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Secondo Bateson e Gluckman, ogni organismo è il prodotto di due processi apparentemente separati, robustezza o
resistenza e plasticità:
1. ROBUSTEZZA, definita come il processo che porta a un esito invariante, così che il fenotipo risultante è
resistente, insensibile alle mutazioni genetiche o alle variazioni ambientali.
Tale meccanismo è attivo a diversi livelli (dal molecolare all’ambientale) così che i membri della stessa
specie condividono i medesimi tratti costituenti.
Il processo di resistenza può essere considerato un meccanismo adattivo per ridurre gli effetti delle
mutazioni, per difendersi dai cambiamenti dell’ambiente ed è una proprietà intrinseca di tutti i sistemi
biologici.
Meccanismi diversi concorrono a mantenere la costanza del fenotipo: dalla capacità di ignorare
cambiamenti dell’ambiente al contributo dell’elasticità o alla presenza di fattori di riaggiustamento.
La robustezza non è un fenomeno che agisce sempre nella stessa maniera, indipendentemente dagli stadi
della vita. Un tratto robusto in uno stadio può mutare in uno stadio successivo.
2. PLASTICITÀ FENOTIPICA, può essere considerata come l’abilità della specie o dei singoli individui di
esprimere differenti alternative morfologiche, fisiologiche e comportamentali in risposta a condizioni
ambientali imprevedibili o a condizioni patologiche perinatali o insorte in età adulta.
La plasticità fenotipica è un fenomeno universale, presente in ogni essere vivente.
La distinzione tra robustezza e plasticità può riflettere quella fra processi di sviluppo indotti geneticamente
e la capacità del singolo individuo di modificare la risposta a mutazioni ambientali diverse.
Plasticità e robustezza vanno considerati come componenti interdipendenti del processo che genera variazioni
individuali.
La plasticità non deve essere confusa con l’ELASTICITÀ: essa è una proprietà per cui un oggetto o un corpo non può
tornare alla forma primitiva una volta che la pressione esterna o un’altra forza sia stata rimossa.
I mutamenti indotti dal processo di plasticità, possono portare a un adattamento di sistemi anatomici specifici, così
da consentire ai meccanismi corticali di
confrontarsi con nuove esperienze
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o supplire agli effetti del danno cerebrale o della deprivazione sensoriale
Il processo di aggiustamento (la plasticità cerebrale) può esprimersi a diversi livelli: è possibile che l’organismo di
adatti a climi diversi, o sia in grado di compensare i deficit di un danno corporeo conseguente a deficit congenito o
a lesione post-natale.
Diversi fattori possono incrementare o ridurre il grado di plasticità: la scala temporale entro cui la risposta è espressa
può essere brevissima o relativamente lenta.
Le diverse strutture dell’organismo non si conformano agli stessi principi (es. muscoli striati).
Una delle variabili più importanti nel determinare il grado di plasticità è l’ETÀ: esiste un periodo CRITICO durante il
quale un organismo possiede un’elevata capacità di elaborare stimoli ambientali e di sviluppare abilità motorie e
cognitive.
l’acquisizione di informazioni nel periodo critico influenza l’apprendimento in epoche successive
una deprivazione sensoriale in tale periodo invece agisce negativamente sull’organizzazione della plasticità
nell’adulto
deprivazione visiva infanzia mancato sviluppo corteccia visiva che persiste
Al contrario, una caratteristica comune dell’invecchiamento consiste in una riduzione della plasticità, cui deriva una
difficoltà ad acquisire e mantenere informazioni ed adattarsi a modificazioni ambientali.
È bene ricordare che gli effetti della plasticità fenotipica non sono sempre interamente positivi.
L’analisi dei dati permette di comprendere la natura e i meccanismi che consentono un continuo progresso di
adattamento, in condizioni sia normali sia patologiche.
L’interesse a chiarire l’origine e i metodi che hanno consentito alla specie umana di raggiungere uno sviluppo
cognitivo così rilevante rispetto ad altre specie animali risale alla filosofia greca.
Sin dal V secolo a.C. era vivo il dibattito sulle origini della conoscenza:
Platone: il patrimonio cognitivo che ci caratterizza è già presente alla nascita (innatismo)
Aristotele: il patrimonio cognitivo è frutto di quanto è stato acquisito in epoca postnatale attraverso i
processi di apprendimento e memoria.
Il dibattito fra nativisti ed empiristi sulla natura della conoscenza (nature VS nurtrure) è proseguito nei secoli
successivi ma è stato considerato un campo di speculazione filosofica. Con l’affermarsi della nozione che il sistema
cognitivo ha una base biologica che può essere indagata sperimentalmente, il dibattito ha acquisito uno status
scientifico.
La distinzione si è modificata:
1. NATURE = conoscenza innata, insieme delle caratteristiche individuali, senza implicazioni sul loro sviluppo
2. NURTRURE = conoscenza acquisita, comprende l’insieme dei processi attraverso i quali le caratteristiche si
sviluppano.
Wiesel, propose la distinzione: “I meccanismi innati dotano il sistema visivo di un insieme specifico di connessioni,
ma è necessaria una precoce esposizione a stimoli visivi perché le connessioni si mantengano attive e raggiungano
un pieno sviluppo”.
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Il sistema cognitivo umano è quindi la risultante di due processi che si intrecciano, modellando sia anatomia sia
caratteristiche funzionali del sistema nervoso: evoluzione e sviluppo. Il punto di arrivo in entrambi i casi è la
produzione di diversità.
L’evoluzione procede modulando il comportamento: fa si che modificazioni ambientali portino allo sviluppo
- sia di specifiche strutture neuronali caratteristiche della specie
- sia di caratteristiche cognitive e neuronali individuali – riflettono l’influenza dei fattori ambientali che
variano all’interno delle diverse popolazioni e singoli individui
La scoperta che la distanza genetica tra la specie umana e i primati più prossimi (scimpanzé e bonobo) non supera
da un punto di vista quantitativo, l’1-2% ha ridimensionato il peso di tali ricerche: le differenze non portano un
contributo significativo per comprendere le peculiarità fenotipiche della specie umana e possono essere
considerate neutrali dal punto di vista evolutivo.
Quindi si è passati ad una strategia mirata all’analisi del genoma nelle regioni che contengono un elevato numero
di mutazioni di specifiche sequenze di DNA.
Charrier e colleghi hanno tracciato la storia evolutiva e le funzioni del gene umano SRGAP2: tale gene, che codifica
una proteina attiva nel processo di maturazione cerebrale, è presente in 3 copie nell’essere umano mentre i primati
non umani sono provvisti di una sola copia.
Secondo Geshwind e Konopka, il processo di duplicazione di tale gene nella specie umana potrebbe essere
responsabile del meccanismo che ha portato, nel corso dell’evoluzione, alla comparsa di un cervello di maggiori
dimensioni e più flessibile ai mutamenti ambientali.
Il passo successivo è stato lo studio comparato delle espressioni geniche = ovvero i meccanismi che trasferiscono
l’informazione genetica dalle sequenze di DNA al fenotipo dell’organismo. Il confronto tra diverse specie animali
non ha rilevati sostanziali differente.
Il risultato più importante che segnala l’interazione tra fattori genetici e ambientali è la scoperta che, per il 70% dei
geni espressi nel cervello dei primati non umani e nell’uomo, il maggior sviluppo dell’mRNA si riscontra nel periodo
postnatale, sebbene con ritmi differenti fra le varie specie (eterocronia).
Tale processo è particolarmente sviluppato nel cervello umano, soprattutto a carico della corteccia prefrontale, e
riguarda i geni associati allo sviluppo delle sinapsi, le strutture critiche nella trasmissione dell’informazione fra
neuroni.
Infine, la massima espressione del processo di sinaptogenesi avviene nell’uomo verso i 5 anni di età, proseguendo
fino all’adolescenza, mentre negli altri primati il processo si conclude nei primi mesi di vita.
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- Fattori nutrizionali possono alterare la crescita, il metabolismo e lo sviluppo cerebrale.
- I fattori epigenetici possono influenzare (nel periodo postnatale) la plasticità sinaptica e il processo di
consolidamento della memoria.
Studi recenti però (2018) hanno modificato queste due versioni mutualmente esclusive, dimostrando che lo
sviluppo corticale implica un vasto repertorio di informazioni e segnali, il quale prevede uno scambio di informazioni
geneticamente intrinseche e altre provenienti dall’ambiente esterno.
Il Neuropilo (spazio formato da dendriti, terminali assonali e cellule gliali—rappresenterebbe il fulcro di dove si
formano le connessioni sinaptiche) sembrerebbe, secondo altri studi, essere la base neuronale per la formazione di
un’efficiente rete di comunicazione fra le aree corticali, formazioni sottocorticali, cervelletto e midollo spinale.
L’aumento post-natale del processo di sinaptogenesi non è uniforme in tutta la corteccia, ma risulta più
rapido nelle aree primarie visive e uditive, mentre nelle aree prefrontali procede più lentamente.
Il meccanismo di formazione delle connessioni sinaptiche è sostenuto da una “sovrapproduzione” iniziale
di cellule, assoni e sinapsi, seguita da un periodo di riduzione, o “potatura”, conseguente alle influenze
ambientali.
NB nella specie umana il corpo calloso (il maggior fascio di fibre che connette i due emisferi), è sottoposto
ad un drastico processo di riduzione/potatura già alla fine della gestazione e nei primi mesi dopo la nascita.
Accanto al processo di sviluppo e selezione delle sinapsi, il principale fattore di sviluppo cerebrale è
rappresentato dalla progressiva mielinizzazione degli assoni corticali. La mielina riveste come una guaina
le fibre nervose (sostanza bianca), con funzione protettiva e isolante della conduzione dello stimolo
nervoso tra assoni vicini. Il processo di mielinizzazione non è tuttavia uniforme, con uno sviluppo maggiore
nei primi anni di vita, fino a raggiungere un plateau nell’adolescenza e nel periodo della prima età adulta.
(midollo spinale e tronco encefalico sono i primia raggiungere una mielinizzazione completa, mentre il
processo termina per ultimo nelle are prefrontali).
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2. Lo sviluppo della mente
Secondo l’approccio Piagetiano lo sviluppo è determinato da una profonda interazione tra geni e ambiente: fin dalla
nascita lo sviluppo mentale è legato all’esperienza ed al contatto con il mondo esterno. (processo costituito da 4
fasi).
Secondo l’approccio nativista, le basi neurologiche e funzionali sottostanti i processi di sviluppo e maturazione delle
facoltà cognitive sono innate e rappresentano l’espressione fenotipica di genotipi presenti in tutte le specie animali.
La sola facoltà del linguaggio è specificatamente umana e si è sviluppata attraverso un processo di preadattamento
o esaptazione (?).
Secondo altri autori (Fodor) tali facoltà sono poi organizzate in maniera modulare ma non tutti i processi, ad
esempio quelli “centrali” come memoria, ragionamento o meccanismi per la soluzione dei problemi non sono
modulari. Al contrario, processi linguistici o percettivo-visivi sono strettamente modulari.
Karmiloff- Smith, cercando di conciliare le posizioni Piagetiane con quelle Modulari, sostiene che il processo di
sviluppo cognitivo parte da una rappresentazione implicita dei meccanismi comportamentali di base e si sviluppa
progressivamente in moduli più complessi con il contributo dell’esperienza e dell’apprendimento fino ad arrivare
a forme di dominio specifiche.
L’approccio connessionistico
Nel modello, l’unità fondamentale è una specie di neurone astratto che invia e/o riceve segnali da altri neuroni
attraverso connessioni simili a sinapsi. Si possono distinguere 3 unità fondamentali:
1. Unità di ingresso (ricevono stimoli da sorgenti esterne)
2. Unità di uscita (inviano segnali fuori dal sistema)
3. Unità nascoste (le cui afferenze ed afferenze sono situate all’interno del sistema).
Vengono inoltre definite le procedure attraverso cui le reti neuronali possono apprendere un compito e svolgerlo
con stimoli nuovi attraverso un processo di generalizzazione. Tale processo avviene inviando segnali appropriati
alle unità di ingresso e calcolando di quanto il segnale in uscita si discosta da quello voluto. Sulla base degli errori si
modifica il peso delle connessioni e la procedura viene ripetuta fino all’apprendimento da parte della rete.
Berlucchi e Buchtel definiscono la plasticità cerebrale come le “variazioni dell’organizzazione nervosa che sono
alla base delle diverse forme di modifica del comportamento, sia di lunga sia di breve durata. Esse comprendono i
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processi di maturazione, adattamento al cambiamento ambientale, apprendimento specifico e non specifico e
infine i meccanismi di compenso conseguenti a fattori diversi, quali l’invecchiamento o una lesione cerebrale”.
Ricordiamo che:
- i DENDRITI sono preposti alla ricezione del segnale dai neuroni afferenti e alla conduzione di esso all’interno
del corpo cellulare (nucleo).
- Gli ASSONI (a partire dal corpo cellulare) conducono il segnale ad altri neuroni, per messo di una strutta
specializzata—parte finale assone, la sinapsi o bottone sinaptico.
Citando Ramon y Cajal il rinforzo di circuiti già esistenti, la formazione di nuovi circuiti e il processo di ramificazione
e crescita progressiva dei dendriti e dei loro terminali rappresenterebbe il meccanismo sottostante l’acquisizione
di nuove capacità.
Secondo l’autore ne deriva quindi che le differenze nelle abilità interindividuali dipendano dal peso dell’esercizio
svolto.
Negli anni successivi, l’ipotesi di James e di Ramon y Cajal che l’apprendimento fosse dovuto alla formazione o al
rinforzo di specifici circuiti neuronali decadde in favore della teoria di massa dell’equipotenzialità cerebrale,
proposta da Karl Lashley.
Egli sostiene che l’apprendimento avvenga attraverso un coinvolgimento globale dell’encefalo, piuttosto che essere
mediato dall’attività di specifiche zone cerebrali.
Il concetto di equipotenzialità farebbe riferimento alla capacità di alcune aree cerebrali di “prendere in
carico” le funzionalità di un’area dedicata ad una specifica modalità in caso di danno. Secondo Lashley
infatti l’organizzazione funzionale cerebrale è dotata di assoluta non specificità.
Sono sotto riportati alcuni dei fattori ritenuti critici per la comprensione della natura della plasticità neuronale.
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Plasticità strutturale
Studi sperimentali hanno ampiamente dimostrato che il processo di plasticità neuronale porta a modificazioni
morfologiche.
Sono stati evidenziati, as esempio, fenomeni di Sprounting (gemmazione) e modificazione del numero delle
sinapsi, altri coinvolgono il processo di neurogenesi e soprattutto modificazioni della sostanza bianca. L’adozione
di metodi di neuroimaging ha permesso di osservare le variazioni sia della sostanza grigia che bianca in seguito a
diversi fattori, dall’apprendimento agli effetti di un danno cerebrale.
A livello sperimentale l’esempio più evidente di plasticità sinaptica attività-dipendente è il fenomeno del
potenziamento a lungo termine (LTP).
Con LTP sarebbe il continuo aumento di ampiezza delle sinapsi della risposta evocata, indotta dalla
ripetitiva stimolazione, registrata sia a livello di ogni singola cellula sia di gruppi di neuroni.
Il fenomeno opposto, la depressione a lungo termine- Long term depression (LTD) si osserva in seguito ad
una debole stimolazione sinaptica e dal punto di vista morfologico si manifesta un restringimento e una
riduzione della motilità sinaptica.
In conclusione, è possibile sostenere che le variazioni plastiche della morfologia delle spine dendritiche
riflettano lo stato dinamico elle sinapsi, che a loro volta possono essere considerate alla base del processo di
riorganizzazione dei circuiti neuronali.
Neurotrofine
Esse sono un gruppo di proteine comprendente il fattore di crescita nervosa (NGF—Nerve Growth factor), un fattore
essenziale nel processo di sviluppo neuronale e nel mantenimento degli assoni e delle reti dendritiche. Il gene BDNF
(Brain-Derived Neurotrophic Factor) sembrerebbe implicato in alcuni campi della plasticità cerebrale, tra cui:
- La morfologia cerebrale
- I meccanismi di apprendimento
- Memoria
- E il processo di recupero dal danno cerebrale
- E lo sviluppo di diverse patologie neurologiche.
Neurogenesi
E’ una proliferazione di alcune popolazioni di neuroni cerebrali/cellule staminali. Attualmente si è ormai accettato
che il processo di neurogenesi è attivo, soprattutto nel primo periodo post-natale, ma si estende anche fino all’età
matura, seppure limitato ad alcune zone cerebrali:
1. Zona subventricolare (ventricoli laterali—Bulbo olfattivo) SVZ
2. Giro dentato dell’Ippocampo (DG).
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Le cellule staminali della SVZ e DG generano nuovi neuroni che si raggruppano in aggregati cellulari che si
integrano con le formazioni già presenti, così da consentire al processo di neurogenesi post natale di svolgere un
ruolo attivo sia durante il processo di apprendimento e adattamento, sia nei meccanismi di recupero in caso di
danno cerebrale.
La ricerca longitudinale
Ha come obiettivo lo studio dell’evoluzione di un determinato fenomeno nel corso del tempo. Esso comporta
ripetute osservazioni del substrato neuronale in uno o più soggetti, per un periodo variabile.
5. Plasticità funzionale
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Modifiche funzionali possono essere riscontrate a livelli diversi, da quello sinaptico fino a un processo di
riorganizzazione (remapping) di circuiti o aree corticali.
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2. seguita da una fase più lenta, caratterizzata da un miglioramento delle prestazioni in relazione
all’intensità della pratica. La durata, veloce o lunga, dell’apprendimento è legata ovviamente alla difficoltà
del compito.
(Mentre nel processo di apprendimento veloce si osserva l’attivazione delle sole aree corticali specifiche per il
movimento appreso, l’apprendimento a lungo termine si accompagna a un’attivazione di un network di aree
cortico-sottocorticali e striato).
Una volta acquisite, le capacità motorie possono mantenersi per un periodo molto prolungato o deteriorarsi.
Ovviamente tra i principali fattori che influiscono sul consolidamento dell’apprendimento motorio troviamo il
sonno.
E’ importante ricordare che queste modificazioni non sono stabili ma tendono a ritornare i valori di base una volta
cessata la pratica.
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Il processo di plasticità unimodale si caratterizza per un reclutamento di specifiche aree sensoriali e
motorie allo scopo di migliorare una particolare abilità attraverso l’apprendimento.
A livello umano esempi di alterazioni della connettività crossmodale sono stati riscontrati in studi di neuroimaging
in pazienti affetti a emiparesi da ictus. Il danno neurologico non solo danneggia le connessioni fra corteccia
motoria e midollo spinale, ma ha anche un effetto sulle interazioni fra aree danneggiate e regioni cerebrali
distanti dalla lesione (a livello sia dello stesso emisfero sia dell’emisfero opposto).
NB Bisogna ricordare comunque che la plasticità crossmodale è limitata e non può compensare totalmente gli
effetti di una deprivazione sensoriale.
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Dolore cronico
Il dolore acuto di solito consegue a danno tissutale rivestendo un chiaro ruolo funzionale il quale di soluto
scompare alla risoluzione della causa.
In una significativa percentuale di casi il dolore acuto si trasforma in cronico, ovvero un dolore che persiste oltre
il normale tempo di guarigione.Il dolore è descritto in termini vaghi, come una scossa elettrica e non è di solito
sensibile ai comuni analgesici.
A differenza del dolore acuto di natura fisiologica, quello cronico coinvolge meccanismi psicologici e
comportamenti che si aggiungono ai fattori fisici ed è spesso correlato a disturbi del tono dell’umore.
Il processo di transizione del dolore dalla fase acuta a quella cronica può essere riconducibile a un
processo di eccessiva plasticità neuronale che porta ad un remapping strutturale e ad una
riorganizzazione funzionale della connettività (cortico-sottocorticale, circuiti talamo-corticali). Di
conseguenza processi eccitatori possono insorgere spontaneamente a livello dei neuroni del talamo o, al
contrario, abbassare la loro soglia di attivazione.
1. Sviluppo e invecchiamento
E’ ormai ampiamente accettato che sviluppo e invecchiamento evolvono e si influenzano a vicenda durante tutto il
ciclo vitale, ne deriva che sia attivo un processo di plasticità funzionale, sensibile ai mutamenti ambientali per tutto
l’arco della vita.
Il periodo critico
Tale periodo (i primi anni di vita) è considerato critico perché la presenza o l’assenza di specifici stimoli può portare
a modifiche irreversibili del comportamento.
Invecchiamento patologico: stadio preclinico caratterizzato da lievi aspecifici segni di calo cognitivo, senza valore
predittivo o tantomeno diagnostico.
La prima parte del capitolo descrive le alterazioni funzionali che insorgono nell’invecchiamento non patologico. I
meccanismi di compensazione che le persone anziane mettono in gioco per sovrastare un deficit strutturale,
saranno descritte nella seconda parte.
Allo stesso modo, l’impatto dell’invecchiamento sulle connessioni neuronali non è generalizato: sia le ramificazioni
dendritiche, sia l’estensione delle spine dendritiche, sono ridotte solo nella zona prefrontale delle strutture della
parte mediale del lobo temporale.
L’invecchiamento infine si accompagna a un diminuito flusso cerebrale e del livello ematico di ossigeno (BOLD) e ad
un’alterazione dei recettori dei neurotrasmettitori.
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o Lessico
o Memoria semantica
o E conoscenze numeriche
NB un calo di tali capacità può essere quindi indice di un invecchiamento patologico.
Strategie compensatorie
L’invecchiamento cerebrale mostra sensibili variazioni interindividuali. Diversi fattori sono stati invocati per spiegare
questa differenza: età, livello scolastico, stato generale di salute, qualità della vita, personalità ecc. Nessuno di
questi, tuttavia, sembra giocare un ruolo decisivo.
Stern, ha introdotto la nozione di riserva cognitiva (RC) intesa come una sorta di moderatore tra patologia ed
esito clinico ed espressa come la resilienza delle funzioni cognitive al danno strutturale cerebrale.
Inizialmente la riserva cognitiva fu associata ad un volume anatomico maggiore, mentre successivamente è stata
collegata, come detto sopra, al peso di variabili culturali, quali l’esperienza e la qualità di apprendimenti, abilità e
conoscenze acquisite durante l’arco della vita.
La manifestazione neuronale della riserva cognitiva può a sua volta manifestarsi in due modi
1. Il primo consiste nella possibilità di ottimizzare o portare al grado massimo di funzionamento strutture
cerebrali
2. Consiste nel “reclutamento” di nuovi circuiti che possono agire da supporto a regioni cerebrali sensibili
all’invecchiamento, così da arrivare ad una performance adeguata.
Alcuni studi dimostrano come gli anziani, nonostante riportino una riduzione dell’efficienza della corteccia
prefrontale, riescano comunque ad avere alcune prestazioni di attenzione sostenuta alla pari di soggetti
appartenenti ad età più giovani, attuando strategie compensatorie che attivano maggiori regioni cerebrali. Ad
esempio, molto comune, sembrerebbe essere l’attivazione dell’area omologa per compiere azioni che i soggetti più
giovani compiono con l’utilizzo di un solo emisfero.
Nella clinica è stato introdotto il concetto di Mild Cognitive Impairment (MCI)—concetto di deficit cognitivo lieve
come entità a sé stante, ed è considerato una frontiera tra invecchiamento normale e malattia di Alzheimer.
- Da un punto di vista clinico è caratterizzato da un deficit selettivo di memoria
- Senza deteriramento di altre funzioni cognitive
- Nel complesso è mantenuto un buon livello di autonomia
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Vivere la vecchiaia
Invecchiare non è soltanto un processo fisiologico e cognitivo. Un buon invecchiamento richiede l’adozione di nuovi
stili di vita e la ricerca di risorse diverse. Il compito non è facile: è necessaria una forte motivazione a superare lo
sforzo cerebrale per la ricerca e l’uso di nuove strategie neuronali e cognitive.
Differenze interindividuali
In assenza di una patologia congenita o acquisita, tutti gli appartenenti al genere umano non mostrano tra loro
grandi differenze, sia nelle abilità percettive sia capacità cognitive. D’altra parte non possiamo ignorare che alcune
persone sono dotate di particolari “talenti” che variano dalla velocità di apprendimento e uso di abilità specifiche
alla flessibilità cognitiva in compiti decisionali e di pianificazione.
La maggioranza degli studi di neuroimaging volti a chiarire le basi neurologiche di specifiche abilità sono di gruppo,
non tenendo conto delle differenze interindividuali. Come accennato nei precedenti capitoli, si è in genere
riscontrata una relazione positiva fra il grado di specifica abilità e lo sviluppo della zona cerebrale coinvolta nel
compito. Se tuttavia tali dati vengono trasferiti allo studio delle differenze interindividuali, le conclusioni sono meno
certe, in quanto è difficile separare, a livello individuale, il peso della pratica da quello delle caratteristiche innate
nel processo di modificazione di strutture cerebrali dedicate.
In alcuni studi con utilizzo di fMRI sono state dimostrate significative correlazioni tra l’estensione della connettività
globale e la capacità di risolvere problemi che richiedono l’utilizzo dell’intelligenza fluida. Nel senso, quindi, che si
potrebbe ipotizzare che esista una relazione tra i diversi gradi di connettività e differenze interindividuali sul piano
cognitivo. Le regioni maggiormente predittive di differenze cognitive interindividuali sono quelle ad alta
connettività.
In una prospettiva morfologica, il riscontro di variazioni interindividuali e considerate legate ad abilità specifiche è
espressione di un processo di sinaptogenesi e arborizzazione dendritica, attività dipendenti dall’esperienza piuttosto
che innate.
Così, le differenze tradizionalmente legate al genere (i maschi sono superiori nelle abilità motorie e spaziali, le
femmine dimostrano una migliore memoria e capacità d’interazione sociale) sono state considerate dipendenti dal
livello di ormoni gonadali.
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Più che sulle differenze di volume e dello sviluppo delle singole regioni corticali sono state studiate le differenze del
connettoma, la grande e complessa rete di connessioni cerebrali. La connettività intraemisferica sembrerebbe
maggiormente sviluppata nei maschi, mentre le connessioni interemisferiche predominano nel genere femminile.
Nella maggioranza dei casi il mancinismo è di origine genetica e uno dei modelli preferiti in proposito è la teoria
dello spostamento a destra (Right Shift Theory) proposta da Annett: la preferenza manuale è nella specie umana
causale ma la possibilità che una persona nasca destrimane deriva dalla presenza di un fattore che sfavorisce
l’emisfero destro.
Secondo tale teoria esiste un gene che si è evoluto per condizionalo lo stabilirsi delle basi neurologiche
della preferenza manuale e del linguaggio nell’emisfero sinistro.
La piccola percentuale di mancini che non ha una storia familiare di mancinismo potrebbe derivare da un danno
perinatale all’emisfero sinistro che ha determinato uno spostamento all’emisfero controlaterale delle basi
neurologiche della preferenza manuale.
Prassia e manualità
Fin dalle prime osservazioni sembrava che nei destrimani fosse l’emisfero sinistro a controllare sia la prassia sia la
preferenza manuale. Di conseguenza, era dato per scontato che solo una lesione all’emisfero sinistro potesse
manifestarsi con sintomi aprassici. Di recente questo assunto viene messo in discussione in seguito alla
pubblicazione di alcuni pazienti aprassici con lesioni all’emisfero destro.
Un secondo dato è la dissociazione tra danno afasico e aprassico, in quanto alcuni pazienti mancini affetti da lesione
emisferica destra, erano afasici ma non aprassici.
Dai dati raccolti si può quindi concludere che il cervello dei mancini si differenzia da quello dei destrimani per una
maggiore variabilità nell’organizzazione neuronale, ma anche per una minore asimmetria funzionale, per cui alcune
funzioni, chiaramente lateralizzare in un emisfero nei destrimani, nei mancini possono essere distribuite
bilateralmente.
Parte terza – Abilità specifiche
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1. Processi funzionali e strutturali alla base del linguaggio: sviluppo
tipico e atipico
Lenneberg (Biological Foundations of Language), propose alcuni principi fondamentali dello sviluppo del linguaggio:
il linguaggio è una funzione innata, determinata geneticamente e il suo sviluppo dipende dall’integrità di circuiti
neurologici specifici e dal contatto con altri parlanti in un periodo critico che si colloca tra la prima infanzia e la
pubertà.
Solo in seguito a danno perinatale esteso ai due emisferi cerebrali, a una sordità preverbale o a uno stato estremo
di isolamento sociale, il normale processo di acquisizione del linguaggio non può svilupparsi.
stretta relazione tra grado di abilità nel linguaggio e periodo di prima esposizione.
Diversamente dall’acquisizione della lingua materna (L1), che avviene spontaneamente, la conoscenza di una
seconda lingua (L2), una volta superato il periodo critico, richiede un apprendimento guidato.
Secondo Newport ci sono due possibili meccanismi alla base della progressiva perdita di apprendimento con
l’aumentare dell’età:
1. 1° meccanismo fa riferimento a Chomsky: il linguaggio è una facoltà specifica che comprende una
conoscenza innata dei vincoli sulla forma che può realizzare; tali vincoli, presenti alla nascita, decadono o
si deteriorano con il progredire dell’età.
2. 2° ipotesi: la difficoltà di sviluppare il linguaggio dopo il periodo critico dipende dal fatto che il sistema
cognitivo è impegnato nell’apprendimento di abilità cognitive non verbali.
Broca e Wernicke hanno fornito il primo fondamentale contributo alla dimostrazione che il linguaggio poteva essere
considerato una facoltà biologica, dotata di uno specifico substrato anatomico e funzionale. Tale concetto nacque
dallo studio di pazienti colpiti da un disturbo specifico dell’uso del linguaggio (afasia), in alcuni casi limitazione alla
produzione – afasia di Broca – o alla comprensione – afasia di Wernicke, conseguente a una lesione cerebrale, nella
maggioranza dei casi a carico dell’emisfero sinistro.
Wernicke ipotizzò l’esistenza di una connessione tra le due aree per effetto di un arco riflesso attivo nel processo
di acquisizione del linguaggio: la percezione di una parola o di una sillaba provoca, per imitazione riflessa,
l’articolazione corrispondente di quello che si è appena sentito, così che nella corteccia si ha un’attivazione
contemporanea delle immagini motorie e sensoriali delle parole. La connessione tra le due aree avviene attraverso
il fascicolo arcuato, che permette una connessione stabile fra le due aree.
All’intero di questo modello (elaborato in seguito da Lichteim) la comprensione del linguaggio è possibile attraverso
l’attivazione dell’immagine acustica della parola, che attiva a sua volta un insieme distribuito di immagini sensoriali-
motorie che formano la rappresentazione concettuale specifica per la parola.
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La produzione spontanea inizia dall’attivazione della rappresentazione concettuale, che a sua volta attiva in
parallelo le immagini motorie-sensoriali associate al concetto.
Le modificazioni più importanti del modello interessano le connessioni fra i centri temporali e frontali considerate
divise in fasci indipendenti dedicati a specifiche operazioni linguistiche:
la via ventrale è attiva nell’elaborazione semantico-lessicale
la via dorsale è attiva nel processo di elaborazione fonetico-fonologica e sintattica
Brauer at al. hanno rilevato che il processo di mielinizzazione della via dorsale (connessione regioni temporali con
giro frontale inferiore, comprendente area di Broca) non è completo nei primi anni di vita a riprova che abilità
linguistiche complesso richiedono un grado di maturazione corticale più elevato rispetto ad altre funzioni
linguistiche.
Anche la maturazione della corteccia uditiva si prolunga per diversi anni dopo la nascita, fino a stabilizzarsi in
adolescenza.
Alla nascita gli esseri umani sono cittadini del mondo, in grado di discriminare gli elementi prosodici e i contrasti
fonemici di ogni lingua. È solo a 2 anni che si sintonizzano al contesto linguistico in cui crescono (L1) così da acquisire
l’inventario fonologico-fonetico proprio della lingua materna.
I circuiti neuronali dedicati al lessico si sviluppano in epoca precoce: già all’età di 1-2 mesi i neonati sono in grado
di elaborare le informazioni prosodiche legate all’accento lessicale.
L’emisfero destro invece è attivo in compiti paralinguistici che accompagnano la produzione di parole.
Lo studio dello sviluppo linguistico di Genie, ragazza che fino all’età di 13 anni è cresciuta in uno stato di quasi totale
isolamente linguistico e ambientale, è di rilevanza perché:
1. fornisce un supporto sperimentale all’ipotesi di Lennenberg sul ruolo dell’esposizione al linguaggio nel
periodo critico per un normale sviluppo;
2. permette di indagare come un’esposizione ritardata influenzi lo sviluppo delle basi anatomiche del
linguaggio
Informazioni su Genie: non cammina per lussazione bilaterale dell’anca, il padre la segrega (dai 18 mesi) convinto
che soffrisse di un grave ritardo mentale; estremo isolamento visivo e acustico; viene liberata alla morte del padre
(13 anni).
Genie era completamente muta a parte l’emissione di alcuni suoni gutturali, pur essendo in grado di comunicare
non verbalmente e in forma limitata le sue necessità. Nei mesi successivi inizia a comprendere e produrre alcune
parole -> 1 anno dopo viene sottoposta ad un esame del linguaggio basato principalmente sulla comprensione
perché la produzione orale era gravemente compromessa.
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Nel tempo migliora nell’acquisizione del lessico (che inizialmente era a un livello discreto di sviluppo), mentre la
competenza grammaticale rimane difettosa (in particolare la competenza morfologica rimane inadeguata).
In confronto ai coetanei, lo sviluppo linguistico di Genie era più lento e atipico: il lessico era più sviluppato di bambini
con una simile competenza grammaticale, ma la capacità di elaborazione sintattica era a livello di bambini di 2-
2anni e mezzo.
Per studiare le basi neurologiche del linguaggio di Genie viene usato il test di ascolto dicotico o biauricolare (per
sapere come funziona pag 92). Sebbene Genie fosse destrimane mostrò una preferenza per gli stimoli presentati
nell’orecchio sinistro, suggerendo che l’elaborazione del linguaggio avvenisse nell’emisfero destro.
Tali dati sembrano suggerire che la dominanza sinistra per il linguaggio si sviluppa solo se l’esposizione al linguaggio
avviene nel periodo critico.
Se tale processo è ostacolato, è l’emisfero destro che vicaria il controlaterale, ma in maniera meno efficace, con
una particolare difficoltà di elaborazione delle strutture grammaticali.
Caso di Alex
Ragazzo affetto da mancato sviluppo del linguaggio ed epilessia, in quanto portatore di sindrome di Sturge-Weber,
focalizzata all’emisfero sinistro.
Prima dell’operazione: produzione limitata a una suola parola e ad alcuni suoni per riferirsi ad oggetti; comprensione
uditiva equivalente a quella di un bambino di 4 anni.
Alex viene sottoposto ad emisferectomia a 8 anni e mezzo con beneficio sia sull’epilessia che sullo sviluppo del
linguaggio; a 14 anni il livello di comprensione era equivalente a quello di un ragazzo di 8 anni e mezzo; anche il QI
migliorò.
Lo sviluppo non fu uniforme: a livello espressivo, la competenza morfofonologica non superò quella di un bambino
di 5 anni con un gap di circa 3 anni con il livello lessicale. Anche nelle frasi lunghe e grammaticalmente complesse
il livello di comprensione era deficitario.
Il caso è tuttavia importante perché dimostra che il linguaggio può svilupparsi oltre il periodo critico e in assenza
dell’emisfero sinistro.
Il caso di Alex e altri confermano la possibilità che l’emisfero destro vicari il sinistro nelle funzioni linguistiche, ma
non ne specifica tuttavia l’organizzazione funzionale e strutturale.
L’esame fMRI su un bambino che aveva subito emisferectomia all’età di 2 anni mostrò che durante l’esecuzione dei
test linguistici il quadro era analogo a quello osservato nell’emisfero sinistro di soggetti destrimani, suggerendo una
simile organizzazione funzionale e anatomica delle aree linguistiche dell’emisfero destro, comprese le aree attive
nel linguaggio scritto.
L’unica differenza significativa emersa è stata quella di un maggior coinvolgimento, rispetto ai controlli, delle aree
frontali e prefrontali durante i compiti di attenzione verbale sostenuta, a favore dell’ipotesi che l’elaborazione
linguista dell’emisfero destro sia un processo meno automatico, più controllato e che richiede l’impegno di maggiori
risorse neurali.
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perso la capacitò di leggere (alessia) e/o di scrivere (agrafia), conservando sia una normale capacità di elaborare il
linguaggio parlato sia di analisi di stimoli visivi non verbali.
Il primo modello neurologico di elaborazione del linguaggio scritto fu proposto da Dejerine: ipotizzò che il processo
di riconoscimento delle singole lettere che formano una parola avvenga nelle aree visive della corteccia occipitale
sinistra e sia in seguito trasmesso prima al giro angolare del lobo parietale sinistro (centro delle immagini visive
delle parole) e infine ai centri motori per l’articolazione.
La comprensione della lettura è possibile attraverso una connessione dell’immagine visiva delle parole con
l’immagine uditiva corrispondente.
La scrittura si realizza attraverso il processo opposto: centri uditivi/articolatori -> attivano immagini visive
a livello del giro angolare -> attivazione programmi grafomotori. Sia lettura che scrittura si realizzano
attraverso un meccanismo sublessicale.
La validità di questo modello è stata messa in discussione; attualmente il modello più usato postula l’esistenza di
almeno due meccanismi, separati funzionalmente e anatomicamente, uno di tipo lessicale e l’altro di tipo
sublessicale:
1. lessicale: specifico per le parole già conosciute visivamente, si fonda su un processo di confronto diretto
tra le caratteristiche visive della stringa di lettere in esame e le rappresentazioni lessicali precedentemente
elaborate e immagazzinate. Tali rappresentazioni ortografiche sono funzionalmente indipendenti dal
lessico fonologico di input, mentre sono collegate a un sistema semantico amodale, connesso al lessico
fonologico d’uscita.
2. sublessicale: procedura che consente la lettura di parole nuove, mai viste e non parole; il sistema prevede
una serie di passaggi per la conversione dei grafemi nei corrispondenti fonemi. Una volta raggiunta la
rappresentazione fonologica, per via lessicale o fonologica, l’informazione passa a un magazzino di
memoria verbale a breve termine (buffer) che la conserva per il tempo necessario a formulare il
programma articolatorio.
Un passo fondamentale per l’accesso alle due procedure è la computazione della rappresentazione visiva delle
parole, che rappresenta l’input per l’elaborazione successiva: una parola o una singola lettera sono riconosciute
indipendentemente da posizione, formazione e carattere tipografico.
Numerosi studi di neuroimaging funzionale hanno evidenziato un quadro di attivazione di un’area cerebrale
localizzata a livello del solco occipitale-temporale sinistro durante il processo di identificazione delle stringhe di
lettere. Tale area, denominata area della forma visiva delle parole (Visual Word Form Area, VWFA), è attivata solo
durante il processo di identificazione di sequenze di lettere.
L’apprendimento della lettura porta a una modificazione funzionale a carico di sistemi innati mediante lo sviluppo
di moduli di elaborazione visiva appresi e connessi con il sistema del linguaggio parlato.
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Il cervello bilingue
Problema dell’organizzazione funzionale e anatomica del cervello dei poliglotti, comparata con quella dei soggetti
monolingui: l’apprendimento e l’uso di L2 coinvolgono gli stessi processi funzionali e le stesse struttura anatomiche
sottostanti L1?
Studio delle differenze del pattern afasico e del processo di recupero di diverse lingue (pz afasici poliglotti): i risultati
non sono risolutivi per lo scarso numero di pazienti e per le numerose pecche metodologiche.
I risultati di tali osservazioni concordano tuttavia nell’assegnare all’emisfero sinistro la base neurologica del
linguaggio, sia per L1 che per L2. Le differenze riscontrate nel tipo di afasia sono attribuibili in genere al diverso
grado di competenza linguistica o alla differente struttura tra le due lingue.
Anche le osservazioni sul tipo di recupero dall’afasia non hanno portato a risultati univoci: in alcuni pz il
miglioramento è parallelo, in altri selettivo e differenziale. Secondo Paradis, tali dati possono essere dovuti a un
deficit dei processi di controllo: mentre nei sogg normali poliglotti sono possibili un rapido passaggio da una lingua
all’altra e il mantenimento di una lingua senza interferenza con l’altra, nei soggetti afasici tali processi diventano
inefficienti, portando alla comparsa di pattern diversi di recupero.
L’applicazione di tecniche di neuroimaging in soggetti poliglotti con sviluppo tipico ha permesso di valutare il peso
di variabili diverse:
età di acquisizione: una delle variabili di maggior peso; l’apprendimento simultaneo di più lingue
nell’infanzia porta a una migliore competenza, senza differenze significative nell’organizzazione
neurologica del linguaggio rispetto ai monolingui. L’apprendimento di una seconda lingua in età più
avanzata è meno efficiente e richiede l’attivazione di risorse neuronali in aree extralinguistiche
dell’emisfero sinistro, a riprova di un maggior coinvolgimento neuronale. (esempio dell’esperimento di
Wartenburger, pag 100)
competenza linguistica
uso delle diverse lingue
A livello strutturale, gli studi di neuroimaging hanno dimostrato nei bilingui un aumento della densità neuronale e
un maggior spessore corticale; a livello di sostanza bianca si è rilevata una maggiore integrità. Tuttavia, differenze
strutturali a livello corticale nei bilingui sono presenti solo nei soggetti con apprendimento più tardivo di L1
(esperimento di Klein, pag 101).
Perani e coll. in uno studio su soggetti bilingui abitanti a Barcellona (catalano-castigliano) hanno riscontrato che sia
l’età di apprendimento sia l’esposizione a una lingua influenzano il pattern di attivazione cerebrale.
Secondo Kovasc e Mehler, i bambini bilingui sviluppano, rispetto ai coetanei monolingui, un maggior grado di
attenzione durante il processo di apprendimento delle caratteristiche proprie delle diverse lingue. Tale vantaggio si
estende anche a compiti non linguistici che richiedono un grado elevato di attenzione, suggerendo che un precoce
bilinguismo porta a un più elevato sviluppo cognitivo. (esperimento di Stocco e Prat pag 101-102).
In conclusione, è quindi possibile postulare che nei soggetti bilingui vi sia una sovrapposizione di sistemi strutturali
e funzionali relativi all’apprendimento e dalla competenza linguistica, così da essere perfetta nei bilingui precoci,
mentre un apprendimento in età successiva richieste la messa in gioco di risorse neuronali addizionali e spesso
risulta meno efficiente rispetto a L1.
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La lingua dei segni è un linguaggio naturale usato dai sordi preverbali. Le lingue dei segni variano a seconda della
comunità linguistica, sebbene con differenze minori di quelle delle lingue parlate. Lo sviluppo della lingua dei segni
in un bambino sordo esposto a tale lingua fin dalla nascita segue lo stesso piano maturativo di quello dei coetanei
normoudenti. Un apprendimento successivo, è meno efficace e simile a quello di un apprendimento di L2 nei
normoudenti.
I dati riguardanti le basi neurologiche della lingua dei segni derivano dalle osservazioni di segnanti divenuti afasici:
si può affermare che il pattern degli afasici segnati è simile a quello degli afasici normoudenti.
Tali dati confermano che, nonostante le differenze di input e output, la regione perisilviana dell’emisfero sinistro
costituisce il nucleo centrale della funzione linguistica.
Anche dati di neuroimaging su soggetti sordi non affetti da danno cerebrale hanno in genere confermato le evidenze
cliniche.
Ad un’analisi più accurata sembra tuttavia che i lobi parietali di entrambi gli emisferi possano essere coinvolti nel
sistema della lingua dei segni.
In particolare, i lobi parietali potrebbero essere cruciali nell’elaborazione di alcuni segni che richiedono un uso
referenziale dello spazio.
Si può affermare che la lettura Braille rappresenta un modello di plasticità neuronale, in cui la corteccia occipitale,
geneticamente programmata nell’elaborazione di stimoli visivi, può attivarsi nel compito di trasformare stimoli
tattili in stimoli linguistici, così da permettere l’elaborazione del linguaggio scritto.
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è distinta dalla memoria di lavoro, ML, che si riferisce alle strutture e processi usati per mantenere e usare
le informazioni per un periodo limitato; tale sistema può essere considerato l’espressione di una capacità
cognitiva generale, attiva in compiti verbali e non verbali; la sua capacità limitata è legata all’attenzione, al
punto tale che le due funzioni sono state integrate nel medesimo sistema.
La capacità di memoria a lungo termine (MLT) è molto più estesa e i memoranda possono essere conservati per
tempi molto più lunghi, fino ad anni. Non è un sistema unitario ma è composta da specifiche componenti:
Memoria procedurale
Memoria episodica: sono depositati gli eventi del passato personale
Memoria autobiografica: conoscenza di eventi ed episodi esperiti personalmente e collocati esattamente
nello spazio e nel tempo (secondo Tulvig, che propone la distinzione memoria AB e MS);
Memoria semantica: magazzino di nozioni comuni a una specificità comunità; secondo Tulvig è la
conoscenza organizzata che una persona possiede riguardo parole e altri stimoli verbali, il loro significato
e le reciproche relazioni. Recentemente la nozione di MS si è ampliata, includendo un sistema più
generalizzato di conoscenza che comprende sia il significato delle parole, sia le informazioni sull’ambiente
che ci circonda o regole di comportamento.
Queste vengono racchiuse in due classi, memoria dichiarativa e memoria non dichiarativa, in base alla distinzione se
il processo di recupero avvenga in maniera conscia o inconscia:
la memoria dichiarativa coincide con la memoria usata nel linguaggio quotidiano; le rappresentazioni
mnesiche sono flessibili, accessibili alla coscienza e in grado di guidare il comportamento in differenti
contesti
L’indipendenza della memoria AB dalla memoria MS trae la sua migliore dimostrazione dai deficit dissociati delle
due memorie: soggetti con gravi deficit di memoria AB mostrano, ai test di MS, una prestazione nettamente
superiore.
Diversamente, un deficit selettivo di MS è caratteristico della demenza semantica, la forma più comune di demenza
degenerativa. Tale demenza può presentarsi in tre forme: una variante temporale, caratterizzata dalla presenza di
deficit a livello semantico concettuale e associata ad atrofia temporale sinistra; una variante frontale, in cui i deficit
espressivi rappresentano il sintomo caratterizzante; una variante comportamentale caratterizzata da alterazioni del
comportamento con perdita dell’identità sociale.
L’organizzazione funzionale e il substrato neurologico della memoria risentono di un’alterazione di altri sistemi
biologici (es. ciclo veglia-sonno).
Effetti della deprivazione del sonno (PS) sul processo mnesico: c’è accordo sul fatto che un “buon sonno” favorisce
un’efficiente attività cognitiva. Al contrario, una cattiva qualità o una privazione del sonno hanno l’effetto di far
calare il livello di attenzione, capacità decisionali, apprendimento e memoria.
L’ippocampo è particolarmente sensibile alla PS, con perdita della plasticità neuronale, conseguente ridotto
apprendimento e un deficit mnesico.
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La PS agisce in fasi diverse del processo mnesico; studi sia su animali che su sogg umani concordano nell’affermare
che una PS (anche una lieve alterazione del ciclo del sonno) nel periodo precedente l’apprendimento ha un effetto
negativo sia sul processo di acquisizione sia su quello di codificazione.
Anche la PS successiva all’apprendimento può colpire i processi mnesici, soprattutto nella fase di consolidamento:
studi su animali hanno rilevato che l’attività ippocampale è particolarmente sensibile alla PS nel periodo successivo
all’acquisizione del memorandum, ostacolandone un efficace consolidamento.
Oltre ad effetti PS nel breve periodo, osservazioni successive sembrano dimostrare una riduzione del volume
ippocampale conseguente a una privazione cronica del sonno (riduzione del volume anche in soggetti affetti da
insonnia cronica). La rilevanza clinica di tali studi è confermata dalla correlazione tra calo cognitivo, inclusa la
memoria, e riduzione cronica del sonno.
2. Memoria e invecchiamento
Memoria a breve termine e memoria episodica sono gli elementi del sistema mnesico più sensibili
all’invecchiamento.
Gli anziani sono maggiormente penalizzati nei processi di codificazione e richiamo di informazioni molto dettagliate,
con effetto maggiore sulle informazioni acquisite più recentemente. Di contro, le persone anziane non mostrano
alcun deterioramento nel ricordo di informazioni più generali o in compiti di richiamo di MS.
Numerosi studi sono stati dedicati alla ricerca di fattori protettivi che possano incrementare o preservare il
patrimonio mnesico: tra i più studiati l’esercizio fisico. L’inattività fisica sembra giocare un fattore di rischio
nell’accelerare il declino cognitivo nei pazienti Alzheimer, mentre l’effetto opposto è ottenuto con l’esercizio fisico.
Non è chiaro tuttavia se l’attività fisica agisca modificano i fattori di rischio legati all’età, o modificando
strutturalmente-neurochimicamente le aree ippocampali e medio-temporali.
Nell’uomo i risultati e gli studi sono ancora limitati: tuttavia Mass ha dimostrato che dopo tre mesi di esercizio fisico
aerobico, soggetti anziani ottenevano una prestazione migliore in compiti di memoria di oggetti, correlata a una
migliore perfusione ippocampale.
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1. il primo consiste in una rappresentazione di base legata al senso della postura e dei movimenti passivi: tale
processo si realizza confrontando ogni spostamento della postura con quello immediatamente precedente
(schema corporeo posturale).
2. una rappresentazione a un livello superiore consente di apprezzare una localizzazione più dettagliata che
porta all’identificazione e denominazione delle singole parti del corpo (schema corporeo superficiale). Lo
stabilirsi di tali rappresentazioni è funzione dell’analisi e dell’integrazione di stimoli somato-sensoriali e
visivi.
Tale processo si realizza nelle prime fasi dell’infanzia attraverso l’imitazione e la riproduzione dei gesti compiuti
dagli adulti.
La consapevolezza corporea non dipende solo dai meccanismi di orientamento spaziale ma anche da quelli
immaginativi e mnesici (es. fenomeno dell’arto fantasma).
Talora pazienti con lesione del lobo parietale sinistro mostrano una selettiva incapacità a indicare, sia su comando
verbale sia su imitazione, le varie parti del proprio corpo e di quello dell’esaminatore (autotopoagnosia). La natura
del deficit sembra dipendere da una rappresentazione concettuale, forse su base linguistica, delle diverse parti del
corpo.
Lesioni del lobo parietale destro invece possono portare a una perdita della consapevolezza della metà sinistra del
corpo (emisomatoagnosia).
Anosognosia: negazione esplicita dell’appartenenza della metà sinistra del corpo e deficit motori e sensoriali
conseguenti alla lesione cerebrale.
Il fenomeno può manifestarsi in due forme: un fantasma vero e proprio, caratterizzato da una vivida percezione
della parte mancante, che comprende le relazioni spaziali con il resto del corpo, e una seconda forma caratterizzata
da sensazioni fantasma, come parestesie1 e dolori.
Tali sensazioni possono insorgere spontaneamente o essere evocate dall’applicazione di stimoli tattili portati in
prossimità del moncone di amputazione, o di segmenti corporei distanti.
Diverse ipotesi: lo studio dell’arto fantasma costituisce un’opportunità per comprendere come l’architettura
funzionale del cervello sia in grado di riorganizzarsi, anche in età adulta, attraverso un processo di attivazione di
nuove connessioni corticali, così da supplire alle modificazioni dell’input sensoriale.
1
parestesie = un'alterazione della sensibilità degli arti o di altre parti del corpo. In particolare, il termine descrive una
condizione caratterizzata da fenomeni sensitivi a livello locale, più frequentemente descritti come formicolio.
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Un altro esempio deriva dagli studi su pazienti acondroplasici2 sottoposti a un graduale allungamento degli arti
attraverso tecnica chirurgica. Sia in periodo post-operatorio sia a distanza di un anno non furono rilevate
modificazioni della percezione tattile, mentre si modificò la rappresentazione neuronale della distanza sia fra due
punti corporei stimolati tattilmente sia dell’intera immagine corporea, a sostegno dell’ipotesi che la
rappresentazione corporea è plastica, modellata e rimodellata dall’esperienza nel corso della vita.
3. Xenomelia
La resistenza al cambiamento d’integrità e appartenenza del corpo è stata in un qualche modo messa in discussione
dalla presenza di un disturbo dell’identità motoria (xenomelia, sindrome dell’arto alieno). Le persone avvertono
alcuni segmenti corporei sono in sovrannumero e spesso associati a sensazioni erotiche a partire da tale distretto
corporeo.
Alla RM sono state riscontrate anomalie di sviluppo a carico sia dell’insula sia della corteccia parietale destra, con
riduzione delle aree somato-sensoriali sia primarie sia di associazione. Il disturbo potrebbe trarre origine dalla
contemporanea presenza di tali anomalie: la corteccia dell’insula, topograficamente prossima alle zone somato-
sensoriali, non solo svolge un ruolo rilevante nel processo di integrazione delle sensazioni corporee interocettive,
ma è anche critica nel processo di convergenza della somestesia (sensibilità somatica) e della reattività sessuale.
2
L’acondroplasia è un tipo di disordine ereditario, letale allo stato omozigote. È una forma di nanismo che colpisce solo
gli arti, braccia e gambe che crescono notevolmente meno rispetto al resto del corpo.
26
La conoscenza dei meccanismi di compensazione dei deficit sensoriali ha avuto un grande sviluppo. La possibilità di
recupero delle funzioni attraverso l’uso di strumenti protesici ha accresciuto la conoscenza della plasticità
ristorativa.
Plasticità unimodale
Gli effetti della plasticità unimodale possono manifestarsi in due modi differenti.
Secondo l’ipotesi della compensazione sensoriale, le aree cerebrali dedicate alla modalità sensoriale deficitaria
sviluppano la capacità di elaborare informazioni provenienti dai sistemi percettivi normalmente funzionanti (ipotesi
della nuova distribuzione, re-allocation): la corteccia sensoriale specifica per la modalità perduta può essere
“colonizzata” da aree sensoriali dedicate ad altre modalità.
Basandosi sugli studi che hanno confrontato l’attività cerebrale di soggetti ciechi alla nascita con quella di vedenti,
si è riscontrato che la deafferentazione visiva si accompagna a un processo di reclutamento delle aree visive della
corteccia cerebrale durante l’analisi di dati provenienti da altre modalità sensoriali.
Collignon et al. ipotizzano che il processo di plasticità nelle persone cieche sia condizionato dalle proprietà innate
della corteccia cerebrale a elaborazione informazioni specifiche; in caso di deprivazione sensoriale, tuttavia, tali
aree possono acquisire funzioni di elaborazione di informazioni provenienti da aree fisiologicamente correlate a
modalità diverse.
Secondo Pavani e Bottari una deprivazione sensoriale unimodale porta a un’ipertrofia delle cortecce sensoriali delle
modalità risparmiate cani, ratti e scimmie resi ciechi alla nascita sviluppano un aumento dei neuroni che
rispondono a stimoli somato-sensoriali e uditivi.
Plasticità crossmodale
Il processo di plasticità crossmodale nella deprivazione sensoriale può determinare variazioni della connettività
corticale a diversi livelli. Tale processo tuttavia non è uniforme e può variare a seconda della specie e dell’età:
alcuni meccanismi sono attivi solo durante lo sviluppo, come variazioni di sistemi di connessione corticali e
sottocorticali
altri meccanismi sono possibili lungo tutto l’arco della vita, come la stabilizzazione di connessioni cortico-
sottocorticali tra modalità sensoriali diverse
Nell’uomo, studi di neuroimaging hanno evidenziato che numerose aree cerebrali si attivano in risposta a stimoli
provenienti da modalità differenti.
Ad esempio, le risposte da tali regioni a stimoli tattici attivano a loro volta aree visive così da permettere alle persone
cieche di eseguire compiti che richiedono un’analisi spaziale degli stimoli, come nella lettura Braille.
2. Sordità preverbale
Con sordità prevebrale (SPV) si intende una perdita dell’udito presente fin dalla nascita, così da impedire lo sviluppo
di ogni interazione verbale.
In conseguenza del danno, genetico o acquisito, si verifica un’interruzione della trasmissione del segnale uditivo tra
orecchio esterno e corteccia uditiva.
La maggioranza dei casi è conseguente a un danno neurosensoriale dell’organo di Corti.
La SPV modifica le caratteristiche anatomiche e funzionali del sistema uditivo, impedendo lo sviluppo delle aree
corticali uditive e la connessione con le altre aree sensoriali (visive e somato-sensoriali).
27
Nell’uomo dati ricavati da studi di neuroimaging hanno evidenziato che una deprivazione uditiva nella prima infanzia
produce un’alterazione del pattern neuronale della corteccia uditiva.
Smith e colleghi hanno riscontrato che nei sogg SPV, a livello della parte anteriore del giro di Heschl3, la sostanza
grigia è più sviluppata mentre la sostanza bianca è ridotta. Inoltre, tali sogg non mostrano la tipica asimmetria a
livello del planum temporale, con un maggiore sviluppo di quello sinistro presente nei soggetti normoudenti
quadro di alterato sviluppo della corteccia uditiva primaria.
Infine, la corteccia uditiva nei soggetti sordi è colonizzata da cellule visive e le aree di associazione uditiva non sono
attivate da stimoli uditivi, anche se le aree primarie possono rispondere a stimoli elettrici applicati al nervo uditivo.
In assenza di riabilitazione, i soggetti con SPV presentano segni di deficit che vanno al di là della semplice perdita di
udito:
non vi sono segni di ipercompensazione visiva in compiti di percezione elementare
meno efficienti in compiti più complessi, come compiti di MBT
Gli IC possono ripristinare la funzione uditiva, bypassando il danno funzionale e anatomico dell’organo di Corti,
attraverso la stimolazione delle fibre integre del nervo acustico non toccate dalla perdita delle cellule ciliate, così
da trasformare gli impulsi elettrici in stimoli acustici. Impianto mono o bi-laterale (risultati migliori con bilaterale).
Se l’impianto viene applicato nella prima infanzia, prima dello sviluppo del linguaggio, il SNC sviluppa un sistema
uditivo simile a quello dei normoudenti.
Diversamente, la registrazione dei potenziali evocati uditivi in sogg in cui l’IC è stato applicato in età più avanzata,
ha evidenziato un’attività in zona temporo-parietale in seguito a stimolazione uditiva diversa organizzazione a
livello corticale.
la riorganizzazione del sistema uditivo sarebbe influenzata dall’età dell’impianto
Nei bambini impiantati precocemente lo sviluppo del linguaggio si può considerare nella norma, a differenza di
soggetti sottoposti ad IC più tardivamente: quest’ultimi pur essendo in grado di avvertire lo stimolo, non riescono
a discriminare i suoni del linguaggio in maniera soddisfacente con conseguente difficoltà di comprensione e
apprendimento del linguaggio orale.
Se l’impianto è effettuato nella prima infanzia lo sviluppo del linguaggio è parallelo, sia nella modalità acustica sia
in quella visiva, fornendo la possibilità di realizzare un sistema neuronale sovramodale specifico per il linguaggio.
Lee e colleghi suggeriscono che la riabilitazione abbia maggior successo se basata sulla partecipazione di funzioni
cognitive di tipo esecutivo (lobi frontali).
Infine, Strelnikov e colleghi suggeriscono che il successo dell’impianto può essere predetto dall’entità dell’attività
neuronale presente in compiti di elaborazione linguistica (correlazione positiva recupero comprensione acustica e
attivazione delle aree visive e della corteccia temporo-parietale, cruciale per il processo di integrazione audiovisva).
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Hubel e Wiesel dimostrarono che un normale sviluppo della funzione visiva è possibile solo se durante la prima
infanzia (periodo critico) il soggetto è esposto a stimoli visivi. La privazione temporanea (sutura delle palpebre) della
visione di un occhio in gattini nei primi 3 mesi di vita porta a un’alterazione irreversibile della rete di connessioni
del sistema visivo centrale.
Quando in età adulta la sutura è rimossa, si riscontra che l’attività elettrofisiologica dei neuroni del corpo genicolato
laterale connesso all’occhio suturato è ridotta, mentre a livello morfologico sono presenti marcate alterazioni
istologiche negli strati cellulari corrispondenti.
Nell’uomo, persone cieche alla nascita mostrano una marcata riduzione strutturale delle vie visive, con atrofia delle
aree visive che arriva al 20% nelle aree extrastriate e al 25% nella corteccia visiva primaria.
Nonostante la riduzione anatomica, le aree visive nelle persone non vedenti possono essere coinvolte in diversi
compiti non visivi, dall’elaborazione uditivo-spaziale alla lettura, mediante connessioni con il sistema uditivo e
somato-sensoriale.
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8. Plasticità e recupero delle funzioni cerebrali
I dati ricavati dalla sperimentazione animale e le osservazioni sull’uomo degli effetti di un danno cerebrale, sia
diffuso sia locale, dimostrano che il processo di recupero delle funzioni lese è possibile non solo in età infantile,
quando la plasticità è massima, ma anche nell’età adulta e in genere durante tutto l’arco della vita, seguendo le
stesse vie usate durante il processo di sviluppo.
L’osservazione del miglioramento costituisce l’indice migliore del processo di recupero e differenti livelli di analisi
possono essere applicati allo studio dei meccanismi cerebrali alla base della plasticità neuronale attivi nel periodo
postlesionale.
Alcuni metodi sono invasivi, mentre per quanto riguarda l’uomo i mezzi non invasivi (neuroimaging e tecniche
elettrofisiologiche).
Nell’uomo inoltre, i particolari della lesione (estensione, sede) si possono mappare con molto minor
dettaglio rispetto all’animale.
Il livello prelesionale nell’animale è facilmente ricavabile utilizzando test ad hoc prima e dopo la lesione,
nell’uomo non è conosciuto con precisione
È difficile valutare i dettagli del trattamento (metodo, lunghezza, intensità) e l’interazione con altri fattori
difficili da quantificare
Età
Due fattori in merito all’età:
1. Vulnerabilità e maggior plasticità del cervello infantile
2. Equipotenzialità verso la specializzazione di funzioni cerebrali
Una prima ipotesi postula che il cervello infantile sia equipotenziale in quanto ambedue gli emisferi sarebbero in
grado di sostenere funzioni che nel cervello adulto trovano la base neurologica in uno solo di essi. Tale ipotesi è
confermata dal rilievo che l’asportazione di un intero emisfero nella prima infanzia, compiuto per il controllo di
un’epilessia farmaco-resistente, non è seguita da grossolani deficit linguistici.
Di contro, secondo l’ipotesi di una specializzazione emisferica innata, legata soprattutto al linguaggio, le funzioni
cognitive hanno una base predeterminata, innata, che non è modificata dalla presenza di una lesione cerebrale,
anche in epoca molto precoce.
Una posizione di compromesso postula che lo sviluppo cerebrale si accompagna a un aumento progressivo della
specializzazione cerebrale (dimostrato dal crescente processo di lateralizzazione del linguaggio con il progredire
dell’età).
Anderson, Spencer-Smith e Wood suggeriscono che l’esito finale dipenda da una complessa catena di eventi
neuronali, che a loro volta interagiscono con la presenza di meccanismi predeterminati e di fattori ambientali: né
l’alto grado di plasticità, né la maggiore vulnerabilità del cervello infantile costituiscono fattori che, isolatamente,
possano predire le conseguenze di un danno cerebrale, né i meccanismi o i tempi del recupero.
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Alcuni tumori cerebrali a lento sviluppo (gliomi a lento sviluppo, GLS) hanno un differente impatto sul tipo e gravità
del danno cerebrale: i pazienti con GLS spesso sono asintomatici, nel periodo sia pre- sia postoperatorio, anche in
caso di una lesione a carico di aree cerebrali molto specializzate ed eloquenti.
Il processo di plasticità cerebrale può essere in questi casi molto efficiente: secondo Desmurget, Bottenblanc e
Duffau si può ipotizzare che a causa del lento processo infiltrativo che caratterizza tali neoplasie, si possa sviluppare
una progressiva ridistribuzione di funzioni in aree adiacenti al tumore o un reclutamento di nuovi circuiti neuronali
nello stesso emisfero o in quello opposto, limitando così gli effetti del danno primario.
Recupero spontaneo
Il miglioramento che avviene nella fase postictale è considerato dipendente da due fattori interagenti:
1. Fattore anatomico (riduzione edema, ipertensione intracranica…)
2. Fattore funzionale: risoluzione diaschisi
Per Von Monakov, nel periodo successivo a un danno acuto di una regione corticale o sottocorticale, si verifica la
seguente serie di eventi:
1. Il primo caratterizzato da un’interruzione delle funzioni supportate dalle regioni sia adiacenti alla zona lesa,
sia lontane ma connesse alla sede del danno primario
2. Un secondo caratterizzato da un’interruzione temporanea delle connessioni intra- e interemisferiche fra la
lesione e aree cerebrali distanti. Tali eventi si verificano simultaneamente di solito, ma una forma può
predominare sull’altra, a seconda delle connessioni colpite e dall’estensione del danno corticale.
3. Il terzo aspetto consiste nella sua risoluzione: il processo di diaschisi non è stabile ma è soggetto a una
graduale risoluzione, dovuta alla riattivazione delle funzioni svolte dalle aree cerebrali temporaneamente
disconnesse e ad un reclutamento delle aree perilesionali.
Attenzione alla relazione causale tra deficit clinici attribuiti agli effetti della diaschisi e dati di neuroimaging (pag
137).
Recupero tardivo
Una volta superato lo stadio acuto conseguente all’insorgenza di una lesione cerebrale non progressiva (ictus) e che
si può considerare esaurito dopo circa 6 mesi, il miglioramento delle funzioni colpite può estendersi, seppure a un
ritmo più lento, anche agli anni successivi.
In base alle osservazioni di neuroimaging su pazienti affetti da ictus sono state formulate tre ipotesi alla base del
processo di recupero a distanza, non mutualmente esclusive:
1. prima ipotesi: il recupero è mediato da un processo di ricostituzione di sistemi neuronali specifici nelle zone
perilesionali, portando alla formazione di un nuovo pattern neuronale e funzionale (ipotesi perilesionale)
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2. seconda ipotesi: il processo di recupero è mediato dall’emisfero controlaterale, che sostituisce le funzioni
dell’emisfero danneggiato (trasferimento di lateralità).
In pazienti affetti da lesione unilaterale di un emisfero, sia di origine vascolare sia neoplasica, si è osservata
un’attivazione dell’emisfero controlaterale in compiti svolti dall’emisfero danneggiato prima
dell’insorgenza del danno cerebrale.
3. terza ipotesi: il processo di recupero è basato sul blocco della trasmissione attraverso il corpo calloso
dell’iperattività delle regioni cerebrali controlaterali all’emisfero leso; tale attività influisce negativamente
sul processo di riorganizzazione funzionale dell’emisfero colpito.
Il recupero si basa su un processo di riorganizzazione funzionale all’interno di un vasto network; inoltre, i deficit
postlesionali non dipendono soltanto dalla sede della lesione ma anche dall’attività anomala di aree funzionalmente
connesse alla zona lesa.
1. Il primo meccanismo è di limitata efficacia, attivo soprattutto in fase acuta e sembra riflettere un processo
di ipereccitabilità di aree corticali perilesionali.
2. Durante lo stadio cronico, un recupero efficace, espressione del grado di riacquisizione del movimento,
sembra essere legato a un processo di riorganizzazione del preesistente circuito neuronale specifico.
Nei soggetti con buon recupero motorio il quadro di attivazione corticale durante il movimento è simile a quello dei
sogg di controllo; invece nei sogg con residuo deficit il quadro è caratterizzato da un pattern di attivazione di aree
motorie secondarie e aree omologhe dell’emisfero controlaterale. Questo meccanismo sembra interferire con il
quadro normale di riorganizzazione neuronale.
L’efficacia del processo di riorganizzazione funzionale dipende dalla sede e dall’estensione della lesione anatomica;
dati suggeriscono che la persistenza di un pattern anormale di attivazione costituisce un fattore negativo,
espressione di una riorganizzazione funzionale maladattiva.
Un ruolo fondamentale è svolto dalla rieducazione motoria (fisio-kinesiterapia, KFT): nei sogg sottoposti a FKT il
recupero funzionale è migliore rispetto a pazienti non trattati, con persistenza dell’effetto benefico anche dopo la
fine del trattamento. il fattore critico in questo caso sembra essere la durata del trattamento.
Una delle tecniche più usate si basa sul paradigma di utilizzo forzato dell’arto superiore paretico (terapia costrittiva
del danno neurologico, Constraint Induced Movement Therapy, CIMT) associato a una limitazione del movimento
dell’arto sano. Tale tecnica incoraggia l’uso dell’arto paretico nelle attività quotidiane ed è utile a superare gli effetti
di “apprendimento al non uso”. Dati dimostrano che porta a un miglioramento degli indici di disabilità.
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Studi fMRI concordano nell’indicare che il processo di recupero dal linguaggio afasico dipende dall’attività delle aree
dell’emisfero sinistro non toccate dalla lesione cerebrale (secondo Meinzer anche aree perilesionali e secondo
Menke anche omologhe dx).
Altri studi indicano che il recupero di alcune funzioni linguistiche dipenda dalla capacità dell’emisfero destro di
elaborare il linguaggio, ipotesi corroborata dai dati ottenuti in pazienti split-brain in cui si è dimostrato che tale
emisfero è in grado di trattare informazioni a livello semantico-lessicale.
Una iperattività dell’emisfero destro durante l’elaborazione di stimoli linguistici in pazienti afasici è stata rilevata in
diversi studi; recentemente è stato ipotizzato che il processo di recupero dall’afasia sia più efficiente in pz che
presentano un network linguistico più sviluppato nell’emisfero destro (lunghezza fascicolo arcuato dx).
Secondo Postman-Chaucheteux l’attivazione emisferica dx durante la fase di recupero dall’afasia rappresenta una
forma maladattiva di riorganizzazione funzionale; il lavoro di Abel ha mostrato che due diverse terapie erano
accompagnate da un’attivazione delle aree perisilviane dell’emisfero dx ma mentre la riabilitazione fonologica
attivava solo emisfero sx quella semantica si accompagnava a un’attivazione dx
conclusione: il processo di plasticità cerebrale conseguenti alla terapia centrata sul deficit linguistico richiede la
messa in opera di meccanismi neuronali dedicati.
La rTMS è stata usata in ambito clinico a scopi sia diagnostici sia terapeutici: il suo uso è considerato utile
o per la valutazione dell’integrità del sistema motorio
o per lo studio funzionale di specifiche regioni cerebrali
o per indagare il substrato anatomo-fisiologico di diverse patologie di interesse neurologico-
psichiatrico
Sul versante terapeutico, è considerata uno strumento per influire sulla plasticità neuronale in diverse
patologie neuropsichiatriche, allo scopo di modulare in maniera positiva l’attività dei sistemi cortico-
sottocorticali;
Sul versante riabilititativo, l’applicazione della rTMS trova giustificazione nella possibilità di recuperare una
valida riorganizzazione funzionale del sistema motorio sia conseguente a ictus sia in caso di plasticità
maladattiva.
per il funzionamento della rTMS pag 143
2. PAS, Paired Associative Stimulation, stimolazione associativa appaiata: la sua applicazione è in grado di
modulare l’eccitabilità corticale e la connettività dei circuiti cortico-corticali attraverso modificazioni
dell’intensità dei legami sinaptici delle regioni stimolate;
3. tDCS: applicazione sullo scalpo di elettrodi che erogano una corrente continua di bassa intensità, in grado
di attraversare lo scalpo e influenzare le attività della corteccia circostante:
in particolare con stimolazione anodica incremento attività neuronale; stimolazione catodica
inibizione attività neuronale.
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Effetti della stimolazione con metodi non invasivi nel recupero del
danno motorio e linguistico
L’uso di metodi non invasivi di stimolazione cerebrale in pazienti affetti da danno cerebrale unilaterale di fonda su
due principi:
1. ridurre l’eccitabilità nelle aree omologhe a quelle lese nell’emisfero controlaterale, permettendo la
riattivazione dei circuiti neuronali dell’emisfero leso
viene ottenuto con stimolazione rTMS a bassa frequenza dell’emisfero sano
Più promettenti sono i dati sull’efficacia del trattamento con rTMS dei deficit afasici: la stimolazione viene applicata
all’emisfero sano allo scopo di ridurre l’attivazione delle aree omologhe a quelle colpite, impendendone la
trasmissione all’emisfero opposto, permettendo di riattivare i normali circuiti neuronali nell’emisfero sinistro.
Da dati di correlazione tra miglioramento indotto da rTMS e dati fMRI si può dedurre che il recupero delle funzioni
linguistiche sia dovuto all’effetto dell’attivazione di parti dell’emisfero dx non toccate dalla lesione e a una completa
lateralizzazione sinistra nei compiti linguistici.
Anche per gli effetti della tDCS nel trattamento dei deficit motori e afasici i dati sono contrastanti. Per questo allo
stato attuale non è possibile trarre alcuna conclusione definitiva sull’utilità della tDCS nel trattamento dei deficit
neurologici acquisiti.
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