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NELL’AMBITO SOCIO-EDUCATIVO
A cura di
ANGELUCCI EDDA
FERIAN DINO
1
INDICE
INTRODUZIONE pag.1
CAP. II IL COUNSELING
CONCLUSIONE pag.78
2
LA RELAZIONE D’AIUTO E LA SUA UTILIZZAZIONE
NELL’AMBITO SOCIO-EDUCATIVO
INTRODUZIONE
3
Riuscire a sviluppare una competenza di gestione in queste relazioni è il
compito che ci proponiamo di affrontare nel nostro lavoro. Cominceremo
esponendo i principi teorici alla base della relazione d’aiuto, soffermandoci in
particolare sul contributo dato da Carl Rogers e da Robert Carkhuff.
Successivamente illustreremo le modalità pratiche attraverso le quali condurre
un colloquio d’aiuto.
Una relazione di aiuto è un “incontro” tra due persone di cui una si trova in
condizioni di sofferenza, confusione, conflitto o disabilità, rispetto ad una
determinata situazione o a un determinato problema e un’altra è dotata di un
grado superiore di integrazione, competenza e abilità rispetto a queste
situazioni o tipo di problema.
Se fra queste due persone si riesce a stabilire una relazione che sia
effettivamente d’aiuto allora è probabile che la persona in difficoltà inizi
qualche movimento di maturazione, chiarificazione e apprendimento che la
porti ad avvicinarsi all’altra persona, assorbendone, in un certo senso le qualità,
o comunque a rispondere in modo più soddisfacente al proprio ambiente e alle
proprie esigenze interne ed esterne.
L’aiuto, tuttavia, non consiste tanto nel proporre soluzioni, quanto piuttosto nel
togliere ostacoli emozionali, cognitivi, ecc;, rendendo possibile il dispiegarsi
delle potenzialità che la persona in difficoltà possiede.
L’attore principale del processo di aiuto è, pertanto, colui che questo aiuto
ricerca e richiede. Questo è quanto ha elaborato Rogers con la sua “Terapia
centrata sul cliente”.
4
La relazione d’aiuto consiste fondamentalmente in un incontro tra due persone
“vere”. Se infatti la relazione di aiuto deve permettere all’altro di acquisire
nuove competenze, abilità e attitudini umane, queste stesse doti devono essere
possedute ed esercitate in modo manifesto dall’operatore. Quindi più che le
abilità tecniche contano le qualità personali dell’operatore, senza per questo
escludere il valore della sua competenza tecnica.
.
La relazione d’aiuto, infine, non è monopolio delle professioni d’aiuto: essa è
una relazione umana. La relazione madre bambino è per gran parte relazione
d’aiuto; molte relazioni amicali, familiari, di vicinato sono relazioni d’aiuto;
molte relazioni professionali tipo insegnante allievo, medico paziente, ecc.
possono assumere connotazioni di relazione d’aiuto. Quello che caratterizza
una valida relazione d aiuto è fare in modo consapevole, controllato e
intenzionale ciò che una persona fa spontaneamente nella sua vita quotidiana.
Sarebbe pertanto molto utile sostenere e potenziare le naturali capacità d’ aiuto
di coloro che nella loro vita o nello svolgimento della loro professione sono a
stretto contatto con situazioni di difficoltà.
- Il counseling (o consulenza)
- La psicoterapia
- Il lavoro sociale
Il counseling
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La psicoterapia
Il lavoro sociale
Questo tipo d’intervento non si focalizza sulle dimensioni interne della persona
(conflitti o vissuti deformati), ma sulle dimensioni esterne del comportamento
e sulle abilità di vita. Esso si propone un’azione educativa o rieducativa per
migliorare il funzionamento sociale della persona, per permettere alla persona
di darsi degli obiettivi e di tirar fuori le capacità per perseguirli. In particolare
gli obiettivi riguardano la sopravvivenza, la sanità, le relazioni sociali, la vita
lavorativa e quella economica.
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CAP. I. IL CONTRIBUTO DI CARL ROGERS
1.1. Cenni biografici
Parlare di consulenza non direttiva significa parlare della teoria di Rogers, uno
studioso il cui percorso evolutivo si è basato su una pratica clinica tanto isolata
dall’influsso delle teorie correnti da far sì che egli stesso sia stato a lungo
inconsapevole del grado di originalità di tali idee. E’ importante presentare la
sua teoria della personalità per capire meglio le sue pratiche terapeutiche.
Carl Rogeers nasce a Oak Park, nell’Illinois, nel 1902. Cresce in una famiglia
numerosa e molto unita e nella quale il duro lavoro e la religione protestante
erano tenuti nella massima considerazione. Quando Carl ha dodici anni la
famiglia si trasferisce in campagna, a vivere in una fattoria, spinta dal
desiderio di pace ma anche, egli suppone, dal desiderio di allontanare i figli
adolescenti dalle tentazioni della vita di città. Il padre, intenzionato a gestire la
fattoria su basi scientifiche, compra molti trattati di agricoltura e Carl, che si
occupa dell’allevamento degli animali, li legge avidamente e compie i primi
esperimenti, introducendo nel suo impegno pratico, una metodologia
scientifica. Il suo interesse per le scienze lo porta a laurearsi, nel 1924, in
scienze fisiche e biologiche. Trasferitosi a New York si interessa di psicologia
clinica nell’Institut for Child Guidance. Conseguita la laurea in psicologia,
Rogers entra a far parte del Guidance Centre di Rochester, di cui più tardi
diventerà direttore. Nel 1940 diventa professore di psicologia all’università
dell’Ohio e più tardi, nel 1945, all’università di Chicago.
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1. Ogni organismo vivente ha dentro di sé una tendenza naturale a svilupparsi,
a soddisfare dei bisogni, a realizzarsi e a d esaltare se stesso, così come ad
esempio, nel seme del melo c’è già in potenza ogni elemento morfologico e
funzionale che lo farà diventare una pianta. Questo individuo vive ed è
come immerso in un mondo continuamente mutevole di esperienze. Il
termine esperienza che riferisce a tutto ciò che accade all’organismo in un
dato momento, sia essa un processo fisiologico o un’impressione sensoria o
un’attività motoria o un’emozione. Solo una parte di queste esperienze è
percepita coscientemente, ma anche quella parte delle esperienze che
rimane inconscia può diventare cosciente quando se ne presenti la
necessità. Ne consegue che solo l’individuo che ha vissuto queste
esperienze conosce questo mondo privato in modo completo e genuino. La
persona è quindi la migliore fonte d’informazione su se stessa. Le sue
parole sono la simbolizzazione delle sue esperienze interiori e lo psicologo
può capire che cosa c’è nel mondo privato della persona ascoltando quello
che dice e accettando incondizionatamente il cliente: solo in questo modo
la persona si aprirà liberamente e senza riserve.
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sua goffaggine e il suo imbarazzo, ecc. però la tendenza progredire può
operare solo quando la scelta è percepita chiaramente ed è adeguatamente
simbolizzata. L’individuo deve conoscere prima di scegliere e solo quando
conosce è in grado di scegliere il progresso piuttosto che il regresso.
Rogers afferma che una parte del campo percettivo totale si differenzia
gradualmente divenendo il SE’. Questo SE’ è la consapevolezza del proprio
essere e del proprio operare. In altre parole è questo il concetto del “SE’
COME OGGETTO”, cioè un insieme di esperienze che hanno lo stesso punto
di riferimento, cioè l’IO o il ME e che si differenzia dal campo totale, cioè da
quelle esperienze che non lo riguardano direttamente.
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esperienze cominciano ad avere un valore che può essere di segno positivo (mi
piace) o negativo (non mi piace).
Questi valori che fanno parte della struttura del SE’ sono, in alcuni casi, valori
sviluppati direttamente dall’organismo e in altri casi, valori introiettati o
assunti da altri, ma percepiti in maniera alterata come se fossero stati sviluppati
direttamente dall’individuo. Facciamo un esempio: al bambino piace fare
un’infinità di cose per le quali i genitori possono ricompensarlo o punirlo. Il
bambino che viene punito per aver fatto una cosa che gli procurava piacere, si
troverà a dover risolvere il conflitto fra il desiderio di una cosa che gli piace e il
desiderio di evitare una punizione. Nel risolvere questo conflitto il bambino
può dover rivedere la sua immagine di sé e il suo insieme di valori in maniera
tale che i suoi sentimenti reali e i suoi valori risultino alterati. Questo è quanto
succede nell’esempio proposto. Se i valori “veri” di una persona vengono
sostituiti con altri valori assunti o presi in prestito da altri individui, e se tali
valori vengono percepiti come se fossero sviluppati dalla persona stessa, il SE’
diventa come una famiglia i cui membri lottano gli uni contro gli altri. La
persona si sentirà tesa, non a suo agio e fuori posto, si sentirà come se non
sapesse che cosa è e che cosa vuole.
Rogers quindi sostiene che gli individui mantengono e difendono con tutte le
loro forze l’immagine del SE’, anche se completamente diversa dalla realtà.
Quel che minaccia o attacca questo quadro del SE’ a volte è cosciente a volte
invece è percepito in maniera inconscia. In ogni caso la situazine minacciosa
può produrre disturbi somatici, palpitazione di cuore, sensazioni di angoscia
senza che la persona sia in grado di identificarne le cause.
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In conclusione questi due sistemi, cioè il SE’ e L’ORGANISMO, possono
operare armonicamente oppure in contrapposizione. Se collaborano c’è
l’adattamento e cioè tutte le esperienze sensoriali e viscerali possono essere
assimilate a livello simbolico in una relazione coerente con il concetto del SE’.
Se c’è contrapposizione invece, ogni esperienza che non è coerente con
l’organizzazione o la struttura del SE’ può essere vissuta come una minaccia. Il
SE’ costruisce delle difese, come ad esempio la negazione, e la persona diventa
sempre più disadattata.
Se si creano le condizioni nelle quali la struttura del SE’ non si sente più
minacciata, allora si possono esaminare esperienze non coerenti con essa e la
struttura del SE’ può venire modificata in modo da assimilarle e includerle.
In contrasto con la sfiducia degli psicanalisti nei confronti delle parole del
paziente, Rogers sostiene che le auto descrizioni sono importanti come fonte
diretta di informazione sulla persona. Non è necessario sondare, interpretare,
fare elaborate e profonde analisi dei sogni o scavare strato dopo strato nella
psiche dell’individuo perché, secondo Rogers, la personalità dell’individuo
viene rivelata da quanto egli dice di se stesso. La persona è, secondo Rogers,
quello che essa stessa dice di essere. Con questo Rogers non nega che una
persona possa avere delle difese inconsce che alterano gravemente l’immagine
del sè. Però, visti i risultati ottenuti con il suo trattamento egli pensa che la sua
teoria abbia una validità che potrà essere ulteriormente migliorata con altri
studi e ricerche.
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La persona comincia quindi a rendersi conto che non deve più temere
l’esperienza, anzi la deve accogliere come una parte del suo SE’ in evoluzione
e sviluppo.
Rogers fa osservare che, al di là della teoria, che pure è importante, le cose che
contano sono soprattutto l’esperienza e le capacità personali del terapeuta. Le
capacità richieste in una relazione d’aiuto sono fondamentalmente tre: la
genuinità o congruenza, l’empatia e l’accettazione incondizionata.
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CAP II IL COUNSELING
Il counseling nasce negli anni ’50 negli Stati Uniti: I primi campi di
applicazione furono, da una parte, il contesto scolastico come orientamento e
guida professionale e, dall’altra, il supporto per il reinserimento dei reduci di
guerra nella società civile.
Con la legge del 1963 (Community Mental Health Act), che stabiliva il
principio della riorganizzazione territoriale dei servizi psichiatrici negli USA,
la professione del counselor cominciò sempre più a definirsi rispondendo
all’esigenza di un modello di intervento rispetto al disagio psicologico mutuato
dal movimento per la salute mentale e maggiormente centrato su:
Le radici storiche del counseling in Italia possiamo ritrovarle, nel senso più
ampio, nello sviluppo di una professione come quella dell’assistente sociale
(come relazione orientata alla relazione di aiuto) che iniziò a strutturarsi
durante gli anni ’20.
Dobbiamo però aspettare gli anni ’70 perché in Italia e in tutta l’Europa si
arrivi a definire la figura del counselor, affermatasi inizialmente in Gran
Bretagna.
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2.2. Il contributo di Carl Rogers
- dà maggior peso ai fattori emotivi che non agli aspetti intellettuali della
situazione
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2.3. Il contributo di Robert Carkhuff
Carkhuff è inoltre colui che ha intuito come il lavoro terapeutico non è solo
quello che si effettua al chiuso degli studi professionali, ma è anche quello che
si realizza in qualunque momento in cui si stabilise una relazione, purchè si
faccia un uso maturo e intenzionale della relazione umana stessa.
Si parte cioè dalle relazioni spontanee nella vita quotidiana per arrivare a forme
di aiuto via via più complesse che si definiscono, a seconda appunto del loro
grado di strutturazione, come counseling e psicoterapia.
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All’interno della relazione di aiuto il counselor assume la funzione cosiddetta
di agevolatore, facilitatore del processo di autodeterminazione del cliente.
Afferma Carkhuff : “il counseling si basa sul presupposto che nella persona vi
sono le risorse interiori (emozionali, affettive, cognitive, ecc.) necessarie a che
l’aiuto si produca nel suo interno,. L’aiuto consiste nel rendere possibile una
riattivazione o riorganizzazione di queste risorse originarie, senza nulla
aggiungere dall’esterno”.
Per mettere a fuoco gli aspetti metodologici basilari del fare counseling, è
necessario partire dal concetto di non direttività di Rogers, che implica una
atteggiamento di base nel quale il counselor si rifiuta di suggerire al cliente una
determinata direzione ed evita di portare l’individuo a pensare, sentire ed agire
secondo uno schema determinato.
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La persona che ha bisogno d’aiuto deve ammettere la propria impotenza a
capire e a capirsi e la difficoltà di uscire da sola dalle problematiche che sta
incontrando. Con questo non si vuol dire che sarà l’operatore ad apportare una
soluzione preconfezionata o che l’operatore si debba sostituire all’IO del suo
cliente, ma piuttosto che l’operatore utilizzerà le risorse del cliente fino a
renderlo capace di comprendere meglio la propria situazione e a trovare
autonomamente delle soluzioni.
- che ci sia una persona che vuole dare aiuto e sia in grado di farlo
2.5.1. Il counselor
E’ colui che dà l’aiuto. Compito del counselor è quello di compiere due azioni
specifiche:
- obiettività
- rispetto per l’individuo
- comprensione di se stesso
- conoscenza psicologica
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- ascoltare oggettivamente e accuratamente;
- avere conoscenze concettuali adeguate dei modelli e dei principi teorici che
si dovranno applicare;
2.5.2 Il cliente
E’ colui che chiede aiuto .Il termine “cliente” è stato adottato deliberatamente
da Rogers, invece di soggetto, paziente, malato, allievo, e il termine counselor
invece di terapeuta, professore, educatore, assistente, per denotare l’originalità
di una situazione nella quale l’assistito sceglie di farsi aiutare ma non
abbandonerà né la sua libertà né la sua responsabilità nella soluzione delle sue
difficoltà.
- tematiche evolutive
- assunzione di decisioni critiche
- difficoltà nell’affrontare situazioni emotivamente forti.
Coloro che lavorano nel campo del counseling e dello sviluppo umano
constatano che tutte le persone hanno periodicamente bisogno di aiuto e
sostegno via via che sperimentano i normali stadi e transizioni della vita, nei
quali la persona non riesce a:
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.
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2.6 Dinamica del colloquio d’aiuto
Spesso sia il consulente che il cliente hanno una certa difficoltà ad iniziare il
colloquio. Non esiste uno schema preordinato su come iniziare il colloquio, ma
esistono degli obiettivi che il consulente deve proporsi di raggiungere affinché
il colloquio sia efficace e cioè.
- ridurre il livello di ansietà del cliente tanto che possa cominciare a parlare
Per ridurre il livello di ansietà occorre fare attenzione ad alcuni aspetti basilari:
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2.6.3. Il silenzio
In ogni caso il consulente non può e non deve, per coprire il silenzio, parlare
troppo o incitare a parlare con domande incalzanti, perché così l’attenzione non
sarà più centrata sul cliente ma sul consulente ed inoltre il cliente reagirà con
ulteriore passività all’attività del consulente.
Nel caso che il cliente introduca argomenti generici e poco personali è bene
che il consulente non incoraggi il cliente a continuare e, pur mostrando
considerazione per il cliente, non assecondi il cliente nel suo discorso generico
o impersonale.
- richieste di chiarificazione
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2.6.5 La riformulazione
Cliente: “ Un mio grosso problema è che quando sono con la gente non ho
niente da dire …”
Consulente . “così quando lei è con gli altri sente che non ha niente da
comunicare”.
Cliente: non dice niente ma sta curvo sulla sedia con gli occhi bassi e un’aria di
abbandono
Consulente: “dal suo aspetto mi sembra che debba sentirsi molto solo e
scoraggiato”.
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2.6.7. La ricapitolazione dei sentimenti
Consulente: “vediamo se ho capito ciò che ha detto. Nei gruppi numerosi lei si
sente un po’ più sicuro. Ma se vuole dire qualcosa fa così fatica a trovare il
modo di dirla che alla fine decide che forse non vale la pena di essere sentito,
questo la fa star male”.
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2.7 La fine del colloquio
Al momento della chiusura del colloquio è importante che sia il cliente sia il
consulente siano consapevoli che sono in fase di chiusura. Inoltre, nella fae di
chiusura il consulente deve provvedere a che il cliente non introduca nuovi
argomenti e se il cliente cerca di farlo è bene che il consulente dica che
quell’argomento può essere un buon punto di partenza per il colloquio
successivo
Per terminare il colloquio spesso basta una piccola frase del consulente, come
per esempio: “sembra che il nostro tempo per oggi sia finito”, oppure: è giunto
il momento di fermarsi per oggi; un altro sistema efficace da usare è la
ricapitolazione che consiste essenzialmente in una serie di frasi con cui il
consulente collega i punti principali del colloquio. La ricapitolazione è un
genere di risposta attiva da parte del consulente e spesso aiuta il cliente a
riascoltare ciò che ha esposto
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2.8. Obiettivi del colloquio
Prima fase
Seconda fase
Terza fase
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Rispetto ad ogni problema esistono diverse opzioni possibili tra cui scegliere e
per ognuno di noi ve n’è una adatta più delle altre; compito del counselor nella
terza fase è proprio quella di aiutare il cliente a considerare tutte le opzioni
possibili, a valutarle e a trovare il modo di attuare quella più adatta al suo caso.
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CAP. III IL CONSULENTE
Dice Rogers: “tutti noi conosciamo individui di cui ci fidiamo perché sentiamo
che essi sono realmente come appaiono, aperti e trasparenti. In questo caso
sentiamo di avere a che fare con la persona stessa, non con una facciata cortese
o professionale. Questa è la genuinità”.
- far conversazione
- fare indagini o interviste o interrogatori
- fare discussioni
- fare diagnosi o valutazioni
- fare interpretazioni
- dare soluzioni
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3.1.2. Accettazione incondizionata
Dice Rogers: “il terapeuta deve comunicare al suo cliente il profondo e sincero
interesse per lui come persona, con potenzialità umane, un interesse non
contaminato da un giudizio sulle idee, sui sentimenti o sul comportamento del
paziente. Ciò non significa che l’operatore debba restare indifferente agli
aspetti etici connessi a ciò che la persona dice o fa, ma che offre alla persona
l’opportunità di prendere piena consapevolezza di comportamenti che possono
essere moralmente riprovevoli proprio perché è questo l’aiuto richiesto”.
Dice Carrkhuff: “gli obiettivi del confronto sono quelli di aiutare il cliente ad
esplorare aree di sentimento, esperienza e comportamento che egli si è sempre
ben guardato dall’esplorare … e di aiutare il cliente a comprendere modalità
autodistruttive di comportamento o risorse sottoutilizzzate”. Mettendo in
rilievo:
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3.1.3. Comprensione empatica
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Il colloquio non si può immaginare né preparare a tavolino. Nel colloquio
d’aiuto l’obiettivo dell’operatore è quello di favorire al massimo l’espressione
e lo sforzo di formulazione del problema da parte del cliente::
L’abilità del consulente consiste nel riuscire a vedere il mondo con gli occhi
del cliente. Per ottenere questo occorre, prima di tutto, avere la capacità di
prestare attenzione: significa comprendere ciò che sta dicendo il cliente e
soprattutto capire ciò che avviene qui ed ora nella relazione stessa. Se il
consulente è in grado di garantire questo ascolto e questa osservazione otterrà
un maggiore impegno da parte del cliente e faciliterà i suoi processi interni di
esplorazione della sua situazione.
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Se si attua un processo di identificazione con il cliente, il consulente non è più
in grado di valutare la situazione con il necessario grado di obiettività.
Anche il tempo ha la sua importanza sia per quanto riguarda il momento scelto
per il colloquio, sia per la durata. Un colloquio efficace richiede circa un’ora di
tempo.
Tipi di osservazione
a) Le osservazioni dirette
E’ importante che il consulente osservi se stesso sia per non proiettare verso
l’altro le proprie opinioni e convinzioni sia per cogliere l’effetto del suo
intervento sul cliente. Anche il cliente dà un preciso significato ai gesti e alle
parole del consulente.
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La nostra fantasia, la nostra ideologia, il nostro temperamento rappresentano
dei “contesti personali” nei quali si inserisce ciò che viene dall’altro. La nostra
appartenenza ad un gruppo sociale finisce per modellare il nostro modo di
percepire e di reagire: sono i cosiddetti stereotipi. Lo stereotipo rappresenta una
modalità rigida di concepire e di valutare le persone appartenenti ad un gruppo
diverso dal proprio. L’attenzione e quindi l’ascolto vanno focalizzati sulla
persona oltrepassando il fatto della sua appartenenza ad un gruppo con il quale
possiamo essere solidali o estranei, alleati o amici.
Ma ci sono anche altri fattori riguardanti, ad es.,: età, sesso, tipo di affettività
che possono condizionare l’ascolto e la comunicazione. Saper ascoltare e saper
osservare esigono la conoscenza il controllo e la padronanza di queste variabili.
Ciò che non bisogna mai dimenticare è lo scopo del colloquio che è di riuscire
a portare alla luce le realtà da comprendere, di far in modo che il cliente possa
esprimere il suo problema personale. Siccome le difficoltà relative alla
chiarificazione del problema sono grandi, occorre almeno cercare di eliminare
quelle difficoltà che provengono dalle condizioni in cui si svolge il colloquio.
3.2.2. Le microabilità
- prestare attenzione
- mantenere il contatto visivo
- tono appropriato di voce
Il consulente deve prestare al cliente un’attenzione totale. Vi sono tre modi per
comunicare attenzione;
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a) Effetti delle espressioni visive
Gli effetti delle espressioni visive sono prodotti dal contatto visivo, dai cenni di
assenso e dall’espressività del viso. Si sa che il volto è la sede privilegiata per
la comunicazione degli stati emotivi. Il volto riflette gli atteggiamenti
interpersonali e fornisce un feedback non verbale a ciò che dicono gli altri.
Sembra la principale sorgente di informazioni dopo il linguaggio parlato. Il
consulente esprime attraverso le espressioni del suo viso un rinforzo per il
comportamento del cliente, sia positivo che negativo.
.
b) Il contatto visivo
Le ricerche nel campo dell’interazione interpersonale affermano che il contatto
visivo produce vari effetti. Il contatto visivo spesso è un aiuto per individuare
la natura della relazione fra gli interlocutori. Esso può indicare vari bisogni di
una persona come, per es., quello di appartenenza, di coinvolgimento, di
inclusione; può indicare anche la qualità di un rapporto esistente; può ancora
favorire la comunicazione di un messaggio complesso.
Il contatto visivo tuttavia può produrre anche ansietà nell’altro, ad es. uno
sguardo che si protrae più di quindici secondi può indicare aggressività
piuttosto che accettazione. Un buon contatto visivo, che rinforza il cliente e ne
facilita la comunicazione, non è né fisso né sfuggente. E’ opportuno guardare il
cliente mentre parla, ma conviene anche distogliere lo sguardo di tanto in tanto.
Bisogna essere naturali e non aver paura di introdurre nel campo percettivo il
cliente.
c) I cenni di assenso
Anche i cenni di assenso indicano al cliente che lo state ascoltando e gli
prestate attenzione. E’ opportuno tuttavia guardarsi dal farne troppi perché
possono deviare l’attenzione.
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e) Effetti dei messaggi del corpo
Per il cliente è importante che il consulente non sia in tensione ma sia rilassato.
Una posizione rilassata indica che il consulente è a suo agio sia per quanto
riguarda lo svolgimento del colloquio sia per quanto riguarda l’argomento in
discussione. Al contrario una continua e persistente tensione fisica comunica al
cliente un forte senso di disagio. Può trattarsi di un momento di particolare
impegno e quindi riflettere lo stato d’animo che il consulente sta vivendo in
quel momento: di coinvolgimento col cliente, oppure può riflettere un senso di
disagio che il consulente prova verso se stesso o verso l’argomento. Prima di
affrontare un colloquio di aiuto è opportuno che il consulente riesca a
raggiungere una condizione di rilassatezza.
Purtroppo molte persone impegnate nel colloquio di aiuto fanno di tutto per
evitare il silenzio e cominciano il colloquio chiedendo qualcosa. Di solito le
domande fatte in simili occasioni sono così poco importanti per il cliente che
vengono liquidate con una risposta secca a cui segue nuovamente il silenzio.
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che se il cliente non parla si sta perdendo tempo, mentre in realtà anche il
silenzio può essere terapeutico. Il silenzio, in realtà, è un momento positivo se
permette al cliente di pensare, di metabolizzare, di rivedere e reinquadrare il
proprio sistema di pensiero e i propri comportamenti.
Sono invece positivi altri due tipi di silenzio. Il primo è il silenzio che si
verifica quando il consulente ha bisogno di capire meglio e in questa maniera
incoraggia il cliente ad approfondire l’argomento ed i suoi sentimenti. Il
secondo tipo è il silenzio che il consulente stesso si impone quando nel corso
del colloquio è stato molto attivo e decide di trasferire più responsabilità al
cliente o quando il consulente si rende conto che il cliente sta riflettendo o
vivendo un’emozione e non vuole interferire in questa sua situazione
psicologica.
c) Il silenzio trasformativo
Stare zitti non significa essere necessariamente inattivi. C’è infatti il
comportamento non verbale che dà significato al silenzio e dà un messaggio
terapeutico al cliente. I messaggi che in questi casi il consulente dà al cliente
sono del tipo: “vorrei che pensassi di più a quel che hai detto”, oppure “non
accetto il messaggio che mi stai mandando”, oppure “provo un grande interesse
per te e per i tuoi sentimenti”.
Il silenzio comunque non deve essere totale, può essere interrotto da qualche
risposta verbale in modo che il cliente capisca che il consulente partecipa.
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Una situazione in cui si può dare un aiuto al cliente con il silenzio è quella che
si verifica, per esempio, quando il cliente appare in preda alle emozioni dirette
verso altre persone o altre situazioni e che lui riversa sul consulente, o quando
il cliente risponde in maniera difensiva ad una osservazione del consulente. Il
non rispondere da parte del consulente fa sì che i messaggi del cliente
rimangano lì, continuino ad essere presenti fino a quando non siano uditi dal
cliente stesso
.
Ed infine c’è il silenzio di sostegno nei momenti in cui non vi sono parole che
possano rispondere adeguatamente ai sentimenti del momento. Ciò avviene
quando il cliente piange oppure è molto triste. In quei momenti è più
importante permettere il defluire delle emozioni piuttosto che interromperle
con un intervento verbale. Con un silenzio pieno di empatia si può comunicare
meglio la propria compassione e la propria vicinanza emotiva.
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In tutti questi casi il consulente orienta unilateralmente il cliente mentre il
colloquio deve essere non direttivo.
3. 3.1. La riformulazione
Si chiama riformulazione un intervento che consiste nel ridire con altre parole,
e in maniera più concisa e più chiara, ciò che l’altro ha appena detto, e tutto
questo in modo tale che l’operatore ottenga l’accordo da parte del cliente.
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- l’operatore ha la prova di aver ascoltato e compreso ciò che gli è stato
comunicato
Come si fa la riformulazione
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Una riformulazione un po’ più complessa è la riformulazione-riassunto, che
tende a riformulare ciò che è essenziale per il cliente. Ciò suppone che si sia
colta la sostanza di ciò che il soggetto voleva dire.
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a) Riconoscere le alternative
Il primo compito del consulente è identificare accuratamente i tipi di contenuto
presentati dal cliente e le alternative alle quali può rispondere. Il modo in cui il
consulente risponde ad un’alternativa influirà su ciò che il cliente dirà dopo.
Cliente: “mi piace questa situazione perché si può parlare direttamente con la
gente. Non mi piacciono le grandi folle dove non conosco nessuno e gli altri
non conoscono me”.
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.
- Il silenzio
- Ripetizioni o riaffermazioni
I clienti usano tante modalità sia verbali che non verbali per comunicare i loro
problemi al consulente. Le emozioni che accompagnano il racconto
arricchiscono e modificano il messaggio. Esse permettono al consulente di
conoscere il mondo interno del cliente. Tuttavia questi indizi non sempre sono
facili da decifrare. I denti serrati possono avere più di un significato. La voce
tremante dice solo che è presente una forte emozione. Il consulente ha il
compito di mettere insieme i vari indizi del messaggio del cliente in modo tale
da poter fare delle ipotesi ragionevolmente giuste sulla causa delle emozioni.
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messaggio affettivo: come riconoscerlo e come rinforzarne l’esplorazione da
parte del cliente.
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3.3.3.2.Tipi di messaggi emotivi
Messaggi affettivi
I messaggi di affetto riflettono sentimenti buoni o positivi riguardo a se stessi e
agli altri, nonché riguardo alle relazioni interpersonali. Molti di questi possono
essere individuati da certe parole “che toccano”: vi sono molte sottospecie di
parole che toccano impiegate per esprimere sentimenti positivi riguardo a se
stessi e agli altri. Tali sottospecie includono: godimento, competenza, amore,
felicità e speranza, Riportiamo un elenco delle parole che “toccano” relative
agli affetti:
Messaggi di rabbia
La rabbia rappresenta un impedimento che in qualche modo deve essere
alleggerito o eliminato. Vi sono vari tipi di stimoli che provocano la rabbia.
uno di questi è la frustrazione, gli altri sono la minaccia e la paura. Situazioni
come quella della competitività, della gelosia o delle aspirazioni frustrate
possono diventare minacce che provocano risposte di rabbia e d’ira. Spesso la
rabbia rappresenta sentimenti negativi verso se stesso e verso gli altri. In questi
casi la rabbia diventa una reazione difensiva perché la persona non si sente
abbastanza sicura da esprimere la propria paura. A volte la rabbia può anche
costituire una copertura per il dolore. Spesso, infine, sotto esplosioni
fortemente aggressive si nascondono sentimenti profondi di vulnerabilità e di
sofferenza.
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Gli indizi verbali della rabbia possono essere suddivisi in quattro gruppi
Vi sono anche certe caratteristiche vocali associate con la rabbia. Molte volte la
voce diventa sempre più forte e se la rabbia è molto forte la persona può
arrivare a gridare o giungere perfino a piangere. Vi sono persone, però che
assumono un tono più basso, più controllato: ciò significa che la persona che
sta sperimentando la rabbia esercita un certo controllo delle proprie emozioni.
Messaggi di paura
La paura rappresenta la reazione di una persona ad un qualche pericolo da
evitare. Spesso tale reazione consiste nel ritirarsi da una situazione dolorosa o
stressante, o dal proprio mondo interno, o da altre persone o relazioni. La
persona che sperimenta la paura di solito è isolata, triste, depressa, la paura può
anche essere descritta come un insieme di sentimenti negativi nei confronti di
qualcosa o di qualcuno.
Gli indizi verbali che suggeriscono la paura possono essere suddivisi in cinque
gruppi: paura, dubbio, tristezza, dolore, fuga.
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Dolore: spaventoso, ferite, intenso, spiacevole, scomodo, dolori, straziato
I due motivi principali per cui un consulente può non rispondere ai sentimenti
del cliente sono:
Tale blocco è connesso con la reazione del consulente ai sentimenti del cliente
che provoca una riduzione della sua capacità di dare aiuto. Per esempio, il
consulente identifica chiaramente i sentimenti di rabbia del cliente ma evita di
rispondervi per varie ragioni, o perché ha paura che il cliente interrompa il
rapporto se l’interazione diviene troppo intensa o perché non si fida del proprio
giudizio, o perché teme che l’identificazione del sentimento faccia prorompere
sentimenti ancor più forti che il cliente farebbe fatica ad affrontare e a gestire.
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Per sapere come rispondere ai sentimenti del cliente con empatia e
atteggiamento positivo non basta possedere tali atteggiamenti. Il consulente
deve essere anche sicuro di saperli comunicare con parole e frasi adatte.
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Questa riflessione ad un livello più profondo, non soltanto rispecchia il
sentimento nascosto, ma deve anche raggiungere l’intensità del sentimento del
cliente e forse anche un’intensità maggiore. La riflessione è efficace al
massimo quando coglie ed esplicita ciò che il cliente desidera.
Vi sono altri due errori frequenti nella risposta ai sentimenti del cliente:
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La ricapitolazione richiede essenzialmente che il consulente rifletta i sentimenti
del cliente con parole sue, non di un solo sentimento, ma di diversi sentimenti
messi insieme per formare un modello significativo. Diamo un esempio:
cliente; “durante gli ultimi mesi non ho sentito il desiderio di nessun tipo di
svago… non so perché… solo che non mi attira…ieri sera mi sono dovuto
forzare per andare ad una festa…nei primi tempi che stavo all’università
andavo a tutte le feste, ma ora non mi interessano più”:
consulente: “lei sente che anche le cose che prima la interessavano molto ora le
sembrano meno interessanti, lei non sa perché, però sembra che sia così”:
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comportamento influenza i sentimenti. Ciò che è importante non è stabilire da
dove cominciare, ma quale sia l’intervento maggiormente efficace.
Sappiamo già come sia importante cominciare a far parlar il cliente, egli deve
essere in grado di parlare di se stesso, identificando ed esprimendo i propri
sentimenti, individuando i comportamenti e rapportandosi al “qui ed ora”.
Possono insorgere, da parte del cliente, forti sentimenti di vulnerabilità che gli
fanno percepire la necessità di difendere se stesso. Quando diminuisce
l’intensità di tali sentimenti viene liberata un’energia che il cliente aveva usato
fino a quel momento per conservare la propria immagine; tale energia risulta
così disponibile per maturare e per cambiare.
Tuttavia con quei clienti che evitano le emozioni e l’intimità la risposta del
consulente al loro messaggio affettivo può indurre una maggiore ansietà. Con
questo tipo di clienti bisognerà adattare la strategia rispondendo a livello
cognitivo.
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senso che le risposte del consulente ai sentimenti possono generare nel
cliente una maggiore quantità di commenti negativi su se sesso.
Vi sono molte valide risposte discriminanti sia alle parti cognitive che a quelle
affettive. Vi sono risposte che mettono in evidenza una componente del
messaggio a scapito delle altre. Tre risposte sono particolarmente efficaci:
l’accento, il potenziale di capacità e il confronto.
a) L’accento
Cliente: “faccio molta fatica a scegliere quale facoltà prendere … non sono
abituato a prendere decisioni, quindi questa è una situazione confusa per me”.
Consulente: “Confusa” oppure: “molta fatica?” oppure: “per lei?”
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il consulente non ha compreso del tutto il cliente. E’ usato più propriamente per
concretizzare un pensiero che sembra vago ed astratto. L’accento può essere
usato sia per rispondere al messaggio cognitivo che a quello affettivo. Il
consulente metterà l’accento sul contenuto affettivo se il cliente ha usato una
parola carica di emotività.
a) La capacità di impegnarsi
b) Il confronto
- disaccordo fra ciò che il cliente dice e come si comporta (es.: il cliente
dice di essere un tipo tranquillo, poi nel colloquio parla
concitatamente);
-
- contraddizione fra come il cliente dice di sentirsi e come invece il suo
comportamento fa capire che si sente (es. dice che è a suo agio, ma
continua ad agitarsi);
-
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- disaccordo tra due messaggi verbali del cliente (es. il cliente dice di
voler cambiare il suo comportamento e subito dopo rimprovera i suoi
genitori e attribuisce a loro la causa del suo comportamento):
In pratica il confronto si esplicita con una frase composta: “lei ha detto che …
ma …” In altre parole la prima frase comincia con “lei ha detto” seguito dal
messaggio del cliente, la seconda comincia con “ma …” e presenta la
contraddizione del messaggio del cliente.
Il confronto consiste nel fare solo ciò che sta a significare la parola confronto e
non di più. Esso, sia nella prima parte che nella seconda, ‘descrive i messaggi
del cliente, osserva il suo comportamento, presenta l’evidenza e infine fornisce
la prova’. Tuttavia nel confronto non deve esserci né accusa, né valutazione, né
soluzioni.
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Infine, rispondere alla parte affettiva è spesso il modo migliore che il
consulente ha di comunicare il calore, l’interesse e il coinvolgimento verso il
cliente. Non solo, ma permette anche che si instauri un clima di fiducia
reciproca. E’ proprio questo tipo di fiducia che dà al cliente la possibilità di
gestire i propri sentimenti e comportamenti e potenzia l’impegno a cambiare i
comportamenti non soddisfacenti.
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L’esperienza di sentire delle esigenze è parte naturale del processo di vita, anzi
è il mezzo con cui promuoviamo questo processo. Tutti gli esseri umani hanno
in comune certi bisogni fondamentali: bisogni di sicurezza, di nutrimento, di
sopravivenza, di affiliazione, d’amore e di autonomia. Per ogni essere umano
l’esperienza dei bisogni è parte integrante della sua vita.
L’aver bisogno è una risposta passiva che deve essere inquadrata in uno stato
attivo, il volere, affinchè tale bisogno possa essere soddisfatto. L’atto di volere
non soltanto richiede che riconosciamo e comprendiamo il bisogno ma anche
che immaginiamo qualcosa nel mondo reale che possa soddisfarlo. Può trattarsi
del desiderio di avere un amico, un lavoro, un partner. Se non individuiamo
esattamente cosa ci manca non possiamo mobilitare le nostre risorse per
soddisfare il bisogno. Per molte persone questo processo, cioè individuare ciò
che si sente come mancante, crea delle difficoltà e questa è la ragione per la
quale il cliente viene in consulenza.
Abbiamo descritto finora il cliente come qualcuno che sperimenta dei bisogni,
alcuni dei quali riconosciuti e capiti e altri non riconosciuti e capiti e che per
questa ragione cerca un aiuto. Il consulente, da parte sua, ogni volta che si
trova di fronte ad un cliente deve considerare non solo il mondo dei bisogni,
ma anche il mondo reale in cui il cliente vive, comprese le persone significative
per lui, la professione o condizione sociale, il contesto in cui trascorre il suo
tempo, le aspettative riguardo a sé e agli altri, le abitudini e i comportamenti, i
sogni e le speranze sul futuro, gli atteggiamenti verso il passato, i valori e
significati della vita e i suoi metodi per sopravvivere. I bisogni, infatti, nascono
dalle dimensioni del mondo del cliente.
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3.6.2. Il ruolo del consulente
In basa a quanto detto sulla persona che chiede aiuto, è evidente che il
consulente si trova a gestire delle responsabilità importanti quando svolge il
suo compito. Oltre a creare un clima favorevole e ascoltare i bisogni del
cliente, deve aiutare il cliente a tradurre questi bisogni in mancanze, così che
possa passare da una condizione di passività ad una condizione attiva. Il
consulente deve cogliere quelle soluzioni che il cliente ha già provato e che
sono diventate magari parte del problema e aiutarlo a rendersi conto di ciò,
successivamente il ruolo del consulente consiste nell’aiutare il cliente a
formulare degli obiettivi volti al soddisfacimento delle sue esigenze. In base a
questi obiettivi si potranno elaborare piani di azioni, metterli in pratica e
valutarli. Inoltre il consulente dovrà aiutare il cliente a capire che sta facendo
dei progressi quando questi si verificano.
Gli obiettivi finali, invece, variano da cliente a cliente. Si tratta degli obiettivi
direttamente connessi con i cambiamenti della persona e che dovrebbero
costituire il risultato della consulenza. Man mano che il consulente aiuta il
cliente a capire le sue inquietudini, lo aiuta anche a capire come può usare la
consulenza per rispondere ad esse. Consulente e cliente concordano insieme
degli obietttivi finali possibili. Man mano che la consulenza procede, il
consulente potrà modificare gli obiettivi iniziali in quanto avrà una maggiore
comprensione dei problemi e il cliente avrà elaborato degli atteggiamenti e dei
comportamenti più adeguati. Stabilire gli obiettivi è un processo flessibile,
sempre soggetto ad essere modificato e perfezionato.
È molto importante rendersi conto che gli obiettivi finali sono “comuni e
concordati” obiettivi, cioè, che sia il consulente che il cliente sono concordi nel
perseguire.
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quando il cliente ha degli obiettivi specifici, può scegliere meglio le tecniche e
le strategie più appropriate. Infine quando si perseguono obiettivi specifici sia
il cliente che il consulente sono in grado di constatare i progressi.
3.6.4. I tre elementi costitutivi che rendono gli obiettivi finali buoni
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natura del problema e le condizioni in cui si produce prima di iniziare la
traduzione. Anche allora, però, vi sono delle difficoltà in cui possono incappare
i consulenti che tentano di determinare gli obiettivi comportamentali.
Elenchiamo alcune di queste difficoltà:
Viste queste difficoltà, all’inizio della consulenza gli obiettivi saranno non
specifici e non comportamentali. Mano a mano che il consulente e il cliente
esploreranno la natura di un particolare problema dovranno fissare più
chiaramente il tipo di obiettivo adatto a risolverlo. Dopo aver stabilito insieme
l’obiettivo finale desiderato il consulente cercherà che cosa può aiutare il
cliente a raggiungerlo. Si tratta di trovare dei sotto-obiettivi che consistono in
una serie di passi o compiti più piccoli che aiutano il cliente a comportarsi
gradualmente nel modo desiderato.
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vuole trovare una soluzione al problema. Un procedimento simile è destinato al
fallimento.
La natura della consulenza richiede che il cliente sia coinvolto nella scelta degli
obiettivi, altrimenti la sua partecipazione sarà vaga o interferirà addirittura con
il lavoro del consulente. Per capire meglio portiamo una esemplificazione. Un
consulente vede una cliente grassa, impacciata e riluttante ad allacciare rapporti
sociali a causa della sua mole. Il consulente le suggerisce l’obiettivo di perdere
da due a cinque chili la settimana sotto la guida di un medico. A quel punto la
cliente diventa molto difensiva e rifiuta l’obiettivo del consulente dicendo; “lei
parla come mia madre”:
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CONCLUSIONE
In questo lavoro abbiamo presentato “la relazione d’aiuto” allo scopo di far
conoscere a coloro che sono impegnati nell’ambito socio-educativo, una
modalità di intervento che si è rivelata importante ed efficace nelle relazioni
con le persone con le quali ci si trova ad interagire, quando esse manifestano
difficoltà che non sono in grado di risolvere e superare da sole.
Apprendere la modalità del colloquio d’aiuto può essere utile nelle diverse
situazioni problematiche che s’incontrano nell’ambito lavorativo; inoltre
utilizzare una modalità di comunicazione ispirata al colloquio d’aiuto può
rivelarsi utile anche in molteplici relazioni personali e lavorative, quando tra
due o più persone si crea una situazione conflittuale.
Le scuole di counseling in Italia sono sempre più numerose, anche se non esiste
ancora una regolamentazione legislativa che stabilisca i criteri di base e gli
ambiti della professione.
In attesa che anche in Italia, come già avviene in America e in altri stati
europei, si istituisca la figura del consulente e ci sia un albo professionale, le
scuole esistenti stanno già definendo sia gli standard di formazione sia il codice
deontologico che regolamenti e garantisca questa nuova professionalità.
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BIBLIOGRAFIA
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