestazioni meno tipiche.
Le cause della disfunzione dell’integrazione sensoriale sembra siano da ricondurre a fattori genetici ed ereditari, combinati a fattori ambientali (come, ad esempio, difficoltà durante
la gravidanza oppure ambienti privi di adeguate stimolazioni sensoriali).
È importante sottolineare che l'integrazione sensoriale non dipende dall’intelligenza, ma riguarda l’organizzazione neurofunzionale cerebrale: il problema non è negli organi di
senso, ma nel modo in cui il cervello riceve e organizza le informazioni.
La scarsa integrazione sensoriale è caratterizzata principalmente da iper/ipo-reattivita agli stimoli
- nel caso dell’ipersensibilita è sufficiente una soglia minima di stimolo per avere reazioni molto intense da parte del bambino,
- nel caso dell’iposensibilita serve uno stimolo molto intenso affinché il bambino mostri una reazione. In entrambi i casi i bambini possono fare molta fatica nei cambiamenti
della routine, compreso il passare da un’attività all’altra o da uno spazio all’altro e tale fatica può generare reazioni di aggressività, ansia, paura, rabbia e inibizione.
È importante riconoscere tali problematiche e interpretare i comportamenti del bambino per offrire la giusta guida e supporto.
-
6.3 PROFILO NEUROPSICOLOGICO E PSICOPATOLOGICO
I Disturbi della regolazione dei processi sensoriali sono caratterizzati da difficoltà del bambino nella regolazione delle emozioni e del comportamento, così come dalle capacità
motorie, in risposta a uno stimolo sensoriale, che conducono a un difetto nello sviluppo e nel funzionamento. I pattern di comportamento caratteristici si manifestano in diversi
contesti e in molteplici relazioni, influendo sul funzionamento quotidiano.
I bambini con questi disturbi possono avere difficoltà nel raggiungere uno stato di veglia calma o uno stato affettivo positivo e nel sostenere l’attenzione, reagire in
maniera eccessiva alle stimolazioni e fare molta fatica nei cambiamenti di routine, compreso il passare da un’attività all’altra e da uno spazio a un altro. Sono facilmente
irritabili, inclini al pianto e a reazioni emotive eccessive che non sono in grado di evitare o organizzare.
Questi disturbi rappresentano una categoria diagnostica capace di intercettare nella prima infanzia un ampio spettro di difficoltà che possono essere transitorie, oppure
preludere all’insorgenza di disturbi più complessi. Si possono supporre fattori endogeni e/o ambientali che possono attutire o rinforzare tali difficoltà di regolazione. L'indirizzo
della traiettoria evolutiva è geneticamente programmato e influenzato dai fattori protettivi o dai fattori di rischio.
• Quando i caregiver sono in armonia con le risposte comportamentali del bambino e le comprendono, possono moderare tali risposte, migliorando le sue difficoltà di
regolazione – in caso contrario le difficoltà vengono intensificate. Un bambino “difficile” fa sentire i genitori incapaci di gestirlo e questo rende il bambino ancora più difficile.
La mancanza di una diagnosi accurata può creare confusione negli adulti che si prendono cura di lui e privarlo dei trattamenti necessari che permettono di re-incanalare la
traiettoria evolutiva in percorsi più adeguati e promuovere pattern di sviluppo più adattivi. Questo permette ai caregiver di pensare non a bambini capricciosi, ma a bambini con
vulnerabilità specifiche che interferiscono nell’autoregolazione e li rendono meno adattabili rispetto ai cambiamenti ambientali.
Questi disturbi possono esistere in comorbidità con altri disturbi, fatta eccezione per il Disturbo dello spettro dell’autismo (ASD), poiché la risposta sensoriale atipica è considerata
un criterio per i pattern comportamentali ripetitivi e ristretti.
Per identificare un Disturbo della regolazione della processazione sensoriale è necessario osservare risposte clinicamente significative e compromesse agli stimoli sensoriali,
che possono essere caratterizzate da iper-responsività, ipo-responsività o risposte atipiche agli stimoli. Sono frequenti comportamenti anormali tra cui un’eccessiva irritazione,
bassa tolleranza alla frustrazione e ipo/iper-reattività – si può osservare un’estensione dell’esplorazione sensoriale a stimoli non consueti come leccare muri o superfici di tavoli,
annusare frequentemente oggetti o guardare con interesse lui o immagini riflesse. Le anomalie sensoriali devono presentarsi in uno o più contesti e coinvolgere uno o più domini
sensoriali.
Ogni bambino ha un temperamento diverso ma ciò che diversifica un comportamento tipico da uno atipico sono la qualità e l’intensità che caratterizzano la modalità reattiva del
bambino e l’impatto sul funzionamento adattivo generale.
6.3 DISTURBO DA IPER-RESPONSIVITA’ SENSORIALE
Il bambino presenta un pattern pervasivo e persistente di iper-responsività sensoriale che comporta reazioni intense e negative a uno o più tipi di stimoli sensoriali, in più di un
contesto e con diversi caregiver. L'intensità o la durata della risposta sono sproporzionate rispetto all’intensità dello stimolo. Il bambino cerca di evitare preventivamente il contatto
con gli stimoli sensoriali avversi (es. aspirapolvere).
- I sintomi nei bambini piccoli si manifestano con pianto eccessivo, difficoltà a calmarsi, disagio persistente anche se consolati – successivamente si possono
osservare comportamenti oppositivi o di evitamento quando gli viene chiesto di partecipare ad un’attività.
Alcuni dei fattori che comportano un rischio di sviluppare tale disturbo sono: nascita pretermine o peso alla nascita ridotto per età di gestazione, fattori ambientali quali mancanza
di movimento/stimolazione tattile nei primi anni di vita, l’esposizione a droghe o a stress prenatale. Inoltre, i bambini con un ritardo globale di sviluppo o con disabilità intellettiva
presentano maggiore rischio.
- Bambini con questo disturbo possono presentare importanti problemi nell’alimentazione, nel sonno e nella capacità di auto-consolarsi – in età prescolare vi è un
alto rischio di problemi comportamentali ed emotivi, in età scolare sono probabili problemi nel rendimento scolastico.
I bambini ipersensibili potrebbero essere infastiditi dalle sensazioni tattili, da luci forti, rumori o odori – è comune riscontrare difficoltà nel farsi lavare e tagliare i capelli, nel
controllo posturale in associazione a uno scarso tono corporeo e alla tendenza a camminare sulla punta dei piedi. Nelle attività di motricità fine si evidenziano difficoltà nella
coordinazione oculomanuale. Inoltre, in luoghi affollati si osservano disagio e irritazione per il troppo movimento o rumore intorno a sé. L'ipersensibilità potrebbe condurre il
bambino a isolarsi ed evitare giochi in movimento e in spazi aperti.
Il genitore o l’educatore possono mettere in atto comportamenti orientati all’aumento della flessibilità, della curiosità esplorativa, proponendo esperienze sensoriali in maniera
graduale, con incoraggiamento ed empatia.
6.3 DISTURBO DA IPO-RESPONSIVITA’ SENSORIALE
Il bambino mostra risposte emotive o comportamentali ridotte quando esposto a stimoli intensi che dovrebbero evocare una forte o moderata risposta sensoriale. L'intensità
minima di reazione, la lunga latenza di risposta e la breve durata della risposta non sono proporzionate all’intensità dello stimolo. L'ipo-responsività sensoriale si presenta in più di
un contesto e può coinvolgere uno o più domini sensoriali.
I bambini iposensibili esplorano in modo limitato l’ambiente, tendono a essere apatici, pigri, facilmente stancabili, disattenti – possono presentare impaccio motorio a causa di
uno scarso sviluppo dello schema corporeo e scarsa coordinazione del movimento, poco fluido e poco armonico.
L'iposensibilità si può manifestare anche attraverso una forte ricerca di stimolazione sensoriale, per esempio la ricerca di un contatto fisico intenso, di odori e il movimento
continuo con possibili incidenti o situazioni di pericolo. Tali bambini possono avere una soglia del dolore molto alta. Questi bambini dovrebbero essere valutati per condizioni
mediche in cui vi sia insensibilità al dolore ed è necessario escludere altri disturbi, per esempio l’ASD o l’ADHD.
Gli adulti possono intervenire sostenendo l’iniziativa del bambino, la sua attenzione, l’interazione e l’esplorazione con l’ambiente, accompagnandolo e modulando le sue reazioni
(sia quando sono minime che quando sono eccessivamente impulsive).
Parlare e spiegare che deve stare più attento, stare seduto o che deve rispondere alle domande non è utile poiché il bambino non è in grado di gestire intenzionalmente i suoi
comportamenti, ma può giovare fare esperienza di situazioni facilitanti l’autoregolazione. Partendo dagli interessi del bambino, è utile sostenere il gioco libero introducendo
materiali e stimoli diversi.
Quando il bambino mostra un pattern pervasivo e persistente di risposta sensoriale atipica che non soddisfa i criteri diagnostici per il Disturbo da iper-responsività
sensoriale o da ipo-responsività sensoriale, si parla di “Altri disturbi della processazione sensoriale”.

Approfondimento 6.2 - Traiettorie evolutive del Disturbo di regolazione


La ricerca sulla salute mentale in età prescolare focalizza l’attenzione sulle modalità di esordio dei principali disturbi, sulla loro espressione sintomatica e sulla successiva
evoluzione clinica.
Uno studio riguardante l’espressività fenotipica del Disturbo di regolazione (DR) ha preso in esame una popolazione clinica di bambini con diagnosi di DR afferiti a un servizio
ambulatoriale di neuropsichiatria infantile. Il motivo di consultazione coinvolgeva alcune dimensioni fondamentali dello sviluppo precoce segnalando difficoltà dei genitori a
sviluppare con i bambini una co- regolazione efficace. I risultati indicano che il DR è caratterizzato da un ampio spettro di espressioni sintomatologiche proprie di una specifica fase
di sviluppo. L'urgenza clinica nell’intercettare tali difficoltà è sostenuta dalla presenza di vulnerabilità maturative soggiacenti nel bambino, indicate come difetto di integrazione
sensoriale, che se non riconosciute e correttamente diagnosticate perpetuano circuiti relazionale bambino-caregiver non adeguati.
6.4 TRATTAMENTO
Ogni intervento dovrebbe essere basato su una comprensione più completa possibile del bambino e delle sue relazioni e sul coinvolgimento dei caregiver nel percorso terapeutico.
L'obiettivo generale dell’intervento è il passaggio da una regolazione emotiva e comportamentale esterna a un’autoregolazione.
Il trattamento congiunto genitore-bambino nasce come intervento per la risoluzione dei problemi di salute mentale del bambino ed è necessario il riconoscimento dei contributi
sia del genitore sia del bambino alla relazione. Nei primi cinque anni di vita infatti sono di fondamentale importanza le relazioni primarie.
Nel trattamento dei problemi relazionali genitori-bambino è necessario un approccio che tenga in considerazione sia gli aspetti interpersonali (o comportamenti, le interazioni tra
genitori e bambino), sia quelli intrapsichici soggettivi (ossia le rappresentazioni relative a come madre e padre vedono se stessi come genitori e come vedono il proprio bambino).
Uno degli approcci di studio è la valutazione del modo in cui i bambini e i genitori reagiscono alle esperienze sensoriali della vita – le esperienze di uno agli stimoli
sensoriali influenzano quelle dell’altro.
Winnie Dunn ha introdotto un modello basato sulla risposta alla stimolazione sensoriale per mostrare ai genitori gli schemi di elaborazione sensoriale dei bambini che
hanno un impatto sulla loro relazione. L'obiettivo principale dell’intervento è fornire la giusta stimolazione per lo stile di attivazione specifico di un certo bambino. Se gli adulti
di riferimento tengono conto della sensibilita sensoriale del bambino e agiscono di conseguenza, possono migliorare le sue difficoltà di regolazione.
Ogni bambino è diverso dall’altro ed è necessaria un’accurata osservazione per individuare i punti di forza e di debolezza e definire l’intervento adeguato. Tuttavia,
alcune strategie di supporto possono essere condivise e utilizzate in molte situazioni, per esempio rispettare i tempi del bambino e prepararlo ai cambiamenti. L'adulto può
affiancare il bambino nella attività mostrandogli come fare o svolgendo inizialmente insieme l’azione. Inoltre, è utile procedere per piccoli obiettivi, moderare la quantità di stimoli
visivi e uditivi e sostenere lo sviluppo emotivo.
Quando il bambino presenta un Disturbo di regolazione, la collaborazione tra famiglia, scuola e servizi di diagnosi e cura è fondamentale per comprendere meglio e affrontare
adeguatamente le difficoltà che emergono.
Negli ultimi anni si è diffusa una maggiore conoscenza di tali problematiche ma è necessaria una continua diffusione e condivisione di tali concetti perché possano essere compresi
e interiorizzati da chi lavora con i bambini piccoli.
6.4.1 “CERCO ASILO”: TRATTAMENTO DELLA RELAZIONE GENITORE-BAMBINO NELLA PRIMA E SECONDA INFANZIA
Il progetto “Cerco Asilo” è stato un progetto sperimentale che è riuscito poi a realizzare un servizio di “asilo terapeutico” dedicato a minori della fascia di età 0-5 anni. L’esperienza
clinica maturata aveva fatto emergere il bisogno di creare uno spazio diagnostico e terapeutico più adeguato a rispondere ai bisogni dei bambini e delle loro famiglie – lo spazio
ambulatoriale talvolta era limitato e ostacolava il possibile lavoro con la famiglia. Queste possono così raccontare le difficoltà che incontrano con il loro figlio, ma anche viverle
insieme all’operatore, nel qui ed ora dell’interazione.
Il trattamento si caratterizza per la focalizzazione sulla relazione genitori-bambino e prevede un percorso di sei mesi con cadenza settimanale. Le famiglie trascorrono una
giornata con un piccolo gruppo di trattamento composto da bambini e genitori in un ambiente familiare, a misura di bambino. Alcune attività sono di gruppo, altre rivolte ai singoli
nuclei familiari. I problemi relazionali della famiglia sono affrontati osservando il comportamento interattivo della diade genitore-bambino e offrendo una guida ai caregiver. È
parallelamente previsto un intervento per la promozione della genitorialità consapevole, attraverso incontri di gruppo e familiari – l’intervento si propone di promuovere nel genitore il
recupero di risorse di autonomia e autosufficienza e di sostenere il minore nel suo percorso di crescita.
Il clinico può accompagnare i genitori in molti momenti della giornata, svolgendo un ruolo di facilitatore nelle diverse pratiche dell’accudimento (gioco, momento del pasto,
risposino...).
Il coinvolgimento dei genitori nelle attività ludiche da una parte dà risposte ai bisogni di scoperta e di esplorazione dei bambini, dall’altra permette agli adulti di sviluppare una
maggiore comprensione dei propri bambini e di migliorare le capacità di comunicazione e di elaborazione dei conflitti educativi. Osservare il figlio in un’attività quotidiana ma in uno
spazio diverso apre ai genitori una nuova percezione e il riconoscimento del mondo interno del bambino, che permette di modificare anche la loro relazione esterna con il figlio.
• Le attività proposte sono finalizzate alla strutturazione nel bambino di un sistema di regolazione che lo sostenga nel processo di interiorizzazione di comportamenti sociali
adattivi, implementando le competenze educative del genitore. Lo scopo è di mettere il genitore nelle condizioni di riflettere sugli stati mentali propri, del figlio e su
quelli che si attivano nella relazione, essendo il paziente non il bambino, ma il sistema dinamico della loro relazione. Il bambino e il genitore, infatti, appartengono a un
sistema regolativo e interattivo e le parti si influenzano in modo reciproco.
L'intervento affronta i problemi relazionali della famiglia offrendo ai caregiver una comprensione più completa dei sentimenti, dei pensieri e delle azioni del loro bambino e propri.
L'obiettivo teorico è che, in un ambiente in cui i genitori si possano sentire incoraggiati e sostenuti psicologicamente, essi possano esplorare liberamente il proprio repertorio di
comportamenti genitoriali innati, costruendo un percorso a partire dai nuclei di competenza che mostrano.
7 DISTURBI DEL LINGUAGGI
I Disturbi di sviluppo del linguaggio sono quelle condizioni cliniche in cui, pur in assenza di patologia conclamate, il bambino non riesce a sviluppare la competenza linguistica
secondo le modalità o i ritmi attesi per la sua età.
7.1 LO SVILUPPO DEL LINGUAGGIO
Il linguaggio verbale è una capacità esclusiva dell’essere umano che, oltre a modalità di comunicazione non verbali, ha sviluppato una forma di comunicazione finalizzata a
trasmettere informazioni ed a stabilire interazioni attraverso l’uso di simboli sonori. Questa modalità comunicativa è lo strumento principale per interagire con i propri simili, ma è
anche (una volta interiorizzata) strumento di autoregolazione, fondamentale per pensare, ragionare e una volta tradotta in forma scritta, è mezzo per creare e trasmettere
contenuti culturali.
Il linguaggio verbale è quindi una funzione cognitiva complessa che richiede diverse competenze, supportate a loro volta da strutture anatomiche del nostro organismo.
Prima di tutto, per parlare occorre la capacità di produrre e comprendere espressioni verbali (che dipende dal corretto funzionamento di apparto bucco-fonatorio e sistema
sensoriale acustico-uditivo) sulla base dell’applicazione e interpretazione di regole condivise dalla comunità di appartenenza, che permettono la “generatività infinita" del sistema
linguistico (= possibilità di produrre un numero infinito di messaggi adatti ad esprimere qualsiasi concetto o pensiero).
In ogni lingua il rapporto tra l’espressione (la forma sonora) e il significato (il contenuto) del flusso del parlato è mediato dalle caratteristiche e dal funzionamento delle
4 sotto-componenti del linguaggio:
1) Fonologia: sistema i suoni (fonemi) esistenti in una lingua e le loro combinazioni
2) Grammatica: costituita dalla morfologia (insieme di unità di significato implicate nella formazione delle parole) e dalla sintassi (modo in cui le parole sono combinate fra loro per
formare frasi e periodi)
3) Semantica: significato delle parole e frasi
4) Pragmatica: riguarda l’uso appropriato del linguaggio nei diversi contesti, sia a livello di contenuti che di aspetti formali
Il funzionamento delle varie componenti dipende dall’applicazione di regole secondo un’elaborazione cognitiva che chiama in causa funzioni cognitive e funzioni esecutive, e
richiede il corretto operato di un substrato neuroanatomico predisposto al loro controllo (i “circuiti” del linguaggio nell’area temporo-parieto-frontale dell’emisfero cerebrale sinistro).
Tutto questo comunque non è sufficiente. Affinché il linguaggio sia uno strumento di comunicazione, occorre la capacita di socializzare e soprattutto occorre che l’individuo
sperimenti la necessità e l’intenzione di condividere con gli altri i propri contenuti di pensiero. Occorrono dunque capacità di attenzione condivisa, il possesso di una “teoria della
mente” che permetta di pensare all’altro come dotato di un proprio stato mentale e una propria visione del mondo, ed una capacità di relazionarsi e interagire con gli altri.
Nonostante il linguaggio sia un sistema così complesso, il suo apprendimento avviene in un tempo breve, nei primi tre anni di vita. Negli anni successivi il sistema linguistico si
espande, si specializza e si consolida fino all’inizio dell’età scolare quando avviene l’acquisizione della lingua scritta.
È attraverso lo sviluppo del linguaggio verbale che il bambino acquisisce una competenza comunicativa efficace e funzionale, non solo alla trasmissione di richieste per la
soddisfazione dei propri bisogni, ma anche all’espressione di pensieri, emozioni, sentimenti ed intenzioni.
Secondo le prospettive “interazionista” e “funzionalista”, biologia ed esperienza contribuiscono allo sviluppo linguistico. Il linguaggio, cioè, si sviluppa sulla base
dell’interazione fra una predisposizione biologica e la partecipazione ad uno scambio sciale e ad un contesto di comunicazione orale. In tale processo interattivo l’adulto svolge
un ruolo importante di stimolazione, di scaffolding (sistema di supporto per l’acquisizione del linguaggio: situazione in cui una persona più esperta ne aiuta un’altra meno
esperta nel suo processo di apprendimento, offrendo anche supporto sia a livello emotivo che cognitivo), per esempio attraverso l’uso di particolari forme di linguaggio (come il
“motherese”) e di particolari strategie comunicative nell’interazione con il bambino (come rimodellamento, riformulazione ed espansione delle produzioni del bambino e
denominazione degli oggetti con cui il bambino viene in contatto).
- L’abilità linguistica, inoltre, si sviluppa in continuità con lo sviluppo cognitivo: l’emergenza del linguaggio è una delle espressioni della conquista del pensiero
rappresentativo, ma è anche mezzo per favorire lo sviluppo cognitivo stesso, uno strumento di acquisizione di nuove conoscenze e di compimento dei processi di pensiero.
Pur in presenza di una variabilità individuale, l’evoluzione linguistica del bambino passa attraverso una serie di tappe che si succedono in modo costante, in cui emergono prime le
competenze di comprensione che quelle di produzione e in cui si passa gradualmente dalla produzione dei primi suoni alla produzione delle prime parole e frasi semplici e
complesse.

7.2 DISTURBI DEL LINGUAGGIO


Proprio perché il linguaggio è una competenza complessa, un problema di sviluppo del linguaggio può celare problemi clinici di natura diversa (sensoriali, neurologici, cognitivi,
emozionali...), costituendone una tra le più precoci manifestazioni e uno dei primi campanelli dall’allarme per la famiglia. Spesso, dunque, i disturbi a carico dello sviluppo
del linguaggio costituiscono quadri clinici molto eterogenei e sono secondari, o associati, ad altri disordini detti primari.
In alcuni casi, tuttavia, lo sviluppo del linguaggio può essere compromesso in modo isolato nei suoi aspetti strumentali, senza che siano presenti altre problematiche significative
dello sviluppo o gravi patologie causali. Sono i casi relativamente “puri”, in cui non sono identificabili fattori causali noti e per questo definiti Disturbi specifici del linguaggio.
Nella comunità scientifica è sorto un dibattito sulla correttezza dell’uso di tale termine in relazione al fatto che varie evidenze scientifiche hanno messo in luce in
questi bambini un profilo neuropsicologico spesso caratterizzato da fragilità anche in aspetti non-linguistici ed un aumentato rischio di problematiche associate di
ordine cognitivo, sociale e comportamentale.
A questo proposito, essendo riconosciuta l’importanza di una corretta diagnosi e di un corretto trattamento del Disturbo del linguaggio in età evolutiva, è stata promossa una
Consensus Conference sui Disturbi del linguaggio in età evolutiva che ha portato alla costituzione di un panel cui sono stati invitati associazioni e studiosi allo scopo di identificare il
percorso diagnostico e terapeutico e gli strumenti per la valutazione delle diverse manifestazioni.
Il termine “Disturbo primario del linguaggio” è stato recentemente scelto per riferirsi a questi quadri clinici, in quanto tale etichetta rende bene l’idea di un disturbo del linguaggio
che si presenta in assenza di altre patologie di rilievo e non esclude la presenza di sottili deficit neuropsicologici, che tuttavia non sono così rilevanti da costituire fattori causali del
disturbo.
In questo capitolo vengono affrontate queste problematiche, che chiameremo semplicemente Disturbi del linguaggio in accordo alla classificazione diagnostica del DSM-5.
APPROFONDIMENTO - Sviluppo del linguaggio e sordità
I fattori che determinano le diverse conseguenze della sordità sullo sviluppo linguistico sono:
1. le cause (genetiche, traumatiche, tossiche, virali...),
2. l’associazione con altre patologie dello sviluppo,
3. l’età di insorgenza,
4. la sede del danno uditivo (cocleare, retrococleare...),
5. l’epoca della diagnosi,
6. il tipo di protesi adottata, il tipo di trattamento riabilitativo, l’entità della perdita uditiva.
I bambini sordi presentano difficoltà di acquisizione del linguaggio che non sono primarie, ma secondarie al fatto che la compromissione del canale uditivo rende loro impossibile un
accesso ottimale all’input linguistico.
Le ripercussioni sull’acquisizione linguistica sono spesso evidenti anche quando si interviene, la diagnosi di sordità e la correlazione della stessa avviene in ritardo e i soggetti
sordi non riescono a raggiungere un livello di competenza linguistica comparabile a quello dei soggetti udenti.
I bambini sordi possono sviluppare un linguaggio caratterizzato da un numero ridotto di termini, frasi brevi, semplici, con ambiguità semantica oppure produzioni agrammatiche. Le
stesse difficoltà sono presenti anche a livello recettivo, la comprensione di frasi complesse risulta problematica.
Si ipotizza che le persone sorde, più che un’alterazione, presentino un generale ritardo nello sviluppo linguistico e che questo non venga mai recuperato del tutto anche dove si
favorisce l’esposizione alla lingua orale precocemente e adottando mezzi idonei al recupero.
Con l’avvento degli impianti cocleari, possono beneficiare di quegli input sensoriali critici che sono necessari per lo sviluppo di un “cervello udente”. Ovviamente, l’acquisizione del
linguaggio dopo l’impianto cocleare dipende da molti fattori (es. età dell’impianto, eventuali disabilità associate...).
Un approccio riabilitativo che potrebbe risultare utile prevede la promozione del bilinguismo in cui l’uso della lingua vocale è associato alla lingua dei segni (favorisce la riduzione del
ritardo linguistico e l’integrazione del bambino).
7.2.1 INQUADRAMENTO NOSOGRAFICO ED EPIDEMIOLOGICO
Con il termine Disturbo del linguaggio DDL ci si riferisce a un gruppo di disordini linguistici che si presentano nei bambini con capacità cognitive nella norma e assenza di cause
identificabili alla base del disturbo. Esso si presenta fin dalle fasi iniziali della comparsa delle abilità linguistiche e per questo nel DSM-5 è stato incluso tra i Disturbi del
neurosviluppo (condizioni che insorgono in epoca precoci e che compromettono il funzionamento personale, sociale, accademico e occupazionale del soggetto).
È incluso nel sottogruppo dei Disturbi della comunicazione, che comprendono: Disturbo del linguaggio, Disturbo fonetico-fonologico, Disturbo della fluenza con esordio
nell’infanzia (balbuzie), Disturbo della comunicazione sociale (pragmatica) e Disturbo della comunicazione non specificato.
1. Disturbo del linguaggio (DL): disturbo della forma, funzione e d uso del sistema convenzionale di simboli linguistici che governa la nostra modalità di comunicazione. I suoi
quadri possono essere eterogenei e assumere differenti espressioni nelle fasi evolutive. I deficit linguistici, infatti, possono interessare gli aspetti di codifica (produzione) e/o
decodifica (comprensione) in uno o più ambiti della competenza linguistica (fonologia, lessico, morfosintassi, pragmatica). In genere si parla di Disturbo espressivo quando
la problematica si esprime in difficoltà nella produzione e nell’uso del linguaggio in una o in tutte le componenti linguistiche – il Disturbo recettivo-espressivo consiste
invece in un deficit di comprensione associato al deficit di produzione, in una o più delle sotto-componenti.
2. Disturbi fonetico fonologici (DFF): ancora più settoriali del Disturbo del linguaggio, in quanto caratterizzati da una persistente difficoltà nella produzione dei suoni, in
assenza di difficoltà a livello articolatorio, semantico e grammaticale, che interferisce con l’intelligibilità dell’eloquio e con la comunicazione verbale.
Entrambi i tipi di disturbo non sono attribuibili a compromissione dell’udito, disfunzione motoria, a disabilità intellettiva o a ritardo globale dello sviluppo, in quanto si presentano in
bambini con sviluppo sufficientemente tipico sotto tutti gli aspetti tranne che per comprensione e produzione.
Nonostante questi disturbi non siano riconducibili a una causa precisa, possiamo individuare alcuni indicatori di rischio precoce quali: la familiarità per Disturbi del linguaggio e
dell’apprendimento, il sesso (problematica più presente nei maschi) e l’aver sofferto di otiti nei primi anni di vita.

7.2.2 FENOTIPO CLINICO


I disturbi del linguaggio presentano un’ampia variabilita fenotipica che può cambiare nel tempo.
1. I bambini con Disturbo del linguaggio sono stati in genere bambini “parlatori tardivi”, late talkers. I late talkers sono bambini che, nonostante un normale sviluppo intellettivo
e socioaffettivo, a 24 mesi non producono più di 50 parole diverse e a 30 mesi non producono combinazione di almeno 2 parole – non si tratta di condizione patologica, ma
di un ritardo di sviluppo e dell’espressione della variabilità. Il ritardo del linguaggio è un fenomeno molto comune in età prescolare, con un tasso di prevalenza compreso tra
il 14% e il 17% tra i 24 e i 36 mesi. La condizione di late talker è, dunque, un significativo fattore di rischio per andare incontro a un Disturbo del linguaggio, soprattutto se
associato ad altre condizioni.
Normalmente i bambini con Disturbo del linguaggio producono le prime parole in ritardo e presentano un vocabolario ridotto e poco variato, errori fonologici e di pronuncia – anche
le prime associazioni di parole e le prime frasi sono prodotte in ritardo: le frasi prodotte in genere sono più brevi e meno complesse che nello sviluppo tipico e sono caratterizzate da
errori grammaticali che riflettono un mancato controllo della morfologia e delle regole sintattiche.
A partire dai 3-4 anni si configurano con chiarezza le aree più colpite dal disturbo, che frequentemente interessa la componente espressiva fonologico-morfosintattica.
Nei bambini di lingua italiana con Disturbo del linguaggio si osservano soprattutto problemi nella strutturazione della frase, nello sviluppo del linguaggio narrativo e nell’uso della
morfologia grammaticale, con particolari difficolta nell’uso della terza persona plurale del verbo – nei bambini di lingua inglese sono evidenti errori nell’uso della morfologia riflessiva
del verbo finito e degli articoli “the” o “a”.
- L’andamento evolutivo e la prognosi sono diversi in relazione al grado di compromissione e al fatto che i disturbi siano solo espressivi o anche recettivi. Nei
bambini con Disturbo recettivo-espressivo, infatti, il quadro clinico è più grave sia perché presenta compromissione dei processi di decodifica e codifica
linguistica, sia perché sono presenti difficoltà a carico di altre abilità cognitive come la memoria di lavoro fonologica.
2. I Disturbi fonetico-fonologici comprendono un gruppo di disturbi molto eterogeneo sia sul piano fenotipico che fisiopatologico, fra cui disturbi fonologici ma anche disturbi
dell’articolazione. Nei primi si ipotizza deficit a livello della conoscenza-rappresentazione dei suoni, nei secondi il deficit interessa i meccanismi di programmazione e
controllo dei movimenti articolatori in assenza di deficit neuromotori specifici, malformazioni strutturali, ecc. Un disturbo severo contemplato da questa categoria è la
disprassia verbale: è un disordine complesso in cui il bambino non riesce ad articolare i suoni del linguaggio in quanto non è in grado di pianificare o programmare i
movimenti articolato necessari alla produzione di suoni, sillabe e parole.
Le diagnosi del Disturbo del linguaggio e del Disturbo fonetico-fonologici richiedono valutazione neurologica e audiologica, la valutazione dello sviluppo cognitivo e affettivo ed
un’analisi dettagliata e completa, attraverso test specifici del profilo funzionale linguistico. Per formulare la diagnosi e il piano di trattamento è utile una valutazione del profilo
neuropsicologico che permette di evidenziare punti di forza e punti deboli del bambino.

7.2.3 ENDOFENOTIPO COGNITIVO


Anche i Disturbi del linguaggio sono considerati una problematica settoriale e primaria, da tempo tramite lo studio dei profili cognitivi si cerca di verificare se possono esserci cause
cognitive o fattori associati che possono portare alla sua manifestazione comportamentale, ovvero capirne l’endofenotipo cognitivo.
Gli studi si sono focalizzati sulla memoria di lavoro fonologica ed hanno dimostrato che questa gioca un ruolo cruciale nello sviluppo tipico del linguaggio – un disturbo di questa
funzione può essere la causa di uno sviluppo atipico delle abilità linguistiche. In effetti un disturbo di memoria fonologica è uno dei più frequenti deficit cognitivi documentati nei
Disturbi del linguaggio ed è rappresentato da un deficit nella ripetizione di non-parole, compito che stressa le abilità della memoria di lavoro fonologica. Inoltre, secondo alcuni autori
il deficit di memoria costituisce un fattore cruciale nel determinare lo sviluppo di un Disturbo del linguaggio nei bambini late talkers e di un disturbo dell’apprendimento nei bambini
con Disturbo del linguaggio.
Nei bambini con Disturbo del linguaggio sono stati documentati deficit a carico di altre abilità neuropsicologiche, come le capacità di memoria di lavoro visuo-spaziale
e di attenzione. Recentemente è stato anche ipotizzato che alla base del disturbo linguistico ci sia un deficit di apprendimento di natura procedurale che renderebbe
conto delle difficoltà di acquisizione delle regole grammaticali.
7.2.4 EZIOLOGIA
L’eziologia dei Disturbi primari del linguaggio rimane sconosciuta al momento. Ci sono, tuttavia, prove che tali disturbi originino dalla complessa interazione tra espressione
dell’assetto genetico e fattori di rischio ambientale. Secondo quest’ottica (che fa capo alla prospettiva epigenetica) nei soggetti con DL, l’interazione fra l’operato dei geni e gli effetti
dell’influenza ambientale si rifletterebbe in un’alterazione dello sviluppo anatomo-funzionale del sistema nervoso centrale e dell’organizzazione dei network cerebrali per il
linguaggio.
Nei soggetti con Disturbo del linguaggio, infatti, sì sono escluse patologie neurologiche conclamate, ma sono state riscontrare sia anomalie genetiche che anomalie strutturali e
funzionali delle aree cerebrali deputate al funzionamento linguistico.
7.2.5 EVOLUZIONE
Il Disturbo del linguaggio può essere risolto in tempi più o meno lunghi in relazione alla gravità del quadro e alla tempestività e intensità della presa in carico,
attraverso opportuno trattamento. Tuttavia, nei casi più gravi il disturbo si protrae in età scolare, interferendo con l’apprendimento della lingua scritta. È ampiamente documentato
che i bambini con Disturbo del linguaggio in età prescolare sono ad alto rischio di presentare un disturbo della letto-scrittura in età scolare, con una co-occorrenza fra i due disturbi
rilevata nel 50% dei casi. Si parla dunque di continuita tra Disturbo del linguaggio e Disturbo di apprendimento (DSA) – il Disturbo del linguaggio in età prescolare è stato
inserito fra i fattori di rischio anche nelle raccomandazioni diagnostiche per la pratica clinica con i DSA. In particolare, sono la persistenza del Disturbo del linguaggio in età scolare,
l’estensione della compromissione a più componenti e un ritardo nella diagnosi e nell’inizio del trattamento a costituire fattori di rischio per l’outcome nell’apprendimento. Tuttavia,
anche laddove il Disturbo del linguaggio sembri recuperato in età scolare, difficoltà di apprendimento possono manifestarsi più tardi in concomitanza di richieste scolastiche di livello
più elevato, per cui il recupero potrebbe essere solo apparente (Illusory recovery)
In generale, comunque, i bambini che hanno presentato un Disturbo del linguaggio vanno incontro a un disturbo di apprendimento più complesso rispetto a quello presentato da
soggetti che non hanno avuto una problematica linguistica precoce.
È dunque fondamentale, in fase diagnostica, effettuare una valutazione quanto più estesa dei bambini con Disturbo del linguaggio per rilevare eventuali aree di debolezza oltre a
quella linguistica.
7.3 TRATTAMENTO
Il trattamento riabilitativo consigliato in caso di Disturbo del linguaggio è la logopedia. Può essere svolta sia in forma individuale che in piccolo gruppo e si avvale di tecniche
specifiche atte a stimolare lo sviluppo delle varie competenze linguistiche. In genere se i bambini presentano adeguate competenze di comprensione, si può attendere fino ai
36 mesi per intraprenderla, altrimenti va valutata un’eventuale presa in carico precoce. In caso di ritardo espressivo, si mettono in atto interventi indiretti, di counseling e parent
training.
L’intervento sugli aspetti linguistici può essere integrato con attività di potenziamento di altre abilità cognitive che possono presentarsi carenti in associazione alla problematica
linguistica.
• Nel Disturbo del linguaggio, soprattutto all’avvicinarsi della fase scolare, appare utile integrare lavoro sulle abilità linguistiche, con attività di potenziamento delle varie abilità
cognitive carenti e dei prerequisiti degli apprendimenti. Occorre ricordare che, sebbene oggi nessun elemento possa essere considerato distintivo per proporre una diagnosi
precoce di DSA, il Disturbo del linguaggio è il predittore più affidabile (insieme alla familiarità) della Dislessia evolutiva e come tale richiede un’attenta
considerazione.
7.4 BAMBINI CON DISTURBO DI LINGUAGGIO A SCUOLA
Nel lavoro riabilitativo con i bambini con Disturbo del linguaggio è centrale la collaborazione con la scuola – occorre dunque che anche a scuola vengano attivati percorsi e
strategie pedagogico-didattiche proiettati allo sviluppo delle competenze linguistiche e alla stimolazione dei prerequisiti prima e al supporto negli apprendimenti dopo.
- Nella scuola dell’infanzia per promuovere l’acquisizione delle abilita fonologiche potranno essere utili giochi che contemplano l’uso dei suoni del linguaggio, come
filastrocche, rime o strategie comunicative di riformulazione e ampliamento delle produzioni del bambino. Per supportare lo sviluppo del vocabolario potrà essere utile
presentare parole nuove accompagnandole con disegni o immagini. È utile stimolare sempre il bambino affinché usi il linguaggio, soprattutto con quei bambini che tendono a
comunicare a gesti (per esempio indicando ciò che vogliono).
Con l’ingresso del bambino nella scuola primaria e con l’introduzione della letto-scrittura, le difficoltà possono diventare maggiori e possono emergere via via anche gli aspetti
più latenti – per questo, oltre al lavoro sugli aspetti linguistici, occorre supportare l’acquisizione dei processi di conversione segno-suono e suono-segno e le abilità metafonologiche.
I bambini con Disturbi del linguaggio sono alunni che hanno quindi “bisogni educativi speciali”, per i quali sono fondamentali interventi didattici di potenziamento e l’uso di
strumenti compensativi.
È richiesta la predisposizione di un Piano Didattico Personalizzato (PDP) in cui man mano che la scolarizzazione procede e aumentano le richieste, sarà necessario introdurre
l’uso di strumenti compensativi per supportare lo studio, l’esposizione orale e la comprensione delle consegne o del testo scritto. L’insegnate dovrà essere in grado di conoscere la
natura delle difficoltà del suo alunno cercando di evitare di esporre il bambino alla frustrazione e senso di impotenza, ma promuovendo motivazione e autostima.
8 DISABILITÀ INTELLETTIVA
La Disabilita intellettiva è una condizione clinica complessa ed eterogenea caratterizzata da uno sviluppo alterato delle funzioni cognitive e adattive, cui si associano
frequentemente dei disturbi (motori, linguistici, affettivi, neurosensoriali, comportamentali ecc.), i quali a loro volta interagiscono con lo sviluppo mentale del bambino. È quindi
fondamentale, nella costruzione del piano di trattamento, l’identificazione del bisogno terapeutico del paziente, che valuti tutti gli aspetti che lo caratterizzano (psichici, organici e
ambientali).
8.1 DEFINIZIONE E DIAGNOSI
La Disabilita intellettiva (DI) rientra nei Disturbi del neurosviluppo nel DSM-5 (quindi a esordio nel periodo dello sviluppo, ed è definita come “caratterizzata da deficit delle
capacità mentali generali, quali il ragionamento, il problem solving, la pianificazione, il pensiero astratto, la capacità di giudizio, l’apprendimento scolastico e l’apprendimento
dall’esperienza”. Essa comporta una compromissione delle capacità adattive tale da interferire sull’acquisizione degli standard di autonomia e responsabilità sociale. L’attuale
definizione di “Disabilità Intellettiva” è il risultato di un cambiamento socio-culturale che ha portato a una maggiore comprensione e di conseguenza al miglioramento del trattamento
di questa condizione clinica.
- 1971: la “Dichiarazione sui diritti delle persone con ritardo mentale” equipara i loro diritti a quelli riconosciuti a tutti gli esseri umani. Termini come “mongoloide”, “spastico”,
“minorato” lasciano il posto al termine “handicap”
- 2000: DSM-IV TR appare il termine “ritardo mentale” in sostituzione di “debolezza”, “deficienza”
- 2001: nell’ICS dell’OMS viene abbandonato il termine “handicap” per quello di “persona con disabilità”, che introduce un nuovo concetto di disabilità: un rapporto sociale che
dipende dall’interazione fra le condizioni di salute e le condizioni socio-ambientali in cui si svolgono le attività dell’individuo
- 2006: la disabilità diventa concetto giuridico e standard internazionale
- 2010: una legge federale conosciuta come “Legge di Rosa” sostituisce ufficialmente il termine “ritardo mentale” con “disabilità intellettiva”. Nel 2013 verrà sostituito anche nel
DSM-5
Tali cambiamenti hanno modificato l’approccio culturale alla disabilità intellettiva e portato anche a miglioramenti nei processi di comprensione del funzionamento intellettivo, del
comportamento adattivo e delle modalità di valutazione.
In base al DSM-5, quindi, la DI è un disturbo con esordio nel periodo dello sviluppo che comprende deficit del funzionamento sia intellettivo che adattivo negli ambiti concettuali,
sociali e pratici, rispetto a individui della stessa età, sesso e livello socioculturale. Per poter formulare la diagnosi devono essere soddisfatti 3 criteri:
1. Criterio A: deficit del funzionamento intellettivo (ragionamento, soluzione di problemi, pensiero astratto, capacità di giudizio ecc) – confermato sia da valutazione
clinica che da prove di intelligenza.
Il funzionamento intellettivo è misurato con test di intelligenza somministrati individualmente, standardizzati e validati dal punto di vista psicometrico – le prestazioni, in questo
caso, devono collocarsi al di sotto di 2 deviazioni standard dalla media
2. Criterio B: deficit del funzionamento adattivo che si manifesta con il mancato raggiungimento di standard per l’indipendenza personale e la responsabilità sociale. Il
funzionamento adattivo viene riferito a tre ambiti:
- concettuale-didattico (memoria, linguaggio, letto-scrittura, ragionamento matematico ecc)
- sociale (consapevolezza di pensieri e sentimenti, empatia, comunicazione interpersonale, giudizio sociale)
- pratico (gestire attività quotidiane di cura di sé, di denaro e dI svago, capacità di autocontrollo e responsabilità a scuola o a lavoro).
Viene valutato attraverso il giudizio clinico e l’uso di scale validate, in base all’età, al sesso e al contesto socio-culturale. Questo criterio è soddisfatto quando almeno un ambito è
sufficientemente compromesso e i deficit sono direttamente correlati ai deficit intellettivi
3. Criterio C: deficit intellettivi e adattivi nell’eta evolutiva
Nella diagnosi di Disabilità Intellettiva la nuova classificazione sottolinea la necessità di usare valutazioni cliniche e standardizzate basando la severità del quadro clinico, invece che
in base al QI, sul deficit del funzionamento adattivo dato che esso determina il livello di assistenza richiesto.

8.2 DATI EPIDEMIOLOGICI, GENETICI E NEURO-FUNZIONALI


La nuova definizione della DI è nata per rispondere ad alcune necessità e controversie:
1. dare uguale importanza al QI e alle funzioni adattive
2. i punteggi QI non sono da soli in grado di identificare i bisogni di assistenza nei vari ambiti di vita
3. i punteggi QI tendono a perdere validità quanto più bassi sono sulla base del funzionamento adattivo si continuano a distinguere quattro livelli di severita:
• DI di grado Lieve (83-85%): i bambini sviluppano capacità sociali e comunicative negli anni prescolastici e hanno una compromissione minima aree senso-motorie
– possono acquisire capacità scolastiche di base, competenze cognitive tipiche e capacità sociali che richiedono bisogno di assistenza
• DI di grado Moderato (10-14%): l’acquisizione di linguaggio e abilità prescolastiche è molto lenta (in genere non si hanno capacità di tipo operatorio concreto) – gli
adulti possono acquisire mansioni lavorative semplici da svolgere e sotto supervisione, in ambienti di lavoro protetti
• Grave (3-4%): i bambini acquisiscono un livello minimo di linguaggio comunicativo e la produzione verbale è costituita da singole parole o frasi semplici – in genere
in età adulta sono in grado di svolgere compiti semplici in ambienti altamente protetti e l’adattamento alla vita in comunità o con la propria famiglia è buono.
• Estremo (1-2%): è presente una importante compromissione del funzionamento senso-motorio e l’individuo è dipendente dagli altri in ogni aspetto della cura fisica,
della salute e della sicurezza quotidiana
Funzionamento Intellettivo limite
(FIL – borderline cognitivo o funzionamento intellettivo borderline) è una categoria diagnostica considerata da molti tuttora ancora poco ben definita.
Il DSM-5 colloca il FIL tra le “altre condizioni che possono essere oggetto di attenzione clinica” e sembra aver apportato solo parziali modifiche alla descrizione del quadro clinico
sebbene venga data maggiore importanza alle conseguenti difficoltà nella vita reale piuttosto che al semplice QI. Si sottolinea l’importanza di una attenta valutazione che
differenzi il FIL dalla disabilità intellettiva lieve. Si tratta quindi di una condizione complessa, caratterizzata da una grande variabilità, che identifica persone che presentano limiti
intellettivi con QI compresi tra 1 e 2 deviazioni standard sotto la media e problemi adattivi che, pur non precludendo un inserimento nella vita normale, rendono difficile rispondere
a tutte le richieste di scuola e ambiente.
Considerare il FIL come una categoria diagnostica ben distinta resta la necessità condivisa da molti autori e operatori ai fini di una migliore definizione degli interventi non solo
scolastici ma anche in altri contesti di vita (es. quello familiare). Gli individui con FIL solitamente possono incontrare difficoltà negli ambiti scolastici e di vita, ma possono acquisire
piena autonomia e trovare un inserimento sociale se aiutati da un esperto.
La prevalenza del FIL è compresa tra il 2,5% e il 7%, con variazioni a seconda dell’età (maggiore durante scuola secondaria) e delle condizioni sociali (maggiore in condizioni
ambientali sfavorevoli). Alcuni autori sostengono che una parte dei FIL potrebbe appartenere allo stesso spettro clinico delle DI, mentre un’altra si considera in modo specifico in
base a diverse tipologie dipendenti da cause diverse – pertanto vengono distinti:
• FIL dovuti a cause biologiche o ambientali (“FIL naturale”)
• FIL dovuti a cause biologiche genetiche (es. sindrome di Prader-Willi, Turner ecc)
• FIL associati ad altri disturbi del neurosviluppo (es. disturbi dello spettro dell’autismo, d. da deficit di attenzione o iperattività, d. specifici dell’apprendimento ecc)
• FIL associati ad altre condizioni psicopatologiche (es. schizofrenia, disturbi dell’umore o d. della personalità)
• FIL associati a situazioni di svantaggio socio-culturale e di povertà
Esordio, prevalenza e decorso
L’esordio della DI avviene in età diverse dello sviluppo in base all’eziologia e al livello di gravità. In generale, più lieve è la compromissione e più tardivamente viene posta la
diagnosi.
È necessario che nella valutazione complessiva il clinico tenga conto dei molteplici aspetti dell’intelligenza, della personalità, delle capacità adattive, delle interazioni familiari e
sociali che caratterizzano il bambino La prevalenza nella popolazione viene stimata tra l’1% e il 3% - la condizione è più comune nei maschi che nelle femmine e questa differenza
di genere viene spiegata in funzione di una maggior suscettibilità al danno del sistema nervoso centrale maschile.
Sono state identificate 750 cause differenti di DI suddivise in:
• Cause prenatali: anomalie cromosomiche o genetiche, malattie metaboliche, malformazioni cerebrali, malattie materne e influenze ambientali
• Cause perinatali: eventi avvenuti in concomitanza col parto
• Cause postnatali: tra cui il danno ipossico-ischemico, lesioni cerebrali traumatiche, esposizione del feto a fattori teratogeni
Il 15-20% dei casi è riferibile a fattori psicosociali di grave deprivazione o ad altri disturbi psichiatrici, mentre nel 30-40% dei casi non è ancora possibile identificare una causa
eziologica definita.
8.3 CARATTERISTICHE CLINICHE GENERALI
La caratteristica principale della Disabilità Intellettiva è la mancanza di un adeguato sviluppo delle funzioni cognitive e adattive, ma si possono associare altri disturbi
variamente interferenti. Sebbene sia molto difficile analizzare tutte le diverse componenti che costituiscono l’assetto cognitivo, è necessario nel bambino con DI cercare di mettere a
fuoco il più possibile le sue capacità.
Lo sviluppo cognitivo può essere valutato in base a diverse dimensioni. In generale le funzioni cognitive sono povere nella qualità oltre che nella quantità, sono presenti difficoltà
di tipo metacognitivo e nelle capacità di ragionamento logico – non tutte le capacità cognitive sono compromesse nello stesso modo (disarmonie cognitive) ma è difficile
trovare aree di funzionamento del tutto normali.
Le diverse competenze si esprimono secondo una gradazione di livelli:
• Costante compromissione degli apprendimenti – cruciale conoscere cosa l’individuo sa fare in relazione alla popolazione normale ma anche come procedono
sviluppo, strutture di pensiero e organizzazione delle conoscenze
• Deficit delle funzioni cognitive di base (attenzione, memoria, concentrazione, funzioni esecutive ecc)
• Presenza di modalita rigide di risoluzione del compito e difficolta di generalizzazione
• Deficit di assimilazione delle esperienze per difficoltà nelle capacità di analisi,
comparazione e integrazione delle informazioni e difficoltà nell’accesso al pensiero astratto
• Contenuti del pensiero ancorati al concreto, all’esperienza, alle impressioni sensoriali
• Presenza di difficolta metacognitive, nella gestione consapevole dei propri strumenti mentali e delle proprie conoscenze – difetto di utilizzazione delle proprie
esperienze e dei meccanismi di autoregolazione
• Presenza di processi meccanici e perseverativi piuttosto che riflessivi – tendenza ad imparare in modo rigido
Vi sono degli aspetti fondamentali da tenere in considerazione che si presentano con una frequenza quasi costante nei soggetti con DI:
• La presenza di un disturbo del linguaggio espressivo e/o ricettivo e il ritardo di emergenza e/o acquisizione del linguaggio – quest’ultimo può investire in maniera
più o meno grave sia aspetti pragmatici sia componenti formali della comunicazione verbale.
La competenza linguistica è caratterizzata da un’organizzazione strutturale semplificata come codifica consequenziale di contenuti di un pensiero povero e talvolta poco
finalizzato.
- A livello espressivo vi sono gradi di gravità diversi: possono essere presenti disturbi di tipo fonologico e difficoltà di articolazione ma il lessico appare
comunque ridotto anche nelle forme meno gravi e le competenze pragmatiche sono generalmente preservate.
- La comprensione è spesso compromessa in misura minore rispetto alla componente espressiva, anche se è necessario utilizzare un linguaggio semplificato e
accompagnato da linguaggio extraverbale.

• La presenza di un ritardo dell’acquisizione delle capacita motorie con successiva goffaggine motoria, impaccio nelle abilità fini, disturbo di acquisizione dello schema
corporeo e spesso disprassia (disturbo dell’organizzazione motoria).
• La presenza di quadri di tipo psicopatologico. La prevalenza di Disturbi psichiatrici in pazienti con DI è dalle 3 alle 4 volte superiore rispetto alla popolazione normale:
ciò sembra dipendere da una maggiore vulnerabilità del substrato biologico e da una maggiore frequenza di esperienze ambientali negative associate a una minore
capacità di elaborazione date le capacità cognitive intrinseche del soggetto con DI.
Occorre sempre indagare la presenza di familiarità per disturbi psichici, la comparsa di una modificazione significativa comportamentale o emotiva, la gravità del deficit
cognitivo che condizionerà la gravità di espressione comportamentale del disturbo psichiatrico e renderà più difficile la comprensione del soggetto da parte dell’altro.
• La presenza di problemi di tipo organico internistico, neurologico e disturbi di tipo sensoriale che interferiscono ulteriormente con le capacità di base.
Disturbi epilettici al 15-30%, disturbi motori al 20-30% e disturbi sensoriali al 10-20%.

8.4 SINDROMI GENETICHE E FENOTIPI COMPORTAMENTALI


Pur essendo ogni individuo unico e irripetibile per il suo patrimonio genetico e per le interazioni di questo con l’ambiente, vi sono alcuni tratti simili nelle disfunzioni neuro-
psicologiche in associazione ad alcuni quadri sindromici.
• Sindrome di Down (SD), caratterizzata da DI legata alla presenza di cromosoma soprannumerario. Si osserva uno sviluppo ritardato e caratterizzato da disarmonie nel
profilo, tra cui la più evidente è quella tra le capacità percettivo-visive e quelle linguistiche, con presenza di disturbi fono-articolatori e produzione verbale ridotta e spesso
poco intellegibile. Vi è una frequente ridotta reattività alle novità e una emozionalità attenuata, e sono meno frequenti e meno gravi i comportamenti disadattivi e le
psicopatologie. Nelle forme più gravi, prevalgono manifestazioni di tipo simil-autistico, con chiusura relazionale serrata, assenza di linguaggio, stereotipie, ed è più rara
la comparsa di franche manifestazioni psicotiche. Nelle forme con minore compromissione cognitiva, si possono osservare disturbi come ADHD, disturbi oppositivi
provocatori, disturbi del comportamento, oppure quadri di tipo ossessivo-compulsivo; meno frequenti sono i disturbi d’ansia. La dimensione depressiva è frequente e può
determinare chiusura relazionale, riduzione dell’autonomia, aumento passività.
• Sindrome di Williams (SW), caratterizzata da scarse capacità sintetiche e sincroniche, difficoltà nelle abilità non verbali e di percezione visuo-spaziale, difficoltà
comportamentali ed emozionali, eccessiva ansia e presenza di paure o fobie. I pazienti con SW sono descritti come grandi parlatori, socievoli, affettuosi, attraenti e
sensibili nei confronti degli altri; mostrano un’inclinazione per il talento musicale e hanno particolari abilità nel riconoscere i volti e descriverli.
• Sindrome di Martin-Bell (“dell’X-fragile”), caratterizzata da iperattività, impulsività e difficoltà di attenzione; manifestazioni di comportamenti di tipo autistico o simil-
autistico e rischio di comportamenti schizotipici.
• Sindrome di Prader-Willi, caratterizzata da ipotonia congenita associata a obesità e iperfagia. Si osservano ossessioni e compulsioni, difficoltà nel controllo degli
impulsi, disordini affettivi e psicosi. I problemi comportamentali aumentano con l’età e si alternano tra depressione e agitazione.
• Sindrome di Angelmann, quadro clinico più compromesso e caratterizzato da deficit cognitivo di grado grave, assenza di linguaggio, comportamento tipico con riso
eccessivo e immotivato, ipereccitabilità, atassia, problemi di equilibrio, tremore agli arti e postura particolare. Vi possono essere deficit di attenzione e disturbi del sonno.
• Sindrome di Rett e Sindrome di Wolf-Hirshhorn, sono state studiate negli ultimi anni anche dal punto di vista comportamentale. Sul piano linguistico si rilevano
un’assenza totale di linguaggio espressivo e una riduzione delle abilità di comprensione, anche quando le prestazioni intellettive nelle aree non verbali sarebbero
sufficienti per l’organizzazione di forme di comunicazione verbale.
Chi si propone di formulare un piano educativo per un paziente con disabilità intellettiva deve tenere conto delle diverse manifestazioni associate a sindromi diverse
caratterizzate da substrati neurobiologici diversi, sfruttando queste manifestazioni per un’attenta valutazione individuale dalla quale trarre dati per il piano di lavoro,
senza minimizzare le differenze individuali.
8.5 DIAGNOSI FUNZIONALE E DIFFERENZIALE
Una valutazione complessiva delle capacità dell’individuo deve comprendere:
1. una valutazione delle capacita intellettive e di adattamento personale e sociale
2. una diagnosi eziologica delle cause genetiche e non genetiche
3. la valutazione di condizioni mediche associate
4. la rilevazione della presenza di disturbi mentali, emotivi e comportamentali associati
La diagnosi differenziale sta nel distinguere la disabilità intellettiva da: disturbi neurocognitivi in cui si ha una perdita delle funzioni cognitive, disturbo della comunicazione e DSA,
disturbo dello spettro autistico. In un momento delicato come quello della diagnosi, è importante tenere in considerazione la sofferenza e la delusione che il genitore affronta, il
confronto che egli fa tra il bambino ideale e il bambino reale (ferita narcisistica). Sentimenti di disperazione, rifiuto e rabbia non espressi perché non ascoltati, nel tempo possono
scatenare nel genitore sentimenti di colpa a cui talvolta seguono atteggiamenti riparativi come l’iperprotezione.
Una modalità adeguata di comunicazione della diagnosi prevede il sostegno immediato da parte del curante, disponibile ad accogliere la sofferenza espressa dai genitori e
impegnato a mantenere un clima di considerazione reciproca e fiduciaria che favorirà una buona alleanza terapeutica. Nella valutazione si deve sempre prevedere il raffronto di
quanto osservato dall’operatore sanitario con quanto riferito dal genitore.
• La valutazione iniziale, necessaria per una corretta impostazione del trattamento, deve essere il risultato di: più valutazioni che esplorino i vari ambiti dello sviluppo +
contributi di più persone e ambienti che circondano il bambino.
• L’accuratezza della diagnosi consentirà di tracciare un piano terapeutico individualizzato e specifico per quel bambino, e di verificare l’efficacia del trattamento così da
modificarlo se necessario.
• La valutazione del bambino non si esaurisce nella somma di punteggi ottenuti alle prove, ma è la ricostruzione di un’immagine complessa qual è quella di ogni individuo.
L’iter diagnostico-valutativo non può che partire da un colloquio con i genitori.
Al termine della raccolta anamnestica occorre tracciare un programma di massima sul tipo di indagini biologiche e funzionali che devono essere condotte.
Aree di indagine:
• 1) Sviluppo cognitivo, competenze neuropsicologiche, funzioni di controllo, capacità di apprendimento;
• 2) Capacità di adattamento sociale e personale, competenze relazionali e sociali;
• 3) Sviluppo linguistico;
• 4) Sviluppo psicomotorio;
• 5) Sviluppo affettivo;
• 6) Quadro psicopatologico e problemi comportamentali.
Per ciascuna area si dovrà valutare il livello di sviluppo rispetto alla popolazione normale mettendo in evidenza le aree di forza e di debolezza dei singoli profili individuali. Occorre
verificare la presenza o l’assenza di una data abilità, se essa sia stabile o incostante, ma oltre alle capacità possedute vanno indagate anche le aree di sviluppo potenziale.
1. Effettuare un colloquio con i genitori: si raccoglie la storia anamnestica, gli eventuali aspetti eziopatogenetici, le caratteristiche dello sviluppo neuropsichico pregresso e
gli aspetti clinici attuali – inoltre, si indaga il tipo di interazioni formatesi tra il bambino con DI e i genitori e gli altri membri della famiglia: è fondamentale indagare i
sentimenti di colpa e le difese messe in atto dai familiari
2. Tracciare un programma di massima sul tipo di indagini biologiche e funzionali da condurre – aree di indagine: sviluppo cognitivo, competenze neuropsicologiche,
funzioni di controllo, capacità di apprendimento + capacità di adattamento sociale e personale, competenze relazionali + sviluppo linguistico + sviluppo psicomotorio +
sviluppo affettivo + quadro psicopatologico e problemi comportamentali
3. Valutare, per ciascuna delle diverse aree, il livello di sviluppo rispetto alla popolazione normale, mettendo in evidenza le aree di forza e di debolezza dei singoli profili:
verificare la presenza-assenza, la stabilità-incostanza di un’abilità e le abilità potenziali – mettere in evidenza le abilità pre-requisite necessarie per la costruzione delle
competenze non presenti o da potenziare, le condizioni che ostacolano o favoriscono le normali attività e la vita di relazione, le aree di interesse, le modalità di lavoro più
efficaci.
Valutazioni funzionali che vanno previste:
I. esame obiettivo generale e valutazione neuropsichiatrica
II. indagini cliniche, strumentali e di laboratorio per un inquadramento eziologico
III. valutazione psicometrica/neuropsicologica: profilo comportamentale del soggetto
IV. valutazione logopedica: profilo comunicativo-linguistico
V. valutazionepsicomotoria:profilodisvilupporelazionale,comunicativo, esplorativo-ludico
VI. valutazione prassica: abilità percettivo-prassiche e di autonomia personale
VII. valutazione delle competenze scolastiche: competenze cognitive e apprendimenti scolastici
VIII. indagine psichiatrica
IX. valutazione delle condizioni ambientali
Strumenti di valutazione:
o tecniche di osservazione del comportamento
o colloqui clinici
o strumenti testologici (prove psicometriche, scale di sviluppo, test neuropsicologici, scale psichiatriche ecc.)
o questionari e interviste ai genitori
4. Prevedere i tempi e modalità con cui effettuare la sorveglianza dello sviluppo, che ha il compito di prevenire le complicanze secondarie della condizione di rischio somatico e
psicopatologico del bambino con DI e quello di evidenziare tempestivamente condizioni neuropsichiche che possono richiedere una modificazione dei target di trattamento. Occorre
ricordare che vi sono delle “fasi critiche” nel percorso di crescita del bambino con DI che coinvolgono famiglia e ambiente sociale: in questi momenti è importante effettuare
valutazioni ad hoc per quelle che sembrano le funzioni più a rischio o le aree potenziali da sviluppare per sostenere la persona nelle crisi evolutive.
8.6 PROFILO NEUROPSICOLOGICO E PSICOPATOLOGICO
Il profilo cognitivo nella disabilità intellettiva presenta aspetti di complessità e specificità, difficili a da generalizzare. In generale, dal punto di vista neuropsicologico possiamo
identificare alcuni aspetti normalmente presenti:
- Processi percettivi caratterizzati da difficoltà nelle capacità di analisi, comparazione e integrazione delle informazioni
- Difficoltà nella velocità e nell’efficacia dell’elaborazione dell’informazione - Deficit nella memoria di lavoro
- Deficit delle funzioni esecutive
- Difficoltà nella rievocazione di materiale complesso
Esistono molti strumenti che permettono di effettuare una valutazione accurata delle funzioni cognitive di un bambino.
Nei bambini piccoli vengono utilizzate scale di sviluppo che forniscono dei parametri di giudizio di comportamenti evidenziabili di fronte a uno stimolo standardizzato e
che permettono di tracciare un profilo di sviluppo di un bambino e di confrontarlo con il profilo di sviluppo atteso per quella fascia di età. Nei bambini più grandi è
possibile attuare un protocollo diagnostico maggiormente strutturato che prevede la somministrazione di prove di tipo psicometrico. Sempre utile è prevedere anche una valutazione
di tipo qualitativo delle capacità espresse, che guardi ai processi messi in atto e alle modalità di organizzazione della conoscenza.
Per quanto riguarda la valutazione psicopatologica, l’estrema vulnerabilità psicopatologica dei bambini con DI aumenti la frequenza di disturbi psichiatrici, in particolare a esordio
adolescenziale.
La presenza della DI d’altra parte rende più difficile la diagnosi tempestiva di questi disturbi, in parte perché si tende ad attribuire ogni sintono alla DI e quindi a misconoscere la
sofferenza psichiatrica, in parte perché i soggetti con Di hanno minor capacità cognitiva di elaborare ed esprimere verbalmente le proprie emozioni.
La specificita delle diverse disabilità intellettive sul piano psicopatologico può teoricamente essere riferita a tre fattori complementari:
1. Alla patologia cromosomica con i suoi correlati a livello del substrato nervoso, possono condizionare sia i processi più basali (es. soglia di reattività agli
stimoli, processi attentivi), che quelli più elevati (es. regolazione delle emozioni o elaborazione delle informazioni)
2. All’assetto cognitivo, linguistico, motorio, che condiziona le modalità di interpretazione del mondo esterno e interno
3. Ad alcuni fattori relazionali
Vi sono alcuni strumenti utili per una corretta diagnosi psicopatologica. Dall’utilizzo combinato delle interviste diagnostiche e delle rating scales è possibile formulare una
diagnosi qualitativa e quantitativa del disturbo psicopatologico e anche verificare l’efficacia di un eventuale trattamento.
8.7 PRESA IN CARICO RIABILITATIVA
Il trattamento deve aiutare il soggetto ad acquisire prestazione, ma soprattutto favorire il ragionamento autonomo per quanto difettuale sia. Sebbene esistano alcune caratteristiche
simili fra individui con DI, è necessario considerare i fattori individuali, ambientali e sociali che influiscono sull’evoluzione potenziale.
Abbiamo visto come l’assetto cognitivo sia solo una delle caratteristiche che deve essere messa in relazione con tutte le altre componenti dello sviluppo. Per questo un
trattamento riabilitativo deve prevedere una presa in carico del bambino nella sua globalità, cioè di tutti gli aspetto che lo caratterizzano in relazione a se stesso, alla
sua famiglia, all’ambiente in cui vive.
È anche assolutamente necessaria una programmazione individualizzata che tenga conto delle sue necessità in quel momento specifico della sua vita.
Affinché un trattamento sia realmente corretto è necessario che l’equipe multidimensionale delinei un percorso terapeutico specifico per quel bambino e di cui l’équipe è
costantemente consapevole. Essere riabilitatori significa essere consapevoli di cosa stiamo facendo per quel bambino, di come e del perché lo facciamo, di quali competenze
vogliamo sviluppare e della progressiva stimolazione di queste competenze.
Caratteristiche generali del trattamento
• Un trattamento riabilitativo deve prevedere una presa in carico globale del bambino
• Allo stesso tempo è necessaria una programmazione individualizzata, che tenga conto di
caratteristiche specifiche e necessità
• Il trattamento deve prevedere un approccio multidisciplinare, in cui le diverse figure professionali devono cooperare
• Integrazione di diverse figure professionali: le competenze degli operatori non devono solo stratificarsi una sull’altra, ma integrarsi e completarsi
• Il percorso terapeutico deve essere consapevole
La verifica del trattamento avrà due scopi fondamentali: da un lato prevedere protocolli che permettano un confronto tra le capacità presenti prima dell’inizio del trattamento e dopo il
termine, per valutare l’efficacia dello stesso, dall’altro prevedere uno spazio che permetta una sorveglianza costante dello sviluppo neuropsichico del bambino in modo da
permettere un eventuale cambiamento del target terapeutico.
Obiettivi generali del trattamento
La presa in carico riabilitativa deve organizzare i propri interventi tenendo in considerazione tre assi principali:
• - Asse relazionale-affettivo: tiene conto della componente relazionale precoce e dello sviluppo affettivo – soprattutto nelle prime fasi del trattamento è utile un
approccio che utilizzi anche la presa in carico “indiretta” attraverso il sostenimento della famiglia negli aspetti educativi dei diversi passaggi evolutivi
• - Asse strutturale: comprende i singoli interventi volti al potenziamento delle capacità del bambino in termini cognitivi, metacognitivi, logopedici, motori e di
apprendimento
• - Asse ecologico-ambientale: tenere in considerazione le condizioni ambientali – lavoro svolto per permettere la costruzione, attraverso il coinvolgimento di tutte le
figure che ruotano intorno al bambino, di un ambiente stimolante, che faciliti la curiosità e la voglia di imparare
Obiettivi generali del trattamento:
- Facilitare la conoscenza, che può essere attivata sia da fattori esterni che interni al bambino – per fattori esterni si intendono quelli che sono legati all’ambiente, i fattori interni
riguardano direttamente il bambino
- Il materiale proposto non deve avere caratteristiche di livello troppo inferiore rispetto alle capacità del bambino ma neppure troppo al di sopra e deve fornire sia nuove nozioni
sia elementi conosciuti – salvaguardare la fiducia nelle proprie capacita
- Promuovere competenze specifiche nei vari trattamenti
- Favorire il trasferimento delle competenze apprese in ambito terapeutico a contesti extraterapeutici o differenziati (punto cruciale e più complesso da attuare, perché nella
DI si rileva proprio la difficoltà alla generalizzazione delle competenze apprese)
- Promuovere la motivazione all’apprendimento – se un ambiente responsivo permette al bambino di sperimentare il successo, gli permette anche di avere una sensazione
di competenza, di provare piacere nel fare le cose, di conoscere – mettere il bambino sulla strada della motivazione significa metterlo in una posizione attiva di ricerca di
situazioni che generano piacere.
Tipologia degli interventi
Gli interventi possono essere individuali o di gruppo: l’intervento individuale è mono-disciplinare con trattamento intensivo e specifico, mirato a potenziare le risorse spontanee
del bambino, nell’intervento di gruppo viene facilitato con il trasferimento delle competenze apprese e l’adattamento alle regole sociali.
La durata del trattamento è variabile e in relazione all’obiettivo proposto e ai tempi del bambino. Da qui la necessità di verifiche periodiche per valutare l’efficacia del trattamento e
per delineare eventuali e possibili variazioni dell’obiettivo.
Trattamento cognitivo - È utile per il clinico riuscire a individuare, attraverso valutazioni mirate e specifiche, quelli che sono i punti di forza e di debolezza individuali per
definire un profilo di funzionamento e delineare gli obiettivi del trattamento. È ormai noto che i soggetti con Di presentano non solo carenze cognitive specifiche, ma anche una
insufficiente utilizzazione delle loro capacità. Di conseguenza, è molto importante un trattamento metacognitivo, volto a potenziare gli aspetti di consapevolezza e di controllo
del proprio funzionamento cognitivo. Quindi, L’intervento è orientato a favorire da un lato una progressione delle competenze e delle strutture di pensiero attraverso
l’esposizione a situazioni problema, centrandosi su abilità specificamente carenti; dall’altro un miglior utilizzo delle risorse disponibili. Ciò che è rilevante è lo sviluppo di
capacità di ragionamento, di generalizzazione e di gestione delle problematiche proposte.
Per questo è importante tenere a mente diversi punti nella gestione del trattamento: o lavorare su pochi obiettivi per volta
o usare esperienze personali e di vita quotidiana per il trasferimento dell’apprendimento
o usare materiale concreto o trasformare il problema in esperienza diretta
o adeguare il lavoro ai tempi e agli interessi del bambino
o fornire uno schema costante per l’analisi del compito
o variare le condizioni (non l’obiettivo) all’interno delle quali si attua il programma terapeutico
o stimolare a esplicitare verbalmente il proprio pensiero, a formulare auto-istruzioni, a ripetere la consegna
o stimolare a una soluzione autonoma, guidando con frasi che rendano il bambino consapevole delle possibili strategie da attuare o anche creando un conflitto cognitivo
o tradurre il legame logico in una regola che possa essere generalizzata
o ripresentare problemi già risolti per consolidare le acquisizioni e la padronanza
o interessarsi a i pensieri, idee, lavoro e risultati ottenuti dal bambino
o utilizzare materiale variabile e divertente
o sottolineare la relazione tra i suoi stati d’animo e le sue abilità
o incoraggiare il bambino a essere autonomo nella gestione del compito
o trovare insieme soluzioni alternative
Un sistema realistico di attribuzione responsabilità delle cause dei successi e degli insuccessi è di particolare importanza nei bambini con DI che tendono ad attribuire agli altri i
propri insuccessi o, nell’eventualità di comorbidità depressiva, costantemente a se stessi.
Intervento sull’autonomia - Lavorare per l’autonomia personale e sociale significa promuovere l’autonomia della persona responsabile per se stessa, consapevole dei propri
processi mentali e delle proprie possibilità di relazione. Parlando di esperienza ed autonomia bisogna tenere in considerazione che la centralità del fare non deve superare la
centralità del pensare (del definire perché si fa cosa).
Trattamento dei disturbi psichiatrici - Non vi è un solo tipo di trattamento. Di fronte a quadri più lievi, può essere sufficiente un intervento volto a modificare la natura e la
rigidità delle rappresentazioni del Sé cognitivo, che può contribuire a prevenire disturbi emotivi e comportamentali. Quando la debolezza del sì appare più marcata può essere
previsto invece un intervento psicoterapico di sostegno, mirato al rinforzo dell’immagine del Sé, delle possibilità di relazione, delle possibilità di comprensione e controllo della
realtà esterna ed interna.
Possono essere indicati anche trattamenti allargati al nucleo familiare, nelle situazioni in cui gli stili educativi e interattivi ostacolano il processo di autonomizzazione personale e
sociale del bambino.
Possono essere obiettivi di intervento:
1. Favorire comprensione e accettazione della disabilità
2. Migliorare il controllo degli impulsi e la tolleranza alla frustrazione
3. Esprimere sentimenti ed emozioni in modo socialmente accettabile
4. Incrementare l'autonomia decisionale
5. Rinforzare l'autostima e l'immagine di sé
6. Migliorare le competenze relazionali
7. Imparare ad affrontare situazioni stressanti
8. Risolvere i conflitti di dipendenza e di colpa
8.8 INDICAZIONI EDUCATIVE E LEGISLATIVE
- Corte Costituzionale, Sentenza n. 215/87: pieno e incondizionato diritto di tutti gli alunni con disabilità alla frequenza nelle scuole di ogni ordine e grado.
- Legge del 5 febbraio 1992, n.104: integrazione scolastica e sociale delle persone con disabilità come momento fondamentale per la tutela della dignità umana della persona,
sottolineando l’importanza della comunicazione, socializzazione e relazione interpersonale e impegnando lo Stato a rimuovere le condizioni invalidanti che ne impediscono lo
sviluppo.
- DPR del 24 febbraio 1994: documento conclusivo e operativo in cui vengono descritti gli interventi integrati ed equilibrati tra di loro, predisposti per l’alunno in condizione di
handicap, in un determinato periodo di tempo, ai fini della realizzazione del diritto all’educazione e all’istruzione.
Il Profilo Dinamico Funzionale (PDF) e il Piano Educativo Individualizzato (PEI) sono i momenti concreti in cui si esercita il diritto all’istruzione e all’educazione dell’alunno con
disabilità.
9 Paralisi Cerebrale Infantile
La Paralisi Cerebrale Infantile (PCI) comprende forme cliniche estremamente diverse ed eterogenee tra loro, in termini di quadri clinici, prognosi e disturbi associati. La definizione
attualmente utilizzata è quella proposta da Peter Rosenbaum che afferma: “La Paralisi Cerebrale Infantile descrive un gruppo di disordini dello sviluppo del movimento e della
postura, causando limitazioni nell’attività che sono attribuiti a disturbi non progressivi che avvengono durante lo sviluppo cerebrale del feto o del neonato. I disturbi motori sono
spesso accompagnati da disturbi della sensazione, cognizione, comunicazione, percezione e/o comportamento e/o da epilessia.”
9 DEFINIZIONE
Rappresenta una delle patologie con il maggior impatto sociale in età pediatrica.
Il difetto motorio è considerato il cuore del problema della PCI – colpendo sistematicamente l’apparato muscolo-scheletrico, la PCI incide sulla quantità e qualità di movimenti
possibili, limitando la possibilità di combinare moduli motori diversi e influenzando l’esecuzione di prassie (movimenti intenzionali effettuati con uno scopo preciso) e azioni
volontarie. Ma la PCI non è da considerare un danno esclusivo del sistema muscolo-scheletrico, ma un quadro clinico che influenza globalmente molte aree dello sviluppo
neuropsicomotorio – si associa a problematiche neurologiche, cognitive, comunicative, percettive, internistiche, emotivo-affettive, neuropsicologiche e psichiatriche.
La PCI risulta caratterizzata dalla difficolta di relazione reciproca tra individuo e ambiente e comporta un’alterata acquisizione di funzioni adattive, le quali si sviluppano come
risultato dell’interazione tra abilità residue e rispettiva riorganizzazione sotto la spinta dell’esperienza.
Le richieste dell’ambiente diventano con la crescita sempre più complesse e possono causare un aggravamento della disabilità – spesso infatti la mancata conquista di una
funzione impedisce l’acquisizione successiva delle ulteriori funzioni ad essa collegate.
Ma il SNC del bambino è caratterizzato dalla plasticità neuronale che implicita la capacità biologica di cambiare in risposta all’esperienza, sia strutturalmente che funzionalmente. Il
tessuto nervoso mantiene infatti un’elevata dinamicità nello sviluppo poiché ha la potenza di riorganizzarsi e variare funzione in base agli stimoli a cui è sottoposto. Nella presa in
carico di bambini con diagnosi di Paralisi Cerebrale Infantile, è fondamentale quindi tenere presente come la qualità degli stimoli offerti in età evolutiva possa avere delle ricadute
sulle singole funzioni e su tutto lo sviluppo.
9.2 CLASSIFICAZIONE
Al fine di una corretta pianificazione dell’intervento riabilitativo è di cruciale importanza conoscere la classificazione delle varie forme di PCI. Data la grande eterogeneità dei
quadri clinici, che dipendono dall’estensione, dall’entità della lesione e dal suo timing, è necessario selezionare il criterio su cui basarsi per distinguere le diverse
forme. La Classificazione Internazionale propone 4 componenti:
1) Anomalie motorie: natura e tipo di disordine motorio (es. del tono posturale o dei movimenti) e abilità motorie mantenute tramite l’utilizzo di appositi strumenti standardizzati.
2) Disturbi Associati: disturbi sensoriali, attentivi, comportamentali, cognitivi.
3) Quadri anatomici e Neuroradiologici: distribuzione anatomica del disturbo (es. quali o quale
parte del corpo ne è colpita) e reperti neuroradiologici.
4) Aspetti eziopatologici e Timing: presenza di un evento causale come un trauma o
malformazione.
In Italia è usata la classificazione di Hagberg, basata su identificazione di sottogruppi in base al riconoscimento di segni clinici – distingue:
1. PCI spastica (90% dei casi):
• - tetraplegia (compromissione 4 arti)
• - diplegia (compromissione 2 arti)
• - emiplegia (compromissione di un emilato)
È caratterizzata da pattern anormale della postura e del movimento, ipertono, e risposta ai riflessi patologica. Ai fini riabilitativi, per monitorare i risultati raggiunti col
trattamento rieducativo, si usa la classificazione di Ferrari che si basa sulle funzioni adattive e motorie, in particolare su
• - funzione antigravitaria e organizzazione della postura nelle tetraplegie
• - schema del cammino nelle diplegie
• - modalità di manipolazione nelle emiplegie
La classificazione non si limita a valutare gli elementi puramente motori ma si estende anche agli elementi percettivi e intenzionali – è quindi una classificazione che risulta efficace
per la costruzione del progetto terapeutico e per la misurazione dei risultati raggiunti con il trattamento rieducativo.
2. PCI di tipo discinetico (6% dei casi):
• - Discinesia distonica: caratterizzato da postura anormale, dovuta a contrazioni muscolari prolungate e ipertono (con tono fluttuante di cui l’aumento è
facilmente evocabile), movimenti involontari e volontari distorti.
• - Discinesia coreo-atetosica: caratterizzata da ipercinesia motoria e ipertono – la corea si esprime con movimenti rapidi, involontari, a scatti, frammentati –
l’atetosi si esprime, contrariamente, con movimenti più lenti che cambiano continuamente.
È caratterizzata da movimenti involontari, incontrollati, ricorrenti, spesso stereotipati che interferiscono nelle azioni volontarie e in generale nella vita
quotidiana. Il tono muscolare, al contrario della PCI di tipo spastico, può essere fluttuante.
3. PCI di tipo atassico (4%):
È caratterizzata da una generale perdita di coordinazione muscolare che determina difficoltà ad eseguire movimenti volontari – atassia del tronco ed equilibrio disturbato con
conseguenti alterazione del cammino – è frequente riscontrare tremore, sia distale che prossimale che può interferire con l’azione volontaria del soggetto e di conseguenza
con la performance stessa.
9.3 EZIOPATOGENESI:
La PCI non è definita sul piano eziopatogenetico, ma su quello clinico – tuttavia il criterio cronologico aiuta a classificare i principali quadri anatomo-patologici che sono fortemente
correlati con il timing della lesione. Ci sono 4 periodi:
• - I primi 2 trimestri di gestazione
• - La parte iniziale del 3° trimestre
• - L’epoca intorno al termine
• - L’epoca post-natale
L’immaturità del SNC associata a quella di altri organi espone il sistema nervoso a un maggiore rischio di danno diretto e indiretto, rendendolo vulnerabile a insulti nocivi, spesso di
origine vascolare.
La prematurità rappresenta il fattore di rischio più frequentemente associato a PCI: più la nascita è prematura, maggiore è la possibilità che il neonato sviluppi una PCI – il rischio
incrementa quindi in caso di prematurità ad alto rischio e se associato un basso peso e/o un ritardo di crescita intrauterina.
9.4 DIAGNOSI
In una disabilità evolutiva come la PCI, la cui storia naturale segue un processo evolutivo di riorganizzazione anatomica e funzionale, anche la diagnosi è evolutiva. Si distinguono
due aspetti della diagnosi (correlati tra loro): la diagnosi di lesione, basata sul timing della lesione e che rappresenta l’insieme di procedure che mirano ad accertare la presenza di
anomalie morfologiche cerebrali – la diagnosi di disturbo che si basa sull’osservazione clinica e cerca di individuare definite e stabili anomalie del comportamento motorio.
Prima dei 5 mesi di età gli strumenti maggiormente predittivi di analisi utilizzati sono: la risonanza magnetica all’età del termine, la valutazione di motricità spontanea e l’esame
neurologico Hammersmith.
Il profilo funzionale del bambino con PCI deve essere delineato sulla base di un sistema multiassiale composto da 8 assi che comprendono diversi parametri – il profilo può essere
modificato nel caso in cui età o altri parametri cambino significativamente.Gli assi sono:
• 1) Motricita: descrive le componenti della disabilità in termini di localizzazione e natura del difetto
• 2) Anamnesi lesionale: per differenziare la PCI da altri disturbi con sintomi simili
• 3) Anamnesi riabilitativa: comprende per esempio gli interventi utilizzati come ortesi (strumento applicato esternamente a una parte corporea che aumenta,
migliora o controlla una funzione compromessa – es. tutore gamba-piede) e ausili (prodotto o attrezzatura che aumenta o migliora una funzione – es.
bastone da cammino)
• 4) Complessita: disturbi associati come quelli sensoriali o neuropsicologici
• 5) Complicanze: sia organiche (es. epilessia) sia ambientali
• 6) Famiglia: adeguatezza delle relazioni e degli spazi
• 7) Servizi di riabilitazione
• 8) Comunita infantile: indica la fruibilità di spazi e compagnie a scuola e nel tempo libero
La diagnosi unitamente a un’accurata descrizione del bambino con PCI sono fondamentali per formulare un progetto riabilitativo che lo accompagni nello sviluppo e che quindi si
adatti progressivamente ai suoi bisogni.
9.5 FUNZIONAMENTO COGNITIVO
La maggior parte dei test standardizzati, volti alla valutazione dello sviluppo cognitivo, prevede l’uso di modalità di risposta di tipo verbale o motorio, nonché la comprensione
di consegne verbali. Per questo motivo, tali valutazioni nei bambini con PCI rischiano di essere influenzate dalla potenziale compromissione verbale e motoria, non riflettendo le
reali abilità cognitive. Nonostante questo, l’uso di tali strumenti standardizzati rimane indispensabili per descrivere il funzionamento cognitivo del bambino purché l’interpretazione
clinica del risultato testistico tenga conto dei possibili fattori che ne possono inficiare il risultato. Lo sviluppo cognitivo dei bambini con PCI risulta fortemente influenzato da
molteplici caratteristiche cliniche: la localizzazione, l’epoca e l’estensione della lesione neurologica sono alcune dei principali predittori del livello intellettivo generale –
l’epilessia, la nascita prematura, il basso peso la nascita e la ridotta crescita fetale sono i fattori di rischio più significativi per lo sviluppo di un deficit cognitivo.
La prevalenza di disabilità intellettiva nella popolazione clinica delle PCI risulta molto variabile e strettamente legata alla forma clinica di PCI. Le ricerche, infatti, evidenziano la
presenza di un miglior outcome funzionale in bambini con emiplegia e diplegia spastica rispetto a quelli con PCI di tipo tetraplegico, discinetico e atassico. Sono presenti molti studi
svolti su bambini con emiplegia e diplegia spastica che delineano come, pur in presenza di un miglior funzionamento intellettivo generale, sono presenti elementi di specificità tra le
due forme di PCI. Nei bambini con diplegia spastica è riportata un’ampia discrepanza tra gli indici intellettivi verbali e non verbali (a favore dei primi) legata alla presenza di abilità
frequentemente compromesse in ambito visivo e spaziale. Nei bambini con emiplegia spastica il funzionamento intellettivo generale risulta preservato e influenzato da molteplici
fattori quali il timing, il tipo, l’estensione della lesione e la presenza di epilessia. Le lesioni cerebrali associate alla PCI costituiscono un limite biologico allo sviluppo tipico di diverse
funzioni cognitive incrementando quindi il rischio dio minori aspettative di vita, comorbidità psicopatologiche e problematiche scolastiche e lavorative.
9.6 PROFILO NEUROPSCOLOGICO E CORRELATI NEUROFUNZIONALI - Linguaggio
La plasticità di un cervello in via di sviluppo con lesione congenita induce processi di riorganizzazione neuronale con effetti sull’evoluzione di diverse funzioni cognitive, tra cui
quelle linguistiche. Studi longitudinali e trasversali su bambini con lesione focale congenita nell’emisfero sinistro (deputato all’elaborazione linguistica) mostrano come la
riorganizzazione delle funzioni linguistiche sia un processo duraturo che può estendersi per un lungo periodo della vita. Tale riorganizzazione comporta, durante compiti di tipo
linguistico, l’attivazione di un circuito cerebrale alternativo compensatorio che coinvolte regioni omologhe all’emisfero destro non leso – essa è condizionata da diversi fattori
come l’epoca del danno, l’ampiezza e la localizzazione della lesione, la presenza di epilessia e il livello maturativo delle aree danneggiate.
Tuttavia, sul piano funzionale, tale riorganizzazione ha dei costi in termini di ritardo nell’acquisizione del linguaggio – nei primi due anni di vita gli studi hanno dimostrato come
bambini con lesione congenita nell’emisfero sx presentino una caduta maggiore nella produzione lessicale, grammaticale, nel vocabolario espressivo e nelle abilità narrative, mentre
con danno focale a destra sono presenti difficoltà più elevate nell’espressione di gesti simbolici e comunicativi (i casi più gravi sono quelli con lesione bilaterale).
9.6.2 ELABORAZIONE VISUO SPAZIALE
La compromissione delle funzioni visive di base (come acuità visiva, campo visivo, motricità oculare e processi di elaborazione visuo-spaziale) può avvenire quando la lesione
cerebrale coinvolge le radiazioni ottiche oppure i due sistemi di processazione visiva (la via ventrale/del what e la via dorsale/del where).
9.6.3 FUNZIONI ESECUTIVE E ATTENZIONE
Le funzioni esecutive (FE) sono alla base di tutti quei processi cognitivi che ci permettono di modulare i nostri comportamenti in funzione del contesto, di selezionare le
informazioni in base ai nostri scopi, di valutare la strategia migliore per risolvere un problema.
La compromissione delle FE può essere presente anche a seguito di lesioni cerebrali precoci unilaterali o bilaterali che non coinvolgono direttamente il lobo frontale. L’alta
prematurità, il basso peso alla nascita e la precocità del timing lesionale risultano essere dei fattori clinici significativamente correlati con il rischio di problematiche
attentive e il livello di compromissione delle FE.
9.6.4 MEMORIA
I pochi studi sulla memoria della PCI hanno messo in evidenza, nei bambini con lesione bilaterale, deficit nei processi di memoria visuo-spaziale e prestazioni che invece
tendono a rimanere preservate in prove di memoria verbale sia a breve che a lungo termine. Nei bambini con lesione unilaterale, il deficit della memoria non è tanto
dipendente dal lato della lesione cerebrale, quanto piuttosto dalla presenza di epilessia: bambini con lesione unilaterale congenita senza epilessia mostrano soltanto lievi
compromissioni nell’ambito della memoria verbale e visuo-spaziale, che invece diventano più gravi quando il quadro della PCI è aggravato dall’epilessia.
9.6.5 APPREDNIMENTI SCOLASTICI
Le poche ricerche sull’argomento hanno soprattutto descritto quali sono i fattori clinici che sembrano maggiormente predittivi di ridotte abilità di apprendimento – identificati
tra i principali la precocità dell’epoca della lesione, la gravità della compromissione del linguaggio espressivo, la prematurità e il basso peso alla nascita. Le ricerche però riportano
ancora dati preliminari e talvolta contraddittori.
9.7 CARATTERISTICHE PSICOPATOLOGICHE
Nei bambini con PCI è riportata comunemente la presenza di sintomatologia psicopatologica. Infatti, possono far esperienza molto precocemente di eventi stressanti sul piano
fisico, emotivo e ambientale e spesso presentano comorbidita e restrizioni nella partecipazione sociale che possono andare ad incidere sul benessere psicologico e la qualità
della vita loro e delle loro famiglie. Da una parte agiscono le limitazioni del sistema motorio e visivo, il distanziamento sociale e la graduale acquisizione di una adeguata
differenziazione tra sé e il mondo esterno, dall’altra possono contribuire motivazioni legati ai vissuti emotivi, le esperienze dolorose e le angosce sul presente e il futuro del bambino
che si trovano ad affrontare i genitori.
Gli studi scientifici dimostrano la presenza di una sintomatologia psicopatologia sia esternalizzante che internalizzante, per problematiche di tipo attentive e legate al tono
dell’umore in età scolare, e la presenza di comportamenti aggressivi e ansioso-depressivi in età prescolare. Viene riportata una sintomatologia prevalentemente esternalizzante
nei bambini con lesione unilaterale ed internalizzante in quelli con lesioni bilaterale.Nelle forme tetraplegiche gravi e discinetiche il profilo psicopatologico è fortemente
influenzato dalla complessità del rapporto che questi bambini hanno con l’esterno, caratterizzato da stati di immobilità nel primo caso o improvvise modificazioni dell’esperienza
nel secondo.
Tuttavia, tali risultati devono essere interpretati con cautela, in parte perché prevalentemente basati su strumenti di indagine indiretti e in parte perché la maggior parte dei lavori in
questione include nel campione di indagine bambini con disabilità intellettiva.
9.8 PRESA IN CARICO RIABILITATIVA
Non esiste un trattamento applicabile a qualsiasi bambino con diagnosi di PCI: il progetto riabilitativo deve essere adattato ai bisogni, ai problemi e alle risorse del singolo
bambino e della sua famiglia e sottoposto a costante verifica per testarne efficacia ed efficienza – inoltre deve tenere conto della multidimensionalità del disturbo. La presa in carico
dei pazienti con PCI rappresenta un intervento che accompagna il bambino per tutta la vita, al fine di favorirne lo sviluppo adattivo e sociale e promuovere il raggiungimento della
più alta qualità di vita possibile del bambino e della sua famiglia.
La definizione degli obiettivi e quindi del progetto e del programma riabilitativo non può prescindere dalla necessità di una valutazione preliminare multidisciplinare del profilo di
funzionamento del bambino, delle sue aree di difficoltà come anche dei suoi punti di forza, attraverso l’osservazione clinica diretta e l’uso di protocolli e strumenti standardizzati.
La variabilità fisiologica dello sviluppo dipende da fattori legati al bambino e da fattori legati all’ambiente in cui il bambino cresce (il rapporto con il caregiver, le esperienze proposte
e il modo in cui vengono organizzati i giocattoli e le attrezzature).
• La riabilitazione si interessa del bambino nella sua globalità fisica, mentale, affettiva, comunicativa e relazionale, coinvolgendo il suo contesto familiare, sociale e ambientale –
si compone di interventi integrati di rieducazione, educazione e assistenza.
• La rieducazione è competenza del personale sanitario e ha per obiettivo lo sviluppo e il miglioramento delle funzioni adattive.
• L’educazione è competenza della famiglia, del personale sanitario e dei professionisti del settore e ha per obiettivo sia la preparazione del bambino a esercitare il proprio ruolo
sociale sia la formazione della comunità ad accoglierlo ed integrarlo.
• L’assistenza ha per obiettivo il benessere del bambino e della sua famiglia ed è competenza del personale sanitario e degli operatori del sociale.
Ricordando che il disturbo della postura e del movimento è una delle caratteristiche principale dei quadri di PCI, a maggior parte degli interventi riabilitativi oggi forniti sono
concentrati sull’aspetto motorio, tenendo conto che si tratta di rieducazione delle azioni, considerando un movimento organizzato cognitivamente per uno scopo. Sono stati
analizzati i principali metodi e approcci riabilitativi per bambini con Pci che possiedono maggiore efficacia e che si possono riassumere in base all’obiettivo che possiedono. Ciò che
è fondamentale sottolineare è che nella riabilitazione neuropsicomotoria del bambino il gioco confina con la terapia e ne diventa lo strumento essenziale.

9.9 INDICAZIONI EDUCATIVE E LEGISLATIVE


Il ruolo educativo scolastico nella presa in carico del bambino o adolescente con PCI è molto importante, sia perché sostiene lo sviluppo di competenze accademiche e
strumentali fondamentali (attraverso metodi e obiettivi di apprendimento differenziati o personalizzati), sia perché prepara il bambino a esercitare il proprio ruolo nella società e allo
stesso tempo forma la comunità (classe) ad accoglierlo e integrarlo. I bambini e ragazzi con diagnosi di PCI rientrano tra gli studenti con disabilità certificata dalla Legge 104/92 e
pertanto hanno il diritto ad “attività di sostegno mediante l’assegnazione di docenti specializzati” e all’attuazione del piano educativo individualizzato stilato – mette in luce “sia le
difficoltà di apprendimento conseguenti alla situazione di handicap e le possibilità di recupero, sia le capacità possedute che devono essere sostenute, sollecitate e
progressivamente rafforzate e sviluppate nel rispetto delle scelte culturali della persona.
Inoltre, gli enti scolastici e universitari dovranno dotarsi di attrezzature tecniche, sussidi didattici e ausili informatici, oltre a quelli già in possesso dallo studente, per
creare le condizioni migliori per favorire l’apprendimento, la comunicazione, le relazioni e la socializzazione. Essendo la PCI un disturbo del neurosviluppo eterogeneo in
termini di gravità e livelli di compromissione, è molto importante che l’insegnante conosca e abbia chiaro il funzionamento peculiare del singolo bambino o ragazzo che ha in carico,
al fine di individuare, tra i vari strumenti e adattamenti alla didattica disponibili, quelli più adatti allo scopo educativo e psicopedagogico dello studente.

10 Il bambino con epilessia


Cogliere di sorpresa: questo è il significato del termine “epilessia” derivato dal greco antico.Si tratta di un disturbo neurologico cronico definito del ricorrere di crisi
epilettiche non provocate da fattori scatenanti occasionali – una singola crisi epilettica, infatti, non significa epilessia.
L’epilessia in età psichiatrica può essere diagnosticata da uno specialista in neuropsichiatria infantile sulla base di un’accurata raccolta delle notizie cliniche (anamnesi) che in
particolare prenda in considerazione le caratteristiche dello sviluppo psicomotorio del bambino, l’insorgenza e il decorso delle crisi epilettiche e l’eventuale storia familiare di
epilessia o di altre malattie e condizioni neurologiche. La valutazione clinica necessita di essere integrata da un elettroencefalogramma (EEG) di veglia e sonno o da un
monitoraggio EGG prolungato al fine di registrare e caratterizzare le crisi epilettiche.
10.1 DATI EPIDEMIOLOGICI ED EZIOLOGIA - Epidemiologia
L’epilessia è una condizione molto più comune di quanto la maggior parte delle persone pensi. Infatti, interessa circa l’1% della popolazione e colpisce circa 50 milioni di persone in
tutto il mondo e oltre 500 000 in Italia. Oltre la metà dei casi di epilessia riguarda l’età evolutiva, in parte a causa della ridotta soglia critica del cervello in fase di
maturazione, cioè della sua predisposizione a generare crisi epilettiche che generalmente si riduce con la completa maturazione cerebrale.
Non tutte le forma di epilessia hanno la stessa gravità e lo stesso impatto sul cervello – le forme più lievi (circa il 50% dei casi) con un trattamento appropriato non lasceranno
alcuna traccia sullo sviluppo cerebrale – in altri casi, l’epilessia può avere ripercussioni molto significative sul funzionamento e sul successivo sviluppo cognitivo e comportamentale
del bambino.
Principali cause dell’epilessia
Esistono molte cause note di epilessia che possono essere distinte nelle seguenti categorie:
1. Cause strutturali (causa fisica)
2. Fattori genetici: laddove si ritenga che una o più varianti genetiche (mutazioni) note o presunte abbiano un effetto significativo nel causare l’epilessia – nella maggior
parte dei casi i geni alla base dell’epilessia non sono ancora noti.È importante sottolineare che “genetico” non equivale a “ereditario”
3. Cause infettive: eziologia più comune che implica che le crisi siano il sintomo principale di un disturbo derivato direttamente da un’infezione note – alcune condizioni
sono specifiche di aree geografiche e comprendono tubercolosi, HIV e malaria cerebrale
4. Cause metaboliche: nel caso di malattie neurologiche le crisi sono la conseguenza di un disturbo noto o presunto del metabolismo cellulare che determina una
significativa alterazione della fisiologia e dell’eccitabilità del tessuto cerebrale – l’identificazione di specifiche cause metaboliche dell’epilessia è importante dal momento
che può portare all’impiego di terapie specifiche e alla potenziale prevenzione della compromissione intellettiva
5. Cause autoimmuni: situazioni in cui le crisi sono il risultato di un processo infiammatorio del sistema nervoso centrale
6. Eziologia sconosciuta: sono molti i pazienti per i quali la causa non è nota – non è possibile fare una diagnosi specifica che vada oltre la caratterizzazione elettroclinica
di base delle crisi che presenta e del tracciato elettroencefalografico – la possibilità di identificare la causa dipende chiaramente anche dalla disponibilità di messi
diagnostici.
È bene precisare che spesso cause appartenenti alle diverse categorie menzionate possono coesistere in uno stesso individuo.
10.2 CARATTERISTICHE CLINICHE E DIAGNOSI DIFFERENZIALE - Principali tipi di crisi epilettiche
Il cervello è composto da miliardi di cellule nervose che comunicano tra di loro attraverso segnali elettrici e chimici. L’improvvisa ed eccessiva attivita di gruppi di neuroni che
sovverte la normale funzione delle cellule nervose può risultare in un transitorio, breve cambiamento nel comportamento e nello stato fisiologico della persona, che configura quella
che viene definita crisi epilettica. Le caratteristiche delle crisi possono essere molto eterogenee e crisi differenti possono manifestarsi in uno stesso bambino. Le crisi possono
spesso verificarsi con manifestazioni meno eclatanti rispetto alla classica convulsione, quali per esempio un disturbo della coscienza di variabile intensità, manifestazioni motorie,
sensoriali, psichiche e cognitive. Il tipo di crisi dipende dall’area del cervello da cui l’episodio ha esordito e dalle aree che coinvolge in base alla sua diffusione dal punto
di insorgenza.Si ha questa suddivisione:
• Crisi convulsive (con la contrazione più o meno ritmica di distretti muscolari) e non convulsive (con prevalente alterazione della coscienza)
• Crisi focali e generalizzate a seconda dell’ampiezza e della localizzazione dell’area del cervello coinvolta dall’anormale attività bioelettrica: focali quando l’improvvisa
ed eccessiva scarica neuronale coinvolge una parte settoriale del cervello, generalizzate quando è coinvolto l’intero cervello – manifestazioni focali possono diffondere e
generalizzare e si parla di crisi focali secondariamente generalizzate
Come riconoscere una crisi
Una crisi può durare pochi secondi e determinare semplicemente una breve modificazione dello sguardo (es. assente o vuoto) o una caduta improvvisa – altre volte può durare
alcuni minuti e comportare una convulsione o movimenti casuali e afinalistici.Anche la frequenza delle crisi può essere molto variabile, da meno di una all’anno a più al giorno.
Ciò che è importante guardare è un pattern di comportamento che si verifichi in maniera simile da una volta all’altra e troppo spesso per essere casuale. Ci sono alcuni
comportamenti che possono suggerire l’imminenza di una crisi in un bambino o ragazzo:
1. improvvisa perdita di consapevolezza dell’ambiente circostante che può simulare uno stato sognante a occhi aperti 2. breve assenza di risposta alle sollecitazioni o una
brusca interruzione nella continuità dell’interazione con l’altro 3. movimenti ritmici del capo, del viso, del tronco, delle braccia e delle gambe 4. rapidi movimenti di apertura
e chiusura degli occhi 5. altri movimenti ripetuti che appaiono innaturali 6 cadute improvvise senza ragione apparente 7 improvvisa sensazione di dolore o fastidio allo
stomaco seguita da sonnolenza o confusione 8 frequente lamentela di percepire in modo strano gusti, suoni, odori, ambiente circostante o il proprio corpo 9
improvvisi attacchi di paura, panico o rabbia, senza ragione apparente e di breve durata
Importante l’attenta osservazione del soggetto soprattutto per crisi che si manifestano con minima sintomatologia e che possono essere interpretate come manifestazioni non
epilettiche, come: 10. crisi caratterizzate da breve interruzione dell’attività in corso che possono essere sottovalutate dalle persone vicine al bambino a scuola e a casa, o
interpretate come un disturbo da deficit di attenzione o mancanza di concentrazione – un esempio sono le crisi di assenza: crisi generalizzate in cui la persona perde brevemente
coscienza e non risponde – durano pochi secondi e la persona non ha consapevolezza di quanto accade 11. crisi con caduta che possono essere attribuite come goffaggine del
bambino in caso di cadute ricorrenti – un esempio sono le crisi atoniche: crisi generalizzate in cui i muscoli improvvisamente perdono tono e determinano la caduta della persona,
se precedentemente in piedi – sono molto brevi e la persona riacquista consapevolezza molto rapidamente 12. crisi con brevi e isolate scossette muscolari che possono indurre a
pensare che il bambino è fisicamente goffo o disattento, distratto o che abbia dei tic – un esempio sono le crisi miocloniche: crisi in cui una parte del corpo improvvisamente
sussulta, in modo isolato o in brevi serie
Fattori potenzialmente scatenanti
Le crisi in alcuni casi possono ripresentarsi spontaneamente o talora essere innescate da alcuni stimoli specifici, differenti da individuo a individuo. Di particolare interesse sono
eventuali stimoli luminosi (es. luce lampeggiante in discoteca o osservata nei viali alberati da un mezzo in movimento, lo sfarfallio della luce sull’acqua o la neve in una giornata di
sole, il monitor di TV o computer) – in questi casi si tratta di epilessia fotosensibile (più comune nei bambini) che può essere rilevata e diagnosticata con la valutazione EGG,
tipicamente effettuata in ogni paziente. Un modo per affrontare questo problema nelle persone con fotosensibilità è ridurre l’intensità della luce, indossare occhiali speciali con lenti
blu o coprire un solo occhio nei giorni di sole o quando si lavora al computer o si guarda la TV. Altri possibili fattori scatenanti le crisi sono stress, affaticamento, spavento
improvviso, privazione di sonno, improvviso risveglio, infezioni, febbre alta, bagno caldo, forte appetito, mestruazioni, uso di sostanze psicoattive (incluso alcol), assunzione
irregolare di farmaci.
Terapia Farmacologica e prognosi
La maggior parte dei casi di epilessia può essere efficacemente trattata farmacologicamente, con circa il 75% delle persone affette che raggiungono un buon controllo delle crisi con
uno o più farmaci. Il trattamento ha l’obiettivo di eliminare o ridurre frequenza ed entità delle crisi epilettiche ed è per sua natura di lungo termine, generalmente della durata di anni
(sebbene alcuni pazienti debbano assumere farmaci per tutta la vita). L’aderenza al trattamento farmacologico è assolutamente necessaria e non deve mai essere sospeso o
modificato senza consultare il medico. La terapia deve essere prescritta da uno specialista competente in epilettologia e con esperienza nella indicazione terapeutica dei
diversi farmaci antiepilettici e nella gestione dei possibili effetti collaterali – i più comuni includono sonnolenza, visione doppia, debolezza, affaticamento, irritabilità, nausea o
dolore addominale, ridotta attenzione o memoria, linguaggio confuso, rallentamento dei movimenti, compromissione dell’equilibrio e della coordinazione, irrequietezza,
comportamento aggressivo, disturbi dell’appetito, perdita o aumento di peso e perdita di capelli.
Comorbidita e conseguenze:
Le persone con epilessia tendono ad avere più frequentemente problemi fisici (fratture, lividi, lesioni conseguenti a convulsioni...) e tassi più elevati di difficolta psicologica, tra
cui ansia e depressione, problemi di apprendimento di variabile tipo e severità, difficoltà comportamentali e sociali. Le epilessie si riscontrano con frequenza relativamente maggiore
rispetto alla popolazione genarle, in bambini con altre patologie del neurosviluppo, inclusa la disabilità intellettiva e i disturbi dello spettro autistico. Nelle epilessie più severe è
presente spesso una gamma di disturbi associati (comorbidità) che può includere deficit motori (come paralisi cerebrale), disturbi del movimento, scoliosi, disturbi del sonno e
disturbi gastrointestinali. È importante che per ogni paziente si consideri la presenza di eventuali comorbidità, per consentirne l’identificazione precoce, la diagnosi e l’appropriata
gestione. Analogamente, va considerato il rischio di morte prematura, fino a tre volte superiore rispetto alla popolazione generale.
Come affrontare in classe la crisi epilettica
È importante che l’insegnante si assicuri che lo studente non sia in pericolo durante e dopo la crisi e che sia in grado di valutare la differenza tra crisi tipica per quel
bambino e quella che potrebbe essere un’emergenza medica – sebbene le convulsioni possano essere impressionanti da vedere, di solito non costituiscono un’emergenza
medica.
È possibile che la prima crisi epilettica si manifesta a scuola prima che il bambino abbia ricevuto una diagnosi – a maggior ragione ogni insegnate dovrebbe essere preparato a
fornire assistenza in caso di crisi. Le procedure per aiutare il bambino dipendono dal tipo di crisi, soprattutto dalla presenza o meno di una componente convulsiva, ma il principio di
base è mantenere la calma per ridurre il trauma degli altri studenti e gestire la situazione. Se già si è a conoscenza dell’epilessia dello studente e le crisi si manifestano in maniera
abituale l’intervento dell’ambulanza potrebbe non essere necessario – una volta effettuate le procedure di pronto soccorso necessarie è sempre indicato rassicurare e confortare il
bambino che ha avuto la crisi, consentirgli di restare in classe fino al completo recupero della coscienza e aiutarlo a riorientarsi, farlo riposare se necessario, consentirgli di andare
al bagno se vi è stata perdita di controllo dell’intestino o della vescica durante la crisi e fornire eventualmente un cambio di abbigliamento. È anche importante aiutare i suoi
compagni di classe a capire quello che è successo e incoraggiare una reazione positiva dell’intera classe e quindi riprendere il normale lavoro interrotto.
Manifestazioni Parossistiche non epilettiche:
- (Parossistiche: improvvise e di breve durata)
Alcune condizioni caratterizzate da eventi parossistici ricorrenti possono essere erroneamente diagnosticate come crisi epilettiche. Vi sono inoltre alcune condizioni in cui possono
coesistere eventi epilettici e non epilettici. La storia clinica rimane la chiave per una diagnosi corretta associata all’estrema utilità di videoregistrazione degli eventi dubbi.
Chiaramente, se il bambino ha già altri problemi neurologici, le possibilità che gli eventi osservati siano crisi epilettiche sono molto più alte e l’invio allo specialista per una
valutazione e gestione dovrebbe essere più rapido.
Ci sono alcuni eventi che possono essere osservati più comunemente e confusi con crisi epilettiche, quali:
• - sincope (svenimento): descrive la perdita transitoria di conoscenza che si verifica in seguito ad una brusca riduzione del flusso sanguigno e dell’apporto di ossigeno al
cervello – può determinarsi caduta a terra seguita da irrigidimento con o senza movimenti ritmici, evento che può somigliare ad una crisi convulsiva. La sincope è un
evento comune che può essere mediata da diversi meccanismi e accade in circa il 40% degli individui almeno una volta nell’arco della vita
• - spasmi affettivi: vengono quando in seguito a un pianto, provocato da cause che disturbano il bambino, il piccolo smette di respirare o manifesta apnea prolungata
durante la quale il viso diventa cianotico o pallido – può essere seguito da ripresa dell’inspirazione o da una sincope con perdita temporanea di coscienza – può anche
esserci rigidità diffusa e scosse irregolari che possono somigliare ad una crisi epilettica.
Sebbene tali eventi facciano preoccupare i caregiver, hanno una buona prognosi
• - nell’ambito dei disturbi parossistici del movimento, sono molto comuni i tic: movimenti o vocalizzazioni involontari, improvvisi, rapidi, ripetitivi, semplici o complessi – i
tic motori semplici coinvolgono un singolo muscolo o un gruppo di muscoli e possono essere diagnosticati erroneamente come crisi miocloniche, i tic motori complessi
comportano invece un insieme di azioni semplici o una sequenza coordinata di movimenti (intenzionali o non) e possono essere erroneamente diagnosticati come crisi
focali con restrizione alla coscienza
• - le stereotipie (o manierismi): sono movimenti, posture o vocalizzazioni ripetitive che possono essere semplici o complessi – possono essere primarie (cioè osservate
in individui sani) o secondarie (ad autismo, disabilità intellettiva ed altri disturbi) – si distinguono da automatismi epilettici soprattutto per le caratteristiche dei movimenti.
Inoltre, durante le stereotipie si osserva una conservazione del livello di coscienza del bambino, cosa che accade raramente durante le crisi epilettiche focali
- tra i disturbi comportamentali, si ha il day dreaming (sognare ad occhi aperti) e la disattenzione: sono comuni durante l’infanzia e sono spesso erroneamente
interpretate come crisi epilettiche a tipo assenza – i sogni ad occhi aperti sono spesso situazionali, sono più lunghi delle assenze e si manifestano come se il bambino
stesse fissando il vuoto senza rispondere alle persone che lo circondano
• - altri comportamenti di natura non epilettica, meno comuni, che possono far sorgere il dubbio diagnostico sono comportamenti di auto-gratificazione e auto-
stimolazione (masturbazione), l’immaginazione eidetica (quella di bambini che portano alla mente immagini visive vivide con cui giocano e interagiscono in modo
immaginario), scoppi d’ira e reazioni di rabbia
• - di diagnosi differenziale più complessa sono alcune manifestazioni psichiatriche, come per esempio gli attacchi di panico o ansia, della durata di diversi minuti e che
possono ripresentarsi nel tempo
• - crisi non epilettiche (crisi psicogeniche non epilettiche): sono spesso del tutto simili alle crisi epilettica ma non vi sono correlazioni elettrofisiologiche o evidenze
cliniche di epilessia. La diagnosi è molto importante per evitare il rischio di inopportune terapie farmacologiche o procedure utilizzate nella gestione delle crisi epilettiche
(come intubazione o ventilazione)
• - forme di emicrania e disturbi associati (es. vertigine parossistica o vomito ciclico) sono molto comuni e talora possono simulare alcune forme di epilessia
9.3 PROFILO NEUROPSICOLOGICO E PSICOPATOLOGICO
Circa la metà dei bambini con epilessia presenta difficoltà cognitive e di apprendimento scolastico che possono essere di entità variabile. Sebbene la maggior parte dei bambini con
epilessia abbia uno sviluppo cognitivo e relazionale normale, la disabilità intellettiva rimane relativamente frequente (20-25%) – all’epilessia i possono associare altre problematiche
comportamentali e dell’umore quali, per esempio, disturbi dell’attenzione e iperattività, depressione e disturbi dello spettro dell’autismo.
La variabilita dei disturbi sia cognitivi che comportamentali può dipendere dalle cause dell’epilessia, dall’età di insorgenza, dal tipo, frequenza e localizzazione delle crisi e
dalla terapia farmacologica anti-epilettica.
Non va dimenticato l’effetto dello stigma che questa malattia comporta – l’imprevedibilità della crisi genera pausa e ansia, senso di perdita di controllo del proprio corpo e della
propria mente che a loro volta possono ridurre il rendimento scolastico. Inoltre, più di altre malattie in età pediatrica, l’epilessia si associa a fenomeni di bullismo che possono
portare isolamento sociale con esiti negativi sul piano psico-sociale anche a distanza di tempo.
Come già indicato precedentemente l’epilessia è nettamente più frequente in età pediatrica – si inserisce in un momento di estrema dinamicità cerebrale in cui i neuroni formano
complessi circuiti connessi tra loro via via più specializzati. L’attività elettrica anomala può perturbare la formazione di queste connessioni ostacolando il recupero di informazioni
dalla memoria oppure impedendo la formazione di nuove memorie condizionando fortemente le capacità generali di apprendimento.
Se l’attività epilettica coinvolge aree circoscritte del cervello (crisi focali) le conseguenze possono essere limitate e avere effetti anche transitori, ma se coinvolge invece vaste aree
dell’emisfero sx e dx esse possono perturbare diversi sistemi cognitivi in modo variabile, fino a comportare disabilità intellettive di diversa gravità.
Almeno per quanto riguarda alcune forme di epilessia, gli esperti sostengono che i problemi cognitivi, di apprendimento e comportamentali possono essere anche
antecedenti all’esordio dell’epilessia ed essere pertanto parte della malattia e non conseguenza di essa.

Profili neuropsicologici
È importante sottolineare che non esiste un unico profilo neuropsicologico ma un pattern di disturbi cognitivi e comportamentali di variabile entità che si possono
associare alle diverse forme di epilessia. La presenza o meno di disturbi cognitivi e le loro caratteristiche possono dipendere dalla fase evolutiva in cui si trova il cervello del
bambino al momento dell’insorgenza dell’epilessia. Essendo alcuni dati della letteratura non sempre concordanti, studi di revisione hanno permesso di evidenziare che forme non
complicate di epilessia, senza lesioni cerebrali e che non compromettono l’intelligenza, possono essere associate a sottili difficoltà cognitive che possono condizionare
l’apprendimento scolastico, e che crisi focali che coinvolgono delimitate aree del cervello possono avere conseguenze su più domini cognitivi oltre quelli direttamente perturbati dalle
crisi. Pur consapevoli dell’estrema complessità dell’epilessia, si possono così riassumere i dati della letteratura:
• - l’epilessia nel bambino non comporta significative disabilità neuropsichiche nella maggior parte dei casi, ma può associarsi a disabilità intellettiva o a deficit/difficoltà
più selettive in presenza di intelligenza normale
• - anche in presenza di deficit cognitivi più diffusi, alcune funzioni possono essere maggiormente compromesse rispetto ad altre – tra queste le funzioni mnestiche e
attentive e alcune funzioni esecutive sono quelle che maggiormente risentono negativamente dell’epilessia.
Profili Neuropsichiatrici
Si sottolinea l’elevata frequenza di disturbi neuropsichiatrici (35-50%) nei bambini con epilessia. Il disturbo più frequentemente associato è il Deficit dell’Attenzione e
Iperattivita (ADHD) che ha una frequenza del 30%. Il rischio di una diagnosi di ADHD è da 2,5 a 5,5 volte maggiore che nella popolazione di bambini sani e riguarda in egual
misura maschi e femmine – la forma più frequente è quella inattentiva.
Anche i disturbi dello spettro dell’autismo sono molto frequenti nell’epilessia. Le cause determinanti questa associazione non sono ancora chiare.
Diagnosi di depressione o ansia sono anch’esse frequenti – la risposta psicologica al ripetersi delle crisi contribuisce all’insorgenza di questi sintomi, soprattutto in fase
adolescenziale, con le ripercussioni socio-comportamentali che essi comportano (ansia di separazione, ansia sociale, isolamento dal gruppo dei pari).
In sintesi, in questa malattia difficoltà e/o disturbi cognitivi e neuropsichiatrici sono frequentemente presenti e possono precedere l’insorgenza delle crisi stesse suggerendo
meccanismi neurobiologici comuni all’epilessia e agli spessi disfunzionali ad essa associati.
Epilessia senza danni strutturali cerebrali
L’epilessia a punte centro-temporali è la forma più frequente di epilessia del bambino che si presenta in età scolare: si caratterizza per crisi focali localizzate in aree del cervello
che controllano il movimento del volto, prevalentemente della regione oromotoria. Si tratta di un’epilessia frequente che esordisce tra i 6 e i 10 anni di età – le cause ancora non
sono conosciute ma ritenute di probabile origine genetica. Generalmente i bambini presentano crisi poco frequenti, soprattutto nel sonno, associate a sensazioni di formicolio
o intorpidimento o manifestazioni motorie a carico del volto/lingua. Nella maggior parte dei casi vi è una guarigione completa dell’epilessia in adolescenza, senza necessità di
terapia farmacologica (motivo per il quale in passato veniva chiamata epilessia benigna). Nonostante in questa forma di epilessia l’intelligenza sia in genere completamente
preservata, studi di revisione della letteratura indicano che lo sviluppo cognitivo e gli apprendimenti scolastici non sono sempre in linea con quelli dei coetanei. Si associa inoltre più
frequente alla diagnosi di ADHD rispetto alla popolazione sana. Le difficoltà legate alla funzione linguistica appaiono possibilmente in relazione alla localizzazione di questa
forma di epilessia in aree e circuiti cerebrali coinvolti nel processamento verbale.
Sul piano degli apprendimenti scolastici, viene riscontrato in molti studi una difficoltà nella lettura decifrativa con prestazioni di una deviazione standard inferiore rispetto alla media
dei coetanei con sviluppo tipico.
Un’altra forma di epilessia frequente in età scolare è l’epilessia assenza del bambino in cui il bambino presenta crisi caratterizzate dall’improvvisa sospensione della coscienza,
crisi di assenza, generalmente più volte al giorno della durata di pochi secondi. Le tappe dello sviluppo linguistico e motorio sono nella norma, come anche l’intelligenza, sebbene
con profilo talora disarmino per più evolute abilità verbali rispetto a quelle visuo-spaziali. Difficoltà attentive sono frequenti e si registrano già al momento della diagnosi. Sebbene
questi bambini abbiano intelligenza e abilità scolastiche nella norma, il deficit attentivo può ostacolare le prestazioni scolastiche e il funzionamento mnestico
condizionando l’efficacia delle funzioni esecutive e rendendo gli apprendimenti scolastici più faticosi per il bambino. Anche in questa forma di epilessia frequenti sono le
diagnosi di ADHD.
In sintesi, nelle forme di epilessia non complicate che si risolvono positivamente, si riscontrano intelligenza nella media, ma apprendimenti scolastici talora inferiori a quelli dei
coetanei, maggiore rischio di inefficace lettura decifrativa e difficoltà sul piano attentivo e delle funzioni esecutive.
Epilessie con danni strutturali cerebrali
L’epilessia può essere causata da alterazioni strutturali del cervello, con conseguenze eterogenee sul funzionamento cognitivo e mentale del bambino anche in base alle
aree del cervello coinvolte e al tipo di lesioni da esse sono interessate. Considerando il coinvolgimento del lobo temporale, deputato ai processi di immagazzinato e recupero
dell’informazione della memoria, si parla di epilessia del lobo temporale che frequentemente ha esordio nell’età prescolare e si presenta con un funzionamento intellettivo inferiore
alla media rispetto ai bambini sani. Più è precoce l’esordio maggiore è il tempo in cui agiscono le crisi epilettiche e maggiore è il rischio di un peggioramento delle funzioni cognitive.
Si associano però anche disturbi più specifici della memoria – il tipo di memoria maggiormente compromessa è quella che consente di ricordare episodi di apprendimento,
soprattutto a distanza di tempo. Si associano anche difficoltà a livello linguistico orale e scritto. Benché l’epilessia sia primariamente localizzata nel lobo temporale, gli effetti
cognitivi non sono limitati alla funzione mnestica ma anche a funzioni sottese ad altri lobi.
Se le crisi non vengono controllate dalla terapia farmacologia il rischio di disturbi di memoria aumenta significativamente. In caso di farmaco-resistenza, vi può essere indicazione
alla chirurgia dell’epilessia che implica la rimozione delle strutture da cui originano le crisi, spesso con miglioramento oltre che dell’epilessia anche del funzionamento intellettivo.
Per quanto riguarda le comorbidità neuropsichiatriche, nelle epilessie temporali sono più frequenti rispetto alla popolazione disturbi dello spettro dell’autismo, ADHD, disturbi da
comportamento dirompente e disturbi dell’umore.
Encefalopatie epilettiche
Sono caratterizzate da quadri di compromissione cognitiva e comportamentale che sono almeno in parte determinati dall’attività epilettica stessa. L’attività epilettica e le
crisi interferiscono con i processi di sviluppo determinano rallentamento nell’acquisizione di tappe dello sviluppo neuropsichiatrico e molto spesso anche regressione
(deterioramento delle funzioni stesse). In circa la metà di questi queste forme insorgono prima dei 3 anni di età e possono essere precedute da sviluppo neuropsichico normale o in
ritardo. La terapia mira a ridurre l’attività epilettica anche al fine di migliorare i processi di sviluppo e invertire i processi di deterioramento. Una forma di encefalopaita
epilettica, con punte-onda continue durante il sonno lento (relativamente rara) viene presa come esempio proprio in virtù degli effetti drammatici che può determinare sul
funzionamento cognitivo e sul comportamento.
L’insorgenza è generalmente intorno ai 3-5 anni, le crisi possono essere rare, ma elemento costante appare l’intensa attività parossistica sull’encefalogramma registrato durante il
sonno. Tale attività configura una condizione di stato di male epilettico elettrico durante il sonno che spiazza le attività fisiologiche del cervello, necessarie per il consolidamento di
funzioni neuropsicologiche, come la memoria o l’apprendimento, con conseguente declino cognitivo/comportamentale. Si possono sviluppare disturbi attentivi (ADHD), del
linguaggio espressivo e recettivo. (stato di male: stato che si verifica quando una crisi non si interrompe da sola o una serie di crisi si verificando senza che la persona si riprenda
tra gli episodi – può essere letale in una crisi convulsiva e deve essere interrotto con farmaci di emergenza). Va ricordato l’effetto potenzialmente negativo della terapia antiepilettica.
Sono pochi gli studi in letteratura che hanno analizzato gli effetti dei farmaci antiepilettici sul funzionamento cognitivo e sul comportamento del bambino soprattutto in termini di
specificità su alcune funzioni/comportamenti.
Alcuni farmaci possono esercitare un effetto negativo su entrambi, altri non li inficiano, ed altri ancora possono avere effetti positivi su uno o sull’altro. Gli effetti negativi si traducono
spesso in eccessiva sonnolenza, difficoltà nel mantenere l’attenzione nel tempo e talora maggiore irritabilità.
In questa sezione è stato sottolineato come non vi sia un profilo cognitivo e neuropsicologico unico nell’epilessia, ma disturbi di entità variabile, spesso diffusi e talora
più specifici. Indipendentemente dalla forma dell’epilessia, sono molto frequenti alterazioni più o meno significative di funzioni trasversali all’apprendimento quali attenzione,
memoria e funzioni esecutive – il malfunzionamento di questi processi ha un impatto significativo sulle potenzialità di apprendimento.
10.4 PRESA IN CARICO RIABILITATIVA
Non esiste una riabilitazione/abilitazione specifica per l’epilessia - sulla base dei disturbi, della loro entità e di quanto influiscono sul funzionamento cognitivo, adattivo
e sociale del bambino, verrà prediletto un tipo di trattamento e specifici obiettivi dell’intervento. Nel caso delle epilessie non complicate potranno, per esempio, essere
oggetto di intervento le difficoltà attentive generali e l’ottimizzazione dei processi di lettura. Nel caso in cui siano presenti disturbi più specifici che inficiano l’apprendimento, la
riabilitazione neuropsicologica potrebbe essere indirizzata al potenziamento e alla compensazione di tali difficoltà anche attraverso programmi riabilitativi a distanza. In molti casi
interventi psicosociali o psicoterapici possono essere di aiuto su problemi di umore e di comportamento derivanti dalla malattia. Oltre all’impatto diretto della malattia sul
bambino, anche la famiglia è a rischio di incorrere in difficoltà psicologiche e sociali, talvolta con risvolti psicopatologici – è stata riportata una sintomatologia ansiosa
nel 58% dei genitori e un rischio elevato per le madri di ricevere una diagnosi di depressione. Vi sono poi le limitazioni sociali, ricreative e sportive che l’epilessia può
comportare e la necessità di trovare contesti extra-scolastici idonei ai bisogni del bambino con epilessia. Gli ostacoli si trovano anche sul percorso dei genitori che spesso
sono costretti a cambiare impiego o a lasciarlo per potersi prendere cura del bambino ed essere costantemente disponibili per fare fronte alle crisi che possono
avvenire in qualsiasi momento. Nel contesto familiare, i fratelli spesso devono rinunciare a un sonno adeguato per i frequenti risvegli dovuti alle crisi notturno del bambino. Inoltre,
ostacolo emotivamente invalicabile, è la preoccupazione di morte prematura del bambino per fortuna rara ma con un’incidenza maggiore nei bambini con epilessia rispetto alla
popolazione sana.

10.5 EDUCAZIONI EDUCATIVE E LEGISLATIVE - La scuola deve conoscere i problemi legati all’epilessia
Uno studio condotto per valutare la conoscenza e l’atteggiamento degli insegnanti italiani nei confronti dell’epilessia ha dimostrato, su un campione di 300 insegnanti di
scuola primaria e 300 di scuola secondaria, una scarsa conoscenza della malattia e delle modalità per affrontarla a scuola, in maniera non diversa dalle conoscenze e opinioni della
popolazione generale. Circa la metà degli insegnanti ha erroneamente considerato l’epilessia incurabile e ereditaria, comuni gli atteggiamenti negativi verso questa condizione,
considerata oscura e stigmatizzata. Ciascun insegnante ha elevata probabilità di incontrare un alunno con epilessia durante la sua carriera professionale ed è quindi necessario che
sia preparato ad aiutarlo e ad apprendere le strategie per affrontare tale condizione nella scuola, con i connessi problemi emotivi, sociali e cognitivi. Un insegnante in grado di
reagire alle crisi epilettiche con calma e giusto supporto aiuterà gli altri a imparare a fare lo stesso – insegnanti in grado di comprendere e incoraggiare uno studente
con epilessia ne facilitano l’apprendimento, l’indipendenza, l’autostima e l’integrazione.
Applicazioni didattiche: suggerimenti generali
A titolo esemplificativo, per poter potenziare l’attenzione focale del bambino, potrebbe essere utile evidenziare alcune parole chiave in modo da catturarne l’attenzione,
modificare la modalità di insegnamento e fare delle pause inaspettate durante la lezione così da favorire il prolungamento dell’attenzione sostenuta.
• Per quanto riguarda la memoria, può essere utile facilitare l’immagazzinamento dell’informazione presentandola sia oralmente sia visivamente in modo da non sovraccaricare
un unico sistema percettivo, riproporre più volte il materiale e promuovere l’apprendimento di significati piuttosto che di informazioni fattuali.
• Per quanto riguarda le funzioni esecutive, può essere utile scomporre un compito complesso in sotto-processi, fornire una guida visiva sui processi necessari per svolgere un
determinato compito, soprattutto laddove è la memoria di lavoro quella più compromessa.
Applicazioni didattiche: suggerimenti specifici per le diverse forme di epilessia
Nei casi di epilessie in cui sia preservata l’intelligenza si raccomanda di porre particolare attenzione a:
1. livello di capacità di mantenere l’attenzione sostenuta 2. grado di comprensione delle informazioni apprese oralmente 3. lettura più lenta e poco accurata 4. comportamenti
iperattivi e disattenti 5. momenti di sospensione di vigilanza con possibile perdita temporanea di informazione
Nei casi di epilessia che si associa a danni cerebrali che possono incidere sui processi mnestici, si raccomanda di porre particolare attenzione a:
• 1. difficoltà di immagazzinamento di informazione dopo una sola esposizione
2. difficoltà di recuperare a distanza di tempo le informazioni apprese 3. difficoltà nel recuperare la parola nel corso della espressione orale 4. lentezza nella decodifica
del testo scritto 5. frequenti errori ortografici nella scrittura
Nel caso di forme di epilessia più grave che compromette il funzionamento su più livelli si raccomanda di porre particolare attenzione a:
1. variabilità del funzionamento cognitivo 2. presenza di ADHD che se grave e associato a condotte aggressive inficia significativamente la capacità di apprendimento e
compromette le qualità di adattamento al contesto di classe 3. presenza di difficoltà sul piano linguistico espressivo, recettivo e comunicativo 4. deficit nella comprensione verbale

Come affrontare il tema dell’epilessia in classe


Possono essere utili storie illustrate sul tema dell’epilessia adattate ai diversi livelli di scolarità, come ad esempio Sara e le sbiruline di Emily per la scuola dell’infanzia e primaria.
Inoltre, sul territorio nazionale sono presenti varie Associazioni laiche, rivolte ai pazienti, ai familiari e a chiunque sia interessato all’epilessia – tali associazioni di volontariato si
occupano di assistere i pazienti con epilessia e le loro famiglie per l’inserimento sociale e lavorativo e di divulgare un’informazione volta a combattere lo stigma (es. associazione
AICE).
Indicazioni Legislative:
Gli alunni con epilessie non complicate, in cui è preservato il funzionamento intellettivo ma dove possono essere presenti deficit in diversi ambiti neuropsicologici, sono per diritto
autorizzati ad avvalersi di mezzi e strumenti compensativi, come afferma l’articolo che regola gli interventi per i bambini con bisogni educativi speciali.

11 Disturbi Neuromuscolari - DATI EPIDEMIOLOGICI, GENETICI E NEUROFUNZIONALI


Le malattie neuromuscolari (MNM) colpiscono l’unità motoria, il motoneurone (cellula nervosa del midollo spinale o del tronco encefalico, che trasmette ai muscoli il comando di
movimento) col suo prolungamento localizzato nel nervo periferico, la giunzione neuromuscolare e l’insieme delle fibre innervate dal motoneurone. Singolarmente hanno una
prevalenza inferiore a 5:10000, ma prese nel complesso sono abbastanza frequenti. Si tratta di malattie croniche spesso progressive e pongono importanti complicazioni di ordine
medico, psicologico, economico e sociale nell’età della transizione (passaggio dall’età pediatrica alla cura dell’adulto). Tutte le malattie dell’unità motoria si manifestano con un
deficit motorio di grado e distribuzione variabili – nei casi più gravi si può verificare degenerazione muscolare. Sono disturbi multisistemici con manifestazioni in altri organi,
quali il SMN, l’apparato gastroenterico, il cuore la pelle e gli organi di senso. Con l’acquisizione di nuovi strumenti terapeutici e pratiche di presa in carico, ad oggi, molti
pazienti con MNM infantile riescono a raggiungere l’età adulta (che deve essere comunque programmata e pianificata per tempo) – ma nessuna di queste malattie risulta tutt’oggi
guaribile. È necessaria una presa in carico valutativa e riabilitativa precoce, multispecialistica, specifica e aggiornata volta a riconoscere e intervenire precocemente su segni e
sintomi disfunzionali, affinché i bambini affetti vivano meglio e più a lungo.
11.2 CLASSIFICAZIONE DELLE MALATTIE NEUROMUSCOLARI
Le malattie neuromuscolari si distinguono in forme geneticamente determinate e in forme acquisite.
Le forme geneticamente determinate (ereditarie) comprendono molti disturbi a esordio sia in età infantile che in età adulta e decorso variabile – la patologia neuromuscolare ereditaria più frequente è
rappresentata dal gruppo delle neuropatie sensitivo-motorie periferiche: Atrofie Muscolari Spinali (SMA I, II, III), Distrofia Miotonica, Distrofinopatie, Distrofie Muscolari dei Cingoli (LGMD), Distrofia
Muscolare Facio-Scapolo-Omerale (FSO), Miopatie Congenite e Miopatie Metaboliche.

Le distrofie muscolari sono un gruppo di gravi patologie che provocano una lenta, ma progressiva perdita di tessuto muscolare scheletrico che viene sostituito gradualmente da tessuto adiposo/fibroso, che
si associa a una condizione generale di debolezza. Sono caratterizzate da una non acquisizione o perdita delle competenze motorie, da un deterioramento della funzione respiratoria e cardiaca. Esistono
molte forme di distrofia muscolare, che possono essere trasmesse con diverse modalità:
autosomico dominante: alterazione del DNA rappresentata in un solo allele di una coppia cromosomica. Con un genitore affetto, la malattia si ripresenta nel 50% della prole
autosomico recessiva: alterazione del DNA rappresentata in entrambi gli alleli di una coppia cromosomica, sono necessarie due copie del gene affetto perché la malattia si
manifesti
X-linked: mutazione su uno dei geni del cromosoma X

La distrofia miotonica di Steinert (DM1) è una patologia multisistemica con età di esordio variabile e interessamento motorio – ha una prognosi funzionale motoria favorevole e prognosi quod vitam
sfavorevole per frequenti complicanze cardiorespiratorie. È a trasmissione autosomica dominante e di generazione in generazione la patologia diventa sempre più grave (fenomeno dell’anticipazione).
Esistono forme a esordio infantile, con manifestazioni tra 1-10 anni di età, e forme congenite, di cui la più grave è con esordio in età prenatale (mortalità del 30-40%).

La forma congenita è caratterizzata da una grave disabilità intellettiva, difficoltà respiratorie e nutrizionali alla nascita associate a diversi aspetti malformativi. La fase iniziale è la più critica, segue un iniziale
miglioramento fino alla successiva comparsa durante l’adolescenza dei sintomi tipici dell’età adulta, quali la miotonia, problemi cardiorespiratori e debolezza.

La distrofia miotonica infantile sviluppa i sintomi più avanti nel corso della crescita, andando ad interessare la sfera cognitiva-comportamentale con tratti autistici e disturbi a diversi organi, soprattutto al
sistema gastroenterico.

La distrofia muscolare di Duchenne (DMD) è la più frequente e conosciuta. Ha un decorso rapido e attivo. L’alterazione del gene DMD sul cromosoma X determina la mancata produzione della distrofina,
una proteina (distrofinopatia) – questa mancanza rende il complesso di membrane attorno alle fibre muscolari (sarcolemma) suscettibile alla lacerazione durante la contrazione muscolare, portando a un
deficit muscolare progressivo. Colpisce quasi esclusivamente i soggetti maschi. I primi sintomi si manifestano tra i 2 i 6 anni di età. Verso gli 11 anni, generalmente il paziente è costretto a muoversi su una
sedia a rotelle. Progressivamente, la degenerazione dei muscoli colpisce anche quelli respiratori, fino a rendere necessaria l’assistenza respiratoria.
Per adesso non esiste una cura, si somministrano farmaci corticosteroidi che intervengono su processi antinfiammatori, riducendo anche le reazioni immunitarie, ma sono più che
altro cure palliative. È possibile vedere un buon miglioramento della performance fisica se il trattamento farmacologico viene iniziato al momento o prima che i bambino raggiunga il
plateau delle sue capacità fisiche (condizione che tipicamente viene raggiunta verso i 4-6 anni).
I pazienti che assumono corticosteroidi subiscono una serie di gravi effetti collaterali quali cambiamenti comportamentali, riduzione della crescita e aumento eccessivo di
peso.Grazie alla crescita della ricerca in questo campo, ci sono strategie più innovative o personalizzate che mirano a fornire ai pazienti la distrofina o a correggere le mutazioni
genetiche, ma anche strategie più universali basate su farmaci più classici che puntano a combattere ad esempio la debolezza muscolare.
- La distrofia muscolare di Becker (BMD) è la forma meno grave di distrofinopatia in cui le mutazioni del gene DMD portano alla produzione di una proteina distrofina
strutturalmente anormale, ma presente. I sintomi sono più lievi ma simili a quelli della DMD.
- Le distrofie muscolari congenite sono un gruppo di malattie a ereditarietà per lo più autosomico recessiva. Differiscono tra loro per gravità, evoluzione clinica e meccanismi
patogenetici. Si riconoscono sei sottotipi in base al meccanismo patogenetico coinvolto, associate all’alterazione di più di 20 geni. Gli elementi in comune tra le
distrofie muscolari congenite sono:
• 1) l’esordio della debolezza muscolare dalla nascita o nei primi mesi di vita
• 2) la presenza di retrazioni muscolo-tendinee precoci
• 3) un quadro distrofico alla biopsia muscolare.
La gravità è variabile, ci sono forme severe che si manifestano con il quadro del lattante ipotonico (grave stato di salute con rischio di vita) – in altre forme c’è una minor
compromissione funzionale, esse possono essere rilevate anche in età più tardiva ma avere comunque caratteristiche cliniche già presenti in età più precoce (esempio: ritardo
psico-motorio). Possono presentare alterazioni dello sviluppo cerebrale e del cervelletto, disabilità intellettiva, epilessia, e problematiche cardiologiche, respiratorie, nutrizionali...
L’atrofia muscolare spinale (SMA) è una patologia neuromuscolare caratterizzata dalla progressiva morte dei motoneuroni causata da un difetto del gene SMN1 che porta alla
produzione di livelli insufficienti della proteina SMN. Viene trasmessa con modalità autosomica recessiva. Esistono quattro forme, con decorso variabile:
• 1) La forma I è la più grave ed è la più comune causa genetica di morte infantile. I bambini mostrano segni della malattia fin dalla nascita o nei primi mesi di vita, sono
segni gravi come una grave insufficienza respiratoria e l’incapacità di stare seduti autonomamente.
• 2) La forma II è intermedia, il bambino riesce a stare seduto ma non a camminare, presenta spesso complicanze respiratorie ed altre come la scoliosi. Nel complesso è
molto più stabile della forma I.
• 3) Le forme III e IV sono meno gravi, esordiscono dopo i primi anni di vita e sono sempre associate alla capacità di camminare, anche se a volte questa capacità può
essere persa. Non ci sono alterazioni al SNC e solitamente non è presente coinvolgimento cognitivo.
- Le miopatie congenite colpiscono il muscolo scheletrico, sono molto eterogenee dal punto di vista clinico, genetico e miopatologico. Sono causate da alterazioni
geneticamente determinate di varie proteine strutturali della fibra muscolare (la loro classificazione è basata sulle alterazioni della struttura delle fibre muscolari). Le forme più
comuni sono: Miopatia “central core”, Miopatia nemalinica, Miopatia centronucleare, Miopatia “minicore”, Miopatia con accumulo di desmina. Mutazioni nello stesso gene
possono dare origine a quadri istopatologici molto vari e al contrario mutazioni in geni diversi causano lo stesso quadro morfologico.
Queste forme esordiscono con ipotonia alla nascita (debolezza muscolare, spesso lentamente progressiva. La debolezza del diaframma può portare a una grave insufficienza
respiratoria.
I pazienti, di solito, hanno un’espressione tipica, data dalla debolezza dei muscoli mimici – sono molto diffusi i dismorfismi facciali, le malformazioni osteoarticolari e la lassità
ligamentosa. Solitamente queste forme non si associano a un coinvolgimento cognitivo.
Le forme acquisite (non ereditarie) comprendono un ampio spettro di disordini a esordio in età adulta (SLA, Sindrome di Guillain-Barré).

11.3 DIAGNOSI FUNZIONALE E DIFFERENZIALE


Data la complessità di tali forme, per effettuare un corretto inquadramento diagnostico funzionale è necessaria una valutazione globale, riguardante tutte le aree di sviluppo
coinvolte nella patologia. Oltre all’esame clinico e all’effettuazione di alcuni esami diagnostici, il paziente viene sottoposto a una valutazione funzionale-qualitativa e quantitativa per
registrare nel tempo i cambiamenti nelle attività svolte, nelle competenze acquisite e/o perse e l’evoluzione del deficit muscolare. La valutazione delle diverse aree funzionali è di
competenza delle figure sanitarie della riabilitazione che collaborano all’interno di un’équipe multidisciplinare per i vari interventi.
Dato il complesso coinvolgimento multisistemico che si può riscontrare in alcune forme di malattia neuromuscolare, è necessaria un’accurata diagnosi differenziale con altri disturbi
del neurosviluppo – in particolare il coinvolgimento del SNC in termini di disabilità intellettiva, ritardo psicomotorio, ritardo del linguaggio, difficoltà negli apprendimenti scolastici
impone diagnosi differenziale con alcune forme sindromiche geneticamente determinate che, tra l’altro, nelle fasi precoci dello sviluppo si presentano con ipotonia (es. sindrome di
Down).
11.4 PROFILO NEUROPSICOLOGICO E PSICOPATOLOGICO
Molti studi hanno suggerito la presenza di un coinvolgimento del SNC e di deficit cognitivo e/o problemi psichiatrici nei pazienti con disturbi neuromuscolari. Anche difficoltà di
apprendimento scolastico o disturbi neuropsicologici minori sono entrati a far parte dello spettro clinico di tali disturbi. Vengono descritti in seguito i profili di lacune delle
principali MNM evidenziando non solo la presenza o meno di una franca disabilità intellettiva, ma anche la presenza di alterazioni del profilo neuropsicologico.
Il bambino con distrofia muscolare di Duchenne o distrofia muscolare di Becker
Nei bambini affetti da distrofia muscolare di Duchenne (DMD) sono presenti difficoltà cognitive, a cui si associano difficoltà relative al funzionamento neuropsicologico, allo
sviluppo del linguaggio e ai processi di apprendimento. Ancora poche sono le ricerche volte a descrivere il funzionamento dei bambini con distrofia muscolare di Becker (BMD)
ma sembrano essere presenti difficoltà analoghe a quelle dei pazienti con DMD, sebbene con minore gravità.
- Il 30% dei bambini con DMD ha un livello cognitivo inferiore di circa una deviazione standard rispetto a quanto atteso per l’età. Le difficolta cognitive sono già presenti in età
prescolare e non risultano essere correlate al deficit muscolare, che di solito compare più tardi. Le difficoltà a carico del linguaggio orale che emergono in età prescolare e si
mantengono anche in età scolare sono presenti anche in bambini con livello cognitivo nella norma. Queste difficoltà di linguaggio sono caratterizzate da un ritardo nella
produzione delle prime parole, vocabolario espressivo ristretto, difficoltà morfosintattiche, compromissione delle capacità narrative, maggiore incidenza di parafasie semantiche
e fonologiche (sostituzione di termini esatti con altri sbagliati o cambiamento dell’ordine delle sillabe). Sono state riscontrate anche difficoltà di memoria di lavoro a carico del
loop fonologico. Non sembra ci sia una relazione tra ritardo motorio e linguistico, sono riportati deficit linguistici sia nei soggetti che hanno avuto un ritardo nella deambulazione
sia in coloro che non lo hanno avuto. Inoltre, è confermata la presenza di problemi nell’apprendimento della lingua scritta, simili a quelli di bambini dislessici.
Infine, è stata riscontrata nei bambini con DMD una compromissione delle funzioni esecutive, in particolare di capacità cognitive complesse, su cui si fondano le
capacità di ragionamento, di problem solving e di pianificazione. Nonostante i bambini con DMD abbiano difficoltà di memoria di lavoro uditivo-verbale, resta
intatta la memoria a lungo termine dichiarativa e si ha una più funzionale memoria visuo-spaziale. I risultati che emergono dagli studi presenti in letteratura non sempre
sono concordi nel definire il profilo emotivo comportamentale dei soggetti DMD alla luce della esiguità del campione e della disomogeneità delle misure utilizzate – tuttavia
si evidenza una elevata presenza di problematiche esternalizzanti ed internalizzanti. Diversi autori hanno evidenziato come i bambini con DMD presentino quadri di
comorbidità con ADHD in epoca prescolare. Sono inoltre riportate difficolta nell’area delle competenze interpersonali con una significativa vulnerabilità nelle interazioni con i
pari e una ridotta capacità di modulare il proprio comportamento rispetto al contesto sociale e relazionale.
Il bambino con distrofia miotonica
I pazienti affetti da distrofia miotonica di tipo I (DM1) possono presentare una variabilità di caratteristiche fisiche, cognitive, comportamentali e di personalità che possono avere
un impatto importante sullo sviluppo e sulla qualità di vita sia durante l’infanzia che in seguito.Gli studi che analizzano il profilo cognitivo e psicopatologico sono controversi, sebbene
tutti confermino l’elevata presenza di disturbi emotivo-comportamentali e di disabilità intellettiva di grado variabile nelle forme congenite e infantili. A differenza della DMD, è
evidenziata una discrepanza significativa tra le scale del QI, con capacità di ragionamento non verbale inferiore rispetto alle abilità di tipo verbali – in molti soggetti si
osserva, in particolare, difficoltà nella prova Disegno con i Cubi, che potrebbe suggerire un deficit più specifico nella abilità costruttive visuo-spaziali. Inoltre, possono esserci
significative difficoltà di apprendimento che correlano a prestazioni deficitarie nelle funzioni esecutive, nelle abilità visuo-costruttive e visuo-percettive e nella memoria visuo-spaziale
e verbale a breve e lungo termine. A causa della debolezza facciale, i bambini con DM1 possono presentare difficoltà nell’eloquio, lievi o gravi da alterare l’intelligibilità del
linguaggio – questo può compromettere la comunicazione nella vita quotidiana, con ricadute negative sulle relazioni sociali e sul percorso educativo e scolastico.
Diversi autori riportano che il circa il 60% dei bambini con DM1 presenta difficoltà emotivo-comportamentali: disturbi internalizzanti (ansia e umore), ADHD sottotipo disattento
e disturbo oppositivo provocatorio. L’eccessiva sonnolenza diurna e la facile faticabilità (sintomi molto frequenti nell’adolescenza) possono inoltre avere un importante
impatto.Vari studi riportano che i bambini con DM1 presentano alessitimia, cioè difficoltà a riconoscere il proprio stato emotivo e i sentimenti altrui, che impatta negativamente sugli
aspetti emotivo-affettivi e relazionali.
I pazienti con DM1 presentano caratteristiche di personalità non del tutto omogenee a eccezione dell’apatia che appare un marker distintivo di questi pazienti, anche in età adulta. Il
più frequente disturbo di personalità identificato in questi pazienti è il disturbo evitante di personalità.
Il bambino con distrofia muscolare congenita
Le distrofie muscolari congenite (DMC) sono un gruppo molto eterogeneo sia rispetto alla categorizzazione fenotipica che genetica. Alcune DMC si caratterizzano per la
presenza di anomalie strutturali del cervello, del cervelletto e dell’occhio riconoscibili alla risonanza magnetica encefalica (RM) e possono associarsi a disabilità intellettiva ed
epilessia. Le capacità cognitive possono essere maggiormente compromesse in alcune forme di DMC causate da mutazioni in geni.

11.5 PRESA IN CARICO RIABILITATIVA


Si assiste a una notevole complessità nella presa in carico e nel processo di integrazione tra le varie figure coinvolte, alla luce anche dei numerosi cambiamenti che si manifestano
in modo imprevisto. È fondamentale coinvolgere la famiglia, ma anche tutte le figure che interagiscono con il bambino, (scuola, enti sanitari...), impostando progetti di
intervento multidisciplinare.
Il terapista motorio è una figura di primaria importanza, fornisce esercizi di stretching per prevenire lo sviluppo di retrazioni e contratture. L’utilizzo di eventuali aiuti o protesi è
discusso dal terapista e dal fisiatra, prima in équipe e poi con la famiglia. Essendoci molto spesso difficoltà anche a livello cognitivo e affettivo-comportamentale è necessario anche
prendere in considerazione un intervento comportamentale e cognitivo, utile per promuovere una maggiore qualità di vita ed evitare difficoltà di adattamento – l’obiettivo nella
gestione degli aspetti cognitivi e affettivi deve essere primariamente la prevenzione.
- I controlli funzionali devono andare a valutare i punti di forza e debolezza delle funzioni cognitive comprendendo valutazione delle abilità intellettive globali e del
funzionamento adattivo, delle funzioni esecutive e del linguaggio orale e scritto. I bambini che presentano problematiche psichiatriche o comportamentali dovrebbero inoltre
essere inviati a uno specialista per una conferma diagnostica ed eventualmente per impostare una terapia farmacologica.
Importante nel processo riabilitativo è il supporto al processo di elaborazione cognitivo-emotivo della diagnosi cercando di promuovere precocemente la resilienza le strategie di
coping e il problem solving, con l’obiettivo di tutelare l’autonomia, l’autodeterminazione genitoriale, il locus of control e preservare il ruolo genitoriale che è un indice di benessere, di
qualità di vita ed è correlato all’outcome positivo (evoluzione positiva di un dato percorso). Dovrebbe essere valutata la possibilità di poter accedere a programmi di riabilitazione
logopedica per gestire le eventuali difficoltà di deglutizione e di comunicazione. I bambini, inoltre, dovrebbero avere la possibilità di accedere a programmi specifici di
stimolazione cognitiva per promuovere l’efficienza delle funzioni esecutive. Al fine di limitare le difficoltà emotivo-affettive e contemporaneamente favorire il passaggio all’età
adulta è di primaria importanza stimolare l’autonomia e favorire sempre di più l’autodeterminazione. I bambini dovrebbero avere la possibilità di un supporto terapeutico
finalizzato a potenziare le strategie di coping e per promuovere lo sviluppo di competenze sociali e di problem solving, che favoriranno lo sviluppo di una maggiore fiducia in se
stessi e dell’autostima con ricadute positive sulla qualità di vita e sull’inserimento lavorativo.

11.6 INDICAZIONI EDUCATIVE E LEGISLATIVE


In contesto scolastico, in caso di patologia neuromuscolare, è necessario stilare un piano educativo individualizzato, secondo la Legge 104/1992. Nel caso in cui la
compromissione motoria, cognitiva ed emotivo-comportamentale non interferisse con il funzionamento del bambino potrebbe essere utile attivare alcune misure compensative e
dispensative, secondo la normativa vigente per Bambini con Bisogni Educativi Speciali.
- L’obiettivo è il riuscire ad affrontare le difficoltà di apprendimento, contemporaneamente gestire le attività che potrebbero essere dannose per il bambino e tutelare le
componenti affettive e sociali favorendo i processi di integrazione e relazione con i pari.
- L’obiettivo dell’intervento educativo dovrebbe essere il progetto di vita, quindi appare fondamentale la comunicazione tra scuola e famiglia.
La promozione di competenze sociale e di apprendimento rappresenta un elemento essenziale per migliorare la qualità della vita e un importante fattore di protezione rispetto a
difficoltà di tipo emotivo-affettivo. Abilità sociali e di apprendimento più evolute favoriscono l’inserimento lavorativo. Fin dalla scuola dell’infanzia è necessario preparare un
ambiente adatto al bambino verificando le condizioni strutturali per rendere possibile l’inserimento, progettando le attività educative per sostenere i bisogni del bambino e favorire le
sue potenzialità in modo più possibile integrato alla classe. È possibile predisporre l’aula in modo che il soggetto possa partecipare in modo sempre autonomo alle attività, viene
anche valutata la possibilità di mettere a disposizione dell’alunno un elaboratore di testi. Il progetto educativo va monitorato e adattato in relazione alle caratteristiche del bambino,
alla fase evolutiva e alla patologia. Nel corso della scuola dell’infanzia gli obiettivi si concentrano soprattutto sul potenziamento del linguaggio orale e delle strategie cognitive –
nel corso della scuola primaria, invece, l’attenzione è posta nei confronti di difficoltà di apprendimento e di caratteristiche comportamentali. Le attività scolastiche devono adattarsi
sempre alle difficoltà del ragazzo, sia nei tempi che nei contenuti, per questo è indispensabile introdurre l’utilizzo di strumenti compensativi e dispensativi. In questa fase evolutiva è
fondamentale il supporto psicologico, ma anche quello degli insegnanti che devono porre particolare attenzione sui punti di forza e sulle potenzialità del soggetto, accettando i limiti
e le difficoltà come elemento cruciale per la tutela delle componenti emotivo-affettive in vista dell’inserimento alla scuola superiore.

12 - Disturbo da deficit di attenzione e iperattivita (ADHD)


è uno dei più frequenti ed eterogenei disturbi dell’età evolutiva in continuità con l’età adulta. È caratterizzato clinicamente dalla triade sintomatologica “inattenzione,
iperattività e impulsività” che troviamo nelle prime fasi dello sviluppo e che diventa persistente anche nel corso della vita tale da compromettere il funzionamento globale del
bambino negli ambiti familiare, socio-scolastico e/o occupazionale.
12.1 INQUADRAMENTO NOSOGRAFICO ED EPIDEMIOLOGIA
L’ADHD è stato recentemente introdotto all’interno dei Disturbi del neurosviluppo nel DSM-5 grazie al suo esordio precoce, la pervasività e la compromissione dello sviluppo.
Secondo il DSM-5 per effettuare la diagnosi di ADHD c’è bisogno che siano soddisfatti almeno sei dei nove sintomi di inattenzione e /o iperattività/impulsività tramite
una valutazione con strumenti validati (per i maggiori di 17 anni devono essere cinque i sintomi riconosciuti) – questi sintomi devono avere il loro inizio prima 12 anni di età,
durata maggiore di 6 mesi e devono essere presenti in almeno due contesti di vita.
Il manuale diagnostico divide in tre diversi tipi di presentazioni di ADHD:
• - prevalentemente inattentiva in cui sono presenti almeno sei sintomi di inattenzione e
massimo cinque di iperattività/impulsività
• - prevalentemente iperattiva in cui si manifestano almeno sei sintomi di iperattività/impulsività e massimo cinque di inattenzione
• - combinata in cui ci sono sia almeno sei sintomi di inattenzione che sei sintomi di iperattività/impulsività.
I tassi di prevalenza dell’ADHD oscillano dallo 0.9% al 20% a seconda dei campioni, dei metodi utilizzati per la diagnosi, dei criteri diagnostici applicati e delle fasce d’età –
prevalenza nel sesso maschile e nelle femmine si riscontra più frequentemente la presentazione inattentiva.
Studi longitudinali su vasti campioni hanno evidenziato una persistenza lifetime dell’ADHD dal 15% al 40-60%, a seconda che si tratti di disturbo conclamato o di manifestazioni
sottosoglia.
12.2 QUADRO PSICOPATOLOGICO E RAPPRESENTAZIONI CLINICHE
L’ADHD è caratterizzata dalla triade sintomatologica inattenzione, iperattivita ed impulsivita.
1. L’inattenzione si manifesta come divagazione durante i vari compiti, difficoltà di concentrazione e disorganizzazione. Sono compromesse le capacità di attenzione focale e
di attenzione sostenuta. Questo sintomo porta ad una facile esauribilità e quindi ad evitare attività che sottintendano uno sforzo mentale. L’inattenzione è presente in diversi
contesti, non solo nel contesto scolastico e nei ragazzi più grandi la disorganizzazione si traduce in incapacità di definire le priorità e nella tendenza sistematica a
procrastinare.
2. L’iperattivita è rappresentata da un’eccessiva attività motoria e dall’incapacità a stare fermi.I bambini e adolescenti che di solito vengono descritti come iperattivi, a scuola
giocherellano al banco e non riescono a stare seduti e fermi per tempi prolungati, sono logorroici e disturbano durante attività – si accompagna una sensazione interna e
soggettiva di tensione, pressione, instabilità che negli gli adulti e gli adolescenti si sostituisce all’ipercinesi, rendendo quasi impossibile affrontare attività tranquille e
sedentarie.
3. L’impulsivita, che spesso è associata all’iperattività, può essere sia cognitiva (rispondere la prima cosa che passa per la testa) che motoria (comportamento discontrollati, a
volte a rischio per l’individuo come attraversa la strada senza controllare) – la possiamo definire come la difficoltà di procrastinare nel tempo la risposta ad uno stimolo,
derivata dal bisogno di un’immediata gratificazione. Si manifesta con impazienza, incapacità a tenere a freno le proprie reazioni e ad attendere il proprio turno nelle
conversazioni – in casi più gravi può mancare la capacità di prevedere le possibili conseguenze delle proprie azioni, con comportamenti a rischio e ricerca di sensazioni forti.
4. Un’altra caratteristica dell’ADHD è la sensibilita alla noia, ovvero il bisogno di avere stimoli continui, sia fisici che mentali, di passare da un’attività all’altra e alla necessità
di stare su internet o di giocare ai videogames che può sviluppare una dipendenza.
Spesso si ha l’impressione che i pazienti ADHD abbiano difficoltà a comprendere o memorizzare le istruzioni – inoltre, l’incapacità di mantenere livelli attentivi adeguati e la marcata
impulsività determinano una riduzione del profitto scolastico che si configura a volte in un vero e proprio disturbo generalizzato degli apprendimenti. La scarsa sintonizzazione
con i pari, la fisicità che prevale sul dialogo e le difficoltà di rispettare i turni conversazionali e di gioco determinano spesso una significativa interferenza nelle relazioni
interpersonali. Tutto questo determina una riduzione dell’autostima che accentua le difficoltà e sintomi di demoralizzazione. Negli ultimi anni è stata studiata una forma di
ADHD (in assenza di iperattività o impulsività) non presente nei sistemi categoriali tradizionali che potrebbe essere interpretata come “inattentivo puro”, spesso
associato a ipoattivita-rallentamento e in prevalenza nel sesso femminile chiamata “Sluggish Cognitive Tempo” (SCT). I soggetti SCT vengono descritti come timidi,
introversi e con la testa fra le nuvole, poco motivati, anergici e così lenti da essere percepiti come distaccati o disinteressati. In questi casi, a differenza dei casi combinati, si
riscontra una comorbidita internalizzante data da disturbi d’ansia e depressione e con disturbi dell’apprendimento, in particolare in ambito matematico. Sul piano attentivo si
riscontrano “lentezza esecutiva”, mancanza di organizzazione di strategie per la pianificazione e tendenza a perdere le cose o all’accumulo compulsivo.
L’evoluzione di ADHD nell’età adulta cambia il suo quadro dei sintomi presentando un’attenuazione della triade sintomatologica di base, ma emergono sintomi di “disregolazione
emotiva”, che sono spesso già presenti in bambini con questa disabilità ma mascherati dall’iperattività. La disregolazione emotiva (ED) è la mancata abilità nel trasformare uno
stato emotivo tale che questo sia adattivo e finalizzato al contesto, per cui soggetto appare eccitato ed eccitabile, iper-reattivo, molto facile alle crisi di ravvia e con marcata labilità
emotiva.
12.3 DECORSO NATURALE E COMPLICANZE
Durante i primissimi mesi e anni di vita del bambino può risultare estremamente complesso individuare la soglia tra iperattività fisiologica e ADHD, che si manifesta come un
complesso disturbo del ritmo circadiano con gravi disturbi del ritmo sonno-veglia. L’età scolare segna generalmente la soglia tra il comportamento iperattivo adattivo e quello
patologico. Nel passaggio dall’età scolare all’adolescenza/età adulta i sintomi cognitivi e l’inattenzione persistono a differenza dell’iperattività che invece tende a ridursi o addirittura
a scomparire, rendendo talvolta difficile la diagnosi. Nella fascia di età adolescenziale/giovanile sono evidenti i sintomi di difficoltà di auto-organizzazione, la discronia (difficoltà a
stimare il tempo necessario per svolgere una determinata azione) e drowsiness (incapacità di restare adeguatamente vigili in condizioni di eccessiva calma). La tipica intolleranza
alla noia li spinge a ricercare stimoli in attività a immediata gratificazione motoria, sociale e cognitiva. Inoltre, presentano difficoltà di automonitoraggio e autodeterminazione
del comportamento che nelle interazioni sociali si traduce in una dismetria sociale (difficoltà a valutare le attese e le percezioni del contesto, per poter modulare il proprio
comportamento di conseguenza).
- Sintomi di demoralizzazione, bassa autostima e disturbi comportamentali rappresentano spesso complicanze dirette dell’ADHD, alla cui genesi partecipano non soltanto il
fallimento scolastico, l’emarginazione e la difficoltà di inserimenti in gruppi sociali, ma anche i continui rimproveri da parte dell’adulto e il sentimento di solitudine e colpa.
Le difficoltà di controllo comportamentale possono divenire una stabile modalità di interagire con il contesto, determinando una crescente difficolta di adattamento alle norme
sociali o più frequentemente sfociando nelle dipendenze da internet, cellulari e social network. Infine, durante l’adolescenza, in casi di elevata impulsività o comorbidità con
disturbi del comportamento dirompente, potrebbero subentrare gravi complicanze come l’abuso di sostanze o manifestazioni di discontrollo degli impulsi ai limiti delle condotte
dissociali quali gambling, piromania e piccoli furti.
12.4 DIAGNOSI DIFFERENZIALE
La triade sintomatologica “iperattività, inattenzione e impulsività” può essere riscontrata in diversi quadri clinici a ponte tra vari disturbi, rendendo difficile la diagnosi
differenziale. La diagnosi differenziale va effettuata non solo a casi di bambini con iperattività fisiologica, ma anche a casi di bambini che vivono in contesti sociali svantaggiati o
casi con precedenti esperienze traumatiche. In secondo luogo, è importante effettuare una distinzione con i disturbi esternalizzanti come il Disturbo oppositivo provocatorio (elevata
impulsività e comportamento di sfida e ostile) e il Disturbo della condotta (aggressività, furti, menzogna e sistematica violazione delle regole sociali), che presentano sintomi simili
a quelli dell’ADHD. Inoltre, dobbiamo compiere un’altra diagnosi differenziale con i Disturbi dell’umore di tipo bipolare I o II (manifestazioni contropolari dell’umore in cui la fase
maniacale è connotata da euforia, ideazione megalomanica, ipersessualità), con il Disturbo da disregolazione dirompente dell’umore (irritabilità, scoppi di rabbia e discontrollo
aggressivo) e con il Disturbo esplosivo intermittente (elevati livelli di impulsività).
Fenotipi clinici e traiettorie di comorbidita
Il processo diagnostico è complicato anche perché molti disturbi internalizzanti o esternalizzanti si presenta in comorbidità con l’ADHD, determinando manifestazioni complesse di
spettro sindromico stabili o fenotipi clinici. Inoltre, all’interno del fenotipo clinico dell’ADHD sono incluse tutte le sue presentazioni, diverse in base ai sintomi all’età, al genere e alla
diversa eziopatogenesi. Tra i Disturbi del neurosviluppo che spesso si associano all’ADHD ci sono i Disturbi dello spettro autistico, le Disabilità cognitive, i Disturbi della
coordinazione motoria, i Disturbi da tic/Tourette, i Disturbi del linguaggio e i Disturbi specifici di apprendimento. Nell’80% dei casi all’ADHD sono associati anche i Disturbi del ritmo
sonno-veglia ed è elevata la concomitanza con quadri epilettici.
Per spiegare tali associazioni è quindi necessario individuare percorsi biologici, ambientali o psicopatologici che giustifichino delle specifiche associazioni cliniche tra quadri
apparentemente disomogenei.
12.5 EZIOPATOGENESI - Genetica
L’ADHD è un disturbo che ha un’elevata ereditarieta (molti studi hanno elaborato che l’ereditabilità del disturbo varia dal 60% al 80%). Nonostante questa grande componente
genetica del disturbo, ancora non sono stati individuati geni specifici o set di geni legati in modo causale all’ADHD. Si ritiene che l’ADHD abbia un background genico complesso e
poligenico (caratterizzato da varianti genetiche multiple). Inoltre, anche molti fattori ambientali, tra cui prematurità, esposizione ed abuso di sostanze da parte della madre in
gravidanza sono correlati a un probabile rischio di ADHD nel bambino.
Correlati cerebrali dell’ADHD
La presenza di anomalie cerebrali strutturali in bambini con ADHD è suggerita da un’ampia mole di evidenze scientifiche. Ulteriori studi sembrerebbero rilevale la presenza
di una maggiore riduzione volumetrica in alcune aree cerebrali in soggetti con ADHD rispetto ai controlli, sebbene l’aumento dell’età e il trattamento con psicostimolanti possano
comportare una rinormalizzazione di queste regioni. Studi incentrati sull’architettura corticale hanno invece riportato la presenza di un assottigliamento globale della corteccia, una
riduzione nella densità della corteccia prefrontale dorsolaterale e semplificazioni della girazione corticale, con ritardo di maturazione corticale. Sono inoltre emerse anomalie a livello
dell’amigdala e del talamo.
Neuroimaging e neuropsicologia
Se da un lato numerose evidenze dimostrano il coinvolgimento di diverse strutture e circuiti cerebrali nella neurofisiopatologia dell’ADHD, dall’altro, in una prospettiva
clinica è chiaro come nessuno dei numerosi deficit neuropsicologici associati all’ADHD sia necessario né sufficiente per una diagnosi. I risultati dell’inquadramento
neuropsicologico non svolgono dunque un ruolo significativo nel determinare la presenza o meno dell’ADHD, ma sono comunque necessari per una più precisa caratterizzazione
della sindrome e per una migliore impostazione dei piani di trattamento individualizzato.
Neurotrasmettitori e neurochimica
Numerosi studi ci portano a sostenere che l’eziopatogenesi dell’ADHD sia causata da una riduzione dell’efficienza dei neurotrasmettitori di dopamina e noradrenalina, in particolare
dell’alterata espressione dei loro geni regolatori. Queste problematiche inciderebbero soprattutto sulla non regolazione di funzioni esecutive e attenzione. Sono state ipotizzate
anche anomalie nella trasmissione serotoninergica, colinergica, nicotinergica e dei mediatori dell’infiammazione.
12.6 DIAGNOSI FUNZIONALE E TEST DIAGNOSTICI
La diagnosi dell’ADHD è principalmente clinica e viene effettuata con l’anamnesi accurata da un neuropsichiatra infantile tramite colloquio con genitori, paziente – non esistono test
neuropsicologici diagnostiche né scale validate che possono sostituire il colloquio clinico amnestico. Poiché per formulare la diagnosi occorre verificare anche la compromissione
funzionale presente in diversi contesti di vita del bambino è essenziale, con il consenso dei genitori, ottenere informazioni anche dagli insegnanti. Le Linee Guida per l’ADHD (e i
DSA) suggeriscono l’utilizzo integrativo di specifici strumenti standardizzati per definire il profilo di funzionamento e il progetto di intervento.
12.7 PERCORSI DI TRATTAMENTO
Il metodo di cura per l’ADHD si basa su un approccio multimodale che combina terapie mediche con interventi psicosociali. I genitori, gli insegnanti e il bambino stesso devono
sempre essere coinvolti nella messa a punto del programma terapeutico, individualizzato sulla base dei sintomi più severi e dei punti di forza identificabili nel singolo individuo. Un
modo di concettualizzare il piano di trattamento è quello di considerare i sintomi cardine di inattenzione, impulsività e iperattività come gestibili mediante terapia farmacologica,
mentre le problematiche emotive, comportamentali e di apprendimento appaiono più responsive a interventi psicosociali, ambientali e psicoeducativi. Negli ultimi anni la gestione
dell’ADHD è diventata sempre più complessa con l’introduzione di nuove terapie nella pratica clinica, come rimedi nutraceutici (sana alimentazione) e omeopatici. I dati
supportano una maggiore efficacia dell’associazione tra approccio farmacologico e psicoterapico, che agiscono in modo complementare. La decisione clinica dell’intervento
combinato deve essere guidata principalmente dal grado di interferenza del disturbo sul funzionamento globale, dai bisogni del bambino e della sua famiglia e dalla disponibilità dei
servizi sanitari.
Trattamento multimodale
L’intervento multimodale è dato da:
Le tecniche comportamentali rappresentano un insieme di interventi specifici che hanno l’obiettivo comune di modificare l’ambiente fisico e sociale per alterare o modificare il
comportamento – efficaci applicate ai bambini con ADHD, anche a lungo termine.
Alcuni interventi si basano essenzialmente sul principio del condizionamento operante (ogni comportamento segue una conseguenza che, se positiva, equivale a un rinforzo che
aumenta la probabilità che il comportamento si ripresenti, se negativa ne diminuisce la probabilità di riverificarsi). L’obiettivo di questo comportamento è quindi strutturare un nuovo
contesto di antecedenti che possano ridurre il presentarsi del comportamento disfunzionale.
Esistono altre tecniche basate sulle conseguenze negative del comportamento e includono:
1. il time out o isolamento che si applica sottraendo al bambino la possibilità di attingere a rinforzi (soprattutto positivi) e quindi isolandolo temporaneamente; il costo della
risposta che prevede una forma di punizione in corrispondenza della messa in atto del comportamento indesiderato; la tecnica della sovra correzione che prevede
l’associazione di un comportamento antitetico a quello negativo, oltre al compenso riparatorio delle conseguenze dell’azione (es. il bambino rovescia il portamatite, poi deve
mettere a posto le matite e appuntirle).
2. Un altro intervento è quello di token-economy (TE), uno dei più diffusi per la gestione dei comportamenti problematici – i genitori dei bambini e gli altri operatori coinvolti
tengono una registrazione del verificarsi giornaliero o settimanale di comportamenti target, all’inizio identificati come disfunzionali. Si ha poi l’assegnazione di punti o gettoni
per premiare un comportamento desiderabile (rinforzo positivo) e il ritiro di un gettone come conseguenza di comportamenti inappropriati (costo della risposta). Poiché il
bambino o adolescente con ADHD è molto spesso impulsivo e poco consapevole delle conseguenze dei propri comportamenti, questa strategia è in grado di attivare il
recupero di tale consapevolezza e di favorire quindi autoregolazione.
Le terapie cognitivo-comportamentali (CBT) hanno l’obiettivo di insegnare ai bambini ad adottare modalità di pensiero più utili e funzionali. Tale approccio viene spesso definito
con il termine metacognitivo dato che è basato sull’incremento della metacognizione, facoltà che permette la consapevolezza e quindi la gestione dei propri processi cognitivi. La
CBT comporta un lavoro in setting di gruppo o individuale, per aiutare il bambino con ADHD a sviluppare un approccio più pianificato e riflessivo al pensiero e al
comportamento. Le sessioni possono aiutare il bambino ad affrontare situazioni per lui difficili e incoraggiare iniziative che forniscano soddisfazione personale e benessere, come
regolamentare il sonno, l’esercizio fisico o gli hobby. L’intervento sulle abilita sociali si rivela utile poiché bambini e adolescenti con ADHD spesso hanno problemi di
socializzazione con i pari o scarsa capacità di interpretare le interazioni sociali (dismetria sociale) – l’obiettivo è quello di far sviluppare i comportamenti utili per favorire
l’accettazione, per mantenere le relazioni sociali con i pari e operare strategie di problem solving sociale. Viene insegnato, ad esempio, a regolare il comportamento verbale e non
verbale in modo funzionale al mantenimento delle interazioni sociali positive, imparare ad aspettare il proprio turno. Numerosi studi evidenziano l’efficacia delle tecniche di
neurofeedback che rileva, tramite l’utilizzo di elettrodi posizionati sul capo, l’attività elettroencefalica differente in base all’attività svolta – i dati rilevati vengono trasmessi a un
computer che li trasforma in un formato codificabile dall’utente: l’individuo in questo modo impara a individuare il proprio comportamento cerebrale e successivamente prova a
modificare la propria attività elettroencefalica ricercando lo stato cognitivo voluto e acquisendo autoregolazione.
• intervento con i genitori: incremento di strategie educative, tecniche di rinforzo, analisi degli stili genitoriali – il coinvolgimento dei genitori negli interventi psicoterapici
di tipo comportamentale (parent training) è fondamentale per ottenere buoni risultati generalizzabili ai contesti di vita. Nella BPT i genitori sono gli agenti principali che
forniscono l’intervento – comprende il lavoro su alcune competenze specifiche dei genitori tra cui: organizzare routine quotidiane coerenti, esprimere lodi e rinforzi per un
comportamento appropriato e ignorare i cattivi comportamenti minori, poco irritanti o non pericolosi.
• intervento con gli insegnanti: applicazione di strategie comportamentali, attività metacognitive in classe, attività di supervisione con i docenti.
Con il termine Teacher Training si definiscono gli interventi con gli insegnanti applicati per favorire il miglior adattamento scolastico del bambino – l’applicazione di
tecniche comportamentali in classe (es. token economy) migliora il funzionamento globale e al tempo stesso la produttività accademica.
Trattamento farmacologico
La terapia farmacologica si basa su farmaci psicostimolanti e non stimolanti.
Numerosi studi effettuati su bambini e adolescenti confermano la capacità degli psicostimolanti (es. metilfenidato e destroamfetamina) di ridurre in maniera rapida e duratura
sintomi di ADHD come impulsività, inattenzione e iperattività migliorando inoltre la qualità delle relazioni sociali, i sintomi aggressivi e l’aderenza terapeutica. Tra i non stimolanti,
l’atomoxetina, si è mostrato ben tollerato ed efficace, anche se più utilizzato in adolescenza ed età adulta.
12.8 INDICAZIONI EDUCATIVE E LEGISLATIVE
Il MIUR ha emanato delle importanti circolari volte alla sensibilizzazione sul tema dell’ADHD. La più rilevante è la Circolare n. 4089 del 15/06/2010, le altre sono: Direttiva
Ministeriale 27/12/2012 riguarda l’intervento con gli alunni con particolari bisogni e l’organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica; Nota del 17/11/2010 tratta della
sintomatologia dell’ADHD in età prescolare; Circolare del 15/06/2010 espone il protocollo operativo per migliorare l’apprendimento in classe di bambini con ADHD e non; Circolare
del 4/12/2009 in cui si parla di problematiche collegate alla presenza in classe di alunni con ADHD.
13 Disturbi specifici dell’apprendimento
I Disturbi specifici di apprendimento (DSA) sono un insieme di condizioni, a insorgenza in età evolutiva, caratterizzate da difficoltà significative nell’acquisizione di una o più delle
abilità scolastiche di base, nonostante capacità intellettive nei limiti della norma, l’assenza di handicap sensoriali, l’assenza di importanti disturbi psicopatologici e normali
opportunità educative. La mancata padronanza/automatizzazione di tali abilità interferisce in maniera significativa anche con altre capacità scolastiche complesse, come la
comprensione di testi scritti o problem-solving matematico.
Le Linee Guida per la diagnosi dei DSA pubblicate nel nostro Paese e definite attraverso Consensus Conference (2007, 2011) distinguono quattro tipi di DSA:
• - dislessia evolutiva: è deficitaria l’acquisizione delle abilità di lettura decifrativa
• - disortografia evolutiva: è deficitaria l’acquisizione delle competenze ortografiche in scrittura
• - disgrafia evolutiva: è deficitaria l’acquisizione degli aspetti grafo-motori della scrittura
• - discalculia evolutiva: è deficitaria l’acquisizione delle capacità aritmetiche di base
Esiste un elevato grado di comorbidita tra le diverse tipologie di DSA: in uno stesso soggetto sono, infatti, spesso compresenti più tipi di DSA.
13.1 DATI EPIDEMIOLOGICI, GENETICI E NEUROFUNZIONALI - Dati epidemiologici
La prevalenza complessiva dei DSA indicata dagli studi epidemiologici internazionali è stimata tra il 2 e il 10% dei soggetti in età scolare. Per quel che riguarda più specificamente il
nostro Paese, dati pubblicati dal MIUR (2018) relativi all’anno scolastico 2016/17 mostrano che gli alunni con certificazioni di DSA nelle scuole primarie e secondarie italiane sono il
3,6% del totale.
La Dislessia è la tipologia più frequente, riguardando oltre la metà (55%) degli alunni. Per quanto riguarda l’influenza del genere sulla prevalenza dei DSA, si ritiene che essi siano
più frequenti nei maschi.
Aspetti eziologici e neurofunzionali
I DSA sono Disturbi del neurosviluppo, vale a dire disturbi con esordio in età evolutiva di origine neurobiologica, riconducibili a una maturazione alterata/atipica di alcune aree e
circuiti cerebrali.
L’eziologia dei DSA è multifattoriale e implica l’interazione tra fattori sia di rischio che protettivi multipli, che possono essere sia di tipo genetico che ambientale. Una
buona parte dei fattori di rischio, sia eziologici che cognitivi, è comune tra le diverse forme di DSA – per questo la comorbidità è altamente probabile. I principali fattori eziologici
ambientali includono: nascita prematura, ambiente familiare che non stimola l’esposizione alla lingua scritta, metodi di insegnamento della lettura di tipo globale e un sistema
ortografico di tipo opaco (ing). Si ritiene che l’evoluzione o meno verso una condizione clinica di Dislessia o di altro DSA non sia rigidamente prestabilita a partire da una determinata
causa, quanto più o meno probabile in funzione del numero e dell’importanza dei fattori di rischio in interazione con fattori di tipo protettivo.
I DSA sono disturbi dimensionali, in cui la difficoltà a carico della specifica capacità scolastica interessata può assumere tutta una serie di gradazioni intermedie.
Il manifestarsi di un DSA e la sua gravità sono mediati attraverso l’interazione di una o più aree o circuiti cerebrali disfunzionali e, di conseguenza, la presenza di una o più
specifiche alterazioni a livello cognitivo. Le moderne tecniche di neuroimaging, sia di tipo morfologico-strutturale che funzionale, hanno permesso di mostrare anomalie a livello di
una serie di aree e circuiti cerebrali in soggetti con DSA.
13.2 DIAGNOSI FUNZIONALE E DIFFERENZIALE
Una prestazione significativamente deficitaria in una o più abilità scolastiche di base in prove standardizzate che indaghino tali abilità, associata a una sensibili interferenza delle
difficoltà sulle attività della vita quotidiana, rappresentano criteri di inclusione per la diagnosi di DSA. L’assenza di deficit delle capacità cognitive generali, neurologici e sensoriali,
di importanti quadri psicopatologici tali da alterare lo sviluppo emotivo-affettivo e di fattori di significativo svantaggio linguistico, socio-culturale o educativo costituiscono criteri di
esclusione per la diagnosi di DSA.
Dislessia evolutiva
La Dislessia evolutiva è un DSA in cui il deficit persistente riguarda l’acquisizione delle capacità di lettura decifrativa, o del componente di decodifica della lettura (capacità di
a
tradurre le sequenze di lettere che formano le parole scritte nelle sequenze di suoni corrispondenti). La diagnosi di Dislessia può essere posta solo a partire dalla fine della 2
classe della Scuola Primaria, data l’ampia variabilità fisiologica nei tempi di acquisizione delle capacità di lettura decifrativa (onde evitare eccessivi falsi positivi).La lettura si
caratterizza per la presenza di errori di sostituzione, omissione, aggiunta o trasposizione di una o più lettere e/o di scambio tra parole visivamente simili ed errori nel riconoscimento
delle parole, per frequenti esitazioni, lentezza e scarsa fluenza.
Le prove standardizzate valutano separatamente il parametro accuratezza, espresso come numero di errori, e il parametro rapidità, espresso come numero medio di
sillabe lette al secondo.
Sono presenti difficolta anche nella comprensione del testo scritto, che possono costituire un’eventuale conseguenza della difficoltà nella lettura decifrativa, ma non
rappresentano l’aspetto cardine della Dislessia evolutiva. Le manifestazioni cliniche della Dislessia tendono a modificarsi in funzione della specifica fase evolutiva. In molti casi, la
lettura raggiunge un discreto grado di accuratezza, ma permane lenta e stentata, procedendo per via sub-lessicale (riconoscimento sequenziale delle sillabe o delle singole lettere
nei casi più severi).
La caratteristica più persistente della Dislessia evolutiva, nei soggetti di lingua italiana e delle altre lingue ortograficamente regolari, la lentezza nella lettura.
Il numero assoluto di errori a partire dalla fine della Scuola Primaria si riduce, per quanto in termini relativi la discrepanza con i normo-lettori possa permanere significativa.
Nonostante questa tendenza generale anche nei soggetti dislessici di scuola secondaria il profilo delle difficoltà di lettura decifrativa può mostrare variabilità. Accanto a numerosi
dislessici lenti, ma abbastanza accurati nella lettura, ve ne sono alcuni che tendono ad essere piuttosto rapidi, a prezzo di commettere numerosi errori. Un certo numero di soggetti
dislessici può mostrare un profilo di lettura significativamente compromesso sia in termini di rapidità che di accuratezza.
Disortografia evolutiva
Nella Disortografia evolutiva il soggetto mostra un disturbo persistente nell’acquisizione delle competenze ortografiche in scrittura, cioè nella capacità di tradurre le parole della
lingua parlata nelle sequenze di lettere corrispondenti della lingua scritta – anche altre componenti della scrittura risultano spesso più o meno deficitarie, come la qualità grafica o
l’uso della punteggiatura. La diagnosi di Disortografia non può essere posta prima della fine del 2° anno della scuola primaria. Tipicamente, il soggetto disortografico
commette numerosi errori ortografici sia nella scrittura spontanea che in quella sotto dettatura. Gli errori ortografici possono essere:
• errori non plausibili fonologicamente: la sequenza di lettere prodotta dal soggetto scrivente non corrisponde più alla forma fonologica corretta della parola, se
pronunciata. Rappresenta la conseguenza di un problema a carico della via sub-lessicale di scrittura. (omissione o aggiunta di lettere, sostituzione tra lettere, omissione
delle doppie)

• errori plausibili fonologicamente: la produzione scritta corrisponde ancora alla pronuncia della parola. È l’espressione di un deficit a carico di una strategia lessicale di
scrittura, in cui si recupera in blocco la pronuncia della parola intera una volta che la forma scritta è stata riconosciuta in modo globale.
(scambi tra lettere o sillabe omofone, omissione della h nelle forme del verbo avere, fusioni e separazioni illegali di parole)
Progressivamente gli errori non plausibili fonologicamente tendono a ridursi fino a scomparire. In fasi relativamente avanzate prevalgono gli errori plausibili
fonologicamente. Un’altra variabile che si è dimostrata in grado di influenzare il profilo sia qualitativo che quantitativo degli errori ortografici di bambini italiani con
Disortografia (oltre che Dislessia) è la presenza in anamnesi di un disturbo di acquisizione del linguaggio orale.
Disgrafia evolutiva
La Disgrafia evolutiva è un DSA caratterizzato da un problema significativo e persistente nell’acquisizione delle competenze grafo-motorie di scrittura. In generale, i bambini
disgrafici manifestano una difficoltà nel produrre una scrittura a mano leggibile, in modo rapido e automatico. La qualità della grafia può anche migliorare temporaneamente, ma a
prezzo di notevoli lentezza e dispendio di risorse attentive – ragione per la quale insegnanti e genitori possono nutrire dubbi rispetto all’effettiva presenza di disturbo disgrafico, dal
momento che quando a viene chiesto di impegnarsi la scrittura può effettivamente migliorare ma si tratta di un miglioramento transitorio.
In molti casi la mancanza di accuratezza e la scarsa velocità della scrittura si combinano in vari modi con altre alterazioni quali difficoltà nel memorizzare i movimenti più efficaci di
scrittura o difficoltà visuo-spaziali che rendono disorganizzata la collocazione dello scritto nella pagina. Inoltre, ordine e direzionalità canonici dei movimenti per la realizzazione delle
lettere in corsivo sono spesso violati.
Il tratto grafico del soggetto con Disgrafia può mostrare un’ampia gamma di anomalie, fra cui:
• “dismetrie”, in cui la traiettoria tracciata per scrivere una determinata lettera risulta dislocata rispetto a quella canonica
• Realizzazione di lettere irriconoscibili a causa di deformazioni, assenza di tratti fondamentali, presenza di tratti estranei
• Confusione fra lettere simili visivamente, eccesiva variabilità delle dimensioni delle lettere, spaziatura anomala tra le parole, presenza di autocorrezioni e tremori nel tratto
grafico
Discalculia evolutiva
La Discalculia evolutiva è un disturbo persistente nell’acquisizione delle competenze aritmetiche di base, leggere e scrivere numeri, contare, eseguire calcoli a mente e per iscritto
– in ogni caso essa non si identifica con un disturbo generale a carico della abilità matematiche.
a
La diagnosi di Discalculia può essere posta solo a partire dalla fine della 3 classe primaria (un anno più tardi rispetto Dislessia e Disortografia, poiché si riconosce che i tempi
necessari all’insegnamento delle competenze aritmetiche di base sono più protratti e mostrano una maggiore variabilità.
Esistono due differenti profili di Discalculia evolutiva:
• Discalculia procedurale: caratterizzata da deficit nelle capacità procedurali di automatizzazione della transcodifica numerica (passaggio da un tipo di codice o
formato di rappresentazione numerica ad un altro – es. dal 7 al “sette”), in particolare nella lettura ad alta voce e nella scrittura sotto dettatura (errori lessicali e sintattici)
e delle strategie di calcolo. L’enumerazione è tipicamente ben automatizzata quando è in avanti, mentre si presenta incerta e costellata da errori quando è all’indietro.
Caratteristiche sono le difficoltà nel recupero dei fatti aritmetici (risultati di semplici operazioni, come tabelline, che attraverso la pratica vengono automatizzati e sono
facilmente recuperabili nella memoria). Le prestazioni nei compiti che richiedono la comprensione semantica dei numeri, cioè capirne la quantità associata, sono di solito
preservate.
Sono spesso presenti anche una ridotta efficienza nel calcolo a mente, che ad esempio si appoggia all’uso delle dita, e difficolta nei calcoli scritti.
È di più frequente riscontro nella pratica clinica e si associa nel 60% dei casi ad altri DSA.
• Discalculia profonda o semantica: caratterizzato da un deficit primario negli aspetti di base della cognizione numerica. Le difficoltà aritmetiche riguardano anche
compiti che richiedono la manipolazione del significato quantitativo del numero. Alcune difficoltà, evidenti in età scolare:
- Difficoltà nel subitizing (capacità di riconoscere facilmente numerosità di piccoli insiemi) - Difficoltà nello stimare e nel confrontare “ad occhio” la numerosità di insiemi
- Difficoltà più generali nel quantificare vari aspetti della realtà
- Difficoltà nel calcolo approssimativo
Si hanno poi difficoltà a cascata anche nella maggior parte delle altre competenze aritmetiche di base. Forma piuttosto rara e si presenta spesso in forma isolata
rispetto ad altri Disturbi del Neurosviluppo.
Diagnosi differenziale
Il problema fondamentale di diagnosi differenziale che si pone nel caso dei DSA è quello di distinguerli da altre difficoltà o disturbi dell’apprendimento di tipo non specifico e i
principali problemi si pongono rispetto a disturbi dell’apprendimento riconducibili a:
• Limiti delle capacità cognitive generali, cioè capacità intellettive/logiche
• Disturbi di tipo sensoriale (visivi o uditivi) non corretti o non del tutto compensabili
• Deficit neurologici come quelli che tipicamente accompagnano paralisi cerebrali infantili
• Importanti disturbi psicopatologici e/o della sfera emotiva-motivazionale, quali gravi disturbi d’ansia e/o dell’umore o disturbi dello spettro acustico
• Ridotte opportunità educative (es. svantaggio socio-culturale o linguistico)

13.3 PROFILO NEUROPSICOLOGICO E PSICOPATOLOGICO - Profilo neuropsicologico


Il livello cognitivo o neuropsicologico di analisi dei DSA si propone di identificare gli specifici meccanismi cognitivi disfunzionali in grado di determinare le difficoltà comportamentali
di lettura, scrittura o delle abilità aritmetiche che caratterizzano i DSA.
Dislessia e Disortografia
Secondo un’ipotesi dominante fino al decennio scorso, la Dislessia evolutiva è un disturbo di natura linguistica ed è riconducibile a un deficit di tipo fonologico, cioè nella
rappresentazione, nel recupero e nell’utilizzo della componente sonora e del linguaggio. Determina un’alterata e/o ritardata acquisizione delle regole di corrispondenza grafema-
fonema, cioè il fondamento della lettura nei sistemi ortografici di tipo alfabetico. Comporta anche difficoltà di mantenimento in memoria a breve termine dei suoni ricavati
dall’applicazione delle regole di conversione grafema-fonema. Si tratta, quindi, di un problema di processing fonologico che limita la possibilità di applicare efficacemente
una strategia di tipo sub-lessicale, quella procedura di cui si avvale tipicamente il lettore principiante per decodificare le parole scritte e che costituisce la base per la
successiva strategia di lettura lessicale. Esistono numerose evidenze a sostegno dell’ipotesi fonologica della Dislessia:
• continuità tra disturbi del linguaggio orale e disturbi del linguaggio scritto
• prestazione deficitaria dei soggetti dislessici rispetto ai normo-lettori in una varietà di compiti di processing fonologico, quali le prove di consapevolezza fonologica
(capacità di identificare esplicitamente e di manipolare i costituenti sonori del linguaggio parlato), di memoria verbale e di lavoro, e di denominazione rapida
automatizzata (RAN: compito in cui è richiesto di denominare più rapidamente possibile un numero ridotto di stimoli visivi altamente familiari)
A partire dall’inizio degli anni 2000 l’ipotesi fonologica della Dislessia è stata soggetta a critiche, in particolare è stato fatto notare che i deficit di processing fonologico non
riguardano tutti i soggetti con Dislessia, e in diversi casi sarebbero invece presenti altri tipi di alterazioni neuropsicologiche.
Secondo un’altra ipotesi la Dislessia è imputabile a un deficit specifico a carico della via dorsale-magnocellulare, uno dei due grandi circuiti anatomo-funzionali del sistema
visivo, responsabile della detezione del movimento e delle forme alla periferia del campo visivo. Attualmente prevale la posizione che questo deficit possa riguardare solo un
sottogruppo di soggetti dislessici.
A partire dagli anni Novanta è stata avanzata anche l’ipotesi per cui la Dislessia rappresenterebbe la conseguenza di un deficit generalizzato di apprendimento automatico o
implicito, ovvero di quel tipo di memoria (procedurale) che si manifesta attraverso un graduale miglioramento delle prestazioni con la pratica, in maniera essenzialmente
inconsapevole.
Tutte le ipotesi citate sono state elaborate sulla base di studi condotti su campioni di soggetti dislessici nei quali veniva presa in esame una sola tipologia di difficoltà.
Più di recente, anche sulla base di ricerche in cui in uno stesso gruppo di dislessici è stata verificata contemporaneamente la presenza o meno delle varie tipologie di deficit previsti
dalle teorie diverse, hanno cominciato a prevalere ipotesi di tipo multifattoriale: la Dislessia sarebbe un disturbo di natura eterogenea, sotteso da una varietà di possibili specifici
deficit neurocognitivi, con una probabilità di manifestarsi che aumenterà quanto più i singoli deficit sono accentuati e/o il numero di deficit compresenti sarà maggiore.
Disgrafia
Anche la Disgrafia viene attualmente considerata una condizione piuttosto eterogenea e i principali deficit di tipo neuropsicologico coinvolti includerebbero:
• difficoltà a livello visuo-percettivo e visuo-spaziale (mancato rispetto dei margini del foglio)
• deficit di controllo motorio fine e generale (dismetrie)
• deficit di recupero e/o di pianificazione degli schemi motori (amnesia procedurale)
• altre difficoltà motorie e/o di tipo posturale
Con questi differenti deficit sottostanti di tipo neuropsicologico possono andare a interagire anche fattori legati all’apprendimento e all’automatizzazione di strategie di scrittura
inefficienti.
Discalculia
Anche per la Discalculia la posizione attualmente prevalente è quella che la ritiene un disturbo eterogeneo, sotteso da una varietà di possibili differenti deficit
neurocognitivi (isolati o associati), distinti in:
• - deficit a carico di funzioni “dominio-generali”: abilità come competenze verbali di tipo fonologico in gioco nell’apprendimento delle parole-numero e della sequenza
numerica; capacità di tipo visuo-spaziale implicate nell’allineamento in colonna dei calcoli scritti; attenzione e “funzioni esecutive”, in particolare nelle loro componenti di
memoria di lavoro e di inibizione
• - deficit a carico di funzioni “dominio-specifiche”: si riferiscono ad alcune competenze di base, molto primitive, specificatamente deputate alla manipolazione delle
numerosità e/o delle quantità, identificate come “modulo numerico innato” o number sense: si riferisce a una capacità innata di cui il cervello umano è dotato e che
permette già dai primi mesi di vita di apprezzare la differenza di numerosità di insiemi di elementi presenti nell’ambiente – comprende almeno due meccanismi differenti:
• - Object Tracking System (OTS): sistema di individuazione di oggetti multipli, che permette di tenere traccia di un numero molto ristretto di elementi – alla base delle
abilità di subitizing
• - Approximate Number System (ANS): sistema della numerosità approssimata, che permette di cogliere con immediatezza differenze di numerosità oltre il limite del
subitizing, senza però riconoscere in maniera esatta la numerosità dell’insieme, ma solo di rappresentarla in maniera approssimativa
Un deficit a carico del number sense sarebbe alla base della Discalculia profonda. Le facoltà innate, pre-verbali di rappresentazione delle numerosità corrispondenti al
number sense forniscono la base per il successivo sviluppo di competenze aritmetiche più evolute e sofisticate.
Profilo psicopatologico
Nei soggetti con DSA sono frequenti le ripercussioni sul piano emotivo e motivazionale. Oltre alla frustrazione connessa alle difficoltà scolastiche, va aggiunto il clima di
incomprensione nei confronti delle difficoltà sperimentate dal bambino da parte dell’ambiente circostante.
Le difficoltà di apprendimento incontrate dai bambini con DSA possono anche essere erroneamente interpretate come espressione di problematiche più generali di tipo intellettivo.
In queste condizioni il bambino con DSA non può manifestare una varietà di stati emotivi negativi (come ansia da prestazione, senso di insicurezza, scarsa auto-efficacia). Se non si
interviene precocemente, riconoscendo la natura delle difficoltà, la percezione di scarsa auto-efficacia del soggetto rischia di comportare un crescente disinvestimento motivazionale
nei confronti delle attività scolastiche. La presenza di un DSA sembra rappresentare un fattore di rischio rispetto alla possibilità di sviluppare progressivamente disturbi
psicopatologici, soprattutto di tipo internalizzante, quali ansia e depressione. Sono una serie di variabili relative al contesto ambientale (familiare e scolastico) in cui il soggetto
è inserito a favorire o ridurre la possibilità di andare incontro a problematiche più o meno serie di tipo psicopatologico:
• Se il soggetto è inserito in un contesto che riconosce e accetta la natura delle sue specifiche difficoltà, il suo benessere psicologico è come quello di un altro coetaneo
• Se il soggetto è inserito in un contesto che non riconosce la sua natura, questo mancato riconoscimento agirebbe come stressor negativo capace di favorire lo
strutturarsi di vissuti di inadeguatezza.
13.4 PRESA IN CARICO RIABILITATIVA
L’intervento sui DSA dovrebbe attuarsi su più livelli contemporaneamente, quindi è necessario:
• Un primo intervento “diretto” sulle difficoltà, detto anche abilitativo, che miri a ridurre il più possibile le difficoltà a carico delle strumentalità scolastiche
caratteristiche del DSA – è indicato nelle fasi iniziali della scolarizzazione ma anche successivamente nel caso in cui la diagnosi di DSA sia tardiva
• Un secondo intervento “indiretto” sulle difficoltà, detto compensativo e dispensativo, che prevede la messa in atto di accorgimenti e il ricorso a strumenti
finalizzati a limitare il più possibile le conseguenze negative per l’apprendimento connesse alle difficoltà nella abilità scolastiche di base e in alcuni processi
neuropsicologici
Trasversale rispetto a questi interventi dovrà essere anche una particolare attenzione rivolta agli aspetti di ordine emotivo e motivazionale connessi
all’apprendimento. Solo allorché l’alunno con DSA riacquisti sufficiente autostima e adeguata auto-efficacia sarà disposto a “investire” le necessarie energie
anche sul piano cognitivo per poter effettivamente trarre vantaggio da questi interventi. Questa attenzione potrà essere messa in atto nella quotidianità
dell’affiancamento durante lo svolgimento dei compiti da parte di un adulto e nel contesto delle lezioni in classe da parte degli insegnanti.
Intervento abilitativo
Mira in modo diretto a ridurre il più possibile le difficoltà a carico delle strumentalità scolastiche caratterizzate del DSA e quindi a migliorare, per esempio, le capacità di lettura
decifrativa o il calcolo a mente. Un trattamento abilitativo è considerato efficace quando migliora la competenza deficitaria oltre quanto atteso sulla base dell’evoluzione naturale del
disturbo. Dovrebbe essere erogato il più precocemente possibile così da non limitare ulteriormente le opportunità di apprendimento del bambino e prevenire il più possibile le
ripercussioni a livello emotivo e motivazionale. Una precisa definizione della natura delle difficoltà manifestate dal bambino consente un intervento più mirato e
verosimilmente più efficace. Si distinguono due tipologie di approcci abilitativi:
• Orientati al compito: si propongono di migliorare una determinata competenza scolastica agendo direttamente sull’abilità stessa, attraverso il suo esercizio intensivo e
sistematico. I più promettenti si sono rivelati quelli mirati a favorire l’automatizzazione del riconoscimento sub-lessicale e/o lessicale
• Orientati al processo: cercano di promuovere una particolare abilità in modo indiretto, andando a stimolare uno o più dei meccanismi cognitivi che sottendono l’abilità
in questione, sempre attraverso il suo esercizio sistematico e incrementando progressivamente la difficoltà dei compiti. Sono di lunga tradizione quelli mirati alla
promozione della consapevolezza fonologica o interventi che stimolano la funzionalità della via visiva magnocellulare come alcuni training di tipo visuo-percettivo
Intervento compensativo e dispensativo
È finalizzato a consentire al soggetto con DSA di realizzare le sue potenzialità di apprendimento e di conseguire gli obiettivi formativi, venendo penalizzato il meno possibile dalle
difficoltà intrinseche al suo disturbo. Gli “strumenti compensativi” sono dispositivi tecnologici, cartacei o specifiche strategie organizzative e di studio, utilizzati per consentire al
soggetto di compensare, by-passare le sue limitazioni funzionali, come:
• Compensazione delle difficoltà di lettura decifrativa: utilizzo del canale verbale uditivo con libri di testo in formato digitale, da ascoltare attraverso una sintesi
vocale – vi sono anche testi cartacei ad alta leggibilità, di più facile accesso grazie, per esempio, ad accorgimenti nella formattazione del testo
• Compensazione delle difficoltà di scrittura: utilizzo del PC e di software per video-scrittura
• Compensazione delle difficoltà di calcolo: utilizzo della calcolatrice
Le “misure dispensative” prevedono che il soggetto possa essere esentato dall’eseguire prestazioni o dall’essere sottoposto a valutazioni in ambito scolastico, fra cui rientrano:
• Esonero dalla lettura ad alta voce di fronte alla classe e dalle attività di copiatura della scrittura e la possibilità di una riduzione quantitativa dei compiti scritti
assegnati per casa
• Ricorso a prove orali al posto delle verifiche scritte
• Concessione di tempi più lunghi per il completamento delle verifiche scritte o una riduzione del numero di quesiti o esercizi proposti
• Nelle prove scritte maggiore considerazione per gli aspetti inerenti ai contenuti rispetto a quelli formali

13.5 INDICAZIONI LEGISLATIVE


La possibilità per gli alunni con DSA di avvalersi di appositi strumenti compensativi e misure dispensative in ambito scolastico è garantita dalla Legge 170/2010 “Nuove
Norme in materia di disturbi specifici di apprendimento in ambito scolastico” e dal successivo Decreto attuativo 5669 del MIUR del 2011, nel quale si stabilisce che la Scuola deve
garantire ed esplicitare per gli alunni con DSA interventi didattici individualizzati e personalizzati, anche attraverso un Piano Didattico Personalizzato (PDP), che è lo strumento
con cui la Scuola esplicita le strategie didattiche individualizzate e personalizzate e le misure compensative e dispensative, fra cui:
• Analisi della situazione di partenza, in termini di natura delle difficoltà strumentali e metacognitive dello studente, ma anche i suoi punti di forza
• Definizione del livello degli obiettivi curriculari per lo studente
• Individuazione delle metodologie didattiche più idonee e degli strumenti compensativi
• Definizione delle modalità di verifica e di valutazione più idonee
La Legge 170/2010 sancisce il diritto dei genitori dei bambini con DSA della Scuola Primaria e Secondaria di I grado a usufruire di orari di lavoro flessibili. Le questioni
inerenti alla diagnosi dei DSA sono state specificate meglio in un documento di accordo elaborato dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province
Autonome di Trento e Bolzano del 2012. Questo documento permette alle Regioni di individuare anche strutture private accreditate per il rilascio della diagnosi di DSA.

14 Disturbi dello spettro autistico


Nell’edizione attualmente in uso del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-5) i Disturbi dello spettro autistico sono inseriti all’interno del capitolo più ampio dei
Disturbi del neurosviluppo. Secondo il DSM-5, le caratteristiche diagnostiche dell’ASD sono inerenti a due aree: la comunicazione sociale e i comportamenti ristretti e ripetitivi,
indipendentemente dalla cultura, dalla razza o dal gruppo socio-economico.
14.1 DATI EPISTEMOLOGICI
In accordo con la World Health Organization (WHO) la prevalenza globale dell’ASD è circa dell’1%. Un più recente studio ha stimato la prevalenza tra l’1% e il 5%. L’incremento
della prevalenza di questi disturbi è almeno in parte riconducibile al cambiamento dei criteri sintomatologici e a una maggiore sensibilità̀ diagnostica. Tali fattori da soli non sono in
grado, tuttavia, di spiegare l’aumento esponenziale delle diagnosi, la cui causa va presumibilmente ricercata anche in elementi di tipo eziopatogenetico.
Approfondimento - Criteri diagnostici per il Disturbo dello spettro autistico (ASD):
• - Deficit persistente nella comunicazione sociale e nell’interazione sociale in diversi contesti, non spiegabile attraverso un ritardo dello sviluppo – manifestato da: -
deficit nella reciprocità socio-emotiva: va da un approccio sociale anomalo e incapacità di conversazione, fino alla totale mancanza di risposta all’interazione sociale -
deficit nei comportamenti comunicativi non verbali: vanno da anomalie nel contatto oculare e nel linguaggio del corpo, fino a totale mancanza di espressività facciale -
deficit nell’iniziativa e mantenimento di relazioni: vanno da difficoltà ad adattare il comportamento ai diversi contesti sociali fino all’apparente assenza di interesse per i
coetanei
• - Pattern di comportamenti, interessi o attivita ristretti e ripetitivi, manifestato da almeno due dei seguenti punti: - linguaggio, movimenti motori o uso di oggetti in
maniera stereotipata o ripetitiva - sameness: inflessibile adesione alla routine, comportamenti verbali e non verbali ritualizzati, con eccessiva reazione di intolleranza ai
minimi cambiamenti e rigidità nello schema di pensiero - interessi estremamente ristretti e fissi - iper/ipo-reattività agli stimoli sensoriali o interessi insoliti per aspetti
sensoriali dell’ambiente
• - I sintomi devono essere presenti nella prima infanzia – possono divenire manifesti solo nel momento in cui le risposte sociali oltrepassano le limitate competenze
possedute, oppure possono essere mascherati da strategie apprese
• - L’insieme dei sintomi comporta una compromissione dell’ambito sociale, lavorativo e quotidiano
• - Questi sintomi non sono riconducibili a una Disabilità intellettiva o a un Ritardo dello sviluppo – essendo la Disabilità intellettiva e il Disturbo dello spettro dell’autismo
spesso associati, per fare una diagnosi di comorbidità il livello di comunicazione sociale deve essere inferiore rispetto al livello di sviluppo globale del soggetto.
14.2 CARATTERISTICHE GENETICHE E NEUROFUNZIONALI
Le cause dell’autismo sono tuttora oggetto di studio – un’origine genetica è ammessa sulla base di molte caratteristiche come il maggior rischio di ricorrenza nelle famiglie con
membro affetto e la maggiore frequenza nei soggetti di sesso maschile – tuttavia solo in una percentuale minima di casi il disturbo è riconducibile a singole mutazioni responsabili di
sindromi genetiche. La ricerca ha evidenziato, in una limitata percentuale di soggetti, molte varianti in centinaia di geni diversi implicati nei processi dello sviluppo del sistema
nervoso. Inoltre, la disregolazione di geni implicati nel neurosviluppo risulta in una più generale vulnerabilità per disturbi psichiatrici. Oggi si ritiene che a fattori genetici vadano
accostati fattori ambientali di vario genere.
Sono stati individuati alcuni fattori di rischio: nascita pretermine, basso peso alla nascita, esposizione a farmaci durante la gravidanza, diabete gestazionale, parto cesareo,
malattie autoimmunitarie della madre, età dei genitori (padre > 50 anni) e esposizione a inquinanti ambientali – fra i fattori di rischio sono considerati anche quadri di grave e
prolungata mancanza di stimoli: quadri “quasi autistici” sono stati descritti in bambini deprivati (in orfanotrofio), benché in questi bambini non fossero presenti alcune caratteristiche
della sindrome, le caratteristiche autistiche scomparivano solo in parte una volta adottati.
Inoltre, a sostegno dell’importanza dei fattori ambientali, è stato dimostrato che in topi, in cui era stato indotto un comportamento “simil-autistico”, un ambiente
arricchito di stimoli sociali migliora il comportamento e modifica l’anatomia del cervello. Questi dati confermano la plasticita del sistema nervoso e l’importanza di
intervenire precocemente nei confronti di bambini a rischio. Esistono diversi modelli esplicativi del disturbo ma nessuno di essi sembra spiegare tutti i casi di autismo e tutte le
manifestazioni. In ogni caso le ricerche convergono verso un terreno comune: i sintomi devono essere considerati come effetti di anomalie molto precoci dello sviluppo cerebrale e
della riorganizzazione neuronale che provocano effetti a “cascata” nell’interazione del bambino con l’ambiente. Ne deriva l’importanza di interventi precoci in grado di modificare
sensibilmente l’evoluzione del disturbo.
14.3 DIAGNOSI FUNZIONALE E DIFFERENZIALE
Due aree definisco l’ASD: la compromissione nell’area socio-comunicativa e quella nell’area degli interessi ripetitivi e ristretti. A livello sociale mancano la reciprocità e la
capacità di instaurare contatti interpersonali, di interpretare i segnali sociali e di integrare informazioni con una funzione comunicativa ed affettiva – questa compromissione può
essere qualitativamente diversa: ci sono bambini che possono apparire molto isolati e altri che alla stessa età osservano interessati i loro coetanei senza però saperci interagire.
Sono state identificate tre modalita di espressione del deficit dell’interazione sociale:
• - bambino riservato: può richiamare l’immagine di un bambino in una gabbia di vetro – sia a scuola che a casa sembra ritirato in se stesso, non rispondendo agli
approcci sociali ed evitando il contatto oculare – spesso avvicina le persone solamente allo scopo di soddisfare i propri bisogni
• - bambino passivo: accetta in modo indifferente gli approcci sociali da parte degli altri – fa quello che gli viene detto di fare e i suoi genitori e insegnanti devono stare
attenti che non si metta in pericolo a causa della sua condiscendenza e della sua comprensione letterale delle comunicazioni verbali il contatto sociale viene ricercato
anche se non riguarda qualcosa che gli piace
• - bambino attivo ma strano: gli piace stare con gli altri e toccarli, anche se non sa giudicare se l’approccio è gradito o inappropriato
Per fare diagnosi di autismo è necessaria la presenza di una compromissione delle competenze comunicative non verbali, che spazia dalla totale assenza di espressioni
facciali fino alla mancanza di integrazione del linguaggio verbale. Quando si sviluppa, il linguaggio autistico ha alcune peculiarità, fra cui l’ecolalia: il bambino ripete la parola o la
frase che ha appena ascoltato (ecolalia immediata) o, più tipicamente, ripete frasi ascoltate in precedenza, perlopiù̀ tratte dalla televisione (ecolalia differita). È come se il linguaggio,
in questi bambini, non rappresentasse una competenza in grado di generare in modo naturale enunciati dotati di significato, ma consistesse in una sorta di raccolta di frasi fatte da
usare nelle diverse situazioni sociali. Altra caratteristica patologica è l’inversione pronominale, per cui il bambino parla di se stesso usando la seconda o terza persona.
• Nel DSM-5 le peculiarità del linguaggio autistico vengono considerate all’interno dei “sintomi non sociali” dell’autismo che comprendono: comportamenti ripetitivi, interessi
ristretti, insistenza sulla sameness (monotonia). Questi sintomi sono molto importanti perché indicativi della modalità peculiare che questi bambini hanno di esplorare e
conoscere il mondo.
I bambini a sviluppo tipico sono capaci di mettere nella stessa categoria oggetti che hanno un aspetto molto diverso ma stessa funzione – inoltre questi oggetti si
prestano poi a essere usati come simboli affettivi: il percepire gli oggetti in base a una loro caratteristica astratta, non visibile, consente di andare al di là delle forme concrete con cui
lo stesso oggetto può presentarsi e di riconoscerlo immediatamente nella sua essenza – se questa capacità manca, ogni nuovo oggetto deve essere conosciuto per la sua forma,
dimensione e colore. Questo sembra essere il modo che i bambini autistici hanno di conoscere il mondo. Il nostro modo di percepire il mondo è solitamente governato dalla
sintesi, dalla percezione e da una rappresentazione dei dati salienti in un insieme. Le persone autistiche, al contrario, percepiscono e ricordano in modo preferenziale i
dettagli (un ragazzo autistico intelligente e dotato di linguaggio può parlare per mezz’ora di un film visto descrivendo nel dettaglio scena per scena senza trasmettere il senso della
storia). Questo elemento può rappresentare sia un ostacolo per il funzionamento sociale e comunicativo sia un punto di forza, alla base di capacità straordinarie possedute da alcuni
soggetti. Nei bambini più gravemente compromessi gli oggetti vengono usati esclusivamente per ricavarne uno stimolo sensoriale (annusati o portati in bocca). Altri bambini, al
contrario, sembrano sopraffatti dagli stimoli sensoriali (rifiutano vestiti e cibi di una certa consistenza o sfuggono alle carezze). Infatti, il profilo sensoriale dei soggetti autistici può
essere alterato sia nel senso di una ipersensibilità che di una iposensibilità e i vari canali sensoriali possono essere, nello stesso soggetto, alterati in direzione diversa (per cui si
possono vedere bambini che rifiutano la sensazione tattile di una carezza ma richiedono abbracci di una certa intensità e viceversa).
• Le persone che non hanno una disabilità intellettiva associata, soggetti “ad alto funzionamento” o con “Sindrome di Asperger”, hanno un fenotipo tipico: sono socialmente
isolati ma consapevoli della presenza degli altri, anche se il loro approccio sociale può apparire inappropriato.
Si descrivono come solitari ma interessati agli altri, i fallimenti che frequentemente sperimentano nei rapporti interpersonali li portano però ad evitare gli approcci sociali, a
ritirarsi in se stessi e, a volte, a sviluppare disturbi dell’umore o altre problematiche psichiatriche. Possono reagire in modo inappropriato alle interazioni mostrando insensibilità
o disinteresse, ma sono in grado di descrivere le emozioni e intenzioni altrui in modo razionale. Spesso questi soggetti presentano impaccio motorio, scarsa coordinazione,
un’andatura e postura bizzarre e importanti deficit nelle abilità visuo-morie.
Occorre ricordare come le manifestazioni dello spettro autistico possano essere difficilmente riconoscibili nelle persone di sesso femminile con intelligenza e linguaggio
conservati: spesso arrivano alla consultazione per disturbi di tipo affettivo (ansia, depressione) o comportamentale. Questo può impedire la messa in atto di provvedimenti adeguati
e precoci.
Segni precoci
In passato, le indicazioni sulle manifestazioni precoci dell’autismo sono state tratte da interviste somministrate ai genitori. Questi studi hanno rintracciato chiaramente i primi sintomi
già all’età di 12 mesi. Attualmente una grande quantità di dati di ricerca sta portando a una descrizione sempre più accurata delle prime manifestazioni di autismo. Alcuni
dati emergono con chiarezza: i sintomi nell’area socio-comunicativa possono non essere presenti nei primi mesi di vita, mentre i primi sintomi possono manifestarsi in aree non
sociali, in particolare nello sviluppo motorio che può essere ritardato o atipico. Nella seconda meta del primo anno di vita cominciano a comparire segni indicativi di una
compromissione nell’area socio-comunicativa: il bambino può non rispondere al richiamo per nome, il contatto oculare non è mantenuto, non si sviluppano lallazione e i primi gesti
comunicativi. Tali manifestazioni diventano più evidenti nel secondo anno di vita, quando in particolare non emerge il gesto dell’indicare per richiedere qualcosa e per condividere
l’attenzione con l’adulto.
Il linguaggio non si sviluppa e le prime parole possono essere altre rispetto a quelle attese (mamma e papà), inoltre, non si osservano i primi giochi di finzione e di imitazione. È
importante tenere presente che tali competenze possono essere presenti ma ciò che caratterizza il disturbo è la ridotta frequenza con cui vengono utilizzate o sostenute nel tempo.
Attualmente in molte regioni d’Italia è richiesto ai pediatri di usare strumenti di screening nel bilancio di salute dei 18 mesi. Si tratta di questionari che valutano la presenza
di competenze nelle aree relative al gioco di finzione, attenzione condivisa e al pointing (gesto di indicare con un dito qualcosa o qualcuno). Purtroppo però, nessuno strumento di
screening è perfetto, infatti, lo screening fornisce una fotografia statica in una determinata fase dello sviluppo.
La natura neuroevolutiva di questi disturbi richiede invece che si attivino percorsi di sorveglianza: processo continuo, flessibile che dovrebbe coinvolgere sempre non solo il
pediatra, ma chiunque si occupa del bambino in modo stabile.
Diagnosi differenziale e comorbidita con altri disturbi del neurosviluppo: il caso dell’ADHD
L’ADHD è una condizione che si presenta molto spesso in comorbidita nella popolazione con l’ASD. Pur in assenza di una comorbidità conclamata, alcuni elementi
sintomatologici dell’ADHD possono presentarsi in bambini ASD e viceversa – è stato ipotizzato che ASD e ADHD siano manifestazioni sostenuto dallo stesso processo patologico
sottostante, che condividono endofenotipi o processi di compenso e adattamento del sistema nervoso al disturbo del funzionamento. Le difficoltà di diagnosi differenziale ASD/
ADHD sono esemplificativi dei problemi di diagnosi differenziale con altri disturbi del neurosviluppo come la Disabilità intellettiva e linguistica. Nella pratica clinica, la linea di confine
non è sempre ben definita.
Diagnosi differenziale e comorbidita con altre patologie
Non bisogna fare l’errore di pensare che qualunque manifestazione di una persona autistica sia l’espressione del suo essere autistica. I Disturbi del comportamento non
rientrano fra i sintomi dei Disturbi dello spettro autistico: sono infatti manifestazione di un soggetto “a basso funzionamento” (disabilità intellettiva e disturbo del linguaggio),
sovraccaricato dal punto di vista sensoriale, emotivo e sociale, che ha difficoltà di comprensione delle richieste verbali che gli vengono rivolte. In questi casi fra adulto e bambino si
stabilisce un circolo vizioso di incomprensione: il ragazzo non capisce cosa ci si aspetta da lui, l’adulto interpreta il suo non eseguire una richiesta come un “dispetto” e si
indispettisce a sua volta, adottando modalità più brusche, il bambino diventa sempre più confuso e al massimo della sua confusione può mostrare comportamenti molto disturbati.
Problemi di questo genere possono essere prevenuti adottando modalità comunicative adeguate: può bastare formulare la richiesta con verbalizzazioni più semplici,
accompagnate da un gesto o da un supporto visivo. Una condizione medica di frequente riscontro nei bambini con ASD è l’epilessia che si manifesta maggiormente in
adolescenza. All’ASD possono inoltre essere associati patologie autoimmunitarie, disturbi gastrointestinali e disturbi del sonno.
14.4 PROFILO NEUROPSICOLOGICO E PSICOPATOLOGICO
Molte ricerche descrivono l’ASD come caratterizzato da difficoltà neuropsicologiche e più specificatamente da un deficit nelle funzioni esecutive (FE): potrebbe portare, nell’ASD,
a una ridotta iniziativa sociale, a una difficoltà di adattamento nella vita quotidiana, a una ridotta attenzione agli stimoli sociali e a una difficoltà a inibire comportamenti disfunzionali.
Oltre agli errori perseverativi (tendenza a ripetere lo stesso errore indipendentemente dalle informazioni, feedback, che arrivano dall’ambiente), i bambini ASD hanno mostrato
anche deficit nella flessibilita attentiva, nell’attenzione selettiva e sostenuta. Il disturbo dello spettro autistico è spesso associato a disabilita intellettiva – la prevalenza di tale
comorbidità è descritta come varia tra i diversi studi: una possibile motivazione è data dall’eterogeneità degli strumenti utilizzati per delineare il profilo intellettivo di tali bambini.
Lo strumento più utilizzato per la valutazione cognitiva dei bambini con ASD è la WISC nella sua quarta edizione. La WISC-IV è composta da quattro indici:
o Indice di Comprensione Verbale (ICV)
o Indice di Ragionamento Visuo-Percettivo (IRP) o Indice di Memoria di Lavoro (IML)
o Indice di Velocità di Elaborazione (IVE).
Il profilo intellettivo di bambini con ASD è caratterizzato solitamente da un più alto punteggio nell’IRP e un più basso nell’ICV – risultano compromessi l’IML e l’IVE.
La presenza di una discrepanza all’interno del profilo intellettivo dei bambini con ASD induce a interrogarci sulla necessità di utilizzare vari strumenti per la misurazione del
Quoziente intellettivo piuttosto che un singolo test. Lo studio di Giofrè ha descritto il profilo cognitivo di un gruppo di 50 bambini e ragazzi con ASD tramite la somministrazione della
scala psicometrica non verbale Leiter-3 e della WISC-IV. I dati confermano che i due strumenti, seppur strettamente correlati tra loro, definiscono in modo diverso la
performance dei bambini con ASD. Nel DSM-5, per definire la presenza di una disabilità intellettiva, la ridotta prestazione ai test cognitivi deve associarsi a una compromissione
del funzionamento adattivo. Infatti, i bambini con ASD hanno spesso maggiori difficolta adattive in confronto a bambini con sviluppo tipico o con altri disturbi del neurosviluppo,
che non possono essere spiegate solamente nelle loro abilità cognitive: infatti le difficoltà adattive sono state riscontrate anche nei bambini con un adeguato funzionamento
cognitivo. Molti ricercatori hanno evidenziato una correlazione negativa tra età cronologica e competenze adattive: il livello adattivo diminuirebbe all’aumentare dell’eta. Sono
state descritte diverse traiettorie evolutive del funzionamento adattivo dalla nascita all’adolescenza – uno studio ne ha individuate 3:
- Peggioramento – nel passaggio dall’infanzia all’adolescenza e poi all’età adulta
- Stabilità competenze adattive
- Miglioramento
14. 5 IL PERCORSO DIAGNOSTICO
La relazione tra il clinico e la coppia genitoriale riveste un ruolo essenziale nel percorso diagnostico e terapeutico. Nella valutazione del bambino con sospetto ASD, la fase
iniziale è dedicata a raccogliere informazioni dal colloquio con i genitori, dalla lettura dei documenti delle precedenti valutazioni, dall’analizzare la domanda dei genitori e
dall’osservazione del bambino.
La valutazione dovrà comprendere un aggiornamento amnestico, interviste ai genitori e questionari per la raccolta dati e la valutazione delle competenze adattive. In parallelo la
valutazione diretta del bambino prevede l’uso di strumenti per la valutazione del profilo di sviluppo delle abilità cognitive (scale WPPSI-IV, WISC-IV, Leither-3) e delle abilità socio-
comunicative. L’ADOS-2 è una osservazione semi-strutturata che consiste in una serie di attività che valutano gli aspetti socio-comunicativi, gli interessi e le attività del bambino
secondo i criteri diagnostici del DSM-5 per ASD. Si articola in 5 moduli e la scelta del modulo avviene principalmente in base al livello di linguaggio non-ecolalico del
bambino. Al termine dell’osservazione l’esaminatore attribuirà dei punteggi che, inseriti in un algoritmo diagnostico, forniranno un punteggio relativo alle diverse aree e un totale,
dato dalla somma dei primi due. Quest’ultimo punteggio lo si collocherà poi all’interno della fascia “autismo”, “spettro autistico” o “non-autismo”.
La valutazione diagnostica deve comprendere inoltre una valutazione delle competenze linguistiche sia sul versante espressivo che recettivo, tramite l’utilizzo degli strumenti più
adeguati al livello di sviluppo del bambino. Al termine della valutazione viene formulata la diagnosi che dovrebbe rispondere alla domanda iniziale formulata dai genitori,
riconoscere quali sono i punti di forza e debolezza e quale possa essere l’outcome. La diagnosi dovrebbe essere vista come un punto di partenza per avviare gli interventi – i
genitori devono essere informati e coinvolti direttamente nel trattamento del loro bambino e allo stesso tempo ricevere indicazioni pratica su cosa possono fare.
14.6 PRESA IN CARICO RIABILITATIVA
L’autismo non è una “malattia” che può essere curata e da cui si può guarire. È l’espressione di uno sviluppo atipico che fa sì che la persona viva in un mondo particolare.
Approfondimento – disturbo o condizione?
È opportuno ricordare che si parla di “disturbo” solo nella misura in cui lo sviluppo atipico compromette profondamente l’adattamento del soggetto all’ambiente e il suo benessere.
L’autismo sarebbe una condizione di “neurodiversità”, da rispettare in quanto espressione di un modo diverso di vedere il mondo. È molto importante riuscire a
trasmettere questa consapevolezza a chi si occupa del bambino per evitare che nella ricerca di cure risolutivi venga persa la possibilità di aiutarlo con modalità educative adeguate
– sappiamo infatti con assoluta certezza che i bambini autistici sono bambini con “bisogni speciali”. Inoltre, due bambini autistici possono essere molto diversi l’uno dall’altro: ne
deriva che non esiste il metodo per l’educazione e la terapia, bensì esistono metodi che hanno dimostrato di essere efficaci in alcuni bambini e non in altri.
I trattamenti più estesamente studiati sono quelli che utilizzano l’Analisi Applicata del Comportamento (ABA). Sono stati condotti numerosi studi per replicare i risultati
ottenuti da Lovaas che vantava una completa “guarigione” in circa il 50% dei soggetti trattati con una metodologia intensiva, il Discrete Trial Training (DTT). L’ipotesi alla base degli
interventi di DTT è che i bambini hanno bisogno di istruzioni semplici e di rinforzi potenti. Le competenze da acquisire vengono spezzettate in componenti separate e insegnate una
alla volta fino a che il comportamento desiderato non viene acquisito. Alcuni elementi critici sono stati segnalati dagli stessi studiosi che li hanno applicati, come il manifestarsi di
disturbi del comportamento come forma di evitamento del compito e la mancanza di spontaneità. Sono stati pertanto modellizzati metodi di intervento che pur riconoscendo
una base comportamentale hanno integrato al proprio interno principi derivanti dalla psicologia dello sviluppo. In questi modelli si valorizza l’apprendimento in contesti
ricchi di scambi sociali affettivamente marcati e la generalizzazione delle competenze viene ricercata attraverso l’uso sociale e appropriato delle competenze apprese.
Non è possibile entrare nel merito dei singoli metodi di trattamento dell’autismo ma possiamo richiamare alcuni aspetti universalmente riconosciuti nelle linee guida delle società
scientifiche:
• l’intervento deve essere basato sull’evidenza: gli interventi terapeutici basati sull’evidenza sono quelli sostenuti da studi ben condotti che ne dimostrano l’efficacia.
Parlare di “trattamenti basati sull’evidenza” significa non solo far riferimento ai risultati degli studi che dimostrano l’efficacia in un metodo, ma anche all’applicabilità del
modello al singolo caso sulla base del giudizio clinico
• l’intervento deve essere precoce: è importante riconoscere già nel secondo anno di vita le situazioni di rischio e intervenire tempestivamente. In età precoce l’intervento
deve essere specificamente indirizzato a sostenere lo sviluppo delle competenze comunicative e relazionali del bambino. Il riconoscimento precoce del disturbo può
evitare inoltre che attorno a esso si attivino circuiti interattivi disfunzionali (es. la madre che si deprime perché il bimbo non la guarda) che non fanno che peggiorare la
situazione
• l’intervento deve essere intensivo: l’intervento non può essere circoscritto nell’ambito delle ore di terapia ma deve estendersi a tutti i contesti in cui il bambino vive. È da
ricordare che in Italia, l’inserimento del bambino autistico nella scuola “di tutti” può, con gli opportuni accorgimenti, garantire un intervento educativo intensivo
• l’intervento deve coinvolgere i genitori: nel caso di interventi mediati dai genitori, gli stessi vanno comunque sostenuti nella comprensione del disturbo del loro
bambino, attivamente coinvolti nella terapia, ascoltati e curati per le reazioni depressive eventualmente presenti
• l’intervento deve essere non solo sul bambino ma anche sul contesto: questo intervento è particolarmente necessario nei casi di disturbi dello spettro dell’autismo che
si manifestano in bambini e ragazzi intelligenti. Infatti, in questi casi è possibile che, per la loro ingenuità sociale, i ragazzi siano oggetto di vittimizzazione e bullismo o
che la scuola rifiuti il loro inserimento sulla base dell’erronea interpretazione dei loro comportamenti.
14.7 INDICAZIONI EDUCATIVE E LEGISLATIVE
Per organizzare un progetto per bambini con ASD a scuola è innanzitutto fondamentale approfondire la conoscenza del funzionamento di questi bambini da un punto di vista
cognitivo, sensoriale, comunicativo, emotivo e relazionale. L’intervento a scuola dovrà essere attivato precocemente ed essere intensivo. Nell’ambiente scolastico è importante
conoscere la “diversità qualitativa” e cioè i punti di forza e di debolezza dei bambini con ASD.
L’integrazione degli alunni con ASD richiede: alleanze tra scuola, famiglie, servizi specialistici, enti/associazioni e una programmazione didattica adeguata. Nel dialogo tra scuola e
famiglia, la risposta della scuola è l’approccio progettuale (PEI), in cui si osservano e si definiscono gli obiettivi a breve/medio/lungo termine e in cui l’aggiornamento della
valutazione è periodico. È importante un continuo dialogo tra gli insegnanti di sostegno e gli insegnanti curriculari per riuscire a programmare attività personalizzate all’interno
e all’esterno della classe. Pensando alle varie tappe dello sviluppo, è importante nella fascia prescolare prendersi cura del disorientamento dei genitori, a contatto con
una prima diagnosi di ASD. Gli insegnanti della scuola dell’infanzia si troveranno a dover implementare strategie per poter rispondere alla difficoltà comunicativa nei bambini con
ASD. Per quanto riguarda l’età scolare, è importante aver presente il passaggio da un ambiente più flessibile (scuola dell’infanzia) a uno più strutturato. Prima di tutto è necessaria
una rivalutazione del bambino per poter fare un bilancio del percorso precedente e per definire il profilo individuale. In età adolescenziale, con un possibile aumento dell’isolamento,
dei comportamenti stereotipati e dell’aggressività, la scuola potrebbe rispondere creando un clima inclusivo, ad esempio abbassando i livelli di competitività. Gli insegnanti
dovrebbero lavorare direttamente sulle competenze prosociali e sulla valorizzazione positiva degli altri, proponendosi come modello positivo.Occorre infine ricordare
l’importanza di rendere sempre l’ambiente scolastico prevedibile.

15 Disturbi dell’umore
Evidenze crescenti sull’elevata prevalenza dei Disturbi dell’umore in età evolutiva e sul loro multiforme impatto sul funzionamento individuale, la qualità della vita e lo sviluppo
cognitivo, emotivo e personologico, hanno determinato un notevole interesse scientifico verso la loro diagnosi precoce e l’identificazione di specifiche strategie di intervento. I
Disturbi dell’umore si caratterizzano per un’alterazione dello stato affettivo in senso depressivo o eccitatorio, con implicazioni complesse sui livelli di energia, i ritmi circadiani e
le funzioni cognitive. Il DSM-5 li suddivide in due grandi categorie: Disturbi depressivi e Disturbi bipolari – la loro espressività clinica può mutare con il variare del livello di
sviluppo, con una maggiore difficoltà diagnostica in infanzia e adolescenza e una complessa diagnosi differenziale con altri disturbi.
15.1 DATI EPIDEMIOLOGICI, GENETICI E NEUROFUNZIONALI
I Disturbi depressivi sono una condizione clinica relativamente frequente in età evolutiva.Un recente studio epidemiologico effettuato negli Stati Uniti, su un campione
rappresentativo di 10123 adolescenti dai 13 ai 18 anni, ha riscontrato una prevalenza lifetime dell’11% e di 12 mesi del 7,5%. La prevalenza tendeva a crescere nel corso
dell’adolescenza, con incremento maggiore nel sesso femminile.
Per quanto riguarda il Disturbo bipolare (DB) la prevalenza del disturbo prima dei 21 anni risulta essere dell’1,8%.
Caratteristiche neurobiologiche
L'ipotesi originaria sulle basi biologiche della depressione è quella di un insufficiente trasmissione monoaminergica, da potenziare farmacologicamente attraverso un aumento
della disponibilità di monoamine nello spazio sinaptico. Alla base dell’insufficiente trasmissione sinaptica vi è un'alterazione strutturale dei recettori, o un aumento del loro numero.
Un’alterazione a questo livello si rifletterebbe sulla espressività di alcuni geni e quindi sulla sintesi di alcune proteine, tra cui enzimi, recettori, trasmettitori, neurochinine ad azione
modulatoria e fattori che regolano il trofismo (fenomeni che garantiscono l’apporto nutritivo del tessuto nervoso) di particolare area del sistema nervoso centrale, per esempio il
Brain derived neurotrophic factor (BDF): vi è una conseguente riduzione della capacità dei neuroni di sapersi adattare sia a livello morfologico che funzionale a stimoli ambientali,
endocrini e farmacologici e agli stessi insulti stressanti. Anomalie strutturali, neurochimiche e neurofunzionali sono state documentate da un'ampia mole di studi anche nei
bambini e adolescenti con disturbo dello spettro bipolare a livello della corteccia prefrontale e di strutture sottocorticali limbiche, tra cui il nucleo striato, la amigdala e l'ippocampo.
- Una ipotesi recente chiama infine in causa il possibile ruolo di fattori immunologici e infiammatori nella patogenesi dei Disturbi dell'umore. Le citochine proinfiammatorie e le
endotossine batteriche inducono sintomi come astenia (riduzione energia fisica e mentale) e ansia o depressione. Inoltre, l’immunoterapia favorisce la comparsa di sintomi
depressivi.
Si suppone che la sintesi e il rilascio di citochine provochi a livello cerebrale cambiamenti neuroendocrini e neurotrasmettitoriali interpretati dal cervello come fattori
stressanti, contribuendo allo sviluppo di una sintomatologia depressiva.
15.2 DIAGNOSI FUNZIONALE, PROFILO PSICOPATOLOGICO E NEUROPSICOLOGICO - Disturbo depressivo maggiore
E’ caratterizzato dalla presenza di uno o più episodi depressivi della durata di almeno due settimane in assenza di episodi di eccitazione maniacale o ipomaniacale. Le
caratteristiche cliniche sono la presenza di umore depresso o irritabile e di una costante incapacita nel provare piacere in attività precedentemente piacevoli, associata ad
almeno quattro dei seguenti sintomi:

1. riduzione di appetito spesso con calo ponderale (più raramente aumento)


2. disturbo del sonno (insonnia e più raramente ipersonnia)
3. agitazione psicomotoria (più raramente rallentamento)
4. senso di affaticamento, perdita di energia e stancabilita
5. sentimenti di indegnità, di colpa
6. difficolta nel concentrarsi
7. pensieri di morte, ideazione suicidaria, tentativi di suicidio
I sintomi possono presentarsi con diverse modalità nelle diverse età, ma anche in diverse tipologie psicopatologiche di depressione:
• - Una delle più significative in adolescenza e la depressione atipica definita così per la frequente inversione di alcuni sintomi depressivi come rallentamento
psicomotorio (anziché agitazione), l’iperfagia (anziché riduzione dell’appetito) e l’ipersonnia (anziché insonnia).Elemento caratterizzante di questo tipo di
depressione è l'estrema sensitivita interpersonale con elevata sensibilità al rifiuto, che porta la convinzione che le proprie sofferenze non siano di interesse per gli altri
e all’attivazione di comportamenti istrionici che accentuano la sintomatologia lasciando l’impressione di inautenticità che aumenta le difficoltà sociali di questi pazienti.
Per il timore di non essere compresi e accettati possono manifestare in modo spesso esibito ed esplicito tematiche di tipo suicidario. Il mancato riconoscimento della
reale dimensione di sofferenza depressiva in queste manifestazioni e la loro sottovalutazione aumentano fortemente il rischio di una reiterazione di questi comportamenti
e la loro letalità
• - Un'altra importante depressione adolescenziale è la depressione psicotica in cui sintomi depressivi si associano sintomi psicotici in particolare dispercezioni con
allucinazioni uditive o illusioni-allucinazioni visive e deliri spesso a contenuto di colpa, vergogna, solitudine, fallimento e persecutori. Questo tipo di depressione è
importante da diagnosticare per evitare una diagnosi di schizofrenia
- Un terzo tipo è la depressione bipolare che si caratterizza per la presenza di episodi ipomaniacali o maniacali pregressi, o in associazione (misti).
Disturbo depressivo persistente
Il Disturbo depressivo persistente è un disturbo cronico caratterizzato da un umore stabilmente depresso o irritabile per almeno un anno senza intervalli liberi superiore a
due mesi. Almeno 2 dei sintomi precedenti sono stabilmente presenti per la maggior parte del tempo.
Generalmente questo disturbo è meno intenso del Disturbo depressivo maggiore, ma è cronico e pervasivo. La durata media può essere di 2-3 anni, con impatto sulla personalità in
formazione particolarmente intenso. La diagnosi può essere difficile nelle forme a esordio precoce dato che i sintomi sono condivisi con altre condizioni cliniche. I bambini in età
scolare appaiono più spesso scontenti o apatici per periodi prolungati. Quando il loro repertorio verbale aumenta sono capaci di riferire il sentimento di sentirsi poco amati, la perdita
di speranza, lamentele somatiche, ansie preoccupazioni, difficoltà di concentrazione.
In adolescenza l’umore triste si associa a irritabilità, bassa autostima, sintomi vegetativi, ritiro sociale – spesso si presentano disturbo del comportamento e marcate difficoltà
scolastiche. Almeno la metà dei soggetti sperimenta anche un episodio più acuto, cioè un Disturbo depressivo maggiore, che si sovrappone al Disturbo depressivo persistente –
ne deriva una condizione clinica chiamata Depressione doppia, con maggiore gravità e compromissione funzionale.
I segni e i sintomi si esprimono in modo diverso a seconda delle diverse fasce di età:
• nei bambini in eta prescolare le manifestazioni sono spesso non verbali: appaiono tristi o irritabili, rallentati e apatici, talvolta agitati e instabili. Spesso è scarso
l’interesse per il gioco ma anche la curiosità nei confronti dell’ambiente e l’iniziativa sociale. La mimica facciale è scarsa e il contatto visivo incostante. È frequente un
disturbo del sonno o dell’appetito.
La diagnosi differenziale più importante è con i Disturbi dello spettro autistico, da cui questi bambini in genere si differenziano per una minore stereotipicità delle
manifestazioni
• Intorno ai 6-7 anni la tendenza all’evitamento sociale, lo scarso interesse nel gioco e le lamentele somatiche possono risultare prevalenti anche se comincia a rendersi
più visibile l’aspetto affettivo, quindi tristezza, pianto e contenuti depressivi nei giochi e disegni
• In età scolare aumenta la capacità dei bambini di verbalizzare il loro stato d’animo depressivo, con contenuti di bassa autostima, inferiorità rispetto ai coetanei, timori di
perdita o abbandono e sensazione di essere poco amati o rifiutati dagli altri. Può emergere un senso di noia o disinteresse per attività precedentemente interessanti.
Nel contesto scolastico può esserci un peggioramento delle prestazioni scolastiche, con problemi di concentrazione e memoria, esauribilità e affaticabilità.
Disturbo bipolare
Nel Disturbo bipolare (DB) prepuberale non si osserva una chiara episodicità del decorso, quanto piuttosto oscillazioni nell’intensita dei sintomi.L’umore può essere euforico in
modo stabile e indipendente dal contesto – ciascun bambino e adolescente può essere allegro o eccitato per possibili eventi, mentre nel caso della ipomania questo stato affettivo
è inappropriato al contesto e invalidante (es. fare il clown in classe), e persistente se deriva da frustrazione. È importante verificare nei diversi contesti i diversi esempi di tali stati
affettivi ed esplorare le situazioni attivanti.
Altri sintomi sono:
• - la megalomania e la grandiosita, che possono essere parte normale del funzionamento di ogni bambino oppure inappropriati al contesto. La grandiosita può essere
espressa dall’identificazione acritica (ad esempio, con figure onnipotenti di cartoni o film) o dalla convinzione circa la propria superiorità su genitori, insegnanti, compagni
o altre figure di autorità (es. “non hai il diritto di comandarmi...”), oppure dall'intolleranza al limite o regole, da comportamenti pericolosi affrontati con noncuranza senso
di superiorità.
• - Atteggiamenti apparentemente anti sociali sono talvolta legati alla convinzione di essere al di sopra delle regole e della legge.
• - Un elemento nucleare della mania è l'accelerazione che coinvolge il pensiero, linguaggio e il comportamento.
• - L'iperattivita motoria è spesso espressa in un attivismo finalizzato a molteplici attività spesso non portate a termine con andamento oscillante.
• - Un elemento frequente è la ridotta necessita di sonno che differisce dall' insonnia dell’ansia o depressione perché non si associa a stanchezza diurna ed è spesso
motivata da attività che il paziente deve fare al momento dell'addormentamento o del risveglio precoce.
• - Frequente la logorrea concitata e il volume di voce elevato.
• - Un altro elemento clinicamente rilevante è l’ipersessualita (approcci intrusivi, seduttività, esibizionismo, masturbazione compulsiva, linguaggio sessualmente esplicito,
sessualità a rischio...).
• - Talvolta il sintomo più frequente e invalidante è l’impulsivita – nelle forme più acute il discontrollo del comportamento può essere di intesità tale da richiedere
un’ospedalizzazione urgente.
• - Le manifestazioni depressive possono avere caratteristiche episodiche ben delineate, oppure evidenziarsi come improvvise e acute verbalizzazioni depressive su
una base di ipereccitazione – possono essere presenti anergia, apatia, auto- svalutazione, pensieri di morte riferiti a se stessi o ai familiari.
All’ingresso in adolescenza i sintomi maniacali possono essere ancora più espliciti. improvvise acute manifestazioni e verbalizzazioni depressive su una base di iper eccitazione con
caratteristiche miste. Possono essere presenti anergia, apatia, autosvalutazione, pensieri di morte, ruminazione pessimistiche.
Approfondimento – Strumenti di valutazione
La diagnosi dei Disturbi dell’umore è sostanzialmente clinica e a suo supporto è opportuno l’utilizzo di strumenti diagnostici strutturati – tra questi sono disponibili questionari
autosomministrati o gestiti dal clinico, che forniscono un punteggio numerico con indicazione di un cut-off di patologia. Alcuni esempi sono il CDI (Child Depression Inventory) e il
BDI (Back Depression Inventory) per i disturbi depressivi e il MRS (Mania Rating Scale) per il disturbo bipolare.
15.3 DIAGNOSI DIFFERENZIALE - Depressione
Alcuni sintomi tra cui esauribilità, affaticabilità, problemi di concentrazione, di memoria, sono particolarmente frequenti entrando in diagnosi differenziale con il
Disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD). Tale distinzione è resa più complessa dalla possibilità che i due disturbi coesistano in comorbidità (almeno il 20% dei
bambini con ADHD ha un disturbo depressivo). In adolescenza la diagnosi differenziale più importante è con i Disturbi dell'umore di tipo bipolare in quanto queste forme si
associano più frequenti reazioni negative dopo somministrazione di farmaci antidepressivi. I sintomi depressivi possono essere riscontrati in diverse condizioni psicopatologiche:
Disturbi d’ansia, Disturbi dell’adattamento, Disturbi delle condotte alimentari, Disturbi della condotta, Disturbo borderline della personalità, Disturbi di apprendimento – questi quadri
sia come diagnosi differenziali che come comorbidità, dovrebbero essere considerati nella valutazione.
Inoltre, alcuni farmaci di pertinenza neurologica e psichiatrica, analgesici, antinfiammatori, antibatterici, steroidi e ormoni, così come sostanza di abuso, possono
causare sintomi depressivi, sia in fase di intossicazione che di sospensione.
Disturbo bipolare
L’individuazione di aspetti eccitati anche pregressi, sotto forma di manifestazioni maniacali o ipomaniacali, è uno degli elementi più importanti nella diagnosi differenziale dei disturbi
bipolari. La diagnosi differenziale più complessa riguarda soprattutto l’ADHD data la notevole sovrapposizione di sintomi non affettivi (iperattività, impulsività,
irritabilità, difficoltà di concentrazione, disturbi del sonno, crisi di rabbia). I sintomi affettivi, la grandiosità, l’ipersessualità, la riduzione del sonno e la fuga delle idee sono
generalmente meno accentuati nella ADHD.
È possibile che i bambini esordiscano con un ADHD, e che un più quadro bipolare emerga dopo l’ingresso nella scuola elementare o nel corso dell’adolescenza.
L’impulsività, l’irritabilità, l’aggressività dei bambini con Disturbo della condotta possono confondersi con un DB. Alcuni tipici sintomi del DB, come l’accelerazione del pensiero e la
riduzione del sonno, non sono frequenti nel Disturbo della condotta, mentre una violazione sistematica delle regole non è tipica del DB. Nelle forme più lievi di Disturbo bipolare
caratterizzate da instabilità affettiva, impulsività, irritabilità, una diagnosi differenziale importante è quella con i Disturbi della personalità in particolare con il Disturbo borderline.
• Episodi maniacali nell’età adolescenziale sono frequentemente associati a sintomi psicotici, che possono anche non essere congruenti con l’umore e quindi far sorgere
problemi di analisi differenziali con un Disturbo schizofrenico o schizoaffettivo.
I bambini che hanno subito un abuso sessuale possono presentare un umore depresso associato all’incremento dell’arousal, irritabilità, impulsività, aggressività e
soprattutto ipersessualità, apparentemente simili a un Disturbo bipolare di tipo misto.
15.4 FATTORI DI RISCHIO PER IL SUICIDIO NEI DISTURBI DELL’UMORE E IN ALTRI - DISORDINI NEL NEUROSVILUPPO IN ADOLESCENZA
Attualmente il suicidio risulta essere la seconda causa di morte nella fascia di età tra i 15 e 29 anni, in alcuni paesi rappresenta la prima causa di morte come ad esempio in
Svezia. È stato registrato negli ultimi anni un aumento nell’incidenza di tentati suicidi, con un progressivo incremento del rischio. In Italia la situazione appare attualmente in linea
con i dati mondiali, per cui nella stessa fascia di età il suicidio risulta essere la seconda causa di morte, subito dopo gli incidenti stradali. Numerosi fattori influiscono nell’insorgenza
di pensieri e comportamenti di tipo suicidario in adolescenza, come per esempio la vulnerabilità genetica e psichiatrica, fattori psicologici, familiari, sociali e culturali. Altri fattori
rilevanti sono una storia familiare positiva per comportamento suicidario, avversità familiari, alienazione sociale, esposizione al suicidio di altri (anche attraverso i media) e
disponibilità di armi. È importante la definizione di fattori di rischio e protezione specifici per l’età evolutiva per l’attuazione di programmi di prevenzione e umoremirati – infatti a
seconda dell’età dell’individuo, i fattori di rischio possono avere un peso diverso.
• Tra i fattori di rischio demografici troviamo il sesso, l'età e l'orientamento sessuale.Il rischio di portare a termine un suicidio è maggiore nel sesso maschile di circa tre volte
rispetto a quello femminile. Al contrario il numero di tentativi di suicidio risulta essere più alti nel sesso femminile. Per quanto riguarda l’eta di insorgenza si osserva
una prevalenza di ideazione suicidaria molto bassa fino ai 10 anni di età, seguita un lento incremento fino ai 12 anni e da un più rapido incremento fra i 12 e i 17 anni.
• Tra i fattori di rischio clinici di particolare importanza appare l'associazione con disturbi psichiatrici e in particolare con disturbi dell'umore, l’uso di sostanze e precedenti
tentativi di suicidio. Tra le patologie psichiatriche associate la Depressione maggiore e l'abuso di sostanze appaiono essere fattori maggiormente correlati a suicidi completati. Il
Disturbo depressivo maggiore e quello Bipolare sono responsabili di almeno la metà delle morti per suicidio.
Il rischio di commettere un tentativo invece è maggiore nei pazienti affetti da Disturbo bipolare rispetto a quelli affetti da Depressione maggiore e risulta essere molto superiore a chi
si trova in stato di mania o ipomania senza sintomi depressivi.
Inoltre, alcuni sottotipi di depressione possono incrementare il rischio suicidario, come la depressione psicotica, la depressione atipica (nella quale è presente un aumento di
tentativi dimostrativi) e la depressione associata a Disturbo post traumatico da stress (DPTS).
Il Disturbo post traumatico da stress è un importante fattore di rischio suicidario – il rischio suicidario, tuttavia, non è necessariamente collegato allo sviluppo di un disturbo
post-traumatico ma può presentarsi anche in soggetti esposti a trauma/abuso e non affetti da DPTS. Gli eventi traumatici caratterizzati da abusi fisici, emotivi e sessuali e il
neglect fisico, si associano allo sviluppo in epoca successiva di tentativi di suicidio.
• L’ADHD risulta essere un fattore di rischio per tentativo di suicidio e un forte fattore predittivo della ripetizione di tentativi. Anche il Disturbo dello spettro autistico (DSA) ad alto
funzionamento si associa ad un maggior rischio di suicidalità, sia per l’età adulta che per quella adolescenziale. I ragazzi con DSA possono essere maggiormente esposti,
rispetto alla popolazione generale, a fattori di rischio suicidario comuni quali bullismo e ciberbullismo, per facilità di essere etichettati come strani e diversi. Altre patologie
frequentemente associate al suicidio sono i disturbi del comportamento alimentare e i disturbi di personalità, caratterizzati da alti livelli di tratti aggressivi ed impulsivi.
15.5 TRATTAMENTO RIABILITATIVO, PSICOEDUCATIVO E INDICAZIONI LEGISLATIVE
La diagnosi di depressione implica un piano di trattamento. Quando i sintomi sono lievi o non compromettono troppo il funzionamento globale possiamo far fronte alla spinta
depressiva con un adeguato monitoraggio medico e psicologico. Un intervento psicoeducativo (che include un adeguata spiegazione dei sintomi del loro significato) e un breve
intervento di sostegno empatico, possono determinare in queste forme più lievi un miglioramento in almeno 1/5 dei casi. Quando la depressione lieve non risponde dopo 3/4
settimane o è di entità̀ moderata o grave, non sono presenti elementi positivi di supporti interni ed esterni al soggetto e c'è una vulnerabilità̀ genetica per disturbi dell'umore è
necessario un trattamento più specifico.
Diversi studi hanno dimostrato l'efficacia di interventi psicoterapeutici a diverso orientamento. L'efficacia della psicoterapia individuale è stata validata da studi controllati.
- La terapia cognitivo comportamentale si è rivelata efficace nella depressione lieve e moderata. Il predittore negativo più importante di sensibilità̀ alla psicoterapia è la
gravità del disturbo. Se infatti la psicoterapia è il trattamento di assoluta elezione nelle forme lievi e moderate, la sua efficacia è molto inferiore nelle forme gravi o gravissime.
Quando il paziente non risponde a un intervento psicoeducativo e/o psicoterapico dovrebbe essere preso in considerazione un intervento farmacologico.
Per quanto riguarda il Disturbo bipolare nelle fasi acute di mania il paziente è in uno stato di eccitazione tale da essere difficilmente accessibile a interventi psicoeducativi o
psicoterapeutici. Sono stati però messi a punto, nell’ambito di un trattamento integrato, diversi programmi per intervenire nelle fasi intermedie. Tali programmi comprendono
interventi psicoeducativi, spesso in gruppo. Rientrano in questo ambito gli interventi che forniscono il paziente strumenti per favorire una maggiore autoconsapevolezza, consigli,
l'individuazione dei fattori protettivi e precipitanti. Fondamentale è l'educazione ad una corretta igiene del sonno, a un regolare esercizio fisico, una dieta equilibrata con escluse di
alcolici e sostanze di abuso. Psicoterapie individuali possono essere importanti soprattutto nei disturbi bipolari, nei quali l'intervento farmacologico è limitato dal rischio
di switch maniacale. Alcuni fattori familiari sono in grado di influenzare la risposta al trattamento di bambini e adolescenti con disturbi dell'umore, in particolare la presa di disturbi
psichiatrici nei genitori, conflittualità intrafamiliare, lutti e abbandoni. È importante fornire alle famiglie strumenti e nozioni per una migliore comprensione dei sintomi, del decorso e
dei trattamenti, ma anche insegnare metodi per fronteggiare e gestire sintomi, strategie per la prevenzione delle ricadute e indicazioni per favorire un’attiva partecipazione al
processo di cura e guarigione.
Sul piano legislativo, è prevista l'attivazione in ambito scolastico dalla normativa sui Bisogni educativi speciali (BES) secondo la Direttiva Ministeriale del 27 dicembre 2012.
La messa a punto di un Piano Didattico Personalizzato, in accordo con la famiglia e il consiglio di classe, favorisce la ripresa della frequenza con modalità̀ a basso impatto di
stress e flessibilità, facilitando la graduale reintegrazione all'interno del gruppo classe e il senso di autoefficacia personale, attraverso la gratificazione e la valorizzazione dei
risultati positivi, anche minimi, soprattutto se frutto dell'impegno.
16 - Disturbi d’ansia
Dagli anni ’80 si ha avuto un maggior interesse nello studio dei Disturbi d’ansia nei bambini, evidenziando come siano i disturbi psicopatologici più frequenti nella popolazione
infantile, con una interferenza sulla vita quotidiana potenzialmente non diversa da quella dei disturbi degli adulti.
16.1 INQUADRAMENTO NOSOGRAFICO, CARATTERISTICHE NEUROGENETICHE - EPIDEMIOLOGIA E COMORBIDITA’
Nel DSM-5 nei Disturbi d’ansia del bambino si distinguono ansia e paura. L’ansia è definita come una risposta emotiva anticipatoria rispetto a minacce future o percepite come tali,
mentre la paura è una risposta emotiva a una minaccia reale imminente.
Nel DSM-5, si ha la distinzione dei disturbi d’ansia in varie forme:
Disturbo d’ansia da Mutismo selettivo Fobia specifica Disturbo d’ansia Disturbo di panico Disturbo d’ansia Disturbo d’ansia Disturbo d’ansia da
separazione sociale generalizzata indotto da sostanze condizione medica.

Neurobiologia
In particolare per i disturbi d’ansia e dell’umore, la dotazione neurobiologica e le influenze ambientali agiscono in modo molto più interattivo di quanto ritenuto in precedenza.L’ansia
rappresenta una situazione psicofisica che coinvolge complessi meccanismi e diversi circuiti neuronali, con conseguenti manifestazioni psichiche e somatiche. Attraverso gli studi
di neuroimaging sono state identificate diverse zone responsabili di tale sintomatologia, tra cui le più importanti risultano essere talamo e amigdala.
- Il talamo fa arrivare informazioni derivate da sistemi sensoriali esterocettivi, fino a varie strutture cerebrali come l’amigdala, la corteccia entorinale, la corteccia orbito-frontale e
il giro del cingolo.
- L’amigdala acquisisce ed esprime la paura condizionata, con collegamento tra sistemi recettoriali esterocettivi e le relative aree corticali. Questo avviene tramite due vie: una
breve, automatica e involontaria, e una lunga, con processazione dello stimolo da parte della corteccia.
Inoltre, l’amigdala ha connessioni reciproche con strutture corticali e limbiche, implicate nella risposta emozionale, cognitiva, automatica ed endocrina allo stress.
Genetica
Dato che il temperamento è considerato come la parte più geneticamente determinante della personalità, esso potrebbe rappresentare uno dei meccanismi attraverso cui
avviene la trasmissione della vulnerabilità psicopatologica da una generazione all’altra, almeno per quanto riguarda i disturbi ansiosi - i disturbi d’ansia hanno un rischio 7 volte
superiore su figli di soggetti affetti.
Epidemiologia
I disturbi d’ansia sono le condizioni a maggior prevalenza in ogni fascia di età. La reale prevalenza è ancora discussa, in rapporto al complesso problema del confine tra ansia
normale e ansia patologica, che attraversa i diversi disturbi d’ansia del bambino.
Comorbidita
Le più importanti sono tra i diversi disturbi d’ansia, ma anche dei disturbi d’ansia con i disturbi dell’umore e con il ADHD.
Possiamo avere comorbidità tra disturbi d’ansia e depressione: bambini con ansia associata a depressione presentano forme più gravi sia di ansia che di depressione e hanno una
maggiore compromissione funzionale. Generalmente è presente una sequenza evolutiva dato che il Disturbo d’ansia di solito precede la depressione e può permanere anche dopo
che la depressione è stata superata. Tra le malattie organiche coesistenti, la maggioranza sono cardiovascolari, respiratorie, artriti ed emicranie.
16.2 DIAGNOSI FUNZIONALE E DIFFERENZIALE
Fondamentale nei Disturbi d’ansia nei bambini è riconoscere l’ansia normale da quella patologica. La diagnosi dovrebbe riferirsi alla tipologia patologica, all’intensità dei sintomi
e alla derivante compromissione funzionale. Purtroppo, non abbiamo disponibili strumenti così efficaci. Con le interviste cliniche possiamo identificare lo specifico disturbo d’ansia e
la presenza di disturbi associati – le interviste più usate sono: K SADS-PL, DICA-R, DISC, ISC – utile somministrare le interviste sia ai genitori che ai bambini.Abbiamo a
disposizione anche le rating scales: utili per quantificare il disturbo d’ansia e per monitorare l’andamento clinico e la risposta ai trattamenti, ma non sufficienti per effettuare diagnosi.
16.3 PROFILO NEUROPSICOLOGICO E PSICOPATOLOGICO
Lo studio della psicopatologia in età evolutiva richiede un modello teorico multifattoriale che tenga contro delle numerose catene causali che possono condurre alla
sofferenza del bambino, secondo un approccio bio-psico-sociale della salute.La Developmental Psychopathology (DP) è il paradigma che consente maggiore flessibilità nel
contesto della consulenza evolutiva. Un contributo alla DP è la teoria dell’attaccamento di Bowlby, secondo cui gli aspetti relazionali nella diade genitore-bambino sono determinanti
per il successivo sviluppo.Nei bambini ansiosi si ha maggiormente un attaccamento insicuro-ambivalente, come esito di una figura di attaccamento imprevedibile – per questo i
bambini per esercitare controllo sulla madre, manifestano fobie, ansia da separazione, disturbi psicosomatici o disturbi della condotta. Se i sintomi dell’ansia non vengono trattati
si possono avere effetti negativi a lungo termine sullo sviluppo sociale ed emotivo.
• L’ansia è costrutto multidimensionale, con componenti fisiologiche, comportamentali e cognitive. Tra i sintomi comportamentali si osservano condotte di evitamento e fuga.
Tra i sintomi fisiologici riscontriamo sudorazione, tensione addominale, rossore in viso, tremori agli arti, tachicardia e disturbi gastrointestinali.A livello cognitivo si possono avere
alcuni pensieri disfunzionali.
Nel Disturbo d’ansia di separazione (DAS) si hanno pensieri negativi sulla possibilità che i genitori possano essere uccisi o rapiti, ammalarsi o morire. Si associano
comportamenti di elevato controllo sul genitore: il bambino si rifiuta di stare con un adulto diverso dal caregiver o di pernottare da amici o andare in vacanza senza
genitori. L’età media di insorgenza del disturbo è di 7-8 anni. Possono essere descritte differenze evolutive nell’espressione clinica del disturbo – i bambini più piccoli di solito
hanno un numero maggiore di sintomi rispetto ai bambini più grandi. I sintomi si manifestano con una difficoltà persistente a lasciare casa e le figure di attaccamento, il timore
costante che possa accadere loro qualcosa di tragico, la preoccupazione riguardo il fatto che un evento improvviso comporti separazione dalla principale figura di attaccamento.
Sono inoltre presenti lamentele somatiche come mal di testa, dolori addominali nausea e vomito quando si preannuncia la separazione dalle figure di attaccamento.
Inoltre, il quadro clinico tipico del rifiuto scolastico è rappresentato dalla grave difficoltà a frequentare la scuola, con assenze frequenti e prolungate, associate ad ansia e panico.
Nelle forme a esordio adolescenziale, il rifiuto scolastico appare più legato all’asse dell’autostima e al timore del fallimento, anche se talvolta la tematica della separazione è
presente ma nascosta.
• Un altro disturbo d’ansia è il mutismo selettivo, dove si ha una costante incapacità di parlare in situazioni sociali specifiche dove invece ci si aspetta che parli – questo
interferisce con i risultati scolastici o con la comunicazione verbale. Il mutismo ha funzione di controllo, non è intenzionale o vendicativo, è una manifestazione d’ansia e di
difficoltà a gestire le emozioni.
• Si parla di fobia specifica se si presentano paura o ansia verso un oggetto o situazione specifici. Le paure fanno parte dello sviluppo di ogni bambino e, nella normalista, si
estinguono progressivamente entro un timing relativamente specifico – assumono un significato patologico se condizionano la vita e il comportamento del bambino per periodi
troppo prolungati oppure se si presentano in un’epoca in cui dovrebbero essere state definitivamente superate.
Abbiamo 5 categorie di fobie:
degli animali degli animali di situazioni ambientali di iniezioni e sangue paure di specifiche situazioni fobie di altro tipo
Il Disturbo d’ansia sociale (Fobia sociale) comprende la paura o ansia marcate relative a situazioni sociali in cui si è esposti al giudizio altrui (come l’essere guardati o eseguire
prestazioni di fronte ad altri). Il soggetto teme che agirà in modo tale da essere criticato o manifesterà sintomi d’ansia che saranno valutati negativamente. Il bambino può pensare
che i pari possano non essere interessati ad avere rapporti d’amicizia con lui – sono presenti pensieri negativi sul comportamento dannoso degli altri nei suoi confronti e vengono
accompagnati da indici comportamentali disfunzionali come la riluttanza a partecipare a feste, giochi o attività sportive se sono presenti estranei.
• Il DSM-5 definisce l’Attacco di panico come un periodo di intensa paura e malessere che insorge acutamente e con acme in circa 10 minuti – si associa a una
sintomatologia somatica (palpitazioni, sudorazione, nausea, sensazione di freddo o caldo, vertigini, parestesie, dispnea, ecc) e a una sintomatologia cognitiva (derealizzazione,
depersonalizzazione, ecc).
Gli attacchi di panico possono essere distinti in:
• - inaspettati o inattesi: se ricorrenti e accompagnati dalla preoccupazione anticipatoria di averne e dall’evitamento delle situazioni temute come scatenanti, sono tipici
del Disturbo di panico (DP) che è frequentemente associato ad agorafobia
• - scatenati dall’esposizione a specifiche situazioni
• - non scatenati dall’esposizione a specifiche situazioni
Il Disturbo d’ansia generalizzata (DAG) è caratterizzato da ansia e preoccupazioni eccessive relative a una quantità di eventi o attività. I bambini tendono a preoccuparsi
eccessivamente per le proprie capacità o per la qualità delle proprie prestazioni, in riferimento a eventi futuri o passati. Nel DAG il bambino tende a esagerare l’importanza di certi
eventi, ingigantisce la gravità dei suoi malesseri, considera ogni piccolo errore come un fallimento totale e se non riesce subito in un’attività ritiene di non poterci mai riuscire. Si ha
un comportamento evitante rispetto alla possibilità di farsi notare e si evitano i compiti ed esercizi per paura di sbagliare. A livello sintomatico lamenta spesso mal di testa o mal
di stomaco durante le lezioni, mentre nelle attività sportive il bambino preferisce non partecipare e rimanere isolato a guardare gli altri.
Si hanno inoltre irrequietezza, affaticabilità, difficoltà di concentrazione, irritabilità e disturbi nel sonno.
• Il decorso dei disturbi d’ansia pare essere correlato all’età d’esordio, alla durata dei sintomi, alla comorbidità con altri disturbi d’ansia o depressivi o dello sviluppo.
L’insorgenza precoce ha una prognosi migliore del disturbo a insorgenza tardiva, inoltre la comorbidità con la depressione rende la diagnosi più negativa. I fattori di rischio
ereditari, ambientali e familiari giocano un ruolo significativo nello sviluppo dell’ansia – anche l’eccessiva protezione dei genitori può avere un ruolo nello sviluppo del disturbo
d’ansia nel bambino per l’aumento della percezione di minaccia anche in situazioni non pericolose.
I due principali fattori protettivi sono il supporto sociale e le strategie di coping.
16.4 PRESA IN CARICO RIABILITATIVA
Nelle forme d'ansia di maggiore durata e intensità, un intervento psicoterapico rappresenta la prima scelta. Nel caso di forme ansiose stabili e invalidanti, ricorrenti e con elevata
familiarità si può ricorrere all’intervento farmacologico. Nel caso in cui il malessere ansioso determini forti limitazioni l’utilizzo dei farmaci può costituire un aiuto transitorio
associato alla psicoterapia.
• Il solo impiego di farmaci ad azione direttamente ansiolitica tendenzialmente non si usa in età evolutiva per il rischio di dipendenza, si tende quindi a usare farmaci
antidepressivi che agiscano sulla serotonina e risultano efficaci nella cura a lungo termine. Si ha l'obiettivo di contrastare distorsioni cognitive e fornire strategie di coping
adattive. Il riconoscimento precoce di un problema d'ansia può ridurre il rischio che si sviluppino problemi più gravi successivamente o che s’instaurino patologie. Molte
ricerche concordano nel ritenere la terapia cognitivo-comportamentale la più efficace nel trattamento del Disturbo d’ansia nei bambini e negli adolescenti.
Nella presa in carico si ha:
1. un iniziale intervento psicoeducativo in cui il terapeuta spiega al bambino e ai suoi genitori l’ansia e le relazioni che intercorrono tra pensieri, emozioni e
comportamenti
2. un training di riconoscimento e gestione delle emozioni
3. l'identificazione delle distorsioni cognitive
4. riduzione delle distorsioni cognitive attraverso modalità di coping positive e un dialogo interno che miri alla riduzione dell'ansia
5. esposizione attraverso la quale verranno sperimentate le strategie emotive e cognitive apprese
6. prevenzione dalle ricadute
Il protocollo di trattamento cognitivo-comportamentale Cool kids program (trattamento evidence- based) è basato sull’acquisizione di competenze, che insegna ai bambini e ai loro
genitori come gestire meglio l'ansia.

16.5 INDICAZIONI EDUCATIVE E LEGISLATIVE


I bisogni educativi speciali (BES) sono particolari esigenze educative, anche solo per determinati periodi, per motivi fisici, biologici, fisiologici, psicologici, sociali, rispetto alle quali
è necessario che le scuole offrano adeguata e personalizzata risposta. Per quanto riguarda disturbi d'ansia e dell'umore, si può concordare con la scuola un orario ridotto – la
flessibilità della scuola è fondamentale, deve infatti poter tollerare eccezioni e modifiche alla routine quotidiana per conseguire il fine di integrare l’alunno in difficoltà.In generale si
ha l'attivazione di un intervento psicoeducativo per implementare gradualità e gratificazione.
Vengono condivisi degli obiettivi con l'alunno che sono graduali e rinforzati positivamente.Una tecnica efficace ed apprezzata dagli alunni è l'appello dell’emozioni: si chiede di
esprimere con un numero da uno a 10 il valore del proprio umore corrispondente al momento.
Saper gestire le emozioni normalizza le situazioni ansiogene e favorisce capacità relazionali e prestazionali.
17 Disturbi del Comportamento
Con il termine Disturbi del Controllo degli Impulsi e della Condotta (DCIC), nel DSM-5 sono descritti in età evolutiva quadri clinici caratterizzati da importanti problematiche
comportamentali che si presentano in più contesti di vita (famiglia, scuola, contesto sociale) per periodi prolungati, che interferiscono in modo significativo con l’adattamento e il
funzionamento globale del bambino o dell’adolescente. I criteri diagnostici dei due principali disturbi di questa categoria, il Disturbo Oppositivo Provocatorio (DOP) e il Disturbo
della Condotta (DC) fanno riferimento alla presenza di comportamenti negativistici, scarso rispetto di regole e condotte aggressive (aggressività verbale, verso oggetti, verso
persone o animali).
• Il DOP e il DC sono descritti come patologie a elevato costo sociale, poiché possono compromettere l’evoluzione di competenze in ambito relazionale (scuola, lavoro) e
costituire fattori di rischio per lo sviluppo in età adolescenziale o adulta di patologie psichiatriche, condotte antisociali e/o tossicodipendenza.
17.1 DATI EPIDEMIOLOGICI, GENETICI E NEUROFUNZIONALI
I DCIC sono definiti come disturbi che più frequentemente sono motivo di consultazione dei servizi di salute mentale dell’età evolutiva. Le stime di prevalenza sembrano risentire
relativamente di differenze culturali, mentre in ogni contesto geografico si conferma l’elevato rischio evolutivo in termini psicopatologici e di costi sociali.
La prevalenza in Italia nella popolazione generale è del 5,1%.
L’espressivita sintomatologica di questi disturbi è caratterizzata da un’ampia eterogeneità.
• Il DOP ha in genere una prima diagnosi all’inizio dell’età scolare, anche se i sintomi si possono riscontrare già in ambito prescolare sia in ambito familiare che scolastico. Viene
segnalata la presenza di una pervasiva e persistente irritabilita, una rilevante disregolazione emotiva, intolleranza ai limiti, alle regole e frustrazioni, scarsa capacita di
adattamento nei contesti sociali – la prevalenza è relativamente maggiore nei maschi.
• Il DC può insorgere prima dei 10 anni, spesso contiguo con un DOP e con un decorso evolutivo più a rischio di permanenza anche in età adulta, o adolescenziale, spesso
dovuta all’inserimento in gruppi di pari antisociali o con condotte di abuso di sostanze stupefacenti. Ha una prevalenza due volte maggiore nei maschi rispetto alle femmine e in
quest’ultime ha un’insorgenza in epoca adolescenziale.
APPROFONDIMENTO – Etrorogenità sintomatologica
Nelle più recenti classificazioni diagnostiche sono descritti sottotipi di DOP e DC.
Nel DOP Si riscontrano tre tipologie a seconda che sia prevalente umore collerico e irritabile o un comportamento polemico-provocatorio o condotte vendicative. Nel DC si
distinguono una forma con aggressività impulsiva e condotte comportamentali disfunzionali non premeditate e una forma con emozioni pro-sociali limitate (DCEPL) Che
caratterizza minori che commettono gravi atti antisociali con obiettivo di dominio o vendicativi e presentano scarsa empatia e scarso senso di colpa.
• I DCIC condividono una multifattorialita eziologica in cui fattori genetici individuali e familiari, fattori temperamentali individuali e caratteristiche del contesto appaiono
contribuire all’espressività clinica.
• In ambito eziologico sono riconosciuti come fattori di rischio individuali per DCIC, il fumo di tabacco, l’alcol, gli elevati livelli di stress materno durante la gravidanza, la
prematurità, la presenza di complicazioni perinatali e/o la malnutrizione nei primi mesi di vita. Nei fattori etiologici rientrano le condizioni socio-ambientali e culturali
svantaggiate, la frequentazione di pari deviati, il contesto abitativo a elevato tasso di delinquenza. Tra i fattori di rischio familiari troviamo la presenza di disturbi psichiatrici nei
genitori, esperienze traumatiche precoci e caratteristiche dello stile educativo genitoriale (parenting).
Gli studi sulle caratteristiche neurobiologiche e neurofunzionali dei DCIC mostrano alterazioni negli aspetti volumetrici della sostanza grigia, con particolare riferimento
all’amigdala, all’insula inferiore e alla corteccia orbitofrontale – sono regioni cerebrali implicate nell’analisi e regolazione emotiva e nel decision making morale e affettivo. Questi
aspetti di variazione morfologica non trovano però totale concordanza in letteratura. Dati più univoci derivano da studi su minori con DC e DCEPL che hanno analizzato la risposta a
compiti di riconoscimento emotivo e hanno rilevato come nei DC con limitate competenze prosociali vi sia una ridotta attivazione della corteccia cingolare anteriore e prefrontale e
dell’amigdala in risposta a particolari stimoli. Queste regioni sono coinvolte nel riconoscimento dello stress o del dolore nell’altro e nella messa in atto della risposta
empatica, nell’ inibizione e nella modulazione del comportamento aggressivo.
Come agiscono le variabili di contesto nella genesi e nel mantenimento delle polemiche comportamentali e dei deficit do competenze prosociali?
La qualita della relazione precoce genitore-bambino è un importante moderatore dei futuri processi di regolazione emotiva e di sviluppo sociale. La mancanza di un
attaccamento sicuro, ed esperienze affettive primarie caratterizzate da incostanza e imprevedibilità appaiono collegate nel bambino a: una reattività emotiva intensa, un elevato
arousal, una scarsa capacità di modulazione della rabbia, frequenti episodi di discontrollo comportamentale. Una discontinuità nella responsività del genitore e scampi emotivi
poveri e caratterizzati da uno scarso calore affettivo appaiono invece correlati nel bambino a una scarsa espressività emotiva, a uno sviluppo deficitario nelle competenze empatico
e a un’aggressività più fredda e controllata (come quella tipica dei DCELP).
Nella genesi dei DCIC appare cruciale lo stile educativo genitoriale che viene descritto come spesso caratterizzato da strategie coercitive, punitive, aggressive e rigide, che
amplificano nel bambino con DOP e nell’adolescente con DC, le reazioni oppositive e di rifiuto – queste motivano intensi cortocircuiti relazionali e conflitti intrafamiliari caratterizzati
da un’escalation di aggressività reciproca. Inoltre, l’affiliazione a gruppi devianti, molto frequente nella storia degli adolescenti con DC, può determinare un rapido aumento di
condotte antisociali e la condivisione di credenze e stili comportamentali in una sorta di training alla devianza o alla dipendenza da sostanze. Un parentig caratterizzato da un
adeguato monitoraggio di ambienti e amicizie frequentate dall’adolescente e un atteggiamento caldo e responsivo dei genitori ma anche degli altri adulti di riferimento che faciliti
l’apertura del ragazzo rispetto alle sue esplorazioni adolescenziali sono fattori protettivi rispetto alla comparsa di DCIC.

APPROFONDIMENTO – Lo stile di attaccamento


L’attaccamento indica il legame particolare che unisce stabilmente il bambino alla madre o al caregiver. Sulla base di uno specifico paradigma di osservazione strutturata (la Strange
Stituation), Mary Ainsworth ha identificato quattro principali stili di attaccamento:
• Attaccamento di tipo sicuro: Il bambino usa la madre, o il Caregiver, Come una base sicura da cui partire per esplorare l’ambiente. Si assiste a un equilibrio tra vicinanza ed
esplorazione e nella madre si rileva un atteggiamento generale di tipo supportivo.
• Attaccamento insicuro evitante: Il bambino manifesta la propria insicurezza evitando la madre. Si crea così un disequilibrio verso l’esplorazione, dove il bambino esplora
senza curarsi della madre.
• Attaccamento insicuro ambivalente: Il bambino si aggrappa al Cargiver e poi di resiste lottando contro la vicinanza, talvolta con comportamenti aggressivi; il bambino non
esplora in quanto è presente un disequilibrio verso l’attaccamento. In questo stile di attaccamento il Caregiver. tende a essere ambivalente e ad assumere comportamenti di
avvicinamento allontanamento in funzione dei propri bisogni.
• Attaccamento insicuro disorganizzato: Si assiste al fallimento della costruzione del legame con la madre e il bambino organizza una strategia comportamentale unitaria.
17.2 PROFILO NEUROPSICOLOGICO E PSICOPATOLOGICO
Nella letteratura in ambito psicopatologico i DCIC sono inseriti in uno spettro esternalizzante (disturbi in cui il disagio si riversa verso l’esterno, provocando disagi all’ambiente
circostante) insieme ad altri disturbi come ADHD, il disturbo da uso di sostanze e il disturbo di personalità antisociale. Questi disturbi hanno alcuni elementi sintomatologici comuni
tra cui impulsività, disinibizione e aspetti disfunzionali in ambito neuropsicologico, relazionale e di regolazione emotiva. Molti studi rivelano nei DCIC difficolta nella pianificazione di
soluzioni adeguate ai diversi contesti di vita, nell’ipotizzare le conseguenze positive e negative delle proprie azioni e nella sensibilità alle punizioni alla gratificazione.I DCIC
condividono con l’ADHD deficit delle funzioni esecutive, come l’incapacità di pianificazione l’inibizione di risposte inappropriate, di flessibilità cognitiva, errori di decision making e di
problem solving in ambito sociale. Nei minori con DCIC è presente una difficoltà di decodifica delle informazioni sociali che motiva percezioni erronee e/o disfunzionali
nella valutazione delle situazioni interpersonali con tendenza ad attribuire all’altro intenzioni ostili e a sovrastimare le conseguenze positive della messa in atto di
condotte aggressive.
• Nel DCEPL sono descritti deficit a carico della componente affettiva dell’empatia, della capacità di riconoscimento emotivo e la tendenza a giustificare le proprie condotte
disfunzionali valutando primari i propri obiettivi personali (questa tipologia di DC ha una prognosi più negativa e meno responsiva agli interventi terapeutici).
17.3 DIAGNOSI FUNZIONALE E DISFUNZIONALE
L’individuazione precoce dei DCIC e la tipizzazione del quadro clinico sono elementi essenziali per l’impostazione del piano terapeutico-riabilitativo e il miglioramento della
prognosi.
E’ necessario acquisire informazioni sul comportamento del bambino/adolescente in più contesti di vita e da più informatori. In letteratura sono presenti scale di valutazione o
interviste diagnostiche standardizzate che permettono di individuare le varie tipologie di DOP o DC, di valutare la presenza di deficit empatici e di specifiche tipologie di aggressività.
In ambito diagnostico è rilevante poter definire il periodo di insorgenza della problematica, la gravità e la stabilità nel tempo delle problematiche comportamentali. L’analisi delle
condotte aggressive nonché l’identificazione di tratti temperamentali denominati callous-unemotional (caratterizzati da scarsa empatia, affettività, fredda e scarsa espressività
emotiva) sono necessari per poter identificare DCEPL.

APPROFONDIMENTO – I tratti calloso-anemozionali


I bambini con tratti calloso-anemozionali tendono essere freddi e scarsamente empatici, sembrano non provare senso di colpa o rimorso e risultano superficiali ed anaffettivi,
mostrando scarso interesse per le loro prestazioni. Studi recenti hanno individuato la presenza di uno specifico profilo neurocognitivo caratterizzato da una disfunzione nella
capacità di processazione emozionale relativa esclusivamente agli stimoli a valenza negativa. La presenza elevata di tratti CU correla inoltre positivamente con la presenza di
tratti temperamentali come il bisogno di ricercare esperienze ad alta risonanza emotiva e una ridotta paura in contesti di rischio.
Nella definizione del quadro clinico e nella pianificazione terapeutica farmacologica e riabilitativa, appare indispensabile valutare la comorbidità con altre patologie
psichiatriche e ricostruire l’anamensi del paziente per valutare la presenza di altre patologie psichiatriche nella sua storia precoce – i DCIC si associano infatti molto
spesso ad altri disturbi: ad esempio, accade molto spesso che l’ADHD preceda l’insorgenza di DOP e del DC. L’individuazione della comorbidità tra DCIC e ADHD individua un
fenotipo clinico che necessita di un intervento terapeutico specifico che prevede l’inserimento di un intervento farmacologico per migliorare le competenze attentive e ridurre
l’impulsività con aggiuntiva attivazione in ambito scolastico di strategie dispensative e compensative previste per gli studenti con ADHD. La presenza di un’importante disregolazione
emotiva può spesso caratterizzare bambini o adolescenti con DCIC che hanno maggior rischio di presentare un disturbo dell’umore caratterizzato da instabilità timica, aggressività
eterodiretta e autolesività.

17.4 PRESA IN CARICO RIABILITATIVA


Negli ultimi anni la letteratura ha dimostrato che gli interventi più utili in questo tipo di problematiche sono quelli multi-dimensionali e multi-modali.
L’intervento cognitivo-comportamentale più sviluppato nel contesto italiano è il Coping Power Program (CPP) basato sul Contextual Social cognitive model, che ipotizza che i
comportamenti antisociali siano l’esito dell’interazione di fattori ambientali, familiari e personali.
I dati disponibili sulla sperimentazione presso l’IRCCS Fondazione Stella Maris di Calamborne (PI) su bambini con disturbi del comportamento sembrano confermare l’efficacia del
CCP nel ridurre i comportamenti esternalizzanti dei bambini con disturbi del comportamento dirompente, sia nella componente aggressiva, che nella componente di violazione delle
regole con buoni risultati che si mantengono dopo uno e sei anni dalla fine del trattamento, e con una diminuzione dei rinvii alla salute mentale.
Tecniche cognitivo-comportamentali
Sono state sviluppate numerose tecniche per il trattamento dei disturbi del comportamento, la maggior parte delle quali ha l’obiettivo di incrementare la consapevolezza delle
emozioni che il bambino sta provando di fronte alle situazioni che affronta quotidianamente. Per far sì che venga incrementata la consapevolezza delle emozioni, come primo passo
è necessario aiutare il bambino a descrivere le sue emozioni in termini di sensazioni fisiologiche, comportamentali e in termini cognitivi. Un’analogia usata per fare allenamento
con le emozioni è quella del termometro, strumento utile per spiegare come le emozioni che proviamo non sono stabili e definite. Il passo successivo prevede l’identificazione dei
trigger situazionali (situazioni che precedono il discontrollo emotivo e pensieri che il bambino vi associa), attraverso l’auto-monitoraggio. Quando i bambini iniziano a dare un nome
a ciò che vedono negli altri e che percepiscono in loro stessi si può parlare di autoregolazione emotiva, capacità che ha come obiettivo la gestione autonoma momento per
momento del proprio vissuto emotivo.
Fulcro all’interno del trattamento dei disturbi del comportamento è il potenziamento delle abilita di problem solving – spesso questi bambini non possiedono alternative rispetto al
comportamento esternalizzante che mettono in atto e il compito del terapeuta è quello di incoraggiarli a incrementare il loro repertorio di risposte. L’obiettivo è offrire ai bambini
un nuovo pattern di strategie che integri le loro strategie di coping nei confronti dell’emozione di rabbia.
Modelli di intervento
L’itinerario di sviluppo dei bambini con Disturbo de comportamento è influenzato da molteplici e complessi fattori protettivi e di rischio, come lo stile genitoriale, i fattori a rischio
familiare e i fattori di rischio biologici o temperamentali del bambino.
Un intervento precoce è l’unica strategia possibile per la prevenzione o riduzione dei comportamenti esternalizzanti o antisociali. Sfortunatamente meno del 20% dei
bambini che in età prescolare mostrano gravi problematiche comportamentali giunge ai servizi di salute mentali e di questi una percentuale ancora minore ottiene trattamenti basati
sull’evidenzia di efficacia scientificamente provata.
Tra questi il Coping Power Program, indubbiamente il più usato in Italia, è un intervento specifico per la gestione e il controllo dell’aggressività rivolto ai bambini
dell’ultimo ciclo della scuola elementare e dei primi anni della scuola media e alle loro famiglie, con una durata di circa 15-18 mesi. Viene interamente svolto tramite un lavoro di
gruppo, articolato in 34 sedute della durata di circa un’ora, ciascuna con un tema e degli obiettivi specifici. Parallelamente sono previste 16 sessioni di gruppo con i genitori
con l’obiettivo di sviluppare e potenziare le loro abilità genitoriali. Oltre al Coping Power Program recentemente sono stati sviluppati programmi di intervento evidence-
based ispirati alle terapie della Third Wave, fortemente influenzati dai concetti della Mindfulness (capacità di porre attenzione in modo intenzionale e non giudicante nel
momento presente). Trattamenti di questo tipo si basano sull’insegnamento a porre attenzione a eventi esterni e interni nel momento presente senza dover perseguire un
risultato, e con l’introduzione del valore della “gratitudine”.

Potrebbero piacerti anche