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La pedagogia degli oppressi


P. Freire
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Il libro è stato scritto da Freire nel 1968 mentre era in esilio in Cile.

Egli dovette abbandonare il Brasile per motivi politici, poiché i suoi progetti educativi
erano considerati sovversivi dal governo autoritario brasiliano che si era insediato con
il golpe del 1 aprile 1964.

L’opera non venne pubblicata né in Cile né in Brasile dove comparve solo nel 1974.

All’inizio cominciò a diffondersi in clandestinità in tutto il mondo come segno di una


pedagogia scritta in nome della libertà, democrazia, diritti dell’uomo e contro ogni
forma di oppressione.

In Italia è stato pubblicato nel 1971. È un classico dell’educazione degli adulti.

Le sue riflessioni nascono dalla sua esperienza concreta, dal suo lavoro educativo
con proletari, rurali e urbani e uomini classe media.

TEMI FONDAMENTALIO

UMANIZZAZIONE/DISUMANIZZAZIONE degli uomini e donne

DEFINIZIONE OPPRESSI/OPPRESSORI e loro rapporti

EDUCAZIONE DEPOSITARIA-ANTIDIALOGICA/ EDUCAZIONE PROBLEMATIZZANTE-


DIALOGICA, RICERCA DEI TEMI GENERATORI

TEORIA AZIONE CULTURALE ANTI-DIALOGICA E SUE CARATTERISTICHE


(conquista, dividere per dominare, manipolazione, invasione culturale)

TEORIA AZIONE CULTURALE DIALOGICA E SUE CARATTERISTICHE (collaborazione,


unire per liberare, organizzazione, sintesi culturale).
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INTRODUZIONE

Freire vuole approfondire in questo saggio alcuni temi di una sua pubblicazione
precedente: L’EDUCAZIONE COME PRATICA DELLA LIBERTA’.

Nel saggio Freire usa il termine Coscientizzazione: è qualcosa di più di “presa di


coscienza”, è la presa di coscienza che si approfondisce, il suo sviluppo critico (parola
non è sua ma è nata da riflessione di una equipe di professori brasiliani)

Molti hanno paura della coscientizzazione degli uomini e affermano: la coscienza


critica è pericolosa, porta al disordine, all’anarchia si tratta di atteggiamenti che
rivelano la paura della libertà.

Freire afferma che anzi: “la coscientizzazione che rende possibile l’inserimento
dell’individuo, come soggetto, nel processo storico, evita i fanatismi e inserisce ogni
uomo nella ricerca della sua affermazione”.

La paura della libertà fa vedere ciò che non esiste. È raro che venga esplicitata, o non
se ne ha coscienza o si tende a camuffarla.

Colui che teme la libertà, si rifugia nella sicurezza vitale, preferendola alla libertà carica
di rischi (Hegel)

Questo saggio è dedicato a coloro che sono capaci di posizioni radicali e non di
settarismo.

Il settarismo castra gli uomini, si nutre di fanatismo, è mitico e perciò alienante,


irrazionale, falsifica la realtà e ne impedisce la trasformazione, è un ostacolo
all’emancipazione degli uomini. Sia di destra o di sinistra, il settarismo è reazionario,
si chiudono nella loro “verità” soffrono di mancanza di dubbio, padroni del tempo
(dx: addomestica il presente, lo tiene legato al passato, affinché nulla cambi; sx:
futuro prestabilito, un destino irrevocabile)

La radicalizzazione è critica e per questo liberatrice, impegna gli uomini nello sforzo
di trasformare la realtà concreta. Il radicale, non si lascia prendere entro “circoli di
sicurezza” in cui anche la realtà viene imprigionata, si inserisce nella realtà per
conoscerla meglio e poterla meglio trasformare. Non teme l’incontro con il popolo, il
dialogo con lui, da cui risulta una crescita del sapere, per l’uno e l’altro. Non si sente
padrone del tempo, né degli uomini, né liberatore degli oppressi. Si impegna con
loro, nel tempo, nella realtà, per lottare con loro per la loro umanizzazione.
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CAPITOLO PRIMO
GIUSTIFICAZIONE DELLA PEDAGOGIA DELL’OPPRESSO

La Pedagogia dell’oppresso è quella che ha per oggetto l’oppressione e le sue cause


deve essere elaborata con gli oppressi, con loro e non per loro, perché

Chi più degli oppressi può sentire gli effetti dell’oppressione? Chi più di loro capire la
necessità della liberazione?

Liberazione a cui non arriveranno per caso, ma attraverso la prassi della loro ricerca,
che è riflessione e azione insieme.

Gli oppressi riconosceranno la necessità di lottare per ottenere la loro liberazione, la


loro lotta che sarà un atto di amore con cui gli oppressi si opporranno al disamore
contenuto nella violenza degli oppressori.

Da dove parte la riflessione degli uomini oppressi? Dalla scoperta di sapere poco di
sé, del proprio posto nell’universo, sono inquieti, si scoprono in una situazione di
tragica ignoranza e si pongono come problema se stessi, indagano, si danno risposte,
nascono nuove domande è …..il problema dell’umanizzazione e della
disumanizzazione.

Umanizzazione e disumanizzazione sono possibilità che hanno gli uomini come


esseri inconclusi e coscienti della loro in conclusione.

Ma solo l’umanizzazione è la vocazione dell’uomo. Negata nella ingiustizia, nello


sfruttamento, nella violenza, nell’oppressione. Affermata nell’aspirazione alla libertà,
alla giustizia, nella lotta per il recupero dell’umanità negata.

La disumanizzazione non si verifica solo in coloro che si vedono rubare la loro


umanità (oppressi), ma anche in quelli che la rubano (oppressori).

È un fatto concreto della storia ma non è un destino ineluttabile.

La violenza degli oppressori genera un “essere di meno” che, prima o poi, porta gli
oppressi a lottare contro coloro che li hanno resi di meno.

Tale lotta ha senso quando gli oppressi, per recuperare la loro umanità, non si fanno
a loro volta “oppressori degli oppressori”, ma “restauratori” dell’umanità di entrambi.
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“Ecco il grande compito umanista e storico degli oppressi: liberare se stessi e i loro
oppressori”.

Freire invita a diffidare della falsa generosità degli oppressori. Gli oppressori hanno
bisogno che l’ingiustizia perduri, la loro falsa generosità si nutre di miseria e morte.

La vera generosità consiste nel lottare con gli oppressi affinché spariscano le ragioni
che alimentano la falsa carità, da cui deriva la mano tesa degli “straccioni del
mondo”, affinché queste mani si tendano sempre meno in gesti di supplica ai potenti
e diventino sempre più mani umani, che lavorino e trasformino il mondo.

Freire ribadisce che la lotta per la restaurazione della propria umanità deve partire

dagli oppressi e da coloro che saranno realmente capaci di divenire solidali con loro!

CONTRADDIZIONE OPPRESSORI/OPPRESSI E SUO SUPERAMENTO

Gli oppressi possono partecipare all’elaborazione della pedagogia della loro


liberazione soltanto dal momento in cui scoprono di ospitare in sé l’oppressore.

In una prima fase di questa scoperta, quasi sempre, gli oppressi, anziché cercare la
liberazione nella lotta, tendono ad essere anche loro oppressori o oppressi di
secondo grado. Il loro ideale è essere uomini, ma per loro essere uomini è essere
oppressori, quello è per loro l’unico modello di umanità che conoscono.

Gli oppressi sono “immersi” nella realtà dell’oppressore, in “aderenza”


all’oppressore, non solo non riescono a “ vederlo in sé” ma addirittura aspirano ad
essere come lui! In tal caso non possono acquistare coscienza di sé, come persone, e
tanto meno coscienza di classe oppressa.

(Es: i braccianti agricoli che, una volta promossi fattori, spesso diventano oppressori
dei loro antichi compagni, più duri del loro stesso padrone).

Gli oppressi, che introiettano l’ombra degli oppressori, hanno paura della libertà,
perché essa, comportando l’esclusione di quell’ombra, esigerebbe che il vuoto
lasciato venisse riempito con un altro contenuto, quello della loro autonomia, della loro
responsabilità, senza la quale non sarebbero liberi.

Gli oppressi temono la libertà non si sentono capaci di correre il rischio di assumerla.
Anche perché lottare per essa costituisce una minaccia, non solo per gli oppressori
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che la usano come proprietari esclusivi, ma anche per i compagni oppressi, che si
spaventano all’idea di maggiori repressioni.

Vorrebbero essere ma hanno paura, sono sé stessi e sono l’altro, che si è introiettato
in loro, coscienza oppressiva, sono combattuti tra seguire prescrizioni e fare scelte,
tra essere spettatori e attori, tra parlare e non avere voce, uomini tagliati in due,
contraddittori, divisi (è questa l’ambiguità, il dualismo degli oppressi).

Questo è il tragico dilemma degli oppressi che la loro pedagogia deve affrontare.

Perciò la liberazione è un parto, un parto doloroso da cui nasce “l’uomo nuovo”

che diviene tale attraverso il superamento della contraddizione oppressori/oppressi,


che è poi l’umanizzazione di tutti.

“L’uomo nuovo”: non più oppressore, non più oppresso ma “l’uomo che libera se
stesso”.

È indispensabile alla lotta di liberazione degli oppressi che la realtà concreta di


oppressione non sia più per loro un “mondo chiuso”, in cui si genera paura della
libertà e da cui essi non possono uscire, bensì una situazione oggettiva che solo li
limita e che essi possono trasformare. È fondamentale che trovino in questo stesso
riconoscimento il motore della loro azione liberatrice.

Gli oppressi hanno bisogno di acquisire una “coscienza critica” dell’oppressione, e ciò
è possibile solo attraverso una prassi autentica che non è verbalismo(bla-bla-bla) né
attivismo, ma azione e riflessione degli uomini sul mondo per trasformarlo.

Il superamento della contraddizione oppressore/oppressi esige l’inserzione critica


degli oppressi nella realtà oppressiva, per cui oggettivandola, agiscono su di essa e la
trasformano.

L’oppressore teme questa inserzione critica degli oppressi, ciò che gli interessa è che
essi restino nello stato di immersione in cui generalmente si trovano, impotenti di
fronte alla realtà oppressiva, in una situazione limite che sembra loro insuperabile.

Per questi motivi la pedagogia dell’oppresso non può essere elaborata né praticata
dagli oppressori, ma solo dagli oppressi perché deve essere animata da generosità
autentica, essendo pedagogia umanistica e liberatrice.
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Ma come realizzare la pedagogia dell’oppresso prima della rivoluzione?

Dobbiamo distinguere: tra sistemi educativi (si possono cambiare solo con l’ascesa al potere)
e lavori educativi (vanno organizzati con gli oppressi nel processo della loro coscientizzazione)

la pedagogia dell’oppresso avrà due momenti distinti:

1) Il primo in cui gli oppressi scoprono il mondo dell’oppressione e si impegnano


nella prassi a trasformarlo;
2) Il secondo, in cui, una volta trasformata la realtà oppressiva,
questa pedagogia non è più degli oppressi ma
degli uomini in un processo di perenne liberazione.

L’atto di ribellione degli oppressi è violento quanto la situazione oppressiva che lo


genera ma mai nella storia, il processo di violenza è scoppiato per iniziativa degli
oppressi. Sono gli oppressori, gli sfruttatori a dare inizio alla violenza, non gli
oppressi, gli sfruttati.

Aprono la strada al disamore, non i disamati, ma coloro che non amano perché
amano solo se stessi.

Coloro che aprono la strada al terrore non sono i deboli, che lo subiscono, ma i
violenti che con il loro potere creano la situazione concreta in cui si generano gli
“straccioni del mondo”.

Gli oppressori però, accusano sempre gli oppressi di instaurare il disamore. Li


chiamano “questa gente”, “sovversivi”, “barbari” quando reagiscono alla violenza
degli oppressori.

L’atto di ribellione degli oppressi, pur essendo violento, può veramente instaurare
l’amore.

Gli oppressi quando lottano per “essere” e per strappare agli oppressori il potere
di opprimere e schiacciare, ricompongono l’umanità propria ma anche degli
oppressori.

Solo gli oppressi, liberandosi, possono liberare gli oppressori.


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Questi ultimi, in quanto classe che opprime, non liberano gli altri e non liberano se
stessi.

Nel momento però, in cui il nuovo potere rivoluzionario si indurisce come


burocrazia dominante si perde la dimensione umanistica della lotta e non si può
più parlare di liberazione. Ecco perché il superamento della contraddizione
oppressori/oppressi non consiste in un cambio di guardia.

Tuttavia, anche quando gli oppressi aprono la strada a una nuova realtà
liberatrice per tutti, gli oppressori di ieri non si riconoscono in via di liberazione.
Al contrario, nella nuova situazione si sentono oppressi. Qualunque restrizione a
tutti i loro privilegi in nome dei diritti di tutti, sembra loro una profonda violenza
fatta al loro diritto di persone.

Diritto a essere persone che, nella situazione precedente, essi non rispettavano in
quei milioni di persone che soffrivano e morivano di fame. Per loro, purtroppo,
soltanto essi sono persone umane, gli altri sono “quasi-cose”. Per loro, c’è solo un
diritto: il loro! a vivere il pace, contro il diritto degli oppressi a sopravvivere.

LA SITUAZIONE CONCRETA DI OPPRESSIONE E GLI OPPRESSORI

La situazione concreta dell’oppressione ha le sue origini in un atto di violenza cui


danno inizio coloro che sono al potere, violenza che si tramanda di generazione in
generazione tra gli oppressori.

Gli oppressori hanno una coscienza fortemente possessiva del mondo e degli
uomini.

Tendono a trasformare tutto ciò che li circonda in oggetti del loro dominio perché tutto
possono comprare: la terra, i beni, la produzione, gli uomini, il tempo.

Il denaro è la misura di tutte le cose.

Per loro vale “avere di più”, sempre “ di più”. Per loro “essere” e “avere”

E’ un diritto intoccabile che hanno conquistato con il loro sforzo, il “coraggio di


rischiare”.

Se gli altri “gli invidiosi” non possiedono è perché sono incapaci e pigri, sono nemici
potenziali, da tenere sempre sotto controllo.

Quanto più gli oppressi vengono controllati, tanto più sono trasformati in “cose”.
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Da qui la tendenza sadica che è una delle caratteristiche della coscienza


dell’oppressore: il piacere che nasce dal dominio completo su un altro essere.

Gli oppressori considerano l’umanizzazione un loro diritto esclusivo, quella degli


altri, la vedono come sovversione.

Gli oppressori sono necrofili, uccidono la vita nella misura in cui, per dominare,
frenano il potere di creare che caratterizza la vita.

LA SITUAZIONE CONCRETA DI OPPRESSIONE E GLI OPPRESSI

Prendiamo in considerazione un altro problema molto importante che è l’adesione alla


lotta degli oppressi da parte di alcuni rappresentanti del polo oppressore.

Questi passando dalla condizione di sfruttatori o di spettatori indifferenti al polo


degli sfruttati, quasi sempre portano con sé, il segno della loro origine.

Si tratta di pregiudizi, come ad esempio: la diffidenza nei riguardi del popolo.

Non credono che il popolo sia capace di pensare il giusto, di volere, di sapere.

Parlano del popolo ma non credono nel popolo.

E credere nel popolo è la premessa indispensabile al cambiamento rivoluzionario.

Questo passaggio deve essere una rinascita: coloro che “passano” non possono
restare come erano, non possono agire più come agivano.

Solo così potranno comprendere davvero i modi di essere e comportarsi degli oppressi
che riflettono le strutture del dominio che hanno subito.

Tra questi ad es. il loro dualismo esistenziale: gli oppressi “ospitano” l’oppressore, di
cui hanno introiettato l’ombra, sono al tempo stessi se stessi e l’altro.

Ne consegue che, finché non arrivano ad avere coscienza per sé, assumono
atteggiamenti fatalistici di fronte alla situazione concreta di oppressione in cui si
trovano. Citano il potere del destino, della sorte, trovano nella loro sofferenza la
volontà di Dio.

Essendo loro “immersi” nella situazione di oppressione non riescono a riconoscere


chiaramente “l’ordine” che serve agli oppressori. Si sentono frustrati e sfogano la
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loro rabbia aggredendo i loro stessi compagni (violenza orizzontale), i figli, la moglie,
bevendo.

A un certo momento della loro esperienza esistenziale, si verifica da parte degli


oppressi una attrazione irresistibile vs l’oppressore, il suo stile di vita, vogliono ad ogni
costo somigliare a lui, seguirlo, imitarlo. Ciò soprattutto negli oppressi della classe
media, la cui aspirazione è diventare uguali all’uomo illustre della classe superiore.
Fino ad arrivare alla dipendenza emotiva dall’oppressore che provoca
comportamenti necrofili cioè distruttivi della vita propria e dell’altro, pure lui
oppresso.

Un’altra caratteristica degli oppressi è l’autosvalutazione: a forza di sentirsi dire che


sono incapaci, che non sanno nulla, che non capiscono nulla, finiscono per
convincersi di questo. Loro non sanno e dovrebbero stare zitti, solo il dottore sa e si
deve ascoltare.

Credono nell’invulnerabilità dell’oppressore, nel suo potere, di cui dà sempre


testimonianza. Ciò soprattutto nelle campagne, e questo schiaccia gli oppressi, ne
sono così impauriti che difficilmente lottano.

Quando cominciano a constatare esempi della vulnerabilità dell’oppressore


cominciano a maturare in loro convinzioni opposte.

È necessario che prendano coscienza delle cause del loro stato di oppressione,
altrimenti accettano con fatalismo il loro sfruttamento, o peggio è probabile che
assumano posizioni passive, alienate di fronte alla lotta per la conquista della libertà
e della loro affermazione nel mondo.

Solo quando gli oppressi scoprono chiaramente l’oppressore che è in loro e si


impegnano nella lotta organizzata per la loro liberazione cominciano anche a credere
in sé stessi, superando tale “connivenza” con gli oppressori.

Tale scoperta non può essere fatta a livello intellettuale, ma di azione che associata ad
un serio impegno di riflessione diviene prassi.
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LIBERAZIONE NELLA COMUNIONE

La prima azione liberatrice da realizzare, a qualunque livello si trovi la lotta di


liberazione, è il dialogo critico e liberatore con gli oppressi.

Occorre aver fede nell’uomo oppresso, vederlo capace di pensare anche lui giusto.
Se questa fede manca abbandoniamo l’idea del dialogo, della riflessione e cadiamo
negli slogan, nei comunicati, nei depositi di idee.

L’azione politica fra gli oppressi deve essere in fondo azione culturale per la libertà,
quindi azione con loro. Bisognerà tener conto della loro dipendenza emotiva che
genera una visione non autentica del mondo, e tentare attraverso l’azione e la
riflessione, di trasformarla in indipendenza. Ma attenzione: la liberazione degli
oppressi se non è autoliberazione (perché nessuno si libera da solo) non è neppure
liberazione di alcuni fatta da altri, neppure da un gruppo di dirigenti ben
intenzionati.

L’azione che li libera non può usare lo stesso processo di quella che li deforma. Perciò
il cammino di un lavoro che liberi e che spetta ai leader della rivoluzione non sbocca
nella “propaganda liberazionista” ma nel dialogo con gli oppressi.

La convinzione degli oppressi di dover lottare per la propria liberazione non deve
essere una elargizione fatta loro dalla propaganda rivoluzionaria, ma il risultato della
loro coscientizzazione.

Gli oppressi devono lottare come uomini, come soggetti e non come cose.

Sono esseri distrutti proprio perché la situazione di oppressione in cui si trovano li ha


ridotti a cose. Per ricostruirsi è importante che superino la fase di “quasi-cose”. La
lotta per questa ricostruzione comincia nell’autoriconoscimento degli uomini
distrutti.

La propaganda, gli slogan, non sono la via, L’unica via possibile è la pratica di una
pedagogia umanizzante, in cui i leader rivoluzionari, invece di sovrapporsi agli
oppressi e di mantenerli nella condizione di “quasi-cose”, stabiliscano con loro un
permanente rapporto di dialogo.
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CAPITOLO SECONDO

LA CONCEZIONE DEPOSITARIA DELL’EDUCAZIONE

I rapporti educatore/educando, nella scuola o fuori di essa, si presentano


solitamente come rapporti narrativi, nozionistici.

Dove c’è un soggetto che narra, l’educatore e degli oggetti pazienti che ascoltano
educandi.

La narrazione, di cui l’educatore è il soggetto, conduce gli educandi a imparare a


memoria, meccanicamente, il contenuto narrato.

La narrazione li trasforma in vasi che l’educatore deve “riempire”.

L’educatore sarà tanto migliore quanto più sarà capace di “riempire” i recipienti con i
suoi depositi, e gli educandi saranno tanto migliori quanto più si lasceranno
docilmente “riempire”.

In tal caso si parla di educazione “depositaria”, che consiste nell’atto di depositare


contenuti.

Contenuti che sono veri e propri ritagli della realtà, sconnessi rispetto all’insieme da cui
hanno origine e in cui troverebbero significato. Contenuti che tendono a
fossilizzarsi.

In tale ottica, il sapere è un’elargizione di coloro che si giudicano sapienti, agli altri,
che essi giudicano ignoranti. Qui c’è una delle manifestazioni dell’ideologia
dell’oppressione: l’assolutizzazione dell’ignoranza, ovvero il fatto che l’ignoranza si
trova sempre nell’altro.

C’è rigidità nelle posizioni educatore/educando, i rapporti sono “verticali”:

l’educatore parla, gli educandi ascoltano

l’educatore educa, gli educandi sono educati

l’educatore crea la disciplina, gli educatori sono disciplinati

l’educatore sceglie, gli educandi seguono la sua prescrizione

l’educatore agisce, gli educandi hanno l’illusione di agire


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l’educatore è il soggetto del processo, gli educandi puri oggetti.

Il sapere non è “esperienza fatta” dagli educandi ma è “esperienza narrata”.

La contraddizione tra educatore/educandi non è superata anzi questo tipo di


educazione mantiene e stimola la contraddizione.

In questa educazione depositaria gli uomini sono visti come esseri destinati ad
adattarsi, maggiore è la passività loro imposta e più naturalmente si adatteranno al
mondo. È un educazione che soddisfa gli interessi degli oppressori, è utile a loro.

Essa non stimola veramente il pensiero, perché pensare autenticamente è molto


pericoloso. Non mira allo sviluppo di una coscienza critica, alla coscientizzazione
degli educandi, ne risulterebbe la loro inserzione nel mondo, si riconoscerebbero
soggetti in grado di trasformarlo.

Gli oppressori staranno tanto più in pace quanto più gli uomini saranno adeguati al
mondo; e tanto più preoccupati quanto più gli uomini interrogheranno il mondo.

L’educazione depositaria mira a controllare il pensiero, l’azione, a trasformare gli


uomini in “recipienti”, in “quasi-cose” , ( la coscienza stessa degli uomini è qualcosa
di vuoto da riempire) ma nel far questo li rende frustrati.

Quando gli uomini sentono la proibizione di agire, si scoprono incapaci di usare le


proprie facoltà soffrono e cercano di reagire. Come? Per es. sottomettendosi ad una
persona o a un gruppo, identificandosi con un leader carismatico e quindi
nell’esercizio del potere. Per le elite dominanti questa ribellione, che le minaccia,
trova la sua medicina in una dominazione ancora più forte, nella repressione fatta in
nome della restaurazione dell’ordine e della pace sociale.

CONCEZIONE “PROBLEMATIZZANTE” DELL’EDUCAZIONE E LA LIBERAZIONE

L’educazione che proponiamo a coloro che veramente si impegnano per la


liberazione non può basarsi su una concezione degli uomini come esseri “vuoti” che
l’educatore riempie di contenuti, ma su uomini come “corpi coscienti”.

Non può essere un’educazione depositaria ma problematizzante.

Essa è intenzionalità, rifiuta i comunicati e si basa sulla vera comunicazione.

Non è un atto di deposito ma un atto di conoscenza.


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Essa mira al superamento della contraddizione educatore/educandi.

Senza questo superamento non ci può essere dialogo.

Per mantenere la contraddizione, la concezione depositaria nega il dialogo come


essenza dell’educazione e diviene antidialogica; invece per realizzare il superamento
la concezione problematizzante riconosce il dialogo e si fa dialogica.

Nel dialogo avviene il superamento della contraddizione, non si parla più di


educatore dell’ educando ma con l’educando e viceversa.

L’educatore non è solo colui che educa, ma colui che mentre educa è educato nel
dialogo con l’educando, il quale a sua volta mentre è educato, anche educa.

In questo tipo di concezione l’oggetto conoscibile è il mediatore dei soggetti che


conoscono: educatore ed educandi.

Nella concezione depositaria, gli oggetti conoscibili sono posseduti dall’educatore. Ci


sono due momenti: il primo in cui egli realizza un atto di conoscenza di fronte
all’oggetto conoscibile, mentre prepara le sue lezioni in biblioteca; il secondo, in cui
di fronte agli educandi narra circa l’oggetto conosciuto. E il compito degli educandi è
solo custodire in archivio la narrazione o i depositi che l’educatore ha loro
consegnato. Ma così non si realizza né conoscenza, né cultura.

Nell’educazione problematizzante non si fa distinzione di questi due momenti.


L’oggetto conoscibile, non è più una proprietà per l’educatore ma argomento di
riflessione sua e degli educandi, i quali diventano ricercatori critici in dialogo con
l’educatore, il quale “rivede” l’oggetto presentato attraverso la re-visione degli
educandi.

Mentre la pratica depositaria inibisce il potere creatore degli educandi, quella


problematizzante comporta un atto di rivelazione della realtà, far emergere le
coscienze, da cui risulta la loro inserzione critica nella realtà.

Quanto più gli educandi dovranno affrontare problemi, tanto più si sentiranno
sfidati, e tanto più obbligati a rispondere alla sfida. La riflessione che questo tipo di
educazione stimola porta gli educandi a scoprirsi uomini in rapporto con altri uomini
e con il mondo, aumentano il campo della loro percezione.
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Nella pratica problematizzante gli educandi sviluppano la loro capacità di captare e


comprendere il mondo, che appare loro non più come realtà statica ma come un
processo.

La pratica depositaria insiste nel mantenere occulte le ragioni che spiegano come gli
uomini “sono in divenire” nel mondo, maschera la realtà con dei miti.

Quella problematizzante affronta la demitizzazione. La prima, asservita alla


dominazione, nega agli uomini la possibilità di crescere nella loro vocazione a
umanizzarsi. La seconda, a servizio della liberazione, si basa sulla creatività, sul
dialogo e stimola la riflessione e l’azione autentica dell’uomo sulla realtà e risponde
alla sua vocazione ad “essere di più”

L’UOMO COME ESSERE INCONCLUSO E RICERCA DI ESSERE DI PIU’

A differenza degli animali, che sono solo incompleti ma non sono storici, gli uomini
sanno di essere incompleti, hanno la coscienza della loro inconclusione, perché sono
“esseri in divenire” dentro una realtà, che in quanto storica e anch’essa incompleta e in
divenire. Nell’inconclusione degli uomini e nella coscienza che ne hanno si trovano le
radici dell’educazione, come fenomeno esclusivamente umano.

L’educazione è un “che fare” permanente.

Mentre la concezione depositaria mette in evidenza il permanere, quella


problematizzante dà forza al cambiamento. La prima comporta l’immobilismo e
diventa reazionaria, la seconda crede in un presente dinamico e diventa
rivoluzionaria ed è capace di speranza.

Mentre la prima mette in rilievo la percezione fatalista che gli uomini possono avere
della loro situazione, la seconda al contrario propone agli uomini la loro situazione
come problema. Gli uomini percepiscono la loro realtà come realtà non più
inesorabile ma storica, suscettibile di essere trasformata.

Il fatalismo cede il posto all’impeto di trasformazione e di ricerca, di cui gli uomini si


sentono soggetti. Questo movimento di ricerca si giustifica solo nella misura in cui è
diretto verso “l’essere di più”, verso l’umanizzazione degli uomini.

Questa vocazione non può realizzarsi nell’isolamento, nell’individualismo, ma solo


nella comunione, nella solidarietà. Per l’educazione problematizzante l’ importante è
che gli uomini sottomessi alla dominazione lottino per la propria emancipazione. I
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leader della rivoluzione non devono attendere di conquistare il potere prima di


applicare l’educazione problematizzante. Non possono infatti seguire la pratica
dell’educazione depositaria e illudersi di abbandonarla dopo essere arrivati al potere.

CAPITOLO TERZO

DIALOGICITA’ E DIALOGO

Visto che il dialogo è il fondamento dell’educazione problematizzante, facciamo


alcune riflessioni sull’essenza del dialogo che ci conducono alla parola, come
strumento che realizza il dialogo.

Nella parola possiamo cogliere due dimensioni: azione e riflessione, interconnesse.

Non esiste parola autentica che non sia prassi. Pronunciare la parola autentica
significa trasformare il mondo.

Se alla parola manca il momento dell’azione, ne viene sacrificata automaticamente


anche la riflessione e la parola diventa verbosità. È una parola vuota, non ci si può
aspettare la denuncia del mondo, che comporta impegno a trasformare e quindi
azione.

Se alla parola manca il momento della riflessione, la parola diventa attivismo, azione
per l’azione, si nega la vera prassi, rende impossibile il dialogo.

L’esistenza umana non può essere muta, silenziosa ma neppure nutrirsi di parole
false, bensì solo di parole vere con cui gli uomini trasformano il mondo.

E parlare non è privilegio di alcuni uomini ma diritto di tutti gli uomini.

Nessuno può parlare veramente da solo o per gli altri, rubando la parola ai più. Non
è possibile il dialogo tra coloro che negano ai più il diritto di parlare e coloro che si
trovano di fronte a questo rifiuto.

E’ necessario che questi riconquistino questo diritto e impediscano che questa


violenza disumanizzante continui.

Il dialogo è un’esigenza esistenziale, è incontro di uomini che danno un nome al


mondo, per trasformarlo, umanizzarlo.
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Il dialogo non si può ridurre all’atto di depositare idee da un soggetto nell’altro, né


diventare semplice scambio di idee, e neppure discussione polemica tra soggetti che
non si impegnano nella ricerca della comune verità, ma vogliono imporre la propria
verità.

Il dialogo è un atto creativo che due soggetti realizzano insieme per conquistare il
mondo per la liberazione dell’uomo.

Il suo fondamento è l’amore, un amore profondo per il mondo e per gli uomini.

Non si può verificare nel rapporto di dominazione, lì non c’è amore ma sadismo in
chi domina e masochismo in chi è dominato.

Solo sopprimendo la situazione di oppressione è possibile restaurare l’amore che in


essa era proibito.

Il dialogo richiede umiltà. Come posso dialogare se vedo l’ignoranza sempre


nell’altro? Se mi sento chiuso in una élite di uomini puri, padroni della verità e del
sapere e considero quelli fuori degli esseri “inferiori”? senza umiltà non posso
avvicinarmi al popolo.

“A priori” del dialogo c’è la fede negli uomini, nel loro potere di fare e rifare, creare,
nella loro vocazione a “essere più” che non è un privilegio di alcuni eletti ma diritto
degli uomini.

L’uomo dialogico, che è critico, sa che il potere degli uomini, di creare, di trasformare
può essere distrutto, negato in situazioni concrete. Questo tuttavia non gli fa perdere
la fede negli uomini, perché sa che tale potere può rinascere attraverso la lotta di
liberazione.

Quando il dialogo è fatto con amore, umiltà, fede negli uomini, crea un clima di
fiducia tra i suoi soggetti. La fiducia comporta testimonianza, perché non si può dire
una cosa e farne un’altra.

Neppure c’è dialogo se non c’è speranza, essendo il dialogo l’incontro degli uomini
per “essere di più”. Se la speranza manca l’incontro è sterile, vuoto.

La disumanizzazione che nasce dall’oppressione non può essere motivo per perdere
la speranza, ma anzi per farla crescere.
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Infine, non c’è dialogo vero se non esiste tra i soggetti un pensiero vero, un pensare
critico. Questo pensiero non accetta la dicotomia mondo/uomini e percepisce la
realtà come processo, non qualcosa di statico ma in costante divenire, in vista della
permanente umanizzazione degli uomini.

Senza pensiero critico non c’è comunicazione e quindi una vera educazione.

IL DIALOGO COMINCIA

NELLA RICERCA DEL CONTENUTO PROGRAMMATICO DELL’EDUCAZIONE

Il dialogo tra educatori ed educandi comincia non quando siamo in una situazione
pedagogica, ma piuttosto quando l’educatore si domanda su cosa dialogherà con
questi, quale sarà il contenuto programmatico dell’educazione.

Per l’educatore-depositante che è antidialogico, la domanda non si pone. A questa


domanda risponderà lui stesso, organizzando il suo programma. Per
l’educatore/educando che è dialogico, che problematizza la realtà, il contenuto
programmatico dell’educazione non è una elargizione, ma la restituzione
organizzata, arricchita agli individui di ciò che essi più desiderano sapere.

Il mondo origina visioni, punti di vista su di sé, da cui possono nascere temi
significativi, sulla base dei quali si costruirà il contenuto programmatico
dell’educazione.

Il contenuto di un programma di educazione, o di azione politica, può essere


organizzato solo a partire dalla situazione esistenziale, concreta. Il compito è
proporre al popolo, attraverso certe contraddizioni di fondo, la sua situazione
presente, come problema che, a sua volta, lo sfida ed esige da lui una risposta, non
soltanto a livello intellettuale ma di azione.

Mai fare dissertazioni astratte sulla situazione, e mai attribuirle contenuti che poco o
nulla hanno a che vedere con le aspirazioni, i dubbi, le speranze, i timori del popolo.
Timori di coscienza oppressa.

Il nostro compito non è parlare al popolo circa la nostra visione del mondo, o tentare
di imporgliela, ma dialogare con lui circa la sua e la nostra.

Molte volte educatori e politici parlano e non sono capiti perché il loro linguaggio
non è in sintonia con la situazione concreta degli uomini a cui si rivolgono.
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I dominatori agiscono sugli uomini addottrinandoli, per adattarli sempre di più ad una
realtà che deve rimanere intatta.

Purtroppo i gruppi di avanguardia rivoluzionaria, nel loro impegno per ottenere


l’adesione del popolo, cadono nell’errore di questo “racconto” del programma
elaborato al vertice, caratteristico della concezione depositaria.

Si avvicinano alle masse con progetti che possono corrispondere alla loro visione del
mondo, ma non necessariamente a quella del popolo.

Dimenticano che il loro obiettivo è lottare con i popolo per il recupero dell’umanità
rubata e non conquistare il popolo.

Un lavoro veramente liberatore è incompatibile con questa pratica. L’impegno degli


umanisti non può essere la lotta dei loro slogan contro gli slogan degli oppressori.
L’accostamento alle masse popolari non deve farsi per portare un messaggio
“salvifico” come contenuto da depositarsi, ma per conoscere nel dialogo con esse
l’oggettività in cui si trovano e la coscienza che ne hanno, la percezione di se stessi e del
mondo.

Il contenuto di un programma di educazione, quindi, non può essere una scelta


esclusiva degli educatori o dei politici, ma di loro e del popolo.

I RAPPORTI UOMINI/MONDO, I TEMI GENERATORI

E IL CONTENUTO PROGRAMMATICO DI QUESTA EDUCAZIONE

Prima di spiegare cosa si intende per “temi generatori”:

( temi che possono sdoppiarsi in altrettanti temi, che a loro volta provocano nuovi
compiti che devono essere realizzati).

è opportuno fare delle riflessioni sui rapporti UOMINI/MONDO E UOMINI/UOMINI.

Gli uomini sono gli unici esseri, tra quelli inconclusi, capaci di avere come oggetti della
propria coscienza non solo la propria attività, ma anche se stessi, e ciò li distingue
dagli animali, incapaci di separarsi dalla propria attività.

L’animale, è un essere “chiuso in sé”, a- storico, non può oggettivare se stesso, né la


sua attività, non possiede in sé la capacità di decisione, non può proporsi obiettivi,
vive “immerso” nel mondo, a cui non riesce a dare un significato, per lui il mondo è
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un semplice supporto, un habitat. Non avendo coscienza di sé, per l’animale, non
esiste un qui, un adesso, un ieri un domani, il suo vivere è determinismo totale.

Gli uomini, invece, poiché hanno coscienza della propria attività e del mondo in cui
stanno, e possono darsi degli obiettivi, prendere decisioni in rapporto con il mondo e
con gli altri, al contrario degli animali, non solo vivono, ma esistono e la loro
esistenza è storica.

L’animale non può oltrepassare i suoi limiti,

gli uomini, al contrario, proprio perché sono coscienza di sé e così del mondo,
possono farlo.

Gli uomini, separandosi dal mondo che oggettivano, separando la propria attività da
se stessi, avendo il punto di decisione della loro attività in se stessi, nei loro rapporti
col mondo e con gli altri, possono superare le “situazioni-limite”.

Queste non sono situazioni insuperabili oltre le quali nulla più esisterebbe, ma
dimensioni concrete e storiche di una certa realtà.

Situazioni che sfidano gli uomini che possono incidere su esse attraverso azioni dette
“atti-limite” dirette al loro superamento anziché alla accettazione passiva.

Non sono le situazioni- limite in sé che generano un clima di rinuncia alla speranza ma
la percezione che gli uomini ne hanno in un dato momento storico, come qualcosa
che non possono superare.

Nel momento in cui comincia la percezione critica, si sviluppa un clima di speranza e


di fiducia che porta gli uomini a impegnarsi nel superamento di tali situazioni.

E una volta superate con la trasformazione della realtà, ne sorgeranno di nuove, che
provocheranno altri “atti-limite” dell’uomo.

Nell’ambiente dell’animale, non esistono situazioni-limite e l’animale non può


esercitare “atti-limite” che comportano un atteggiamento di decisione davanti al
mondo, da cui l’essere si separa e oggettivandolo, lo trasforma con la sua azione. Per
l’animale il mondo è un supporto a cui esso si adatta.

Solo gli uomini sono esseri di prassi, che essendo riflessione e azione trasformatrice
della realtà, è fonte di conoscenza e creazione.
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Gli uomini creano non soltanto beni, materiali e immateriali, ma anche le istituzioni
sociali. Gli uomini creano la storia con la loro azione trasformatrice della realtà
obiettiva, perché sono esseri storico-sociali.

Gli uomini possono dare al tempo tre dimensioni (passato, presente, futuro), occorre
tener conto che la storia si svolge in un divenire permanente, in cui si concretano le
unità che corrispondono a ogni epoca.

Un’unità relativa a un’epoca è caratterizzata da un insieme di idee, concezioni,


speranze, dubbi, valori, sfide. La rappresentazione concreta di queste idee, valori
come pure gli ostacoli all’ “essere più” per gli uomini, costituiscono i temi dell’epoca.

Questi temi, ne comportano altri che sono i loro contrari, opposti, e indicano pure
compiti da realizzare, tutto ciò costituisce: l’universo tematico di un’epoca.

Di fronte a questo universo di temi che si contraddicono, gli uomini prendono le loro
posizioni, realizzando compiti a favore del mantenimento o del cambiamento delle
strutture.

Nel momento in cui una società vive un’epoca, la propria irrazionalità creatrice di
miti costituisce uno dei suoi temi fondamentali, che avrà come suo antagonista la
visione critica e dinamica della realtà.

I temi sono avvolti e avvolgono le “situazioni-limite”, finché non vengono percepiti


come tali, i compiti che a essi si riferiscono, cioè gli “atti-limite” non si realizzano.

In tal caso le “situazioni-limite” sono percepite come insuperabili, senza alternative,


solo quella di adattarsi ad esse. Gli uomini non arrivano a trascendere le “situazioni-
limite” e a scoprire al di là “possibilità ancora inedite di azione”.

Le situazioni- limite comportano l’esistenza di coloro a cui direttamente o


indirettamente servono (gli oppressori) e di coloro che esse negano o frenano(gli
oppressi).

Ecco che diventa importante per l’azione liberatrice di un dato contesto, essere in
rapporto sia con i temi generatori che con la percezione della situazione che gli
uomini hanno.

Come avviene la ricerca della tematica significativa?


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I temi generatori possono essere localizzati in circoli concentrici che vanno dal
generale al particolare.

Temi di carattere universale e via via temi continentali, nazionali, regionali ecc.

Come tema fondamentale della “nostra epoca”, si trova quello della liberazione, che
mette in rilievo il suo contrario, il tema della dominazione.

La situazione-limite del sottosviluppo, a cui è legato il problema della dipendenza, è la


caratteristica fondamentale del Terzo Mondo.

Dentro una stessa società, ci possono essere delle diversificazioni tematiche, nelle
aree e sotto-aree in cui essa si divide.

E questi temi talvolta possono essere sentiti, altre volte no o percepiti in forma
errata e ciò accade quando gli individui sono “immersi” nella situazione-limite, ne
afferrano solo dei pezzi della realtà in cui si trovano, mancando la comprensione
critica della totalità in cui si trovano, non la possono conoscere.

A questo mira l’educazione problematizzante: a proporre agli individui dimensioni


significative della loro realtà, la cui analisi critica renda poi possibile riconoscere
l’interazione tra le parti, percepirle come dimensioni di totalità. Ne consegue un
nuovo atteggiamento, critico, di fronte alle “situazioni-limite”.

La ricerca del tema generatore, se è realizzata con una metodologia


“coscientizzatrice” comincia a inserire gli uomini in una forma critica di pensare il
loro mondo.

Solitamente la situazione in cui si trovano gli uomini, appare loro, come qualcosa di
opaco che li avvolge.

Allora la ricerca parte dall’analisi di una situazione esistenziale concreta, che viene
prima “codificata”in modo da mettere in rilievo l’interazione tra gli elementi che la
costituiscono (passaggio dal concreto all’astratto) e poi “decodificata” cioè analizzata
criticamente (passaggio dall’astratto al concreto).

Esempio: viene presentata a un gruppo di individui una situazione esistenziale


“codificata”

(un disegno o una fotografia che rimanda alla loro situazione), gli individui tendono a
realizzare una specie di “taglio” nella situazione che si presenta loro. Taglio che nella
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pratica della decodificazione corrisponde al momento della “descrizione della


situazione”.

Riepilogando: gli individui avevano una conoscenza confusa del tutto in cui erano
“immersi”, si mostra loro una situazione codificata (foto, disegno, una
rappresentazione di una situazione esistenziale) che rimanda alla loro situazione
concreta, avviene il “taglio” (il tutto viene tagliato e si scopre l’interazione tra le
parti) è la tappa durante la decodificazione chiamata “descrizione della situazione”.

Quel tutto che prima si conosceva in modo confuso, dopo questo taglio, in cui si
analizza la situazione in tutte le sue componenti e le loro interazioni, non appare più un
vincolo senza uscita, ma per quello che in realtà è: una sfida a cui gli uomini devono
rispondere.

Durante tutte le tappe della decodificazione gli uomini esteriorizzano la loro visione
del mondo, la loro maniera di pensarlo, la loro percezione fatalista delle “situazioni-
limite” da qui emergono temi generatori.

Ma può anche accadere che un gruppo di individui non arrivi ad esprimere


concretamente una tematica generatrice, non perché non c’è, ma perché di fronte
alla forza schiacciante di alcune situazioni-limite gli individui reagiscono con il
mutismo, è una forma di adattamento: il tema del silenzio.

Il tema generatore non si trova negli uomini isolati dalla realtà e neppure nella realtà
isolata dagli uomini, ma solo nei rapporti uomini/mondo.

Ed è indispensabile che alla ricerca del tema generatore partecipino fin da subito sia
gli uomini che ricercano sia gli uomini del popolo, devono avere parte attiva nella
ricerca. Perché mentre esplicitano la tematica significativa, tanto più
approfondiscono la loro presa di coscienza della realtà, tanto più se ne appropriano.

Durante la ricerca della tematica significativa occorre sempre tener presente che le
aspirazioni, i motivi, gli obiettivi collegati ad essa, sono umani e quindi in divenire.
Per cui il ricercatore può afferrare il punto di partenza, il modo in cui gli individui
considerano la situazione e poi verificare se, durante il processo, si è osservata o no
qualche trasformazione nel loro modo di percepire la realtà.

Ma attenzione! e questo è il rischio della ricerca: il centro della ricerca è la tematica


significativa e non sono gli uomini stessi, per non trattarli come cose e farne oggetto
di ricerca.
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Ricercatori e individui devono collaborare insieme alla ricerca della tematica


significativa, come soggetti attivi del processo.

La ricerca tematica è un processo di indagine, di conoscenza, che esige dai suoi


soggetti che essi scoprano la interpenetrazione dei problemi.

La ricerca diverrà tanto più pedagogica quanto più sarà critica, e sarà tanto più critica
quanto più si definirà nella comprensione dell’insieme e non in visioni parziali della
realtà. Cercando di far scaturire una problematica dagli stessi temi, nel vincolo con altri
temi, attraverso derivazioni storico-culturali.

Nella ricerca della tematica significativa non sono i ricercatori a elaborare piste di
ricerca nell’universo tematico a partire da punti prefissati da loro stessi, perché non
sono loro i soggetti esclusivi della ricerca.

La ricerca è un’operazione “simpatica”, come l’educazione, a cui essa serve.

In cui ricercatori professionale e popolo sono entrambi soggetti del processo di


ricerca del tema generatore. Tale ricerca deve strutturarsi come comunicazione,
come un sentire comune circa una realtà che va considerata come complessità di un
permanente divenire, cioè né in modo parziale, né come oggetto statico.

LA RICERCA DEI “TEMI GENERATORI” COME FATTORE DI COSCIENTIZZAZIONE

Gli uomini sono esseri “in situazione” cioè radicati in condizioni temporali e spaziali, da
cui ricevono e a cui danno un’impronta.

Solo quando la situazione in cui vivono, smette di sembrare loro una realtà opaca
che li avvolge, di nebuloso, un vicolo cieco che li angoscia,

solo quando attraverso la riflessione, il pensiero critico, arrivano a percepirla come


situazione oggettivo-problematica può cominciare il loro impegno per cambiarla.

Si passerà dall’immersione nella realtà, all’emersione grazie alla presa di coscienza


della situazione in cui si è. Poi si arriverà ad una fase più avanzata: l’inserimento nella
realtà che si va rivelando e comporta un approfondimento della presa di coscienza,
ovvero la coscientizzazione.

La ricerca della tematica deve essere coscientizzatrice per essere pedagogica e ogni
educazione autentica deve essere indagine del pensiero del popolo. Quanto più
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ricerco con il popolo il suo pensiero, tanto più ci educhiamo insieme e più ci
educhiamo più continuiamo a ricercare.

Nella educazione depositaria, che è chiusa al dialogo e non comunicativa,


l’educatore elabora, o qualcuno per lui, il contenuto dei programmi di educazione, e
lo deposita nell’educando.

Nella educazione problematizzante, questo contenuto si costituisce con gli educandi


partendo dalla realtà concreta in cui vivono, dalla loro visione del mondo, cercando
con loro i temi generatori e il loro pensiero, e si rinnova e ingrandisce perché sia gli
uomini che la realtà sono “in divenire”.

Il compito dell’educatore consiste nell’elaborare in una équipe interdisciplinare


l’universo tematico raccolto nell’indagine, per restituirlo come problema agli uomini da
cui l’ha ricevuto, non come elargizione.

Nella tappa dell’alfabetizzazione l’educazione problematizzante ricerca la “parola


generatrice”, nella post-alfabetizzazione ricerca “il tema generatore”.

Nella visione liberatrice dell’educazione, il contenuto dei programmi non è l’insieme


degli obiettivi da imporre al popolo, ma il riflesso delle sue aspirazioni e speranze,
parte e nasce dal popolo, in dialogo con gli educatori.

La ricerca tematica è il punto di partenza del processo educativo, ne deriva che la


metodologia di questa ricerca deve essere coscientizzatrice per gli uomini che vi
partecipano.

ESEMPIOO CHE FARE SE DOBBIAMO COORDINARE UN PIANO DI EDUCAZIONE DI


ADULTI IN UN’AREA RURALE, CON ALTO TASSO ANALFABETISMO?

In primo luogo: Il piano includerà l’alfabetizzazione e la post-alfabetizzazione.

Poi: ricerca dei temi “generatori” e della tematica significativa.

I ricercatori partono dal delimitare l’area di lavoro, e già ci sono rischi e difficoltà.

Poi devono trovare un numero significativo di persone che accetti una conversazione
spontanea con loro, per poter esporre gli obiettivi della loro presenza nell’area,
diranno il perché, il come della ricerca, affermando che non potranno realizzarla se
non si stabilirà un rapporto di simpatia e fiducia reciproche.
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Nel caso un gruppo di persone accetti la riunione e aderisca alla ricerca e al processo
che ne segue, i ricercatori stimoleranno i presenti, in modo che emergano tra questi
chi vuole partecipare alla ricerca come ausiliari, cioè come volontari per una
presenza attiva nella ricerca e per raccolta dati.

Poi i ricercatori cominciano le loro visite all’area, in modo autentico, mai forzato,
come osservatori che operano in sim-patia con il popolo, con atteggiamenti
comprensivi vs ciò che osservano.

L’unica cosa che si esige dai ricercatori è la percezione critica della realtà:
visualizzando l’area di studio come una totalità, tenteranno, in ogni visita di
realizzarne il “taglio”, nell’analisi delle dimensioni parziali che li colpiscono. Questi
tagli servono per comprendere meglio l’interazione delle parti, per poi tornare alla
totalità (tappa della codificazione).

La decodificazione comporta diverse fasi:

prima fase: i ricercatori o osservano direttamente certi momenti di esistenza


dell’area o hanno dialoghi spontanei con i suoi abitanti, in ogni caso dovranno
registrare nel loro taccuino di appunti. Tenendo conto anche delle cose
apparentemente poco importanti: come conversano, come si comportano nel lavoro,
nel culto religioso, il loro linguaggio, le espressioni usate, le parole (indicano la
forma di costruire il pensiero).

L’osservazione e le conversazioni dell’aria di studio vanno fatte in luoghi pubblici e in


momenti distinti, di lavoro, di svago, riunioni, attività sportive, partecipazione
donne, dei giovani, ma anche nelle loro case per notare i rapporti moglie/marito,
genitori/figli per ottenere una comprensione iniziale e il più possibile completa
dell’area.

I ricercatori devono redigere una piccola relazione a proposito di ognuna di queste


visite e il contenuto sarà discusso dall’équipe in momenti di seminario, presenti sia i
ricercatori che gli ausiliari che rappresentano il popolo.

seconda fase: le riunioni in cui i partecipanti, uno dopo l’altro, espongono come
hanno percepito e sentito un dato momento che li ha maggiormente impressionati,
e l’esposizione di ognuno provoca gli altri a rivedere la loro precedente maniera di
oggettivare la realtà.
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La suddivisione del tutto e la sua ricostruzione con il contributo delle esperienze di


ciascuno offre una nuova analisi dei ricercatori, nuovo seminario per ponderare e
criticare i risultati a cui partecipano sempre i ricercatori e i rappresentanti del
popolo, in questo modo ci si avvicina ai nuclei centrali delle contraddizioni principali
e secondarie in cui si trovano prigionieri gli individui dell’area.

Queste contraddizioni costituiscono le “situazioni-limite” da cui deriveranno i temi e


i compiti.

E’ fondamentale studiare il livello di percezione in cui si trovano gli individui dell’area


circa le contraddizioni della società, la “coscienza reale”.

Se gli individui si scoprono “aderenti” a queste situazioni, nell’impossibilità di


separarsene, il loro tema sarà il fatalismo e il compito sarà non avere un compito.

A livello di coscienza reale, gli uomini si trovano limitati nella possibilità di percepire
oltre le “situazioni-limite”, quelle che chiamiamo “possibilità ancora inedite di
azione”.

La seconda parte dell’indagine comincia quando i ricercatori, sempre i èquipe,


sceglieranno alcune di queste contraddizioni con cui saranno elaborate le
codificazioni che serviranno alla ricerca tematica.

Queste codificazioni solitamente sono disegnate o fotografate e devono


rappresentare situazioni conosciute dagli individui dell’area di studio, perché
possano riconoscersi in esse.

Occorre che queste codificazioni rappresentino contraddizioni e ne includano altre,


siano cioè capaci di aprirsi “a ventaglio”: via via che i soggetti fanno cadere su di esse
la loro riflessione critica esse si aprano nella direzione di altri temi, consentendo di
percepire i rapporti dialettici che esistono tra ciò che rappresentano e i loro contrari.

Nella terza fase dell’indagine, i ricercatori tornano all’area di ricerca per iniziare i
dialoghi che decodificano, attraverso i “circoli di ricerca tematica” che sono quelli
dove si ricerca la tematica significativa.

I circoli sono formati da un massimo di 20 persone, vi partecipa circa il 10% della


popolazione dell’area di studio. In essi si decodifica il materiale elaborato nella tappa
precedente, si registrano le discussioni, che saranno poi analizzate da una equipe
interdisciplinare, sempre presenti gli ausiliari della ricerca ovvero i rappresentanti del
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popolo. A queste riunioni partecipano anche due specialisti, uno psicologo e un


sociologo, che prendono nota delle reazioni più significative o apparentemente poco
significative dei soggetti che lavorano nella decodificazione. Il ricercatore ascolta gli
individui e ha il compito di provocarli sempre di più, sollevando problemi sulla
situazione esistenziale codificata e le risposte che nascono dal dialogo. In questo
modo i partecipanti manifestano una serie di sentimenti, opinioni su sé stessi, sugli
altri, sul mondo che altrimenti non manifesterebbero.

La fase finale consiste nell’analisi della tematica scoperta e si estende


all’organizzazione del contenuto dei programmi per una azione educativa liberatrice.

Questa ultima tappa comincia quando i ricercatori, terminate le decodificazioni nei


circoli, cominciano lo studio sistematico e interdisciplinare delle loro scoperte.

Ascoltano le registrazioni, studiano le note prese dallo psicologo e dal sociologo,


cominciano a organizzare i temi espliciti o impliciti nelle affermazioni fatte nei circoli.

Temi che vengono classificati in un quadro generale di scienze: il tema dello sviluppo
è del dominio dell’economia, anche se non ci sono compartimenti stagni, per cui può
ricevere l’apporto della sociologia, antropologia, psicologia sociale, scienza politica.

Fatta la delimitazione tematica, spetterà ad ogni specialista, in ogni settore,


presentare all’équipe interdisciplinare il progetto di “riduzione” del proprio tema, cioè
si cercano i nuclei fondamentali, che sono elementi parziali, per conoscerlo meglio e
poi si riconsidera come totalità.

L’equipe può riconoscere la necessità di proporre alcuni temi fondamentali anche se


non sono stati suggeriti dal popolo nella fase della ricerca: “temi-cardine” che
possono facilitare la comprensione del rapporto tra due temi o dei rapporti tra il
programma elaborato e la visione del mondo che il popolo possiede (es. il concetto
antropologico di cultura).

A questo punto fatta la “riduzione tematica” si passa alla codificazione, cioè alla
ripresa della totalità, per cui si deve scegliere il miglior canale di comunicazione per
questo o quel tema ridotto e la sua rappresentazione.

Si può usare un canale visuale (pittorico-grafico) o una molteplicità di canali.

Si confeziona il materiale didattico (tenendo conto se gli individui hanno o meno


esperienza di lettura) :usando foto, diapositive, filmini, cartelloni, testi, interviste agli
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specialisti con linguaggio accessibile, piccole rappresentazioni teatrali, lettura e


discussione di articoli di giornale, discussioni partendo da una citazione.

Preparato tutto questo materiale, l’équipe degli educatori sarà pronta a restituirla al
popolo, allargata e organizzata. Tematica che da lui ha origine e a lui ritorna sotto
forma di problemi e mai di contenuti da depositare.

A questo punto gli educatori presenteranno al popolo il programma in cui si


riconoscerà perché è uscito da lui.

Spiegheranno il perché e il significato dei temi-cardine che sono partiti dagli educatori.

Se non si dispone di mezzi per la ricerca tematica preliminare fatta in questi termini,
come fare?

Gli educatori possono scegliere alcuni temi di fondo, introduttivi e aprire la ricerca
tematica. Uno di questi è il concetto antropologico di cultura, sia per i contadini che
per gli operai, l’inizio delle discussioni che portano alla ricerca della conoscenza è
costituito dalla discussione di questo concetto. Emerge il loro livello di conoscenza
della realtà, cui sono impliciti vari temi. Tale discussione può fornire vari aspetti di un
programma educativo. Gli educatori possono successivamente chiedere: “quali altri
argomenti potremmo discutere oltre questo? ”prendono nota della risposta e la
ripropongono al gruppo in forma di problema, sorgono così altri temi e gli uomini
coinvolti in questi “circoli di cultura” si sentono soggetti del loro pensare, della loro
visione del mondo manifestata nei loro suggerimenti e in quelli dei loro compagni.
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CAPITOLO QUARTO

DIALOGO E ANTIDIALOGO

Questo è un capitolo di approfondimento per cui ritorneremo su temi già trattati per
spiegarli meglio:

- uomini sono esseri di prassi


- dialogare con le masse
- pensare con le masse
- mito dell’ignoranza delle masse
- rivoluzione liberatrice, come processo, pedagogica, rivoluzione culturale

Gli uomini sono esseri di prassi, del “che fare”, mentre gli animali sono esseri
del puro “fare”.
Gli animali vivono immersi nel loro mondo, nel “supporto” che corrisponde ad
ogni specie animale. Gli uomini, al contrario,ne emergono e oggettivandolo,
possono conoscere il mondo e trasformarlo con il loro lavoro.
Gli uomini sono esseri del “che fare” che è azione e riflessione ( che non sono
momenti distinti ma simultanei), cioè prassi.
Il fare dell’uomo deve avere una teoria che necessariamente lo illumini, per
questo si parla di prassi che è teoria e pratica insieme.
Anche Lenin diceva: “senza teoria rivoluzionaria, non ci può essere movimento
rivoluzionario”.
Freire dice: non si fa la rivoluzione solo con il verbalismo, o solo con
l’attivismo, ma con la prassi cioè la riflessione e l’azione che consentono di
trasformare il mondo.
Nella rivoluzione autentica e liberatrice, non è possibile che la leadership
considerino sé stesse uomini del “che fare” e le masse oppresse uomini del
puro “fare”.
Questo è l’atteggiamento che hanno le élite dominanti che mirano al
mantenimento della situazione di oppressione.
Non è possibile che la leadership rivoluzionaria consideri gli oppressi puri e
semplici esecutori delle sue determinazioni, attivisti cui si neghi la riflessione
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sul proprio fare. In tal caso, gli oppressi continuerebbero ad essere manipolati
e proprio da coloro che non dovrebbero farlo.
Quindi la manipolazione, la riduzione a slogan dell’impegno rivoluzionario, il
“deposito”, la prescrizione non possono essere elementi costitutivi della prassi
rivoluzionaria. Proprio perché lo sono della classe dominante.
Per dominare, gli oppressori negano alle masse popolari la vera prassi, negano
il diritto a parlare, a pensare giusto. Le masse devono adattarsi alla realtà che
serve al dominatore. Perciò il “che fare” di costui non può essere dialogico,
formulatore di problemi.
Di contro, il “che fare” della leadership rivoluzionaria deve essere dialogico
con le masse, deve problematizzare i rapporti degli uomini con il mondo e
degli uomini tra loro.

Il dialogo è indispensabile tra la leadership e le masse oppresse affinché si


sentano soggetti attivi nella rivoluzione che è il cammino vs il superamento della
situazione di oppressione in cui si trovano.
Il dialogo con le masse è un’esigenza radicale di ogni rivoluzione autentica, la
sua legittimità si trova in questo dialogo.
Se la leadership facesse la rivoluzione per le masse e non con esse, le masse
verrebbero trascinate al processo con gli stessi metodi usati per opprimerle e
manterrebbero la loro ambiguità (metà se stesse e metà oppressore) per cui
avrebbero solo l’impressione di essere arrivate al potere.

Attenzione: gli oppressori “penetrando negli oppressi”, si ospitano in loro.


I rivoluzionari, nella prassi con gli oppressi devono “sfrattare” l’oppressore, per
convivere con gli oppressi e non per vivere dentro di loro.

Questo dialogo risponde, poi, a un’altra esigenza radicale, quella degli uomini
alla comunicazione. Ostacolare la comunicazione significa trasformarli in cose,
e questo è compito e obiettivo degli oppressori e non dei rivoluzionari.
Alcuni pensano, a volte con retta intenzione, che poiché il processo dialogico è
lento (il che non è vero) si deve fare la rivoluzione senza comunicazione,
attraverso comunicati, e dopo che si è fatta, allora svolgere un ampio sforzo
educativo. Anche perché dicono, non è possibile fare educazione prima della
presa del potere: educazione liberatrice.
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Allora, evitare il dialogo col popolo in nome della necessità di organizzarlo, in


fondo significa temere la libertà, temere il popolo, non credere in lui.
Ma se la rivoluzione non crede nel popolo e se lo teme, essa perde la sua
ragione d’essere.
La rivoluzione non può essere fatta dalla leadership per il popolo, né dal
popolo per la leadership, ma da ambedue, in una solidarietà che non si può
rompere e che comporta agire e pensare con le masse.

Se la leadership rivoluzionaria nega loro questo pensare, che è riflessione


critica sulla realtà oppressiva, si troverà anch’essa senza pensare o almeno
senza pensare il giusto.
Chi può pensare senza le masse è l’élite dominante, che per mantenere il
potere, non solo non pensa con loro (verrebbe meno l’antagonismo) ma cerca
in tutti i modi di impedire che le masse pensino.
Questo non può farlo la leadership rivoluzionaria, se questa non pensa con le
masse si esaurisce e muore.

Altro compito della leadership rivoluzionaria è denunciare il mito che fa


dell’ignoranza un assoluto.
Chi riconosce gli altri come assolutamente ignoranti, riconosce sé stesso e la
sua classe come coloro che sanno o sono nati per sapere. Gli altri diventano
un opposto. La sua parola viene a essere quella “vera” che impone o cerca di
imporre ai più, ovvero gli oppressi a cui la parola è rubata.
Chi ruba la parola degli altri, in fondo li considera incapaci.
E tanto più parla, impedendo agli altri di farlo, tanto più esercita il potere e il
gusto di comandare, di dirigere.
La leadership rivoluzionaria non può ammettere che solo lei sa e può sapere,
equivarrebbe a non credere nelle masse popolari. Anche se è legittimo
riconoscersi a un livello di sapere rivoluzionario, diverso dal livello di
conoscenza “naturale” delle masse, non può sovrapporre a questo il suo
sapere.
La leadership rivoluzionaria deve presentare agli oppressi, in termini di
problema, non solo questo mito, ma tutti quelli di cui si serve l’élite oppressiva
per soffocarli.
Se non fa questo, e imita i metodi degli oppressori, le masse possono dare due
risposte: o si lasciano “addomesticare” da un nuovo contenuto depositato in
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loro dai rivoluzionari, o si spaventano di fronte alle loro parole (che minacciano
l’oppressore che è in loro). In ogni caso non diventano rivoluzionari.
Ma la rivoluzione autentica ha carattere pedagogico, di una pedagogia che
formula problemi e non deposita contenuti, neanche quelli della leadership
rivoluzionaria.
E’ questo è un mezzo efficace per evitare che il potere rivoluzionario si
istituzionalizzi, si crei una burocrazia controrivoluzionaria, perché la
controrivoluzione è caratteristica anche dei rivoluzionari che diventano
reazionari.
La rivoluzione è un processo nel quale la conquista del potere è solo un
momento, sebbene decisivo, ma rientra in un cammino di liberazione che si fa
con gli oppressi, soggetti attivi, attraverso la prassi: riflessione e azione con
loro.
In tutte le sue fasi, La rivoluzione comporta dialogo con le masse, apertura e non
chiusura fronte alle masse popolari ed è sempre rivoluzione culturale.

C’è sempre una TEORIA alla base,


e dell’Azione Rivoluzionaria e dell’Azione Oppressiva,
ma le caratteristiche sono diverseO

CARATTERISTICHE della TEORIA AZIONE RIVOLUZIONARIA


Nella teoria dell’azione rivoluzionaria,
gli attori (leader e oppressi),
nell’intersoggettività e nella intercomunicazione,
fanno ricadere la loro azione su un oggetto che è la realtà mediatrice
e hanno per obiettivo l’umanizzazione degli uomini, attraverso la
trasformazione di questa realtà.

CARATTERISTICHE della TEORIA DELL’AZIONE OPPRESSIVA

Nella teoria dell’azione oppressiva,


gli attori (oppressori),
che è anti-dialogica,
hanno come oggetto della loro azione la realtà e gli oppressori (come cose)
e come obiettivo il mantenimento dell’oppressione.
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TEORIA DELL’AZIONE ANTIDIALOGICA e caratteristicheO

- la conquista
- dividere per dominare
- la manipolazione
- l’invasione culturale

LA CONQUISTA

Ogni atto di conquista comporta un soggetto che conquista e un oggetto


conquistato. Le forme di conquista possono essere diverse dalle più dure
alle più sottili.

Il primo stabilisce i suoi obiettivi nei confronti dell’altro, che diviene


oggetto posseduto e gli da forma.

Il conquistato, accogliendo dentro di sé il conquistatore, diviene un essere


ambiguo, che ne ospita un altro.

L’azione di conquista, rendendo gli uomini cose, è antidialogica e necrofila


perché uccide la vita.

La conquista è una necessità che accompagna l’azione antidialogica in tutti


i suoi momenti.

L’antidialogo si impone all’oppressore, nella situazione obiettiva di


oppressione, per opprimere di più attraverso la conquista, e non solo
economicamente, ma culturalmente, rubando all’oppresso conquistato la
sua parola, la sua capacità di esprimersi, la sua cultura.

Gli oppressori si sforzano di uccidere negli uomini la loro condizione di


“esseri che oggettivano il mondo”. Per questo mitizzano il mondo. Gli
oppressori mettono in moto una serie di risorse per mostrare alle masse
conquistate un falso mondo. Un mondo di inganni che, alienandole sempre
di più, le mantenga passive.

Nell’azione di conquista quindi, non è possibile presentare il mondo come


problema, ma piuttosto come un dato, qualcosa di statico a cui gli uomini
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devono adattarsi. E non si utilizza la comunicazione ma i “comunicati”,


attraverso il deposito dei miti indispensabili a mantenere lo status quo.

Per es: il mito che l’ordine oppressivo è un ordine liberatore. Che tutti sono
liberi di lavorare dove vogliono, che se un lavoro non va bene, lo possono
lasciare e trovare un altro impiego. Il mito che tutti, purché non siano pigri
possono arrivare ad essere imprenditori.

Il mito dell’uguaglianza di tutti, il mito del diritto di tutti all’educazione,


quando il numero di brasiliani che riescono a frequentare le scuole
elementari è irrisorio e ancor meno quelli che riescono a restarci.

Il mito che le élite dominanti mantengono l’ordine che incarna “la civiltà
occidentale e cristiana” che essi difendono contro la barbarie. Il mito della
loro carità e generosità, mentre si tratta solo di assistenzialismo e falsi aiuti.

Il mito della proprietà privata come fondamento dello sviluppo della


persona umana (considerando persone solo gli oppressori), il mito
dell’operosità degli oppressori e la pigrizia e disonestà degli oppressi.

Della superiorità di quelli e dell’inferiorità di questi.

Tutti questi miti, attraverso la propaganda, gli slogan, i mezzi di


comunicazione di massa, diventano fondamentali per conquistare le masse
popolari.

DIVIDERE PER DOMINARE

Nella misura in cui le minoranze, sottomettendo le maggioranze al loro


dominio, le opprimono, dividerle e mantenerle divise è condizione
indispensabile alla continuità del loro potere.

Ecco perché gli oppressi frenano immediatamente, usando anche la


violenza fisica, qualunque azione che tenda a risvegliare le classi oppresse
affinché si uniscano.

Concetti come, unione, organizzazione, lotta, sono subito classificati come


pericolosi, ed effettivamente lo sono ma per gli oppressori, essendo una
minaccia alla loro egemonia.
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Ciò che interessa agli oppressori è indebolire gli oppressi, isolandoli,


creando o aumentando le divisioni tra loro, per questo usano diversi
metodi: dai metodi repressivi della burocrazia statale fino alle forme di
azione culturale per mezzo delle quali maneggiano le masse popolari.

Es: focalizzando i problemi, mostrando aspetti parziali, invece di mettere in rilievo che
sono dimensioni di una totalità, accentuando una maniera di esistere propria delle
masse oppresse, soprattutto rurali, che consiste nel percepire un particolare come se
fosse visione d’insieme. Ciò rende sempre più difficile la percezione critica della realtà
e mantiene gli oppressi isolati dalla problematica di altri oppressi di altre aree.

La necessità di dividere per mantenere la situazione oppressiva si manifesta in tutte le


azioni della classe dominante: la sua interferenza nei sindacati, favorendo alcuni
sindacalisti piuttosto che altri, promuovendo alcuni leader delle masse che
potrebbero costituire una minaccia ma che “promossi” si smussano.

La distribuzione di benessere per alcuni e di durezza per altri.

Uno dei punti deboli degli oppressi è la loro insicurezza vitale, gli oppressi sanno per
esperienza come costa caro non accettare l’invito che ricevono, min comporta
perdita dell’impiego e il loro nome in una “lista nera” che significa porte chiuse a un
eventuale nuovo impiego.

La divisione delle masse oppresse è necessaria alla conservazione dello status quo,
quindi alla preservazione del potere dei dominanti, ma allora è nec che gli oppressi
non percepiscano chiaramente questo gioco.

Per cui, i dominanti pretendono di apparire come salvatori degli uomini, che invece
spingono verso la disumanizzazione (il loro vero intento è salvare se stessi, la loro
ricchezza, potere), conquistano le masse convincendole di difenderle dai “ marginali
teppisti”, nemici di Dio, come vengono presentati coloro che ricercano con rischio e
coraggio l’umanizzazione degli uomini.

LA MANIPOLAZIONE

Altra caratteristica dell’azione antidialogica è la manipolazione delle classi oppresse.


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Essa è uno strumento di conquista delle masse popolari. Quanto più esse, rurali o
urbane, sono politicamente immature, tanto più facilmente si lasciano manovrare
dalle élite dominanti. La manipolazione si fa attraverso i miti di cui abbiamo parlato.
Tra questi ancora uno: il modello che la borghesia offre di sé stessa alle masse, come
possibilità di ascesa per loro. Per riuscire in questo è nec che le masse accettino la
sua parola.

Molte volte questa manipolazione si verifica attraverso patti tra classi dominanti e
masse dominate. Non si tratta di dialogo, questi patti sono mezzi di cui si servono i
dominanti per raggiungere i loro scopi.

Solitamente, i patti vengono fuori solo quando le masse emergono nel processo
storico, minacciando le élite dominanti, queste spaventate, ricorrono ad essi per
mantenere la dominazione.

Le masse popolari, che sono emerse o che stanno emergendo, hanno due possibilità:

sono manovrate dalle élite per mantenere la dominazione e giungono ad una


“organizzazione” non autentica o si organizzano veramente per la loro liberazione.

Solo quando le masse uniscono alla loro emersione, un pensare critico sul processo
storico, sulla loro realtà, allora la minaccia che esse rappresentano si concretizza
nella rivoluzione. E le élite dominanti lo sanno, per questo usano tutti i mezzi, anche
la violenza fisica, per proibire che le masse pensino.

Nella misura in cui le élite dominanti insistono nella manipolazione, iniettano negli
individui l’appetito borghese del successo personale.

Questa manipolazione si fa a volte direttamente, attraverso queste élite, a volte


attraverso i leader “populisti” che sono mediatori nei rapporti tra le élite dominanti e
le masse popolari, per questo sono esseri ambigui.

Questi leader servono poco o nulla la causa della rivoluzione, tranne quando e se il
leader populista sceglie le masse e supera il carattere ambiguo, rinunciando alle
manovre a favore della vera organizzazione delle masse. E in tal caso le elite
cercheranno di frenarlo il più rapidamente possibile.

Altrimenti, finché il leader si mantiene nell’ambito delle forme paternalistiche,


dell’assistenzialismo, ci possono essere differenze accidentali tra lui e i gruppi
oligarchici, feriti nei loro interessi, ma non differenze profonde. E tali forme
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assistenzialiste, come strumenti di manovra, servono alla conquista. Funzionano da


anestetico, distraggono le masse popolari dalle vere cause dei loro problemi e dalla
soluzione concreta di essi.

L’INVASIONE CULTURALE

Altra caratteristica fondamentale dell’azione antidialogica è l’invasione culturale che


serve anche questa alla conquista. L’invasione culturale è la penetrazione degli
invasori nel contesto culturale degli invasi, senza rispetto verso le potenzialità
dell’essere. Essi impongono la loro visione del mondo e frenano la creatività degli
invasi.

In questo processo gli invasori sono i soggetti, coloro che agiscono, gli invasi sono
oggetti che hanno l’illusione di agire attraverso l’azione degli invasori.

Gli invasori modellano, impongono i loro valori e obiettivi, gli invasi seguono la loro
scelta.

L’invasione culturale porta alla non autenticità dell’essere degli invasi. Questi, come
elementi passivi, devono essere “riempiti” di contenuti che non hanno nulla a che
vedere con la loro visione del mondo.

Agli invasori interessa sapere come gli invasi la pensano, attraverso le scienze sociali
e la tecnologia, ma al fine di dominarli di più.

Una condizione fondamentale per il successo dell’invasione culturale è la


convinzione, da parte degli invasi, della loro inferiorità intrinseca. Nella misura in cui
gli invasi si riconoscono inferiori, nec riconosceranno la superiorità degli invasori.

Quanto più si accentua l’invasione, alienando gli invasi nella cultura e nell’essere,
tanto più questi vorranno somigliare a quelli, camminare come quelli, vestire alla
loro moda, parlare come loro: la stabilità degli invasori è garantita del mimetismo
degli invasi.

C’è un altro aspetto che merita la nostra riflessione: nelle società con strutture di
dominazione, le istituzioni destinate alla formazione, famiglia e scuola, sono
necessariamente segnate da questo clima. L’azione antidialogica, in tal caso può
essere realizzata anche da uomini dominati, “sovra-determinati”, da parte della
cultura propria degli oppressori.
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Nelle famiglie, i rapporti padri-figli riflettono generalmente le condizioni della società


di cui fanno parte, se queste condizioni sono autoritarie, rigide, dominatrici,
penetrano nelle famiglie.

E più si sviluppano questi rapporti di tipo autoritario, più i figli, nella loro infanzia,
introiettano l’autorità paterna. Questa influenza della famiglia prosegue
nell’esperienza della scuola. In essa, gli educandi scoprono presto che per avere
qualche soddisfazione devono adattarsi a precetti stabiliti verticalmente. E uno di
questi precetti è non pensare.

Di conseguenza, quando questi ragazzi, da grandi diventeranno dei professionisti, la


loro tendenza sarà di seguire i modelli rigidi in cui si sono formati, perché dentro di
loro si è instaurata la paura della libertà. Ciò spiega perché un gran numero di
professionisti aderisce a un’azione antidialogica.

Qualunque sia la loro specializzazione che li mette in contatto col popolo, la loro
convinzione è che compete loro “consegnare” al popolo le loro nozioni e le loro
tecniche. Il popolo non va ascoltato, in quanto incapace e incolto. E’ assurdo parlare
di una sua visione del mondo,perchè solo i professionisti possono avere una loro
visione del mondo. E data l’ “ignoranza assoluta” del popolo, non possono
partecipare alla preparazione dei programmi educativi, ma solo ricevere gli
insegnamenti.

Quando qualcuno di questi educatori scopre attraverso le esperienze, che il loro


fallimento non si deve ad una inferiorità degli uomini semplici del popolo, ma alla
violenza del loro gesto di invasori, allora si trovano in un momento difficile!

Rinunciare all’atto di invadere significa superare il dualismo in cui si trovano


(dominati e dominatori), rinunciare a tutti i miti e avviare un’azione dialogica con il
popolo. Questo processo è un trauma, la paura della libertà si installa in essi, e
scattano in loro vari meccanismi di difesa.

Es: nel momento della decodificazione di situazioni concrete, i partecipanti, irritati,


chiedono al coordinatore della discussione: “ ma insomma, dove vuole portarci?” ma
lui non vuole condurli, solo che quando lui problematizza una situazione concreta
loro si accorgono che dovranno spogliarsi dei loro miti o affermarli. Scatta il
meccanismo di difesa: trasferire sul coordinatore quella che è la loro pratica
normale,condurre, conquistare, invadere.
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Da questo esempio emerge la forza “sovra-determinante” della cultura in cui si


sviluppano i miti che gli uomini introiettano.

Questo è uno dei problemi seri che la rivoluzione deve affrontare nella tappa in cui
arriva al potere. I professionisti, uomini cresciuti sotto la “sovra-determinazione” di
una cultura oppressiva che li ha portati al dualismo”, e ciò anche quando vengono
dalle classi popolari, sono necessari alla riorganizzazione della nuova società. Per cui
come fare?

Vanno recuperati dalla rivoluzione, perché molti di loro si trovano in un equivoco. La


rivoluzione, quindi, una volta al potere, deve instaurare la “rivoluzione culturale” che
sarà la continuazione nec dell’azione culturale dialogica che va realizzata nel
processo anteriore alla presa del potere. La rivoluzione culturale è il max sforzo
possibile di coscientizzazione che il potere rivoluzionario deve svolgere, per arrivare
a tutti. Tale coscientizzazione consente agli uomini di disvelare le ragioni della
permanenza delle “sopravvivenze” mitiche, che sono realtà forgiate nell’antica
società oppressiva e si sono mantenute anche dopo la rivoluzione. Riconoscendole
potranno liberarsene più facilmente, in quanto spettri che ostacolano l’edificazione
della nuova società.

Nella rivoluzione culturale, la rivoluzione, sviluppando la pratica del dialogo


permanente tra leadership e popolo, consolida la partecipazione di quest’ultimo al
potere.

L’invasione culturale, che serve alla conquista e conservazione dell’oppressore,


comporta sempre una visione “focale” della realtà. Si basa sull’idea di superiorità
dell’invasore, inferiorità dell’invaso. Mira al possesso dell’invaso, per paura di
perderlo. Per questo, il punto di decisione dell’azione degli invasi è fuori di essi, nei
dominatori invasori.

Ma non è possibile lo sviluppo autentico degli uomini, quando il punto di decisione non
è in sé ma in altri. Così come non è possibile lo sviluppo di società dualiste, invase,
dipendenti da altre.

Es: per le società satellite, qui si può parlare di modernizzazione ma non di


sviluppo, perché il punto di decisione politica economica e culturale si trova fuori di
esse nella società metropolitana, ne trae benefici. Finché non superano questa
contraddizione son sono “esseri per sé” e quindi non hanno un vero e proprio
sviluppo, a loro beneficio.
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TEORIA DELL’AZIONE DIALOGICA E SUE CARATTERISTICHE

LA COLLABORAZIONE

Nella teoria dell’azione dialogica i soggetti si incontrano per la trasformazione del


mondo in collaborazione.

Non esiste come nella conquista, un soggetto che domina e un oggetto dominato.

Ci sono dei soggetti che si incontrano per dare un nome al mondo (esistere con il
mondo), in vista della sua trasformazione.

La collaborazione si può realizzare soltanto nella comunicazione. Il dialogo crea le


premesse della collaborazione. Il dialogo non impone, non manovra, non
addomestica, non fa slogan.

La leadership rivoluzionaria ha un impegno con le masse oppresse, affinché, si


liberino. Non può pretendere di conquistarle, ma di ottenere la loro adesione.

Se le masse popolari dominate, si sentono incapaci, in un dato momento storico, di


corrispondere alla loro vocazione di essere soggetti, potranno arrivare a farlo
attraverso la problematizzazione della loro stessa oppressione.

Men tre nella teoria dell’azione dialogica l’élite dominante mitizza il mondo per
meglio dominarlo, nella teoria dialogica esige il disvelamento del mondo.

Il disvelamento del mondo e di se stesse, nella prassi autentica, rende possibile alle
masse la loro adesione.

Questa adesione coincide con la fiducia che le masse popolari cominciano ad avere
in se stesse, e nella leadership rivoluzionaria, quando percepiscono la sua dedizione,
autenticità nella difesa della liberazione degli uomini.

La leadership deve confidare che le masse siano capaci di impegnarsi nella ricerca
della loro liberazione, ma la loro fiducia non può essere ingenua, deve sempre
diffidare, dell’ambiguità degli uomini oppressi che deriva dall’oppressore “ospitato”
dentro di loro. Questo “ospite”, con la conseguente loro paura della libertà potrebbe
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condurre gli oppressi alla denuncia, non della realtà oppressiva, ma della leadership
rivoluzionaria, che quindi deve stare attenta a questa possibilità.

La teoria dell’azione dialogica esige che, qualunque sia il momento dell’azione


rivoluzionaria, questa non prescinda dalla comunicazione con le masse popolari.

La comunicazione provoca collaborazione, che porta la leadership alla comunione


con le masse popolari. Questo avviene solo se l’azione rivoluzionaria è realmente
umana, simpatica, amorosa, comunicante, umile per essere liberatrice. La
rivoluzione è creatrice di vita: biofila, mentre l’oppressione è necrofila: uccide la vita

(si pensi a quanti per miseria estrema sono “morti in vita”, ombre di uomini, donne,
bambini, che si vendono o vengono venduti per lavorare come schiavi o prostitute).

UNIRE PER LIBERARE

Mentre per l’élite dominante è abbastanza facile organizzarsi e unirsi rapidamente di


fronte a ogni minaccia, potendo fare affidamento sugli strumenti del potere, lo
stesso non avviene per la leadership rivoluzionaria quando tenta una prassi
liberatrice.

La necessaria unione delle masse tra loro e con la leadership è impedita da diversi
fattori: in primo luogo le masse sono sotto la pressione del potere dell’élite
dominante, che ostacola ovviamente la loro organizzazione;

poi, la stessa situazione concreta di oppressione, rendendo ambiguo l’oppresso,


emotivamente instabile, timoroso della libertà, facilità più l’azione separatista
dell’oppressore che quella unificatrice indispensabile alla pratica della liberazione.

La situazione oggettiva di dominio è in sé una situazione separatista. Divide l’io


oppresso: una parte dell’io si trova nella realtà a cui è aderente, un’altra parte fuori.
La realtà gli si presenta come qualcosa di onnipotente e schiacciante, lui si sente
diviso tra un passato e un presente eguali e un futuro senza speranza.

Se per mantenere divisi gli oppressi è indispensabile un’ideologia dell’oppressione,


per unirli è indispensabile una azione culturale attraverso la quale conoscano il
perché e il come della loro “aderenza” alla realtà, la oggettivino e ne emergano,
unificando il proprio io.
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Questa azione culturale non può essere fatta a base di slogan.

Per giungere all’unione degli oppressi occorre passare prima dalla coscienza di
uomo oppresso (il quale si sente spesso su un piano di uguaglianza con animali e
piante, non si percepisce come uomo), poi si arrivi a una coscienza di classe
oppressa, per giungere a un rapporto di solidarietà che consente l’unione.

Scoprendo se stessi nella qualità di uomini, si riconoscono come esseri trasformatori


della realtà che prima era per loro qualcosa di misterioso, trasformatori per mezzo
del loro lavoro creatore e dalla coscienza di sé come uomini oppressi arrivano alla
coscienza di classe oppressa.

Per unirsi tra di loro, gli oppressi devono tagliare il cordone ombelicale di carattere
magico e mitico che li lega al mondo dell’oppressione. Perciò l’unione degli oppressi
esige dal processo rivoluzionario che esso sia fin dall’inizio azione culturale che
chiarisca agli oppressi la situazione oggettiva in cui si trovano, che è mediatrice tra loro
e gli oppressori.

L’ORGANIZZAZIONE

La teoria dialogica dell’azione esige l’organizzazione delle masse popolari che è


l’opposto della manipolazione che serve alla conquista.

L’organizzazione è legata all’unione, ne è uno sdoppiamento naturale.

Cercando l’unione, la leadership cerca egualmente l’organizzazione delle masse


popolari, che comporta la testimonianza del comune compito di liberazione.

Questa testimonianza costante, umile e coraggiosa dell’esercizio di un compito


comune evita il rischio di dirigismi antidialogici.

Tra gli elementi costitutivi della testimonianza c’è

la coerenza tra la parola e il gesto di chi testimonia, l’audacia, la radicalizzazione della


scelta fatta, il coraggio di amare che porta alla trasformazione del mondo attraverso la
liberazione degli uomini, la fede nelle masse popolari.

Ogni testimonianza autentica, critica, comporta l’audacia di correre rischi, fra cui
quello di non ottenere subito dalle masse popolari l’adesione attesa.
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La testimonianza che in un dato momento e condizioni non è stata feconda, può


arrivare prima o poi a dar frutto.

E’ importante sottolineare che nella teoria dialogica dell’azione si parla di


organizzazione della leadership rivoluzionaria con le masse, non si può confondere la
disciplina indispensabile per l’organizzazione con il puro dirigismo delle masse.

La leadership non può manovrare le masse, ciò provocherebbe la loro “reificazione”


(riduzione a cose) e non liberazione.

Gli oppressi non si liberano come cose ma come uomini!

La leadership non può imporre alle masse la sua parola, non può parlare da sola ma col
popolo, perché altrimenti non organizza il popolo, lo manovra.

Il fatto che la leadership non abbia diritto di imporre arbitrariamente la sua parola,
non significa che debba assumere una posizione liberalista, che porterebbe a licenze
le masse oppresse abituate all’oppressione. Nella teoria dell’azione dialogica quindi,
l’organizzazione, comportando l’autorità, non può essere autoritaria; comportando
la libertà, non può essere licenziosa.

LA SINTESI CULTURALE

Ogni azione culturale ha la sua teoria che determina i suoi fini e i suoi metodi,
l’azione culturale o è a servizio della dominazione o è a servizio della liberazione degli
uomini.

Quello a cui aspira l’azione culturale dialogica è il superamento delle contraddizioni e


degli antagonismi all’interno della società al fine della liberazione dell’uomo. Mentre
l’azione culturale antidialogica si propone di mitizzare il mondo per mezzo di queste
contraddizioni, per evitare, ostacolare la trasformazione della realtà.

Nella sintesi culturale, che è l’opposto dell’invasione culturale, gli “attori” non
arrivano al popolo come invasori.

Mentre nell’invasione culturale, gli attori entrano dal loro mondo in quello degli
invasi, portandovi un contenuto tematico per l’azione sulla base dei loro valori e
ideologia.
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Nella sintesi culturale, gli attori arrivano per conoscere con il popolo il loro mondo e
non per insegnare, trasmettere, consegnare qualcosa al popolo; gli attori si integrano
con il popolo, sono tutti attori dell’azione che ambedue esercitano sul mondo.
L’incidenza della loro azione è la realtà che deve essere trasformata in vista della
liberazione degli uomini.

La sintesi culturale è, quindi, lo strumento per superare la cultura alienata e


alienante, conservatrice delle strutture in cui si è formata.

Ogni rivoluzione, se è autentica, deve essere rivoluzione culturale.

La ricerca dei temi generatori o della tematica significativa del popolo è il punto di
partenza del processo di azione in quanto sintesi culturale, perché l’organizzazione di
qualunque programma di azione col popolo parte dalla conoscenza di questi temi.

Attraverso la sintesi culturale, la leadership e il popolo rinascono ad un sapere e a


un’azione nuovi. Il sapere più ricercato della leadership si rifà alla conoscenza
empirica del popolo, la sintesi culturale non nega le differenze tra una visione e
l’altra, anzi parte proprio da lì, nega l’invasione di una sull’altra e afferma il
contributo indiscutibile che una parte porta all’altra.

CONCLUSIONE

Così come l’oppressore, per opprimere, ha bisogno di una teoria dell’azione


oppressiva,

gli oppressi, per liberarsi, hanno ugualmente bisogno di una teoria della loro azione.

L’oppressore elabora la sua teoria necessariamente senza il popolo perché è contro di


lui.

Il popolo oppresso, a sua volta, introiettando l’oppressore, non può da solo costituire
la teoria dell’azione liberatrice.

È nell’incontro con la leadership rivoluzionaria, nella comunione con il popolo, nella


prassi di entrambi, che si costituisce questa teoria.

Il cammino della leadership deve essere dialogico, di comunicazione con le masse


popolari in ogni fase della rivoluzione,
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perché quello che distingue la leadership rivoluzionaria dall’élite dominante non sono
soltanto i suoi obiettivi ma un ben distinto modo di attuare, se agiscono alla stessa
maniere finiscono per identificarsi.

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