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Saper cogliere da uno sguardo

saper curare con un sorriso


saper aiutare con una carezza

Arrivata alla soglia della cosiddetta mezz'età, mi trovo a dover affrontare un


cambiamento, a dover affrontare una svolta. Alla base di questa svolta c'è una
esperienza importante che riguarda una Casa Famiglia. Il mio percorso parte
ventisette anni fa quando, dopo aver rinunciato all'insegnamento, ho scelto la
strada più facile affrontando un lavoro nelle farmacie. Un lavoro che ha reso
possibile in qualche modo l'instaurarsi di relazioni con persone in difficoltà,
pur rimanendo nel breve spazio che può essere il rapporto cliente-fornitore di
servizio. Dopo il percorso formativo come Asa, a cui sono arrivata perchè non
ero sicura che il mio lavoro nelle farmacie potesse continuare, ho potuto
rivalutare questi semplici contatti che ho quotidianamente, recuperando il
rapporto umano che spesso passa in secondo piano, in un settore comunque
legato al commercio più che al servizio sociale. Ecco allora che un nuovo
problema di lavoro, stavolta ben più grave e sempre per decisione dei nostri
proprietari di eliminare la figura professionale del coadiutore, mi ha dato
l'opportunità di recuperare lontane predisposizioni che il mio percorso
scolastico aveva affinato, in un ambiente dove l'aiuto è fondamentale: la casa
famiglia, appunto. Questo semplice aiuto ora so che ha un termine ben più
congeniale: la relazione d'aiuto.
La relazione d'aiuto è un processo che comporta la crescita di una persona o
di entrambe le persone coinvolte per mezzo del loro relazionarsi e delle
risorse che da ciò possono scaturire.
Si tratta quindi di un particolare modo di porsi di fronte all'altro che si trovi in
una delle seguenti situazioni:

• vive una crisi esistenziale che non riesce a superare da solo,in alcuni
casi perché non presta attenzione alle informazioni che riceve

• é paralizzato da un'emozione e non riesce a scorgere una via di uscita


o a fare una scelta

• non riesce a riconoscere il proprio mondo interiore, a riconoscere


un'informazione che il corpo stesso gli trasmette

Un'appropriata relazione d'aiuto oltre a portare l'aiuto di cui occasionalmente


si ha bisogno , consente di imparare a leggere con attenzione i propri stati
d'animo.
Quando ci perviene la richiesta d'aiuto di solito accade in forma indiretta ( non
è il soggetto a chiederlo ma qualcuno per lui),siamo portati a dare consigli,
offrire soluzioni e nel contempo tentiamo di minimizzare o sdrammatizzare.
Tutto questo rischia di spostare l'attenzione su di noi, su quanto sappiamo o
pensiamo di sapere, perdendo di mira il nostro interlocutore e il suo bisogno.
Anche quando prendiamo ad esempio una nostra esperienza che sembra
calzare a pennello per il caso che ci viene prospettato, é la nostra
esperienza,che non sempre è illuminante per l'altro.

E' uno degli errori che spesso faccio quando insorgono problemi alle ospiti
della casa dove lavoro: proprio perchè mi rivolgo a persone che pur
chiedendo aiuto, pensano nello stesso tempo di non averne alcun bisogno, i
miei esempi di madre e moglie non sono di grande aiuto, neanche come
scusa per iniziare una qualsivoglia relazione.

Poiché poi dall'altra parte trovo sicuramente qualcuno che erge un muro di
diffidenza prima ancora di reputare utile ascoltare, é assai difficile che i miei
consigli vengano messi a frutto.
Mi sono dunque chiesta più volte come affrontare la situazione.

Bisogna innanzitutto concentrarsi su quanto l'altro ci sta dicendo anche non


esplicitamente, talvolta solo dal tono della voce o da un'espressione del viso
si comprende un disagio nascosto che noi dobbiamo saper leggere.

Serve dunque una risposta empatica, cioè una risposta che sia rivelativa
della nostra abilità di metterci nei panni dell'altro,della nostra capacità di
entrare nel suo mondo fino a capirlo e a dimostrargli che abbiamo capito.
La risposta a quel punto rispecchia quanto l'altro ha detto e esplicita il
sentimento che l'accompagna.
Alla fine l'interlocutore si sente capito o riesce a spiegarsi.

Occorre infatti sentirsi capiti e non ammaestrati, o giudicati anticipatamente.


La risposta empatica non è che la premessa e la base di partenza per un
aiuto ancora più efficace che per essere accolto esige la fiducia in chi lo offre
e la convinzione che non lo offra per secondi fini.
Conquistata la fiducia e la stima dell'interlocutore possiamo procedere
offrendo il contributo di altre idee, prospettive, opzioni, che possiamo
proporre, ma mai imporre.
Alla base della relazione d'aiuto vi deve essere infatti e necessariamente il
rispetto dell'uno per l'altro che è alla base della relazione umana.

Nel contesto delle relazioni d'aiuto è possibile individuare una linea di


specializzazione progressiva che parte dalle relazioni normali e spontanee
che si hanno nel corso della vita per arrivare a forme di aiuto più complesse
che si definiscono a seconda del loro grado di strutturazione o di profondità
come counseling.
Non esiste una netta separazione fra relazione d'aiuto e counseling per una
ragione fondamentale: perché il counseling presenta una chiara connotazione
educativa e dunque si presta in modo particolare a un suo uso incisivo nel
lavoro sociale, ossia tutte quelle professioni che si occupano di aiuto.

Come si definisce il counseling? E' un termine non traducibile in italiano se


non nella nozione non proprio precisa di consulenza, dare consigli o
assistenza specialistica: cosa che il counseling non è.
Si può affermare che esso è una forma di intervento diversa dalle tradizionali
modalità di aiuto, intuitivamente note, indicate da Hopson in

• dare consigli

• dare informazioni

• azione diretta (per soddisfare i bisogni)

• insegnamento

In tutte queste strategie di aiuto vi è un presupposto comune che non è dato


per il counseling: l'aiuto ( inteso come soluzione di un problema,
soddisfazione di un bisogno, superamento di crisi) dipende interamente dalla
competenza di chi lo presta. Secondo questa prospettiva è visto come un
bene che passa da chi lo presta a chi lo richiede.
Il counseling invece è una strategia d'aiuto più profonda rispetto agli aiuti
intuitivi citati sopra.
Alla luce di queste considerazioni possiamo affermare che l'operatore deve
essere in grado di stabilire una relazione d'aiuto con il paziente e nello stesso
tempo attuare il counseling, ma per raggiungere tale obbiettivo è necessario
che l'operatore stabilisca una relazione di dialogo con il paziente per poterlo
conoscere e comprendere in modo da focalizzare dove sia necessario un
aiuto e una crescita.

Esso si sviluppa “ sulla originaria intuizione Rogersiana secondo la quale se


una persona si trova in difficoltà il miglior modo di venirle in aiuto non è quello
di dirle cosa fare , facendo unicamente attenzione al fatto che il consiglio sia
sensato rispetto alla situazione, quanto piuttosto quello di aiutarla a
comprendere la situazione e a gestire il problema prendendo da sola e
pienamente la responsabilità delle scelte eventuali.”
A questo punto occorre parlare di relazione d'aiuto partendo dagli studi condotti da
Rogers.

Carl Rogers tramite la sua opera nel 1951 diede avvio alla psicologia
umanistica con la pubblicazione del libro "La terapia centrata sul cliente".In
questa opera sono illustrati i fondamenti teorico/pratici del suo
metodo :terapia non direttiva
Nel metodo suggerito da Rogers pur tenendo conto delle tendenze vitali
dell’individuo,ci si limita a creare nel paziente (accompagnandolo
con empatia) le condizioni necessarie a favorirne la crescita.
L'approccio con il paziente deve quindi essere basato su 3 elementi:
• Genuinità: Il terapeuta deve mostrarsi per quello che è, deve essere
aperto e trasparente senza nascondersi dietro il proprio ruolo o le regole del
setting.

• Empatia: Il terapeuta non deve mostrare al cliente il proprio punto di


vista ma deve assumere il punto di vista del cliente che in questo modo si
sente meglio compreso e apprezzato e lascia quindi emergere pensieri o
sensazioni più profonde che prima temeva di portare a livello cosciente e
verbalizzare.

• Accettazione positiva incondizionata: ossia manifestare totale fiducia


nelle capacità di autorealizzazione della persona, astenendosi da qualunque
giudizio o valutazione.

Per Rogers la persona già possiede le capacità per auto-comprendersi,


modificare e migliorare il proprio comportamento (tendenza attualizzante).
Ruolo del Terapeuta e' facilitare questo compito creando un clima di
accettazione, empatia, responsabilizzazione, che faciliti l'auto-realizzazione
del Cliente.

Fu proprio Rogers ad abbandonare infatti il termine paziente per sostituirlo


con quello di cliente, ad indicare che non esiste un “processo di guarigione”,
non esiste una mente malata.
La salute mentale e' vista come un normale proseguo della vita dell'uomo,
mentre i problemi che possono insorgere derivano da una distorsione della
“tendenza attualizzante”.
Questa tendenza e' come dicevamo prima la volontà naturale di vivere,
migliorarsi, conservarsi, modificarsi.

Se Rogers rappresenta un esponente di spicco della Psicologia umanistica,


molti altri possono essere annoverati tra i teorici di questo movimento,
definito da Abraham Maslow come la "Terza Forza" della psicologia; cioè
un'alternativa alle due psicologie allora imperanti, la psicoanalisi classica ed il
comportamentismo positivistico. Oltre al già citato Maslow, forse il più
brillante esponente di questo movimento, si sono messi in luce Jacob Levi
Moreno,Erich Fromm, Fritz Perls, Alexander Lowen e molti altri.

Nel 1954 lo psicologo Abraham Maslow propose un modello motivazionale


dello sviluppo umano basato su una “gerarchia di bisogni”, cioè una serie di
“bisogni” disposti gerarchicamente in base alla quale la soddisfazione dei
bisogni più elementari è la condizione per fare emergere i bisogni di ordine
superiore.
Alla base della piramide ci sono i bisogni essenziali alla
sopravvivenza mentre salendo verso il vertice si incontrano i bisogni più
immateriali.
Part
endo
dalla
base
della
Pira
mide
Moti
vazi
onal
e (o
dei
Biso
gni) ci sono:
• i bisogni FISIOLOGICI: fame, sete, sonno, termoregolazione, ecc. Sono
i bisogni connessi alla sopravvivenza fisica dell'individuo. Sono i primi a dover
essere soddisfatti a causa dell'istinto di autoconservazione;
• i bisogni di SICUREZZA: protezione, tranquillità, prevedibilità,
soppressione preoccupazioni e ansie, ecc. Devono garantire all'individuo
protezione e tranquillità;
• i bisogni di APPARTENENZA: essere amato e amare, far parte di un
gruppo, cooperare, partecipare, ecc.; Questa categoria rappresenta
l'aspirazione di ognuno di noi a essere un elemento della comunità;
• i bisogni di STIMA: essere rispettato, approvato, riconosciuto, ecc.
L'individuo vuole sentirsi competente e produttivo;
• i bisogni di AUTOREALIZZAZIONE: realizzare la propria identità in
base ad aspettative e potenzialità, occupare un ruolo sociale, ecc. Si tratta
dell'aspirazione individuale a essere ciò che si vuole essere sfruttando le
nostre facoltà mentali e fisiche.
Mentre i bisogni fondamentali, una volta soddisfatti tendono a non
ripresentarsi, i bisogni sociali e relazionali tendono a rinascere con nuovi e
più ambiziosi obiettivi da raggiungere. Ne consegue che l’insoddisfazione, sia
sul lavoro, sia nella vita pubblica e privata, è un fenomeno molto diffuso che
può trovare una sua causa nella mancata realizzazione delle proprie
potenzialità.
Per Maslow, infatti, l’autorealizzazione richiede una serie di caratteristiche di
personalità ,competenze sociali e capacità tecniche.
Il modello di Maslow è fortemente centrato sul meccanismo di
autodeterminazione dell’individuo, facendo risalire le spinte motivazionali
esclusivamente a fattori interni, ignorando l’interazione tra l’individuo e
l'ambiente esterno.

Un altro aspetto è la rigidità dello schema che spiega il comportamento


dell’individuo. Non necessariamente un soggetto deve passare attraverso tutti
i livelli della scala gerarchica. La teoria di Maslow, infine, esclude che un
individuo possa essere spinto da più bisogni contemporaneamente anche se
con diversa intensità.
L'idea centrale che coagula l'operato di scuole e autori per tanti versi
divergenti, nella grande corrente della psicologia umanistica, è il tentativo di
definire un nuovo concetto di salute.
L'individuo "sano", in questa prospettiva, sarebbe colui che giunge alla
propria "autorealizzazione", al pieno sviluppo delle proprie potenzialità, colui
che diventa ciò che è, e non un semplice "adattato".
Maslow afferma:"In sostanza respingo deliberatamente la nostra presente, e
troppo facile, distinzione tra malattia e salute, almeno per quanto riguarda
i sintomii superficiali.
Essere ammalati significa forse accusare sintomi?
Ebbene, sostengo che la malattia può consistere nel non accusare alcun
sintomo quando dovrei accusarlo.
E la salute, significa esser privi di sintomi? Lo nego.
Quale dei nazisti ad Auschwitz o a Dachau era in buona salute?
Quelli con la coscienza tormentata, o quelli la cui coscienza appariva loro
chiara, limpida serena?
In quella condizione, una persona profondamente umana era possibile non
avvertisse conflitto, sofferenza, depressione, furia e così via?
In una parola, se mi direte di avere un problema di personalità, prima di
avervi conosciuto meglio non sarò affatto certo se dovrò dirvi 'bene!' oppure
'mi dispiace'".
In questa direzione, lo stesso autore, in Motivazione e personalità, ha
descritto una serie di tratti che a suo parere connotano le persone in via
di autorealizzazione, cioè coloro che vanno oltre la 'normalità', coloro che
sono realmente "sani".
Questi individui manifestano caratteristiche che vanno da una più accurata
percezione della realtà all'assenza di atteggiamenti difensivi e artificiosi, da
una fondamentale semplicità e naturalezza, ad una maggiore capacità di
distacco e autonomia dall'ambiente, da un'intelligenza critica e creativa, ad
una disposizione ad instaurare relazioni più collaborative, ricche e liberanti, e
così via.
L'approccio centrato sulla persona, sviluppato da Carl Rogers, si basa infatti una
concezione positiva della persona partendo dal presupposto che ognuno abbia valore e
capacità di autodeterminazione .

Rogers nel 1951 ha definito relazione d'aiuto come "una relazione in cui
almeno uno dei due protagonisti ha lo scopo di promuovere nell'altro la
crescita, lo sviluppo, la maturità ed il raggiungimento di un modo di agire più
adeguato e integrato. L'altro può essere un individuo o un gruppo.
In altre parole, una relazione di aiuto potrebbe essere definita come una
situazione in cui uno dei partecipanti cerca di favorire in una o ambedue le
parti, una valorizzazione maggiore delle risorse personali del soggetto ed una
maggior possibilità di espressione".

La specificità che la distingue dalle altre relazioni umane è l'aspetto


metacognitivo:
per competenza d'aiuto si intende infatti la capacità di dare vita ad una
relazione umana in modo consapevole, controllato ed intenzionale,
padroneggiando razionalmente abilità "che sono un tutt'uno con ciò che si è".

Elementi centrali della relazione d'aiuto sono:

- contatto psicologico, inteso come relazione interpersonale che si instaura


affinché sia possibile il counseling;

- incongruenza, che consiste nella discrepanza tra l'esperienza reale e


l'immagine di sé che l'individuo ha quando si rappresenta tale esperienza.
Quando il soggetto non ha consapevolezza della sua incongruenza, allora si
troverà in una condizione di vulnerabilità, mentre quando ne è cosciente si
genererà uno stato di tensione detto ansia. L'incongruenza caratterizza il
cliente;

- congruenza, cioè la condizione sperimentata dal soggetto che consente di


essere liberamente se stesso nel corso della relazione e del colloquio. Il
counselor si trova in uno stato di congruenza;

- comunicazione: fa riferimento al fatto che la persona alla quale ci rivolgiamo


percepisca l'accettazione e l'empatia che il counselor manifesta nei suoi
confronti.

Secondo l'approccio Rogersiano l'individuo e' una totalità tra mente e corpo,
tende a sviluppare autonomamente le proprie potenzialità e ad
autodeterminarsi. Tutti gli stati d'animo e le emozioni che prova concorrono a
determinare la sua esperienza che viene prima percepita, poi parte di essa
diviene consapevole e da ciò ne deriva il concetto di se' che ha la persona,
come cioè si auto-percepisce.

Normalmente l'uomo, che tende ad essere coerente con l'immagine di se',


mantiene le proprie consapevolezze in modo da non turbare il proprio
“equilibrio”, equilibrio che si “spezza” nel momento in cui vi sono delle
contraddizioni nelle nozioni che possiede e ciò crea tensione ed ansia.
A questo punto delle due nozioni ne scarta una, quella che più si allontana
dalle proprie consapevolezze a favore di quella che ne da invece conferma.
Perché avvenga questa “congruenza” e' necessario che non vi siano
impedimenti tra l'esperienza vissuta ed il concetto di se'
.
Ma come si forma il concetto di se'?
Durante lo sviluppo della persona nella fase infantile, proprio perché essa e'
spinta in maniera naturale ad autorealizzarsi ed a sviluppare le proprie
potenzialità, sorge la necessità di sentirsi apprezzata, capita, protetta ed
amata, soprattutto dalle persone cardine che la circondano, (persone
criterio) come ad esempio genitori ed insegnanti.
Se questo avviene senza condizioni, il bambino svilupperà un buon concetto
si se'.
Al contrario, se questo non avviene ad esempio nel caso in cui siano
frequenti atteggiamenti del tipo “sei bravo solo se...”, il bambino non
svilupperà un buon concetto di se' in quanto vivrà un'incongruenza tra la sua
esperienza ed il suo bisogno di considerazione positiva.

Da adulto il suo concetto di se' andrà sottostare in maniera rigida al bisogno


di considerazione positiva e ciò gli creerà problemi nell'avere la giusta
consapevolezza rispetto alla propria esperienza.

In questo caso sorgeranno meccanismi di difesa per non creare


disorganizzazione nel concetto che la persona ha di se stessa e verrà
“corrotto” il processo “esperienza-consapevolezza” (o simbolizzazione)
Ad esempio una persona molto triste non percepirà la sua tristezza oppure si
“racconterà” che e' leggermente giù di tono. (distorsione della
consapevolezza).

Ciò creerà una disarmonia nel lato emotivo-cognitivo della persona che la
può portare nel primo caso (in cui proprio non percepisce il suo vero stato
d'animo) ad esempio a somatizzare il problema.
In ogni caso, non essendo consapevole della propria esperienza gli e' lesa la
libertà di effettuare le proprie scelte e di crescere in maniera positiva.
Serve però attenzione per il modo in cui tali sentimenti vengono comunicati e
compresi.
Se queste condizioni sono presenti, allora secondo Rogers si verificherà una
modificazione costruttiva della personalità del cliente; altri autori successivi
hanno affermato che questi sei elementi sono necessari ma non sufficienti
per la buona riuscita del counseling.

Il counseling in ambito sanitario ha l’obiettivo di fornire il supporto necessario


a fronteggiare la vasta gamma di aspetti psicosociali connessi alla malattia.
Ogni operatore sanitario può utilmente utilizzare tecniche di colloquio, ma si
può parlare di counseling infermieristico nel momento in cui gli infermieri
apprendono specifiche competenze e imparano ad adottare un particolare
stile di conduzione.

Assumere stili e competenze di counseling infermieristico significa prendersi


cura della persona in modo più nascosto e discreto, aiutandola ad affrontare
quello che è il suo problema in quel momento, facendole rafforzare
l’immagine di sé e l’autostima rispetto alla qualità della vita.

Doti fondamentali per l'operatore socio sanitario sono la disponibilità e l’abilità


di comunicare, nonché la comprensione e l’ascolto attivo e la capacità di
affrontare il silenzio che spesso esprime sentimenti come ansia, paura,
tristezza o imbarazzo.

L’ascolto alla persona ammalata è costituito da tre elementi essenziali: il


prestare attenzione, la verifica della percezione, il feedback. Prestare
attenzione significa manifestare interesse per la persona anche attraverso
il linguaggio del corpo ossia attraverso il contatto visivo, la postura,
l’atteggiamento calmo, uniti a commenti verbali che servono a confermare
l’ascolto.

Per quanto riguarda la verifica della percezione, bisogna accertarsi di aver


compreso ciò che il paziente ha espresso ricapitolando e riformulando volta
per volta il messaggio. Infine un feedback verbale e non verbale serve
per rassicurare il paziente che il messaggio è stato compreso.

Il counseling infermieristico, se messo in atto dagli operatori dopo


un’accurata formazione, può essere uno strumento per il paziente per
elaborare, sistematizzare, ristrutturare, comprendere e infine accettare.

Possiamo quindi certamente affermare che: il Counseling infermieristico è


un processo di educazione terapeutica.

Nella gestione di malattie croniche,il counseling si propone di utilizzare un


percorso di educazione terapeutica che possa coinvolgere l’utente
nell’empowerment, motivandolo e facendogli accettare di essere
protagonista della cura e creando le condizioni migliori perché aderisca a
questo ruolo che gli conferisce potere.

È necessario che l'operatore consideri i bisogni di conoscenza espressi


dal paziente, definisca le sue competenze e sappia attivare le risposte nel
momento e nel modo più appropriato: l’informazione fa parte del dialogo tra il
personale sanitario e l’utenza ed è costituita da un insieme di notizie,
raccomandazioni, istruzioni.

Tuttavia, mentre l’informazione è un processo centrato su chi la fornisce,


quando parliamo di educazione, la focalizzazione si sposta su colui che
apprende.

L’educazione terapeutica è un percorso che si propone di aiutare la persona


malata (con la sua famiglia e nell’ambiente che lo circonda) ad acquisire e
mantenere la capacità di gestire, in modo ottimale, la propria vita convivendo
con la malattia.
L’educazione terapeutica nell’ambito del counseling infermieristico è un
processo di apprendimento sistemico e centrato sul paziente.
L’azione dell’infermiere non è più solo di individuare “ciò che manca”,
analizzando i bisogni del paziente, ma anche di identificare le potenzialità
della persona, ossia le risorse ed i punti di forza su cui agire. I “risultati di
salute” non dipendono solo dalla qualità tecnica della prestazione, ma
trovano radici più profonde nella responsabilizzazione dei soggetti
coinvolti attraverso il counseling infermieristico.

Per instaurare una buona relazione d'aiuto l'operatore deve manifestare:

•Congruenza

•Valutazione della distanza

•Rispetto dell’altro

•Rispetto dei tempi

•Accettazione della totalità dell’altro

•Attivazione delle potenzialità dell’altro

•Rispetto per se stessi

•Accettazione dei limiti personali

•Sospensione di valutazioni e giudizi

La fiducia nell'operatore si stabilisce se vengono realizzate le seguenti


condizioni:
• Clima di accettazione

( e non di selettività)

• Capacità di cogliere i significati del paziente

( e non cercare solamente di inquadrare il problema presentato, all’interno di


una cornice diagnostica pre-costituita)

• Trasmissione di un senso di comprensione profonda e di ascolto attento

• Desiderio reale di comprendere più che di risolvere o prescrivere

• Profondo rispetto dell’individualità del paziente


(evitare di creare situazioni di dipendenza)

• Capacità di contenimento

Alla base di una buona comunicazione ricordiamo fondamentali

•Le Parole

•L’attenzione e l’ascolto

•L’immediatezza

•Il pregiudizio e il giudizio

•La neutralità e la distanza

•Le aspettative

•Il rischio

•Il lavoro di equipe

•La supervisione e la formazione


La comunicazione come interscambio di significati ha origini antichissimee
qualcuno la fa risalire fino agli albori della comparsa dell'uomo sulla terra
quando comunicare era questione di vita e di morte.
Infatti l'abilità del saper comunicare era essenziale per poter stare assieme e
quindi affrontare in modo produttivo le difficoltà che un uomo primitivo doveva
affrontare.
Allora forse il bisogno fondamentale era nutrirsi per cui saper comunicare
serviva a organizzare un gruppo efficace che sapeva procacciarsi il cibo..Ora
che di norma non abbiamo più bisogno di procurarci il cibo con la
caccia ,saper comunicare significa saper cogliere le opportunità per stare
assieme senza conflitti.
La comunicazione diventa un'esperienza totalizzante che coinvolge la totalità
dell'individuo., è l'elemento essenziale attraverso il quale si realizza il
rapporto socila, o meglio ancora la comunicazione è il rapporto stesso.
Poiché non esiste relazione sociale se non attraverso la comunicazione, sia
essa verbale o non verbale.
Ovviamente non esiste un'unica comunicazione, ma tante quante sono le
scienze riconosciute; infatti ogni scienza comunica in base a un suo proprio
linguaggio e a un suo proprio codice.

Ma come avviene nel rapporto comunicativo la trasmissione delle


informazioni?
Quali immagini, quali parole , quali sensazioni si fissano nella mente di chi
ascolta un messaggio?

I molti interrogativi trovano risposte nelle teorie formulate da Jakobson che


definisce l'atto del comunicare come la somma di più fattori

Ne individua sei:
emittente,
ricevente,
messaggio,
canale,
contesto,
codice
precisando che né l'emittente né il ricevente devono essere disturbati durante
la fase di trasmissione dei dati., ossia se si vuole comunicare bene l'emittente
dovrà conoscere bene il ricevente che dal canto suo dovrà abituarsi a porre le
domande, chiedere spiegazioni, per essere ricevuto bene il messaggio.

La teoria della trasmissione delle informazioni elaborata da Singh é


leggermente diversa, vi individua cinque tempi per spiegare il cammino dell
'informazione.
I nomi sono simili a quelli usati da Jakobson, sorgente d'informazione,
codificatore, canale, decodificatore, ricevitore con la differenza che viene
eliminata una tappa: il contesto.In realtà Singh non ignora questa tappa , ma
considera la comunicazione seguendo un modello diverso, un viaggio di
decodifica, quasi indipendente dal contesto poichè Singh dice che non
trasmettiamo messaggi , ma segnali, cioè messaggi codificati dall'emittente e
decodificati dal ricevente.

Ecco i motivi per cui nonostante la buona volontà del ricevente il messaggio
non passa e la comunicazione non si stabilisce. O se ne altera il significato,
proprio per un errore di decodifica.
Nella realtà questo succede molto spesso, per questo occorre capire nei vari
sistemi comunicativi il vero significato di quello che le parti vogliono
comunicare.
Per esempio nel linguaggio orale la sorgente di informazione è il cervello,il
codificatore il meccanismo vocale che produce l'emissione sonora variabile, il
segnale,che viene trasmessa attraverso l'aria, il canale. Un meccanismo
semplice che si complica nella realtà quotidiana.

Oltretutto una volta arrivata al ricevente l'informazione torna indietro


ripercorrendo la strada a senso inverso e il ricevente diventa emittente così di
seguito.
Ossia fra le persone ci sono flussi comunicativi continui che però si
modificano in base alle risposte che ricevono
Per esemplificare questa teoria potremmo fare l'esempio di un reparto
ospedaliero: la sorgente d'informazione (l'operatore) sceglie alcune
informazioni su un paziente ricoverato in merito al suo trasferimento ad un
altro reparto.
Nello stesso tempo sceglie il tipo di segnale adatto a trasmettere
l'informazione (codificatore) decidendo di usare il linguaggio verbale, come
nelle consegne.
Il canale, ossia lo spazio fisico potrebbe essere la guardiola dell'infermiere,
un luogo tranquillo.
La persona a cui è stato trasmesso il messaggio riceve l'informazione e la
traduce in messaggio esplicito ( es appena sono nel reparto mi rivolgo alla
capo-sala) ossia decodifica il messaggio e lo interiorizza diventando
ricevitore,d'altro canto la persona rimanda al suo interlocutore un messaggio
con gesti, parole , silenzi o altro facendo capire cosa e quanto ha capito
l'informazione ripercorre così in senso inverso il percorso ripercorrendo le
cinque tappe che assumeranno una nuova valenza:il soggetto sarà sorgente
di informazione e l'operatore il ricevente.
E' evidente che in questo andirivieni delle informazioni qualsiasi disturbo può
nuocere al buon risultato della comunicazione.
Durante la mia esperienza di tirocinio presso la struttura riabilitativa
dell'ospedale di Cremona, ho assistito a ogni cambio turno allo scambio delle
consegne.
Proprio in quella circostanza mi sono resa conto che la differente
trasmissione delle informazioni da parte dei vari operatori è significativa per
rendere evidenti a tutti l'importanza di alcune notizie rispetto ad altre,
soprattutto nel caso di nuovi ingressi di pazienti portatori di protesi alle
articolazioni.
Talvolta le stesse informazioni tornavano indietro fra un operatore e un altro,
un turno e un altro, proprio perchè trasmesse in maniera poco efficace.

Io stessa, in leggera difficoltà per la scarsa esperienza, dovevo


continuamente scrivere le varie comunicazioni per evitare di dimenticarle.

Fortunatamente sono stata accolta da team molto ben gestiti e non ho avuto
nessuna difficoltà nel ricevere le necessarie comunicazioni, per essere io
stessa d'aiuto e non d'intralcio nello svolgimento delle mansioni a me
assegnate.

Strumento principe della comunicazione è il linguaggio, che il senso comune


individua nel linguaggio orale .
In varie situazioni è però evidente l'importanza di linguaggi non verbali che si
impongono in molte situazioni pratiche., anzi talvolta sono le uniche possibili
per accedere ai sentimenti, alle emozioni, alle ansie e ai desideri di una
persona .

I linguaggi non verbali sembrano provenire direttamente dall'anima cioè dalla


parte più emozionale di noi, mentre i linguaggi verbali sembrano come va”..e
quante volte la risposta verbale, “va bene” non trova corrispondenza con
un'espressione del viso che rivela invece provenire dalla mente, cioè dalla
nostra componente razionale., ma talvolta il razionale e l'emotivo non
collimano.
Quante volte da operatori del sociale ci avviciniamo a un degente chiedendo
“come va” e anche se la risposta è “va bene” l'espressione del viso rivela
paura, ansia , preoccupazione.
In linea di massima la comunicazione non verbale si basa su:

movimenti espressivi del corpo, del volto, delle mani

inflessioni della voce, tono, ritmo, cadenza delle parole.

Il codice linguistico è necessario per far passare le informazioni e ogni


persona possiede un personale codice linguistico, che può essere influenzato
da molti fattori:
l'esperienza vissuta,il tipo di attività svolta, lo stato d'animo di quel
momento,la motivazione che si pone nel trasmettere i messaggi.
Alcune persone usano messaggi di tipo paralinguistico, vocalizzazioni
aggiuntive (ah,ehm,è vero,certo..) che sovente sono più espressive dell'intera
frase.
Alcune persone hanno l'abitudine di accompagnare le parole con gesti.
Sembra tra l'altro che queste abitudini siano diverse a seconda della cultura o
del ceto sociale e a cui apparteniamo.

Secondo Bernstein esistono due diversi codici linguistici:

codice ristretto, caratterizzato da brevi frasi, ripetizioni di congiunzioni,


ampio uso della comunicazione non verbale

codice elaborato che si distingue con proprietà opposte al codice ristretto.

Il codice ristretto é usato nelle classi sociali inferiori, in ambienti scarsamente


acculturati, il codice elaborato è più facilmente in uso nelle classi sociali
medio alte, che vantano maggiore cultura.

A distanza di tempo le teorie di Bernstein potrebbero essere rivisitate e


adattate alle nuove realtà sociali, rimane il fatto che le persone adottano un
codice linguistico a volte elaborato , a volte ristretto a seconda delle
esperienze maturate o degli ambienti in cui si ha occasione di comunicare.

Ne consegue una presa di coscienza da parte degli operatori nei confronti


degli assistiti, volta ad aiutare la comunicazione specie quando questa si
avvale di codici poveri.
In questo gioca molto il fattore tempo, che può tradursi in pazienza
nell'ascolto e capacità di saper leggere il non detto.

Spesso infatti riceviamo più informazioni dal non detto che dal detto, ma per
questo occorre allenare la nostra attenzione a cogliere nessi significativi,
riconoscere la vasta gamma di linguaggi non verbali.

Da una buona capacità di lettura derivano infatti preziose informazioni sul


reale stato emotivo della persona con cui si interagisce, in particolare
quando essa non sa esprimere o non osa esprimere il proprio reale sentire.

Nel corso del mio tirocinio nel reparto di riabilitazione, ho approfittato delle
pause dalla routine del lavoro quotidiano per cercare di approcciare le
persone ricoverate e instaurare con alcune di esse una sorta di relazione
d'aiuto, attraverso l'ascolto .
Alcuni degenti per motivi di salute erano nel reparto già da alcune settimane
e quindi ho potuto relazionarmi in modo positivo.

A tale proposito occorre ricordare che una relazione di aiuto è possibile nella
misura in cui posso realizzare condizioni capaci di facilitare la crescita
dell’altro,crescita intesa anche come soddisfazione di bisogni.

Questa capacità è strettamente correlata con la crescita personale e


l'autostima.

Qualunque sia il grado di maturità raggiunto è fondamentale la


consapevolezza :

-della reciprocità della relazione ( aiutare l’altro fa crescere me stesso)

-dei propri stati d’animo e dei propri atteggiamenti-dei limiti dell’intervento

La spiegazione del desiderio di aiutare il prossimo può essere ricondotta


sostanzialmente a tre motivazioni:

-genetiche e antropologiche ( sopravvivenza della specie, cooperazione,


senso di appartenenza)

-psicodinamiche : identificazione (mettersi nei panni) con i soggetti più fragili


e sfortunati legata a numerosi e complessi meccanismi di difesa del terapista
-ideali e/o religiose (umanesimo, carità cristiana, compassione, senso di
fratellanza etc…)

(da Giancarlo Nivoli)

Nella realizzazione della relazione di aiuto è fondamentale per l'operatore


riconoscere:
-la reciprocità della relazione

-le motivazioni personali

-le emozioni , i pensieri e i comportamenti suscitati dalla relazione

-i personali meccanismi difensivi


(utile la supervisione e il training personale)

Questa consapevolezza permette una reale e profonda comunicazione e


porta a livelli
sempre più crescenti di comprensione riducendo nel contempo le
reciproche
manipolazioni.

Ciò che l’operatore pensa, fa e si aspetta ha a che fare con le sue


rappresentazioni mentali (fantasmi) preesistenti e delle quali spesso si è
assolutamente inconsapevole.

In linea molto generale possono essere indicate tre tipologie di fantasmi :


L’operatore si pone in una posizione di superiorità nei confronti di coloro
con cui lavora, singoli o gruppi per fare un’operazione di rinnovamento in
base ad una propria visione di “forma normale”
appartengono a questa tipologia :

il formatore,

il militante,

il trasgressore.

L’operatore condivide la sofferenza e cerca di fare di tutto per risolverla


o eliminarla ponendosi come colui che ha il potere di farlo.
Spesso questa funzione collude con le implicite richieste sociali di tenere”
buoni e sotto controllo” le persone problematiche.

Appartengono a questa tipologia:

il riparatore,

il salvatore.

L’operatore accompagna le persone con l’intento di far uscire la positività


che c’è in loro.Parte dal presupposto che tendenzialmente tutti hanno questa
tensione al cambiamento positivo e che solo fattori esterni hanno soffocato
e/o impedito.

Appartengono a questa tipologia :

il maieuta,

il terapeuta.

La trappola comune a tutte queste tipologie è quella di aspettarsi in tutti i


casi la guarigione e risultati positivi.

Ho voluto affrontare la tematica della relazione d'aiuto, collegandomi alle


teorie più conosciute nell'ambito degli studi di psicologia perchè in effetti il
mio sogno alla fine del percorso magistrale, era quello di orientarmi verso
questi studi.

La vita in realtà più che offrirci delle opportunità ci mette di fronte a situazioni
che non ci lasciano vie di uscita e i sogni rimangono..sogni.

Ora che mi trovo di nuovo senza scampo di fronte a nessuna prospettiva e a


poche opportunità, sono forse più libera di mettere in pratica queste teorie,
avvalendomi della mia esperienza soprattutto di madre, di moglie, ma anche
di operatore che svolge il suo lavoro ( ancora per poco ) in un ambiente dove
riscontro ogni giorno il bisogno delle persone di comunicare.

Non parlo quindi solo di comunicazione verbale, ma soprattutto di attenzione


ai bisogni, spesso di natura pratica, ma se si è in grado di non fermarsi al
primo approccio, talvolta sorgono spontanei contatti di natura molto più
personale.

Fermo restando che so bene di avere il terribile difetto di voler cambiare il


mondo da sola, vorrei ribadire che quelle che possono sembrare teorie e
poco più, in realtà sono principi davvero utili se messi in pratica con
attenzione e senza voler strafare.

Durante la mia esperienza in Casa Famiglia, anche se spesso lavoro di notte e


quindi mi occupo solo di bambini, ho avuto modo di affrontare alcuni
problemi di relazione con mamme che non accettano consigli e pensano di
essere nel giusto, pur comportandosi in maniera palesemente scorretta .
L'approccio nei loro confronti diventa oltremodo difficile e il buon esempio da
solo spesso non basta, anzi diventa un modo per lasciar fare ad altri.
Occorre quindi mediare sempre fra il dare l'esempio e stare a guardare, senza
perdere la pazienza se i risultati non arrivano, e in alcuni casi non arrivando
mai si risolvono con il distacco del bambino.
Tale situazione, vissuta da alcune mamme in modo indifferente o
apparentemente tale, rimane ancora per me l'esperienza più triste e
inaccettabile che ho dovuto affrontare.
Ciò dimostra che devo ancora acquisire il livello di empatia che mi aiuti ad
affrontare un'esperienza di lavoro nel sociale.
Il tirocinio formativo che ho affrontato nel reparto di riabilitazione generale
dell'ospedale di Cremona, ha indubbiamente messo in crisi molte delle
certezze che la mia età e l'esperienza lavorativa che ho alle spalle mi aveva dato.
Mi sono scontrata con figure professionali molto preparate e con un team di
lavoro ben organizzato. Purtroppo il mio precedente corso ASA, di dieci anni
fa, non era supportato da un tirocinio valido dal punto di vista pratico.
Sono dovuta partire da zero, senza risorse e senza la benchè minima pratica
che mi potesse agevolare nel seguire una figura professionale quale è l'OSS in
un reparto riabilitativo ospedaliero.
E' evidente che oltre a sentirmi un pesce fuor d'acqua l'unica arma che ho
potuto sfoderare è stata quella della buona volontà, cercando di approfittare
della disponibilità di molte persone che nel reparto lavorano.
Durante i primi giorni mi sono sentita davvero un'incapace soprattutto perchè
gli operatori, molto preparati e sicuri, sollecitavano in continuazione la mia
attenzione lamentando la mia scarsa concentrazione.
Ho temuto davvero di perdere la speranza di ottenere buoni risultati.
L'unica certezza che mi ha evitato una crisi di panico è stata questa mia
grande passione per la relazione d'aiuto, che ho cercato in tutti i modi di
mettere in pratica, ricevendo tanto affetto da parte dei degenti, che in alcune
situazioni mi rincuoravano e sostenevano.Alla fine tutti quanti mi chiamavano
per nome e sapevano di poter contare su di me per una parola di conforto o
una manopola bagnata passata su un viso accaldato.
Fortunatamente nel corso delle settimane, forse avendo colto e apprezzato la
mia disponibilità ho riscontrato un po' più di fiducia e finalmente qualche
operatore mi ha lasciato gestire in autonomia l'approccio ai pazienti più
autonomi e meno critici. Anche io spesso devo affiancare tirocinanti che
vengono in farmacia per imparare il mio mestiere, quindi so per certo che
operare su un paziente e insegnare nello stesso momento a un'altra persona a
fare il lavoro è doppiamente difficile. Per me poi che devo insegnare a delle
farmaciste che prenderanno il mio posto...è molto oneroso, dal punto di vista
psicologico.
Sono certa che ciò che ho imparato a “fare” grazie alla pazienza del personale
che mi ha fatto vedere più volte, mi hanno permesso di acquisire un ordine
mentale e un modus operandi che potrà essermi utile in qualsiasi attività
lavorativa andrò ad affrontare.
La mia inclinazione è quella di offrire assistenza ai bambini, ma spero di
riuscire ad affrontare, se avrò l'occasione, un lavoro socialmente utile in cui
questa mia predisposizione alla relazione d'aiuto sia veramente d'aiuto a chi ne
ha comunque bisogno.

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