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AUTISMO

Indagini sullo sviluppo mentale

Capitolo primo

Che cos’è l’autismo

1. Fatti, teorie e metodi di ricerca

• Sono state confutate le ipotesi secondo le quali l’autismo è causato da un


comportamento inadeguato della madre;
• Sono state dimostrate le origini genetiche del disturbo;
• Sono state chiarite peculiarità in ambito cognitivo, emotivo e percettivo;
• Sono stati inventati strumenti utili alla diagnosi precoce e alla valutazione della
gravità del disturbo;
• È stato controllato sperimentalmente l’effetto di varie tecniche di intervento
educativo.

Non è ancora chiaro quali fattori ambientali possano contribuire all’insorgere del disturbo o
influenzarne il decorso. Non si conoscono ancora cure la cui efficacia sia rigorosamente
dimostrata. Non sono stati identificati i geni responsabili del disturbo; l’identificazione delle sue
basi neurali è solo agli inizi.

2. Origine del termine autismo

L’autismo è un disturbo dello sviluppo mentale dovuto ad una patologia dell’ontogenesi del
sistema nervoso centrale. Il termine «autismo» venne inventato da Eugen Bleuler, il quale
chiamava «chiusura autistica» la difficoltà di relazione sociale delle persone colpite da
schizofrenia. I primi a ipotizzare l’esistenza di una «sindrome autistica» furono Leo Kanner
(USA) e Hans Asperger (Vienna). La sindrome di Asperger e l’autismo sono parte di una serie
di disturbi che nei paesi di lingua inglese vengono chiamati Autistic Spectrum Disorders, cioè
Disturbi dello spettro Autistico (DSA).

3. Le prime ipotesi

Kanner propone nove caratteristiche fondamentali per la sindrome autistica: 1) peculiarità


nelle relazioni sociali, 2) disturbi del linguaggio, 3) buone capacità di memoria e
apprendimento, 4) disturbi dell’alimentazione, 5) reazioni emotive eccessive, 6) aderenza alle
routine, 7) buone relazioni con gli oggetti fisici, 8) impaccio motorio e 9) provenienza da
genitori intellettualmente dotati. Alcune di queste caratteristiche hanno trovato conferma nelle
successive indagini. Altre sono considerate ora disturbi associati all’autismo, ma non centrali
per la diagnosi. Per altre infine l’associazione con l’autismo è stata invalidata dalle ricerche.

1) Incapacità di relazione sociale. Secondo Kanner questo è il disturbo fondamentale


dell’autismo. Sin dalla nascita il bambino manifesta un’estrema «solitudine autistica».
2) Abilità linguistica sviluppata con ritardo e senza funzioni comunicative. I bambini non
usano il linguaggio per veicolare significati. Parole e frasi vengono ripetute letteralmente
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(ecolalia), senza legami con l’interlocutore o con il contesto. Questo vale anche per l’uso di
pronomi personali di prima e seconda persona singolare, che vengono ripetuti come vengono
sentiti (es. madre: «ora ti darò il latte», il bambino esprime il desiderio di latte utilizzando le
stesse parole).
3) Buone potenzialità cognitive e di memoria. Il linguaggio viene deviato verso un
esercizio di memoria semanticamente e comunicativamente privo di valore attraverso la
capacità dei bambini di apprendere tramite la semplice ripetizione.
4) Disturbi dell’alimentazione. Presenti fin dalla nascita e talvolta così gravi da
richiedere la somministrazione coatta del cibo. Kanner interpreta questi disturbi come un
tentativo di tenere fuori il mondo e impedire qualsiasi intrusione all’esterno.
5) Panico per rumori e per oggetti in movimento. Questi attacchi non sembravano
dovuti all’intensità del rumore, poiché talvolta il medesimo bambino provava piacere nel
produrre rumori altrettanto intensi.
6) Ripetitività monotona. I bambini hanno un desiderio ansioso e ossessivo per
mantenere delle cose immutate. Il cambiamento provoca disagio, terrore, panico.
7) Buone «relazioni con oggetti inanimati». Il bambino non teme l’intrusione di oggetti
inanimati nel suo mondo se questi non mutano apparenza e posizione. Anzi, possono dare
molto piacere ai bambini autistici quando si adattano ad un uso preferenziale, ad esempio
quello di farli ruotare su se stessi. Secondo Kanner il fervore estatico che accompagna questi
gesti indica una «gratificazione orgasmica».
8) Fisico normale, impaccio motorio. Le capacità di manipolazione e prensione paiono
intatte. Alcuni dei bambini osservati però erano impacciati nell’andatura, nella coordinazione
motoria e nella regolazione della postura.
9) Appartenenza a famiglie intelligenti. Kanner nota che tutti i bambini da lui esaminati
provenivano da «famiglie molto intelligenti» (padri e madri laureati).

Alcune ipotesi iniziali sono state falsificate dalla ricerca scientifica. Ad esempio, non è vero che
esiste una relazione fra autismo e intelligenza dei genitori; anche l’affermazione che la
maggior parte dei bambini autistici abbiano buone potenzialità cognitive è stata confutata
empiricamente (più del 70% presenta ritardo mentale).
Infine, non c’è, a tutt’oggi, alcuna conferma dell’ipotesi che il comportamento «ritirato» dei
bambini serva a sbarrare le intrusioni del mondo esterno nel mondo interno.
Sembra però che Kanner avesse ragione nel proporre che il disturbo si a congenito, anche se
spesso non è manifesto alla nascita.

4. La diffusione

Vari studi condotti in Gran Bretagna, Stati Uniti, nei paesi scandinavi e in Giappone hanno
trovato un’incidenza di circa 2 casi per 10.000. considerando tutte le forme di DSA nei bambini
di età inferiore a cinque anni, è stata trovata un’incidenza dell’8,3 per 10.000.
Il disturbo è molto più frequente nei maschi che nelle femmine con una proporzione di circa
4:1. Studi condotti in Gran Bretagna hanno trovato una maggiore incidenza nelle famiglie
provenienti da paesi asiatici e centroamericani. Le differenze etniche potrebbero derivare da
fattori legati all’esperienza di immigrazione.

5. La ricerca delle cause

L’origine genetica di molti casi di DSA è ormai indubitabile, tuttavia non sono stati ancora
individuati i geni coinvolti.
Per quanto riguarda le cause psicologiche, le spiegazioni individuano problemi nell’elaborazione
delle informazioni che danno origine alle difficoltà comportamentali.
Per quanto concerne quelle biologiche, le risposte date a questo livello individuano le basi
neurali e genetiche delle funzioni e disfunzioni mentali. I livelli di spiegazione psicologico e
biologico non si escludono a vicenda.
Le cause evolutive sono quelle che determinano le devianze del processo ontogenetico. Esempi
di cause evolutive biologiche sono l’infezione virale, o l’anomalia genetica, mentre a livello
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psicologico possiamo trovare la deprivazione nell’imput ambientale durante un periodo critico


per lo sviluppo.
Le cause immediate sono i fattori che contribuiscono nel presente alla manifestazione di una
certa difficoltà. Esempi si cause immediate di tipo biologico sono la presenza di una eccessiva
quantità di un certo neurotrasmettitore o la malformazione di una struttura cerebrale. Esempi
di cause immediate psicologiche sono la mancanza di una particolare conoscenza concettuale o
di una procedura di elaborazione delle informazioni.

I capitoli che seguono sono dedicati particolarmente alle cause evolutive e immediate di tipo
psicologico.

Capitolo secondo

Aspetti diagnostici e basi biologiche

1. I deficit centrali nell’autismo

Questi deficit sono raggruppati in tre aree: le relazioni sociali, le capacità comunicative, il
repertorio di attività e interessi.
Per dare risalto alla grande variabilità interindividuale e all’esistenza di un continuum di gravità
del disturbo, alcuni esperti parlano ora di Disturbi dello Spettro Autistico (DSA). A sostegno di
questa concezione «continuista» è stato scoperto che alcune caratteristiche sociali e attentive
tipiche degli autistici possono presentarsi in forma lieve, anche nei loro genitori.
Nello schema del DSM i sintomi dell’autismo sono divisi in tre aree: interazione sociale,
comunicazione e immaginazione. L’aspetto deviante più caratteristico è la mancanza di
interazione sociale. I bambini autistici manifestano scarso interesse per il gioco sociale e per il
condividere le esperienze, hanno scarsa consapevolezza dei sentimenti altrui e permanenti
difficoltà nello sviluppare amicizie.
L’attività comunicativa in alcuni casi è completamente assente, in altri casi può essere
frequente, ma caratterizzata da messaggi non appropriati al contesto. I comportamenti tipici
includono ecolalia, la sostituzione dei pronomi personali «tu» e «io», il contorno intonazionale
monotono e piatto, le espressioni facciali improprie, lo scarso contatto oculare, le difficoltà a
iniziare e continuare una conversazione. Il gesto di indicazione è presente, ma solo con
funzione richiestiva. L’indicazione non richiestiva, o «protodichiarativa», compare con grave
ritardo o per nulla.
Gli interessi sono molto limitati e ossessivamente rivolti verso un atteggiamento specifico. Il
cambiamento di routine provoca un’ansia esagerata. Vi può essere un interesse molto
accentuato per parti di oggetti o del corpo. Manca il gioco di finzione spontaneo. Sono
frequenti le stereotipie motorie quali lo «sfarfallamento» delle mani: il bambino si porta
ripetutamente le mani ai lati della testa e le fa oscillare, oppure muove le dita come se stesse
grattando o facendo il solletico all’aria.

Fra gli strumenti diagnostici più usati troviamo la Autism Diagnostic Interview – Revised (ADI-
R; Lord, Rutter e Le Couteur, 1994) e la Autism Diagnostic Observational Schedule (ADOS,
Lord et al., 2000). L’Autism Screening Questionnaire (ASQ) è utile nelle fasi iniziali della
diagnosi (Berument et al., 1999).
A questi elementi si affiancano strumenti di valutazione della gravità del disturbo, quali l’ABC
(Autistic Behavior Checklist; Krug, Arick e Almond, 1979) e il CARS (Childhood Autism Rating
Scales; Schopler et al., 1980).

Una distinzione adottata è quella fra autismo primario e secondario. L’IDC-10 (International
Classification of Diseases; World Health Organization, 1990) richiede la diagnosi di autismo
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atipico quando non viene soddisfatto il requisito dell’emergenza precoce (prima dei tre anni) e
quello della presenza di sintomi in tutte e tre le aree deficitarie.

Criterio diagnostico per l’autismo del DSM-IV (1994)

I. Primo punto. Almeno due sintomi nell’ambito di «a», uno dei sintomi elencati nell’area «b» e
uno fra quelli di «c»

a) Deficit nell’interazione sociale


1) danno nei comportamenti non verbali
2) mancato sviluppo di appropriate relazioni con coetanei
3) mancanza di tentativi di condivisione di esperienze, piaceri e interessi
4) mancanza di reciprocità sociale ed emotiva

b) Deficit nella comunicazione


1) ritardo o mancanza del linguaggio espressivo
2) danno nella capacità di iniziare o mantenere viva una conversazione
3) uso stereotipato e ripetitivo del linguaggio
4) mancanza di gioco di finzione e di imitazione tipico del livello evolutivo

c) deficit negli interessi e nelle attività


1) ambito degli interessi anormale nel focus o nell’intensità
2) aderenza inflessibile a certe routine
3) manierismi motori
4) interesse persistente per parti di oggetti

II. Secondo punto. Ritardo o sviluppo anormale manifestato prima dei tre anni in almeno una
delle seguenti aree: interazione sociale, uso comunicativo del linguaggio, gioco di finzione

III. Terzo punto. Il disturbo non soddisfa il criterio per la diagnosi di altri disturbi evolutivi quali
il disturbo di Rett o il disturbo disintegrativo.

2. Le abilità preservate

Una delle abilità savant degli autistici riguarda certi tipi di memorizzazione e di apprendimento,
per esempio quello relativo agli argomenti in cui è focalizzato l’interesse del bambino. Vi sono
poi abilità spaziali come quelle rilevate nel test delle figure incluse (Embedded Figures Test,
Jolliffe e Baron-Cohen, 1997) o il Block design delle scale di intelligenza Wechsler.
Le abilità discriminative nella modalità visiva e uditiva possono essere molto sviluppate. Alcuni
autistici possiedono l’«orecchio assoluto» (precisione nello stabilire se una data stimolazione
uditiva corrisponde ad una nota musicale). Un’altra capacità talvolta molto sviluppata è il
calcolo delle date del calendario. Si sono riscontrate anche superiori abilità grafiche dimostrate
nelle prove di copia di ambienti e soggetti.

3. I disturbi associati

Fra questi vi sono: il ritardo mentale e del linguaggio, le anomalie della deambulazione e di
altre abilità motorie, i disturbi dell’alimentazione, le risposte insolite a stimolazioni sensoriali,
l’irritabilità all’essere toccati e le reazioni esagerate a certi stimoli o situazioni.
Circa il 70% dei bambini autistici presenta un ritardo mentale medio o grave. Il ritardo mentale
è più frequente tra i bambini piccoli che fra gli adolescenti e gli adulti; è raro osservare
bambini autistici di età inferiore ai cinque anni che non presentino ritardo mentale.
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4. Le prime manifestazioni e la diagnosi nei primi anni

Secondo Kanner l’autismo è presente fin dalla nascita. La mancanza di atti anticipatori
all’essere presi in braccio è stata confermata in uno studio condotto sulle videoregistrazioni
eseguite dai genitori di bambini autistici nei primi anni di vita. Altri studi riportano tuttavia uno
sviluppo complessivamente normale fino a circa 12 mesi. I genitori spesso riportano anomalie
comportamentali nella seconda metà del secondo anno di vita; in alcuni bambini manifestazioni
devianti sono state osservate nel primo anno di vita. Tra quelle più frequenti troviamo
irritabilità, disturbi del ritmo sonno/veglia e dell’alimentazione. Queste però non sono anomalie
specifiche del DSA.
Uno dei metodi adottati per affrontare il problema dell’insorgenza precoce è quello delle
indagini retrospettive. Esse si basano sui resoconti forniti dalle madri dopo che è stata
formulata la diagnosi di autismo. La difficoltà è che i ricordi possono essere influenzati dalla
diagnosi e dalle esperienze successive. Studi svolti con test per la valutazione dello sviluppo
sociale (le scale Vineland) mostrano nei bambini con autismo anomalie relative a molti
comportamenti sociali semplici: incapacità di adattamento posturale, anomalie affettive verso i
familiari, interessi anomali verso altri bambini, anomali tentativi di avvicinarsi alle persone
note, interesse anomalo per le attività degli altri e anomala imitazione di semplici movimenti
come il saluto.
Altri studi hanno esaminato il valore predittivo delle valutazioni mediche sullo stato di salute
nei bambini prima dei due anni. Sono predittive le valutazioni condotte a diciotto mesi, ma non
quelle condotte a dodici mesi.
Un terzo metodo è quello degli studi prospettivi. Essi consistono nell’osservazione dei bambini
in età precoce, anche prima di poter formulare una diagnosi certa.
Baron-Cohen, Allen e Gillberg (1992) hanno indagato il valore diagnostico del ritardo
nell’emergenza di vari comportamenti sociali in bambini di diciotto mesi. Sono stati esaminati
bambini con un fratello maggiore autistico, valutando il ritardo con il Checklist for Autism in
Toddlers (CHAT), un breve questionario che viene compilato con l’aiuto dei genitori e
l’osservazione diretta. I risultati suggeriscono l’assenza di alcuni comportamenti quali
l’attenzione condivisa (guardare alternativamente un oggetto e l’interlocutore), l’indicazione
non richiestiva e il gioco di finzione hanno, all’età di diciotto mesi, un alto valore diagnostico.
Basare una valutazione solo su questi indici può portare purtroppo a molti falsi negativi
(affermare che un individuo non è autistico quando invece lo è); solo un terzo dei bambini con
DSA viene individuato dal CHAT.
La Child Neurology Society e la American Academy of Neurology ne consigliano l’uso solo se:
• A dodici mesi non sono presenti lallazioni e gesti di indicazione;
• A sedici mesi non è presente neanche una parola del linguaggio espressivo;
• A ventiquattro mesi non ci sono combinazioni di due parole (escluse le ecolalie);
• Si è osservata nel tempo una perdita di capacità linguistiche o sociali.

5. Le differenze fra autismo e altri disturbi simili

5.1. Sindrome di Asperger. Le persone con sindrome di Asperger soddisfano il criterio


diagnostico dell’autismo, ma non presentano ritardi intellettivi e linguistici. La seconda
differenza riguarda l’impaccio motorio, generalmente più presente in questa sindrome, anche
se alcuni studi dimostrano la loro presenza anche nell’autismo. La sindrome di Asperger è un
DSA in cui il ritardo intellettivo è assente o molto ridotto.

DSM-IV Sindrome di Asperger

a) Deficit dell’interazione sociale (almeno due)


1. deficit della comunicazione non verbale
2. mancanza di relazioni con coetanei adeguate al livello evolutivo
3. mancanza di ricerca di condivisione di interessi, piaceri e successi
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4. mancanza di reciprocità sociale

b) Repertorio di interessi e attività ristretti (almeno uno)


1. anormale focus o intensità in un ambito di interessi molto ristretto
2. aderenza inflessibile a rituali
3. manierismi motori
4. attenzione persistente su parti di oggetti

c) malfunzionamento in ambito sociale e occupazionale

d) Nessun ritardo del linguaggio evidente nell’osservazione clinica

e) Nessun ritardo cognitivo evidente nell’osservazione clinica

f) Non viene soddisfatto il criterio per un altro disturbo pervasivo dello sviluppo

5.2. Schizofrenia. Assomiglia all’autismo nei deficit sociali e comunicativi. Un aspetto cruciale è
l’età in cui compare il disturbo; precoce, prima dei tre anni, nel caso dell’autismo e tardiva,
dopo la prima infanzia, nella schizofrenia. Le persone con autismo non hanno allucinazioni
visive né auditive, e inoltre, l’autismo è associato al ritardo mentale più di quanto lo sia la
schizofrenia. Negli schizofrenici di solito non si trovano le ossessioni per gli oggetti o parte di
essi e il loro uso ripetitivo, e i movimenti ritualizzati non sono presenti nei DSA.

5.3. Disturbo di Rett. Qui sono osservabili i sintomi tipici dell’autismo, ma questi sono
accompagnati da uno sviluppo vistosamente anomalo dell’encefalo. Fra i cinque mesi e i
quattro anni, l’accrescimento della testa subisce un rallentamento, vengono perse o si
deteriorano alcune abilità di manipolazione e deambulazione acquisite precedentemente,
compaiono stereotipie motorie. Lo sviluppo del linguaggio presenta gravi ritardi, sia nelle
abilità di comprensione che di espressione. Il disturbo di Rett si osserva solo nelle femmine,
mentre l’autismo colpisce entrambi i sessi, ed è più frequente nei maschi.

6. Origini genetiche e basi biologiche.

Sulle origini genetiche le prove più convincenti riguardano il confronto tra fratelli gemelli
identici e fratelli non identici. Data la rarità di bambini con autismo e con un fratello gemello
identico è facile immaginare quanto sia difficile raccogliere casistiche sufficientemente ampie
da permettere un confronto tra gruppi.
In tre importanti studi non si sono osservati casi di autismo nel gruppo dei fratelli gemelli
dizigoti. Nel caso invece di fratelli monozigoti Folstein e Rutter hanno trovato il 37% di fratelli
affetti dalla stesa sindrome. Steffenburg e colleghi il 90%, Bailey e colleghi il 69% dimostrando
così il ruolo centrale del patrimonio genetico. Un altro dato che indica il ruolo della componente
genetica riguarda i fratelli non gemelli. La concordanza della diagnosi di DSA in coppie di
fratelli non identici è del 2-6%, mentre l’incidenza nella popolazione in generale è molto più
bassa, uno su mille o uno su duecento.

Non è stato individuato alcun gene dell’autismo ed è molto improbabile che esista un solo gene
responsabile.

Un’altra recente fonte di prove è costituita dalle ricerche sui genitori dei bambini con autismo.
Alcuni studi hanno messo in evidenza significative caratteristiche dell’autismo nel
comportamento e nelle funzioni cognitive dei padri dei bambini con autismo, ad esempio un
maggiore successo in compiti che richiedono un ragionamento su problemi fisici invece che
psicologici e una tendenza a elaborare informazioni privilegiando l’analisi di dettagli piuttosto
che aspetti strutturali globali.
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7. Spiegazioni funzionaliste e neuropsicologia dell’autismo.

Diversamente dalla neuropsicologia classica, la moderna neuropsicologia cognitiva pone in


primo piano non la localizzazione, ma l’identificazione e la descrizione delle funzioni mentali
stesse. Per spiegare funzionalmente un disturbo del comportamento dobbiamo definire con
precisione i processi mentali che normalmente sottostanno a tale abilità. Le spiegazioni
funzionali in neuropsicologia cognitiva scompongono le capacità mentali in rappresentazioni e
processi. La rappresentazione è «qualcosa che sta per qualcos’altro» (il suo significato).
Secondo molti scienziati alcune rappresentazioni mentali sono di tipo simbolico e i
simboli che le compongono vengono combinati rispettando regole sintattiche, proprio
come succede per il linguaggio. Le spiegazioni funzionali sono irriducibili alle spiegazioni
fisiologiche o fisiche.
Alcuni processi mentali manifestano un’organizzazione modulare. I moduli mentali sono
componenti specializzate e relativamente indipendenti l’una dall’altra. Il loro funzionamento è
automatico, veloce, obbligatorio quando sono presenti certe condizioni di stimolo e basato su
rappresentazioni specializzate per un certo dominio (es. numeri, musica, regole grammaticali).
Una spiegazione funzionale tipica in neuropsicologia invoca il malfunzionamento di un modulo,
o la perdita di connessione fra due moduli.
La neuropsicologia dell’autismo permette di affrontare empiricamente uno dei problemi centrali
per le neuroscienze: quello della specificità di dominio nei processi mentali ontogenetici. Il
problema, semplificando un po’, è questo: l’acquisizione di conoscenze in domini diversi (es.
numeri, grammatica, cause meccanica, processi psicologici) viene promosso dagli stessi
meccanismi, oppure da meccanismi specializzati e diversi per un solo dominio? Lo studio
dell’autismo si è rivelato di grande utilità nel dare una risposta a questa domanda.
Una buona teoria neuropsicologia dell’autismo può essere infine di grande aiuto nella ricerca di
tecniche di intervento. Un intervento educativo efficace individua gli obiettivi da raggiungere e
impiega metodi appropriati alle capacità del bambino. La definizione degli obiettivi e
l’individuazione dei mezzi educativi per raggiungerli dipendono dalle conoscenze che abbiamo
delle funzioni e capacità di apprendimento danneggiate e preservate nelle persone con
autismo.

Gli scopi di una teoria neuropsicologia generale dell’autismo sono tre: 1) fornire una
spiegazione funzionale del disturbo, 2) localizzare le funzioni mentali e 3) guidare la ricerca di
tecniche d’intervento.

Capitolo terzo

Comunicazione e linguaggio

1. Selettività e specificità dei deficit

Le capacità di espressione verbale di bambini con autismo migliorano con l’età, dunque anche
in questo settore bisogna affrontare il problema della variabilità inter- e intraindividuale.

Parliamo di deficit selettivo quando il deficit è più accentuato di quello che ci si può aspettare
in base al ritardo mentale. La valutazione della selettività avviene utilizzando test diversi,
compiti di controllo e gruppi di controllo.
La selettività può essere distinta dalla specificità: il deficit x è specifico per l’autismo quando
non è presente in bambini senza autismo. Nel caso di deficit isolati, o molto circoscritti, si parla
di deficit puri. In ogni autistico vi sono in generale vari deficit selettivi, quindi non vi sono
deficit puri.
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2. Codice linguistico, comunicazione e acquisizione del linguaggio

Le rassegne della letteratura pertinente concludono che, a grandi linee, le conoscenze


grammaticali, lessicali e fonologiche sono spesso coerenti con il livello di sviluppo mentale
generale, mentre gli aspetti pragmatici sono selettivamente danneggiati. La pragmatica
riguarda l’adattamento del linguaggio agli scopi e al contesto comunicativo. Fra gli aspetti
pragmatici che risultano deficitari vi sono le capacità di iniziare una conversazione, l’uso di
pronomi personali contestualmente adeguati e la prosodia.
Linguaggio e pensiero sono processi distinti, sebbene fra loro collegati. Il linguaggio codifica il
pensiero, lo rende conscio e comunicabile, può influenzare il ragionamento, ma non è
necessario alle attività di pensiero. Gli elementi che compongono il linguaggio sono
individuabili a più livelli. Al livello più «semplice» troviamo i fonemi (i suoni linguistici), e le
combinazioni fonetiche ammesse da una lingua. Vi sono poi i morfemi (le parti di parole dotate
di significato), le parole intere, le parti di una frase, le frasi, le parti di un discorso e infine, i
discorsi. Tutte queste unità vengono combinate secondo le rigide regole della grammatica. Fra
queste regole vi sono le regole fonologiche, morfologiche e sintattiche. Le regole fonologiche
stabiliscono quali combinazioni di suoni sono ammesse in una certa lingua (in italiano le
combinazioni «bul», «tuc», e «arp» rispettano le regole fonologiche, mentre «prt» o «ifv» le
violano). Alcune regole morfologiche stabiliscono come devono essere combinate le parti di
una parola per esprimere il genere (maschile/femminile), il numero (singolare/plurale), il modo
(indicativo/congiunto), il tempo (passato/presente) ecc. e si chiamano regole di morfologia
inflessionale. Un esempio è che per formare il participio passato di un verbo della prima
coniugazione («amare») va aggiunta alla radice del verbo («am-») l’inflessione «-ato». Le
regole di morfologia derivazionale vincolano la forma delle parole nuove e servono alla loro
creazione per mezzo di parole note (ad es. «tangentopoli» da «tangenti» e «polis»).
Le regole sintattiche sono invece rispettate nel combinare le parole per produrre frasi ben
formate. In tutte le lingue la combinazione delle parole viene ottenuta raggruppando prima le
parole in parti fondamentali della frase. La struttura rispetta un’organizzazione in sintagmi.
Nella frase «il postino suona tre volte» vi sono due raggruppamenti principali: «il postino»
(sintagma nominale) e «suona tre volte» (sintagma verbale).
Molti concordano con Noam Chomsky nell’ipotizzare che il meccanismo responsabile
dell’acquisizione di conoscenze grammaticali sia altamente specifico, diverso da quelli che
regolano lo sviluppo di altre componenti e delle conoscenze concettuali in altri termini.

Un ritardo dello sviluppo grammaticale, nell’acquisizione sia delle regole morfologiche sia di
quelle sintattiche, si osserva con frequenza nell’autismo.

3. Acquisizione del significato delle parole

3.1. Vincoli semantici e pragmatici. Molte ricerche hanno mostrato che nell’udire un nome
nuovo i bambini tendono a pensare che questo si riferisca all’oggetto intero e non al colore,
alla grandezza, alla posizione, o a una sua parte. Questa tendenza viene attribuita all’uso di un
vincolo, il vincolo dell’oggetto intero. Esso dipende probabilmente da aspetti generali del
funzionamento del sistema percettivo. Il mondo ci appare come composto da oggetti interi.
Secondo un altro vincolo, quello della mutua esclusività, per uno stesso oggetto non ci possono
essere due nomi diversi. In alcune occasioni però i vincoli possono diventare un ostacolo
all’apprendimento. Ad esempio, se il bambino tende a usare sempre il vincolo dell’oggetto
intero può essere ostacolato nell’apprendere gli aggettivi o i nomi per le parti di oggetti.
Sembra che l’applicazione del vincolo dell’oggetto intero possa essere bloccata dal vincolo
della mutua esclusività. In questo modo il bambino imparerebbe l’uso di parole che si
riferiscono a parti di un oggetto conosciuto. In uno studio eseguito con i metodi di Markman e
Wachtel (1988), a bambini con autismo, ad altri con ritardo mentale e a soggetti con sviluppo
normale di pari età mentale a quella dei bambini con autismo, veniva richiesto di svolgere un
compito di interpretazione di parole nuove. I bambini con sindrome di Down e quelli con
sviluppo tipico pensavano che il nome nuovo riferito ad un oggetto conosciuto si riferisse ad
una parte dell’oggetto, mentre nel caso di oggetti sconosciuti pensavano si riferisse all’oggetto
intero. Al contrario, i bambini con autismo sceglievano la parte dell’oggetto in entrambi i tipi di
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prove. Questo risultato suggerisce che i bambini con autismo non sono in grado, o trovano
grande difficoltà, ad applicare il vincolo dell’oggetto intero. In un esperimento successivo è
stato studiato se i bambini con autismo erano in grado di applicare il vincolo della mutua
esclusività nel caso in cui la sua applicazione non dovesse opporsi alla loro tendenza
all’elaborazione di informazioni locali. In questo esperimento non sono state trovate differenze
con il gruppo di controllo.
Bloom (2000) rende esplicita una serie di assunti e inferenze:

- so che una banana si chiama banana.


- se il parlante intendeva riferirsi alla banana, mi avrebbe chiesto di mostragli la banana.
- ma non lo ha fatto; ha usato una parola strana, fendle.
- quindi deve aver voluto riferirsi a qualcosa di diverso dalla banana.
- un candidato plausibile è l’altro oggetto (la frusta per sbattere le uova).
- fendle dovrebbe riferirsi alla frusta per sbattere le uova.

Questi ragionamenti richiedono una capacità pragmatica che di solito si esclude nei bambini
autistici mentalmente ritardati. Nel ragionamento proposto da Bloom vi sono termini (sapere,
intendere e volersi riferire) che presuppongono una comprensione della mente altrui. Ma
questa comprensione è proprio ciò che sembra mancare ai bambini autistici. Si aprono quindi
tre possibilità:
- il vincolo della mutua esclusività non richiede forse i ragionamenti sofisticati ipotizzati da
Bloom;
- nei compiti di acquisizione lessicale i bambini con autismo dimostrano abilità pragmatiche più
sviluppate di quelle che solitamente vengono loro attribuite;
- i bambini con autismo mancano del vincolo della mutua esclusività utilizzato dai bambini con
sviluppo tipico, ma hanno sviluppato capacità e strategie compensative.

3.2. Sviluppo lessicale e «teoria della mente». Baldwin (1991) ha dimostrato che i bambini di
diciotto mesi con sviluppo tipico non si limitano registrare il verificarsi simultaneo di parole ed
esperienze visive per dedurre il significato di parole. Nella situazione sperimentale da lui
proposta il bambino e lo sperimentatore sedevano ai lati di un tavolo dove si trovavano due
oggetti sconosciuti. Mentre il bambino manipolava uno di essi lo sperimentatore affermava
«Oh, è un modi», ma i bambini non sempre interpretavano la parola nuova come un
riferimento all’oggetto che stavano manipolando. Se lo sperimentatore, nel pronunciarla,
guardava l’altro oggetto, i bambini dimostravano di interpretare la parola come riferimento
all’oggetto osservato dallo sperimentatore. Quindi, a diciotto mesi, i bambini utilizzano lo
sguardo di chi pronuncia una parola nuova per interpretarla correttamente.
Questo studio è stato replicato con bambini autistici da Baron-Cohen, Baldwin e Crowson
(1997): le interpretazioni basandosi sullo sguardo dei bambini autistici arrivavano solo al 29%.

Intervenire allora nel controllo dello sguardo potrebbe essere un modo per aiutare i bambini
autistici a sviluppare non solo maggiori capacità sociali, ma anche migliori conoscenze
linguistiche.

3.3. I processi di categorizzazione: un prerequisito per l’apprendimento del significato delle


parole. La categorizzazione è la funzione cognitiva che permette di formare classi di oggetti,
eventi o altre entità sulla base di qualche somiglianza, e trattare vari individui come
equivalenti, sebbene differiscano in molti aspetti che tuttavia percepiamo. Le capacità di
categorizzazione dei bambini autistici sono state studiate da Ungerer e Sigman (1987)
registrando i soggetti mentre manipolavano e raggruppavano spontaneamente alcuni oggetti.
Oltre alla capacità di categorizzazione, veniva valutata la capacità di linguaggio ricettivo dei
bambini, per evidenziare le relazioni fra sviluppo linguistico e sviluppo delle capacità di
categorizzazione. Il risultato principale è che fra i gruppi di bambini non è emersa alcuna
differenza nelle capacità di categorizzare oggetti in base alla forma, al colore e ad alcune
categorie generali come veicoli e animali. Nei bambini con autismo il deficit nella
categorizzazione è riconducibile al loro generale livello di sviluppo intellettivo. Per quanto
riguarda le relazione tra categorizzazione e sviluppo del linguaggio vi era un’associazione
significativa nel gruppo di controllo, ma non fra gli autistici. Quindi la presenza di buone
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capacità di categorizzazione non è sufficiente a garantire lo sviluppo linguistico nei bambini


autistici, e il loro ritardo linguistico non è attribuibile a difficoltà nei processi di
categorizzazione.
Vi sono infine alcuni studi sull’organizzazione delle conoscenze semantiche e sui processi di
accesso a tali conoscenze. Tager-Flusberg (185) ha indagato la conoscenza semantica di nomi
di oggetti concreti sia a livello di base (barca, uccello), sia a livello più generale (utensile,
cibo). I bambini dovevano decidere quali degli oggetti presentati appartenevano alla categoria
nominata dallo sperimentatore. Il risultato è stato una prestazione dei bambini autistici
complessivamente buona ed equivalente a quella degli altri gruppi. È importante notare che i
membri dei concetti di livello superordinato («utensile») condividono poche caratteristiche
percettive e la loro appartenenza categoriale è determinata da proprietà funzionali di
complessità e astrazione talvolta notevoli. Le capacità dimostrate degli autistici quindi
contraddicono qualsiasi teoria che affermi un’associazione stretta fra autismo e
generali problemi nella rappresentazione concettuale astratta.

4. Comunicazione e conoscenze conversazionali

4.1. Gesti di indicazione e attenzione condivisa. Wetherby osserva che alcune funzioni
comunicative nei bambini autistici sono molto frequenti, fra queste troviamo le richieste di
azioni e di oggetti e le proteste. Al contrario, altre funzioni, quali le richieste di informazioni,
denominazioni, e azioni dimostrative, sono totalmente assenti. Le azioni ostensive, come il
mostrare un oggetto o l’indicarlo senza l’intenzione di ottenerlo, e le denominazioni di oggetti
sono del tutto assenti. È importante notare che non manca una certa forma comunicativa, ad
esempio il gesto di indicazione, quanto piuttosto una particolare forma veicolata da quella
forma, ad esempio l’indicare senza intenzione richiestiva.
Nei bambini autistici l’assenza di indicazione protodichiarativa permane a lungo e
costituisce un importantissimo indice per la diagnosi precoce. Queste dissociazioni
suggeriscono che le due funzioni richiedono meccanismi mentali diversi. Per l’indicazione
richiestiva potrebbe essere sufficiente l’intenzione di influenzare il comportamento
dell’interlocutore, mentre per la seconda potrebbe essere indispensabile formulare l’intenzione
di agire sul suo stato mentale, in particolare il suo stato attentivo.

L’assenza di gesti protodichiarativi sarebbe quindi un’incapacità di rappresentare stati attentivi.


Si potrebbe spiegare anche con il fatto che il gesto protodichiarativo può essere motivato da
interesse per cambiamenti comportamentali, cambiamenti nell’espressione del volto e nelle
vocalizzazioni dell’interlocutore. Se i bambini autistici presentano deficit nella percezione delle
espressioni emotive, viene a mancare la motivazione principale, o il «rinforzo» per esibire
indicazioni non richiestive.

4.2. Codice linguistico e massime conversazionali. Il linguaggio naturale è un sistema di


codifica/decodifica dei messaggi, ma l’attività di comunicazione non può essere ridotta allo
stesso processo. Basandosi sull’assunto di razionalità, arriviamo a interpretare correttamente
quello che una persona ci dice con una frase, una parola o qualche volta una semplice
occhiata. Per quanto veloce e spontanea, l’interpretazione di enunciati è un processo di
ragionamento, non semplicemente di decodifica.
Se la produzione e la comprensione di enunciati è basata sulla conoscenza delle massime
conversazionali (Grice, 1975), oppure sulla sensibilità al principio di pertinenza (Sperber e
Wilson, 1986), allora una possibile fonte di difficoltà potrebbe essere l’incapacità a determinare
quando tali massime sono violate. Surian, Baron-Cohen e Van der Lely (1996) hanno
riscontrato che sia i bambini con autismo, sia i bambini con disturbo specifico del linguaggio e
sia i bambini con sviluppo tipico (4 anni) incontravano difficoltà nel rispettare la massima della
Quantità. I bambini con autismo non riconoscevano nemmeno le altre massime. In un
compito di controllo in cui le violazioni da individuare erano di tipo grammaticale invece che
pragmatico, i bambini con autismo avevano una prestazione buona comparabile a quella degli
altri bambini. Sembra improbabile quindi che le cattive prestazioni nel compito riguardante le
violazioni pragmatiche siano dovute a deficit attentivi ed esecutivi. Infine nel gruppo con
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autismo si è riscontrata un’associazione significativa fra la prestazione ad una prova sulla falsa
credenza e il successo nel compito delle violazioni pragmatiche.

5. Strutture grammaticali complesse

Per applicare le regole sintattiche un parlante deve elaborare informazioni sulla struttura che
lega i sintagmi, ovvero le parti di una frase. Queste strutture sono talvolta di straordinaria
complessità, ma di tale complessità per lo più non siamo coscienti. È molto improbabile che i
bambini riescano ad apprendere queste regole attraverso meccanismo generali di natura
associativa. È invece plausibile che esista un sistema di acquisizione specializzato per lo
sviluppo sintattico. Altri meccanismi guidano l’acquisizione di aspetti diversi, ad esempio le
conoscenze e le abilità fonologiche o lessicali.
Lo sviluppo grammaticale, cioè l’acquisizione delle regole sintattiche e morfologiche, non
risulta selettivamente danneggiato nell’autismo.

6. Discorsi e linguaggio figurato

Tager-Flusberg ha utilizzato un libro di figure senza parole molto spesso adottato nelle ricerche
sullo sviluppo della capacità narrativa intitolato Frog: where are you?
In confronto ai bambini con ritardo mentale e ai bambini normali, i bambini autistici
producevano storie più brevi e con un minor numero di proposizioni. Alcuni di loro addirittura
non interpretavano le figure come una sequenza di eventi legati e si limitavano a descrivere
separatamente le figure di ogni pagina. Inoltre vi era una totale assenza di affermazioni causali
sugli eventi narrati. Tager-Flusberg e Sullivan indicano una stretta correlazione tra
l’assenza di affermazioni causali e abilità nei compiti di falsa credenza. L’assenza di
tali affermazioni quindi, potrebbe derivare dall’incapacità di comprendere le cause psicologiche
dei personaggi della storia.
Un altro aspetto studiato nelle persone con autismo è la loro capacità di comprendere il
linguaggio figurato. Il compito di comprendere un enunciato richiede di andare oltre la
semplice decodifica linguistica. Ciò è particolarmente chiaro nel caso delle metafore e
dell’ironia. L’ironia è un caso particolarmente complesso perché richiede l’attribuzione di un
atteggiamento particolare rispetto a uno stato mentale. Mario consegna un compito scorretto
in matematica e l’insegnante gli dice: «sei proprio un genio in matematica». In questo caso,
per capire, è necessario attribuire un atteggiamento - di scherno – rispetto a uno stato
mentale (quello di credere che Mario sia bravo in matematica).

Happé ha trovato che solo alcune persone autistiche comprendevano le metafore e quasi
nessuna capiva l’ironia. La comprensione di metafore era associata significativamente alla
capacità di attribuire stati mentali.

Capitolo quarto

Teoria della mente

1. Metarappresentazione e «psicoagnosia»

Nella teoria metarappresentativa dell’autismo (Alan Lesile, Baron-Cohen, Uta Frith) si parte
dall’ipotesi che esista nella mente un «Meccanismo della Teoria della Mente», un modulo
specializzato nel produrre rappresentazioni di stati mentali come CREDERE, CONOSCERE o FAR
FINTA. Il meccanismo della Teoria della Mente (ToMM, Theory of Mind Mechanism) è una parte
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del sistema cognitivo. Il suo input è costituito da «rappresentazioni primarie» prodotte da altri
moduli, che codificano stati di fatto in modo letterale. Il suo output è costituito da
rappresentazioni secondarie che chiameremo «metarappresentazioni». La
metarappresentazione è una struttura di dati particolare che codifica l’atteggiamento di un
agente nei confronti di una proposizione.
Le metarappresentazioni sono quindi formate da tre parti: un simbolo per una persona (o un
animale), una proposizione (cioè il significato di una frase) e un concetto relativo a uno stato
mentale (ad esempio, SPERARE, CREDERE, FAR FINTA).
Ad esempio, nel pensare che Michele crede che la palestra sia chiusa, Sabrina forma una
rappresentazione del significato del suo pensiero: «M CREDE che p» (dove M = Michele, p = la
palestra è chiusa). Questa è una rappresentazione nella testa di Sabrina, ma uno dei simboli
che vi compaiono, p, si riferisce a una rappresentazione nella testa di Michele. La chiamiamo
metarappresentazione perché è la rappresentazione mentale di un’altra rappresentazione
mentale.
Vista la prolissità dell’espressione «deficit nella Teoria della Mente» (theory of mind deficit), qui
si suggerisce un nuovo termine, psicoagnosia. Questa espressione si riferisce in modo
trasparente alla mancanza di conoscenze (agnosia) sulla mente (psiche).

2. Gioco di finzione e origini della «teoria della mente»


Il gioco di finzione testimonia l’emergere di una teoria della mente, perché nel fingere e
comprendere la finzione negli altri il bambino deve disporre sia di rappresentazioni primarie
sullo stato di fatto, sia di rappresentazioni secondarie, metarappresentazioni, sullo stato
mentale di chi sta fingendo.
Grazie a questa capacità i bambini possono con facilità interpretare le frasi di un compagno di
giochi che dice «Io ero il dottore, e tu eri il malato», «Questo bastone è una spada», «Questa
banana è un telefono». Interpretare correttamente queste frasi utilizzando
metarappresentazioni permette loro di evitare aberrazioni dello sviluppo semantico e
concettuale in cui i bastoni sono spade, o le banane sono telefoni! In questa prospettiva, la
mancanza del gioco di finzione nei bambini con autismo è perciò un indizio del
ritardo nello sviluppo metarappresentativo.

3. Esperimenti sulla comprensione psicologica nell’autismo

Le ricerche sull’attribuzione di credenze false sono state il banco di prova più importante per la
teoria metarappresentazionale. Nella prima ricerca è stato presentato ai bambini uno scenario
composto da due bambole, Sally e Ann, una scatola, un cesto e una pallina (Baron-Cohen,
Lesile e Frith). Si raccontava a loro la seguente storia: «Sally mette la sua pallina nel cesto e
poi esce. Poi, mentre Sally è fuori, Ann prende la pallina dal cesto e la mette nella scatola».
Terminato il trasferimento, Sally ritornava e al bambino veniva chiesto: «Dove andrà Sally a
cercare la pallina?». Al bambino venivano inoltre poste due domande di controllo, una sulla
collocazione iniziale e l’altra sulla posizione finale della pallina, per poter escludere che gli
sbagli insorgessero a causa di una difficoltà relativa alla memorizzazione di alcune informazioni
chiave. Tutti i soggetti superarono le domande di controllo, ma solo il 20% dei 20 autistici
risposero correttamente alla domanda sperimentale, e questo nonostante le loro prove nei test
di intelligenza fossero migliori di quelle dei bambini con sindrome di Down.
Un altro strumento utilizzato è il «compito degli Smarties» (Perner et al., 1989). Qui si mostra
al bambino un tubetto di caramelle Smarties e si chiede che cosa pensa che contenga. Alla
risposta dei bambini («Smarties» o «caramelle») la si apre e si mostra che invece contiene una
matita. Subito dopo si reinserisce la matita e si pongono tre domande: 1) «Che cosa c’è nella
scatola?», 2) «Che cosa hai risposto quando prima ti ho chiesto cosa conteneva?», 3) «Quando
(nome di uno sperimentatore che si è momentaneamente assentato) torna, se gli chiedo cosa
c’è qui dentro che cosa dirà?». Anche in questo compito i bambini di quattro anni rispondono
correttamente mentre i bambini con autismo trovano grandi difficoltà.
L’attribuzione di stati mentali è il culmine di un lungo processo evolutivo che porta a
comprendere la mente di altre persone. Per attribuire questi stati mentali non bastano le
capacità metarappresentative, bisogna essere capaci di comprendere l’origine di un certo stato
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epistemico. Tale capacità rimanda a un principio causale che lega percezione e conoscenza.
Una prova molto semplice permette di valutare la padronanza di questo principio nei bambini.
Presentiamo due bamboline e un contenitore dal contenuto sconosciuto al bambino, poi
mostriamo al bambino che una delle due bambole guarda dentro il contenitore mentre l’altra lo
tocca all’esterno e infine chiediamo: «Quale delle due bambole sa che cosa c’è dentro la
scatola?». I bambini autistici hanno chiare difficoltà in questa prova.
Sembra però che una minoranza di bambini autistici possieda capacità metarappresentative,
ma ciò non significa che la loro teoria della mente sia paragonabile a quella delle persone
senza disturbi dello sviluppo.
Alcuni studi hanno messo in risalto difficoltà nell’attribuzione di stati mentali anche nei pazienti
capaci di superare i test di falsa credenza. I compiti di comprensione sono stati presentati in
termini di «storie strane» volte a esaminare il grado di comprensione del soggetto (Happé,
1994; Jolliffe e Baron-Cohen, 1998). Le storie erano di due tipi: le storie di tipo «fisicalistico»
erano centrate su un evento di natura meccanica o biologica: ad esempio, una bambina, dopo
aver seminato dei fiori in giardino, se ne va e gli uccelli mangiano tutti i semi. Le due domande
test erano: «E’ vero che Sally ha piantato dei fiori?»; «Perché allora non ci sono piante e fiori
nel suo giardino?». Le storie «mentalistiche» invece, riguardavano scherzi, giochi di finzione,
usi del linguaggio non letterale, bugie, piccole strategie di inganno e persuasione. Ad esempio,
si narrava di un bambino che va a trovare un’amica la quale possiede un cane enorme; quando
questo gli salta addosso, il bambino esclama: «Clara, tu non hai un cane, hai un elefante!».
Subito dopo al soggetto sperimentale di domandava: 1) se era vero ciò che aveva detto il
bambino e 2) perché il bambino aveva detto quella cosa. I bambini autistici, come quelli del
gruppo di controllo, erano in grado di rispondere a tutte e due le domande fiscaliste e alla
prima del tipo mentalistico. La differenza tra i gruppi consisteva nella risposta alla seconda
domanda, la domanda di giustificazione. Qui i bambini autistici avevano serie difficoltà.

4. Come si sviluppa la teoria della mente

Gli aspetti centrali della teoria della mente si sviluppano entro i primi tre anni di vita. La
complessità e l’astrazione di queste conoscenze suggeriscono che tali acquisizioni non sono il
prodotto di meccanismi associativi e di condizionamento. Pertanto appare molto più probabile
l’azione di processi specializzati e predisposizioni biologiche.
I bambini sordi dalla nascita e figli di genitori udenti dimostrano una prestazione
significativamente inferiore nei compiti di falsa credenza. I bambini sordi ma figli di genitori
sordi i quali usano quotidianamente la lingua dei segni hanno invece prestazioni simili a quelle
dei bambini udenti. Questa differenza si può probabilmente spiegare con la deprivazione
conversazionali che riguarda il primo gruppo. Una conferma deriva da studi che indicano una
superiorità dei bambini che hanno fratelli rispetto ai bambini che non ne hanno. L’esperienza
conversazionali potrebbe, ad esempio, essere una preziosa occasione di esercizio
nell’uso flessibile e rapido delle nozioni psicologiche.
Potrebbe sembrare che le seguenti affermazioni:
1) il bambino sviluppa una teoria della mente,
2) ha bisogno di esperienze per farlo,
3) il bambini possiede una teoria della mente innata,
si contraddicano. Ma le differenze riguardo al carattere innato di una competenza non sono
solo quantitative, ma anche qualitative. Il volo degli uccelli e la deambulazione eretta
nell’uomo sono un esempio di rapporto diverso fra ciò che è innato e ciò che è appreso. In
questi casi sono presenti schemi di movimento innati, ma essi devono essere esercitati per
poter essere utilizzati in modo efficace. Altro esempio è la percezione visiva. I calcoli che il
cervello compie in base alle informazioni che provengono dagli occhi sono innati e inconsci. Ma
se dalla prima infanzia il soggetto viene deprivato in modo massivo di esperienze, lo sviluppo
di queste capacità viene compromesso in modo permanente.
Per Gopnik e Meltzoff i bambini partono operando su una base di conoscenze innate. In questo
modello, i bambini con autismo soffrirebbero non già del malfunzionamento di un meccanismo
di acquisizione, ma della mancanza di un’adeguata base di conoscenze psicologiche
innate e di principi astratti di ragionamento. Fra questi, il principio secondo cui «gli altri
sono come noi». L’attivazione di tale conoscenza si manifesta nella selettività dei
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comportamenti imitativi; i bambini tendono a imitare azioni eseguite da una persona e non da
agenti meccanici.
Nella proposta modularista di Lesile si presume l’esistenza sia di una base di conoscenze
psicologiche innate sia di un meccanismo di elaborazione e di acquisizione di informazioni
specializzato. Nella proposta costruttivista di Gopnik e Meltzoff viene invece ipotizzata una
base di conoscenze innata che si arricchisce, e viene in parte radicalmente cambiata nel corso
dello sviluppo, grazie a processi di invenzione e revisione delle conoscenze teoriche.
Un’altra teoria modularista sullo sviluppo della teoria della mente prevede ben quattro moduli
distinti che costituiscono il nucleo del sistema di lettura della mente (Baron-Cohen). Oltre al
modulo che produce metarappresentazioni (ToMM) ve ne sono altri tre, uno dedicato a
elaborare la direzione dello sguardo (EDD, Eye-Direction Detector), uno specializzato nel
leggere l’intenzionalità nei movimenti e rappresentare stati volitivi (ID, Intentionality Detector)
e uno per partecipare a interazioni triadiche in cui due persone condividono l’attenzione per il
medesimo oggetto (SAM, Shared Attention Mechanism). I primi due sarebbero i precursori
evolutivi del terzo, il quale a sua volta è precursore del ToMM. Baron-Cohen sostiene che le
conoscenze innate presenti in questi moduli sono il frutto di un processo filogenetico basato
sulla mutazione casuale e la selezione naturale.
È possibile per i bambini con autismo acquisire una ToMM con meccanismi di apprendimento
vicarianti, ad esempio le capacità di apprendimento associativo e ragionamento analogico? In
alcuni bambini appaiono, sebbene in ritardo, vari comportamenti che indicano la presenza di
una teoria della mente. Questo fenomeno può essere spiegato in almeno due modi: il ritardo e
l’invenzione di strategie di compensazione. Le difficoltà a generalizzare gli apprendimenti
suggeriscono che il successo sia stato raggiunto utilizzando processi mentali diversi da quelli
usati da bambini normali.

4.1. Comprendere desideri, intenzioni ed emozioni. I bambini con autismo sanno anticipare
come si sentirà una persona (felice o triste) se conoscono un suo desiderio ed è stato detto
loro che questo desiderio è stato soddisfatto, oppure frustrato. Questo è possibile perché esiste
un’alternativa non metarappresentazionale per comprendere o rappresentare il desiderio, una
rappresentazione del desiderio o della volontà che possiamo chiamare finalistica o teleonomica.
Nella «concezione» teleonomica lo stato mentale di desiderio di qualcosa è rappresentato come
una tendenza a fare cose (desiderio di un gelato = andare dal gelataio). All’agente viene
attribuito uno scopo, non la rappresentazione mentale della situazione desiderata.

4.2. Teoria della mente e controllo dell’attenzione. Buona parte dei risultati ottenuti nei compiti
di false credenze sono spiegabili senza far ricorso al deficit di tipo rappresentativo. Infatti i
compiti di teoria della mente, richiedono altre abilità, in particolare capacità attentive. Per
rispondere correttamente è necessario sganciare l’attenzione da una situazione reale (nel test
di Sally/Ann , la collocazione della pallina) e riagganciarla mentalmente su di un'altra (la
situazione rappresentata da Sally). Le difficoltà potrebbero insomma derivare da un problema
del controllo attentivo, una difficoltà a prestare attenzione al contenuto di una
rappresentazione quando questo non coincide con la realtà.
Varie ricerche hanno confrontato la capacità di comprensione di false credenze e di false
rappresentazioni esterne, come fotografie, modelli e disegni. In entrambi i tipi di prova la
rappresentazione su cui deve concentrarsi il bambino rappresenta in modo scorretto la realtà.
Ad esempio, nel compito di false fotografie veniva data al bambino una polaroid. Con questa
schiacciava una foto di una cameretta giocattolo in cui c’era un gatto sopra una sedia e, prima
che si sviluppasse, lo sperimentatore la nascondeva dietro la schiena. Il gatto veniva poi
spostato sopra il letto e al bambino veniva chiesta la posizione del gatto nella foto. I bambini
autistici non hanno difficoltà a dare risposte corrette nel compito delle false rappresentazioni
esterne, ma danno quasi sempre risposte scorrette in quello delle credenze. Questo ci
permette di escludere che all’origine di tali errori vi siano difficoltà generali di tipo attentivo.

5. Egocentrismo o deficit metarappresentativo?

Perché parlare di ToMM e non più semplicemente di egocentrismo infantile come proponeva
Piaget? La differenza fondamentale risiede nel concetto di specificità di dominio.
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L’egocentrismo, si manifesta nel linguaggio e nel ragionamento in ambiti molto diversi, dal
sociale, al biologico, al fisico. Non è specifico per dominio e viene superato nello stesso periodo
in cui compaiono concezioni «decentrate» in ragionamenti che riguardano le sostanza fisiche,
le figure geometriche e i numeri. La teoria della mente del bambino, al contrario, è un insieme
di conoscenze specifiche sugli stati mentali e sulle relazioni causali fra questi, l’attività
percettiva e il comportamento degli agenti. Non ci aspettiamo che lo sviluppo e
l’organizzazione di queste conoscenze proceda in modo isomorfo e parallelo a quello degli altri
domini di conoscenza e capacità cognitive. Anzi, nell’ipotesi più radicale, il loro sviluppo
avviene per mezzo di meccanismi di apprendimento specializzati.

6. I fenomeni spiegati dal deficit metarappresentativo


Sulla comunicazione verbale l’incapacità a usare metarappresentazioni può agire in tre modi
diversi.
In primo luogo, ostacola il processo di riconoscimento delle intenzioni comunicative. In
secondo luogo, può demotivare il bambino che, data la sua difficoltà nell’attribuire stati
mentali, trova le interazioni comunicative in gran parte incomprensibili e frustranti. Lo scarso
interesse dei bambini autistici verso la comunicazione, verso le emozioni e i sentimenti, può
quindi in parte essere ricondotto agli insuccessi comunicativi e questi a loro volta all’incapacità
di rappresentare stati intenzionali. In terzo luogo, la mancanza di metarappresentazioni rende
più difficile la produzione di enunciati contestualmente appropriati; la mancanza di
metarappresentazioni rende difficile ai bambini la valutazione di un messaggio. In generale,
possiamo aspettarci che la gran parte degli aspetti pragmatici del linguaggio risultino
comprensibili solo se si tiene conto dello stato mentale dell’interlocutore.
Fra le anomalie della comunicazione non verbale spicca la mancanza di gesti di indicazione
ostensiva. Il bambino non attira l’attenzione di un’altra persona su qualche oggetto perché non
rappresenta gli effetti mentali dell’esperienza percettiva. Data la precocità della comparsa
dell’indicazione non richiestiva, intorno ai dieci-dodici mesi, alcuni studiosi si trattengono dal
vederla inserita in un processo così complesso, e preferiscono considerarla come un indice
della capacità di capire gli stati attentivi, non gli stati rappresentativi.
La mancanza di empatia è spiegata bene dalla teoria sul deficit metarappresentativo. Questo
risulta evidente nel caso in cui gli stati mentali da considerare riguardano emozioni complesse
quali la colpa, la sorpresa, la vergogna e l’orgoglio, che includono necessariamente una
componente rappresentazionale e valutativa. Risulta vero comunque anche per le emozioni
semplici quali la felicità, la paura o la tristezza.
L’assenza del gioco di finzione è uno dei sintomi di autismo più direttamente spiegabili dalla
teoria metarappresentativa. Il bambino deve essere in grado di rappresentare mentalmente
una frase come: «Questa scatola è un trenino», senza per questo credere che le scatole siano
treni.
La teoria del deficit metarappresentativo può sembrare incompatibile con la prospettiva
«continuista» e i disturbi sullo spettro Autistico. Infatti, pensando il deficit in termini dicotomici
(presente/assente), come spiegare la grande variabilità interindividuale nel grado di severità
dei sintomi. Vi sono due modi di conciliare le due proposte. Quello più semplice è ricordare la
differenza tra competenza e prestazione. La prestazione che osserviamo, che determina le
differenze nella gravità dei sintomi, è il risultato sia delle competenze concettuali sia di
numerosi altri fattori mnestici, percettivi e attentivi, variabili indicate come fattori di
performance. A parità di competenza concettuale, la prestazione può essere quindi molto
diversa a causa delle altre abilità coinvolte. Un secondo modo è caratterizzare il deficit
metarappresentativo non solo nelle sue componenti di rappresentazione mentale, ma anche
nelle componenti specifiche di elaborazione delle informazioni. In altri termini, la teoria della
mente, oltre ad includere prestazioni specializzate (le metarappresentazioni), può includere
processi di ragionamento specializzati per il dominio psicologico, ad esempio alcune euristiche
di ragionamento specializzate per l’attribuzione di stati mentali. La gradualità del deficit può
risultare da differenze quantitative nella velocità di elaborazione di queste euristiche.

7. Un confronto con tre ipotesi alternative


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7.1. Contatto affettivo. Per Hobson il deficit metarappresentativo è secondario a un deficit nella
capacità di contatto affettivo. Egli assume che certi meccanismi permettano la percezione
diretta delle emozioni: noi non iniziamo prima con il percepire certe caratteristiche degli occhi
e della bocca e, successivamente, inferiamo che una persona è triste o allegra. Notiamo
immediatamente la sua emozione, anche quando siamo incapaci di dare una descrizione delle
altre caratteristiche di un viso. Secondo Hobson, nel bambino autistico questi meccanismi di
percezione diretta mancano o funzionano molto male. Il deficit previsto da Hobson dovrebbe
manifestarsi in un grave deficit generalizzato a tutti gli aspetti dello sviluppo sociale. Questo
viene confutato dai risultati di varie ricerche, che dimostrano negli autistici lo sviluppo normale
di alcuni comportamenti sociali e di attaccamento a persone familiari.

7.2. Coerenza centrale. Il problema dei bambini con autismo, seconda tale teoria, riguarda
l’integrazione di informazioni relative a uno stimolo con le informazioni relative al contesto in
cui è inserito lo stimolo stesso. Vi è una marcata tendenza a elaborare informazioni a livello
locale invece che globale. Ci dobbiamo allora domandare se l’incapacità ad attribuire stati
mentali è uno degli effetti, forse il più evidente, di una più generale difficoltà a inserire un
evento, ad esempio un’azione, in una sequenza complessa di eventi, a vederlo inserito in un
contesto globale che permette di inferirne le ragioni (Frith, 1989).
Nel test del Block design non si sono però trovate differenze tra i bambini autistici e il gruppo
di controllo. La prestazione al Block design dipende dalla tendenza a elaborare globalmente gli
stimoli, e nei bambini autistici molte indagini hanno trovato capacità ben sviluppate in tale
test.
Questi risultati suggeriscono due conclusioni importanti. Il deficit nell’elaborazione globale e il
deficit metarappresentativo riguardano malfunzionamenti di aspetti diversi e indipendenti del
sistema cognitivo. In secondo luogo, bambini che non superavano i test di teoria della mente
erano meno abili anche nella sottoscala «Comprensione» delle scale Wechsler (Happé, 1994),
e questo può essere un indice di compromissione delle capacità di teoria della mente. Questa
informazione può essere utile per la diagnosi del disturbo.

7.3. Imitazione. Rogers e Pennington (1991) hanno proposto che il deficit imitativo sia
primario e sia all’origine delle difficoltà nella teoria della mente. La base teorica per la loro
proposta proviene dal modello di Stern, secondo il quale la capacità imitativa e la percezione
delle invarianze percettive sono i precursori primari della capacità di comprensione
interpersonale. A queste capacità fanno seguito, a tre-nove mesi, le capacità di condivisione
degli affetti e la consapevolezza degli stati interni delle altre persone espresse nella
coordinazione di stati affettivi durante le interazioni diadiche. A nove-dodici mesi troviamo una
più sofisticata consapevolezza degli stati interni espressa nelle attività di attenzione condivisa,
riferimento sociale (social referencing) e comprensione dell’intenzionalità.
Il problema di questa proposta è la difficoltà di indicare da quali processi deriva il deficit
imitativo stesso. Una risposta interessante è che l’incapacità a imitare derivi dai limiti nel
controllo dell’attivazione (arousal). Un’eccessiva attivazione, generata da stimoli sociali e
stimoli nuovi, porterebbe a un’insufficiente attenzione e codifica del modello da imitare.
Bekkering e colleghi hanno mostrato che alcuni assunti generalmente accettati sull’imitazione
forse sono falsi. Uno di questi assunti è che una persona che imiti un’azione cerchi una
corrispondenza diretta fra i movimenti osservati e il proprio programma motorio. La proposta
di Bekkering, Wohlschlager e Gattis (2000) è in accordo con i dati sull’imitazione di azioni
incomplete (Meltzoff, 1995). I bambini nel secondo anno di vita osservavano un adulto mentre
tentava di compiere un’azione, ad esempio togliere il cappuccio a una penna, e poi veniva
chiesto loro di «fare come lui». I bambini non si limitavano a imitare un movimento osservato,
ma completavano l’azione. La scarsa capacità imitativa dei bambini con autismo può essere
quindi un indice delle difficoltà incontrate nell’interpretazione teleologica delle azioni.

8. Deficit mentale o stile cognitivo?

Happé e Baron-Cohen affermano che per le persone autistiche senza ritardo mentale («ad alto
funzionamento») è più appropriato parlare di un diverso stile cognitivo, piuttosto che di deficit.
Il bambino con autismo ad alto funzionamento:
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• Passa più tempo ad occuparsi di oggetti e sistemi fisici che a occuparsi di persone;
• Comunica meno degli altri bambini;
• È poco interessato a ciò che fa il gruppo di coetanei, ed è meno interessato a farne
parte;
• Ha interessi forti e persistenti (della durata di mesi o anni);
• Considera pertinenti e importanti in una certa situazione cose che altre persone
considerano irrilevanti;
• Prova un fascino particolare per materiale dotato di un ordine particolare, quali certe
forme, oppure date, numeri, targhe o elenchi;
• Mostra una forte pulsione al collezionismo;
• Dimostra preferenze marcate per esperienze controllabili invece che per esperienze
imprevedibili;
• Ha una spiccata capacità di notare dettagli, particolari di oggetti;
• Si ricorda facilmente cose che altri invece tendono a dimenticare.

Se considerate senza pregiudizi queste caratteristiche non implicano necessariamente una


disabilità. Il giudizio di disabilità, insomma, non è intrinseco alle caratteristiche cognitive, ma è
funzione della relazione fra queste caratteristiche e le aspettative della società.
La proposta comunque, può essere alquanto problematica. In primo luogo, stile cognitivo è un
costrutto teorico vago e nella ricerca si è dimostrato poco fruttuoso. In secondo luogo, nella
proposta di abbandonare i termini «deficit» e «disabilità» c’è forse un’incoerenza. In questa
proposta si assume, correttamente, che il bambino autistico sia immerso in una società che
richiede molta attenzione alle interazioni sociali. Si assume inoltre che una caratteristica
psicologica implichi disabilità quando implica l’incapacità dell’individuo di far fronte alle
richieste dell’ambiente. Date queste premesse, risulta inevitabile concludere che nella nostra
società l’autismo sia una disabilità vista la scarsa attenzione e comprensione degli eventi di
natura sociale. Affermare che non lo è, perché non lo sarebbe se la società fosse diversa, è in
contraddizione con le premesse.

Capitolo quinto

Attenzione, memoria e funzioni esecutive

1. Le funzioni esecutive: che cosa sono e quando servono

Le funzioni esecutive sono una collezione eterogenea che comprende le competenze necessarie
a formare piani, organizzare la ricerca di informazioni pertinenti, inibire reazioni impulsive,
organizzare azioni e monitorarne il risultato. La mente contiene un ampio, ma finito, insieme di
schemi che, secondo Shallice (1988), sono organizzati su due livelli. Il primo livello comprende
gli schemi che intervengono in situazioni note e sono attivati in modo rapido e automatico. A
un secondo livello interviene un altro sistema, il Sistema Supervisore, che mitiga la rigidità del
primo livello, e permette di affrontare situazioni nuove in cui si richiede non solo l’attivazione
di più schemi, ma anche la loro organizzazione in sequenze nuove. Il Sistema Supervisore
agisce come «coordinatore» ed entra in azione in due contesti: quando è probabile che un
processo guidato prevalentemente da stimoli esterni generi una risposta scorretta, e quando
non esiste alcuna routine di azione già prestabilita da impiegare per produrre la risposta
corretta.

2. La valutazione delle funzioni esecutive

I test più usati ed utili alla valutazione delle funzioni esecutive sono:

• Il Wiscosin Card Sortine Task (WCST),


• I compiti sull’effetto Stroop,
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• La Torre di Hanoi e la Torre di Londra,


• La copia della figura di Rey,
• I compiti Go-NoGo,
• Le prove di fluenza verbale,
• I labirinti di Porteus.

Il WCST viene somministrato consegnando al soggetto un mazzo di cartoncini e ponendone


quattro scoperti. Le carte sono tutte diverse le une dalle altre e variano per colore, numero e
forma delle figure. Al soggetto viene chiesto di porre una delle carte del mazzo sotto una delle
carte scoperte e appena lo ha fatto viene informato sulla correttezza o meno della sua scelta,
senza spiegargli il criterio seguito per formulare il giudizio. Quando il soggetto ha effettuato
dieci classificazioni consecutive corrette il criterio viene cambiato senza avvertire il soggetto.
La prestazione può essere valutata in parecchi modi. Uno di essi richiede di registrare il
numero di criteri identificati con successo e il numero di errori di perseverazione, ovvero gli
errori che consistono nel classificare le carte in base al criterio che era stato usato
precedentemente. Un altro dato importante riguarda l’incapacità di mantenere le risposte
corrette per le dieci prove necessarie a considerare identificato un criterio. In uno studio i
bambini raggiungevano le prestazioni adulte verso i dieci anni.
Nel compito sull’effetto Stroop (Stroop, 1935) viene chiesto di dire il colore dell’inchiostro
usato in due liste di nomi. In entrambe le liste le parole sono nomi di colori ma con una
differenza cruciale: nella lista congruente il colore dell’inchiostro e il nome del colore
coincidono, nella lista incongruente invece sono diversi. L’effetto Stroop è la differenza dei
tempi di reazione nelle due situazioni. In altre parole, l’effetto Stroop è l’interferenza che si
produce quando cerchiamo di rispondere su una proprietà di uno stimolo e un’altra proprietà
dello stesso stimolo attiva automaticamente una risposta incompatibile con quella corretta.
Il compito della Torre di Londra è una semplificazione del gioco noto come Torre di Hanoi. Il
compito richiede l’elaborazione di strategie mai utilizzate precedentemente, ed è perciò una
buona prova dell’abilità di pianificazione, una configurazione iniziale di tre palline infilate su tre
pioli deve essere mutata, utilizzando il minor numero di mosse e muovendo una pallina alla
volta, in una situazione finale. La misura principale usata nella valutazione è il numero di
problemi risolti senza errori in un minuto.
Fra i compiti grafici, il più famoso è forse quello della figura di Rey, un disegno geometrico
astratto che deve essere copiato, o disegnato a memoria. Per registrare la sequenza
temporale di linee tracciate dal soggetto, e quindi evidenziare il tipo di strategia adottata,
talvolta viene chiesto di usare matite colorate diverse, cambiando la matita a ogni linea,
oppure a intervalli prefissati.
I compiti Go-NoGo, infine, sono simili a quelli ideati da Luria, e possono essere resi più o meno
difficili variando la risposta e il tipo di inibizione richiesti. Secondo Ozonoff (1994) si può
distinguere tra inibizione «neutrale» e «forzata»: la prima è quella in cui il soggetto deve
rispondere quando compare uno stimolo (luce rossa) e inibire la risposta quando ne compare
un altro (luce blu). L’inibizione forzata è richiesta invece quando riguarda una risposta che è
stata rinforzata precedentemente, come avviene per esempio se si chiede di cambiare (dopo
un numero di prove) la regola e rispondere alla luce blu anziché alla rossa. Un’altra capacità
ancora, che Ozonoff e colleghi chiamano «flessibilità», è richiesta quando il compito impone di
spostare frequentemente l’attenzione da una modalità di risposta a un’altra.

3. Lo sviluppo delle funzioni esecutive

Vi sono diversi tentativi di identificare le fasi dello sviluppo esecutivo. Welsh, Pennington e
Groisser (1991) propongono di distinguere tre stadi: nel primo (0-6 anni), i bambini
raggiungono i livelli di prestazione degli adulti nei compiti che richiedono ricerca visiva e
pianificazione semplice; nel secondo (7-11 anni) si raggiungono abilità simili a quelle adulte
per compiti di pianificazione più complessa; nel terzo (dalla pubertà in poi), i ragazzi
raggiungono livelli adulti in compiti come il WCST, che richiedono capacità di verifica di ipotesi
e di controllo di perseverazione e di impulsività.
Le funzioni esecutive hanno un ruolo importante sull’acquisizione delle abilità sociali perché la
comprensione delle persone, ovvero la sensibilità ai loro obiettivi, prospettive, emozioni e
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desideri, richiede uno sganciamento dell’attenzione dai nostri stati mentali e dalle situazioni
concrete immediatamente percepibili.

4. Le funzioni esecutive nell’autismo

I disturbi esecutivi dell’autismo sono stati documentati sperimentalmente per la prima volta
negli anni Settanta, anche se i termini usati erano diversi. In queste prime ricerche il problema
era chiamato talvolta stimulus overselectivity e riguardava la tendenza, manifestata dai
bambini con autismo nelle esperienze di apprendimento., a rispondere in modo selettivo solo a
certi indici ambientali e a ignorarne altri che invece erano pertinenti al compito. Hermelin e
O’Connor (1970) hanno sottolineato la forte tendenza a dare risposte già fornite in precedenza
(tendenze perseverative), e la difficoltà a sviluppare strategie di risposta alternative. Poiché il
deficit esecutivo non è una peculiarità dell’autismo, uno degli obiettivi della discussione che
segue è l’individuazione di quali aspetti delle funzioni esecutive sono maggiormente
danneggiati nei bambini con autismo. Particolarmente frequenti erano gli errori di
perseverazione, nonostante il feedback negativo («no, così è sbagliato) dato dall’esaminatore
nella prova precedente. Rumsey ha inoltre indagato le abilità sociali, valutate somministrando
le scale Vineland. L’associazione fra il WCST e le scale Vineland non era significativa, un
risultato che suggerisce la relativa indipendenza fra alcune competenze sociali e lo sviluppo
esecutivo. Il deficit esecutivo è stato messo in evidenza anche con compiti appositamente
studiati per bambini piccoli. Russell et al. (1991) hanno posto i bambini di fronte a due
contenitori capovolti. Entrambi avevano una finestrella rivolta verso il bambino, in modo che
potesse vedere il contenuto. Sul lato opposto del tavolo era seduto uno sperimentatore che
non poteva vedere cosa ci fosse nei contenitori. In uno di questi c’era una caramella. Per
vincere la caramella il bambino doveva indicare il contenitore vuoto, la perdeva se indicava
quello con la caramella. Anche dopo una lunga serie di prove, i bambini autistici si dimostrano
incapaci di adottare questa semplice strategia. La fonte della difficoltà, secondo Russell, non è
il deficit della teoria della mente. Per dimostrarlo, hanno proposto una situazione analoga in cui
però era stata eliminata la componente sociale, l’«inganno» esplicito nell’indicare il contenitore
vuoto. Di fronte ai bambini questa volta non c’era alcun «avversario», e si spiegava che per
vincere la caramella dovevano indicare il contenitore vuoto. Le prestazioni erano molto scarse
anche in questa situazione. Le difficoltà sembrano derivare dalla scarsa capacità di inibire una
risposta fortemente rinforzata: l’indicare un oggetto desiderato per ottenerlo.
Per valutare le funzioni esecutive in età prescolare è stata utilizzata la prova «A-non-B»
inventata da Piaget. Un oggetto interessante viene ripetutamente nascosto sotto un panno (il
panno «A») e ai bambini viene chiesto di cercarlo. Dopo aver consolidato la risposta corretta,
l’oggetto viene nascosto sotto un altro panno (il panno «B»). La risposta corretta, cercare sotto
B, deve perciò rimpiazzare quella precedentemente rinforzata. Il compito è particolarmente
efficace nell’esaminare bambini piccoli e rileva un deficit precoce nello sviluppo delle funzioni
esecutive negli autistici.

I test di funzioni esecutive con maggiore accuratezza sono la Torre di Hanoi e la Torre di
Londra.

5. Analisi delle funzioni esecutive

Nelle funzioni esecutive si possono individuare tre componenti principali: la memoria di lavoro,
le capacità di inibizione e l’abilità di generare nuove soluzioni e strategie. Ciascuna di queste
componenti può essere danneggiata in modo relativamente indipendente. Sebbene molti
disturbi mentali, oltre all’autismo, siano associati a deficit esecutivi, il grado in cui ciascuna
componente esecutiva è colpita può variare in relazione al particolare disturbo. Deficit esecutivi
sono stati rilevati nel Disturbo di attenzione e iperattività (Ddai), nella sindrome di Tourette,
nella schizofrenia e nel disturbo della condotta.
La memoria di lavoro risulta compromessa nell’autismo, ma non nel Ddai, mentre nei bambini
iperattivi si osserva un deficit nell’inibizione motoria raramente osservabile nei soggetti con
autismo. Negli autistici emerge un deficit nella capacità di spostare l’attenzione su proprietà
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dello stimolo diverse da quelle a cui avevano prestato attenzione nelle prove iniziali. Questo
suggerisce che, fra le tre componenti dello schema proposto sopra, quella colpita
maggiormente negli autistici sia la capacità di generare nuove soluzioni.
Per valutare separatamente le diverse componenti delle funzioni esecutive, Ozonoff et al.
(1994) hanno usato il compito «Go-NoGo». Alla prova di «inibizione neutra» gli autistici non
differivano dai ragazzi con sviluppo normale, ma erano significativamente peggiori nella
somministrazione della prova a «inibizione forzata». Questo risultato indica che la difficoltà
risiede non tanto nell’inibire le risposte a uno stimolo irrilevante, quanto nell’inibire quelle
rivolte a uno stimolo a cui si è risposto precedentemente con successo, e nel cambiare
in modo flessibile il criterio da seguire per la risposta. La compromissione della capacità di
cambiare criterio (set-shifting) è, secondo Ozonoff e Jensen (1999), il deficit esecutivo
caratteristico del disturbo autistico.

6. Capacità di memoria

Alcuni studi sulle capacità di memoria osservano prestazioni molto scarse, altri capacità
sviluppate normalmente. Fra le capacità ritardate c’è la memoria di lavoro (Bennetto,
Pennington e Rogers, 1996), mentre fra quelle non danneggiate selettivamente troviamo la
memoria a breve termine (Boucher e Warrington, 1976).

a. Memoria e informazione distintiva o relazionale Il ricordare qualcosa è influenzato da due


tipi di informazioni, quelle distintive e quelle relazionali (Marschark e Surian, 1992). Ad
esempio, in una lista di parole distintive sono le informazioni che contraddistinguono i vari
elementi della lista, mentre quelle relazionali sono quelle comuni ad alcuni elementi. Queste
informazioni possono essere codificate più efficacemente adottando determinate strategie
cognitive. L’elaborazione attraverso l’immaginazione o la formulazione di un giudizio di
piacevolezza favorisce la codifica dell’informazione distintiva. La codifica dell’informazione
relazionale è invece facilitata da una strategia di categorizzazione. Se il materiale è facilmente
organizzabile in categorie, la sua categorizzazione in memoria può avvenire in modo spontaneo
ed automatico. Flusberg (1991) ha trovato che questo vantaggio non si presenta invece nel
comportamento degli autistici. Questo problema nei processi di memoria può essere
riconducibile al «Deficit nella Coerenza Centrale».

b. Differenze e somiglianze dei processi di memoria nell’autismo e nell’amnesia Boucher e


Warrington (1976) hanno indicato una serie di somiglianze fra autismo e sindrome amnesica.
In primo luogo, vi sono delle somiglianze a livello neurale poiché in entrambi i disturbi
sembrano coinvolti l’ippocampo e le strutture con cui esso interagisce. In secondo luogo, vi
sono alcune somiglianze comportamentali. Negli amnesici, come negli autistici, si trova una
riduzione dell’effetto primacy, ma non dell’effetto recency. Vanno però ricordate anche alcune
differenze tra le funzioni di memoria nei due disturbi. Una differenza netta si osserva nei
compiti di apprendimento per coppie associate, dove solo gli autistici (senza ritardo mentale)
riescono a dare buone prestazioni. In queste prove, si richiede di apprendere liste di parole.
Per contro, la memoria di lavoro in molti amnesici è conservata relativamente bene mentre
sembra danneggiata negli autistici.

7. Attenzione sostenuta e spostamento dell’attenzione

Complessivamente, i risultati indicano che anche nell’ambito dell’attenzione negli autistici il


deficit non sia generalizzato: alcune funzioni attentive sembrano intatte, o solo lievemente
anomale, mentre altre mostrano gravi differenze se confrontate con gruppi di controllo. Il
danno nelle abilità di attenzione sostenuta sembra di molto inferiore a quello trovato nei
processi di attenzione selettiva. Casey et al. (1993) hanno proposto a soggetti sperimentali
cinque classici compiti di attenzione. Nei due compiti di attenzione sostenuta i soggetti
dovevano rispondere il più velocemente possibile al presentarsi di uno stimolo visivo o uditivo.
La prestazione dei soggetti, seppur lievemente inferiore a quella dei soggetti di controllo, era
complessivamente buona in entrambi i compiti, e migliore in quello visivo. Nel compito di
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attenzione divisa, gli stimoli venivano presentati contemporaneamente in entrambe le modalità


e questo determinava una grave caduta nelle risposte degli autistici. Il quarto compito
riguardava la discriminazione visiva: ad ogni prova comparivano tre figure geometriche e
bisognava individuare il più velocemente possibile quale delle tre figure era diversa dalle altre.
Entrambi i gruppi sbagliavano raramente, ma i soggetti autistici presentavano tempi di risposta
molto più lunghi. Il quinto compito era una prova di attenzione spaziale in cui si richiedeva di
sganciare l’attenzione da un certo luogo nello spazio e «agganciarla» altrove. I soggetti
sedevano davanti a un monitor in cui si vedevano due figure di forma quadrata l’una accanto
all’altra. Dentro una di queste compariva all’interno un altro riquadro. Questo indice attentivo
«aggancia» automaticamente l’attenzione del soggetto. Infine, dopo 100 millesimi di secondo
appariva un asterisco all’interno di uno dei due riquadri. Nelle prove congruenti, l’asterisco
appariva dove era apparso il riquadro, in quelle incongruenti, l’asterisco invece appariva sul
lato opposto a dove era comparso l’indice attentivo. Ai soggetti era chiesto di premere un
pulsante appena vedevano apparire l’asterisco. Gli autistici rispondevano complessivamente in
modo più lento dei normali, ma la loro lentezza era più accentuata nelle prove incongruenti, a
dimostrare una maggiore difficoltà a sganciare l’attenzione visiva.

8. Basi neurali del deficit esecutivo e fenotipo autistico

Dawson et al. (1998) hanno proposto ai loro soggetti due tipi di compiti, uno sensibile a danni
del lobo temporale mediale e l’altro sensibile a danni della corteccia prefrontale laterale. I
bambini con autismo li hanno eseguiti male entrambi. Va però notato che l’associazione fra le
prestazioni e i sintomi autistici riguardava esclusivamente le prestazioni nei compiti adatti alla
valutazione dei lobi temporo-mediali.
Carper e Courchesne riportano due dati molto interessanti. Hanno trovato dimensioni ridotte di
altre zone cerebrali e, inoltre, una correlazione negativa fra le dimensioni dei lobi frontali e
quelle del cervelletto. Questa correlazione potrebbe essere la soluzione a un problema tuttora
irrisolto: la persistenza nell’arco della vita dei deficit attentivi ed esecutivi. Perché i disturbi
nell’autismo sono così persistenti? La ragione è che forse nell’autismo non sono solo colpite le
strutture che generalmente svolgono una certa funzione, ma anche le altre strutture cerebrali
funzionalmente compatibili, cioè quelle che in condizioni normali sarebbero in grado di eseguire
una certa funzione. La presenza di anomalie in entrambe le strutture (lobi frontali e
cervelletto) impedisce che il malfunzionamento di una struttura sia compensato dall’attività
dell’altra.

Capitolo sesto

Sviluppo emotivo

1. Studi psicologici sullo sviluppo delle emozioni

Nello studiare le emozioni umane, è utile distinguere cinque componenti: 1) i sistemi di


espressione, 2) i meccanismi di riconoscimento, 3) i processi di interpretazione, valutazione e
comprensione, 4) i processi fisiologici e 5) le esperienze soggettive. La
multicomponenzialità delle emozioni rende possibili vari fenomeni dissociativi. Una
persona, ad esempio, si può trovare in uno stato emotivo, ma non averne esperienza: un
guidatore a cui improvvisamente scoppia un pneumatico, ad esempio, si può trovare in uno
stato di paura, ma per qualche minuto non averne esperienza perché la sua attenzione è
interamente occupata dal compito di parcheggiare l’auto senza causare incidenti (Lewis, 1995).
A causa dei limiti nelle capacità rappresentative, la presenza di stati emotivi non accompagnati
da esperienza cosciente si presume che sia molto frequente nei primi mesi di vita (Gergely e
Watson, 1999). Le acquisizioni concettuali e linguistiche che si osservano durante la prima
infanzia sono fondamentali per la comprensione e l’esperienza emotiva: il linguaggio non solo
rende comunicabili le esperienze emotive coscienti, ma è spesso proprio ciò che le rende
possibili.
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Un altro importante aspetto evolutivo riguarda la comparsa di nuove emozioni. Per alcune
emozioni come la rabbia o la felicità esistono modelli espressivi caratteristici, quindi, in questi
casi, il metodo più immediato per stabilire quali emozioni prova il bambino è di osservare se si
presentano certi pattern espressivi nel volto, nei gesti e nella posizione del corpo.

a. Tipi di emozioni Le emozioni umane sono suddivise in due classi, quelle di base, chiamate
semplici o primarie, e quelle complesse, dette anche secondarie o autoconsapevoli (Lewis,
1995). Le prime, presenti alla nascita, o comunque fin dai primi sei-otto mesi, si manifestano
con espressioni del viso specifiche e universali. L’insieme delle emozioni di base è molto
ristretto: vi sono la felicità, la paura, la rabbia, la tristezza, il disgusto e, secondo alcuni, la
sorpresa. L’insieme delle emozioni secondarie è vasto. Troviamo la vergogna, il senso di colpa,
l’invidia, l’imbarazzo, l’orgoglio, l’innamoramento, la gelosia. Per produrre le prime emozioni
autoconsapevoli è sufficiente rivolgere l’attenzione o il pensiero a se stessi, o avere la
consapevolezza di essere osservati da altre persone. Le altre emozioni complesse non
compaiono prima del terzo anno di vita e sono causate da processi che richiedono una
valutazione del Sé, ad esempio una valutazione negativa nel caso della vergogna e positiva
nell’orgoglio. Lo sviluppo de primo tipo di emozioni complesse, secondo Lewis, è legato alla
comparsa dei comportamenti autoreferenziali manifestati nelle prove di riconoscimento allo
specchio.

b. Espressione emotiva e riconoscimento Lo sviluppo e l’espressività delle emozioni dipende


sia da meccanismi innati e universali, responsabili di particolari modelli di contrazione del
volto, sia da processi di controllo volontario, legati ai valori e alle pratiche educative specifiche
delle diverse culture. Questi processi hanno un importante impatto sulla frequenza e l’intensità
dell’espressione emotiva.

c. Comprensione dell’esperienza emotiva Lo sviluppo dell’esperienza emotiva è poco


conosciuto a causa delle enormi difficoltà metodologiche, dovute soprattutto ai limiti che non
solo i bambini ma anche gli adulti hanno nel descrivere i propri stati interni (Hurlburt e
Heavey, 2001; Nisbett e Wilson, 1997). Lo sviluppo della comprensione delle emozioni è stato
invece indagato in molte ricerche. Per comprensione delle emozioni si intende la capacità di
individuare e analizzare le relazioni causali che esistono tra determinate situazioni, o eventi, e
l’insorgere di particolari emozioni. Comprendere uno stato emotivo richiede quindi
l’individuazione delle cause che lo hanno favorito e scatenato. Nella comprensione delle
emozioni distinguiamo diversi livelli di complessità che emergono gradualmente durante i primi
anni di vita e che permangono, sebbene in misura diversa, nel ragionamento degli adulti. Al
primo livello, la comprensione raggiunta è quella che considera gli stati emotivi come causati
direttamente dagli eventi esterni senza la mediazione di stati mentali quali desideri e credenze.
Al secondo livello, la comprensione emotiva include considerazioni pertinenti sui desideri delle
persone. Già a tre anni i bambini rispondono correttamente quando gli vengono poste delle
domande sullo stato emotivo di personaggi di storielle che gli vengono raccontate, dimostrando
la capacità di andare oltre la propria «prospettiva volitiva» e ragionare sulle emozioni degli altri
tenendo in considerazione i loro desideri. Il terzo livello, è quello della comprensione
rappresentazionale delle emozioni. A questo livello, i bambini comprendono che sull’esperienza
emotiva agisce, in modo decisivo, la rappresentazione mentale che una persona si è costruita
di eventi e situazioni. In alcuni studi sembrava che i bambini raggiungessero questa
comprensione verso i sei anni (Harris, 1989). Studi più recenti hanno rilevato questo tipo di
comprensione già a tre-quattro anni.

2. L’espressione emotiva nell’autismo

Nei bambini autistici si possono osservare anomalie dell’umore e dell’espressione emotiva quali
il ridere e il piangere senza una ragione evidente, una scarsa oppure eccessiva reattività,
bruschi scatti d’ira e anomalie nella fluttuazione dell’umore (Zappella, 1995). Fra i sintomi
indicati dai criteri diagnostici internazionali troviamo anche la mancanza di paura per pericoli
reali, e il forte timore per oggetti innocui. Uno studio ha indagato la capacità di espressione di
emozioni complesse, in particolare quella di orgoglio (Kasari et. al., 1993). I bambini dovevano
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eseguire due puzzle di difficoltà diversa e alla fine di ogni prova lo sperimentatore li lodava per
la loro bravura. Le sessioni venivano videoregistrate e le reazioni dei bambini erano poi
codificate indipendentemente da due osservatori. La codifica includeva l’espressione emotiva (il
sorriso, la posizione del corpo e delle braccia), l’orientamento sociale (lo sguardo e le strategie
per attirare l’attenzione dell’adulto) e le risposte di esitamento (l’evitamento dello sguardo, il
girarsi dalla parte opposta dell’adulto). I risultati hanno mostrato che i bambini autistici
manifestavano meno comportamenti di orientamento sociale dei gruppi di controllo, e
tendevano a reagire alle lodi con comportamenti di evitamento anziché con espressioni positive
di orgoglio come i bambini non autistici.
I risultati delle ricerche confermano che il disturbo affettivo esiste, ma non è generalizzato a
tutte le emozioni. Per quanto riguarda le emozioni di base, sembra che i meccanismi inibitori
responsabili dell’adattamento sociale dell’espressione emotiva siano scarsamente sviluppati.
Per alcune emozioni complesse invece, il deficit può riguardare non solo la capacità di
adattamento sociale dell’espressione, ma anche la capacità stessa di provarle ed esprimerle. Il
fatto che ci sia un danno selettivo più grave a carico delle emozioni complesse rafforza la teoria
della cecità agli stati mentali (Baron-Cohen, 1995), secondo la quale un deficit nelle emozioni
complesse può essere dovuto alla mancanza di alcuni prerequisiti cognitivi necessari alla loro
formazione.

3. Il riconoscimento delle emozioni

Le difficoltà a riconoscere le emozioni espresse dal volto o dal tono della voce sono
un’importante caratteristica clinica dell’autismo. Rimane tuttavia da stabilire quanto tali
difficoltà siano specifiche del disturbo autistico e selettive rispetto ad altre funzioni mentali. In
questo ambito è molto importante la distinzione tra autistici ad alto e basso funzionamento.
Quelli ad alto funzionamento hanno una capacità di riconoscimento delle emozioni migliore
rispetto a quelli a basso funzionamento: in entrambi i gruppi tuttavia, le capacità di
riconoscimento delle emozioni di base appaiono, in molti compiti di classificazione, riconducibili
al livello generale di sviluppo intellettivo. Un deficit di riconoscimento emerge però quando il
riconoscimento viene richiesto in condizioni non ottimali, ad esempio dopo un’esposizione allo
stimolo molto breve.
Il riconoscimento della sorpresa merita un discorso a parte. Essa forse richiede un processo di
riconoscimento più complesso, e si caratterizza come emozione cognitiva che viene generata
dalla violazione di un’aspettativa, e non semplicemente dalla percezione di un evento esterno
come può succedere nel caso della felicità, o della paura. Questa previsione è stata confermata
da Baron-Cohen, Spitz e Cross (1993). Una successiva ricerca di Loveland et al. (1997)
conferma la maggiore difficoltà nel riconoscimento della sorpresa, ma non registra differenze
fra gruppi di controllo e autistici, si a nel gruppo a basso funzionamento che in quello ad alto
funzionamento.
Mentre vi sono molti studi sul riconoscimento delle emozioni semplici, le ricerche sperimentali
sulle emozioni complesse sono ancora agli inizi.

4. Esperienza emotiva e comprensione delle emozioni nell’autismo

La comprensione delle emozioni è una parte importante della teoria della mente. Studiando il
raggiungimento del primo livello di comprensione emotiva, Hobson (1986) ha presentato
disegni di eventi che in genere suscitano un certo stato emotivo. Ad esempio, in un disegno
c’era un bambino con una torta di compleanno, oppure che si era ferito un ginocchio, e i
soggetti dovevano indicare le espressioni emotive che corrispondevano a queste situazioni. I
bambini autistici avevano più difficoltà di quelli del gruppo di controllo e questo suggerisce
difficoltà ad associare le emozioni con gli eventi scatenanti. Ozonoff, Pennington e Rogers
(1990) hanno però scoperto che, quando le persone artistiche erano confrontate con un
gruppo di controllo di equivalente «intelligenza verbale», la loro prestazione nel compito non
differiva significativamente. La capacità dei bambini autistici di associare eventi alle
corrispondenti emozioni semplici sembra svilupparsi in modo coerente con lo sviluppo delle loro
abilità verbali.
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Il bambino che possiede il concetto di credenza può comprendere il carattere soggettivo e


provato delle emozioni. È inoltre in grado di capire che una reazione emotiva non è, di solito,
prodotta direttamente da un certo evento, ma dal modo in cui una persona lo interpreta. Nel
bambino autistico, la difficoltà a formare metarappresentazioni dovrebbe perciò ostacolare la
comprensione emotiva, e soprattutto quella delle emozioni complesse che, a differenza di
quelle semplici, non possono essere comprese senza considerare l’elemento rappresentativo e
valutativo.
Una ricerca recente ha infine scoperto che gli autistici ad alto funzionamento presentano un
deficit nella capacità di distinguere fra le emozioni autentiche e quelle non realmente provate,
ma simulate per motivi sociali (Dennis, Lockyer e Lazenby, 2000).

5. Le basi neurali del deficit emotivo: la teoria dell’amigdala

Alcuni pazienti con danni bilaterali all’amigdala mostrano un deficit selettivo nel riconoscimento
di alcune emozioni, in particolare la paura. Adolphs, Sears e Piven (2001) hanno proposto a
otto autistici senza ritardo gli stessi compiti di riconoscimento e giudizio che avevano
precedentemente utilizzato nell’esame di pazienti con lesioni dell’amigdala. In uno di questi
compiti si richiedeva di giudicare l’affidabilità di persone sconosciute presentando la foto dei
loro volti e chiedendo: «incontrando quest’uomo per strada, quanto ti fideresti ad andargli
vicino e parlargli?». Nel riconoscimento delle emozioni semplici si nota fra gli autistici un’ampia
variabilità, ma complessivamente la loro prestazione è migliore di quella di pazienti cerebrolesi
e non differisce dalla prestazione del gruppo di controllo. Si osserva invece un’insospettata
somiglianza fra i due gruppi clinici nei compiti di giudizio. Entrambi presentavano un forte bias
positivo, avevano in altre parole una tendenza a valutare positivamente tutti i volti, anche
quelli che i controlli consideravano poco affidabili. Queste affinità comportamentali tra autistici
e cerebrolesi suggeriscono che l’amigdala sia una delle strutture colpite nell’autismo. L’ipotesi
di un malfunzionamento dell’amigdala ha ricevuto conferma in due recenti ricerche di
neuroimmagine. I soggetti con autismo/sindrome di Asperger che hanno partecipato allo studio
di Critchley (2000) eseguivano due compiti di riconoscimento dei volti. Nel primo compito
(riconoscimento esplicito) si chiedeva di riconoscere le emozioni di una serie di volti presentati
in fotografia (set di Ekman). Nel secondo compito (riconoscimento implicito) si chiedeva invece
di identificare il sesso delle persone nelle stesse foto. I livelli di attività neurale sono stati
misurati per mezzo della risonanza magnetica funzionale (fMRI). Nel compito di riconoscimento
implicito, l’attivazione delle aree del cervelletto e dell’amigdala negli autistici risultò
significativamente inferiore a quella dei gruppi di controllo. Nel compito esplicito furono invece
alcune aree sinistre del lobo temporale sinistro a essere poco attive negli autistici, ma
l’attivazione dell’amigdala e del cervelletto fu identica nei due gruppi. Questo risultato ha delle
implicazioni importanti. In primo luogo, alcune differenze tra autistici e gruppi di controllo
nell’elaborazione di informazioni relative a emozioni semplici riguardano solo l’elaborazione
implicita, cioè quella effettuata quando non ci si propone coscientemente di prestare attenzione
a tali informazioni. In secondo luogo, le peculiarità sembrano dovute a un malfunzionamento di
alcune parti del cervelletto e del sistema libico, in particolare dell’amigdala.

6. Riconoscimento di sé e autoconsapevolezza

La tecnica di indagine dominante negli studi sullo sviluppo dell’autoconsapevolezza oggettiva si


basa su una dimostrazione non verbale della capacità di riconoscersi allo specchio. Per
esaminare un soggetto con la tecnica del riconoscimento allo specchio, ad esempio un bambino
nel secondo anno di vita, gli viene applicato, a sua insaputa, un adesivo o una macchia di
colore vistoso sulla sua fronte. Nella fase successiva il bambino viene posto davanti a uno
specchio e la sua azione di grattarsi o toccarsi la macchia sulla fronte rivela la capacità di
riconoscersi allo specchio. Gallup sostiene che l’autoconsapevolezza rivelata nel superare il test
dello specchio equivale a essere cosciente di essere consapevole. Il riconoscimento allo
specchio richiede quindi l’uso delle metarappresentazioni. Poiché nei bambini autistici troviamo
un deficit della teoria della mente, se Gallup avesse ragione dovremmo aspettarci anche serie
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difficoltà nel test di riconoscimento allo specchio. I vari studi in questione non hanno però
confermato questa previsione.
La corrispondenza tra informazioni cinestesiche e visive produce una prima forma di
autoriconoscimento, «quello allo specchio sono io», che non implica il livello di consapevolezza
ipotizzata da Gallup perché non impiega metarappresentazioni.

Capitolo settimo

Percezione e coerenza

In una rassegna sulle capacità percettive dei bambini con autismo, Frith e Baron-Cohen (1987)
hanno preso in esame gli studi condotti fino alla metà degli anni Ottanta. La loro conclusione
principale è stata che le difficoltà dei bambini con autismo in ambito sociale non derivano da
deficit sensoriali e che le peculiarità della percezione riguardano gli stadi avanzati di
elaborazione dell’informazione.

1. Tatto, sensi chimici e percezione intermodale

Rapporti clinici, racconti familiari e persino alcune descrizioni autobiografiche testimoniano che
nei bambini autistici vi è una frequente avversione all’essere toccati o presi in braccio, oppure
reazioni di forte fastidio, irritazione o indifferenza nel ricevere carezze. In alcuni casi
l’avversione può dipendere da un’ipersensibilità cutanea, in altri può essere legata a
un’incapacità di interpretare il significato delle azioni delle altre persone.
La sensibilità aptica riguarda la capacità percettiva delle dita delle mani. Sono state riportate
osservazioni di bambini autistici che manifestavano uno spiccato interesse per le sensazioni
tattili prodotte da oggetti con superfici ruvide, morbide o soffici. Le attività di esplorazione
degli oggetti e le buone abitudini manuali dei bambini autistici suggeriscono che la loro
sensibilità aptica sia buona, e forse addirittura superiore alla norma.
Manca una solida base di dati sullo sviluppo del gusto e dell’olfatto negli autistici. Nei resoconti
clinici sono talvolta riportate reazioni eccessive a certi odori o sapori. In alcuni bambini con
autismo compaiono molto precocemente disturbi dell’alimentazione. Non sappiamo se queste
reazioni sono manifestazioni di peculiarità nei sensi chimici, oppure di marcate preferenze e
avversioni, non associate a capacità discriminative diverse da quelle delle persone normali.

2. Percezione uditiva

Molti genitori di bambini autistici sospettano che il loro figlio sia ipoacustico, ma finora
l’associazione tra autismo e anomalie dell’udito non è stata provata in modo conclusivo.
Le peculiarità uditive sembra siano ascrivibili ad anomalie nei processi attentivi e non a deficit
sensoriali di base. A dimostrazione di questa ipotesi, vengono citati molti casi in cui il bambino
con autismo dopo aver completamente ignorato rumori molto forti si gira per localizzare la
fonte di un rumore lieve che ha attratto la sua attenzione. Oppure in altri casi, rumori molto
forti sono temuti quando prodotti da un meccanismo estraneo (ad esempio un aspirapolvere)
ma sono ricercati se è il bambino stesso a produrli.

3. Percezione visiva

3.1. Processi sensoriali di base

Acuità visiva. L’acuità visiva dei bambini è molto ridotta, a sei mesi l’acuità è un decimo di
quella di un adulto. Vista la difficoltà di compiere una diagnosi precoce, nei bambini con
autismo non si è potuto studiare se ci sono anomalie in queste prime fasi dello sviluppo. Nei
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bambini più grandi sembra non vi siano deficit specifici di acuità visiva e tutto fa pensare che
questo aspetto della visione si sviluppi normalmente.

Visione parafoveale. In alcuni bambini con autismo si riscontra però un comportamento


peculiare, che consiste nel guardare gli oggetti «obliquamente» invece che frontalmente,
privilegiando la zona periferica della retina. Questo fenomeno non è stato indagato in modo
sistematico e la ragione di questo comportamento non è ancora chiara.

3.2. Visione del movimento

Gli stimoli in movimento vengono preferiti agli stimoli statici fin dai primi giorni di vita. Le
informazioni dinamiche e cinestesiche hanno un ruolo centrale nella capacità di distinguere fra
diversi tipi di causalità negli eventi, o fra oggetti fisici inerti e agenti dotati di capacità
intenzionali. Certi tipi di movimenti forniscono indici sufficientemente chiari sulla natura
animata di alcuni oggetti e sull’intenzionalità delle loro azioni, e le informazioni sul movimento
sono forse più determinanti di quelle sulla forma nella categorizzazione dei bambini in età
prescolare. Per questo lo sviluppo della percezione del movimento potrebbe essere in stretta
connessione con lo sviluppo della comprensione degli agenti e, in generale, della causalità
psicologica.
Gepner et al. (1995) hanno esaminato le reazioni a stimoli cinetici in 5 bambini autistici di
quattro-sette anni. Il loro sviluppo nella percezione visiva durante l’infanzia era stato
apparentemente normale. I bambini venivano posti in piedi sopra una piattaforma che
permetteva di registrare i loro movimenti e le eventuali oscillazioni in risposta a stimoli visivi in
movimento. L’apparato consisteva in una sorta di piccola stanza le cui pareti sono dipinte a
strisce bianche e nere e sono appoggiate su rotelle, in modo che si possa fare scorrerle sul
pavimento. Il soggetto viene collocato al centro della «stanza». Quando questa viene mossa
avanti o indietro senza preavviso il soggetto automaticamente reagisce con uno spostamento
all’’indietro o in avanti che, in condizioni normali serve a evitare la perdita dell’equilibrio. I
bambini con sviluppo tipico adattavano la posizione del loro corpo reagendo al movimento
delle pareti della stanza, quelli autistici non mostravano invece alcun adattamento. Una
possibile spiegazione è che i bambini abbiano problemi a reagire alle informazioni cinetiche con
appropriate reazioni muscolari. In questo caso, il loro problema riguarderebbe l’emissione della
risposta appropriata piuttosto che la percezione del movimento. La plausibilità della
spiegazione è suggerita dal fatto che i soggetti esaminati presentavano un notevole impaccio
motorio: 2 dei 5 bambini non erano nemmeno in grado di saltare.
Un recente studio sulla memoria di riconoscimento condotto su 12 adulti autistici ha trovato
che la loro prestazione nel ricordare foto di edifici e foglie era superiore alla loro memoria per
oggetti dotati di movimento autonomo come gatti, cavalli e motociclette.

3.3. Percezione dei volti

Un deficit di questa natura potrebbe spiegare il noto disinteresse per gli stimoli sociali, oppure
essere uno degli effetti creati dall’esperienza sociale anomala.
Fin dalle prime ore di vita, i bambini normali manifestano una preferenza per il volto o, più
precisamente, per tutti gli stimoli che del volto umano preservano le caratteristiche strutturali
determinate dalla posizione degli occhi e della bocca. La preferenza del neonato va
spontaneamente verso stimoli in cui si ritrovano le relazioni spaziali che ci sono fra questi
elementi salienti del volto. Questa preferenza è presente alla nascita.
La reazione automatica di orientamento verso i volti è dovuta a un meccanismo innato e
universale che svolge una funzione molto importante: favorisce la raccolta di informazioni
riguardanti i volti familiari. Il riconoscimento avviene in condizioni normali attraverso
un’elaborazione talvolta descritta come olistica e basata sulla relazione strutturale degli
elementi invece che sull’elaborazione analitica dei singoli elementi del volto (Carey e Diamond,
1977).
I genitori dei bambini con autismo non riportano anomalie nella preferenza per i volti nei primi
mesi di vita dei loro figli. Per quanto ne sappiamo, il primo meccanismo di orientamento
automatico verso i volti nel primo anno di vita funziona adeguatamente. Numerose ricerche
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hanno però riportato peculiarità e difficoltà nel riconoscimento dei volti incontrati
precedentemente.
Hobson (1993) ha mostrato che il riconoscimento dei volti è ostacolato nei bambini con
sviluppo tipico dalla presentazione capovolta degli stimoli. Nei bambini con autismo
l’orientamento del volto ha invece scarsi effetti. Tale differenza è attribuibile alla preferenza
spontanea a elaborare gli stimoli in modo frammentato invece che codificare l’informazione
configurazionale.

3.4. Localizzazione cerebrale

Uno studio recente ha utilizzato la risonanza magnetica (MRI) per valutare le peculiarità nella
percezione dei volti negli autistici (Pierce et al., 2000). Pierce e colleghi hanno scoperto che le
aree attivate solitamente durante la percezione dei volti, in particolare il giro fusiforme, non
sono invece attivate negli autistici.

4. Coerenza e significato

Sebbene gli oggetti che vediamo siano di solito parzialmente nascosti, il mondo non ci appare
composto di parti di oggetti, ma di oggetti interi. I processi visivi ci permettono di integrare le
diverse informazioni e arrivare a una visione organizzata, e in genere veridica, dell’ambiente
fisico. Fra questi processi ci sono quelli dedicati alla percezione della forma (Gestalt,
configuration) degli oggetti.
Nell’autismo la capacità di percepire l’informazione configurazionale in ambito visivo è stata
indagata in vari esperimenti, e la gran parte di questi è stata ispirata dalla teoria sul «Deficit
nella Coerenza Centrale» (DCC; Frith, 1989). Secondo Frith, nell’autismo si riscontra
un’insufficiente pulsione verso l’integrazione delle parti in una struttura complessiva coerente.
La percezione di stimoli visivi, uditivi e linguistici, così come l’azione, sono frammentate e
senza significato perché manca una sufficiente capacità di integrare le parti in un tutto
coerente.

4.1. Prime prove empiriche: i compiti visuospaziali

L’idea che l’autismo implichi una «coerenza centrale debole» è stata inizialmente stimolata
dalla buona prestazione dei bambini autistici in alcuni test, in primo luogo il test delle figure
incluse e il test del Block design. Il test dei blocchi fa parte delle scale Wechsler per la
misurazione dell’intelligenza ed è, in sostanza, un compito di riproduzione di piccoli puzzle i cui
elementi sono cubetti con le facce colorate di rosso o di bianco. Il test delle figure incluse
invece richiede di osservare una figura, ad esempio un triangolo, e ritrovare la stessa figura
all’interno di un’altra più complessa, ad esempio una carrozzina. La prestazione degli autistici
in questi compiti è significativamente superiore a quella di altre prove e può essere equivalente
o addirittura superiore a quella dei soggetti di pari età mentale.
Che cosa può spiegare questa prestazione superiore nei compiti visuospaziali? La proposta di
Frith indica l’origine di questo fenomeno in una debole tendenza a integrare le varie parti di
uno stimolo o gli stimoli e il loro contesto. Nel leggere una parola, ad esempio, i soggetti con
autismo sono meno influenzati dal contesto frasale in cui è inserita la parola. Consideriamo
queste due frasi: «I marinai levarono l’ancora» e «I bimbi, bevuto un po’ di latte, ne vollero
ancora», dove la parola «ancora» va pronunciata diversamente in funziona della frase in cui la
leggiamo. I risultati di un esperimento condotto su bambini inglesi mostra una scarsa
sensibilità contestuale nei bambini con autismo (Snowling e Frith, 1986).

4.2. Percezione delle illusioni visive.

Happé (1996) ha riscontrato che gli autistici sono meno suscettibili delle persone con sviluppo
tipico ad alcune classiche illusioni ottiche. I soggetti autistici erano più accurati nel giudicare la
lunghezza delle linee nell’illusione di Muller-Lyer e di Ponzo e percepivano con minore
frequenza i contorni anomali del «triangolo di Kanizsa».
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Ropar e Mitchell (1999; 2001a) hanno ottenuto risultati in chiaro contrasto con questa
spiegazione. Invece di una risposta verbale, ai soggetti veniva chiesto di eguagliare sul
monitor di un computer la grandezza delle figure test, ad esempio i due cerchi centrali
nell’illusione di Titchener-Ebbinghaus. In altre parole, i soggetti dovevano variare la grandezza
di alcune parti delle figure usando la tastiera di un computer, e fermarsi quando ritenevano di
aver raggiunto un uguagliamento di grandezza. L’eventuale differenza tra le due figure era
misurata in modo preciso in numero di pixel. Con sorpresa dei ricercatori, seguendo questo
metodo le risposte dei bambini con autismo sono risultate del tutto simili a quelle dei bambini
dei gruppi di controllo. Ropar e Mitchell (1999) hanno inoltre chiesto ad altri soggetti autistici
di fornire una risposta verbale, come era stato fatto da Happé, e anche in questo caso non
sono state messe in evidenza differenze fra la prestazione del gruppo di persone con autismo e
dei gruppi di controllo. I risultati di Ropar, Mitchell e Happé suggeriscono una notevole
variabilità individuale fra i bambini con autismo nella suscettibilità alle illusioni percettive. Se
questa forte variabilità individuale riguardasse tutti i compiti utilizzati finora per valutare la
coerenza centrale, dovremmo concludere che il DCC non è una caratteristica cognitiva
fondamentale nell’autismo. Complessivamente , questi studi indicano la necessità di chiarire
con maggiore precisione che cosa si intende per «debole coerenza centrale».

4.3. Il paradigma globale/locale

Un altro modo per indagare l’ipotesi della mancanza della coerenza centrale è analizzare le
prestazioni nel compito globale/locale. In esso si chiede al soggetto di categorizzare le
informazioni globali o locali in stimoli organizzati gerarchicamente. Date due figure, ad
esempio una «S» grande formata da piccole «F» e una «V» grande formata da piccole «F», i
soggetti, nel compito «locale», devono rispondere alle lettere piccole (F), in quello «globale»
devono rispondere alle lettere grandi (S e V). date particolari condizioni di grandezza e
chiarezza dello stimolo, nelle persone adulte si osservano due effetti: vantaggio del globale e
interferenza asimmetrica. Quest’ultima riguarda l’interferenza fra i due tipi di informazione e si
misura confrontando la velocità e accuratezza delle reazioni agli stimoli congruenti con quelli
incongruenti. L’interferenza è detta asimmetrica perché, mentre l’informazione globale
interferisce su quella locale, quella locale non interferisce, o interferisce meno, su quella
globale. Shah e Frith (1993) affermano che la dominanza del globale sul locale può essere
vista come una manifestazione di coerenza centrale.
Plaisted, Swettenham e Rees (1999) hanno trovato una notevole differenza nelle risposte date
a due versioni del compito di Navon che hanno chiamato «compito di attenzione divisa» e
«compito di attenzione selettiva». Nel compito di attenzione divisa l’informazione a cui il
soggetto doveva rispondere poteva comparire a livello locale oppure a livello globale e il
soggetto non era avvertito in anticipo a quale dei due livelli era utile prestare attenzione. Il
soggetto perciò doveva «dividere» la sua attenzione, o comunque spostarla da un livello a un
altro. Nel compito di attenzione selettiva, il compito di Navon originario, al soggetto veniva
detto in anticipo a quale dei due livelli doveva rispondere. Gli autistici si sono comportati in
quest’ultimo compito come il gruppo di controllo, cioè mostravano vantaggio e interferenza
asimmetrica in accordo con una dominanza dell’informazione globale.
I risultati nel compito di attenzione divisa erano radicalmente diversi: i soggetti rispondevano
in un modo che indicava un’elaborazione locale più efficiente di quella globale. Questo conflitto
chiaro fra i due compiti può essere un’indicazione di quale peculiarità caratterizza la percezione
globale/locale nell’autismo. Se l’attenzione è lasciata all’orientamento spontaneo, nei bambini
autistici si trovano gli effetti previsti dal DCC. Se però l’attenzione viene orientata da precise
istruzioni, questi effetti scompaiono e l’elaborazione globale/locale non differisce da quella
osservata nei gruppi di controllo.

4.4. Basi neurali del deficit nella coerenza centrale

In alcuni pazienti che hanno subito lesioni cerebrali nell’emisfero destro è stato trovato un
deficit nell’elaborazione delle informazioni globali. Tali pazienti, infatti, non presentano l’effetto
del vantaggio del globale. Nei pazienti con lesioni all’emisfero sinistro, invece, si possono
osservare difficoltà nell’elaborazione delle informazioni locali.
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Anche uno studio di visualizzazione dell’attività cerebrale suggerisce una specializzazione


emisferica a destra per l’elaborazione globale e a sinistra per quella locale.

4.5. Relazione fra coerenza centrale e altri deficit cognitivi

L’approfondimento delle origini del bias locale potrebbe portare all’individuazione di un legame
fra prestazioni nei compiti visuospaziali e di teoria della mente. Mitchell e Taylor (1999) hanno
osservato nei bambini normali una correlazione negativa fra entità della distorsione nei giudizi
di costanza percettiva e successo in alcuni test di falsa credenza. A una minore distorsione
corrispondeva una migliore prestazione nei compiti di teoria della mente. Perchè dovrebbe
esserci, nello sviluppo normale, un legame fra abilità così diverse? Nel giudizio di costanza
percettiva, le distorsioni erano attribuibili a dei processi guidati concettualmente: c’è una
tendenza a giudicare che un oggetto appare come sappiamo che esso è in realtà. Se ci
domandiamo perché questa tendenza dovrebbe essere negativamente correlata alla capacità di
superare test di teoria della mente, una possibile risposta è che entrambi i compiti richiedono
la capacità di distogliere l’attenzione da ciò che sappiamo essere vero, e immaginare come una
certa realtà può apparire a un’altra persona che non ha le stesse informazioni che abbiamo noi.
Considerate le gravi difficoltà dei bambini con autismo nei compiti di teoria della mente,
dobbiamo allora prevedere che vi sia in loro anche una forte tendenza a essere guidati
concettualmente nei giudizi percettivi e manifestare perciò ampie distorsioni nei giudizi di
costanza della forma. Ropar e Mitchell (2001b) hanno però trovato risultati opposti.
I risultati di Mitchell e collaboratori forniscono quindi ulteriore sostegno all’ipotesi che le
difficoltà nei compiti di teoria della mente incontrate dagli autistici hanno un’origine funzionale
diversa da quella che influenza la prestazione dei bambini normali di tre anni (Surian e Leslie,
1999). Nei bambini di tre anni, all’origine delle difficoltà nei compiti di teoria della mente vi è
un’insufficiente sviluppo dei meccanismi inibitori indispensabili a calcolare correttamente il
contenuto di una credenza, vincendo le tendenze spontanee («realiste») a giudicare che cosa
«appare come è», e che «le persone credono ciò che sappiamo essere vero». Nei bambini
autistici, all’origine delle difficoltà in compiti di teoria della mente vi sono invece problemi
rappresentativi. Le peculiarità mostrate nei compiti visuospaziali e il deficit psicoagnostico
derivano, per lo meno a livello di cause immediate, da deficit distinti non riducibili l’uno
all’altro.

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