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Il libro è stato scritto da Freire nel 1968 mentre era in esilio in Cile.
Egli dovette abbandonare il Brasile per motivi politici, poiché i suoi progetti educativi
erano considerati sovversivi dal governo autoritario brasiliano che si era insediato con
il golpe del 1 aprile 1964.
L’opera non venne pubblicata né in Cile né in Brasile dove comparve solo nel 1974.
Le sue riflessioni nascono dalla sua esperienza concreta, dal suo lavoro educativo
con proletari, rurali e urbani e uomini classe media.
TEMI FONDAMENTALIO
INTRODUZIONE
Freire vuole approfondire in questo saggio alcuni temi di una sua pubblicazione
precedente: L’EDUCAZIONE COME PRATICA DELLA LIBERTA’.
Freire afferma che anzi: “la coscientizzazione che rende possibile l’inserimento
dell’individuo, come soggetto, nel processo storico, evita i fanatismi e inserisce ogni
uomo nella ricerca della sua affermazione”.
La paura della libertà fa vedere ciò che non esiste. È raro che venga esplicitata, o non
se ne ha coscienza o si tende a camuffarla.
Colui che teme la libertà, si rifugia nella sicurezza vitale, preferendola alla libertà carica
di rischi (Hegel)
Questo saggio è dedicato a coloro che sono capaci di posizioni radicali e non di
settarismo.
La radicalizzazione è critica e per questo liberatrice, impegna gli uomini nello sforzo
di trasformare la realtà concreta. Il radicale, non si lascia prendere entro “circoli di
sicurezza” in cui anche la realtà viene imprigionata, si inserisce nella realtà per
conoscerla meglio e poterla meglio trasformare. Non teme l’incontro con il popolo, il
dialogo con lui, da cui risulta una crescita del sapere, per l’uno e l’altro. Non si sente
padrone del tempo, né degli uomini, né liberatore degli oppressi. Si impegna con
loro, nel tempo, nella realtà, per lottare con loro per la loro umanizzazione.
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CAPITOLO PRIMO
GIUSTIFICAZIONE DELLA PEDAGOGIA DELL’OPPRESSO
Chi più degli oppressi può sentire gli effetti dell’oppressione? Chi più di loro capire la
necessità della liberazione?
Liberazione a cui non arriveranno per caso, ma attraverso la prassi della loro ricerca,
che è riflessione e azione insieme.
Da dove parte la riflessione degli uomini oppressi? Dalla scoperta di sapere poco di
sé, del proprio posto nell’universo, sono inquieti, si scoprono in una situazione di
tragica ignoranza e si pongono come problema se stessi, indagano, si danno risposte,
nascono nuove domande è …..il problema dell’umanizzazione e della
disumanizzazione.
La violenza degli oppressori genera un “essere di meno” che, prima o poi, porta gli
oppressi a lottare contro coloro che li hanno resi di meno.
Tale lotta ha senso quando gli oppressi, per recuperare la loro umanità, non si fanno
a loro volta “oppressori degli oppressori”, ma “restauratori” dell’umanità di entrambi.
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“Ecco il grande compito umanista e storico degli oppressi: liberare se stessi e i loro
oppressori”.
Freire invita a diffidare della falsa generosità degli oppressori. Gli oppressori hanno
bisogno che l’ingiustizia perduri, la loro falsa generosità si nutre di miseria e morte.
La vera generosità consiste nel lottare con gli oppressi affinché spariscano le ragioni
che alimentano la falsa carità, da cui deriva la mano tesa degli “straccioni del
mondo”, affinché queste mani si tendano sempre meno in gesti di supplica ai potenti
e diventino sempre più mani umani, che lavorino e trasformino il mondo.
Freire ribadisce che la lotta per la restaurazione della propria umanità deve partire
dagli oppressi e da coloro che saranno realmente capaci di divenire solidali con loro!
In una prima fase di questa scoperta, quasi sempre, gli oppressi, anziché cercare la
liberazione nella lotta, tendono ad essere anche loro oppressori o oppressi di
secondo grado. Il loro ideale è essere uomini, ma per loro essere uomini è essere
oppressori, quello è per loro l’unico modello di umanità che conoscono.
(Es: i braccianti agricoli che, una volta promossi fattori, spesso diventano oppressori
dei loro antichi compagni, più duri del loro stesso padrone).
Gli oppressi, che introiettano l’ombra degli oppressori, hanno paura della libertà,
perché essa, comportando l’esclusione di quell’ombra, esigerebbe che il vuoto
lasciato venisse riempito con un altro contenuto, quello della loro autonomia, della loro
responsabilità, senza la quale non sarebbero liberi.
Gli oppressi temono la libertà non si sentono capaci di correre il rischio di assumerla.
Anche perché lottare per essa costituisce una minaccia, non solo per gli oppressori
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che la usano come proprietari esclusivi, ma anche per i compagni oppressi, che si
spaventano all’idea di maggiori repressioni.
Vorrebbero essere ma hanno paura, sono sé stessi e sono l’altro, che si è introiettato
in loro, coscienza oppressiva, sono combattuti tra seguire prescrizioni e fare scelte,
tra essere spettatori e attori, tra parlare e non avere voce, uomini tagliati in due,
contraddittori, divisi (è questa l’ambiguità, il dualismo degli oppressi).
Questo è il tragico dilemma degli oppressi che la loro pedagogia deve affrontare.
“L’uomo nuovo”: non più oppressore, non più oppresso ma “l’uomo che libera se
stesso”.
Gli oppressi hanno bisogno di acquisire una “coscienza critica” dell’oppressione, e ciò
è possibile solo attraverso una prassi autentica che non è verbalismo(bla-bla-bla) né
attivismo, ma azione e riflessione degli uomini sul mondo per trasformarlo.
L’oppressore teme questa inserzione critica degli oppressi, ciò che gli interessa è che
essi restino nello stato di immersione in cui generalmente si trovano, impotenti di
fronte alla realtà oppressiva, in una situazione limite che sembra loro insuperabile.
Per questi motivi la pedagogia dell’oppresso non può essere elaborata né praticata
dagli oppressori, ma solo dagli oppressi perché deve essere animata da generosità
autentica, essendo pedagogia umanistica e liberatrice.
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Dobbiamo distinguere: tra sistemi educativi (si possono cambiare solo con l’ascesa al potere)
e lavori educativi (vanno organizzati con gli oppressi nel processo della loro coscientizzazione)
Aprono la strada al disamore, non i disamati, ma coloro che non amano perché
amano solo se stessi.
Coloro che aprono la strada al terrore non sono i deboli, che lo subiscono, ma i
violenti che con il loro potere creano la situazione concreta in cui si generano gli
“straccioni del mondo”.
L’atto di ribellione degli oppressi, pur essendo violento, può veramente instaurare
l’amore.
Gli oppressi quando lottano per “essere” e per strappare agli oppressori il potere
di opprimere e schiacciare, ricompongono l’umanità propria ma anche degli
oppressori.
Questi ultimi, in quanto classe che opprime, non liberano gli altri e non liberano se
stessi.
Tuttavia, anche quando gli oppressi aprono la strada a una nuova realtà
liberatrice per tutti, gli oppressori di ieri non si riconoscono in via di liberazione.
Al contrario, nella nuova situazione si sentono oppressi. Qualunque restrizione a
tutti i loro privilegi in nome dei diritti di tutti, sembra loro una profonda violenza
fatta al loro diritto di persone.
Diritto a essere persone che, nella situazione precedente, essi non rispettavano in
quei milioni di persone che soffrivano e morivano di fame. Per loro, purtroppo,
soltanto essi sono persone umane, gli altri sono “quasi-cose”. Per loro, c’è solo un
diritto: il loro! a vivere il pace, contro il diritto degli oppressi a sopravvivere.
Gli oppressori hanno una coscienza fortemente possessiva del mondo e degli
uomini.
Tendono a trasformare tutto ciò che li circonda in oggetti del loro dominio perché tutto
possono comprare: la terra, i beni, la produzione, gli uomini, il tempo.
Per loro vale “avere di più”, sempre “ di più”. Per loro “essere” e “avere”
Se gli altri “gli invidiosi” non possiedono è perché sono incapaci e pigri, sono nemici
potenziali, da tenere sempre sotto controllo.
Quanto più gli oppressi vengono controllati, tanto più sono trasformati in “cose”.
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Gli oppressori sono necrofili, uccidono la vita nella misura in cui, per dominare,
frenano il potere di creare che caratterizza la vita.
Non credono che il popolo sia capace di pensare il giusto, di volere, di sapere.
Questo passaggio deve essere una rinascita: coloro che “passano” non possono
restare come erano, non possono agire più come agivano.
Solo così potranno comprendere davvero i modi di essere e comportarsi degli oppressi
che riflettono le strutture del dominio che hanno subito.
Tra questi ad es. il loro dualismo esistenziale: gli oppressi “ospitano” l’oppressore, di
cui hanno introiettato l’ombra, sono al tempo stessi se stessi e l’altro.
Ne consegue che, finché non arrivano ad avere coscienza per sé, assumono
atteggiamenti fatalistici di fronte alla situazione concreta di oppressione in cui si
trovano. Citano il potere del destino, della sorte, trovano nella loro sofferenza la
volontà di Dio.
loro rabbia aggredendo i loro stessi compagni (violenza orizzontale), i figli, la moglie,
bevendo.
È necessario che prendano coscienza delle cause del loro stato di oppressione,
altrimenti accettano con fatalismo il loro sfruttamento, o peggio è probabile che
assumano posizioni passive, alienate di fronte alla lotta per la conquista della libertà
e della loro affermazione nel mondo.
Tale scoperta non può essere fatta a livello intellettuale, ma di azione che associata ad
un serio impegno di riflessione diviene prassi.
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Occorre aver fede nell’uomo oppresso, vederlo capace di pensare anche lui giusto.
Se questa fede manca abbandoniamo l’idea del dialogo, della riflessione e cadiamo
negli slogan, nei comunicati, nei depositi di idee.
L’azione politica fra gli oppressi deve essere in fondo azione culturale per la libertà,
quindi azione con loro. Bisognerà tener conto della loro dipendenza emotiva che
genera una visione non autentica del mondo, e tentare attraverso l’azione e la
riflessione, di trasformarla in indipendenza. Ma attenzione: la liberazione degli
oppressi se non è autoliberazione (perché nessuno si libera da solo) non è neppure
liberazione di alcuni fatta da altri, neppure da un gruppo di dirigenti ben
intenzionati.
L’azione che li libera non può usare lo stesso processo di quella che li deforma. Perciò
il cammino di un lavoro che liberi e che spetta ai leader della rivoluzione non sbocca
nella “propaganda liberazionista” ma nel dialogo con gli oppressi.
La convinzione degli oppressi di dover lottare per la propria liberazione non deve
essere una elargizione fatta loro dalla propaganda rivoluzionaria, ma il risultato della
loro coscientizzazione.
Gli oppressi devono lottare come uomini, come soggetti e non come cose.
La propaganda, gli slogan, non sono la via, L’unica via possibile è la pratica di una
pedagogia umanizzante, in cui i leader rivoluzionari, invece di sovrapporsi agli
oppressi e di mantenerli nella condizione di “quasi-cose”, stabiliscano con loro un
permanente rapporto di dialogo.
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CAPITOLO SECONDO
Dove c’è un soggetto che narra, l’educatore e degli oggetti pazienti che ascoltano
educandi.
L’educatore sarà tanto migliore quanto più sarà capace di “riempire” i recipienti con i
suoi depositi, e gli educandi saranno tanto migliori quanto più si lasceranno
docilmente “riempire”.
Contenuti che sono veri e propri ritagli della realtà, sconnessi rispetto all’insieme da cui
hanno origine e in cui troverebbero significato. Contenuti che tendono a
fossilizzarsi.
In tale ottica, il sapere è un’elargizione di coloro che si giudicano sapienti, agli altri,
che essi giudicano ignoranti. Qui c’è una delle manifestazioni dell’ideologia
dell’oppressione: l’assolutizzazione dell’ignoranza, ovvero il fatto che l’ignoranza si
trova sempre nell’altro.
In questa educazione depositaria gli uomini sono visti come esseri destinati ad
adattarsi, maggiore è la passività loro imposta e più naturalmente si adatteranno al
mondo. È un educazione che soddisfa gli interessi degli oppressori, è utile a loro.
Gli oppressori staranno tanto più in pace quanto più gli uomini saranno adeguati al
mondo; e tanto più preoccupati quanto più gli uomini interrogheranno il mondo.
L’educatore non è solo colui che educa, ma colui che mentre educa è educato nel
dialogo con l’educando, il quale a sua volta mentre è educato, anche educa.
Quanto più gli educandi dovranno affrontare problemi, tanto più si sentiranno
sfidati, e tanto più obbligati a rispondere alla sfida. La riflessione che questo tipo di
educazione stimola porta gli educandi a scoprirsi uomini in rapporto con altri uomini
e con il mondo, aumentano il campo della loro percezione.
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La pratica depositaria insiste nel mantenere occulte le ragioni che spiegano come gli
uomini “sono in divenire” nel mondo, maschera la realtà con dei miti.
A differenza degli animali, che sono solo incompleti ma non sono storici, gli uomini
sanno di essere incompleti, hanno la coscienza della loro inconclusione, perché sono
“esseri in divenire” dentro una realtà, che in quanto storica e anch’essa incompleta e in
divenire. Nell’inconclusione degli uomini e nella coscienza che ne hanno si trovano le
radici dell’educazione, come fenomeno esclusivamente umano.
Mentre la prima mette in rilievo la percezione fatalista che gli uomini possono avere
della loro situazione, la seconda al contrario propone agli uomini la loro situazione
come problema. Gli uomini percepiscono la loro realtà come realtà non più
inesorabile ma storica, suscettibile di essere trasformata.
CAPITOLO TERZO
DIALOGICITA’ E DIALOGO
Non esiste parola autentica che non sia prassi. Pronunciare la parola autentica
significa trasformare il mondo.
Se alla parola manca il momento della riflessione, la parola diventa attivismo, azione
per l’azione, si nega la vera prassi, rende impossibile il dialogo.
L’esistenza umana non può essere muta, silenziosa ma neppure nutrirsi di parole
false, bensì solo di parole vere con cui gli uomini trasformano il mondo.
Nessuno può parlare veramente da solo o per gli altri, rubando la parola ai più. Non
è possibile il dialogo tra coloro che negano ai più il diritto di parlare e coloro che si
trovano di fronte a questo rifiuto.
Il dialogo è un atto creativo che due soggetti realizzano insieme per conquistare il
mondo per la liberazione dell’uomo.
Il suo fondamento è l’amore, un amore profondo per il mondo e per gli uomini.
Non si può verificare nel rapporto di dominazione, lì non c’è amore ma sadismo in
chi domina e masochismo in chi è dominato.
“A priori” del dialogo c’è la fede negli uomini, nel loro potere di fare e rifare, creare,
nella loro vocazione a “essere più” che non è un privilegio di alcuni eletti ma diritto
degli uomini.
L’uomo dialogico, che è critico, sa che il potere degli uomini, di creare, di trasformare
può essere distrutto, negato in situazioni concrete. Questo tuttavia non gli fa perdere
la fede negli uomini, perché sa che tale potere può rinascere attraverso la lotta di
liberazione.
Quando il dialogo è fatto con amore, umiltà, fede negli uomini, crea un clima di
fiducia tra i suoi soggetti. La fiducia comporta testimonianza, perché non si può dire
una cosa e farne un’altra.
Neppure c’è dialogo se non c’è speranza, essendo il dialogo l’incontro degli uomini
per “essere di più”. Se la speranza manca l’incontro è sterile, vuoto.
La disumanizzazione che nasce dall’oppressione non può essere motivo per perdere
la speranza, ma anzi per farla crescere.
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Infine, non c’è dialogo vero se non esiste tra i soggetti un pensiero vero, un pensare
critico. Questo pensiero non accetta la dicotomia mondo/uomini e percepisce la
realtà come processo, non qualcosa di statico ma in costante divenire, in vista della
permanente umanizzazione degli uomini.
Senza pensiero critico non c’è comunicazione e quindi una vera educazione.
IL DIALOGO COMINCIA
Il dialogo tra educatori ed educandi comincia non quando siamo in una situazione
pedagogica, ma piuttosto quando l’educatore si domanda su cosa dialogherà con
questi, quale sarà il contenuto programmatico dell’educazione.
Il mondo origina visioni, punti di vista su di sé, da cui possono nascere temi
significativi, sulla base dei quali si costruirà il contenuto programmatico
dell’educazione.
Mai fare dissertazioni astratte sulla situazione, e mai attribuirle contenuti che poco o
nulla hanno a che vedere con le aspirazioni, i dubbi, le speranze, i timori del popolo.
Timori di coscienza oppressa.
Il nostro compito non è parlare al popolo circa la nostra visione del mondo, o tentare
di imporgliela, ma dialogare con lui circa la sua e la nostra.
Molte volte educatori e politici parlano e non sono capiti perché il loro linguaggio
non è in sintonia con la situazione concreta degli uomini a cui si rivolgono.
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I dominatori agiscono sugli uomini addottrinandoli, per adattarli sempre di più ad una
realtà che deve rimanere intatta.
Si avvicinano alle masse con progetti che possono corrispondere alla loro visione del
mondo, ma non necessariamente a quella del popolo.
Dimenticano che il loro obiettivo è lottare con i popolo per il recupero dell’umanità
rubata e non conquistare il popolo.
( temi che possono sdoppiarsi in altrettanti temi, che a loro volta provocano nuovi
compiti che devono essere realizzati).
Gli uomini sono gli unici esseri, tra quelli inconclusi, capaci di avere come oggetti della
propria coscienza non solo la propria attività, ma anche se stessi, e ciò li distingue
dagli animali, incapaci di separarsi dalla propria attività.
un semplice supporto, un habitat. Non avendo coscienza di sé, per l’animale, non
esiste un qui, un adesso, un ieri un domani, il suo vivere è determinismo totale.
Gli uomini, invece, poiché hanno coscienza della propria attività e del mondo in cui
stanno, e possono darsi degli obiettivi, prendere decisioni in rapporto con il mondo e
con gli altri, al contrario degli animali, non solo vivono, ma esistono e la loro
esistenza è storica.
gli uomini, al contrario, proprio perché sono coscienza di sé e così del mondo,
possono farlo.
Gli uomini, separandosi dal mondo che oggettivano, separando la propria attività da
se stessi, avendo il punto di decisione della loro attività in se stessi, nei loro rapporti
col mondo e con gli altri, possono superare le “situazioni-limite”.
Queste non sono situazioni insuperabili oltre le quali nulla più esisterebbe, ma
dimensioni concrete e storiche di una certa realtà.
Situazioni che sfidano gli uomini che possono incidere su esse attraverso azioni dette
“atti-limite” dirette al loro superamento anziché alla accettazione passiva.
Non sono le situazioni- limite in sé che generano un clima di rinuncia alla speranza ma
la percezione che gli uomini ne hanno in un dato momento storico, come qualcosa
che non possono superare.
E una volta superate con la trasformazione della realtà, ne sorgeranno di nuove, che
provocheranno altri “atti-limite” dell’uomo.
Solo gli uomini sono esseri di prassi, che essendo riflessione e azione trasformatrice
della realtà, è fonte di conoscenza e creazione.
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Gli uomini creano non soltanto beni, materiali e immateriali, ma anche le istituzioni
sociali. Gli uomini creano la storia con la loro azione trasformatrice della realtà
obiettiva, perché sono esseri storico-sociali.
Gli uomini possono dare al tempo tre dimensioni (passato, presente, futuro), occorre
tener conto che la storia si svolge in un divenire permanente, in cui si concretano le
unità che corrispondono a ogni epoca.
Questi temi, ne comportano altri che sono i loro contrari, opposti, e indicano pure
compiti da realizzare, tutto ciò costituisce: l’universo tematico di un’epoca.
Di fronte a questo universo di temi che si contraddicono, gli uomini prendono le loro
posizioni, realizzando compiti a favore del mantenimento o del cambiamento delle
strutture.
Nel momento in cui una società vive un’epoca, la propria irrazionalità creatrice di
miti costituisce uno dei suoi temi fondamentali, che avrà come suo antagonista la
visione critica e dinamica della realtà.
Ecco che diventa importante per l’azione liberatrice di un dato contesto, essere in
rapporto sia con i temi generatori che con la percezione della situazione che gli
uomini hanno.
I temi generatori possono essere localizzati in circoli concentrici che vanno dal
generale al particolare.
Temi di carattere universale e via via temi continentali, nazionali, regionali ecc.
Come tema fondamentale della “nostra epoca”, si trova quello della liberazione, che
mette in rilievo il suo contrario, il tema della dominazione.
Dentro una stessa società, ci possono essere delle diversificazioni tematiche, nelle
aree e sotto-aree in cui essa si divide.
E questi temi talvolta possono essere sentiti, altre volte no o percepiti in forma
errata e ciò accade quando gli individui sono “immersi” nella situazione-limite, ne
afferrano solo dei pezzi della realtà in cui si trovano, mancando la comprensione
critica della totalità in cui si trovano, non la possono conoscere.
Solitamente la situazione in cui si trovano gli uomini, appare loro, come qualcosa di
opaco che li avvolge.
Allora la ricerca parte dall’analisi di una situazione esistenziale concreta, che viene
prima “codificata”in modo da mettere in rilievo l’interazione tra gli elementi che la
costituiscono (passaggio dal concreto all’astratto) e poi “decodificata” cioè analizzata
criticamente (passaggio dall’astratto al concreto).
(un disegno o una fotografia che rimanda alla loro situazione), gli individui tendono a
realizzare una specie di “taglio” nella situazione che si presenta loro. Taglio che nella
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Riepilogando: gli individui avevano una conoscenza confusa del tutto in cui erano
“immersi”, si mostra loro una situazione codificata (foto, disegno, una
rappresentazione di una situazione esistenziale) che rimanda alla loro situazione
concreta, avviene il “taglio” (il tutto viene tagliato e si scopre l’interazione tra le
parti) è la tappa durante la decodificazione chiamata “descrizione della situazione”.
Quel tutto che prima si conosceva in modo confuso, dopo questo taglio, in cui si
analizza la situazione in tutte le sue componenti e le loro interazioni, non appare più un
vincolo senza uscita, ma per quello che in realtà è: una sfida a cui gli uomini devono
rispondere.
Durante tutte le tappe della decodificazione gli uomini esteriorizzano la loro visione
del mondo, la loro maniera di pensarlo, la loro percezione fatalista delle “situazioni-
limite” da qui emergono temi generatori.
Il tema generatore non si trova negli uomini isolati dalla realtà e neppure nella realtà
isolata dagli uomini, ma solo nei rapporti uomini/mondo.
Ed è indispensabile che alla ricerca del tema generatore partecipino fin da subito sia
gli uomini che ricercano sia gli uomini del popolo, devono avere parte attiva nella
ricerca. Perché mentre esplicitano la tematica significativa, tanto più
approfondiscono la loro presa di coscienza della realtà, tanto più se ne appropriano.
Durante la ricerca della tematica significativa occorre sempre tener presente che le
aspirazioni, i motivi, gli obiettivi collegati ad essa, sono umani e quindi in divenire.
Per cui il ricercatore può afferrare il punto di partenza, il modo in cui gli individui
considerano la situazione e poi verificare se, durante il processo, si è osservata o no
qualche trasformazione nel loro modo di percepire la realtà.
La ricerca diverrà tanto più pedagogica quanto più sarà critica, e sarà tanto più critica
quanto più si definirà nella comprensione dell’insieme e non in visioni parziali della
realtà. Cercando di far scaturire una problematica dagli stessi temi, nel vincolo con altri
temi, attraverso derivazioni storico-culturali.
Nella ricerca della tematica significativa non sono i ricercatori a elaborare piste di
ricerca nell’universo tematico a partire da punti prefissati da loro stessi, perché non
sono loro i soggetti esclusivi della ricerca.
Gli uomini sono esseri “in situazione” cioè radicati in condizioni temporali e spaziali, da
cui ricevono e a cui danno un’impronta.
Solo quando la situazione in cui vivono, smette di sembrare loro una realtà opaca
che li avvolge, di nebuloso, un vicolo cieco che li angoscia,
La ricerca della tematica deve essere coscientizzatrice per essere pedagogica e ogni
educazione autentica deve essere indagine del pensiero del popolo. Quanto più
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ricerco con il popolo il suo pensiero, tanto più ci educhiamo insieme e più ci
educhiamo più continuiamo a ricercare.
I ricercatori partono dal delimitare l’area di lavoro, e già ci sono rischi e difficoltà.
Poi devono trovare un numero significativo di persone che accetti una conversazione
spontanea con loro, per poter esporre gli obiettivi della loro presenza nell’area,
diranno il perché, il come della ricerca, affermando che non potranno realizzarla se
non si stabilirà un rapporto di simpatia e fiducia reciproche.
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Nel caso un gruppo di persone accetti la riunione e aderisca alla ricerca e al processo
che ne segue, i ricercatori stimoleranno i presenti, in modo che emergano tra questi
chi vuole partecipare alla ricerca come ausiliari, cioè come volontari per una
presenza attiva nella ricerca e per raccolta dati.
Poi i ricercatori cominciano le loro visite all’area, in modo autentico, mai forzato,
come osservatori che operano in sim-patia con il popolo, con atteggiamenti
comprensivi vs ciò che osservano.
L’unica cosa che si esige dai ricercatori è la percezione critica della realtà:
visualizzando l’area di studio come una totalità, tenteranno, in ogni visita di
realizzarne il “taglio”, nell’analisi delle dimensioni parziali che li colpiscono. Questi
tagli servono per comprendere meglio l’interazione delle parti, per poi tornare alla
totalità (tappa della codificazione).
seconda fase: le riunioni in cui i partecipanti, uno dopo l’altro, espongono come
hanno percepito e sentito un dato momento che li ha maggiormente impressionati,
e l’esposizione di ognuno provoca gli altri a rivedere la loro precedente maniera di
oggettivare la realtà.
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A livello di coscienza reale, gli uomini si trovano limitati nella possibilità di percepire
oltre le “situazioni-limite”, quelle che chiamiamo “possibilità ancora inedite di
azione”.
Nella terza fase dell’indagine, i ricercatori tornano all’area di ricerca per iniziare i
dialoghi che decodificano, attraverso i “circoli di ricerca tematica” che sono quelli
dove si ricerca la tematica significativa.
Temi che vengono classificati in un quadro generale di scienze: il tema dello sviluppo
è del dominio dell’economia, anche se non ci sono compartimenti stagni, per cui può
ricevere l’apporto della sociologia, antropologia, psicologia sociale, scienza politica.
A questo punto fatta la “riduzione tematica” si passa alla codificazione, cioè alla
ripresa della totalità, per cui si deve scegliere il miglior canale di comunicazione per
questo o quel tema ridotto e la sua rappresentazione.
Preparato tutto questo materiale, l’équipe degli educatori sarà pronta a restituirla al
popolo, allargata e organizzata. Tematica che da lui ha origine e a lui ritorna sotto
forma di problemi e mai di contenuti da depositare.
Spiegheranno il perché e il significato dei temi-cardine che sono partiti dagli educatori.
Se non si dispone di mezzi per la ricerca tematica preliminare fatta in questi termini,
come fare?
Gli educatori possono scegliere alcuni temi di fondo, introduttivi e aprire la ricerca
tematica. Uno di questi è il concetto antropologico di cultura, sia per i contadini che
per gli operai, l’inizio delle discussioni che portano alla ricerca della conoscenza è
costituito dalla discussione di questo concetto. Emerge il loro livello di conoscenza
della realtà, cui sono impliciti vari temi. Tale discussione può fornire vari aspetti di un
programma educativo. Gli educatori possono successivamente chiedere: “quali altri
argomenti potremmo discutere oltre questo? ”prendono nota della risposta e la
ripropongono al gruppo in forma di problema, sorgono così altri temi e gli uomini
coinvolti in questi “circoli di cultura” si sentono soggetti del loro pensare, della loro
visione del mondo manifestata nei loro suggerimenti e in quelli dei loro compagni.
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CAPITOLO QUARTO
DIALOGO E ANTIDIALOGO
Questo è un capitolo di approfondimento per cui ritorneremo su temi già trattati per
spiegarli meglio:
Gli uomini sono esseri di prassi, del “che fare”, mentre gli animali sono esseri
del puro “fare”.
Gli animali vivono immersi nel loro mondo, nel “supporto” che corrisponde ad
ogni specie animale. Gli uomini, al contrario,ne emergono e oggettivandolo,
possono conoscere il mondo e trasformarlo con il loro lavoro.
Gli uomini sono esseri del “che fare” che è azione e riflessione ( che non sono
momenti distinti ma simultanei), cioè prassi.
Il fare dell’uomo deve avere una teoria che necessariamente lo illumini, per
questo si parla di prassi che è teoria e pratica insieme.
Anche Lenin diceva: “senza teoria rivoluzionaria, non ci può essere movimento
rivoluzionario”.
Freire dice: non si fa la rivoluzione solo con il verbalismo, o solo con
l’attivismo, ma con la prassi cioè la riflessione e l’azione che consentono di
trasformare il mondo.
Nella rivoluzione autentica e liberatrice, non è possibile che la leadership
considerino sé stesse uomini del “che fare” e le masse oppresse uomini del
puro “fare”.
Questo è l’atteggiamento che hanno le élite dominanti che mirano al
mantenimento della situazione di oppressione.
Non è possibile che la leadership rivoluzionaria consideri gli oppressi puri e
semplici esecutori delle sue determinazioni, attivisti cui si neghi la riflessione
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sul proprio fare. In tal caso, gli oppressi continuerebbero ad essere manipolati
e proprio da coloro che non dovrebbero farlo.
Quindi la manipolazione, la riduzione a slogan dell’impegno rivoluzionario, il
“deposito”, la prescrizione non possono essere elementi costitutivi della prassi
rivoluzionaria. Proprio perché lo sono della classe dominante.
Per dominare, gli oppressori negano alle masse popolari la vera prassi, negano
il diritto a parlare, a pensare giusto. Le masse devono adattarsi alla realtà che
serve al dominatore. Perciò il “che fare” di costui non può essere dialogico,
formulatore di problemi.
Di contro, il “che fare” della leadership rivoluzionaria deve essere dialogico
con le masse, deve problematizzare i rapporti degli uomini con il mondo e
degli uomini tra loro.
Questo dialogo risponde, poi, a un’altra esigenza radicale, quella degli uomini
alla comunicazione. Ostacolare la comunicazione significa trasformarli in cose,
e questo è compito e obiettivo degli oppressori e non dei rivoluzionari.
Alcuni pensano, a volte con retta intenzione, che poiché il processo dialogico è
lento (il che non è vero) si deve fare la rivoluzione senza comunicazione,
attraverso comunicati, e dopo che si è fatta, allora svolgere un ampio sforzo
educativo. Anche perché dicono, non è possibile fare educazione prima della
presa del potere: educazione liberatrice.
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loro dai rivoluzionari, o si spaventano di fronte alle loro parole (che minacciano
l’oppressore che è in loro). In ogni caso non diventano rivoluzionari.
Ma la rivoluzione autentica ha carattere pedagogico, di una pedagogia che
formula problemi e non deposita contenuti, neanche quelli della leadership
rivoluzionaria.
E’ questo è un mezzo efficace per evitare che il potere rivoluzionario si
istituzionalizzi, si crei una burocrazia controrivoluzionaria, perché la
controrivoluzione è caratteristica anche dei rivoluzionari che diventano
reazionari.
La rivoluzione è un processo nel quale la conquista del potere è solo un
momento, sebbene decisivo, ma rientra in un cammino di liberazione che si fa
con gli oppressi, soggetti attivi, attraverso la prassi: riflessione e azione con
loro.
In tutte le sue fasi, La rivoluzione comporta dialogo con le masse, apertura e non
chiusura fronte alle masse popolari ed è sempre rivoluzione culturale.
- la conquista
- dividere per dominare
- la manipolazione
- l’invasione culturale
LA CONQUISTA
Per es: il mito che l’ordine oppressivo è un ordine liberatore. Che tutti sono
liberi di lavorare dove vogliono, che se un lavoro non va bene, lo possono
lasciare e trovare un altro impiego. Il mito che tutti, purché non siano pigri
possono arrivare ad essere imprenditori.
Il mito che le élite dominanti mantengono l’ordine che incarna “la civiltà
occidentale e cristiana” che essi difendono contro la barbarie. Il mito della
loro carità e generosità, mentre si tratta solo di assistenzialismo e falsi aiuti.
Es: focalizzando i problemi, mostrando aspetti parziali, invece di mettere in rilievo che
sono dimensioni di una totalità, accentuando una maniera di esistere propria delle
masse oppresse, soprattutto rurali, che consiste nel percepire un particolare come se
fosse visione d’insieme. Ciò rende sempre più difficile la percezione critica della realtà
e mantiene gli oppressi isolati dalla problematica di altri oppressi di altre aree.
Uno dei punti deboli degli oppressi è la loro insicurezza vitale, gli oppressi sanno per
esperienza come costa caro non accettare l’invito che ricevono, min comporta
perdita dell’impiego e il loro nome in una “lista nera” che significa porte chiuse a un
eventuale nuovo impiego.
La divisione delle masse oppresse è necessaria alla conservazione dello status quo,
quindi alla preservazione del potere dei dominanti, ma allora è nec che gli oppressi
non percepiscano chiaramente questo gioco.
Per cui, i dominanti pretendono di apparire come salvatori degli uomini, che invece
spingono verso la disumanizzazione (il loro vero intento è salvare se stessi, la loro
ricchezza, potere), conquistano le masse convincendole di difenderle dai “ marginali
teppisti”, nemici di Dio, come vengono presentati coloro che ricercano con rischio e
coraggio l’umanizzazione degli uomini.
LA MANIPOLAZIONE
Essa è uno strumento di conquista delle masse popolari. Quanto più esse, rurali o
urbane, sono politicamente immature, tanto più facilmente si lasciano manovrare
dalle élite dominanti. La manipolazione si fa attraverso i miti di cui abbiamo parlato.
Tra questi ancora uno: il modello che la borghesia offre di sé stessa alle masse, come
possibilità di ascesa per loro. Per riuscire in questo è nec che le masse accettino la
sua parola.
Molte volte questa manipolazione si verifica attraverso patti tra classi dominanti e
masse dominate. Non si tratta di dialogo, questi patti sono mezzi di cui si servono i
dominanti per raggiungere i loro scopi.
Solitamente, i patti vengono fuori solo quando le masse emergono nel processo
storico, minacciando le élite dominanti, queste spaventate, ricorrono ad essi per
mantenere la dominazione.
Le masse popolari, che sono emerse o che stanno emergendo, hanno due possibilità:
Solo quando le masse uniscono alla loro emersione, un pensare critico sul processo
storico, sulla loro realtà, allora la minaccia che esse rappresentano si concretizza
nella rivoluzione. E le élite dominanti lo sanno, per questo usano tutti i mezzi, anche
la violenza fisica, per proibire che le masse pensino.
Nella misura in cui le élite dominanti insistono nella manipolazione, iniettano negli
individui l’appetito borghese del successo personale.
Questi leader servono poco o nulla la causa della rivoluzione, tranne quando e se il
leader populista sceglie le masse e supera il carattere ambiguo, rinunciando alle
manovre a favore della vera organizzazione delle masse. E in tal caso le elite
cercheranno di frenarlo il più rapidamente possibile.
L’INVASIONE CULTURALE
In questo processo gli invasori sono i soggetti, coloro che agiscono, gli invasi sono
oggetti che hanno l’illusione di agire attraverso l’azione degli invasori.
Gli invasori modellano, impongono i loro valori e obiettivi, gli invasi seguono la loro
scelta.
L’invasione culturale porta alla non autenticità dell’essere degli invasi. Questi, come
elementi passivi, devono essere “riempiti” di contenuti che non hanno nulla a che
vedere con la loro visione del mondo.
Agli invasori interessa sapere come gli invasi la pensano, attraverso le scienze sociali
e la tecnologia, ma al fine di dominarli di più.
Quanto più si accentua l’invasione, alienando gli invasi nella cultura e nell’essere,
tanto più questi vorranno somigliare a quelli, camminare come quelli, vestire alla
loro moda, parlare come loro: la stabilità degli invasori è garantita del mimetismo
degli invasi.
C’è un altro aspetto che merita la nostra riflessione: nelle società con strutture di
dominazione, le istituzioni destinate alla formazione, famiglia e scuola, sono
necessariamente segnate da questo clima. L’azione antidialogica, in tal caso può
essere realizzata anche da uomini dominati, “sovra-determinati”, da parte della
cultura propria degli oppressori.
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E più si sviluppano questi rapporti di tipo autoritario, più i figli, nella loro infanzia,
introiettano l’autorità paterna. Questa influenza della famiglia prosegue
nell’esperienza della scuola. In essa, gli educandi scoprono presto che per avere
qualche soddisfazione devono adattarsi a precetti stabiliti verticalmente. E uno di
questi precetti è non pensare.
Qualunque sia la loro specializzazione che li mette in contatto col popolo, la loro
convinzione è che compete loro “consegnare” al popolo le loro nozioni e le loro
tecniche. Il popolo non va ascoltato, in quanto incapace e incolto. E’ assurdo parlare
di una sua visione del mondo,perchè solo i professionisti possono avere una loro
visione del mondo. E data l’ “ignoranza assoluta” del popolo, non possono
partecipare alla preparazione dei programmi educativi, ma solo ricevere gli
insegnamenti.
Questo è uno dei problemi seri che la rivoluzione deve affrontare nella tappa in cui
arriva al potere. I professionisti, uomini cresciuti sotto la “sovra-determinazione” di
una cultura oppressiva che li ha portati al dualismo”, e ciò anche quando vengono
dalle classi popolari, sono necessari alla riorganizzazione della nuova società. Per cui
come fare?
Ma non è possibile lo sviluppo autentico degli uomini, quando il punto di decisione non
è in sé ma in altri. Così come non è possibile lo sviluppo di società dualiste, invase,
dipendenti da altre.
LA COLLABORAZIONE
Non esiste come nella conquista, un soggetto che domina e un oggetto dominato.
Ci sono dei soggetti che si incontrano per dare un nome al mondo (esistere con il
mondo), in vista della sua trasformazione.
Men tre nella teoria dell’azione dialogica l’élite dominante mitizza il mondo per
meglio dominarlo, nella teoria dialogica esige il disvelamento del mondo.
Il disvelamento del mondo e di se stesse, nella prassi autentica, rende possibile alle
masse la loro adesione.
Questa adesione coincide con la fiducia che le masse popolari cominciano ad avere
in se stesse, e nella leadership rivoluzionaria, quando percepiscono la sua dedizione,
autenticità nella difesa della liberazione degli uomini.
La leadership deve confidare che le masse siano capaci di impegnarsi nella ricerca
della loro liberazione, ma la loro fiducia non può essere ingenua, deve sempre
diffidare, dell’ambiguità degli uomini oppressi che deriva dall’oppressore “ospitato”
dentro di loro. Questo “ospite”, con la conseguente loro paura della libertà potrebbe
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condurre gli oppressi alla denuncia, non della realtà oppressiva, ma della leadership
rivoluzionaria, che quindi deve stare attenta a questa possibilità.
(si pensi a quanti per miseria estrema sono “morti in vita”, ombre di uomini, donne,
bambini, che si vendono o vengono venduti per lavorare come schiavi o prostitute).
La necessaria unione delle masse tra loro e con la leadership è impedita da diversi
fattori: in primo luogo le masse sono sotto la pressione del potere dell’élite
dominante, che ostacola ovviamente la loro organizzazione;
Per giungere all’unione degli oppressi occorre passare prima dalla coscienza di
uomo oppresso (il quale si sente spesso su un piano di uguaglianza con animali e
piante, non si percepisce come uomo), poi si arrivi a una coscienza di classe
oppressa, per giungere a un rapporto di solidarietà che consente l’unione.
Per unirsi tra di loro, gli oppressi devono tagliare il cordone ombelicale di carattere
magico e mitico che li lega al mondo dell’oppressione. Perciò l’unione degli oppressi
esige dal processo rivoluzionario che esso sia fin dall’inizio azione culturale che
chiarisca agli oppressi la situazione oggettiva in cui si trovano, che è mediatrice tra loro
e gli oppressori.
L’ORGANIZZAZIONE
Ogni testimonianza autentica, critica, comporta l’audacia di correre rischi, fra cui
quello di non ottenere subito dalle masse popolari l’adesione attesa.
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La leadership non può imporre alle masse la sua parola, non può parlare da sola ma col
popolo, perché altrimenti non organizza il popolo, lo manovra.
Il fatto che la leadership non abbia diritto di imporre arbitrariamente la sua parola,
non significa che debba assumere una posizione liberalista, che porterebbe a licenze
le masse oppresse abituate all’oppressione. Nella teoria dell’azione dialogica quindi,
l’organizzazione, comportando l’autorità, non può essere autoritaria; comportando
la libertà, non può essere licenziosa.
LA SINTESI CULTURALE
Ogni azione culturale ha la sua teoria che determina i suoi fini e i suoi metodi,
l’azione culturale o è a servizio della dominazione o è a servizio della liberazione degli
uomini.
Nella sintesi culturale, che è l’opposto dell’invasione culturale, gli “attori” non
arrivano al popolo come invasori.
Mentre nell’invasione culturale, gli attori entrano dal loro mondo in quello degli
invasi, portandovi un contenuto tematico per l’azione sulla base dei loro valori e
ideologia.
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Nella sintesi culturale, gli attori arrivano per conoscere con il popolo il loro mondo e
non per insegnare, trasmettere, consegnare qualcosa al popolo; gli attori si integrano
con il popolo, sono tutti attori dell’azione che ambedue esercitano sul mondo.
L’incidenza della loro azione è la realtà che deve essere trasformata in vista della
liberazione degli uomini.
La ricerca dei temi generatori o della tematica significativa del popolo è il punto di
partenza del processo di azione in quanto sintesi culturale, perché l’organizzazione di
qualunque programma di azione col popolo parte dalla conoscenza di questi temi.
CONCLUSIONE
gli oppressi, per liberarsi, hanno ugualmente bisogno di una teoria della loro azione.
Il popolo oppresso, a sua volta, introiettando l’oppressore, non può da solo costituire
la teoria dell’azione liberatrice.
perché quello che distingue la leadership rivoluzionaria dall’élite dominante non sono
soltanto i suoi obiettivi ma un ben distinto modo di attuare, se agiscono alla stessa
maniere finiscono per identificarsi.