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LEZIONE 11 11/11/2020

CURA EDUCATIVA
Professionisti della cura educativa e della relazione di aiuto parliamo di due operatori:
insegnate specializzato di sostegno e all’educatore socio-pedagogico lavorano nell’ottica
della coralità, visione globale per realizzare il processo di inclusione che richiede
un’assunzione di responsabilità da parte di una coralità di protagonisti. (docente curricolare,
assistente sociale ecc.)
Definizione pedagogia speciale come scienza
Cura educativa e aiuto sono strutture portanti della pedagogia speciale.
Che cosa si intende per cura educativa? Sicuramente non è la terapia, perché essa è
trattamento riabilitativo, processo che appartiene all’ambito sanitario, al linguaggio della
medicalizzazione. Quindi non è cura farmacologica, la cura è un prendersi cura di, aver cura
di… l’educazione è cura, è un processo che implica la cura. Quindi il concetto di cura
educativa ha a che fare con la formazione dell’identità e personalità di ogni persona, una
persona che va letta e interpretata in tutta la sua complessità aver cura di tutte le
componenti cognitive, affettive, relazionali ed emotive di ogni persona.
Nel momento in cui mi prendo cura dell’altro, del soggetto con difficoltà intendo aiutarlo a
trovare un innovativo orizzonte di senso e significato per la sua vita ed esistenza. cerco di
sviluppare in lui il massimo livello delle capacità, competenze, dell’emancipazione della
persona/ alunno con bisogni educativi speciali. Quindi si tratta di un concetto di cura che
diventa categoria fondativa della pedagogia speciale ma anche dell’esistere pedagogico.
Perché se è vero che ci prendiamo cura, che la cura è una preoccupazione particolare verso
ogni essere umano a maggior ragione i professionisti della cura sono tenuti ad
occuparsi/prendere in carico l’alunno con disabilità bisogna aiutare l’altro, il diverso a
rivedere la propria vita formativa, personale sociale ecc nonostante la scomoda presenza
del deficit (=danno immutabile, invalidante, che va accettato perchè non possiamo fare
altrimenti). Non parliamo solo degli alunni con disabilità ma anche degli alunni con BES, con
problemi di adattamento/disadattamento, disagio, devianze ed nuove emergenze educative,
nuove categorie di diversità e marginalità. assenza di piena partecipazione all’interno dei
micro e macro contesti sociali.
Quindi il concetto di cura si lega al concetto di educazione e formazione, ma anche al poter
essere e poter divenire e quindi all’idea della progettualità e in questo caso di riprogettazione
di sé nel mondo, nell’ottica della riprogettazione esistenziale del progetto di vita è necessario
grazie all’azione della cura educativa riattivare nell’altro il motore del desiderio di vivere, di
esistere. (concetto di cura educativa legata al concetto di cura intesa filosoficamente
parlando) infatti la cura è un’esistenziale pedagogico che parte dalla filosofia
fenomenologico-ermeneutica da autori come Compte, Hidegger, per poi essere trasportato
nel linguaggio pedagogico generale, sociale e speciale. Autori italiani che se ne sono
occupati: Franco Cambi, Montari, Rita Fadda (pedagogia speciale), Andrea Canevaro,
Cristina Palmieri (pedagogia speciale). Canevaro affianca al concetto di cura il concetto di
relazione d’aiuto (= funzione di accompagnamento competente).

Ogni essere umano ha a che fare con questo concetto di cura educativa, ognuno di noi ha
bisogno di prendersi cura di sé per trovare un significato, senso alla nostra esistenza nel
mondo. Cura come premura, dedizione, sensibilità per l’altro e verso l’altro ma anche per
noi stessi, dobbiamo capire a cosa mira l’aver cura? Mira a dare significato alla nostra
esistenza o a ritrovare un nuovo significato nel caso degli alunni con bes, all’interno di
un’esistenza già caratterizzata dal dolore, sofferenza ed esperienza invalidante. Quindi il
bravo educatore/insegnante specializzato hanno cura di questi alunni affinchè l’altro il
diverso ritorni ad aver cura di sé stesso quindi la nostra competenza deve far si che l’altro
gradualmente torni ad essere consapevole della propria cura pensandosi capace ed
autonomo nella sua riprogettazione, questo passa nel ritrovamento della stima di sé e della
ricollocazione nel mondo.
Il gesto di cura è un’operazione complessa perché deve coniugare i linguaggi delle
emozioni, affetto con quelli della ragione, della relazione. L’aver cura è quindi disponibilità
nei confronti dei suoi bisogni, tutela, opportunità di fornirgli ulteriori possibilità di vita, di
esistenza affinchè dalla situazione di difficoltà possa ri-direzionare i suoi modi di pensare,
agire, di essere riprendendosi cura di sé. Per cui è forte il legame con l’empatia= capacità di
attivare relazioni di reciprocità, estrema ricettività entriamo nel mondo dell’altro per farne
parte e per migliorarlo affinchè la persona in difficoltà possa riscoprire le sue capacità di
riprendersi cura di sé e della propria esistenza.
I professionisti della cura e dell’aiuto si offrono come spazio, tempo di esperienza,
esperienza che deve riaprire lo spazio del possibile (altra definizione di pedag. Speciale è
luogo dell’interiorità) è grazie al gesto dell’aver cura che noi possiamo offrirci come esempio
per far si che l’altro individui ulteriori spazi e tempi di capacità, possibilità.
Ma aver cura è anche un gesto intenzionale, e il suo obiettivo è quello di migliorare la qualità
della vita, le condizioni di benessere delle persone tutte. Esso contiene anche forti valenze
metaforiche perché dobbiamo entrare in un dialogo costante con i modi, il sentire, agire
dell’altro dobbiamo sostenerlo e accompagnarlo nelle sue decisioni future nel ricercare
nuove soluzioni, nuovi significati alla difficile quotidianità per cercare di far sì che l’altro
possa pensarsi al futuro e quindi intravedere nuove strade. (legame tra cura e il pensami
adulto, la progettazione). Quindi si può dire che la cura è passione della vita, non c’è cura di
sé e degli altri senza una costante pratica di autoriflessione.
L’aver cura implica un processo formativo ed educativo che coinvolge entrambi i protagonisti
della relazione educativa che si mettono in gioco, che si co-formano, co-educano e quindi si
prendono cura anche se inizialmente in forma asimmetrica che deve raggiungere l’obiettivo
di ridurre questo divario esistente tra chi aiuta ed è aiutato. Nel momento in cui aiutiamo
l’altro aiutiamo anche noi stessi.
Non è possibile pensare alla cura educativa senza un’attenta operazione di autovalutazione
e autodeterminazione di quelle che sono le nostre capacità, limiti. Poggia sulla
responsabilità, consapevolezza, sensibilità competente, su una passione per la vita ma
anche su una ricerca incessante di una libertà come emancipazione dal senso profondo di
dipendenza e schiavitù che spesso la condizione di disabilità procura alla persona.
Dilatare gli orizzonti e il campo di esperienza dell’altro cioè fornire all’altro uno scenario di
possibili ulteriorità, offrire gli strumenti affinchè l’altro possa intravedere traiettorie esistenziali
magari inizialmente impensabili ciò che devono fare gli i professionisti della cura e dell’aiuto.
La cura pur avendo delle forti radici in ambito filosofico deve tradurre nell’ambito del
linguaggio delle scienze dell’educazione e in questo caso nell’ambito della pedagogia
speciale. Deve anche favorire inclusione e riprogettazione esistenziale dell’alunno, dall’idea
di cura come riflessione filosofica logica delle buone pratiche che sostengono gesti di cura
che diventano didattica inclusiva, traduzione pratica delle categorie epistemologiche
fondative della cura e dell’aiuto che non possono rimane mere teorie, devono essere
sviluppate nei contesti di luoghi di vita degli alunni con Bes.
L’aver cura va tradotta in una serie di azioni inclusive, di aiuto, sostegno all’interno dei micro
e macro contesti sociali e culturali per favorire un potenziamento di un livello di
partecipazione piena degli alunni all’interno del contesto scolastico ed extra-scolastico. Le
competenze educative forti sia dell’insegnante che degli altri docenti e dell’educatore è il
prendersi cura, vasta gamma di gesti che vanno nell’ottica della preoccupazione,
accompagnamento competente dell’alunno in difficoltà.
Distinzione fondamentale (Hidegger ‘’essere e tempo’’) parla di due possibilità estreme della
cura educativa, antitetiche in conflitto. Cura autentica VS inautentica. Cura autentica è la
relazione che libera l’altro, che non lo ritiene inferiore, incapace, malato, privo di risorse essa
è dare fiducia anche se in condizioni di estrema difficoltà per far sì che l’altro gradualmente
riprenda il percorso verso la cura sui, cioè verso se stesso. (maria montessori diceva ‘’
aiutami a fare da solo’’). È un’azione di emancipazione, è la vera cura quella positiva, sana
che fa fare all’altro un salto di qualità, facendogli scoprire con il nostro aiuto moderato,
sincero nuovo senso e significato per la sua esistenza. Cura inautentica: Hideger il rapporto
iniziale asimmetrico tra chi aiuta e viene aiutato si mantiene sempre con quel divario dove
c’è l’arroganza, l’autorevolezza che diventa eccessiva di chi aiuta verso chi è aiutato quindi il
prendersi cura inautentico vuol dire non dargli fiducia, credito. È quella cura che rende
schiavo, invalida, rende dipendente l’altro che è rapporto gerarchico che veicolo situazioni di
dipendenza, che non lo emancipa, gli nega una forza, capacità e che quindi sfocia in ISMI=
specialismi, assistenzialismi, quando ragioniamo con gli ismi non ragioniamo nell’ottica della
cura autentica. Quando agiamo nell’ottica di iperprotezionismo e sia nell’ottica del lassez
faire, noi non ci collochiamo nella zona dell’aver cura in modo autentico, perché se
pecchiamo di eccesso di assistenzialismo tendiamo a sostituirci a lui e quindi nel momento
in cui ci sostituiamo noi agiamo nell’ottica di un’inclusione invalidante. Canevaro LA CURA
AUTENTICA HA A CHE FARE CON ‘’ l’aiuto è un dono leggero’’ non invadente, è un
accompagnamento competente sostegno calibrato, non bisogna evitare di sollevare l’altro
dalla difficoltà sostituendosi a lui perché gli neghiamo una forza pure limitata ma sua,
possiamo però accompagnarlo con tutte le preoccupazioni, sussidi non dobbiamo essere
eccessivamente inclusivi perché altrimenti la relazione si sbilancia completamente.
Cura educativa autentica richiede un bagaglio di competenze complesse ed al plurale.
Che cosa vuol dire essere autonomo per un alunno con disabilità? Vuol dire sapere a chi
chiedere aiuto, sapere su chi fare riferimento, non vuol dire bastarsi da soli. La mancanza è
una caratteristica di tutti gli esseri umani, però nello stesso tempo proprio perché siamo
vulnerabili non possiamo essere completi, l’accompagnamento è quell’ESSERCI che in
maniera molto discreta, competente affianca l’altro, il diverso nel difficile cammino della sua
esistenza.
Dal Curare (come azione specifica che va a curare, far terapia a cercare di guarire la
menomazione fa riferimento al linguaggio della medicalizzazione) si deve passare al
prendersi cura (io sono presente e mi preoccupo di te, della tua difficoltà rischioso perché
può degenerare nell’assistenzialismo) AVER CURA è qualcosa di più elevato è io mi
assumo un impegno, io sono responsabile verso di te.
Oltre alla cura della persona con disabilità c’è bisogno di un aver cura anche dei contesti.
Perché possono direzionare nella positività o negatività il senso del traguardo dell’inclusione
scolastica e sociale stessa. Bisogna costruire contesti di cura all’interno della comunità.
LEZIONE 12 12/11/2020
Non c’è nessuna azione di cura che posa sconfiggere l’irreversibilità purtroppo della
condizione di deficit che va accettato, ma l’aver cura aiuta la persona con disabilità a
rimettere in gioco sé stessa. La cura autentica è quell’insieme di buone pratiche che
valorizzano l’altro e gli danno credito, aiuta la persona a trovare un nuovo significato
dell’esistenza.
La cura richiede la rivisitazione del rapporto tra l’istituito e istituente. L’istituito è il contesto,
la scuola così come la si trova quindi già predeterminata, precostituita preorganizzata,
mentre l’istituente è lo sforzo che si deve compiere per far sì che la scuola da sfondo
istituzionale rigida, burocratico si trasformi in sfondo semantico capace di accogliere i BES di
tutti gli alunni.
Cura è anche processo di coeducazione, evoluzione di crescita comune (tra chi aiuta e
viene aiutato) reciproco arricchimento e cambiamento. Il professionista della cura e dell’aiuta
si offre come luogo, spazio e laboratorio simbolico perché permette alla persona di poter
riprogettare la propria esistenza.
N:B: Quasi sicuramente nella prova finale d’esame ci sarà una traccia su questo argomento
(cura educativa, relazione d’aiuto e inclusione)
Il bravo professionista è colui che riesce a calibrare il suo intervento mediando con l’alunno
ed il contesto cercando di essere un bravo regista(= mantenere il giusto equilibrio tra
l’eccesso di iperprotezionismo e autoritarismo difetti degli ISMI, che sono esagerazioni da
evitare e la giusta distanza con l’altro agire nell’ottica della cura autentica senza essere
troppo invasivi, ma comunque essere riconosciuti come autorevoli punti di riferimento) della
situazione educativa, deve favorire quindi il processo dell’inclusione e deve promuovere uno
spazio di ’’condominio’’ dove vengono a coesistere entrambi i protagonisti della relazione
della cura e dell’aiuto.
Quando l’aver cura si lega alla narrazione che diventa linguaggio di cura educativa è
normale che riusciamo a superare le rigide nicchie dello specialismo, dell’approccio
riabilitativo, clinico e anche le visioni assistenzialistiche, etichettanti che caratt. L’ambito
della medicalizzazione.
La cura possiamo declinarla seguendo 3 dimensioni:
Dimensione fisico-materiale: cura come gesto concreto, come buona pratica, lavoro
fatto proprio di gesti concreti, in cui l’insegnante o educatore si occupa proprio della
persona, dei suoi bisogni, il recupero dell’autonomie, degli aspetti anche fisiologici legati al
raggiungimento di un buon livello della qualità della vita,
Dimensione organizzativo-progettuale: organizzare le buone pratiche, ogni alunno
possa migliorare la qualità dell’esistenza,
Dimensione affettivo-emotivo-relazionale: perché l’aver cura passa attraverso il
veicolare delle emozioni, sentimenti, gestioni di conflitti, superamento di barriere ed ostacoli.
Potenziamento delle umane relazioni.
La cura cerca di abbattere tutti gli ostacoli e barriere che impediscono una piena
partecipazione dell’alunno all’interno dei micro e macro contesti sociali e quindi è necessario
far sì che si possano reperire nel contesto scolastico tutta una serie di agenti facilitatori del
processo di inclusione scolastica e sociale.
Entrambi i protagonisti della relazione d’aiuto si mettono in gioco, si incontrano cambiano le
loro idee, valori, decisioni e i loro traguardi. Per cu nell’incontro con l’altro esiste la possibilità
di attivare forti valenze emancipative.
‘’evitare di prendere in braccio l’altro per evitargli la fatica del suo stato… ‘’ esigenza di cura
educativa autentica, non invadente, invalidante.
Il concetto di cura è una parola polisemica e ha una doppia direzione di senso perché è
legata al dare e al ricevere. ‘’piena assunzione di responsabilità nei confronti di noi stessi e
degli altri’’ questa attenzione si può definire epimeleia: permette di attivare all’interno delle
relazioni di aiuto una costante attenzione per la persona con disabilità,
LA RELAZIONE DI AIUTO: è la parte più pratica, organizzata dell’aver cura. L’aver cura è
sempre il fondamento. ‘’ bisogna aiutare l’altro ad aiutarsi’’ (Montessori) Questo avviene in
maniera positiva se si valorizzano le capacità, le potenzialità dell’alunno con disabilità.
‘’Bisogna saper ricevere l’altro’’ (G. Bateson), mettersi nei panni dell’altro= tramite questa
entropatia che si può restituirlo al mondo in maniera più forte, nell’ottica della ri-generazione.
È agente di cambiamento e provoca nuove relazioni di significato. Bisogna superare il
paradigma tradizionale dell’aiuto inteso come io ti aiuto e tu sei aiutato ma è un rapporto di
reciprocità. La relazione di aiuto sana è una relazione che comprende una rete di sostegni di
aiuti visione di aiuto come sostegno al plurale e non individuale (R. Caldin), la relazione di
aiuto che parte da un rapporto asimmetrico deve diventare il più possibile alla pari, un
rapporto simmetrico.
È sostegno e accompagnamento competenti, per abbattere tutte le barriere che la
persona con disabilità incontra costantemente nel corso della sua esistenza nei micro e
macro contesti di appartenenza.
Non è fare al posto di, ma è un fare insieme. riprogettazione del progetto di vita che
non permette all’alunno di lasciarsi andare alla disperazione, sofferenza ma lo aiuta a
ridesiderare la vita.
La relazione di aiuto ha anche fare con la riprogettazione del vissuto/trama
esistenziale della persona bisognosa. Si tratta di un incontro di due storie, due vissuti che va
tutelato da quegli eccessi di cura inautentica dove entrambi i protagonisti devono incontrarsi
cercando di non cadere in un atteggiamento di schiavitù rispetto all’altro. Quindi vuol dire
sempre farei conti con la trama narrativa/storia personale dell’altro che è contrassegnato da
zone e momenti felice, ma anche momenti estremamente difficili e di sofferenza estrema.
Quindi la narrazione diventa linguaggio di cura e inclusivo. Si parte da due trame differenti
che gradualmente nel corso della relazione diventano delle storie comuni.
Finalizzato alla restituzione e ristrutturazione della storia dell’altro.
Altro obiettivo della relazione di aiuto è il recupero e/o al potenziamento
dell’autonomia,
Nella relazione di aiuto gli specialisti cerca nell’altro, nei meandri della memoria,
l’evento che ha sospeso le qualità dell’esistenza, quindi è necessario riaccendere il motore
del desiderio per far sì che il progetto esistenziale dopo aver attivato la resilienza si possa
ripensare alla ricomposizione del progetto di vita.
Il vero aiuto è un’azione di cambiamento che va nella direzione del potenziamento
dell’autonomia personale
Funzioni importanti quando si vuole costruire una buona relazione di aiuto:
Comprensione empatica ed entropatica,
Fiducia nell’altro,
Rispetto dei suoi punti forza e debolezza,
Ascolto partecipe, vivo
Mantenimento della giusta distanza, né troppo inclusivi, simbiotici altrimenti non c’è
autorevolezza ma neanche troppo distacco,
Interesse
Sostegno di prossimità= azione di accompagnamento competente, ti sostengo senza
sostituirmi a te affinchè tu possa affrontare quell’ostacolo ti sono vicino, ci sono ma non mi
sostituisco,
Ricerca di spazi e possibilità: necessario far sì che l’altro colga in noi nuovi orizzonti,
spazi possibili per potersi progettare,
Chi educa/aiuta deve essere seducente.
LEZIONE 13 18-11-2020
La relazione di aiuto tra solidarietà e inganni:
In questo testo il professor Montuschi evidenziava l’aspetto positivo dell’aver cura, in
maniera autentica: voler aiutare per emancipare l’altro per potenziare il suo livello di
autonomia, piena partecipazione sociale. L’inganno è il lato oscuro della cura, è
l’inautenticità della cura. È la parte manipolativa che non è la componente da privilegiare
all’interno della relazione tra cura ed aiuto.
Non ci sono delle modalità standard non bastano né il buonismo, l’umanità per poter aiutare
gli altri si tratta di capire che non esistono principi guida fondativi ma orientamenti di fondo e
bisogna essere consapevoli e responsabili. Relazione di aiuto parte da una asimmetria di
partenza (dove c’è colui che si sente superiore) fine ultimo di colui che aiuto arrivare a una
relazione alla pari: dialettica di coevoluzione di scambio reciproco, molto difficile trovare un
modo per aiutare gli altri non si ha la bacchetta magica, bisogna avere rispetto dell’altro.
L’ascolto l’empatia sono competenze fondamentali che l’insegnante deve avere.
Bisogna che l’educatore o il docente specializzato si prenda cura dell’altro affinché l’altro si
prenda cura sui, deve essere un punto di riferimento costante, reperibile, non ingannevole,
non manipolativi con un forte senso di responsabilità si costruisce un rapporto dove c’è
meno distanza, e quindi l’altro inizia a seguirci. Capaci di sapere quando andare dietro le
quinte/ saper ritirarsi lasciare spazio all’altro e quindi l’aiuto è aiuto unico/irripetibile perché è
sempre originale ma deve saper calibrare le parole, sapere che gesti e parole usare.
capacità maggiore è quella di saper leggere (lettore ermeneutico) le situazioni senza
lasciarsi trasportare dalla drammaticità del momento, senza lasciarsi coinvolgere troppo:
mantenere una giusta distanza.
L’aiuto che viene dato è in rapporto con l’aiuto che la persona sa dare a sé stessa: più la
persona bisognosa di aiuto riesce ad aiutarsi più noi siamo in grado di capire l’aiuto che
dobbiamo dargli. Se invece la persona non riesce ad aiutarsidiventa un problema.
L’ideale sarebbe attivare delle relazioni d’aiuto dove ci si dona all’altro con delle protezioni
per essere solidali con l’altro, ma per farlo il livello di coinvolgimento non deve essere
elevato perché si sarebbe sempre una parte egoistica.
Slides n°3 piramide relazione di aiuto. Alla base che ci sottolinea l’esigenza di far sì che
l’aiuto quello autentico non può essere solamente legato alla disponibilità, buon senso,
umanità, sensibilità ma è necessario unire la competenza che garantisce la professionalità.
Perché essa ci permette di razionalizzare l’emotivo/impulsività e ci permette anche di
diventare professionisti. Oltre alla competenza ci deve essere anche il piacere di occuparsi
dell’altro, spinta motivazionale di aiutare l’altro, nell’aiutare l’altro aiutiamo tra l’altro anche
noi stessi. Nella parte alta quella più etica troviamo il ‘’dover di dare aiuto’’ dovere come
fondamento un po' caritatevole cristiano.
Slides n 4 le varie forze/categorie che compongono una relazione di aiuto autentico non
possono rimanere un’azione isolata bisogno di presenza, costanza di essere dei punti di
riferimento, non di sostituirci perché altrimenti l’aiuto isolato/manipolativo porta a una
degenerazione/sbilanciamento della relazione d’aiuto. La sola
competenza/programmazione/rigidità comporta una freddezza della relazione, bisogna
anche saper arrivare al cuore dell’altro. Anche il piacere di occuparsi dell’altro se non è unito
alla consapevolezza inefficacia/distorsione della relazione di aiuto, non può essere
predominante.
Relazione di aiuto relazione circolare, dinamica (slides 5)
Canevaro parte dalla critica del sostegno. sostegno di prossimità cioè dobbiamo essere
prossimi all’altro dobbiamo accompagnarlo, si evolve questo tipo di sostegno sulla base
delle specifiche esigenze.
Necessita anche di comprensione della sua storia, interpretare i suoi punti forza e
debolezza. Progettualità è un percorso fatto da più fasi/obiettivi è una struttura organizzata
che ci permette di fissare dei paletti e quindi di progettare un aiuto e chiaramente è
fondamentale la condivisione di questa progettualità, la logica della progettualità è quella di
essere uno strumento che va condiviso e scambiato con le altre risorse/figure professionali
(genitori, medici, terapisti, coetanei). Inoltre, va trovato il giusto equilibrio tra lontananza e
vicinanza, identificazione anche delle problematiche della classe, ultimo elemento è la
significatività degli apprendimenti (Ausubel bisogna distinguere tra l’apprendimento
meccanico/forzato apprendimento fine a sé stesso e quello significativo) elemento che può
garantire una maggiore presenza di quell’apprendimento. Quindi l’aiuto deve toccare un
aspetto significativo dell’altro.

(slides 7) Quando si parla di comprensione e condivisione nella dialettica tra conoscenza di


sé e dell’altro non dobbiamo mai pensare di essere padroni dell’altro nessuno è oggetto
dell’altro, il fatto che l’altro è così fragile, bisognoso di aiuto non ci deve far pensare che noi
siamo padrone dei suoi comportamenti. La relazione di iuto che nasce da questo è una
relazione di aiuto unilaterale basata sulla conoscenza superiore di chi ci aiuta quindi
relazione di aiuto totalmente asimmetrica, mancante di processi di empatia, ascolto basati
sulla reciprocità. parte positiva è quella della conoscenza dell’altro che non è mai completa,
dobbiamo sempre ritenerci un po' mancanti, perché non dobbiamo ridurre l’altro a una unica
prospettiva RELAZIONE DI AIUTO BILATERALE: basata sulla reciprocità, scambio, su
un’autoriflessione/mettersi in discussione. Quindi non sbilanciata ma simmetrica. Questo
richiede una grande conoscenza di sé, conoscere i propri limiti e risorse
CO-COSTRUZIONE DELLA RELAZIONE DI AIUTO si costruisce insieme.
Le competenze comunicative sono alla base della relazione di aiuto senza di questo non si
può parlare di relazione e tanto meno di relazione di aiuto. Deve essere una comunicazione
dove l’altro ci indica le sue parti fragili e noi dobbiamo saper intervenire dobbiamo
immedesimarci, essere disponibili e dobbiamo cercare di vivere il conflitto come momento di
crescita e non di separazione. Possibilità di dialogo/comunicazione deve essere veicolata
dalla cultura del progetto.
Nella complessità della relazione di aiuto, che cosa ci può venire in contro? Il ruolo dei
mediatori che permettono la comunicazione.
L’aiuto che non vuole nulla non esiste, esso vuole sempre qualcosa ritorno, riconoscimento
c’è un sentirsi dire un grazie, c’è un valore che viene attribuito, non dare e avere
economicista, qui si parla di aiutare non solo per aiutare perché si è salvatori, ma perché si
vuole un segnale di riconoscimento di quello che si è dato. Un aiuto senza fini non esiste.

LEZIONE 14 19-11-2020
slide A. Covelli- Relazione di aiuto
Una delle competenze fondam. Che i professionisti della cura e dell’aiuto devono avere è
l’empatia. Empatia prepotente è la falsa capacità di mettersi nei panni dell’altro perché c’è
un ascolto che vuole condurre in maniera prepotente idee e comportamenti a quello che
viene proposto o pensato dai professionisti della cura e dell’aiuto. Quindi è quel tipo di
ascolto che in realtà non prevede un’evoluzione quindi si tratta di un inganno: ‘’io ti ascolto e
provo empatia ma a patto che tu faccia quello che ho programmato per te’’ non ha nulla a
che vedere con l’aiuto migliorativo di entrambi.
Empatia Competente: l’empatia è competente quando anche colui che aiuta compiere
un’evoluzione exattativa (Gould), tipo particolare di evoluzione/cambiamento che si verifica
in entrambi i protagonisti della relazione, per cui l’evoluzione exattativa non c’è chi ha
ragione chi ha torto, non c’è un inizio e una fine, ma c’è una sorta di incontro dove nessuno
dei due deve sapere come ne esce, dove deve portare l’altro. Quindi è un modello dinamico,
deve costruirsi progressivamente, è una crescita che avviene un po' alla volta nel corso del
tempo all’interno di una relazione che non è già rigidamente precostituita. Nell’operazione di
exattamento anche la persona che ha già uno stadio più evoluto di maturazione
nell’incontrare l’altro deve essere disposto a fare uno spazio per la novità che l’altro ci porta,
per la messa a disposizione. capacità di adattamento e rinnovamento/trasformazione
condivise da entrambi i protagonisti.
Essere autonomi per l’alunno con disabilità vuol dire sapere a chi chiedere e quando e dove
chiedere, non è bastarsi da soli. La persona autonoma è chi ha già dei punti di riferimento.
Canevaro: il bambino con bisogni educativi speciali ha bisogno di un intervento su misura,
cioè come di un abito su misura, una modalità di aiuto competente, personalizzata, aiuto
specifico in quel momento. Anche il contesto deve essere un contesto che ha cura dell’altro
non può essere solo l’ambiente fatto di spazi ma anche l’insieme delle relazioni, dinamiche
comunicative ma anche i pregiudizi e stereotipi che possono condizionare quel contesto. Il
contesto deve essere accogliente, personalizzato deve avere quelle risorse/sostegni che lo
caratterizzino come inclusivo.
L’alunno con BES deve poter indossare un certo tipo di sostegno, aiuti perché deve
raggiungere un determinato scopo. ‘’La competenza della sarta si esprime anche in momenti
in cui impone le sue decisioni’’ (slide 12 Covelli-relazione di aiuto) c’è bisogno a volte di
intervenire, di fare qualcosa di concreto poi ci sono dei momenti in cui bisogna lasciare
spazio. Ma l’intervento non può non tenere conto dell’evoluzione di tutto il contesto:
evoluzione exattativa non solo tra i due protagonisti della relazione ma anche all’interno del
contesto stesso evoluzione che richiede anche un cambiamento contestuale.
Complessità della cura educativa e della relazione d’aiuto: difficile gestire delle polarità
antitetiche che la costituiscono e che sono tra loro in conflitto come LONTANANZA VS
VICINANZA E SEPARAZIONE VS PARTECIPAZIONE poi richiede anche una costante
operazione di autoanalisi.
LONTANANZA VS VICINANZA: SUPERARE L’IDEA DI UNA SUBORDINAZIONE E DELLA
SOSTITUZIONE ALL’ALTRO PER CERCARE SEMPRE PIU’ DI PROMUOVERE LA
REALIZZAZIONE DI UNA RELAZIONE DI AIUTO BASATA SULLA CATEGORIA DELLA
RECIPROCITA’.
Il funzionamento dinamico dell’alunno con disabilità va rapportato al contesto, coinvolgendo
tutte le altre figure professionali, tutti coloro che partecipano attivamente nella costruzione
progettuale del processo di inclusione scolastica e sociale. Paradossalmente bisogna
andare a chiedere aiuto al soggetto che ha bisogno di aiuto, ma è paradossale anche il
contrario che chi ha bisogno di aiuto si rivolga solo ad una persona nessuno salva l’altro, ci
si salva se ci si vuole salvare. Passaggio dal sostegno individuale al reperimento di una rete
di sostegni e aiuti che non possono essere assunti da una sola figura ma che hanno bisogno
di una costante operazione di mediazione con gli altri, fondamentale apporto fornito dai
coetanei.
SEPARAZIONE VS PARTECIPAZIONE: per garantire un distacco ottimale bisogna tutelare
la persona che offre aiuto e anche chi lo riceve. A volte si può andare incontro a dinamiche
ingiustificate, meccanismi di rifiuto, disinteresse, mancanza di empatia che può generare
situazioni di freddezza, di scarso riconoscimento dei bisogni dell’altro. Chi dona aiuto non
deve sentirsi il salvatore di chi è aiutato. Fondamentale la consapevolezza dei nostri limiti
perché altrimenti non riusciamo ad aiutare l’altro comprendere la propria responsabilità.
Dall’idea di un sostegno unico duale (questo tipo di modello ritiene l’altro come soggetto
mancante, nel senso inferiore, malato incapace, chi aiuta ha l’idea che chi deve essere
aiutato è un ‘’guasto da riparare’’ quindi questo aiuto tradizionale era legato ad una
considerazione molto medica terapia e riabilitazione non sono il fine della cura autentica) si
deve passare ai sostegni di prossimità (slide 16): fine ultimo è la rivisitazione del progetto di
vita. Ma questa è un’operazione che richiede reciprocità, per cui dal concetto medicalizzato
riparativo, conservativo, assistenzialistico dobbiamo riconoscere il valore di passare a
un’evoluzione di questo concetto per realizzare una distribuzione reticolare di una pluralità di
sostegni e aiuti. Il reticolo di sostegni e aiuti è caratterizzato da delle interconnessioni attive,
e che queste reti di connessioni devono essere connotate da comportamenti professionali
che hanno una forte natura empatica competente. rompere l’idea che l’insegnante
specializzato è il sostegno per l’altro, non è un aiuto sano quello che crea dipendenza ad
un’unica figura di riferimento. Qui c’è un intervento educativo, formativo che mette l’altro
nella condizione di rivedere la propria esistenza, l’unico modo per rompere la
subordinazione è quello che ci siano dei mediatori. Es. se quando stiamo male/abbiamo un
problema ci rivolgiamo sempre ad un’unica persona poi quella viene a mancare, come
facciamo? ulteriore problematica. Il sostegno unico procura una situazione eccessivamente
subordinante. Non si può delegare tutto ad un’unica figura. Mentre i sostegni di prossimità
rete di sostegni, altri punti di riferimenti.
Sostegni di prossimità:
introdurre una rete di risorse cercando di evitare la strada soluzione, ovvero c’è solo
una soluzione.
Abbattere le pareti della scuola, per individuare un’inclusione fatta di percorsi misti
scuola-famiglia, scuola-lavoro, altre associazioni.
Progettare e costruire percorsi individualizzati (e non individuale: esclude, ghettizza):
adotto strategie metodi su misura (sarto che taglia e cuce il vestito) ma non vuol dire che
deve essere isolato. Perché tutti gli alunni devo essere in grado di raggiungere lo stesso
traguardo ovviamente con metodi, strategie modalità organizzative personalizzate che
rispondono ai bisogni di ciascun alunno.
Sia l’alunno e il docente specializzato hanno bisogno di agganciarsi alla classe, ma
anche viceversa perché le dinamiche di cambiamento attivate per l’alunno in difficoltà
servono anche per gli altri alunni.
Inclusione non deve escludere, più pensiamo di essere competenti più alla fine
diventiamo specialisti dell’esclusione non agenti inclusivi. Bisogna formarsi per tutta la vita
perché la formazione non finisce mai, e bisogna ridurre i conflitti tra le competenze educative
e quelle mediche.
L’insegnate specializzato di sostegno è un mediatore
Pensare che c’è un oltre alla scuola, ma appunto anche nella diversificazione dei
luoghi formativi extra scolastici. La formazione integrale e integrata dell’alunno non si può
solo fermare all’interno della classe, bisogna pensare anche al futuro. PENSAMI ADULTO

La relazione d’aiuto deve essere il luogo della resilienza, della coeducazione


corresponsabilità e quindi dell’integrazione di competenze.
LEZIONE 15 25/11/2020
Video: Il lato umano
La protagonista è emarginata da tutto (scuola, lavoro, sessualità), non può camminare e a
malapena le funziona un braccio, ma la testa funziona bene. Ci sono solo fatica, dolore,
prese in giro e disillusioni. Sente però il bisogno di uscire, tutti le dicono "seduta, 'sta al tuo
posto, sorridi". "Siamo noi che rendiamo speciale la vita", a Capo d'Arco il desiderio comune
di tutti i malati è quello di lavorare, sposarsi, avere una faiglia, sarebbe però uno scandalo
per tutti coloro che li vogliono far stare fermi al loro posto. Più cercano di ostacolarli più
aumenta la determinazione.
Considerazione a riguardo:
-Senso iniziale di depressione, rassegnazione, solitudine e emarginazione
- Parte da una rassegnazione di una società chiusa e finisce con un emergere da parte della
persona che non si arrendere anche se seduta
-Provocazione forte, "seduta, stai al tuo posto" ripetuta tante volte: quando le cose si
rippetono significa che danno dolore, significa che gli "handicappati" (espressione della prof)
non hanno avuto voce, erano in un ruolo inesistente, privi di diritti, di doveri, della loro vita,
oscurati, senza voce, esclusi, qualcun altro gli dice cosa fare perché vedono la diversità
come disturbo come un elemento da imprigionare. Per le persone con disabilità non deve
essere una cosa eccezionale vivere, vivere deve essere normale anche per loro, l'analisi
medica dà un'etichetta difficilmente digeribile. Non bisogna acoltare solamente le parole ma
andare oltre e saper interpretare la persona utilizzando la globalità dei linguaggi che le
persone con disabilità usano e che noi abbiamo come strumento. La società li considera
senza valore, tutte le idee come l'incapacità e l'inadeguatezza vengono imposte facendo
sentire la persona con disabilità oppressa.
Succede anche a scuola, quando bisogna fare dei compiti o delle attività l'insegnante chiede
a quello di sostegno di portare l'alunno con disabilità fuori dalla classe, perché potrebbe
disturbare. Anche i genitori cercano di imporre programmi diversi per il figlio con problemi,
non lasciando modo di lavorare all'insegnante specializzato.
La madre è carica di un vissuto emozionale, di aspettative, di proziezioni e di esperienze
fantasmatiche. La madre è sconfortata quando nasce un figlio con disabilità, si sente ferita
perché non è riuscita a produrre qualcosa migliore di sè. Il momento della diagnosi segna
fortemente in modo positivo o devastante la storia di una famiglia.
Nel momento in cui qualcuno trova il coraggio di raccontarsi qualcosa cambia, perché si
rompe lo stato di isolamento della persona che compie un gesto di cura verso se stesso e fa
una richiesta di ascolto e di aiuto.

La prima sfida è quella del linguaggio di accettazione di noi stessi che passa attraverso il
linguaggio di amore e di accettazioni dei nostri familiari. se un genitore non accetta la La
narrazione ha forti valenze educateve ed è un metodo di cura di sè e degli altri.
La narrazione ha forti valenze educateve ed è un metodo di cura di sè e degli altri.
Bilocazione: capacità di uscire da noi stessi e di vedere come siamo dall'esterno, è come
una sospensione. Avviene quando raccontiamo una nostra storia. La parola rivela l'intimo
della persona.
La spettacolarità del dolore è solo business.
Circolo ermeneutico: se la persona con disabilità che si racconta è un insieme di tracce da
identificare, il bravo docente diventa un lettore ermeneutico cogliendo tutte le sfumature del
racconto.
La narrazione implica il concetto di prossimità che viene gestita da entrambi i protagonisti
della relazione educativa. Compiamo un attodi comprensione ermeneutica basata su
processi empatici ed enntropatici, ma è una comprensione mai definitiva che rimane
dubitante e inquieta, in trasformazione. Dobbiamo considerare che la persona con disabilità
cambia. La narrazione è una richiesta d'aiuto, e chi ci racconta fa un dono perché dona un
pezzo di sè. Canevaro in un suo testo parlò dell'importanza della narrazione come
linguaggio che fa collegare passato presente e futuro. Dobbiamo offrire all'alunno con
disabilità la possibilità di raccontare. Con la tecnica della monografia dobbiamo fa sì (senza
forzature) che l'alunno con disabilità racconti la sua vita
Una storia che inizialmente è individuale diventa poi collettiva
Devono saper decentrare il loro ruolo e costruire, insieme agli altri, una rete che protegga e
che progetti quello che c'è dopo di noi. I genitori devono saper rendere i figli più autonomi
possibile, in modo da lasciarli in un futuro in sicurezza.

LEZIONE 16 2/12/2020
Powerpoint
Narrazione e professioni d’aiuto
Slide 2
Il concetto di formazione è un concetto molto complesso in quanto gioca sul duplice
versante: teorico-pratico. La formazione è anche, e soprattutto saper fare e saper essere ed
implica quindi una messa in discussione della persona in quanto tale, quindi della sua storia,
identità.
In effetti la formazione implica l’acquisizione di conoscenze, competenze, attitudini,
comportamenti, abilità, informazioni che vanno poi tradotte nelle nuove pratiche.
[Questo passaggio viene chiamato Ricercazione (Ricerca intesa come speculazione più
teoretica che deve essere sperimentata per trovare la conferma o la disconferma della sua
validità)]
Ma siccome ogni persona è unica e differente da ogni altra, la formazione diventa anche
costruzione e ri-costruzione dell’identità personale mediante la rielaborazione costante del
progetto di vita. Questa nuova identità personale però, non può crescere nell’isolamento,
nell’emarginazione perché ogni persona ha bisogno di relazionarsi con l’altro per costruire la
sua particolare storia. Quindi davanti un alunno, o più nello specifico una persona, con
disabilità bisogna sempre tener conto di dover avere a che fare con una storia, una trama
complessa piena di significati che vanno poi rapportati all’interno dei micro e macro contesti
di appartenenza
Slide 3
Il metodo autobiografico ha una duplice dimensione: educativa/formativa e didattica/più
tecnica e strategica. Il fine ultimo dell’approccio narrativo autobiografico è far si che grazie
ad esso ogni persona possa una sorta di restituzione, di chance all’interno del suo progetto
esistenziale.
La narrazione è quindi il luogo di autoricomposizione di sé nel mondo e all’interno del
personale progetto di vita. Per la persona diversamente abile l’esperienza formativa
realizzata per mezzo delle pratiche narrative deve essere adeguatamente progettata per
rivelarsi occasione di autenticità.
Slide 4
Quando parliamo di narrazione si parla di un cambiamento, di un processo di bilocazione
cognitiva che si verifica quando raccontandosi è come se ci fosse un io interno ed un io
esterno che dialogano, in modo da stare dentro e fuori il racconto. Nel momento in cui io mi
racconto e mi rileggo, mi ripeto, si scoprono delle valenze autoformative e autotrasformative
che sono capaci di rigenerare l’altro, il diverso e di rigenerare noi stessi. Questo perché nel
confronto esistenziale viene promossa una prospettiva dinamica, aperta, complessa che
implica il con-esserci all’interno di questa struttura rappresentativa della narrazione.
Slide 5
L’ottica del cambiamento e la dimensione della progettualità implicano il coinvolgimento dei
soggetti della relazione.
I sue protagonisti della relazione si devono coeducare, coinvolgere; anche se inizialmente in
maniera asimmetrica per poi diventare sempre più simmetrici.Il ruolo dell’educatore è quindi
saper cogliere le evidenze, i segni, saper leggere ermeneuticamente le caratteristiche
fondative del vissuto esistenziale della persona con disabilità oltrepassando i limiti imposti
dall0immutabilità del deficit.
Slide 6
L’inclusione richiede interconnessone, richiede che ci sia un ponte di collegamento tra le
varie discipline, richiede che ci siano degli obiettivi cerniera per creare questo ponte che
permette di superare quella visione delle nicchie, dello specialismo legate al linguaggio
delle varie discipline.
L’Approccio narrativo si propone proprio come linguaggio trasversale; rappresenta un
raccontarsi che è motore di ricerca. Il bravo docente deve essere capace di cogliere questo
momento di sfogo/ di esposizione narrativa come linguaggio trasversale che permette di
andare a trovare percorsi interdisciplinari che si connettono tra loro e siano spazio di
possibilità partecipative per l’alunno con disabilità.
Il linguaggio narrativo trasversale è l’elemento nutritivo della didattica inclusiva.
Slide 7-8
La Narrazione è quindi un vero e proprio linguaggio mediatore inclusivo che richiama un
processo di educazione e formazione della persona; è una delle modalità fondative della
relazione di aiuto, linguaggio e gesto di cura per se e per gli altri, è linguaggio liberatorio,
purificativo, catartico, terapeutico.
La Narrazione è vera e propria provocazione perché vuole urlare a pieni titoli diritti, doveri e
tutto quello che non va. Attraverso la narrazione utilizziamo un linguaggio che è agente
inclusivo che facilita la piena partecipazione, la cittadinanza attiva ecc.
Abituarsi a narrare se stessi e far narrare gli altri è avere uno sguardo attento e sensibile
capace di osservare senza etichettare, capace di documentare senza bloccare l’altro in delle
griglie, cercando di valorizzare sempre la dimensione di una progettualità all’interno della
quale è svolto un ruolo fondamentale dai processi di autovalutazione, autocritiche del sé
professionale.
La narrazione in pedagogia speciale diventa ascolto di sé stessi mediato dall’incontro con gli
altri e serve a favorire l’accettazione del deficit della persona con disabilità e a ridurre il suo
stato di emarginazione, di scarsa partecipazione.
La narrazione serve anche per il processo di ricomposizione dell’identità della persona. Si
attivano quindi dei processi democratici ed altamente produttivi di condivisione e di
contaminazione nell’ottica del riconoscimento delle storie che da individuali diventano quindi
collettive, questo perché la dialettica crea nuove opportunità, occasioni di risorse, nuovi
luoghi di mediazione ed incontri. Le storie diventano comuni perché, in qualche modo,
appartengono in alcuni punti ad entrambi, vi è quindi un riconoscimento di differenti identità
e si attivano anche la logica di ascolto e di accoglienza.
Slide 9-10
La narrazione diviene quindi strumento per far sì che l’altro si esprima a 360 gradi nel
massimo delle sue potenzialità, quindi non solamente dal punto di vista logistico/verbale ma
anche sotto il punto di vista del linguaggio musicale, teatrale, grafico, pittorico ecc,
utilizzando quindi tutti i canali ed i codici espressivi e comunicativi.
La narrazione è quindi un gesto di prossimità, di vicinanza con l’altro che lo aiuta ad
emanciparsi culturalmente e socialmente.
Essa implica un processo di comprensione ed interpretazione ermeneutica dell’altro, ma,
allo stesso tempo, dev’esserci un’interpretazione non giudicante/etichettante ma inquieta,
dubitante, che non chiude mai l’altro in un’idea, in una situazione esistenziale ma che faccia
in modo che ci sia un’interrogazione evolutiva, sempre aperta, ricca di nuove sfide
esistenziali.
La narrazione favorisce lo sguardo educativo e va a contrastare la visione egemone,
dominante, autoritaria della medicina e le logiche riduzionistiche della psicologia; per cui si
tratta di comprendere che la narrazione (logica della pedagogia speciale) è capace di
riproblematicizzare, di riorientrare, di dare un nuovo significato.
La narrazione, l’orientamento e il progetto di vita sono tre momenti, tra loro strettamente
connessi e dialoganti, fondativi del discorso della pedagogia speciale.
L’approccio narrativo è in grado di contrastare la visione di una ricerca troppo legata al
quantitativo, per andare verso prospettive/obiettivi di ricerca declinati nell’ottica della qualità.
Slide 11
La narrazione ci permette di ragionare, di toccare le dimensioni simboliche/culturali della
persona con disabilità, perché, grazie ad essa, dobbiamo capire quale sia la stima che
hanno di sé, la loro personale accettazione, come si collocano, come vivono all’interno del
mondo dei micro e macro contesti sociali ed individuali. Essa è un appello, un interrogativo
che richiama fortemente all’idea della cura educativa e anche del desiderio come prospettiva
che ci permette di resistere alle avversità, ma anche di riiorganizzare, in qualche modo, la
nostra esistenza riguardando sia la quantità che la qualità delle umane relazioni all’interno
dei micro e macro contesti sociali rivedendo quindi il livello di accettazione del deficit da
parte della persona che lo vive, ma allo stesso tempo, anche il livello di sensazione ed il
clima esistente all’interno della famiglia e all’interno del contesto sociale, cercando di
costruire buone pratiche di cure e di aiuto che permettono anche il riferimento ed il
rafforzamento di punti di riferimento certi ma non ingabbianti.
Slide 12
La pratica narrativa ci permette di rivedere anche i registi del cuore, quindi le affettività; è la
rivelazione di un’identità complessa, e quindi un interrogativo che cerca di sciogliere i nodi
più cruciali dell’esistenza, toccando concetti più vasti (come lavoro, sfera sessuale ecc.) de
benessere esistenziale.
Slide 13
Il fine ultimo della narrazione è il potere ricompositivo, p un po' di luce della speranza che va
oltre la freddezza del medicalismo e ci fa comunque veder nuovi orizzonti, nuovi sensi di
significato all’interno di un’esistenza che è stata sicuramente maggiormente complessa
rispetto tante altre. Il forte potere ricompositivo è quindi un’azione cicatrizzante creativa,
alternativa che individua nuove possibiltà, è un modo di risignificarsi nonostante le ferite.
La narrazione risveglia l’amore per sé e per gli altri e risveglia il concetto fondativo della cura
di sé, del concetto di un rinnovamento del nostro ruolo all’interno della nostra società.
Slide 14
La narrazione permette l’incontro di tante storie, tutte diverse, in cui anche il non tangibile ha
un ruolo predominante. Il Pensiero narrativo-autobiografico accomuna, avvicina le storie
individuali a quelle collettive, diviene linguaggio universale comune a tutti, sfondo integratore
dell’intera esperienza formativa.
Utilizza una procedura di tipo abduttivo e manifesta una natura connettiva che, procedendo
per metafore, analogie, immagini, fa incontrare produttivamente la diversità di tante storie e
permette di “dare voce” ad esperienze in cui il non-detto assume una parte preponderante.
Slide 15
L’idea della contaminazione dev’essere quello che ci guida, che ci permette di riconoscere
l’altro per far sì che insieme si cammini verso un’inclusione intesa come cooperazione.
Slide 16
L’approccio narrativo ha la capacità di rivisitare e competenze professionali per estendere la
relazione comunicativa dal didattico all’educativo, dal monodisciplinare al trasversale, dallo
specifico individuale alla progettualità collegiale, dal curricolare all’esistenziale, da giudicante
al valorizzante, dall’etichettante all’inclusività, ma per fare questo è necessario che tutte le
competenze professionali vengono chiamate a svolgere la loro funzione emancipativa.
Slide 17-18
L’azione di aiuto/di cura va declinata in differenti luoghi istituzionali, formativi, e la narrazione
non può non avvalersi di un criterio di flessibilità metodologica forte.
Slide 19
La narrazione rappresenta un’occasione per rivisitare modelli/ tecniche ecc. della persona e
dei contesti che vogliono migliorare la qualità della vita
Slide 20
Il bravo docente inclusivo è colui che stimola nell’allievo con disabilità la possibilità di
raccontare e raccontar-si senza alcuna paura e/o vergogna, in quanto la sua
unicità/particolarità verrà riconosciuta da noi e dagli altri.
Slide 21
Il professionista deve assumere come fondamento etico-professionale la categoria
dell’autoriflessione e dell’auto- osservazione.
Slide 22
La narrazione con funzione narrativa è una narrazione che apre le menti, che allarga le
prospettive, che risponde alle drammaticità di certi eventi cercando di trovare nuovi percorsi
esistenziali garantendo all’altro la possibilità di potersi ricollocare all’intero di dinamiche di
contesti più valorizzanti e arricchenti.
Slide 23-24
Le pratiche narrative hanno funzione formativa di: Aver cura di sé e degli altri nell’ottica del
miglioramento della qualità del contesto relazionale e dell’agire professionale; potenziare le
competenze resilienti individuali e collettive cercando di rafforzare le nostre conoscenze
legate all’accoglienza ecc. cercando di sostenere sempre più gli approcci modulari, flessibili,
aperti delle progettualità maggiormente creative, rispettose delle potenzialità e delle
differenze dell’altro.
Per fare questo è necessario porre grande attenzione ai processi di personalizzazione, di
individualizzazione e di differenzazione che sono tra loro interconnessi e sono tre processi
strettamente legati alla didattica inclusiva.
Nella ricomposizione dell’esistenza la memoria ha un ruolo fondamentale in quanto rende
possibile il mettersi in un condizione di evolutività, di crescita cercando di toccare i nodi
cruciali dell’esistenza.
Slide 25
Quando la narrazione si lega al progetto di vita, la ricomposizione diviene grande fonte di
ricchezza per la progettazione del futuro in quanto rimotiva, riaccende il desiderio. Questo è
possibile solo se dal punto di vista professionale partiamo dalle nostre competenze riflessive
ed auto riflessive.

LEZIONE 17 03/12/2020
Iniziamo subito l’argomento della lezione di oggi, uno di quelli restanti, abbiamo detto che
era l’insegnante specializzato, il ruolo e le competenze, che trovate anche nel libro che c’è in
programma, qui è un riassunto, chiaramente importante. Poi dobbiamo parlare di resilienza
e della pedagogia speciale oltre la medicalizzazione. Rimangono questi tre argomenti. La
prossima settimana cercheremo di terminarli.
Iniziamo dalla prima slide, chiaramente si intitola: Formazione e competenze del docente
specializzato, perché è giusto, faccio una premessa, definirlo docente specializzato di
sostegno, non utilizzare l’ormai obsoleta, tradizionale dicitura “insegnante di sostegno”,
questo perché già si capisce che abbiamo superato o cerchiamo di superare quella vecchia
concezione che faceva coincidere il ruolo, la funzione e le competenze del docente
specializzato con il sostegno, un sostegno tra l’altro duale carico di retaggi “medicalistici”
dove l’aiuto e il sostegno diventano un discorso individuale e solitario, spesso a volte anche
specialistico e non si agevola quel passaggio dal sostegno duale alla distribuzione di una
rete di sostegni, di aiuti, umani, materiali, cultuali, diradatici, di mediazione di risorse che
devono essere invece individuati all’interno dei micro e dei macro contesti sociali e in primis
all’interno della scuola e della classe. Quindi sostegno di possibilità, sostegno evolutivo,
sostegno dinamico, sostegno reticolare, sostegno distribuito con competenze diffuse
distribuite, questa è l’idea forte che deve passare. Per far si che proprio anche il ruolo, oltre
le competenze del docente specializzato, sia un ruolo ormai alternativo, più innovativo,
meno relegato a concezioni appunto segregazioniste o di esclusione o di separazione
rispetto al resto della classe intesa come coetanei anche e come altri colleghi, docenti
curricolari di disciplina che invece devono essere responsabilizzati e protagonisti all’interno
del processo corale dell’integrazione, e non devono utilizzare il fenomeno negativo e
irresponsabile della delega, che invece spesso continua a condizionare purtroppo il cattivo
funzionamento di un processo di integrazione prima e di inclusione oggi che in realtà non è
ancora assolutamente di qualità. Ecco perché diciamo tranquillamente che spesso
l’inclusione è ancora una visione utopistica, è ancora un traguardo purtroppo in molte scuole
e non solo da raggiungere.
Detto questo come premessa, andiamo subito a vedere la seconda slide. C’è subito questa
distinzione che n realtà non deve essere una separazione netta, si tratta comunque di
cogliere una differenza sostanziale, e anche di essere molto avvertiti e attenti di fronte a
questi termini, che come abbiamo visto all’interno della pedagogia speciale rivelano sempre
della ambiguità o delle cattive utilizzazioni all’interno della nostra disciplina. Specialistico non
è speciale, e speciale non è specialistico. Certamente questi due termini anche se distinti,
differenziati tra loro, giustamente, non possono neanche non dialogare fra di loro. Non
stiamo qui puntando il dito contro le informazioni, le conoscenze anche di natura medica che
in qualche modo devono essere reperite e conosciute da parte anche del docente
specializzato di sostegno. Perché quando arriva un fascicolo personale con una diagnosi
medica, in cui si parla di ritardo evolutivo, o di autismo, o di sordità, o di tetraparesi spastica
o DSA eccetera, è normale che dobbiamo sapere di che cosa si tratta, non possiamo
rimanere ignoranti. Come ho detto però più volte non siamo neanche dei medici, non siamo
neanche dei terapisti il nostro specifico è l’educazione e la formazione, specifico territorio,
che poi legittima l’identikit non solo epistemologico della pedagogia speciale ma anche
l’identikit professionale proprio dell’insegnante specializzato di sostegno. Per cui è
fondamentale non confondere lo specialismo con l’essere speciali. Noi dobbiamo far si che
dallo specialismo, dal linguaggio della medicina o della psicologia, pur accogliendolo pur
impegnandoci nel conoscerlo, dobbiamo però saperlo tradurre in buone pratiche
educativo-didattiche e quindi formative, e quindi dobbiamo saper leggere e interpretare non
solo le diagnosi mediche e lo specialismo di alcune tecniche e metodi che vengono magari
utilizzati, che vanno di moda per recuperare lo specifico educativo, quello sguardo educativo
di cui abbiamo parlato proprio di quella pedagogica speciale che va oltre la
medicalizzazione. Perché la medicalizzazione, la “psicologizzazione” sono fenomeni
degenerativi che hanno in qualche modo inficiato e condizionato il modus di vivere e di fare
scuola. Attualmente, oggi giorno assistiamo ad un panorama, a uno scenario di popolazione,
voglio dire di allievi a scuola molto variegato, complesso e direi anche estremamente, a
volte, di difficile comprensione. Ma assistiamo a quello che non solo la sottoscritta ma anche
Alain Goussot in alcuni suoi test, purtroppo un caro collega che è morto pochi anni fa, diceva
“essere le sanitizzazione dell’educativo”. Alain diceva: “non bisogna andare a caccia di
sintomi, sindromi, problemi. Noi dobbiamo andare come docenti a caccia di competenze, di
risorse, di potenzialità, di capacità. Ecco lo sguardo speciale. Averne cura, aiutare in modo
adeguato, emancipativo, non intrusivo.” È fondamentale questo concetto. E quindi ecco che
arriva la componente speciale dell’insegnante specializzato che ripeto accoglie, interpreta lo
specialismo per trasformarlo nella dimensione speciale, sotto lo sguardo educativo,
didattico, “emancipativo” della cura educativa, della relazione d’aiuto autentica, sana
positiva, nell’ottica della mediazione, nell’ottica della valorizzazione e del riconoscimento
dell’altro, dell’alunno con bisogni educativi speciali. Quindi non c’è una separazione netta ma
attenzione lo specialismo va combattuto nel senso che non deve prevaricare, non deve
sconfiggere snaturare l’educativo didattico per cui le competenze speciali sono il nostro
traguardo, il nostro specifico, il nostro territorio di autonomia e di legittimazione professionale
oltre che epistemologica.
Andiamo avanti, ecco cosa sono le competenze specialistiche? Sono quelle che si legano
alle varie tipologie di sindrome, di condizione di disabilità e di deficit. E giustamente, quello
che vi ho detto poca fa, l’insegnante specializzato può e deve avere e conoscere le
informazioni mediche, specifiche, perché deve sapersi orientare anche all’interno di quel
linguaggio più specialistico però il suo focus, il suo sguardo, il suo specifico deve rimanere
quello pedagogico, quello didattico e deve essere il più possibile aperto e globale,
dialogante, complesso, per poter attivare delle logiche di interconnessione, di
interdipendenza con le altre scienze con le altre competenze con le altre professioni e
professionalità, e con degli altri linguaggi che tutti insieme costruiscono una sinfonia, una
poli sinfonia che è realizzata all’inclusione stessa. Per cui le conoscenze mediche
certamente sono importanti, sono una risorsa, un aiuto, di ausilio ma rappresentano un
frammento dell’intero, rappresentano uno spaccato, una sfaccettatura di un’unità molto più
armonica e complessa, integrale e integrata che è quella della persona, dell’alunno con il
suo vissuto con la sua complessa trama narrativa, adesso capite cosa voglio dire? Che
cos’è la narrazione, cos’è la trama narrativa? Il vissuto, l’identità storia, la narrazione
dell’altro, e a cosa serve.
Per cui diciamo NO a tutti quegli approcci che sono sbilanciati nell’ambito del settore
dell’iper-specialismo, del tecnicismo, del determinismo, del custodialismo,
dell’assistenzialismo, e l’assistenzialismo e il pietismo e il custodialismo sono delle
caratterizzazioni quell’idea tradizionale del sostegno inteso nella dimensione duale,
individuale. No, anche alla delega deresponsabilizzante perché non c’è inclusione o
intrusione? se c’è qualcuno che va fuori dalla classe, e compie un lavoro a parte senza poi
fare in modo che questo lavoro personalizzato, differenziato, individualizzato non si ricolleghi
al lavoro degli altri. Sempre per quel connubio che avevamo già individuato quando
parlavamo dell’integrazione, tra socializzazione e apprendimento che vanno viste nella loro
assoluta interdipendenza. Ho detto esiste un’integrazione e anche un’inclusione che
socializzazione nell’apprendimento, è un apprendimento che deve avere sempre e
comunque il più possibile una natura socializzata e socializzante. Non solo, dobbiamo dire
no anche, soprattutto in alcuni ordini e gradi di scuola, parlo già dalla media inferiore nel
secondo grado, c’è l’apoteosi dell’aspetto formale burocratico, spicciolo e bieco, nel senso
che il linguaggio della burocrazia imbriglia, toglie un sacco di tempo e non arricchisce nulla
dal punto di vista della valorizzazione dell’educativo e del didattico, si perde un sacco di
tempo, inutile, a caccia di acronimi, firme, intrecci forzati tra discipline, scambi tra colleghi
che sono assolutamente forzati nella maggior parte dei casi perché si sente quasi il peso ad
esempio di dover costruire un PEI o di riunirsi per fare delle verifiche ma non c’è una
consapevolezza e un autoconsapevolezza forte. Non c’è un modus operandi radicale e
radicato ormai, un’abitudine nel ragionare sempre nei termini inclusivi e non nel pensare
all’inclusione perché c’è un PEI. Quindi su questo siamo tutti sempre più sommersi
dall’informatizzazione, dall’aspetto telematico tecnologico che ci sta angosciando la vita, ce
la sta rendendo fredda, poco umana, e la burocrazia. Direi anche no assolutamente a tutte
quelle prospettive, a quelle visioni che non sono scientificamente riconosciute come valide,
che non fanno leva su una forte progettualità pensata, intenzionale e costruita con degli
indicatori orientativi di senso e di significato di un agire strategico di quello che si fa,
combattendo i tentativi di errori o una visione ascientifica, poco rigorosa di uno
spontaneismo legato al cosa posso fare domani senza avere una padronanza, una
competenza forte che ci permette invece di pensare in una maniera più lunga, più profonda,
più rigorosa e scientifica. E quindi adottando una cultura della progettualità forte, critica,
evolutiva.
Invece diciamo si a questa progettualità forte (sapere, saper fare, saper essere) long life
learning di cui sto parlando, flessibile e costantemente adattabile, dove spesso si utilizzano i
processi di individualizzazione, di personalizzazione, di differenziazione educativo-didattica,
dove anche le modalità organizzative a scuola devono alterarsi, non possono essere sempre
poggiate e poggianti sempre sulla lezione frontale o sul compitino da fare domani, in questa
visione parcellizzata del sapere e delle conoscenze, settorialistica che comunque alla fine
non arricchisce mai veramente, che è come la gabbia del topo che comunque guida sempre
a fare lo stesso percorso ma non esce mai da quella rete, da quell’itinerario precostituito. E
allora invece la “reticolarità”, la visione sinergica, la visione evolutiva e flessibile della
progettazione deve permetterci anche di accogliere la sfida dell’inconsueto e dell’imprevisto,
di quello che anche Morin ma anche epistemologi della complessità definiscono l’effetto
rumore, rumore non come disturbo, il rumore come elemento dissonante, come rottura di
simmetrie per dirla come Morin, come rottura di equilibri che sono diventati piccoli cicli
stagnanti e quindi un po’ dogmatici nel loro rodaggio che vanno “rioliati”, rivisitati, rielaborati
e soprattutto iniettati di novità di approcci innovativi, creativi: il lavoro laboratoriale, il lavoro
in piccolo e medio gruppo, il cooperative learning, la risorsa coetanei, il tutoring, per fare
degli esempi, lo sfondo integratore nella scuola dell’infanzia e primaria, la flipped classroom,
l’approccio narrativo come approccio alternativo di ricerca qualitativa e non quantitativa, e
altre metodologie. Sono questi i punti innovativi di una didattica inclusiva che è una didattica
costantemente in movimento, dinamica. Dove appunto il PEI i PDP i protocolli, i descrittori, i
report narrativi devono essere utilizzati come strumenti, come oggetti mediatori ma come
luoghi di riflessione critica e creativa non come fogli di carta da riempire perché appunto c’è
l’obbligo di un formalismo di un linguaggio tecnico, burocratico, avvilente. Tutto questo in
una visione forte di una formazione, perché abbiamo parlato anche di questo, che è sapere
saper fare, saper essere, saper sentire eccetera, ma che deve essere non considerato come
un momento iniziale, voi vi iscrivete a scienze della formazione primaria e finiti i cinque anni
di studio siete a posto e pensate che con la laurea è terminato il percorso della formazione.
No, avete messo una bella pietra ma dovete ancora continuare il vostro cammino, ed è un
cammino che non si può fermare solo perché arriva uno stipendio, perché si è in una
situazione solida, dobbiamo comunque avere l’obbligo e il dovere di aggiornarci, di studiare
di essere a conoscenza di quelle che sono le novità, le innovazioni, perché abbiamo a che
fare non con delle pratiche ma con del “materiale” umano, e il “materiale” umano cambia
sempre, per fortuna.
Diciamo anche sì a questo lavoro di rete, di cui parlavamo, a questo lavoro collegiale che
deve coinvolgere tutti i docenti e non solo anche i famigliari, anche i bidelli, gli educatori, gli
esperti dell’ambito socio sanitario, dobbiamo dire sì a questa “reticolarità” a questo lavoro
corale che è fatto, come dice Bruner, di continue operazioni di negoziazione e mediazione,
nella valorizzazione di quell’idea della contrattualizzazione delle conoscenze, all’interno
proprio di una cura, di un aver cura dell’altro per accompagnarlo in modo competente per far
leva su quelli che sono i suoi potenziali, il suo sistema immunitario, dice la ?? della
resilienza. La resilienza è come il sistema immunitario a livello corporeo, anatomo-funzionale
fisiologico, reagisce di fronte al virus, al battere, il sistema immunitario si, abbiamo anche il
sistema immunitario della psiche, che va comunque attivato, la resilienza è proprio questa
prospettiva che ci permette di resistere di affrontare la difficoltà, la sofferenza e il dolore per
poi ripartire e riorganizzarci la vita a volte anche in una maniera migliorativa. Quindi è
fondamentale questo discorso. E noi come docenti specializzati e non ma docenti inclusivi
dobbiamo agire (come dice De Metilio??) nell’ottica metabletica come promotori e facilitatori
di processi di cambiamento, come facilitatori, stimolatori di una riprogettazione dell’esistenza
dell’altro ma una riprogettazione certamente migliorativa dell’alunno con bisogni educativi
speciali. Certamente proprio perché parliamo di scientificità di rigore di una prospettiva di
inclusione di qualità è necessario avere competenze anche di monitoraggio non fiscale o
maniacale o da check list ma comunque un monitoraggio critico, autoriflessivo, presente non
angosciante che vada a sondare e a valutare la valutazione formativa perché di valutazione
abbiamo quella iniziale, poi abbiamo quella formativa e poi quella sommativa finale, che
vada a verificare la qualità del processo non solo del prodotto finale di quello che abbiamo
fatto in modo che l’alunno raggiunga ma anche la qualità del processo educativo didattico
che abbiamo attivato perché possiamo migliorarlo, come?
Domanda: non ha capito cosa significa spontaneismo ascientifico
Risposta: chiede chi sa rispondere.
“Sono teorie spontanee si procede a tentativi non c’è progettualità, concretezza e
competenza”
“Una visione approssimata e casuale quindi non scientifica”,
“mancanza di reali competenze, di visioni riconosciute valide”,
“ascientifico, che non ha basi scientifiche”
Non avere basi scientifiche cosa vuol dire? Allora abbiamo detto che la cultura del progetto è
quella che garantisce una visione scientifica per cui vuol dire che se noi non sappiamo come
lavorare, cosa proporre come progettare noi ci inventiamo come insegnanti. Quindi non
abbiamo delle competenze, delle idee delle conoscenze forti su quello che dobbiamo andare
a fare. Ecco lo spontaneismo, inventiamo spontaneamente, di nostra iniziativa, con il libero
arbitrio, o con un’idea di buonismo, andando per tentativi ed errori, ci inventiamo qualcosa.
Domani cosa posso portare? Ma, se tu conosci quali sono le caratteristiche
anatomo-funzionali e anche umane e anche dal punto di vista educativo didattico del
bambino sordo, tu non ti puoi inventare nulla. Se abbiamo l’alunno sordo profondo ovvero
grave in classe, che cosa ci inventiamo? Noi dobbiamo sapere quali sono le caratteristiche
del sordo, sulla base di questa conoscenza che deve essere scientifica, io penso dopo
averlo osservato, fatto raccontare, dopo aver visto la documentazione, il progresso degli
anni precedenti, capite come entrerei io a scuola il primo giorno, sentendo la famiglia, gli
esperti socialitari, sentendo i coetanei sentendo lui per quello che mi può dire e raccontare,
oltre al fascicolo personale, burocratico dei PEI che a volte sono tutti finti, io conosco quel
soggetto. Per conoscerlo come devo fare, dovrò reperire informazioni dirette se lui è
presente, è in grado di raccontarsi, informazioni grazie ai famigliari, grazie alla logopedista,
grazie agli esperti che lo hanno seguito prima della scuola, informazioni dei docenti che ha
avuto prima di me, informazioni perché ho letto dei testi, perché ho seguito le lezioni
conosco la minorazione sensoriale acustica, o se non la conosco devo fare un processo
conoscitivo, non mi posso inventare nulla. Questo vuol dire approccio scientifico, vuol dire
progettazione, vuol, dire competenze speciali, vuol dire no solamente adesso devono
conoscere tutte le tipologie di sordità, tutte le protesi, tutti i metodi, certamente io devo avere
delle competenze, come docente che va oltre lo specialismo ma che va a creare una
situazione speciale di accoglienza devo sapere cosa faccio, come lo faccio e se lo faccio
bene, non posso mica inventarmi. Quindi se conosco le potenzialità dell’alunno sordo io so
che l’alunno sordo sfrutta la largo lettura, so che parla con gli occhi e ascolta con gli occhi
quindi devo impostare la didattica, i miei percorsi, il mio progetto con lui utilizzando
apprendimenti visivi, largo lettura, materiali con sottotitoli, mediatori didattici di un certo tipo,
devo capire che la lezione frontale per lui è assurda che se non c’è illuminazione, non è
protesizzato, o se è un sordo molto profondo non c’è un interprete della lingua dei segni, non
utilizzo i metodi alternativi a quelli che comunemente vengono utilizzati a scuola, io non
faccio inclusione, non faccio il mio dovere professionale. Allora ecco adotto una visione
casuale, non scientifica, mi invento, lo spontaneismo, non costruisco un progetto, dove dico
allora io devo tener conto di quello che sa fare, che non sa fare, ha dei canali comunicativi,
delle conoscenze pregresse, di quelle che può sviluppare, dei metodi che posso usare, dei
materiali, degli strumenti, di quello che dice anche la madre, di quello che dice anche la
collega. La cultura del progetto è fatta di conoscenze scientifiche, non di idee vaghe o di
tentativi e di errori.
E tutto questo lo devo anche andare a testare, a monitorare, non è che così va da solo, ogni
tanto con le mie competenze, confrontandomi con gli altri, leggendo studiando ascoltando
anche il parere degli specialisti anche senza diventarne schiava, devo comunque dire:
aspetta un attimo quello che sto facendo dove mi porta? quali progressi ha fatto questo
alunno? Li ha fatti o non gli ha fatti? Perché può anche non farli. Devo dare più tempo? Devo
cambiare gli obiettivi? Sono troppo difficili? Devo cambiare metodo? Devo cambiare le
attività? Devo cambiare il materiale? Devo chiedere? Devo studiare cose in più? È questo il
punto di una costruzione, di una formazione permanente riflessiva, autoriflessiva,
consapevole, autoconsapevole.
Andiamo avanti. Qui l’ho già detto vedete. È scritto in rosso perché è un concetto forte,
importante. Dall’idea di un sostegno individuale, duale si deve passare alla prospettiva della
distribuzione di una rete di sostegni e aiuti distribuiti, che si possono trasferire da un
contesto all’altro, trasferibili, da un’aula all’altra, da un docente all’altro, e che quindi
interrogano anche contesti oltre che l’alunno con bisogni educativi speciali e permettono una
personalizzazione dell’inclusione stessa e anche della distribuzione reticolare dei sostegni e
degli aiuti, di natura contestualizzata e personalizzata. Nella prima parte della slide
“Nell’approccio olistico-globale il sostegno è inteso come reticolo sinergico costituito dalla
pluralità di sostegni e di aiuti interpretati in senso evolutivo e dinamico e costruiti mediante
funzionale progettazione di rete integrata” spiega come si passa dal sostegno duale,
individuale a quello reticolare, ovvero ci parla di una pluralità di aiuti che sono evolutivi che
sono dinamici, che parlano di quella progettazione di rete integrata che coniuga le risorse
della scuola con quelle dell’extra scuola, famiglia, territorio, che dialoga nell’ottica di una
continuità verticale, da un gradino formativo all’altro, all’ottica di una continuità orizzontale,
che è quella della ramificazione che va a toccare, un concetto ormai storico per noi
pedagogisti quello di Bartolomei, Framboni, Baldacci ecc.. che è quello del sistema
formativo integrato.
Ok andiamo avanti. Dobbiamo dire NO a un sostegno individuale “duale”. Perché è un
modello ormai superato, medicalizzato, tradizionalistico. Perché in quest’idea l’insegnante
specializzato non fa il sostegno ma è il sostegno, c’è una coincidenza assurda, diventa un
tutt’uno con la disabilità dell’altro. Diventa un tutt’uno con l’esclusione o l’inclusione, con la
partecipazione o l’isolamento. E quindi i processi degeneri, da combattere, di micro e
macro-esclusioni ed emarginazioni all’interno della classe assolutamente testimoniano
ancora una forte presenza di un’idea di sostegno troppo basato su una relazione a due,
l’insegnante specializzato e l’alunno con bisogni educativi speciali. Ma qui la responsabilità è
vostra. Un domani quando sarete docenti inclusivi e magari non so se specializzati o no
siete voi che dovrete non lasciare soli l’insegnante specializzato, siete voi che non dovete
solo occuparvi del programma degli altri alunni della classe, e dovete accogliere la spilla
dell’inclusione e lavorare fianco a fianco accompagnando insieme all’insegnante
specializzato l’alunno con bisogni educativi speciali, con disabilità. Mi raccomando
ricordatevi delle lezioni della Gaspari.
E quindi ecco cambia l’idea del sostegno, cambia l’idea di come costruire, utilizzare e dare
senso al PEI. Il sostegno non solo deve essere competente, collettivo, distribuito, evoluito,
dinamico deve crescere insieme al contesto ma deve essere anche una questione che non
deve essere legata esclusivamente al docente specializzato, che è il promotore e attore
numero uno certamente di questa prospettiva, ma deve anche essere sorretto da tutti gli altri
docenti curricolari e insieme, tutti insieme dobbiamo compiere questo passo per
oltrepassare la logica di un PEI formale, freddo burocratico che certamente intende il
progetto di vita come un’appendice e invece no, è il contrario, è il progetto di vita che
comprende il PEI. Ma quando andiamo a parlare con quelli che insegnano italiano,
matematica e scienze, scusate, non gliene frega niente del progetto di vita. Per loro la vita è
solamente la disciplina e gli apprendimenti da raggiungere e l’angoscia della valutazione
periodica, il terrorismo, e allora li vuol dire che non hanno capito niente. Perché quando
parliamo della disabilità dobbiamo appunto rivedere le nostre idee, il nostro modus, anche di
essere docenti, la nostra professionalità e le buone pratiche didattiche inclusive. Dalla slide:
“Nel modello inclusivo il sostegno promosso dal docente specializzato e dai docenti
curricolari oltrepassa la logica del PEI per promuovere la ridefinizione del progetto di vita.”
Secondo Andrea Canevaro: “I sostegni vanno personalizzati e contestualizzati in base alle
caratteristiche del bambino disabile e al contesto in cui si trova.” I sostegni devono essere
non solo al plurale, ma devono anche rispondere ai bisogni personali, individuali dell’alunno
con disabilità ma anche alle esigenze, i bisogni, gli ostacoli del contesto. Non pensiamo più
solo al sostegno rivolto all’alunno con disabilità ma pensiamolo declinato su un doppio
binario. Quello della rilettura del contesto e quello di una interpretazione e comprensione
dell’alunno con disabilità. Perché l’alunno con disabilità è appartenente a quei contesti e
quindi giustamente occorre cambiare per evolversi e quindi per far anche maturare la
consapevolezza di una nuova idea del sostegno. Ecco quindi come possiamo definire
l’insegante specializzato di sostegno: è una figura di sistema, un professionista
ecologico-sistemico, è un docente pivotale. Cosa vuol dire? Conoscete il gioco del Basket? I
ruoli all’interno della squadra di Basket? Il playmaker colui che porta la palla e la passa è il
direttore d’orchestra nell’andamento del gioco perché ha nella testa gli schemi della
conduzione della squadra, quindi ha una cultura progettuale il playmaker dentro la propria
testa e quando passa la palla sa che ci sono dei movimenti studiati per cui deve fare
determinati movimenti, passarla in un determinato momento, deve darla a quel suo
compagno di squadra, c’è tutta un’organizzazione, deve sapere se poi non c’è libero un
compagno e lui c’ha un varco allora lui deve tirare e deve segnare possibilmente. L’altro
insieme al playmaker è il pivot, è di solito l’elemento più alto che sta sotto il canestro che
quindi prende rimbalzi etc. e questo è un’asse fondamentale all’interno del basket, è la trave
portate playmaker-pivot. Il pivot si avvicina verso la zona del playmaker, che di solito è più
basso, lo protegge. Si dice in termini tecnici gli fa un blocco, gli fa da sponda, allora quando
fa questo movimento il pivot, il playmaker arriva, va vicino al corpo del pivot, si protegge e in
quel momento libera un altro compagno perché ha una protezione oppure spunta alla
presenza del pivot che taglia fuori l’avversario proprio per entrare dentro, andare a canestro
e tirare. L’elemento pivotale è un elemento cioè fondamentale nella struttura del gioco, è
quello che fa i movimenti giusti perché poi si arrivi alla fine a fare canestro. È quello che
media, negozia, contatta, connette più risorse più professionalità, più esperienze, più
professionisti nella complessità di queste relazioni a 360 gradi tra operatori scolastici, sociali,
culturali, sanitari, la famiglia, è l’esperto della complessità sia delle esperienze che si
svolgono in classe a scuola (formative scolastiche), ma anche al di fuori della scuola (ed
extrascolastiche). Ecco da lì l’importanza del progetto di vita. Il pivot è il giocatore più alto
che di solito prende i rimbalzi, che sta sotto il canestro e che protegge anche il lavoro dei più
piccoli. Non vuol dire fondamentale ma ha un ruolo fondamentale.
Andiamo avanti. Tra le competenze speciali che hanno una natura diffusa, polivalente, ma
che appunto hanno anche una struttura multifattoriale e anche che comunque assumono più
dimensioni, vedete di fondamentale importanza, stiamo parlando delle competenze speciali,
possiamo elencare quelle della cura, della relazione d’aiuto, del saper fare, saper sentire ed
essere, della progettazione e quindi di avere in qualche modo un abito mentale sempre
aperto, sempre complesso mai riduzionistico, ma che abbia questa attitudine d’abitudine alla
riproblmematicizzazione degli eventi, delle conoscenze e dei comportamenti che non ripeta
sempre se stesso in maniera ossessiva e seriale. È fondamentale questa capacità un po’
per tutti nella vita ma a maggior ragione quando abbiamo a che fare con la diversità.
Ecco qui abbiamo altre competenze importanti che abbiamo già in parte detto. Parto dal
fondo perché è quello che abbiamo spiegato nelle ultime ore di lezione.
Approccio narrativo, l’insegnante specializzato come promotore dell’altrui narrazione
ed estrinsecazione, e quindi come luogo, spazio, tempo ermeneutico, come capacità di
ricevere l’altro e la sua storia senza etichettarlo, senza omologarlo, senza diagnosticarlo,
senza irretirlo, senza imprigionarlo.
La penultima dicitura richiama il concetto di integrazione perché comunque è
normale che non può l’insegnante specializzato non offrirsi come professionista, esperto in
grado di favorire una delle definizioni della pedagogia speciali fondamentali l’accettazione
del deficit w la riduzione dell’handicap, dove per riduzione dell’handicap intendiamo
l’abbattimento di ogni logica di emarginazione di non riconoscimento di non piena
partecipazione.
Il cambiamento, l’essere promotore del cambiamento, e saper organizzare un
accompagnamento competente quindi assumere un ruolo facilitatore nella riprogettazione
dell’esistenza, li abbiamo già più volte ricordati ed esplorati.
Invece è fondamentale anche la prima voce di questa slide, l’umiltà, la pazienza, il
saper accettare l’errore e accettare di poter sbagliare per poter poi correggerci, imparare
dall’errore non ripeterlo sempre facendo finta di niente e saper accogliere quello che avevo
definito prima il disturbo, il rumore, l’imprevisto, l’inconsueto, ciò che dissona e non riesce a
omologare a uniformare rispetto agli altri, al contesto.
Ho iniziato la lezione di oggi con la prima frase che proprio per superare lo
specialismo è necessario saper tradure il linguaggio della medicina, della psicologia, in
quello della pedagogia e della didattica.
L’ascolto, l’accoglienza, la comprensione dell’altro, l’empatia, ne abbiamo parlato,
sono tutti processi, sono tutte competenze speciali che preleviamo da quello che
comunemente viene definito approccio fenomenologico-ermeneutico soprattutto la
comprensione, l’interpretazione.
Poi ruolo pivotale, esperto della complessità, mediatore, negoziatore, com’è possibile
allora non pensare che delle competenze basilari sono quelle appunto che vengono
elencate dal saper costruire logiche di alleanza, di sinergia di costante mediazione e
negoziazione, sono i verbi fondamentali del docente specializzato, sono le competenze direi
per eccellenza.
Saper osservare, progettare, coordinare, monitorare, organizzare, valutare.
Ecco. Qui ci arricchiamo un po’ di più rispetto a prima.
Saper potenziare le competenze riflessive ed autoriflessive, essere in grado di
gestire i conflitti, le dinamiche comunicative che a monte sono stagnanti che a volte si
fermano, le competenze relazionali e comunicative hanno un ruolo chiave per favorire
l’inclusione. Non solo con l’alunno con bisogni educativi speciali ma anche nelle relazioni
con i colleghi, con gli esperti, con i famigliari.
Ridurre gli ostacoli, qui parliamo di accessibilità a un’accessibilità che non è solo
l’abbattimento di barriere architettoniche ma anche di barriere mentali, culturali, morali,
stereotipi, pregiudizi. L’accessibilità alle conoscenze, ai materiali, alle risorse, alle relazioni,
alle comunicazioni, non solamene ai luoghi dove si svolge la lezione. Accessibilità è quindi
legittimazione dei diritti di cittadinanza, di partecipazione, di appartenenza.
Nel “pensami adulto”, nella possibilità di riprogettare l’esistenza, nella rivisitazione
necessaria del progetto di vita non si può non lavorare per potenziare il potere di
autodeterminazione, autodecisione dell’altro. Cercando quindi di dargli stima, credibilità. In
fondo si diventa adulti quando si sceglie, quando si è autonomi nelle decisioni che dobbiamo
assumerci ogni giorno nella vita. Per l’alunno con disabilità e più difficile scegliere,
autodeterminarsi, essere autonomo, allora ecco che noi come docenti inclusi e specializzati
ci faremo il corso per la specializzazione di sostegno, dobbiamo assolutamente potenziare le
capacità autonome di scelte, decisioni e determinazioni dell’altro. Perché spesso invece si
tende a sostituirsi, a iper-proteggere, a far uso di ricette, a trovare la strada più semplice, a
suggerire piuttosto che a proporre. E quindi l’oggetto di vita come luogo dell’ulteriorità,
l’abbiamo detto ieri, delle possibilizzazioni è quel luogo dello sviluppo di ulteriori capacità e
discorsi.
L’ultimo punto è molto importante, lo avevo già accennato qualche lezione fa,
quando parlavamo dell’integrazione. Il bisogno di far si che il docente inclusivo e
specializzato non scelga solo un metodo ma che faccia ricorso a un pluralismo
metodologico-didattico. E quindi non rimanga fermo a quello che funziona meglio o che gli è
più comodo perché lo conosce ma si apra ad un ventaglio pluralistico di metodologie,
conoscenze strategiche. Cenevaro dice infatti “bisogna possedere una metodologia che
contenga più metodi” mai fermarsi al settorialismo, a una visione monodirezionale alla sola
strada che conosciamo.
Non dimentichiamo che per favorire inclusione noi stiamo parlando soprattutto di
competenze umane, didattiche, gestionali, organizzative, della disciplina stessa, ma non
dobbiamo assolutamente dimenticarci del valore fondativo della sfera emozionale, dei
linguaggi anche del cuore, degli affetti della relazione che sono direi essenziali per l’alunno
con disabilità.
Per il resto ho già parlato di una visione didattica innovativa: tutoring, scaffolding,
cooperative learning, didattica laboratoriale, flipped classrum, sfondo integratore etc.
E anche di che cosa vuol dire individualizzare e personalizzare gli interventi
educativo-didattici cercando di favorire anche la prospettiva dell’orientamento.
L’orientamento nel progetto di vita che vuol dire orientamento anche nel mondo del lavoro. Il
collegamento tra scuola e mondo del lavoro. Per far sì che veramente l’alunno con disabilità
venga sempre più incluso all’interno dei micro e macro contesti sociali civili, democratici, di
appartenenza.
Lettura del testo: “L’insegnante specializzato al bivio”
Mercoledì prossimo andiamo avanti: la resilienza e anche lo sguardo educativo oltre la
medicalizzazione
Domanda sul concetto di “rumore.” La diversità è rumore, l’alunno con bisogni educativi
speciali all’interno di una classe eterogenea è un rumore. È cioè un qualcosa che mette in
crisi un sistema. Non è un disturbo, è chiamato “effetto rumore” perché procura una rottura
di equilibri. È quindi in senso positivo, è un rumore che serve a rompere il silenzio e quindi a
rigenerare il contesto di relazioni, è un evento provocatore di nuovo senso e significato, il
“rumore” appunto metaforicamente inteso.
Se non c’è altro da aggiungere, possiamo terminare qui la lezione di oggi.
LEZIONE 18 09/12/2020
Libri in preparazione dell’esame
Questioni epistemologiche
Pedagogia speciale oltre la medicalizzazione oppure insegnante al bivio
Cura educativa aiuto inclusione
Argomento della lezione di oggi RESILIENZA che si lega alla cura educativa, alla narrazione
e alla riprogettazione esistenziale.
Educare alla resilienza Slide 3
Citazione di Primo Levi: la facoltà umana di ricavarsi un guscio protettivo come difesa di
fronte al dolore e alle sofferenze e difficoltà umane è una capacità tipica dell’uomo e anche
degli animali in parte e questa possibilità meriterebbe uno studio approfondito.
Gli autori più conosciuti in ambito della pedagogia speciale e della educazione inclusiva che
hanno portato in Italia la prospettiva della resilienza per la prima volta sono stati Elena
Malaguti psicologa allieva del professore Canevaro e Boris Cyrulnik due autori che hanno
tradotto le opere in Italia.
La tematica della resilienza ha iniziato ad affermarsi agli inizi degli anni 80 per poi allargarsi
a macchia d’olio. Le prime ricerche relative alla resilienza sono state a carico di Verner che
indicava la resilienza come la capacità di resistere di fronte alle avversità, di far fronte, di
non lasciarsi travolgere dagli eventi avversi per poi gradualmente tornare a riorganizzare in
una maniera diversa, innovativa ed è questa la grande lezione della resilienza. Non è solo
resistere ma resisto e poi c’è una parte attiva della resilienza mi riorganizzo per fronteggiare
il dolore e per organizzare una diversa esistenza che abbia valenze migliorative
Quando c’ è una disabilità con deficit invalidante è difficile poter vivere in modo migliore
rispetto a prima ma si può vivere in altro modo senza lasciarsi sopraffare dal dolore e dal
limite che ci schiaccia.
Tutti nel corso del tempo vanno incontro ad un peggioramento delle condizioni della qualità
della vita e questo fa parte del resalio, capacità di deterioramento delle facoltà umane e del
mondo circostante è un’evoluzione naturale di un invecchiamento che procura un diverso
modo di vivere.
Quando incontriamo malattie gravi qui le capacità resilienti devono essere più evidenti
rispetto alla prospettiva dell’invecchiamento naturale.
Resiliente viene dal latino Resalio che significa far risalire sulla barca che si è rovesciata
nella tempesta per cercare una salvezza. Se il vocabolo fosse riferito ai materiali
indicherebbe la flessibilità elasticità del materiale che resiste al tempo. Ciò che viene usato
si deteriora cambia aspetto.
Resilier in francese significa saltare indietro per prendere un’altra direzione, si salta indietro
a causa di un impedimento non per scelta.
Il nostro apparato anatomo-funzionale come i materiali va incontro a deterioramento e ad
usura.
Esistono situazioni gravi di defict e disabilità che si possono incontrare prima e dopo la
nascita.
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La resilienza è la possibilità di trasformare questo momento critico destabilizzante, è un
punto interrogativo forte sul senso della vita. Ci impone una riflessione critica e una ricerca
personale. Non si tratta solo di riabilitazione sanitaria terapeutica intesa in senso medico, si
tratta di un problema non risolvibile e la convivenza con il problema o patologia o sofferenza
richiede una diversa organizzazione dell’esistenza.
Quando siamo di fronte ad un dolore dobbiamo sempre pensare che il momento va a
toccare il nostro equilibrio esistenziale e ci chiede un’operazione di adattamento e di
evoluzione un cambiamento di noi stessi. Si parla di funzionali azioni di cambiamento.
La situazione traumatica destabilizza crea momenti di sconforto e le conseguenze
dell’evento traumatico si ripercuotono su quelli che sono i nostri comportamenti e abitudini.
Anche a livello sociale e di legami.
In pedag. Speciale ci occupiamo di favorire processi di inclusione di persone con bisogni
educativi speciali o disabilità dobbiamo pensare che la resilienza è un costrutto un
paradigma che racchiude un modello complesso multifattoriale rappresentato da più
elementi messi in stretta relazione è importante saper reperire buoni sostegni reticolari per
venire incontro alla situazione di vita al benessere o malessere alla partecipazione attiva
inclusione o esclusione delle persone più fragili e vulnerabili.
Più ricerchiamo e analizziamo l’analisi e lo studio delle cause ma anche le condizioni per
poter prenderci cura e aiutare le persone più vulnerabili. Dobbiamo organizzarci all’interno
dei contesti e agire come operatori ecologico-sistemici. Entra in gioco la prospettiva della
teoria dei sistemi, della teoria della complessità Morin Maturana Malera Munari epistemologi
del pensiero complesso.
La visione sistemica ci dice che non possiamo ragionare dicendo è il problema mio o tuo ma
quel problema può attivare una prospettiva di resilienza o di cura e di aiuto all’interno dei
contesti di appartenenza della persona più vulnerabile e fragile. Dobbiamo lavorare
all’interno dei contesti ragionare in termine di sistemi come operatori che compiono
mediazione e negoziazione all’interno dei sistemi di vita. Il modello deve essere
multifattoriale e poliedrico quindi una natura ecologico e sistemica.
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La resilienza si lega alla narrazione alla cura e al progetto di vita.
La narrazione è già una forma di resilienza, mentre mi narro attivo il mio sistema immunitario
psichico della resilienza. Leggo gli eventi cercando nuove interpretazioni e collocazioni a
certi comportamenti ed emozioni. Mentre faccio questo mi prendo cura di me.
(visione del primo filmato) esempio di storia resiliente
Entra il gioco un concetto importante quello di compensazione preso da un autore
importante Vygotskij pedagogista russo che scrisse Elementi di difettologia per primo parlò
delle funzioni vicarianti e meccanismi di compensazione. Compensazione vuol dire che se
non ho l’organo della vista o dell’udito particolarmente capaci e abili io attivo e compenso
con l’altro organo di senso. A seconda della tipologia di deficit e conseguente disabilità che
la persona vive si attivano strumenti di compensazione e vicarianza si va rivedere il rapporto
esistenze tra forze e debolezze tra il benessere o malessere.
Film “ Il mio piede sinistro” altra storia di forte resilienza.
Una volta che partiamo dall’analisi delle situazioni di deficit e disabilità dobbiamo pensare
sempre all’idea di limite e ostacolo ma che sempre si deve porre in relazione dialettica con la
risorsa con quella che è la possibilità. se esiste l’ostacolo esiste anche il modo di superare
quel limite attraverso diverse modalità di funzionamento di organizzazione si può cambiare il
percorso dell’esistenza. Occorre far dialogare il limite con la risorsa. Questo è un modo
autentico di prendersi cura della persona in difficoltà nel tentativo di eliminare ridurre ostacoli
e barriere che si possono incontrare all’interno dei macro e micro contesti di appartenenza.
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Quando pensiamo alla sofferenza alla difficoltà dobbiamo sempre declinarne in duplice
modo. Individuale e sociale.
Si tratta di un problema individuale ma anche un problema che poi si confronta in contesti
sociali. La fragilità e vulnerabilità dell’alunno deve fare i conti con la sua partecipazione
all’interno del contesto. È necessario quindi agire e riorganizzare anche il contesto renderlo
resiliente.
Duplice volto dell’umana fragilità e vulnerabilità individuale e sociale deve attivare la
resilienza come prospettiva individuale, ma anche indagare e interrogare la capacità
resiliente dei contesti sociali, quali buone pratiche o buone cure vengono progettate
all’interno della comunità per far si che la persona in difficoltà non debba sempre adattarsi
da sola ma che possa trovare un contesto che attivi ancor di più la sua resilienza o che sia
un contesto facilitante che riduca gli ostacoli e elementi di difficoltà.
I contesti vanno modificati in senso migliorativo per essere resilienti
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Si lega la resilienza alla cura educativa. Aver cura della persona con disabilità vuol dire
offrirgli il nostro aiuto per far si che la persona stessa attivi processi di resilienza. Resistere e
ri-esistere duplice cambiamento di paradigma. Prima si resiste poi si esiste in nuovo modo.
Si pensa a una progettazione di nuove dimensioni dell’esistenza che possono essere
migliorative o compensative o alternative.
Ferraris psicologa che ha affrontato il tema della resilienza dice che l’attivazione del sistema
immunitario della psiche da una parte protegge la persona e dall’altra le permette di reagire
e sollevarsi per poi riprogettarsi.
La resilienza non nasce all’interno delle scienze dell’educazione ma in ambito fisico. Questa
traslazione alle scienze dell’educazione ha avuto un impatto rilevante perché si parla
dell’operazione di cicatrizzazione del dolore e il percorso fa i conti con componenti
educative. L’educazione è un evento insieme alla formazione che prevede una
trasformazione ed evoluzione e superamento di momenti di crisi. L’educazione ha a che fare
con una cicatrizzazione creativa del trauma. Nella creatività troviamo un linguaggio
produttivo di resilienza. Le persone creative sono più resilienti, la creatività è un motore, un
linguaggio forte di resilienza come capacità di divergere.
Una persona resiliente impara ad amare le proprie debolezze impara a a fare ironia sulle
proprie limitazioni cercando di sdrammatizzare. Ironia è una caratterizzazione di intelligenza.
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L’arte di raccontarsi agli altri e a se stessi rappresenta il modo in cui la persona si accetta si
racconta e compie un percorso di resilienza. Si accetta per quello che è.
( video su Zanardi esempio di resilienza).
Anaut ci dice che la resilienza non è solo un processo di resistenza attivato dal singolo
soggetto che vive l’evento traumatico ma bisogna partire dalla caratteristiche anatomo
funzionali ma anche emotive e culturali della persona che attiva la resilienza e che deve
essere rapportata relazionata con l’organizzazione dei contesti circostanti. Si attiva una
dialettica, interpretazione dinamica da parte degli educatori perché la resilienza ha risorse
indogene ed esogene che dipendono dall’esterno. Legame con la riprogettazione
esistenziale grazie alla resilienza individuale e collettiva.
La persona resiliente non riesce a vincere la sfida della diversità da solo perché è importante
il sistema contestuale la rete di sostegni e aiuti che sia funzionale e che svolga un’azione
corale e sinergica chiamando le principali risorse esistenti all’interno del contesto.
La persona resiliente ha una forza congenita, impara a diventare forte a vivere in modo
alternativo e fa ricorso a forze interne ed esterne per arginare il dramma della sofferenza.
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Il costrutto della resilienza si basa sulla compresenza di 4 dimensioni tra loro interdipendenti.
Si è resilienti quando:
Si è Biologicamente forti
Psicologicamente Il livello di autostima di affetto e di amore e qualità e significatività
delle relazioni ci aiuta ad attivare le nostre energie resilienti psichiche.
Componente sociologica, la capacità di essere resilienti dipende dalla cultura dei
contesti che abbiamo avuto e anche dalla capacità degli altri di assumere comportamenti
utili a superare gli ostacoli
Componente educativo- formativo che riguarda modalità strategie che hanno a che
fare con la formazione.
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Quali sono i fattori più importanti all’interno del costrutto sulla resilienza
La natura dell’evento quanto è intenso quanto dura
Il contesto di vita, quali sono le caratteristiche del contesto di vita se questo ha già
una rete di aiuti e sostegni efficaci oppure no, se la famiglia o comunità non sono in grado di
reagire all’evento destabilizzante o se invece lo sono.
Caratteristiche individuali. La risposta della persona è fondamentale . Avere una vita
avviata punti di forza su cui far leva è fondamentale.
Le competenze che l’individuo ha e possiede in base alla storia personale. la
resilienza si impara anche. Le competenze legate alla resilienza possono essere accresciute
potenziate si parla di resilienza di empowermet come potenziamento del sé. È importante
capire che le competenze resilienti non sono statiche ma dinamiche in evoluzione possono
essere rafforzate e potenziate
Il livello di consapevolezza che abbiamo. Saper combattere di fronte alle difficoltà
Risorse. Abbiamo davanti a noi un contesto capace di aiutarci nell’individuare e
scoprire fattori facilitatori quindi resilienza ed inclusioni che a volte sono anche latenti.
Stima fiducia in noi stessi è importante. Può essere rinforzato con l’aiuto di educatori
amici ed esperti.
Dobbiamo poter immaginare di avere un progetto di vita. Avere un progetto di vita da
portare avanti aiuta a sopportare momenti di crisi di dolore. Avere dei progetti ci sostiene e
rafforza le nostre difficoltà resilienti.
Successi e fallimenti in ogni ambito. Noi siamo una storia fatta di tante storie.
Questo è molto condizionante può essere facilitatore o ostacolo.

Slide 11

Stretta relazione dialettica dinamica tra resilienza empowermet e coping legato al rimetterci
in gioco e le buone pratiche di cura
Empowermet capacità di padroneggiare una situazione grazie all’accrescimento delle nostre
abilità che ci permettono di gestire la nostra vita di reagire nei momenti di deragliamento di
difficoltà . Lotto per emanciparmi per rileggere la mia vita individuando nuovi orizzonti di
senso e significato.
4 elementi nel processo di empowerment sono importanti: l’esempio, il senso Bandura lo
chiama di auto efficacia come ci percepiamo.
Locus of control è il livello di consapevolezza interiore che abbiamo sulla nostra capacità di
autodeterminarci. Di non essere soggetti alla brutalità e all’imprevisto di fattori esterni che
possono travolgere. È sinonimo di solidità e stabilità è consapevolezza che si raggiunge nel
corso della maturità.
Pensiero positivo è fondamentale, profezia che sia auto avvera. Nel pensare le cose
negative prima o poi condizioniamo gli eventi la capacità di essere propositivi e vedere il lato
positivo ci permette di essere resilienti e rafforzare lo stato di empowerment. La speranza
non deve essere illusione o utopia priva di elementi realistici e oggettivi ma una sana
speranza.
Coping: capacità di adattarsi di far fronte e tollerare l’evento difficile è sempre una
componente della resilienza.
Slide 12
Duplice percorso o processo che va dalla lettura della persona a 360 gradi persona non con
sguardo medicalizzante o medico ma come persona che ha capacità di avere più vissuti più
storie. Si parte dalla persona raccogliendo dati conoscenze informazioni storie di successi e
insuccessi capire chi abbiamo davanti è fondamentale per non creare aspettative
sproporzionate non realisticamente raggiungibili. La persona è fatta da punti di forza e
debolezza di risorse e incapacità. Dalla persona si va poi verso i contesti per permettere la
progettazione di momenti di empowermet di coping di resilienza momenti tra loro interrelati
che compongono il progetto resilienza progetto di rigenerazione del progetto di vita della
persona in difficoltà. è un percorso che in realtà va da persona a contesti ma anche da
contesti a persona per la duplice natura della resilienza che è una capacità individuale ma
che si deve interfacciare con le capacità resilienti dei contesti.
Slide 13
L’insegnante inclusivo, l’educatore specializzato promuove progettazioni che cercano di
riconoscere e valorizzare le capacità resilienti delle persone adottando metodologie e
strategie che chiamano in causa le capacità di essere risorsa aiuto dei contesti stessi solo
così si parla di ed. alla resilienza capace di ri-comporre rigenerare il progetto di vita dove il
problema implica una visione multifattoriale corale circolaremultidimensionale.
Il modello Vanistendal della Casita rappresenta una visualizzazione metaforica della
resilienza in cui ci sono diversi piani tra loro interagenti dove la persona con disabilità è in
grado di organizzare competenze risorse e linguaggi conoscitivi e di dialogare con se stessa
e con gli altri e soprattutto con gli elementi contestuali esistenti
Slide 14
Parte iniziale del modello al piano terra troviamo interazione tra persona e contesti le
fondamenta della prospettiva della resilienza è la persona è la stima e senso di autoefficacia
e autodeterminazione e consapevolezza che ha. Oltre all’amore per noi stessi scopriamo
una capacità progettuale nel dare senso alla nostra esistenza. Stima di sè attitudini e
competenze che già abbiamo e la capacità di essere ironici costituiscono le fondamenta del
modello. L’ironia ci permette di adattarci meglio, avere progetti ci permette di non fermarci di
scoprire nuove cose. Più l’età avanza più è difficile far leva sulle capacità resilienti. Il tempo
e l’età è una variabile importante per la resilienza.
Slide 15
La casita è posta sul suolo che rappresenta i bisogni fondamentali della persona. Le
fondamenta sono le reti di significazioni la famiglia in primis nel bene e nel male. Le persone
amiche possono supplire o essere integrativi ad una famiglia che non accetta la sfida.
L’aspetto protettivo è importante è la zona confort delle persone il sentirsi accettati amati
nonostante la disabilità porta la persona a essere maggiormente propositiva e avere un
senso di sé più forte.
I linguaggi creativi suppliscono a delle mancanze hanno una funzione catartica e sono
strumenti di forte impatto e sono strumenti di cura di resilienza. I più grandi comici erano tutti
depressi.
Nel granaio ci sono le esperienze che le persone possono fare. Ogni piano comunica con
l’altro.
La casa è la casa dell’accoglienza della cura della resilienza dell’inclusione è luogo del
possibile della possibilitazione è luogo dove dialogano passato presente futuro. Per
costruire una casa occorre l’aiuto di uno staff sforzi corali .
Slide 16
Boris Cyrulnik ( lettura della frase sulla slide) quando la frattura che si crea non crea
processi di risignificazione e di cambiamento in noi stessi allora si butta via il quadro. Ma se
si genera una metamorfosi sulla frattura e si cambia rispetto prima allora ben venga la
cicatrice perché da lei si genera una nuova luce una nuova idea. Si genera una
restaurazione carica di bellezza è una rinascita una ricostruzione che cambia poi la natura
del quadro. Ben venga la cicatrice che ha portato una trasformazione. La cicatrice è
direzione di senso alternativo innovativo dell’esistenza. Il quadro rovinato non è da buttare
ma diventa una nuova composizione artistica. La cicatrizzazione da luce valore e bellezza e
nuovo colore.

LEZIONE 19 10/12/2020

Argomento della lezione di oggi: Pedagogia speciale oltre la medicalizzazione

INFORMAZIONI PER L’ESAME


Entro 22 dicembre prossimo libro
Da ordinare presso Anicia
Il libro affronta 3 tematiche fondamentali del programma svolto
Una delle due tracce è su questo libro, una delle tre argomentazioni
Valorizzare il territorio educativo.

Attenzione focalizzata per comprendere come i linguaggi forti di medicina e psicologia


abbiano usurpato quelli educativi. Un’intrusione perché è un dialogo non necessario e di
certo non alla pari con medicina o psicologia. La pedagogia speciale non è una scienza che
si può bastare da sola, ma ha faticato per avere un valore epistemiologico, è necessario
creare delle chiarificazioni in merito. Dove è stata invasa la pedagogia speciale da Medicina
e Piscologia? Andiamo a vederlo.

L’INTRUSIONE DEI LINGUAGGI DELLA MEDICALIZZAZIONE E DELLA


PSICOLOGIZZAZIONE È PRESENTE NELLA/NEL:

Sanitarizzazione dei criteri e delle modalità di osservazione-rilevazione


diagnostico-valutativa dei bisogni formativi.
La rilevazione dei Bisogni educativi speciali o disabilità avviene attraverso modalità che sono
diagnostico valutative e risentono troppo del bisogno di quantificare il livello di deficit, tipico
della medicalizzazione. Il momento della certificazione medica, al fine della richiesta
dell’insegnante di sostegno, è ancora un momento troppo condizionante. Nonostante l’invito
della classificazione ICF ad affrontare questo momento con uno sguardo multidimensionale
più educativo e antropologico.
Abuso della terminologia di stampo medico-clinico ed intrusione-attacco
all’autonomia epistemiologica della Pedagogia speciale intese come scienza della
complessità e diversità.
Terminologia che abbonda di termini che sono acronimi e tipici di altre scienze (bes, dsa,
adhd), evidenziando l’elemento problematico, mai parlando della persona. Persona ridotta
ad uno stigma ad un’etichetta. Le comunicazioni relazionali ed educativa che avvengono
all’interno di una scuola avviene attraverso acronimi (PEI, PDP), termini che sono irrispettosi
e parziali nei confronti delle persone. La terminologia diventa pertanto parziale ed
etichettante.

Scelta acritica modelli classificazione senza privilegiare lo sguardo educativo.


I modelli di classificazione sono modelli ancora troppo condizionati dal linguaggio
medico-psicologico, invece come educatori e insegnanti siamo tenuti a pensare a come
legittimare lo sguardo educativo. È opportuno impegnarsi a tradurre questi linguaggi in
quello educativo didattico. L’ICF fa un grande salto di qualità ma ancora non sufficiente,
rimane comunque un modello di classificazione, anche se più rispettoso della complessità
della persona. L’invito è di avere uno sguardo critico ed educativo e non preso in prestito
dallo specialismo medicalizzante. Come se medici o psicologi fossero specialisti di serie A, e
insegnanti ed educatori di serie B.
Modo errato di concepire il nostro ruolo e le nostre competenze, oltre che l’inclusione degli
alunni.

Adesione ad un modello di formazione incompleto burocratico-tecnicistico,


“specialistico-settorialistico”. Scarsa valorizzazione dello specifico educativo.
Spesso si nota una debole valorizzazione delle discipline di pedagogia speciale nei percorsi
abilitanti al sostegno e in scienze della formazione primaria. In realtà sarebbe utile fare degli
approfondimenti, ad esempio soffermarsi su alcune tipologie di sindromi per capire quale è
la modalità giusta di affrontare la situazione da insegnanti, sarebbe interessante svolgere un
progetto di vita insieme (o PEI). Sarebbe opportuna una formazione permanente, spesso è
una formazione sbilanciata e troppo settorialistica.
Spesso i modelli di formazione hanno anche delle caratterizzazioni eccessivamente
burocratiche, piuttosto che un luogo di riflessività.

Visione duale, assistenzialistico-custodialistica della relazione di cura educativa di


aiuto e di sostegno
Forte retaggio di una visione duale tra insegnante-alunno, poiché logica di assistenzialismo,
ancora legate all’idea che c’è qualcuno che è malato e ha bisogno di aiuto, l’insegnante di
sostegno ha ancora un ruolo marginale all’interno del gruppo classe.

Fromazione specifica di docenti curricolari, specializzati e degli educatori non può e


non deve essere focalizzata solo sulle singole tipologie di disabilità.
Ci sarebbe bisogno di una formazione specifica e permanente di tutti i docenti. L’alunno con
disabilità ha bisogno del lavoro collegiale di tutti. I docenti curricolari rimangono indietro
rispetto alle politiche inclusive che si susseguono.

Permanenza del fenomeno della delega deresponsabilizzante nei processi


d’inclusione scolastica e sociale della diversità.
L’intrusione della medicalizzazione e psicologizzazione è evidente nel lasciare tutta la
responsabilità esclusiva all’insegnante di sostegno, deresponsabilizzando i docenti
curricolari. L’insegnante specializzato è co-titolare della classe, non esclusivo del bambino
assegnato. La delega porta ad esclusioni fuori della classe.

Competenze dell’educatore: la macrocompetenza è riferita alla capacità di saper


progettare percorsi di accompagnamento competente
Sarebbe opportuno formarsi per saper sempre progettare. La progettazione è la capacità
che ci contraddistingue rispetto agli altri specialisti. L’educatore si occupa del progetto di
vita, e di accompagnare l’alunno in modo competente e sentito all’interno dei percorsi sia
curricolari ma soprattutto esistenziali

Mantenimento di una visione didattica tradizionale che considera le differenze e le


diversità come disturbo per l’intera classe
Mantenimento di un’impostazione didattica troppo tradizionale, e che non si apre al
cambiamento adottando nuove strategie e metodi organizzativi. Soprattutto negli insegnanti
non adeguatamente formati c’è troppa rigidità, ciò perché si considera l’alunno come
disturbo per l’intera classe, così scattano dei meccanismi di normalizzazione forzata e non
una rivisitazione delle caratteristiche del contesto.
Va eliminato tutto ciò che allontana dalla didattica tradizionale.

Scarsa valorizzazione del ruolo e delle competenze inclusive dei docenti curricolari,
di sostegno, degli educatori, e delle famiglie nel PdV
Scarsa valorizzazione dei docenti, richiesta che tutti i docenti siano chiamati a dare il loro
contributo nel progetto di vita, ascoltando profondamente la famiglia.

Modello formativo non effettivamente inclusivo inteso riduttivamente in quanto non


pensato e costruito come ambito complesso in prospettiva lifelong learning per tutte le
professioni d’aiuto
Critica ad una visione dove la formazione è limitata e limitante, tutte le formazioni di aiuto
dovrebbero assolutamente aver presente che la formazione deve essere per tutta la vita con
continui aggiornamenti, non può fermarsi.

Aumento esponenziale di certificazioni di alunni con “DSA”, “BES”, ecc… e di misure


dispensative e compensative che sostituiscono o riducono la presenza dell’insegnante di
sostegno e/o dell’educatore
Punto fondamentale, è così evidente la medicalizzazione nell’aumento delle certificazioni.
Molto spesso ci sono falsi positivi nelle diagnosi, il fattore tempo e sviluppo potenzialità non
è tenuto a debita considerazione. Bisognerebbe essere più cauti, c’è un po’ di superficialità
nell’etichettare, e non si è disposti a stare in bilico in una sospensione di giudizio,
attendendo di comprendere meglio la situazione.

Si conferma l’uso delle logiche statistico-quantitative (schede, check list, griglie,


protocolii) rispetto alle modalità di ricerca qualitativa (approccio narrativo)
Aumentano di conseguenza tutte le misure dispensative e compensative. Aumentano i Pdp
e i Pei, togliendo valore all’educatore. Psicologia comportamentale, con abuso di metodi di
ricerca quantitativi a discapito del qualitativo. Bisognerebbe ragionare cambiando paradigma
e adottando metodi di ricerca qualitativi, o comunque misti. Necessario il pluralismo.
Approcci qualitativi: protocolli allargati, diari di bordo, approcci che descrivono la complessità
della persona con i suoi punti di forza e debolezza.

Difficoltà nel rispettare la continuità in senso orizzontale-verticale secondo una


progettazione partecipata e di rete
Scuola poco attenta a due processi fondamentali: rispetto della continuità verticale e di
quella orizzontale. L’inclusione deve essere pensata al futuro e alle risorse intra ed extra
scolastiche.
Ricordiamo che la formazione è Formale, Non Formale e Informale, quindi tiene conto di
tutte le risorse del territorio. La formazione è orizzontale e deve valorizzare tutto ciò che c’è
nella vita anche al di fuori della scuola. Visione democratica e pragmatica
Duplice binario:
-promuovere continuità orizzontale quindi che si cala nei contesti e nella visione ecologica
sistemica
-promuovere continuità verticale come metafora del viaggio sena incidenti: ogni bambino,
dal nido fino all’università bisogna accompagnarlo in maniera competente e sensibile, da un
gradino formativo all’altro, fare in modo che non ci siano incidenti di percorso.

Necessità di promuovere una didattica innovativa, non nozionistica (contitolarità,


laboratori, sfondi integratori, cooperative learning, peer education, ecc..) strettamente
interconnessa con la didattica relazione ed esistenziale
Non più una didattica tradizionale, ma necessità di trovare modalità alternative come la
didattica laboratoriale, come i tutoring, come lo sfondo integratore, che sia innovativa e
soprattutto inclusiva. Una didattica che leghi le discipline alla didattica dell’esistenza e dei
progetti di vita.
Innovare la didattica, docente di sostegno e quello curricolare devono essere co-titolari della
classe.

Bisogno di legittimare uno sguardo pedagogico-didattico attento alla valorizzazione


delle differenze basato sulla cura, sull’accoglienza, sull’equità formativa, sulle scelte di una
educazione inclusiva in cui scuola e società si offrano come comunità di sostegno e di aiuto.
Bisogno di tornare alle categorie fondative della pedagogia speciale: accoglienza, aver cura,
impostare solide efficaci e non intrusive relazioni di aiuto, valorizzare lo sguardo pedagogico
e didattico. Idea dell’inclusione come inclusione collettiva e della comunità. Visione equa e
democratica della scuola e della società e quindi anche dell’educazione e della didattica.

RIPASSO

Domanda 1:
Richiesta di spiegazione della continuità verticale e continuità orizzontale.

La formazione come si realizza? In famiglia, nella scuola e nell’extrascuola.


Verticale: da nido a materna, primaria ecc.. : la formazione avviene step by step in scuole di
più ordini e grado. Questo passaggio tra scuole deve essere un passaggio curato, affinchè
non ci siano divari che creino incidenti di percorso.
Continuità orizzontale: ragionare pensando che la formazione non avviene solo all’interno
della scuola ma anche al di fuori. Non tutti i luoghi sono formativi, ma possiamo pensare allo
scoutismo, allo sport, alle ludoteche, al centro di aggregazione giovanile ecc. Complessità di
risorse che diventano fondative della formazione integrata della persona. Tutte risorse da
tenere di conto e da sfruttare nel progetto di vita, per un’inclusione realmente globale.

DEFINIZIONI DELLA PEDAGOGIA SPECIALE

Scienza autonoma, giovane, non è branca di altre discipline, teorica-pratica,


empirica, euristica e sensibile

Disciplina di frontiera

Che dialoga con le altre scienze

Scienza della complessità e della diversità

Caratteristiche del paradigma della diversità

Scienza provocatoria e trasgressiva, come “voce problematicizzante” all’interno delle


scienze dell’educazione
Diversità elemento trasgressivo perché deve andare oltre il limite dell’esistente

Scienza di ri-conoscimento e dell’integrazione delle diversità


Differenziare il concetto di integrazione (valorizzazione della persona) e di inclusione
Collocamento: inserire l’alunno in classe senza integrarlo (integrismo, integrazione parziale)

Scienza dell’accettazione del deficit e della riduzione dell’handicap


Distinzione tra termini: deficit e handicap

Pedagogia istituzionale (come scienza della dialettica tra istituito ed istituente)

Scienza metabletica e del cambiamento

Scienza della cura educativa e della relazione d’aiuto

Scienza della narrazione della diversità

Scienza capace di andare oltre le logiche della medicalizzazione

Scienza inclusiva di differenze e diversità

Scienza della qualità del Progetto di vita della persona con disabilità, come luogo
dell’ulteriorità del possibile e del futuro mediata dalla progettualità, dal “Pensami adulto”.
Pensarsi resilienti
INFORMAZIONI PER L’ESAME:
È opportuno ricordarsi le definizioni sopra.
Se ci sono risposte troppo copiate dalle slide non va bene, va rielaborato con le nostre
parole.
Sguardo critico.
Due quesiti: 30 righe per ogni domanda, durata non meno di un’ora e trenta.
Due argomenti affrontati a lezione. Utilizzare terminologia appropriata.

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