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Prof.

ssa Patrizia Gaspari


Ordinaria di Pedagogia speciale
Università degli Studi di Urbino
Corso di Laurea in Scienze della Formazione Primaria
a.a. 2021/2022 8CFU

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CURA EDUCATIVA, RELAZIONE DI AIUTO E
INCLUSIONE: GLI ATTORI E I PROTAGONISTI
- la professione dell’insegnante specializzato di sostegno risulta ad elevata complessità

- il suo bagaglio formativo non può quindi prescindere da un insieme di conoscenze e competenze:
> integrate
> epistemologicamente fondate sulle categorie della complessità
e della polivalenza dell’agire strategico nei molteplici e
diversificati campi d’intervento Ecologico-sistemico
- l’insegnante specializzato si forma utilizzando una serie Fenomenologico-ermeneutico
di possibili approcci come, ad esempio, quello Umanistico-esistenziale

-l’insegnante specializzato, come professionista della cura e dell’aiuto ed agente inclusivo assume il
prioritario compito di:
accompagnare l’altro, in modo competente, con efficaci progettazioni di natura metabletica,
affinché re-cuperi o ri-acquisti le potenzialità, le risorse, l’autonomia necessarie per affrontare
la vita

- l’insegnante specializzato favorisce processi di inclusione e piena partecipazione delle persone


con «bisogni educativi speciali» aiutandole a ridefinire-ristrutturare-ricomporre il progetto esistenziale,
aprendo nuovi spazi, tempi e finestre di pensabilità nella delicata funzione di orientatore di senso.
- La funzione di accompagnamento competente
(A. Canevaro)

sostiene e promuove
nell’altro, nel «diverso», orienta, indica, propone,
la nascita di nuovi senza mai imporre,
orizzonti di senso e di norme, decisioni
significato comportamenti, valori

diviene cura educativa autentica,


comprendente una pluralità di
competenze, ruoli e funzioni in
grado di evitare i rischi di
pericolose derive tecnicistico-
specialistiche
- Educare è curare, ovvero prendersi cura, aver cura dell’altro nella sua
complessità. Lo specifico educativo della cura (intesa come relazione di aiuto)

presuppone elevate non è:


valenze simboliche e - terapia medico-farmacologica;
trasformative - attività prettamente assistenziale di natura
compensativa,
ma implica:
- un processo di coeducazione-coevoluzione-
coformazione (F. Cambi) tra i protagonisti
della relazione educativa nell’ottica del
reciproco scambio e di produttive dialettiche
nella relazione d’aiuto la diversità
inclusive;
dell’altro è
- è attenzione alla dimensione intersoggettiva
- continua occasione di conoscenza e
e critico-interpretativa dell’altro che
di scoperta;
richiede fatica, impegno e possibilità di
- ricchezza, valore, interrogativo;
cambiare.
- linguaggio fenomenologico-
ermeneutico da accogliere e
interpretare.
La cura implica la riprogettazione di sé per la persona con disabilità nella direzione
dell’essere, del poter essere e del divenire, essendo strettamente caratterizzata dal
desiderio di esistere nel mondo (l’essere nel mondo è un con-essere con gli altri) (L.
Mortari). Non esiste azione di cura né di aiuto autentico senza reciproco inter-essere
(essere con, per, in mezzo agli altri).

La cura educativa rappresenta, quindi, un’apriorità esistenziale strettamente legata


alla volontà di esistere, di esserci nel mondo e con il mondo (F. Cambi, M. Heidegger,
R. Fadda, L. Mortari, etc);

La necessità della cura educativa, ovvero del prendersi cura di sé e dell’altro, nasce
dalla personale consapevolezza della qualità ontologica della mancanza, dalla
personale vulnerabilità e fragilità che porta ogni persona produttivamente ad essere
dipendente da e di a causa della sua strutturale incompiutezza;

L’esserci di ogni soggetto è sempre aperto al mondo e la cura educativa è la


categoria fondativa e la competenza fondamentale dell’educatore socio-pedagogico
che accompagna il ‘diverso’ nel difficile cammino temporale dell’esistenza;

L’educatore ha cura dell’aver cura dell’altro, affinché l’altro, specie se in difficoltà,


gradualmente ritorni a preoccuparsi di sé e ad individuare nuovi scenari di
significato alla sua esistenza;
L’approccio nei confronti della persona con disabilità richiede l’assunzione di una
cura che può connotarsi di tre specifiche dimensioni:

il curare, azione specifica


finalizzata al contenimento della
malattia o della menomazione,
mediante un intervento medico-
farmacologico-riabilitativo o un
ausilio protesico
il prendersi cura,
presenza che si fa
carico delle difficoltà
dell’altro

l’aver cura, assunzione


dell’impegno e della
responsabilità verso l’altro
Aver cura significa occuparsi e preoccuparsi di, avere premura, attenzione,
dedizione, sensibilità e competenza nella costruzione o nella ri-costruzione della
visione che l’altro ha di sé nel mondo (core competence, V. Iori);

L’aver cura implica piena disponibilità nei confronti dei «bisogni educativi
speciali» e non dell’altro, la tutela della promozione di ulteriori possibilità
esistenziali, affinché si estrinsechino nuove capacitazioni, possibilitazioni e
direzioni di senso rispetto ai precedenti desideri, limiti e risorse;

M. Heidegger, in Essere e tempo, distingue due tipologie di cura:


autentica ed inautentica
sottolineando i limiti del ‘prendersi cura’ (Besorgen) in modo maneggiante,
usante ed intrusivo e differenziando il processo di cura educativa come ‘aver
cura’ (Fürsorge), all’interno di una relazione di aiuto fondata sull’esser-ci con gli
altri e per gli altri.
La differenza fondamentale fra il «prendersi cura» delle cose utilizzabili e l’aver
cura di altri per gli altri è che la relazione implica un con-esser-ci e non solo un
essere-presso, ovvero «un essere-con, una cura condivisa (Mitsorge), o più
esattamente una cura per, un aver cura».
Se la cura inautentica finisce con il controllare, manipolare,
rendere schiavo e dipendente l’altro, l’autenticità dell’aver cura
custodisce, coltiva, emancipa, libera l’altro da e di, dandogli
credito e concrete possibilità di pensarsi al futuro, in modo
positivo, dopo rinnovata autoconsapevolezza ed
autodeterminazione nella dilatazione del personale campo di
esperienza (P. Bertolini, L. Caronia).

Secondo L. Mortari, indipendentemente dalle sue fondamenta


teoretiche ed epistemologiche, la cura educativa si definisce
come pratica che richiede l’armonizzazione dei linguaggi del
corpo, della mente, delle emozioni e delle azioni all’interno di
una progettualità esistenziale intenzionalmente direzionata.
La cura è, soprattutto, un prendersi a cuore la propria vita e quella
degli altri, avendo cura della riorganizzazione contestuale, delle
risorse, dell’inclusività delle istituzioni che danno giustizia e valore alle
diversità, tutte: ciò implica da parte dei professionisti della cura e
dell’aiuto, forte assunzione di responsabilità politico-culturali per
potenziare significative relazioni e buone pratiche inclusive che
costruiscano comunità intese come contesti di cura.
La cura richiede la rivisitazione del rapporto esistente, della relazione
dialettica tra istituito ed istituente.

Se educare è aver cura dell’altro, della persona con disabilità, per


aiutarlo a ritrovare nuovi spazi, tempi ed orizzonti di senso capaci di
risignificargli la vita, compito dell’educatore consiste nell’aiutare il
«diverso» a ritrovare la personale traiettoria esistenziale, utilizzando la
pluralità dei linguaggi e delle risorse cognitive, socio-affettive, etico-
politiche e culturali.
La cura educativa autentica, come fondamento dell’agire
professionale dell’insegnante specializzato , si realizza come
atto di umana comprensione dei «bisogni educativi speciali»
dell’altro: non sconfigge il deficit, ma aiuta a dargli un
significato.

La cura richiede la rivisitazione del rapporto esistente, della


relazione dialettica tra istituito ed istituente.

La cura è un incontro, un’esperienza formativa di reciprocità


e di contaminazione produttiva, un vero e proprio laboratorio
rappresentazionale ed esperienziale che si offre come
sfondo-teatro formativo in grado di permettere alla persona
con disabilità di ri-progettarsi al futuro (Progetto di vita).
La relazione di cura educativa implica la riflessione teoretica, il sentire, il
fare, l’agire, calibrati dall’autorevole presenza dell’insegnante
specializzato inteso come agente inclusivo capace di favorire la
realizzazione di spazi di condominio intersoggettivo, attivando funzionali
processi di regia educativa.

Le competenze di cura «leggono» ermeneuticamente l’unicità delle storie


di vita e delle complesse trame esistenziali della persona con disabilità,
superando lo sterile specialismo delle competenze riparativo-clinico e
classificatorio-assistenziali (la cura come risorsa contro la
medicalizzazione).

Le competenze critico-riflessive e quelle dell’aver cura portano il focus


della questione nel territorio dell’educazione inclusiva combattendo ogni
forma di sterile medicalizzazione, rivalutando l’esigenza di adottare uno
sguardo educativo progettualmente rifondato.
Le 3 dimensioni della cura
L’aver cura, comportando l’accettazione del soggetto con disabilità, allo scopo di
riconoscerlo, per offrirgli produttive occasioni di riscatto esistenziale, presuppone

1) Una dimensione fisico-materiale: si tratta di un lavoro pratico, fatto di gesti


concreti in cui l’educatore si occupa della persona, dei suoi bisogni fisiologici,
personali, dell’emergenza e del quotidiano, nell’ottica del recupero delle
autonomie;

2) Una dimensione organizzativo-progettuale: è necessario contestualizzare e


personalizzare spazi, tempi, obiettivi, direzioni di senso, logiche di rete,
all’interno di un progetto esistenziale capace di migliorare il benessere di tutti e
di ciascuno;

3) Una dimensione affettivo-emotiva: imprescindibile nelle sue contaminazioni


valoriali, cognitive e nella sintonizzazione emozionale finalizzata alla gestione e
al superamento di ostacoli, barriere, conflitti, etc.
La cura educativa è il fondamento della «riduzione dell’handicap» (A. Canevaro),
che permette la ricostruzione progettuale mirata ad individuare e a potenziare la
complessa rete di sostegni e di aiuti, agenti facilitanti ed ostacolanti l’inclusione
sociale;

La relazione di cura implica la progettazione di efficaci processi di aiuto e di


sostegno che si costruiscono nell’incontro con la persona in difficoltà,
presupponendo elevate valenze simbolico-trasformative che coinvolgono entrambi i
protagonisti della relazione di aiuto.

Secondo A. Canevaro e A. Chieregatti, è importante evitare di prendere in braccio


l’altro per evitargli la fatica del suo stato, eliminandogli la possibilità di poter
contare sulle proprie forze, in quanto è fondamentale aiutarlo ad utilizzare una
forza, pur limitata, ma sua (il senso dell’aiuto inteso come «dono leggero» non
invadente, né limitante, intrusivo, pesante ed invalidante).
Il professionista della cura e della relazione di aiuto è chiamato, nel faticoso percorso
dell’agire professionale:
- al recupero di un’idonea presenza del soggetto con disabilità nel mondo;
- alla creazione di luoghi, tempi e possibilità innovativi, all’interno di un progetto di umana
emancipazione, incentrato sul recupero dell’altro, interpretato come soggetto capace di
produrre storia e cultura.

«Cura è una parola polisemica, ad ampio spettro e a doppia direzione: dare e ricevere. E’
un pensiero attento e costante, è interesse, preoccupazione, sollecitudine, diligenza,
accuratezza. E’ responsabilità verso se stessi e verso gli altri»*.

Non c’è azione di cura, in ambito formativo, senza epimeleia, ovvero senza attivare
all’interno della relazione di aiuto una sistematica attenzione per la persona, per le sue
forze e debolezze: ciò implica la promozione con l’altro di un processo di ricerca di
significati che passa attraverso le modalità della comprensione-interpretazione
(educatore come lettore ermeneutico), evidenziando l’aspetto formativo della
dimensione della cura educativa.

*L. Formenti (a cura di), Attraversare la cura. Relazioni, contesti e pratiche della scrittura di sé, Erickson, Trento, 2009, p. 128.
LA RELAZIONE DI AIUTO

La relazione di aiuto rappresenta la forma più indicata dell’aver cura


delle differenze e delle diversità da parte dell’insegnante specializzato di
sostegno.

L’aiuto non può rendere l’altro schiavo, dipendente e dominato:


l’educatore dovrà prendersi cura di far ritrovare all’altro un senso,
un’idonea presenza di sé nel mondo: si tratta di aiutare l’altro ad
aiutarsi, valorizzando capacità, potenzialità e risorse.

L’insegnante specializzato di sostegno, all’interno della relazione di aiuto,


deve saper «ricevere l’altro» (G. Bateson) per riconoscerlo e restituirlo al
mondo in modo più forte, ri-generato, ricomposto, favorendo processi
autonomia e di vera appartenenza: in tal senso è agente di cambiamento
(D. Demetrio), provocatore di senso e di nuovi significati esistenziali.
«Accanto al tradizionale paradigma dell’aiuto, che ha
caratterizzato la formazione degli adulti nel duplice registro
dell’approccio pedagogico classico e di quello
psicoterapeutico (entrambi riconducibili allo schema : «un
soggetto è da educare/curare – parla/racconta/dice di sé,
l’altro soggetto educa/cura – raccoglie e interpreta»),
emerge e si affianca oggi un nuovo paradigma dello scambio,
in cui i significati e le narrazioni a essi inerenti sono il
risultato di una costruzione comune, non scontata e
negozialmente prodotta, da parte delle persone, interagenti
all’interno di contesti dati e situati, con ruoli diversi».

(Kaneklin C., Scaratti G. (a cura di) (1998), Formazione e narrazione.


Costruzione di significato e processi di cambiamento personale e
organizzativo, Raffaello Cortina Editore, Milano).
Secondo R. Caldin*, l’insegnante specializzato di sostegno che aiuta, che si prende cura
della persona con deficit o in condizione di handicap e difficoltà di varia natura, non
deve «approfittare» della situazione di disagio e di bisogno dell’altro, perché chi aiuta
è inevitabilmente allo stesso tempo aiutato:

- «un aiuto offerto non può diventare esclusivo: la relazione di aiuto è plurale;
- chi aiuta deve provare a intravedere nell’altro un’identità in cambiamento, al di là
delle stereotipie e dell’immobilità; occorre mettere in luce le molteplici identità
dell’altro;
- la relazione di aiuto non si muove con dinamiche di assolutezza, ma di
complementarietà e deve tendere a ridurre progressivamente l’asimmetria;

La relazione di aiuto è, innanzitutto, sostegno ed accompagnamento alla formazione


umana nella direzione del poter-dover essere, nel tentativo di ridurre tutti gli ostacoli e
le barriere culturali, sociali, etici, materiali, etc che la persona con disabilità,
quotidianamente, incontra nei micro e macro contesti di appartenenza.

*R. Caldin, Introduzione alla pedagogia speciale, Cleup, Padova, 2007, p. 97.
«Scopo della relazione di aiuto non è quello di sostituirsi, ma
di sostenere, non di prendere il posto dell’altro, bensì di
consentirgli di esercitare la propria soggettività nella misura
più ampia possibile. Non è «fare al posto di», ma semmai
«fare insieme» per arrivare a «fare da sé» e soprattutto a
«scegliere da sé», a scegliersi: solo così si possono consolidare
le radici di un progetto di vita che significa non lasciarsi
vivere, bensì «progettar-si» o «sceglier-si», ossia decidere,
con maggiore autonomia e sulla base di una più sperimentata
e verificata conoscenza di sé, la propria identità»*.

* D. Resico, Diversabilità e integrazione. Orizzonti educativi e progettualità, FrancoAngeli, Milano, 2005, p. 91.
La relazione di aiuto implica sempre e comunque la restituzione di una
storia in un processo relazionale che si esplicita come incontro di storie
per cambiare il senso dell’esistenza, senza spirito di dominio. Chi
lavora con le diversità deve intuire, pre-vedere quando l’aiuto deve
essere gradualmente sottratto e quando è necessario agire in funzione
dello sviluppo e della maturazione dell’altro.

Aiutare vuol dire fare i conti con la storia dell’altro, con i suoi
particolari vissuti: l’altro è una traccia, una memoria che non si può
annullare. Se la narrazione è cura, narrarsi è aver cura di costruire
storie comuni.

L’aiuto deve essere finalizzato alla restituzione-ristrutturazione della


storia dell’altro, all’interno di una relazione che è incontro di storie ed
identità che non vanno assolutamente soffocate, ma riconosciute e
valorizzate.
La relazione di aiuto consiste in una pratica educativa inseribile nella vita
quotidiana, finalizzata al recupero e/o al potenziamento dell’autonomia,
mettendolo nelle condizioni di massima espressione-estrinsecazione di sé;
inoltre rappresenta anche una tecnica applicabile in particolari contesti di
vita.

«Nella relazione di aiuto l’educatore cerca con l’altro, nei meandri della
memoria, l’evento che ha sospeso momentaneamente la qualità
dell’esistenza, ovvero dove e come si è interrotto il processo formativo, allo
scopo di riaprire un discorso (progetto esistenziale) troppo precocemente
interrotto o predefinito» (P. Gaspari).

Il vero aiuto è cambiamento in direzione dell’autonomia: l’atto dell’aiuto


prevede il passaggio dalla relazione asimmetrica a quella simmetrica, alla
pari.
La relazione di aiuto si caratterizza per:

-comprensione entropatica;
-fiducia;
-empatia;
-autonomia;
-reciprocità;
-mediazione;
-interessamento;
-mantenimento della giusta distanza;
-autorevolezza;
-sostegno di prossimità
-coraggio
-accompagnamento sensibile e competente
-rispetto
-ascolto partecipato e partecipante
-ricerca di spazi di possibilità
-seduzione educativa
-contaminazione
-coeducazione
-cambiamento reciproco
La relazione di aiuto è una relazione di empowerment che non risolve
necessariamente i problemi, che pone l’uno accanto all’altro.

L’aiuto è scambio reciproco, dialettica di esigenze individuali e collettive,


luogo ermeneutico e non si risolve in mera attività consolatoria o
compensativo-assistenziale.

«nel verbo accompagnare è ricompreso il termine com-pagno, cioè colui con


cui si divide il pane: condividere il cibo è quasi come condividere la vita.
L’aiuto è impoverito di senso se viene ridotto a saper fare strettamente
tecnico […] l’essere del professionista in relazione d’aiuto è un “essere
politico” e, di conseguenza, ha senso parlare della necessità di avere
passioni, di sapere appassionarsi, di avere empatia e partecipazione»*.

*Paolini M. (2012), «Passioni, relazioni d’aiuto in tempi di crisi economica e civile», L’Integrazione scolastica e sociale, 11 (4), p. 328.

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