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LA RELAZIONE D’AIUTO E LA SUA UTILIZZAZIONE

NELL’AMBITO SOCIO-EDUCATIVO

A cura di

ANGELUCCI EDDA
FERIAN DINO

© Scuola IaD – Roma, 2008


Tutti i diritti riservati

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INDICE

INTRODUZIONE pag.1

Definizione della relazione d’aiuto pag.2.


Ambiti nei quali si esplica la relazione d’aiuto pag.3

CAP. I L CONTRIBUTO DI CARL ROGERS

1.1. Cenni biografici pag.5


1.2. I principi fondanti della teoria di C:Rogers pag.6
1.3. Il concetto del SE’ pag.8
1.4. La terapia centrata sul cliente pag.9

CAP. II IL COUNSELING

2.1. Origini del counseling pag.12


2.2. Il contributo di :Rogers pag.13
2.3. Il contributo di R. Carkhuff pag.14
2.4. I presupposti per avviare una relazione di aiuto pag.15
2.5. I soggetti del counseling pag. 16
2.6. Dinamica del colloquio d’aiuto pag.19
2.7. La fine del colloquio pag.24
2.8. Obiettivi del colloquio pag.25

CAP. III IL CONSULENTE

3.1. Condizioni di base pag.28


3.2. Abilità di base pag.31
3.3. Capacità di rispondere pag.38
3.4. Risposte verbali a contenuti affettivi pag.48
3.5. Discriminazione tra comunicazioni cognitive e affettive pag.51
3.6. Concettulizzare i problemi e determinare gli obiettivi pag.57

CAP. IV ESERCIZI pag.63

CONCLUSIONE pag.78

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LA RELAZIONE D’AIUTO E LA SUA UTILIZZAZIONE
NELL’AMBITO SOCIO-EDUCATIVO

INTRODUZIONE

La relazione d’aiuto, come afferma Folgheraiter nell’introduzione al libro di


Mucchielli “Apprendere il counseling”, costituisce uno strumento di lavoro fra
i più importanti a disposizione degli operatori sociali professionali.

La tecnica della relazione d’aiuto è normalmente utilizzata degli specialisti del


settore e cioè psicologi, psicoterapeuti, assistenti sociali, educatori, ecc., ma
può essere utilizzata anche da altre figure professionali che abbiano interesse
per l’apprendimento delle dinamiche interpersonali e delle relazioni umane.

In particolare nell’ambito socio-educativo l’applicazione della relazione


d’aiuto può essere attivata nelle molteplici situazioni problematiche nelle quali
l’insegnante si trova ad operare rispetto alla relazione con gli allievi, con le
famiglie, con i colleghi, ecc. E’ esperienza di ogni insegnante trovarsi di fronte
a situazioni critiche nella relazione educativa. La tecnica del colloquio di aiuto
può rivelarsi utile quando un allievo ha bisogno di aiuto perché:

- non mobilita le sue energie


-
- non risolve problemi pur avendo risorse per risolvere
-
- assume comportamenti auto-distruttivi
-
- è insolitamente turbato o teso
-
- manifesta cambiamenti di comportamento
-
- sembra non rendersi conto delle conseguenze del suo comportamento.

Il colloquio d’aiuto si rivela efficace anche negli incontri periodici tra


insegnanti e genitori, quando si verificano situazioni di difficoltà e l’insegnante
desidera responsabilizzare la famiglia e mobilitare le sue risorse.

Ogni persona è chiamata a relazionarsi quotidianamente con altre persone e,


dal momento che non esistono relazioni umane neutrali, ma ogni relazione o fa
crescere o blocca le persone coinvolte nello scambio relazionale, è quanto mai
opportuno che sia gli operatori professionali sia i non professionisti abbiano la
maturità, la disponibilità e la conoscenza delle abilità pratiche che permettano
loro di essere catalizzatori di processi di crescita.

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Riuscire a sviluppare una competenza di gestione in queste relazioni è il
compito che ci proponiamo di affrontare nel nostro lavoro. Cominceremo
esponendo i principi teorici alla base della relazione d’aiuto, soffermandoci in
particolare sul contributo dato da Carl Rogers e da Robert Carkhuff.
Successivamente illustreremo le modalità pratiche attraverso le quali condurre
un colloquio d’aiuto.

L’obiettivo che ci proponiamo è quello di far conoscere una modalità di


relazione efficace, che possa essere utilizzata anche nell’ambio socio-
educativo. Negli incontri programmati forniremo eventuali chiarificazioni e
sperimenteremo concretamente la tecnica del colloquio al fine di consentire a
ciascuno di utilizzare nel proprio ambito questo tipo d’ intervento.

DEFINIZIONE DELLA RELAZIONE DI AIUTO

Una relazione di aiuto è un “incontro” tra due persone di cui una si trova in
condizioni di sofferenza, confusione, conflitto o disabilità, rispetto ad una
determinata situazione o a un determinato problema e un’altra è dotata di un
grado superiore di integrazione, competenza e abilità rispetto a queste
situazioni o tipo di problema.

Se fra queste due persone si riesce a stabilire una relazione che sia
effettivamente d’aiuto allora è probabile che la persona in difficoltà inizi
qualche movimento di maturazione, chiarificazione e apprendimento che la
porti ad avvicinarsi all’altra persona, assorbendone, in un certo senso le qualità,
o comunque a rispondere in modo più soddisfacente al proprio ambiente e alle
proprie esigenze interne ed esterne.

L’aiuto, tuttavia, non consiste tanto nel proporre soluzioni, quanto piuttosto nel
togliere ostacoli emozionali, cognitivi, ecc;, rendendo possibile il dispiegarsi
delle potenzialità che la persona in difficoltà possiede.

L’attore principale del processo di aiuto è, pertanto, colui che questo aiuto
ricerca e richiede. Questo è quanto ha elaborato Rogers con la sua “Terapia
centrata sul cliente”.

La relazione d’aiuto ha per sua principale finalità quella di restituire


l’autonomia e un maggiore senso di dignità e di autostima alla persona.
Pertanto è necessario che la persona venga trattata in modo tale da
sperimentare, già nel processo di aiuto, un adeguato e autentico clima di
autodeterminazione, responsabilizzazione e valorizzazione: il processo d’aiuto
è un allenamento all’autonomia che la persona dovrà progressivamente
conquistare.

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La relazione d’aiuto consiste fondamentalmente in un incontro tra due persone
“vere”. Se infatti la relazione di aiuto deve permettere all’altro di acquisire
nuove competenze, abilità e attitudini umane, queste stesse doti devono essere
possedute ed esercitate in modo manifesto dall’operatore. Quindi più che le
abilità tecniche contano le qualità personali dell’operatore, senza per questo
escludere il valore della sua competenza tecnica.
.
La relazione d’aiuto, infine, non è monopolio delle professioni d’aiuto: essa è
una relazione umana. La relazione madre bambino è per gran parte relazione
d’aiuto; molte relazioni amicali, familiari, di vicinato sono relazioni d’aiuto;
molte relazioni professionali tipo insegnante allievo, medico paziente, ecc.
possono assumere connotazioni di relazione d’aiuto. Quello che caratterizza
una valida relazione d aiuto è fare in modo consapevole, controllato e
intenzionale ciò che una persona fa spontaneamente nella sua vita quotidiana.
Sarebbe pertanto molto utile sostenere e potenziare le naturali capacità d’ aiuto
di coloro che nella loro vita o nello svolgimento della loro professione sono a
stretto contatto con situazioni di difficoltà.

AMBITI NEI QUALI SI ESPLICA LA RELAZIONE DI AIUTO


L’essenza della relazione d’aiuto non direttiva è quella di preparare la persona
ad avviare i cambiamenti necessari dopo aver messo a fuoco la realtà esterna
ed esplorato i propri bisogni e desideri. A seconda dei differenti cambiamenti
che una persona si propone di realizzare si possono ipotizzare tre percorsi e
cioè:

- Il counseling (o consulenza)
- La psicoterapia
- Il lavoro sociale

Il counseling

Il counseling ha lo scopo di abilitare la persona a prendere una decisione


riguardo a scelte di carattere personale (ad es. come scegliere un lavoro o un
corso di studi), ad affrontare problemi e difficoltà che lo riguardano
personalmente. Non si tratta di dire alla persona che cosa deve fare quanto
piuttosto di aiutarla a comprendere la sua situazione e a gestire il problema
assumendo da sola la responsabilità delle eventuali scelte. Il counseling ha a
che fare con l’area del conflitto, delle confusioni mentali, dell’ambivalenza, del
turbamento emotivo in seguito a stress più o meno violenti verificatisi nei vari
ambienti di vita (famiglia, lavoro, scuola, ecc.) in persone altrimenti ben
integrate ed adattate.

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La psicoterapia

Si propone la psicoterapia quando una persona è portatrice non di un problema


specifico, rispetto al quale operare delle scelte o degli aggiustamenti, ma è
afflitta da un disturbo strutturale della personalità che genera un grave disagio e
una grave sofferenza psichica. Nel disagio psichico il soggetto è prigioniero di
un sistema di atteggiamenti che disturbano la percezione obiettiva del reale o la
relazione con altre persone o l’organizzazione razionale del proprio
comportamento.

Il lavoro sociale

Questo tipo d’intervento non si focalizza sulle dimensioni interne della persona
(conflitti o vissuti deformati), ma sulle dimensioni esterne del comportamento
e sulle abilità di vita. Esso si propone un’azione educativa o rieducativa per
migliorare il funzionamento sociale della persona, per permettere alla persona
di darsi degli obiettivi e di tirar fuori le capacità per perseguirli. In particolare
gli obiettivi riguardano la sopravvivenza, la sanità, le relazioni sociali, la vita
lavorativa e quella economica.

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CAP. I. IL CONTRIBUTO DI CARL ROGERS
1.1. Cenni biografici

Parlare di consulenza non direttiva significa parlare della teoria di Rogers, uno
studioso il cui percorso evolutivo si è basato su una pratica clinica tanto isolata
dall’influsso delle teorie correnti da far sì che egli stesso sia stato a lungo
inconsapevole del grado di originalità di tali idee. E’ importante presentare la
sua teoria della personalità per capire meglio le sue pratiche terapeutiche.

Carl Rogeers nasce a Oak Park, nell’Illinois, nel 1902. Cresce in una famiglia
numerosa e molto unita e nella quale il duro lavoro e la religione protestante
erano tenuti nella massima considerazione. Quando Carl ha dodici anni la
famiglia si trasferisce in campagna, a vivere in una fattoria, spinta dal
desiderio di pace ma anche, egli suppone, dal desiderio di allontanare i figli
adolescenti dalle tentazioni della vita di città. Il padre, intenzionato a gestire la
fattoria su basi scientifiche, compra molti trattati di agricoltura e Carl, che si
occupa dell’allevamento degli animali, li legge avidamente e compie i primi
esperimenti, introducendo nel suo impegno pratico, una metodologia
scientifica. Il suo interesse per le scienze lo porta a laurearsi, nel 1924, in
scienze fisiche e biologiche. Trasferitosi a New York si interessa di psicologia
clinica nell’Institut for Child Guidance. Conseguita la laurea in psicologia,
Rogers entra a far parte del Guidance Centre di Rochester, di cui più tardi
diventerà direttore. Nel 1940 diventa professore di psicologia all’università
dell’Ohio e più tardi, nel 1945, all’università di Chicago.

Nei dodici anni trascorsi nella clinica psicopedagogia di Rochester egli si


stacca dall’ortodossia freudiana ed elabora una sua teoria della personalità.
Rogers afferma: “il personale era eclettico, con una preparazione professionale
assai varia e le nostre frequenti discussioni a proposito dei metodi di
trattamento erano basate sulle esperienze fatte giornalmente nel lavoro con i
bambini, gli adolescenti e gli adulti nostri clienti. E’ stato l’inizio di uno sforzo
che ho ritenuto sempre basilare, quello di scoprire l’ordine insito nella nostra
esperienza di lavoro con gli altri. Il mio libro sul trattamento clinico del
problema infantile fu uno dei risultati di questo sforzo” /1955).

La teoria della personalità elaborata da Rogers si trova ben sintetizzata nel


volume di Calvin S. Hall e Gardner Lindsey “Teorie della personalità”.

1.2. I principi fondanti della teoria di Carl Rogers

Abbiamo visto come Rogers dodicenne si dedichi all’osservazione e allo studio


della natura. Anni dopo, partendo da questa sua passione, inizierà a porre le
basi della sua teoria della personalità, che Calvin e Gardner sintetizzano in
sette punti.

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1. Ogni organismo vivente ha dentro di sé una tendenza naturale a svilupparsi,
a soddisfare dei bisogni, a realizzarsi e a d esaltare se stesso, così come ad
esempio, nel seme del melo c’è già in potenza ogni elemento morfologico e
funzionale che lo farà diventare una pianta. Questo individuo vive ed è
come immerso in un mondo continuamente mutevole di esperienze. Il
termine esperienza che riferisce a tutto ciò che accade all’organismo in un
dato momento, sia essa un processo fisiologico o un’impressione sensoria o
un’attività motoria o un’emozione. Solo una parte di queste esperienze è
percepita coscientemente, ma anche quella parte delle esperienze che
rimane inconscia può diventare cosciente quando se ne presenti la
necessità. Ne consegue che solo l’individuo che ha vissuto queste
esperienze conosce questo mondo privato in modo completo e genuino. La
persona è quindi la migliore fonte d’informazione su se stessa. Le sue
parole sono la simbolizzazione delle sue esperienze interiori e lo psicologo
può capire che cosa c’è nel mondo privato della persona ascoltando quello
che dice e accettando incondizionatamente il cliente: solo in questo modo
la persona si aprirà liberamente e senza riserve.

2. Ogni organismo reagisce al campo non appena lo percepisce e questo


campo percepito è per l’individuo LA REALTA’. L’individuo reagisce agli
stimoli esterni e alle perturbazioni interne non in quanto tali, ma a seconda
di come lui stesso li sperimenta. Quindi è questa REALTA’
SOGGETTIVA che determina il suo comportamento. Conoscere lo
stimolo, pertanto, non è sufficiente per prevedere il comportamento, ma
occorre piuttosto conoscere come la persona percepisce lo stimolo. Questo
spiega perché le persone reagiscono in maniera diversa alle stesse
situazioni o viceversa allo stesso modo in situazioni diverse. Per Rogers
quello che una persona sperimenta o pensa non è per essa la realtà: è
puramente un’ipotesi approssimativa sulla realtà, un’ipotesi che può
rivelarsi vera o no, un’ipotesi che dovrà essere verificata. Perciò l’individuo
controllerà la veridicità dell’informazione ricevuta con altre fonti di
informazione. La verifica consiste nel controllare dati meno certi con una
conoscenza diretta.

3. L’organismo reagisce come un tutto organizzato al suo campo fenomenico.


Pertanto, essendo l’organismo in ogni momento un sistema totale ed
organizzato, le alterazioni subite da una parte possono apportare
cambiamenti anche in altre parti.

4. La tendenza fondamentale dell’organismo è quella di mantenere,


attualizzare ed esaltare l’organismo stesso. Nella vita di ogni persona vi è
un movimento in avanti, una tendenza a progredire ed è proprio questa
l’unica forza sulla quale il terapeuta può contare se vuole realizzare un
miglioramento. L’AUTOATTUALIZZAZIONE non viene raggiunta senza
fatica, ma l’individuo si lancia nella lotta e sopporta la fatica perché la
spinta creativa a crescere è molto forte. Il bambino impara a camminare
nonostante le cadute iniziali, l’adolescente impara a ballare superando la

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sua goffaggine e il suo imbarazzo, ecc. però la tendenza progredire può
operare solo quando la scelta è percepita chiaramente ed è adeguatamente
simbolizzata. L’individuo deve conoscere prima di scegliere e solo quando
conosce è in grado di scegliere il progresso piuttosto che il regresso.

5. Il comportamento è il tentativo che l’organismo compie per soddisfare le


sue esigenze. Le esigenze sono molteplici però ognuna di esse è
subordinata alla tendenza base dell’organismo che è quella di mantenere ed
esaltare se stesso.

6. L’emozione accompagna e in genere facilita questo comportamento diretto


allo scopo. Le emozioni quindi sono considerate non nocive ma favorevoli
all’adattamento.

7. Il miglior punto di partenza per la comprensione del comportamento sta nel


sistema interno di riferimento dell’individuo stesso. Cercare di
comprendere la persona basandosi su un sistema esterno di riferimento, per
es. tests, osservazione, ecc. è meno utile e soddisfacente di quanto invece si
possa capire dagli atteggiamenti e sentimenti espressi dall’individuo stesso
nel corso della consulenza o della terapia. Rogers riconosce che le
autodescrizioni non danno un quadro completo della personalità, né
permettono di individuare tutti i fattori che costituiscono il comportamento.
La persona, infatti, può non essere capace di tradurre in parole ciò che
vuole dire; può non essere cosciente di tutte le esperienze che influiscono
sul suo comportamento; può esserne cosciente ma potrebbe non volerlo
esprimere; può infine essere intenzionata ad ingannare l’ascoltatore. Per
Rogers tuttavia questi difetti non mettono in discussione la sua
affermazione che il sistema interno di riferimento dell’individuo stesso sia
il miglior punto di partenza per la comprensione del comportamento.

1.3. Il concetto del SE’

Rogers afferma che una parte del campo percettivo totale si differenzia
gradualmente divenendo il SE’. Questo SE’ è la consapevolezza del proprio
essere e del proprio operare. In altre parole è questo il concetto del “SE’
COME OGGETTO”, cioè un insieme di esperienze che hanno lo stesso punto
di riferimento, cioè l’IO o il ME e che si differenzia dal campo totale, cioè da
quelle esperienze che non lo riguardano direttamente.

La struttura del SE’ è una configurazione concettuale organizzata, fluida, ma


coerente di percezioni, di caratteristiche e relazioni dell’IO, insieme con i
valori attribuiti a questi concetti. Il bambino impara presto a distinguere se
stesso dall’ambiente che lo circonda. Quando ha imparato questo capisce che vi
sono cose che gli appartengono e cose che appartengono all’ambiente. Inizia
quindi a formarsi una concezione di sé in relazione all’ambiente. Queste

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esperienze cominciano ad avere un valore che può essere di segno positivo (mi
piace) o negativo (non mi piace).

La struttura del SE’ è quindi il quadro organizzato esistente nella


consapevolezza, sia come figura (stati di coscienza ben definiti) sia come
sfondo (coscienza obnubilata o incoscienza) del SE’ e del SE’ in relazione in
relazione all’ambiente, insieme con i valori positivi o negativi che sono
associati a quelle qualità e relazioni.

Questi valori che fanno parte della struttura del SE’ sono, in alcuni casi, valori
sviluppati direttamente dall’organismo e in altri casi, valori introiettati o
assunti da altri, ma percepiti in maniera alterata come se fossero stati sviluppati
direttamente dall’individuo. Facciamo un esempio: al bambino piace fare
un’infinità di cose per le quali i genitori possono ricompensarlo o punirlo. Il
bambino che viene punito per aver fatto una cosa che gli procurava piacere, si
troverà a dover risolvere il conflitto fra il desiderio di una cosa che gli piace e il
desiderio di evitare una punizione. Nel risolvere questo conflitto il bambino
può dover rivedere la sua immagine di sé e il suo insieme di valori in maniera
tale che i suoi sentimenti reali e i suoi valori risultino alterati. Questo è quanto
succede nell’esempio proposto. Se i valori “veri” di una persona vengono
sostituiti con altri valori assunti o presi in prestito da altri individui, e se tali
valori vengono percepiti come se fossero sviluppati dalla persona stessa, il SE’
diventa come una famiglia i cui membri lottano gli uni contro gli altri. La
persona si sentirà tesa, non a suo agio e fuori posto, si sentirà come se non
sapesse che cosa è e che cosa vuole.

Ad esempio un individuo che si ritiene persona mite può negare i suoi


sentimenti aggressivi perché in contrasto con l’immagine che ha di se stesso.
Pur negandoli, talvolta li esprime con una simbolizazione alterata, per es.
proiettandoli su altri individui. Oppure se un individuo che si considera inutile
e senza valore ottiene una promozione a scuola o sul lavoro, penserà di aver
avuto qualcosa che non si meritava e in alcuni casi potrebbe peggiorare il suo
rendimento per dimostrare a se stesso e agli altri che non meritava quel
riconoscimento.

Rogers quindi sostiene che gli individui mantengono e difendono con tutte le
loro forze l’immagine del SE’, anche se completamente diversa dalla realtà.
Quel che minaccia o attacca questo quadro del SE’ a volte è cosciente a volte
invece è percepito in maniera inconscia. In ogni caso la situazine minacciosa
può produrre disturbi somatici, palpitazione di cuore, sensazioni di angoscia
senza che la persona sia in grado di identificarne le cause.

Se talvolta le esperienze o le necessità organiche possono indurre l’individuo


ad un comportamento che non è coerente con la struttura del SE’ egli sarà
portato a disconoscere la paternità di quel comportamento e si sforzerà di
trovare giustificazioni e scuse per mantenere un’immagine di coerenza con se
stesso.

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In conclusione questi due sistemi, cioè il SE’ e L’ORGANISMO, possono
operare armonicamente oppure in contrapposizione. Se collaborano c’è
l’adattamento e cioè tutte le esperienze sensoriali e viscerali possono essere
assimilate a livello simbolico in una relazione coerente con il concetto del SE’.
Se c’è contrapposizione invece, ogni esperienza che non è coerente con
l’organizzazione o la struttura del SE’ può essere vissuta come una minaccia. Il
SE’ costruisce delle difese, come ad esempio la negazione, e la persona diventa
sempre più disadattata.

Se si creano le condizioni nelle quali la struttura del SE’ non si sente più
minacciata, allora si possono esaminare esperienze non coerenti con essa e la
struttura del SE’ può venire modificata in modo da assimilarle e includerle.

1.4. La terapia centrata sul cliente

In contrasto con la sfiducia degli psicanalisti nei confronti delle parole del
paziente, Rogers sostiene che le auto descrizioni sono importanti come fonte
diretta di informazione sulla persona. Non è necessario sondare, interpretare,
fare elaborate e profonde analisi dei sogni o scavare strato dopo strato nella
psiche dell’individuo perché, secondo Rogers, la personalità dell’individuo
viene rivelata da quanto egli dice di se stesso. La persona è, secondo Rogers,
quello che essa stessa dice di essere. Con questo Rogers non nega che una
persona possa avere delle difese inconsce che alterano gravemente l’immagine
del sè. Però, visti i risultati ottenuti con il suo trattamento egli pensa che la sua
teoria abbia una validità che potrà essere ulteriormente migliorata con altri
studi e ricerche.

Per Rogers il successo di una terapia o di una consulenza si realizza quando il


terapeuta è capace di entrare in un rapporto intensamente personale e
soggettivo con il cliente, non in un rapporto come quello fra lo scienziato e
l’oggetto dei suoi studi o fra il medico e il malato da diagnosticare ma piuttosto
in una relazione da persona a persona. E’ fondamentale che il terapeuta
consideri il cliente una persona il cui valore è incondizionato ed è indipendente
dal suo comportamento o dai suoi sentimenti. Solo così il terapeuta è in grado
di comprendere il cliente e di percepire come egli si sente in ogni momento
della relazione e di comunicargli la sua immedesimazione. Ponendosi in questo
modo il terapeuta consente al cliente di esplorare i più strani, sconosciuti e
pericolosi sentimenti che porta dentro di sé. Il cliente impara a conoscere
elementi della sua esperienza che in passato erano stati negati alla coscienza
come troppo minacciosi e pericolosi. Egli si trova a fare un’esperienza
completa di questi sentimenti, cosicché in ogni momento egli è la sua paura o
la sua ira o la sua tenerezza o la sua forza. Vivendo questi sentimenti così
disparati, in tutti i loro gradi di intensità, il clliente scopre che ha sperimentato
se stesso, che egli è tutti questi sentimenti. Il suo comportamento cambia in
maniera costruttiva di pari passo con il SE’ da poco sperimentato.

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La persona comincia quindi a rendersi conto che non deve più temere
l’esperienza, anzi la deve accogliere come una parte del suo SE’ in evoluzione
e sviluppo.

Rogers fa osservare che, al di là della teoria, che pure è importante, le cose che
contano sono soprattutto l’esperienza e le capacità personali del terapeuta. Le
capacità richieste in una relazione d’aiuto sono fondamentalmente tre: la
genuinità o congruenza, l’empatia e l’accettazione incondizionata.

La genuinità o congruenza è l’elemento a cui egli attribuisce il valore maggiore


di tutti. E’ l’elemento essenziale, la condizione senza la quale ogni tentativo di
aiuto fallisce. La congruenza è la capacità della persona di essere se stessa, di
sapersi ascoltare, di lasciar fluire dentro di sé i propri sentimenti e di saperli
comunicare quando lo ritenga opportuno. E’ quell’essere in contatto con l’altro,
attraverso la propria umanità, senza maschere o ruoli che fanno essere il
rapporto falso e vuoto.

L’empatia è la capacità di percepire profondamente i valori e i sentimenti


dell’altro come se fossero i propri, sentire che ci si sta muovendo così
liberamente dentro al mondo dell’altro che possiamo comprenderlo
dall’interno, senza tuttavia perdere la propria identità in un rapporto di
vicinanza ma non di fusione.

L’accettazione incondizionata è una considerazione positiva della persona nella


sua globalità e interezza; non si limita ad accettare alcuni aspetti che piacciono
ed a rifiutarne altri. Possiamo non condividere tutti i valori della persona e
possono non piacerci certi suoi comportamenti, ma il nostro rispetto verso di
lei è totale ed esente da giudizio.

La definizione di queste tre condizioni, all’apparenza così semplici, lascia


aperta la strada ad interrogativi e riflessioni. Piuttosto che attitudini acquisibili
una volta per tutte, queste capacità si possono considerare come capacità che
la persona impegnata in una relazione di aiuto tende ad affinare per tutta la vita
e che in certe circostanze può utilizzare in maniera spontanea, mentre in altre
circostanze ciò può risultarle difficile.

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CAP II IL COUNSELING

2.1. Origini del counseling

Il counseling nasce negli anni ’50 negli Stati Uniti: I primi campi di
applicazione furono, da una parte, il contesto scolastico come orientamento e
guida professionale e, dall’altra, il supporto per il reinserimento dei reduci di
guerra nella società civile.

Con la legge del 1963 (Community Mental Health Act), che stabiliva il
principio della riorganizzazione territoriale dei servizi psichiatrici negli USA,
la professione del counselor cominciò sempre più a definirsi rispondendo
all’esigenza di un modello di intervento rispetto al disagio psicologico mutuato
dal movimento per la salute mentale e maggiormente centrato su:

- prevenzione anziché cura della malattia


- maggiore intervento per i problemi di salute mentale a livello sociale e di
comunità, anziché solo individuali
- concetto di crisi come opportunità di cambiamento in positivo piuttosto che
interpretato solo nella sua valenza negativa
- maggiore fiducia nell’essere umano in quanto in grado di attingere alle
proprie risorse psicosociali per una migliore qualità della vita.

Le radici storiche del counseling in Italia possiamo ritrovarle, nel senso più
ampio, nello sviluppo di una professione come quella dell’assistente sociale
(come relazione orientata alla relazione di aiuto) che iniziò a strutturarsi
durante gli anni ’20.

Dobbiamo però aspettare gli anni ’70 perché in Italia e in tutta l’Europa si
arrivi a definire la figura del counselor, affermatasi inizialmente in Gran
Bretagna.

La matrice teorica entro cui nasce e si sviluppa questa nuova professione è


quella della psicologia umanistico-assistenziale, la cui concezione dell’uomo si
basa su principi di “autonomia, libertà, auto-realizzazione, scelta,
responsabilità, capacità di autogestione, olismo. Tutti concetti-chiave per
comprendere l’individuo e il suo contesto come globalmente e strettamente
correlati, in una sinergia di potenzialità, interazioni e azioni convergenti verso
il divenire ciò che si è”.

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2.2. Il contributo di Carl Rogers

Carl Rogers ha tradotto in campo terapeutico i principi e lo spirito


dell’umanesimo inaugurando il metodo non-direttivo o centrato sul cliente. E’
con Rogers che l’impianto pratico-teorico che sottende la pratica del
counseling prende forma. Egli afferma a proposito del counseling come ‘nuova
tecnica’:”essa mira direttamente a una maggiore indipendenza e integrazione
dell’individuo piuttosto che alla speranza di ottenere tali risultati con l’aiuto
offerto dal counselor per la soluzione del problema. Lo scopo non è quello di
risolvere un problema particolare ma di aiutare l’individuo a crescere perché
possa affrontare sia il problema attuale sia quelli successivi in maniera più
integrata”.Rogers sottolinea le caratteristiche peculiari del counseling:

- fa molto più affidamento sulla spinta individuale verso la crescita, la salute


- e l’adattamento

- dà maggior peso ai fattori emotivi che non agli aspetti intellettuali della
situazione

- dà maggior rilievo alla situazione attuale che non al passato dell’individuo;

- è il contatto terapeutico in se stesso che costituisce un’esperienza di


maturazione.

In sintesi identifichiamo tre contributi teorici decisivi per la pratica del


counseling:

- all’interno del processo di aiuto l’attenzione è sul cliente affinché egli


possa sperimentare un autentico clima di autodeterminazione,
responsabilizzazione, valorizzazione

- l’enfasi si sposta dalle abilità tecnico-procedurali dell’esperto alle sue


qualità umane (genuinità, coerenza, disponibilità, sensibilità, creatività);

- il fuoco si sposta dal passato ad un’attenzione sul “qui ed ora” della


relazione d’aiuto.

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2.3. Il contributo di Robert Carkhuff

Carkhuff è stato originariamente allievo di Rogers e, partendo dalla teoria


enunciata da Rogers, ha elaborato un modello di relazione di aiuto
estremamente articolato. Rogers ha aperto il campo, ha creato nuove
sensibilità, Carkhuff ha perfezionato e standardizzato il lavoro di Rogers,
consegnandoci una metodologia facilmente utilizzabile e trasmissibile.

Carkhuff è inoltre colui che ha intuito come il lavoro terapeutico non è solo
quello che si effettua al chiuso degli studi professionali, ma è anche quello che
si realizza in qualunque momento in cui si stabilise una relazione, purchè si
faccia un uso maturo e intenzionale della relazione umana stessa.

Si parte cioè dalle relazioni spontanee nella vita quotidiana per arrivare a forme
di aiuto via via più complesse che si definiscono, a seconda appunto del loro
grado di strutturazione, come counseling e psicoterapia.

Il counseling presenta una chiara connotazione educativa più che terapeutica, e


si presta ad essere usato nel lavoro sociale, la nuova frontiera in cui sono
impegnate gran parte delle professioni di aiuto. Si distingue pertanto dalla
terapia psicologica che è intesa come cura di disfunzioni o patologie di
personalità. Il counseling si estende in ambiti non così ardui, ma senz’altro più
estesi, ambiti nei quali l’aiuto è necessario a prescindere dalla psicopatologia,
quando, cioè, la persona è incapace, in un determinato momento e in un
determinato ambito, di gestire situazioni della vita più o meno complicate, pur
possedendo un sufficiente grado di integrazione.

Il counseling, come abbiamo detto, è una relazione d’aiuto basata sull’attività


di colloquio; e’ un lavoro prevalentemente verbale che guida il cliente verso
l’introiezione e verso l’autoconsapevolezza. Il counseling si differenzia da altri
tipi di colloquio come, per esempio, la consversazione, la discussione,
l’intervista, l’interrogatorio, la confessione, la valutazione. E’ piuttosto una
relazione professionale nella quale una persona deve essere assistita per
operare un adattamento personale ad una situazione alla quale la persona non è
riuscita, da sola, ad adattarsi soddisfacentemente.

Pertanto in un processo di counseling la risposta alla crisi che il cliente porta


(sia esso individuo o coppia o gruppo) non sta in teorie o dottrine di cui il
counselor si fa portavoce, bensì nella RELAZIONE come luogo d’ incontro e
di accettazione dell’altro. Gli esseri umani nascono da relazioni, crescono e
vengono aiutati a svilupparsi nelle relazioni. La relazione è la fonte primaria di
conoscenza del mondo della persona. La relazione d’aiuto può costituire uno
strumento da utilizzare quando una persona subisce un arresto nella sua
crescita e ha bisogno di un contributo esterno per rimettersi in moto.

15
All’interno della relazione di aiuto il counselor assume la funzione cosiddetta
di agevolatore, facilitatore del processo di autodeterminazione del cliente.
Afferma Carkhuff : “il counseling si basa sul presupposto che nella persona vi
sono le risorse interiori (emozionali, affettive, cognitive, ecc.) necessarie a che
l’aiuto si produca nel suo interno,. L’aiuto consiste nel rendere possibile una
riattivazione o riorganizzazione di queste risorse originarie, senza nulla
aggiungere dall’esterno”.

Per mettere a fuoco gli aspetti metodologici basilari del fare counseling, è
necessario partire dal concetto di non direttività di Rogers, che implica una
atteggiamento di base nel quale il counselor si rifiuta di suggerire al cliente una
determinata direzione ed evita di portare l’individuo a pensare, sentire ed agire
secondo uno schema determinato.

2.4. Presupposti per avviare un colloquio d’aiuto

Per Mucchielli il colloquio d’aiuto è uno strumento da utilizzare in determinate


situazioni, mentre in alcuni casi esso è controindicato: “… Il principio alla base
dell’utilizzo del colloquio d’aiuto è il seguente: tutte le volte che il colloquio
faccia a faccia avrà per obiettivo esplicito la comprensione di una persona, di
un problema umano, di un comportamento, di una decisione (al fine di chiarire
la situazione facendo in modo che il cliente si spieghi completamente o nella
maniera più completa possibile) il colloquio d’aiuto nella precisa definizione
già formulata e condotto secondo le tecniche che verranno esposte sarà
senz’altro indicato, utile ed efficace”.

Ci sono situazioni in cui, invece, è controindicato l’intervento di counseling e


cioè.

- i casi in cui i problemi sono di tipo conoscitivo, informativo o applicativo


di disposizioni legali

- i casi in cui il cliente ha una scarsa o insufficiente capacità di pensiero


(bambini piccoli, persone con gravi disturbi psichici)

- i casi in cui il cliente non vuole partecipare ad un colloquio di questo tipo e


quindi non coopera.

Quest’ultimo punto è molto importante in quanto gli incontri di counseling


devono avvenire su richiesta del cliente. Non è compito del counselor obbligare
un persona a modificarsi ma è il cliente che deve cercare di cambiare e di
sviluppare se stesso. Il ruolo del counselor è quello di agevolare questa
evoluzione, non prendendo decisioni al posto del cliente, ma aiutando
l’individuo ad osservare i suoi sentimenti e le sue mete affinché possa
assumere fiduciosamente l’autodirezione.

16
La persona che ha bisogno d’aiuto deve ammettere la propria impotenza a
capire e a capirsi e la difficoltà di uscire da sola dalle problematiche che sta
incontrando. Con questo non si vuol dire che sarà l’operatore ad apportare una
soluzione preconfezionata o che l’operatore si debba sostituire all’IO del suo
cliente, ma piuttosto che l’operatore utilizzerà le risorse del cliente fino a
renderlo capace di comprendere meglio la propria situazione e a trovare
autonomamente delle soluzioni.

2.5. I soggetti del counseling

Perché si realizzi una relazione d’aiuto è necessario:

- che ci sia una persona in cerca d’aiuto

- che ci sia una persona che vuole dare aiuto e sia in grado di farlo

- che il contesto permetta di dare e ricevere aiuto

2.5.1. Il counselor

E’ colui che dà l’aiuto. Compito del counselor è quello di compiere due azioni
specifiche:

- comprendere il problema nei termini in cui si pone per quella particolare


persona in quella particolare situazione;

- aiutare il cliente ad evolvere personalmente nella direzione di un suo


migliore adattamento sociale.

Rogers ritiene che un buon counselor debba possedere le seguenti


caratteristiche di base:

- obiettività
- rispetto per l’individuo
- comprensione di se stesso
- conoscenza psicologica

Altre qualità che si possono aggiungere sono: simpatia, capacità di sentirsi a


proprio agio in compagnia degli altri, capacità di empatia e altre caratteristiche
che possono avere anche una connotazione di ambizione personale. Il
counselor deve avere un vero desiderio di aiutare le persone. Per ottenere ciò è
necessario essere capaci di:

- comprendere se stessi e conoscere i propri bisogni e i propri limiti;

17
- ascoltare oggettivamente e accuratamente;

- usare i propri sentimenti personali e metterli a disposizione del cliente;

- avere conoscenze concettuali adeguate dei modelli e dei principi teorici che
si dovranno applicare;

- riconoscere, accettare, interpretare e lavorare con idee nuove, scomode e


confuse;

- sapersi fidare e guadagnare la fiducia delle persone.

2.5.2 Il cliente

E’ colui che chiede aiuto .Il termine “cliente” è stato adottato deliberatamente
da Rogers, invece di soggetto, paziente, malato, allievo, e il termine counselor
invece di terapeuta, professore, educatore, assistente, per denotare l’originalità
di una situazione nella quale l’assistito sceglie di farsi aiutare ma non
abbandonerà né la sua libertà né la sua responsabilità nella soluzione delle sue
difficoltà.

Il Dizionario di counseling (Felthan, Dryden, 1995) afferma “il counseling è


un servizio ricercato da persone in stato di disagio e di confusione che
desiderano discuterne e risolverlo nel quadro di una relazione più disciplinata e
confidenziale dell’amicizia e forse meno stigmatizzante di quelle offerte nei
modelli medici e psichiatrici tradizionali. Il processo può comportare molte
esperienze diverse:

- tematiche evolutive
- assunzione di decisioni critiche
- difficoltà nell’affrontare situazioni emotivamente forti.

Coloro che lavorano nel campo del counseling e dello sviluppo umano
constatano che tutte le persone hanno periodicamente bisogno di aiuto e
sostegno via via che sperimentano i normali stadi e transizioni della vita, nei
quali la persona non riesce a:

- mobilitare le sue energie


- risolvere i problemi pur avendone le risorse
- prendere le decisioni necessarie
- rispondere a motivazioni abituali
- evitare comportamenti autodistruttivi
- superare turbamenti e tensioni
- controllare il proprio comportamento e rendersi conto delle conseguenze
del proprio comportamento.

18
.

2.5.3. La relazione counselor-cliente

E’ il contesto che permette di dare e ricevere aiuto. Il rapporto che viene a


crearsi tra counselor e cliente è diverso da ogni altro genere di rapporto
sperimentato: non è un rapporto di amicizia, non è un rapporto come tra
genitore e bambino, o come tra professore e allievo, o come tra leader e
seguace, né un rapporto come tra compagni di lavoro, Rogers afferma che
spesso anche un counseling ispirato ai migliori propositi non raggiunge i
risultati sperati perché non si è stabilito un rapporto soddisfacente tra il
consulente ed il cliente. Egli cita quattro elementi ben definiti che
caratterizzano questo rapporto:

- il calore e la rispondenza da parte del consulente;

- la tolleranza rispetto all’espressione dei sentimenti;

- i limiti ben precisi della relazione;

- l’assenza di coercizione o pressione:

Per quanto riguarda la questione dei limiti, i limiti principali caratterizzano


aspetti come il tempo, la responsabilità, l’azione aggressiva e l’affettività.

E’ molto importante che i limiti di tempo fissati per l’incontro di counseling


vengano rispettati: è uno dei limiti più evidenti la cui tendenza al rispetto o non
rispetto da parte del cliente consente di esplorare la sua difficoltà
all’adattamento dei limiti imposti.

Per limite di responsabilità si intende la non responsabilità del counselor


riguardo ai problemi e alle relative soluzioni del cliente. Il counselor può essere
agevolatore, sostenitore dei processi di cambiamento del cliente, ma è di
quest’ultimo la responsabilità della scelta di una strada anziché di un’altra.

Il limite rispetto all’azione aggressiva da parte del cliente è di non tollerare


nessuna espressione fisica della rabbia.

Per limitazione dell’affettività si intende la negazione all’eventuale richiesta


del cliente di continuare il rapporto con il counselor anche al di fuori dell’ora di
counseling, oppure la richiesta di essere dipendente dal counselor.

19
2.6 Dinamica del colloquio d’aiuto

2.6.1.L’inizio del colloquio

Spesso sia il consulente che il cliente hanno una certa difficoltà ad iniziare il
colloquio. Non esiste uno schema preordinato su come iniziare il colloquio, ma
esistono degli obiettivi che il consulente deve proporsi di raggiungere affinché
il colloquio sia efficace e cioè.

- ridurre il livello di ansietà del cliente tanto che possa cominciare a parlare

- cercare di non parlare troppo per non sottrarre spazio al cliente

- ascoltare attentamente ciò che il cliente dice e cercare di ricostruire nel


pensiero il mondo che il cliente descrive.

Per ridurre il livello di ansietà occorre fare attenzione ad alcuni aspetti basilari:

- non fare aspettare il cliente ma essere puntuali, perché questo significa


rispetto per il cliente

- far accomodare il cliente, dopo la presentazione, se necessaria, in una sedia


o in una poltrona comoda

- dare indicazioni sulle modalità dell’incontro e sulla riservatezza


dell’argomento del colloquio.

2.6.2. Invito a parlare

Dopo questa iniziale presentazione, il consulente entra in rapporto con il cliente


invitandolo a parlare. L’invito a parlare può essere non strutturato, ciò si
verifica quando il consulente non propone l’argomento di cui parlare e lascia
che il cliente parli liberamente di qualunque cosa lo preoccupi. Questa modalità
si utilizza quando è il cliente a fare una esplicita richiesta di colloquio e il
consulente non conosce l’argomento di cui vuole parlare.

Un invito strutturato, invece, è quello che indica in modo chiaro e specifico


l’argomento Questo tipo di colloquio si realizza quando il consulente invita il
cliente al colloquio, per es. quando un insegnante invita un genitore ad un
colloquio riguardante il figlio.

20
2.6.3. Il silenzio

Le pause e i momenti di silenzio sono normali all’inizio del colloquio. E’


importante che il consulente non si senta a disagio nel silenzio, ma sappia
aspettare, magari rinnovando l’invito a parlare.

In ogni caso il consulente non può e non deve, per coprire il silenzio, parlare
troppo o incitare a parlare con domande incalzanti, perché così l’attenzione non
sarà più centrata sul cliente ma sul consulente ed inoltre il cliente reagirà con
ulteriore passività all’attività del consulente.

Nel caso che il cliente introduca argomenti generici e poco personali è bene
che il consulente non incoraggi il cliente a continuare e, pur mostrando
considerazione per il cliente, non assecondi il cliente nel suo discorso generico
o impersonale.

2.6.4 .Interventi del consulente

Se nel colloquio il consulente vuole centralizzare i sentimenti del cliente o la


dinamica interpersonale sceglierà un tipo di risposta che metta in risalto i
sentimenti del cliente, che descriva le relazioni e che comunichi la
comprensione del cliente stesso. Queste risposte contengono:

- riformulazioni di certe frasi dette dal cliente

- rispecchiamento dei sentimenti del cliente

- ricapitolazione dei sentimenti

- richieste di chiarificazione

- riconoscimento del comportamento non verbale

Questi tipi di risposta incoraggiano il cliente a manifestare e ad esplorare


pensieri e sentimenti e danno al consulente l’opportunità di comprendere
sensazioni e percezioni che prova il cliente.

21
2.6.5 La riformulazione

Anche se è importante rimanere in posizione di ascolto ci sono tuttavia diversi


modi in cui il consulente può comunicare al cliente che è veramente in ascolto
e che ha un ruolo attivo. La riformulazione è uno di questi modi. Essa consiste
nel ripetere il pensiero o il sentimento principale espresso dal cliente. Facciamo
un esempio.

Cliente: “non so se continuare a frequentare la scuola o lasciarla e cercarmi un


lavoro. Se la lascio, però non so che lavoro potrei trovare”.

Consulente: “lei non sa se rimanere a scuola o lasciarla”.

In questo esempio il cliente ha espresso due pensieri: se rimanere o no a scuola


e l’incertezza sulla possibilità di trovare lavoro. Quando il consulente ricorre
alla riformulazione è facile che risponda all’ultimo concetto espresso dal
cliente. Il consulente deve cogliere e ripetere il pensiero o il sentimento più
importante indipendentemente dalla sua posizione nel discorso. Bisogna, però,
non fare un uso eccessivo della ripetizione, altrimenti si otterrà uno spiacevole
effetto pappagallo.

2.6.6 Riflettere i sentimenti

La riflessione del sentimento è una risposta parafrasata data ad un sentimento


comunicato dal cliente, verbalmente o non verbalmente. Si chiama riflessione
in quanto nella risposta si rispecchiano i sentimenti o le emozioni presenti nei
messaggi del cliente.

Come riflettere un sentimento espresso verbalmente?

Cliente: “ Un mio grosso problema è che quando sono con la gente non ho
niente da dire …”
Consulente . “così quando lei è con gli altri sente che non ha niente da
comunicare”.

Come riflettere un sentimento espresso non verbalmente

Cliente: non dice niente ma sta curvo sulla sedia con gli occhi bassi e un’aria di
abbandono
Consulente: “dal suo aspetto mi sembra che debba sentirsi molto solo e
scoraggiato”.

22
2.6.7. La ricapitolazione dei sentimenti

La ricapitolazione del sentimento è un tipo di risposta simile a quella che


riflette i sentimenti; c’è tuttavia una differenza: essa tiene conto della gamma
dei sentimenti comunicati nell’arco di alcuni minuti. il consulente con il suo
intervento richiama una serie di sentimenti.

Cliente: “…sto male con la gente. Quando mi trovo in un gruppo numeroso va


un po’ meglio, ascolto… e mi viene desiderio di intervenire… ci penso molto
tempo prima di parlare e quando sto per dire qualcosa penso che non è
importante e resto bloccato. E poi, quando sto con la gente sento che devo
osservare e imparare se no non valgo niente e questo mi dà fastidio”.

Consulente: “vediamo se ho capito ciò che ha detto. Nei gruppi numerosi lei si
sente un po’ più sicuro. Ma se vuole dire qualcosa fa così fatica a trovare il
modo di dirla che alla fine decide che forse non vale la pena di essere sentito,
questo la fa star male”.

2.6.8. .Richiesta di chiarimenti

A volte ciò che il cliente dice è un po’ enigmatico e confuso e il consulente si


domanda che cosa il cliente voleva veramente dire. In questi casi è veramente
importante che il consulente chieda un chiarimento piuttosto che cercare di
indovinare e lasciar cadere la cosa. La richiesta di chiarimenti sollecita il
cliente a ripetere il concetto e ciò può avvenire in modi diversi. Ecco degli
esempi:

- “può provare a descrivere quel sentimento in un altro modo?”


- “non sono certo di capire ciò che intende dire”
- “quando dice ‘confuso’, che tipo di sentimento prova?”
- “credo di essermi perso. Può ripetermi la sequenza degli avvenimenti?

2.6.9. Riconoscimento del comportamento non verbale

Il riconoscimento del comportamento non verbale è una risposta che mette in


evidenza un gesto o una posizione del cliente molto chiara, senza cercare di
interpretarne il senso. In questo modo la risposta è differente dalla riflessione
non verbale di un sentimento. E’ importante non cedere all’inclinazione di
interpretare verbalmente il comportamento del cliente. Il consulente però può
chiedere conferma o chiarimento al cliente in modo che, se ha un significato, il
cliente lo può dire. Ecco alcuni esempi:

- “lei sta tutto teso adesso”


- “ha un’aria curiosa. Ha seguito il mio discorso?”
- “il suo corpo mi pare più rilassato. Si sente più rilassato?”

23
2.7 La fine del colloquio

Il consulente alle prime esperienze si sente spesso incerto sul quando


terminare, e può sentirsi pronto a farlo o prima o dopo che sia pronto anche il
cliente. Orientativamente un colloquio d’aiuto deve durare circa un’ora. E’ raro
che un colloquio duri più di un’ora in quanto c’è un punto di saturazione sia
per il cliente che per il consulente.

Bisogna anche prendere in considerazione che c’è un tempo minimo perché il


colloquio d’aiuto possa aver luogo. Colloqui della durata di dieci, quindici
minuti sono troppo brevi e non permettono al consulente di capire abbastanza il
problema del cliente. Anzi, a volte, i consulenti hanno bisogno di quei cinque,
dieci minuti che permettano loro di spostare l’attenzione dall’attività
precedente per orientarla al colloquio in cui sono impegnati. Porre dei limiti di
tempo è particolarmente importante quando il consulente ha più colloqui. E’
noto da alcune ricerche ed esperienze che i cliente, come qualsiasi altra
persona, tendono a ritardare il più possibile il momento in cui devono parlare
del loro problema. Se non si stabiliscono chiari limiti di tempo il colloquio può
protarsi per molto più di un’ora: questa è la situazione tipica in cui il cliente
può manipolare facilmente il consulente, cosa che deve essere evitata.

Al momento della chiusura del colloquio è importante che sia il cliente sia il
consulente siano consapevoli che sono in fase di chiusura. Inoltre, nella fae di
chiusura il consulente deve provvedere a che il cliente non introduca nuovi
argomenti e se il cliente cerca di farlo è bene che il consulente dica che
quell’argomento può essere un buon punto di partenza per il colloquio
successivo

Per terminare il colloquio spesso basta una piccola frase del consulente, come
per esempio: “sembra che il nostro tempo per oggi sia finito”, oppure: è giunto
il momento di fermarsi per oggi; un altro sistema efficace da usare è la
ricapitolazione che consiste essenzialmente in una serie di frasi con cui il
consulente collega i punti principali del colloquio. La ricapitolazione è un
genere di risposta attiva da parte del consulente e spesso aiuta il cliente a
riascoltare ciò che ha esposto

Un’altra possibile strategia per concludere il colloquio consiste nel chiedere al


cliente di ricapitolare, chiedendogli che cosa conserva dell’incontro avvenuto,
per esempio: “dato che per oggi stiamo ormai finendo il nostro incontro, mi
piacerebbe sapere che cosa lei porta con sè riguardo a quanto abbiamo detto, se
potesse ricapitolare, penso sarebbe utile per lei e per me”.

24
2.8. Obiettivi del colloquio

Il colloquio d’aiuto mira al raggiungimento di obiettivi che si realizzano per


passaggi successivi. Questo processo può avvenire attraverso una serie di
colloqui, ma anche all’interno di un unico colloquio d’aiuto. Identifichiamo tre
fasi nel processo del colloquio d’aiuto.

Prima fase

Obiettivo del counselor: COMPRENDERE

Obiettivo del cliente: CHIARIRE E DEFINIRE IL PROBLEMA

Per capacità di comprensione si intende la capacità del counselor di mettere


pienamente a frutto l’abilità che abbiamo definito come empatia; essa è il
presupposto di base, ma di non minore importanza sono anche la capacità di
sospendere il giudizio, l’ascolto attivo e l’accettazione incondizionata.

Seconda fase

Obiettivo del counselor: STIMOLO E CONRONTO

Obiettivo del cliente: CAMBIARE IL MODO DI PENSARE RISPETTO


AL PROBLEMA

Riuscire ad agevolare il cliente affinché arrivi ad un cambiamento di


prospettiva che gli permetta di osservare il suo problema in maniera diversa
diventa un passaggio importante verso una soluzione.

Terza fase

Obiettivo del counselor: FARE DA GUIDA PER IL REPERIMENTO E LA


LA MOBILITAZIONE DELLE RISORSE
NECESSARIE PER IL CAMBIAMENTO

Obiettivo del cliente: SVILUPPARE E VALUTARE LE OPZIONI A


DISPOSIZIONE PER RENDERE OPERATIVE
QUELLE PRESCELTE

25
Rispetto ad ogni problema esistono diverse opzioni possibili tra cui scegliere e
per ognuno di noi ve n’è una adatta più delle altre; compito del counselor nella
terza fase è proprio quella di aiutare il cliente a considerare tutte le opzioni
possibili, a valutarle e a trovare il modo di attuare quella più adatta al suo caso.

Il counselor durante il colloquio d’aiuto deve avere presenti in ogni momento


alcune direttive che possiamo così elencare:

- chi parla è il cliente. Per quanto ovvia, tale affermazione ha lo scopo di


sottolineare quanto sia importante che il cliente “esponga” nella maniera
più approfondita ed esauriente possibile il suo problema. Il fatto stesso di
esporre il problema alla presenza del counselor giova non solo alla
possibilità di indirizzare al meglio le risorse per una soluzione, ma permette
al cliente di acquistare consapevolezza e di dare alle sue difficoltà
un’attenzione diversa.

- II counselor è in grado di orientare l’esposizione del cliente nella direzione


del problema centrale.

- Il counselor deve essere in grado di non lasciarsi scandalizzare né


offendere. Il counselor offre le sue risposte non in maniera dogmatica, e
successivamente deve saper leggere le reazioni del cliente ai suoi
interventi.

26
CAP. III IL CONSULENTE

Essere counselor, dunque, significa essere in grado di mettere a disposizione


del cliente l’esperienza e la tecnica, l’essere, il saper essere ed il saper fare, che
sono elementi fondanti di una modalità operativa di non direttività. Secondo
Rogers la non direttività può essere efficace solo se fa parte integrante della
filosofia della persona che la applica, non si tratta affatto di una tecnica che si
può semplicemente adottare e poi respingere.

Le qualità e le competenze che deve possedere il consulente, in una relazione


d’aiuto, possono essere distinte in condizioni di base, abilità di base e
microabilità.

3.1. Condizioni di base

3.1.1. Genuinità o spontaneità

Dice Rogers: “tutti noi conosciamo individui di cui ci fidiamo perché sentiamo
che essi sono realmente come appaiono, aperti e trasparenti. In questo caso
sentiamo di avere a che fare con la persona stessa, non con una facciata cortese
o professionale. Questa è la genuinità”.

Nel processo d’aiuto la genuinità. dell’operatore si evidenzia nell’essere


sempre se stesso, sempre in contatto con i propri sentimenti e con ciò che nel
rapporto si sta svolgendo dentro di lui, senza sentire la necessità di negarlo o di
distorcerlo. L’operatore genuino non nega la propria personalità ma la esprime
e, secondariamente, non si colloca su un piedistallo, mettendo avanti la tecnica
professionale, per evitare un autentico coinvolgimento personale. Occorre
essere se stessi ma in senso costruttivo.

Atteggiamenti non costruttivi vengono elencati e riassunti da Mucchielli:

- far conversazione
- fare indagini o interviste o interrogatori
- fare discussioni
- fare diagnosi o valutazioni
- fare interpretazioni
- dare soluzioni

27
3.1.2. Accettazione incondizionata

La persona è accettata indipendentemente da ciò che pensa, fa o dice ma solo


per quella che è e per la sua motivazione al cambiamento.

Dice Rogers: “il terapeuta deve comunicare al suo cliente il profondo e sincero
interesse per lui come persona, con potenzialità umane, un interesse non
contaminato da un giudizio sulle idee, sui sentimenti o sul comportamento del
paziente. Ciò non significa che l’operatore debba restare indifferente agli
aspetti etici connessi a ciò che la persona dice o fa, ma che offre alla persona
l’opportunità di prendere piena consapevolezza di comportamenti che possono
essere moralmente riprovevoli proprio perché è questo l’aiuto richiesto”.

Il processo di aiuto deve servire a rinforzare questa presa di coscienza morale e


la disponibilità a cambiare non deve, pertanto, essere un’arena nella quale
l’operatore dà sfoggio della sua superiorità morale, bollando con i suoi giudizi
le incapacità della persona che ha di fronte.

L’accettazione, comunque, non esclude il confronto; cioè un atteggiamento di


contrapposizione, non alla persona in sé, ma ad alcuni aspetti particolari del
suo comportamento che appaiono contraddittori o incoerenti all’operatore, ma
che possono non arrivare alla percezione della persona per la presenza di
meccanismi autodifensivi.

Dice Carrkhuff: “gli obiettivi del confronto sono quelli di aiutare il cliente ad
esplorare aree di sentimento, esperienza e comportamento che egli si è sempre
ben guardato dall’esplorare … e di aiutare il cliente a comprendere modalità
autodistruttive di comportamento o risorse sottoutilizzzate”. Mettendo in
rilievo:

- le incoerenze tra i livelli psicologici,


- le distorsioni, cioè l’incapacità di leggere la realtà così come
obiettivamente è
- i giochi e le tattiche relazionali
- le evasioni, cioè i tentativi di arrampicarsi sulle verbalizzazioni

l’operatore fa fare uno scatto alla persona nella comprensione di sé.

Il confronto è un intervento a rischio, nel senso che può entrare in


contraddizione con l’accoglienza ed essere vissuto dal cliente come un
respingimento della sua persona. Se non è abilmente e responsabilmente
condotto dall’operatore o se la persona non è adeguatamente rassicurata da una
precedente esperienza di accettazione e di empatia, il confronto può indurre
chiusure difensive e dunque essere controproducente.

28
3.1.3. Comprensione empatica

Per Rogers empatia significa: “capacità di mettersi al posto dell’altro, di vedere


il mondo come lo vede costui”.

La comprensione empatica riguarda, quindi, la capacità dell’operatore di


cogliere accuratamente la situazione personale di colui che gli sta di fronte in
base a ciò che dice (dai contenuti oggettivi delle sue espressioni verbali) e in
base a ciò che è (dal suo rivelarsi nel non verbale). La comprensione accurata
dell’altro dovrebbe prodursi con un insieme di sentimento (coinvolgimento
affettivo) e di intelligenza percettiva.

Secondo Carkhuff questa comprensione empatica deve però essere


accompagnata da un’importante disposizione “attiva” dell’operatore e cioè
l’immediatezza o relazione mutuale.

L’operatore deve avere la capacità di comunicare all’altro, in modo aperto e


diretto, impressioni o rilievi sul modo in cui si sta svolgendo la relazione fra
loro in quel momento.

L’operatore deve essere in grado di percepire eventuali messaggi impliciti che


si riferiscono a come l’altro vive la relazione con lui “nel qui e ora” e di
riformulare queste impressioni in termini espliciti di comunicazione.

E’ importante che l’operatore parli apertamente della relazione che è in atto


affinché la persona impari a farlo lei stessa nel corso del processo di aiuto e
poi, in ultimo, nella propria vita. Questo sforzo di comprendere l’altro, di
entrare in empatia non si attua semplicemente con la buona volontà, ma
richiede una formazione e un metodo.

3.2. Le abilità di base

Le abilità di base sono:

- la capacità di ascolto e di osservazione


- le microabilità, cioè: prestare attenzione
le espressioni del viso
le posizioni e i movimenti del corpo
le risposte verbali

29
Il colloquio non si può immaginare né preparare a tavolino. Nel colloquio
d’aiuto l’obiettivo dell’operatore è quello di favorire al massimo l’espressione
e lo sforzo di formulazione del problema da parte del cliente::

Il consulente, per aiutare realmente il cliente e facilitare il suo insight, deve


personalizzare le esperienze del cliente: cioè mettere a fuoco esattamente la
situazione del cliente, le reali difficoltà, i desideri, ecc..

3.2.1. Capacità di osservazione e di ascolto

L’ascolto e la comprensione producono l’azione e il cliente riceve un feedback


che fa sì che il processo si riattivi, si vada ad un’esplorazione sempre più
approfondita, ad una sempre più esatta comprensione e ad un’azione sempre
più efficace.

L’abilità del consulente consiste nel riuscire a vedere il mondo con gli occhi
del cliente. Per ottenere questo occorre, prima di tutto, avere la capacità di
prestare attenzione: significa comprendere ciò che sta dicendo il cliente e
soprattutto capire ciò che avviene qui ed ora nella relazione stessa. Se il
consulente è in grado di garantire questo ascolto e questa osservazione otterrà
un maggiore impegno da parte del cliente e faciliterà i suoi processi interni di
esplorazione della sua situazione.

Prima che il cliente possa riuscire ad elaborare le sue esperienze è necessario


coinvolgerlo nella dinamica dell’aiuto, deve cioè essere disposto a comunicare
ad un altro le proprie esperienze personali significative e lo farà solo quando si
accorge che l’altro dà a lui un’attenzione totale

Il rischio maggiore che corre il consulente ascoltando è quello di interpretare:


interpretando si rischia di proiettare i propri significati sulla situazione
dell’altra persona e si introducono degli elementi soggettivi e deformanti che
non permettono di percepire il vissuto reale del cliente.

Un altro pericolo da evitare è la discussione, che si verifica quando, partendo


dalle argomentazioni del cliente, si dà una soluzione; soluzione che può essere
eccellente dal punto di vista logico, ma che normalmente provoca irritazione e
resistenza da parte del cliente, soprattutto quando non coglie l’angolatura
psicologica, il vissuto e il punto di vista del cliente. E’ importante, invece, che
sia il cliente stesso, con l’aiuto del consulente che lo porta a guardare e a
leggere dentro di sé, ad avere le informazioni utili e a trovare la soluzione dei
suoi problemi.

Un altro errore da evitare è quello di lasciarsi sedurre dal cliente, di lascirsi


coinvolgere dalle sue emozioni e dai suoi stati affettivi, anche se ciò non
esclude un profondo interesse per le esperienze che il cliente sta comunicando.

30
Se si attua un processo di identificazione con il cliente, il consulente non è più
in grado di valutare la situazione con il necessario grado di obiettività.

Ed infine, proprio per sottolineare che si è anche fisicamente attenti, è


importante essere uno di fronte all’altro, di essere seduti alla stessa altezza, con
una giusta inclinazione del corpo, mantenendo il contatto dello sguardo. Anche
il luogo non può essere uno qualunque. Il luogo più favorevole è quello che
permette il migliore ascolto, senza rumori esterni, senza telefono, senza
passaggio di gente esterna.

Anche il tempo ha la sua importanza sia per quanto riguarda il momento scelto
per il colloquio, sia per la durata. Un colloquio efficace richiede circa un’ora di
tempo.

Tipi di osservazione

a) Le osservazioni dirette

Gli stati affettivi, il vissuto del cliente si manifestano innanzitutto in molteplici


modalità che possono essere percepite direttamente e senza tante difficoltà,. Le
espressioni del volto, il modo di star seduti, il silenzio prolungato, il cambiare
discorso, ecc. sono atteggiamenti che hanno un significato che il consulente
deve essere in grado di cogliere: possono significare paura, aggressività,
vergogna, tristezza, ecc. E’ perciò importante saper utilizzare le conoscenze
psicologiche provenienti dall’introspezione personale e dall’esperienza del
consulente, per cogliere il vissuto del cliente dalle parole e da ciò che sta al di
là delle parole, sempre a condizione che questo sia il frutto di una osservazione
e non di una supposizione
.
b) L’auto-osservazione

E’ importante che il consulente osservi se stesso sia per non proiettare verso
l’altro le proprie opinioni e convinzioni sia per cogliere l’effetto del suo
intervento sul cliente. Anche il cliente dà un preciso significato ai gesti e alle
parole del consulente.

c) L’osservazione della relazione consulente cliente

Il consulente deve porre attenzione alle dinamiche che si stabiliscono durante il


colloquio d’aiuto e vedere ciò che accade nella relazione qui ed ora.

E’ facile sentire mentre è difficile ascoltare. Nell’ascoltare l’altro occorre


essere consapevoli che il proprio contesto personale può condizionare la
comprensione di ciò che il cliente esprime.

31
La nostra fantasia, la nostra ideologia, il nostro temperamento rappresentano
dei “contesti personali” nei quali si inserisce ciò che viene dall’altro. La nostra
appartenenza ad un gruppo sociale finisce per modellare il nostro modo di
percepire e di reagire: sono i cosiddetti stereotipi. Lo stereotipo rappresenta una
modalità rigida di concepire e di valutare le persone appartenenti ad un gruppo
diverso dal proprio. L’attenzione e quindi l’ascolto vanno focalizzati sulla
persona oltrepassando il fatto della sua appartenenza ad un gruppo con il quale
possiamo essere solidali o estranei, alleati o amici.

Ma ci sono anche altri fattori riguardanti, ad es.,: età, sesso, tipo di affettività
che possono condizionare l’ascolto e la comunicazione. Saper ascoltare e saper
osservare esigono la conoscenza il controllo e la padronanza di queste variabili.

Ciò che non bisogna mai dimenticare è lo scopo del colloquio che è di riuscire
a portare alla luce le realtà da comprendere, di far in modo che il cliente possa
esprimere il suo problema personale. Siccome le difficoltà relative alla
chiarificazione del problema sono grandi, occorre almeno cercare di eliminare
quelle difficoltà che provengono dalle condizioni in cui si svolge il colloquio.

3.2.2. Le microabilità

Le microabilità consistono in tutte quelle abilità di comunicazione che


costituiscono una relazione di aiuto e sono:

- prestare attenzione
- mantenere il contatto visivo
- tono appropriato di voce

3.2.2.1. Prestare attenzione al cliente

Il consulente deve prestare al cliente un’attenzione totale. Vi sono tre modi per
comunicare attenzione;

- le espressioni del viso


- le posizioni e il movimento del corpo
- le risposte verbali,

attraverso questi tre canali il cliente percepisce il grado di accettazione,


approvazione, rifiuto o indifferenza. Se il cliente avverte accettazione e
comprensione si sentirà meno insicuro e sarà portato ad aprirsi sempre di più;
se invece avverte indifferenza o distacco sarà portato ad interrompere il dialogo
e a chiudersi.

32
a) Effetti delle espressioni visive
Gli effetti delle espressioni visive sono prodotti dal contatto visivo, dai cenni di
assenso e dall’espressività del viso. Si sa che il volto è la sede privilegiata per
la comunicazione degli stati emotivi. Il volto riflette gli atteggiamenti
interpersonali e fornisce un feedback non verbale a ciò che dicono gli altri.
Sembra la principale sorgente di informazioni dopo il linguaggio parlato. Il
consulente esprime attraverso le espressioni del suo viso un rinforzo per il
comportamento del cliente, sia positivo che negativo.

.
b) Il contatto visivo
Le ricerche nel campo dell’interazione interpersonale affermano che il contatto
visivo produce vari effetti. Il contatto visivo spesso è un aiuto per individuare
la natura della relazione fra gli interlocutori. Esso può indicare vari bisogni di
una persona come, per es., quello di appartenenza, di coinvolgimento, di
inclusione; può indicare anche la qualità di un rapporto esistente; può ancora
favorire la comunicazione di un messaggio complesso.
Il contatto visivo tuttavia può produrre anche ansietà nell’altro, ad es. uno
sguardo che si protrae più di quindici secondi può indicare aggressività
piuttosto che accettazione. Un buon contatto visivo, che rinforza il cliente e ne
facilita la comunicazione, non è né fisso né sfuggente. E’ opportuno guardare il
cliente mentre parla, ma conviene anche distogliere lo sguardo di tanto in tanto.
Bisogna essere naturali e non aver paura di introdurre nel campo percettivo il
cliente.

c) I cenni di assenso
Anche i cenni di assenso indicano al cliente che lo state ascoltando e gli
prestate attenzione. E’ opportuno tuttavia guardarsi dal farne troppi perché
possono deviare l’attenzione.

d) Espressività nel viso


Un viso espressivo dà al cliente la sensazione che il consulente è attento e
ricettivo. Le espressioni del viso possono servire da specchio per i sentimenti
del cliente oppure possono fargli capire che lo accettate.
Un’assenza di espressioni facciali potrebbe far pensare ad una mancanza di
interesse e di attenzione o ad una presenza puramente mentale.
L’espressione più chiaramente percepita è il sorriso. L’uso opportuno del
sorriso può avere un grosso effetto sul cliente specialmente se accompagnato
da qualche cenno del capo. Sorridere troppo tuttavia si traduce in uno stimolo
negativo. L’aggrottamento delle sopracciglia, se è troppo frequente, è sinonimo
di disapprovazione; se però è occasionale può servire per comunicare che c’è
qualcosa che non si è capito.

33
e) Effetti dei messaggi del corpo
Per il cliente è importante che il consulente non sia in tensione ma sia rilassato.
Una posizione rilassata indica che il consulente è a suo agio sia per quanto
riguarda lo svolgimento del colloquio sia per quanto riguarda l’argomento in
discussione. Al contrario una continua e persistente tensione fisica comunica al
cliente un forte senso di disagio. Può trattarsi di un momento di particolare
impegno e quindi riflettere lo stato d’animo che il consulente sta vivendo in
quel momento: di coinvolgimento col cliente, oppure può riflettere un senso di
disagio che il consulente prova verso se stesso o verso l’argomento. Prima di
affrontare un colloquio di aiuto è opportuno che il consulente riesca a
raggiungere una condizione di rilassatezza.

f) Effetti delle risposte verbali


Le risposte del consulente generalmente hanno un impatto immediato sul
cliente: le risposte possono modellare l’andamento delle successive fasi del
colloquio. Sono molti gli aspetti da tenere presenti per quanto riguarda
l’impatto verbale, per esempio: adattare commenti e rivolgere domande
tenendo presenti il contesto e l’argomento trattato; non interrompere il cliente;
rimanere nell’ambito degli argomenti scelti dal cliente aiutandolo a chiarirli e
svilupparli. E’ opportuno rispondere solo a ciò che il cliente ha appena detto,
senza aggiungere nuove idee.
E’ inoltre necessario essere coscienti di quanto sta succedendo tra consulente e
cliente, se il consulente si rende conto che un suo intervento ha prodotto una
reazione negativa nel cliente è opportuno parlargliene cercando di comprendere
la motivazione.
Inoltre l’uso di un tono di voce modulato e calmo farà capire al cliente che il
consulente si sente a suo agio nell’ascoltarlo parlare dei suoi problemi.
Riassumendo: una delle più importanti condizioni per una buona relazione di
consulenza consiste nell’ascoltare attentamente, comunicando la propria
attenzione attraverso l’uso del contatto visivo, cenni di assenso, espressioni del
viso, una posizione rilassata, voce ben modulata, stimoli verbali minimi e
risposte verbali che seguono gli argomenti del cliente. Tale comunicazione
avrà l’effetto di rinforzare il comportamento verbale, la rilassatezza e la
potenzialità del cliente nell’esaminare e capire se stesso

3.2.2.2. L’uso del silenzio

Purtroppo molte persone impegnate nel colloquio di aiuto fanno di tutto per
evitare il silenzio e cominciano il colloquio chiedendo qualcosa. Di solito le
domande fatte in simili occasioni sono così poco importanti per il cliente che
vengono liquidate con una risposta secca a cui segue nuovamente il silenzio.

Quando questa situazione si verifica è perché il consulente crede di dover far


parlare il cliente, mentre è vero l’opposto. Inoltre il consulente pensa spesso

34
che se il cliente non parla si sta perdendo tempo, mentre in realtà anche il
silenzio può essere terapeutico. Il silenzio, in realtà, è un momento positivo se
permette al cliente di pensare, di metabolizzare, di rivedere e reinquadrare il
proprio sistema di pensiero e i propri comportamenti.

a) Il silenzio del consulente


Da parte del consulente ci può essere un tipo di silenzio che non è terapeutico,
si verifica quando il consulente non presta attenzione a quello che dice il
cliente o quando non vuole coinvolgersi troppo nel rapporto e tende a
nascondersi e a ritirarsi.

Sono invece positivi altri due tipi di silenzio. Il primo è il silenzio che si
verifica quando il consulente ha bisogno di capire meglio e in questa maniera
incoraggia il cliente ad approfondire l’argomento ed i suoi sentimenti. Il
secondo tipo è il silenzio che il consulente stesso si impone quando nel corso
del colloquio è stato molto attivo e decide di trasferire più responsabilità al
cliente o quando il consulente si rende conto che il cliente sta riflettendo o
vivendo un’emozione e non vuole interferire in questa sua situazione
psicologica.

b) Il silenzio del cliente


Se il cliente è poco motivato o poco responsabile il suo stare zitto non è
sicuramente positivo. Se il cliente non vuole esporre o affrontare i suoi
problemi, aspetta che sia il consulente a chiedergli qualcosa. Se invece il
cliente sta zitto per riprendere fiato o per interiorizzare un processo che sta
avvenendo in lui, allora il silenzio diventa terapeutico. Come si fa a capire di
che tipo di silenzio si tratta? Le intenzioni del silenzio procurato dal cliente
possono sempre essere individuate osservando attentamente il cliente, e
considerando i temi, i problema e i sentimenti espressi. Facendo così il
consulente sarà in grado di raccogliere suggerimenti o messaggi per capire
quanto sta avvenendo. Se il cliente appare rilassato significa che sta pensando a
qualcosa o sta esaminando una nuova idea. Se invece il cliente è teso o nervoso
allora può significare che sta cercando di evitare un argomento o un’idea.

c) Il silenzio trasformativo
Stare zitti non significa essere necessariamente inattivi. C’è infatti il
comportamento non verbale che dà significato al silenzio e dà un messaggio
terapeutico al cliente. I messaggi che in questi casi il consulente dà al cliente
sono del tipo: “vorrei che pensassi di più a quel che hai detto”, oppure “non
accetto il messaggio che mi stai mandando”, oppure “provo un grande interesse
per te e per i tuoi sentimenti”.

Il silenzio comunque non deve essere totale, può essere interrotto da qualche
risposta verbale in modo che il cliente capisca che il consulente partecipa.

35
Una situazione in cui si può dare un aiuto al cliente con il silenzio è quella che
si verifica, per esempio, quando il cliente appare in preda alle emozioni dirette
verso altre persone o altre situazioni e che lui riversa sul consulente, o quando
il cliente risponde in maniera difensiva ad una osservazione del consulente. Il
non rispondere da parte del consulente fa sì che i messaggi del cliente
rimangano lì, continuino ad essere presenti fino a quando non siano uditi dal
cliente stesso
.
Ed infine c’è il silenzio di sostegno nei momenti in cui non vi sono parole che
possano rispondere adeguatamente ai sentimenti del momento. Ciò avviene
quando il cliente piange oppure è molto triste. In quei momenti è più
importante permettere il defluire delle emozioni piuttosto che interromperle
con un intervento verbale. Con un silenzio pieno di empatia si può comunicare
meglio la propria compassione e la propria vicinanza emotiva.

Il silenzio quindi è un dimensione importante nel colloquio di aiuto perché


facilita la comunicazione del significato, perché serve al cliente ad inviare
messaggi sottili del tipo “mi sto avvicinando ad un argomento che mi
spaventa” oppure “voglio che riprenda lei a dirigere il colloquio” e serve al
consulente per portare avanti il colloquio nella maniera migliore. In ogni caso i
silenzi che si prolungano eccessivamente non sono positivi ed è utile che il
consulente intervenga facendo riflettere il cliente sul silenzio che si è prodotto.

3.3. Capacità di rispondere in maniera adeguata

L’efficacia di un colloquio d’aiuto o relazione d’aiuto si basa su una abilità


che l’operatore deve aver: la capacità di rispondere.

Rispondere comporta che l’operatore sappia entrare nello schema di


riferimento di chi riceve aiuto e sappia comunicare, con grande accuratezza una
reale comprensione delle esperienze che sono state riferite dal cliente e sappia
infine mettere a fuoco il vissuto del suo cliente così che quest’ultimo sia
facilitato nell’esplorazione di ciò che gli sta capitando e possa sviluppare il suo
insight.

La risposta, per essere efficace, richiede:


- capacità di usare la riformulazione, evitando induzioni di risposte e
spontaneismi
- capacità di rispondere ai contenuti cognitivi e affettivi

Sono quindi da evitare:


- risposte di valutazione o giudizio morale
- risposte interpretative
- risposte di supporto (sostegno, consolazione)
- risposte inquisitive
- risposte soluzioni.

36
In tutti questi casi il consulente orienta unilateralmente il cliente mentre il
colloquio deve essere non direttivo.

RISPONDERE getta le basi sulle quali si costruisce il processo di aiuto e serve


a mettere a fuoco la situazione del cliente. Nel rispondere sono coinvolti due
tipi diversi di abilità:

- Discriminare le esperienze del cliente così come lui le vive;


- Comunicare al cliente ciò che il consulente ha percepito da lui.

Rispondere è un’abilità complessa che può essere scomposta in tre


sottodimensioni:

- rispondere al contenuto per poter mettere in luce gli ingredienti


oggettivi dell’esperienza del cliente,

- rispondere al sentimento per cercare di chiarire quale tipo di emozione


è legato a questa esperienza,

- rispondere al significato per cercare di dare una ragione a questo


sentimento.

Quando si risponde in maniera appropriata si incoraggia il cliente e lo si facilita


ad esplorare meglio la situazione in cui si trova e lo si aiuta nella
comprensione.

3. 3.1. La riformulazione

Si chiama riformulazione un intervento che consiste nel ridire con altre parole,
e in maniera più concisa e più chiara, ciò che l’altro ha appena detto, e tutto
questo in modo tale che l’operatore ottenga l’accordo da parte del cliente.

Così facendo si ottengono subito tre risultati molto importanti:

- l’operatore è sicuro di non introdurre niente di estraneo nella


comunicazione che ha appena ascoltato,

- il soggetto è sicuro, se egli si riconosce nella riformulazione, di essere


sulla buona strada nel farsi comprendere ed è così portato ad esprimersi
ulteriormente,

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- l’operatore ha la prova di aver ascoltato e compreso ciò che gli è stato
comunicato

Cosa succede se l’operatore si sbaglia e il cliente non si riconosce nella


riformulazione? Il cliente ha l’opportunità di spiegarsi più chiaramente e
l’operatore può riuscire nel suo tentativo di comprensione.

Principi su cui si basa la riformulazione

1. La riformulazione suppone che il cliente sia considerato come la


persona più al corrente del problema, la più informata della situazione e
praticamente la sola a “sentire” il caso in tutta la sua profondità
esistenziale.

2. La riformulazione suppone che il comportamento umano abbia un


senso ed una logica specifici. C’è in ogni individuo un sistema
organizzato e quindi comprendere un comportamento è capire i
significati sottesi.

3. La riformulazione suppone che il soggetto sia in grado di riflettere e,


quindi, di prendere coscienza di ciò che gli sta succedendo.

4. La riformulazione suppone che l’individuo, oltre che essere razionale e


sociale, abbia anche delle capacità autonormative e sia in grado di
autodeterminarsi.

Come si fa la riformulazione

La riformulazione consiste nel parafrasare o riflettere la comunicazione appena


ricevuta dal cliente. Non basta dire “si ti ho capito”, ma riprendere l’idea o le
idee appena espresse.

La maniera più semplice di riformulare consiste nella cosiddetta risposta-eco.


L’operatore , cioè, ripete semplicemente le ultime parole del soggetto.

Un’altra possibilità è la riformulazione riflesso e consiste nel dire la stessa


idea utilizzando altre parole considerate come equivalenti per il soggetto, per
evidenziare meglio ciò che si è compreso. La riformulazione riflesso si fa con
delle formule del tipo:

- così secondo lei


- lei vuole dire che
- in altre parole

38
Una riformulazione un po’ più complessa è la riformulazione-riassunto, che
tende a riformulare ciò che è essenziale per il cliente. Ciò suppone che si sia
colta la sostanza di ciò che il soggetto voleva dire.

Questo tipo di interveto generalmente dà al cliente una sensazione di sorpresa


associata a quella di sollievo perché non si sente giudicato ma piuttosto capito.
Tutto ciò lo porta ad esprimersi e a riflettere più agevolmente.

L’obiettivo della riformulazione è quello della chiarificazione, cioè di capire il


senso di ciò che il cliente dice molto spesso in maniera confusa e disorganica.

3.3.2. Rispondere al contenuto cognitivo

Durante il colloquio il consulente risponde al cliente in molti modi, sia


verbalmente, sia non verbalmente. Dal momento che le risposte del consulente
avranno un impatto sul cliente e sugli argomenti che espone, è necessario che il
consulente sia cosciente che le sue risposte possono provocare degli effetti nel
cliente. Il consulente infatti è un partecipante attivo nella relazione di
consulenza e deve fare in modo che le sue risposte influenzino la direzione in
cui si sviluppa l’argomento, scegliendo, ad es., fra gli argomenti prospettati dal
cliente e decidendo anche quanto tempo accordare alla discussione di ciascuno.

Rispondere al contenuto del cliente pone delle alternative e delle scelte


coscienti da fare durante il colloquio. Supponiamo che il cliente dice: “già da
molto tempo so cosa significherebbe questa decisione per i miei progetti”. Il
consulente può rispondere in vari modi e cioè:

- parafrasare l’affermazione del cliente


- porre in risalto “decisione” oppure “i miei progetti
- porre la domanda “che cosa significherebbe?”
- dire “mm”
- dare un tipo di risposta che suggerisca delle potenziali capacità:”lei è in
grado di prevedere le conseguenze della sua decisione”:

Ovviamente questi cinque stimoli provocheranno risposte differenti da parte


del cliente. Egli infatti potrà cominciare a parlare della decisione o dei suoi
progetti, o del modo in ci anticipa gli eventi. In ogni caso la risposta del
consulente influenza molto lo sviluppo dell’argomento e di conseguenza gli
argomenti successivi. In sintesi rispondere al contenuto cognitivo significa
avere la capacità di riconoscere, identificare e rispondere ai pensieri del cliente
concernenti fatti, persone o cose.

39
a) Riconoscere le alternative
Il primo compito del consulente è identificare accuratamente i tipi di contenuto
presentati dal cliente e le alternative alle quali può rispondere. Il modo in cui il
consulente risponde ad un’alternativa influirà su ciò che il cliente dirà dopo.

b) Rispondere alle alternative


Il procedimento per le scelte delle alternative può essere facilmente compreso
considerando alcuni dialoghi reali:

Cliente: “mi piace questa situazione perché si può parlare direttamente con la
gente. Non mi piacciono le grandi folle dove non conosco nessuno e gli altri
non conoscono me”.

Consulente: “lei preferisce non trovarsi in mezzo a grandi folle”

In questo esempio la frase del cliente conteneva due comunicazioni principali:


la prima “mi pisce parlare direttamente con la gente” e la seconda “non mi
piacciono le grandi folle in cui le persone si sentono perse”.

Il consulente in questo caso ha scelto di rispondere alla seconda


comunicazione. Se invece avesse detto. “lei preferisce le situazioni che le
permettono di conoscere le persone” l’accento del discorso sarebbe stato messo
sul conoscere le persone e sulle condizioni necessarie per fare ciò. Nel caso
presente la risposta ha portato a mettere l’accento sull’ambiguità derivante dal
non conoscere la gente. Questo non significa necessariamente che una risposta
era migliore dell’altra, serve solo a dimostrare la presenza di due alternative.

Spesso si nota la tendenza da parte del consulente a rispondere all’ultimo


spunto del cliente. Il consulente invece dovrebbe rispondere alla parte di
comunicazione che riguarda più da vicino il problema del cliente e che quindi è
più importante.

Il consulente può anche essere tentato di rispondere alla parte di


comunicazione che giudica più interessante. In questo caso il colloquio verterà
sugli argomenti che toccano più da vicino il consulente. Il consulente, invece,
deve fare in modo che la scelta degli argomenti sia fatta in base ai reali bisogni
del cliente e non del consulente.

c) Tipi di stimoli discriminanti


Una volta scelta l’alternativa vi sono diversi tipi di risposta che possono essere
usati dal consulente come stimoli per mettere in evidenza un contenuto
specifico espresso nella comunicazione del cliente. Presentiamo ora gli stimoli
che possono essere usati specificamente per rispondere al contenuto cognitivo
della comunicazione del cliente e cioè a idee riguardanti fatti, persone e cose.
Ne scegliamo tre: il silenzio, la minima attività verbale e la ripetizione

40
.

- Il silenzio

Il silenzio in quanto stimolo discriminante indica che il consulente non vuole


scegliere o dirigere l’argomento nel momento in cui viene proposto dal cliente.
Se da un lato l’uso del silenzio dà al consulente un controllo molto minore
sull’andamento del discorso, dall’altro lato serve ad aumentare l’importanza di
altri tipi di risposte. Infatti se il consulente sta in silenzio per alcuni secondi,
ciò che dirà poi avrà un peso maggiore per il cliente e influenzerà
maggiormente l’andamento del discorso.

- Minima attività verbale

Lo stimolo minimo verbale consiste in quelle verbalizzazioni e vocalizzazioni


usate da chi sta ascoltando qualcuno. Le più comuni sono: mm, si, oh, capisco,
ecc. sono espressioni discrete, ma hanno un grosso valore di rinforzo. Se sono
usate durante l’esposizione di un certo argomento è molto probabile che
quell’argomento venga ripreso.

- Ripetizioni o riaffermazioni

La riaffermazione è la ripetizione di tutta o di una parte della comunicazione


del cliente, senza aggiungere né togliere nulla alla comunicazione principale.
Per il cliente è una conferma che il consulente ha sentito. La riaffermazione è
efficace se intercalata con altri tipi di risposte del consulente. In caso contrario
produce uno spiacevole effetto pappagallo che è nocivo al cliente.

3.3.3. Rispondere al contenuto affettivo

I clienti usano tante modalità sia verbali che non verbali per comunicare i loro
problemi al consulente. Le emozioni che accompagnano il racconto
arricchiscono e modificano il messaggio. Esse permettono al consulente di
conoscere il mondo interno del cliente. Tuttavia questi indizi non sempre sono
facili da decifrare. I denti serrati possono avere più di un significato. La voce
tremante dice solo che è presente una forte emozione. Il consulente ha il
compito di mettere insieme i vari indizi del messaggio del cliente in modo tale
da poter fare delle ipotesi ragionevolmente giuste sulla causa delle emozioni.

Quindi oltre agli argomenti alternativi di tipo cognitivo, il consulente dovrà


scegliere tra argomenti cognitivi e argomenti affettivi. Ora ci soffermiamo sul

41
messaggio affettivo: come riconoscerlo e come rinforzarne l’esplorazione da
parte del cliente.

Riassumendo: le comunicazioni del cliente che riguardano principalmente


persone, fatti o cose possono essere descritte come particolari cognitivi; quelle
che riflettono sentimenti o emozioni sono descritte come particolari affettivi.
Molti messaggi contengono sia elementi cognitivi che affettivi. In alcuni casi
può accadere che il contenuto affettivo non sia palese nella comunicazione del
cliente ma che venga espresso attraverso modi non verbali, come l’acutezza
della voce, la rapidità del discorso, la posizione del corpo, i gesti, ecc.

3.3.3.1. Indizi verbali e non verbali connessi con le emozioni

Per riconoscere i sentimenti del cliente è necessario che il consulente sia


consapevole e sensibile agli indizi sia verbali sia non verbali che fanno parte
della comunicazione del cliente. Alcuni di questi indizi vengono chiamati
“infiltrazioni” in quanto comunicano messaggi che il cliente non intendeva
consciamente esprimere. Altri indizi, principalmente i verbali, sono espressi in
modo più consapevole e pertanto si riconoscono più facilmente. L’indizio
verbale si presenta quando vi sono nomi, aggettivi, avverbi e verbi che
esprimono i sentimenti del cliente riguardo a qualcosa o a qualcuno, per
esempio: “sono davvero preoccupato per la scuola”: l’elemento verbale
connesso con i sentimenti del cliente in questo esempio è la parola
“preoccupato”: questo tipo di parole può essere chiamato parola “che
tocca” (colpisce) ed esprime un sentimento che prova il cliente. Se c’è un
avverbio come “davvero” o “molto” questo rinforza la parola “che tocca”, ciò
sta ad indicare un’intensità ancora maggiore delle emozioni.

Gli indizi non verbali si possono cogliere da certi elementi della


comunicazione del cliente quali i movimenti della testa o del viso, la posizione
del corpo, certi movimenti e gesti rapidi e il tono della voce. Gli indizi non
verbali non possono essere interpretati singolarmente. Essi acquistano
significato se inseriti in un contesto: sono quindi relazioni fra gli aspetti verbali
e quelli non verbali di un discorso. Non solo, ma gli indizi non verbali possono
anche comunicare delle informazioni specifiche sulla relazione esistente tra le
persone coinvolte nel processo comunicativo in questo caso il consulente e il
cliente.

Gli indizi non verbali forniscono informazioni in modo differenziato riguardo


la natura e l’intensità delle emozioni, a volte meglio degli indizi verbali. La
natura delle emozioni viene comunicata principalmente da indizi del capo;
l’intensità di un’emozione viene invece comunicata da indizi sia del capo che
del corpo intero.

42
3.3.3.2.Tipi di messaggi emotivi

Sebbene vi siano svariati generi di sentimenti, la maggior parte di quelli che


possiamo tradurre in parole possono essere raggruppati sotto tre denominazioni
principali: affetto, collera, paura.

Messaggi affettivi
I messaggi di affetto riflettono sentimenti buoni o positivi riguardo a se stessi e
agli altri, nonché riguardo alle relazioni interpersonali. Molti di questi possono
essere individuati da certe parole “che toccano”: vi sono molte sottospecie di
parole che toccano impiegate per esprimere sentimenti positivi riguardo a se
stessi e agli altri. Tali sottospecie includono: godimento, competenza, amore,
felicità e speranza, Riportiamo un elenco delle parole che “toccano” relative
agli affetti:

Godimento Competenza Amore Felicità Speranza


Bello Capace Vicino Allegro Fortuna
Godere Potere Amichevole Soddisfatto Ottimismo
Buono Realizzare Amore Incantato Provare
Simpatico Grande Piacevole Eccitato Credere
Grazioso Meraviglioso Aver biso- Felice Desiderare
gno di…
Soddisfare In gamba Tenere a Ridere Volere
Terrificante Rispetto Volere Rabbrividire
Tremendo Di valore Scegliere Dare pacche
sulle spalle

Spesso contemporaneamente alle parole che esprimono affetto sono presenti


anche indizi non verbali. I più evidenti sono le espressioni del viso: gli angoli
della bocca che si atteggiano ad un sorriso, gli occhi che si allargano
impercettibilmente, le piccole rughe di preoccupazione che scompaiono, il
corpo più rilassato e anche il viso e le mani esprimono una maggiore
animazione.

Messaggi di rabbia
La rabbia rappresenta un impedimento che in qualche modo deve essere
alleggerito o eliminato. Vi sono vari tipi di stimoli che provocano la rabbia.
uno di questi è la frustrazione, gli altri sono la minaccia e la paura. Situazioni
come quella della competitività, della gelosia o delle aspirazioni frustrate
possono diventare minacce che provocano risposte di rabbia e d’ira. Spesso la
rabbia rappresenta sentimenti negativi verso se stesso e verso gli altri. In questi
casi la rabbia diventa una reazione difensiva perché la persona non si sente
abbastanza sicura da esprimere la propria paura. A volte la rabbia può anche
costituire una copertura per il dolore. Spesso, infine, sotto esplosioni
fortemente aggressive si nascondono sentimenti profondi di vulnerabilità e di
sofferenza.

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Gli indizi verbali della rabbia possono essere suddivisi in quattro gruppi

Attacco Aspetto truce Aspetto difensivo Litigioso


Discutere Detestare Contro In collera
Attaccare Odiare Proteggere Combattere
Competere Sgradevole Risentirsi Litigare
Criticare Disgustare Difendere Discutere
Combattere Arcigno Preparato Rifiutare
Colpire Grave (non essere
Ferire d’accordo)
Offendere

Occorre tenere a mente che la rabbia abbraccia un vasto gruppo di sentimenti e


che può essere espressa in molti modi. Mentre esprime la collera, il corpo può
assumere una posizione rigida e tesa, o può cambiare vistosamente posizione o
fare movimenti. A volte la rabbia verso un’altra persona o se stessi può essere
espressa sia “colpendo”, sia trovando i difetti, sia facendo commenti negativi
nei riguardi degli altri. Il “colpire” può essere espresso anche attraverso indizi
non verbali come il tamburellare delle dita o il battere del piede.

Vi sono anche certe caratteristiche vocali associate con la rabbia. Molte volte la
voce diventa sempre più forte e se la rabbia è molto forte la persona può
arrivare a gridare o giungere perfino a piangere. Vi sono persone, però che
assumono un tono più basso, più controllato: ciò significa che la persona che
sta sperimentando la rabbia esercita un certo controllo delle proprie emozioni.

Messaggi di paura
La paura rappresenta la reazione di una persona ad un qualche pericolo da
evitare. Spesso tale reazione consiste nel ritirarsi da una situazione dolorosa o
stressante, o dal proprio mondo interno, o da altre persone o relazioni. La
persona che sperimenta la paura di solito è isolata, triste, depressa, la paura può
anche essere descritta come un insieme di sentimenti negativi nei confronti di
qualcosa o di qualcuno.

Gli indizi verbali che suggeriscono la paura possono essere suddivisi in cinque
gruppi: paura, dubbio, tristezza, dolore, fuga.

Paura: inquieto, seccature, preoccupazioni, solitario, nervoso, spaventato, teso,


sconvolto

Dubbio: fallimento, parassita, indeciso, mediocre, di malumore, perplesso,


stupido, incerto

Tristezza: solo, depresso, sgomento, disilluso, scoraggiato, triste, stanco,


infelice, tediato

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Dolore: spaventoso, ferite, intenso, spiacevole, scomodo, dolori, straziato

Fuga: fuggire,scappare da, evadere, tagliato fuori,dimenticato

Paura e indizi non verbali


Il viso esprime la paura in molti modi: la bocca può restare spalancata, gli
occhi possono dilatarsi e le sopracciglia aggrottarsi. In genere chi ha paura
evita il contatto visivo diretto. Anche le posizioni del corpo e i movimenti sono
associati all’espressione della paura: possono esserci sussulti e tremori, le mani
spesso sono chiuse a pugno e la tensione può manifestarsi anche attraverso il
dondolio di una gamba, ecc.

Paura e indizi verbali


Spesso con la rabbia si manifesta un disturbo del linguaggio con errori,
ripetizioni, balbettii ed omissioni di parti di parole o di frasi. Inoltre una
persona impaurita può parlare in modo concitato e il tono della voce appare più
monotono, sommesso e con minori inflessioni.

3.4. Risposte verbali a contenuti affettivi

Sarebbe troppo semplicistico dire che il consulente comunica la sua


comprensione dei sentimenti del cliente mediante atteggiamenti quali l’empatia
e l’atteggiamento positivo nei confronti dell’altro. E’ necessario identificare il
modo per comunicarli.

I due motivi principali per cui un consulente può non rispondere ai sentimenti
del cliente sono:

- il consulente non sa quali possono essere i modi convenienti per


rispondere;
- il consulente “si blocca” appena riconosce i sentimenti del cliente.

Tale blocco è connesso con la reazione del consulente ai sentimenti del cliente
che provoca una riduzione della sua capacità di dare aiuto. Per esempio, il
consulente identifica chiaramente i sentimenti di rabbia del cliente ma evita di
rispondervi per varie ragioni, o perché ha paura che il cliente interrompa il
rapporto se l’interazione diviene troppo intensa o perché non si fida del proprio
giudizio, o perché teme che l’identificazione del sentimento faccia prorompere
sentimenti ancor più forti che il cliente farebbe fatica ad affrontare e a gestire.

45
Per sapere come rispondere ai sentimenti del cliente con empatia e
atteggiamento positivo non basta possedere tali atteggiamenti. Il consulente
deve essere anche sicuro di saperli comunicare con parole e frasi adatte.

Si possono identificare delle risposte del consulente che possono aiutare a


capire e a comunicare la comprensione dei sentimenti del cliente. Due risposte
di questo tipo consistono nel riflettere i sentimenti e nel ricapitolare i
sentimenti, come abbiamo accennato precedentemente.

3.4.1. Riflettere i sentimenti

La risposta che riflette i sentimenti è molto diversa dalla risposta di ripetizione.


La ripetizione è una parafrasi di tutto o di una parte del contenuto cognitivo
presente nella risposta del cliente. La risposta del cliente può contenere allo
stesso tempo componenti cognitive ed affettive. Quindi, mentre la ripetizione è
una parafrasi della parte cognitiva, la riflessione è una parafrasi della parte
affettiva. La riflessione dei sentimenti consiste esattamente in ciò che il suo
nome indica e cioè nel rispecchiare il sentimento o l’emozione presenti nel
messaggio del cliente.

La risposta che riflette il sentimento può verificarsi a differenti livelli. Il


consulente, a livello più palese, può riflettere solo il sentimento più superficiale
del cliente. A livello più profondo, il consulente può riflettere un sentimento
non espresso verbalmente con maggiore intensità di quella manifestata dal
cliente. Il livello più palese si ha quando il consulente riflette un sentimento
che è stato manifestato apertamente, usando però una parola diversa che
tuttavia esprima lo stesso sentimento e con la stessa intensità espressa dal
cliente. Per esempio:

cliente: “sento molta rabbia in me per il fatto che lei mi ha interrotto”


consulente: “lei è in collera perché è stato interrotto”

Il secondo livello si ha quando viene riflesso un messaggio affettivo implicito


nel messaggio del cliente. Consideriamo per esempio il messaggio affettivo
implicito: “penso che c’è davvero un buon rapporto tra noi”: Il sentimento
intrinseco delle parole è connesso ad un messaggio affettivo positivo di
piacere, gioia, essere soddisfatto, ecc.. le frasi che possono riflettere il
sentimento implicito di questo messaggio possono essere le seguenti:

- “la nostra relazione è importante per lei”


- “vi sono delle cose buone per lei”
- “lei è soddisfatto della relazione”;

46
Questa riflessione ad un livello più profondo, non soltanto rispecchia il
sentimento nascosto, ma deve anche raggiungere l’intensità del sentimento del
cliente e forse anche un’intensità maggiore. La riflessione è efficace al
massimo quando coglie ed esplicita ciò che il cliente desidera.

Anche l’empatia e la comprensione dei sentimenti non sono in se stesse una


panacea, esse tuttavia svolgono alcune funzioni utili nel processo di
consulenza.

La presenza dell’empatia, anzitutto, stimola l’intimità emotiva e crea


un’atmosfera di calore. Essa inoltre favorisce il senso di accettazione di sé.
Quando una persona si sente veramente capita da un ‘altra persona si produce
un sentimento di sollievo e si sviluppa anche un senso di accettazione di se
stesso. I consulenti all’inizio della loro attività cadono spesso in certe trappole,
cioè fanno cose inappropriate che non comunicano per nulla la comprensione
dei sentimenti. Un esempio potrebbe essere fare domande per avere ulteriori
informazioni, invece di riflettere i sentimenti. Esempio:

Cliente: “mi domando se le mi potrebbe aiutare a trovare una nuova


specializzazione… penso che se ne trovassi una sciuperei tutto un’altra volta”
consulente: “in che cosa era specializzato prima?”

Sebbene le domande siano spesso utili e le informazioni, a volte, necessarie, il


primo compito del consulente deve essere quello di comunicare comprensione
dei sentimenti. Per quanto riguarda l’esempio precedente la risposta che riflette
il sentimento è: “lei sente che è inutile provare ancora”.

Vi sono altri due errori frequenti nella risposta ai sentimenti del cliente:

- rispondere al fatto piuttosto che ai sentimenti connessi:


- rispondere a qualcosa di generale ed astratto piuttosto che di specifico.

3.4.2. Ricapitolazione dei sentimenti

La ricapitolazione dei sentimenti è molto simile alla riflessione dei sentimenti


perché è una risposta che opera una discriminazione fra le diverse componenti
affettive della comunicazione del cliente. La differenza fondamentale fra le due
risposte consiste nel numero o quantità.

La riflessione dei sentimenti risponde solo ad una parte della comunicazione


del cliente, mentre la ricapitolazione dei sentimenti consiste in una integrazione
di varie componenti affettive presenti nella comunicazione del cliente. La
ricapitolazione dei sentimenti è un ampliamento della riflessione dei
sentimenti. Il consulente per fare questo deve avere l’abilità di mettere insieme
elementi apparentemente disparati per formare un quadro significativo.

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La ricapitolazione richiede essenzialmente che il consulente rifletta i sentimenti
del cliente con parole sue, non di un solo sentimento, ma di diversi sentimenti
messi insieme per formare un modello significativo. Diamo un esempio:

cliente; “durante gli ultimi mesi non ho sentito il desiderio di nessun tipo di
svago… non so perché… solo che non mi attira…ieri sera mi sono dovuto
forzare per andare ad una festa…nei primi tempi che stavo all’università
andavo a tutte le feste, ma ora non mi interessano più”:

consulente: “lei sente che anche le cose che prima la interessavano molto ora le
sembrano meno interessanti, lei non sa perché, però sembra che sia così”:

Si usa spesso la ricapitolazione dei sentimenti al posto della riflessione quando


una comunicazione contiene diversi elementi affettivi. Può essere efficace
quando il colloquio sembra arenarsi. In questo caso la ricapitolazione ridà un
certo ritmo al colloquio mediante l’aggancio di vari argomenti,

3.5.. Discriminazione tra comunicazioni cognitive e affettive

Abbiamo visto precedentemente che vi sono molti modi di rispondere ai


messaggi del cliente. Dal momento che le risposte del consulente hanno una
grande influenza sul discorso successivo, il consulente dovrà decidere a quale
contenuto rispondere. Spesso la risposta del cliente contiene sia un messaggio
cognitivo che uno affettivo. E’ normale che nei primi colloqui il messaggio
affettivo venga mascherato. E’ una modalità che usa il cliente per proteggersi
fino a quando non riesce a capire quali generi di argomenti il consulente sia
disposto ad ascoltare. Una volta che il consulente sarà in grado di riconoscere il
messaggio affettivo dovrà prendere alcune decisioni. E’ importante che il
consulente risponda a quella parte della comunicazione che pensa sia collegata
in modo più significativo alle preoccupazioni del cliente. Il procedimento che
porta a scegliere tra argomenti cognitivi ed affettivi viene chiamato
discriminazione.

Scegliere se rispondere alla parte cognitiva o a quella affettiva avviene in base


a ciò che sta succedendo nell’interazione in quel momento e a ciò di cui il
cliente ha bisogno. Certamente vi sono molte variabili che influiscono sulla
scelta da operare. Lavorando con un cliente che è portato ad intellettualizzare,
il consulente può concentrarsi principalmente sulla parte affettiva, nell’intento
di portar il cliente a riconoscere e ad accettare i propri sentimenti. Tuttavia,
anche con un cliente che intellettualizza il consulente può scegliere di mettere
in rilievo gli elementi cognitivi quando il tempo dedicato alla consulenza sia
troppo limitato.

Di solito, però, durante il colloquio, è importante rispondere sia ai contenuti


affettivi che a quelli cognitivi. Questo perché per tutti i clienti vi sono alcuni
momenti in cui i sentimenti influenzano il comportamento ed altri in cui il

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comportamento influenza i sentimenti. Ciò che è importante non è stabilire da
dove cominciare, ma quale sia l’intervento maggiormente efficace.

3.5.1. Creare il contesto in cui il cliente si senta accolto

Sappiamo già come sia importante cominciare a far parlar il cliente, egli deve
essere in grado di parlare di se stesso, identificando ed esprimendo i propri
sentimenti, individuando i comportamenti e rapportandosi al “qui ed ora”.
Possono insorgere, da parte del cliente, forti sentimenti di vulnerabilità che gli
fanno percepire la necessità di difendere se stesso. Quando diminuisce
l’intensità di tali sentimenti viene liberata un’energia che il cliente aveva usato
fino a quel momento per conservare la propria immagine; tale energia risulta
così disponibile per maturare e per cambiare.

E’ solo in questo momento che il cliente può parlare di se stesso identificando i


propri sentimenti e comportamenti. Di conseguenza il primo obiettivo del
consulente deve essere quello di abbassare l’ansietà iniziale del cliente.
Generalmente rispondere ai contenuti affettivi, fin dall’inizio del rapporto di
consulenza, è la migliore strategia per ridurre l’ansia del cliente. In questo
modo il consulente comunica al cliente la sua accettazione e comprensione nei
confronti di questi sentimenti.

Tuttavia con quei clienti che evitano le emozioni e l’intimità la risposta del
consulente al loro messaggio affettivo può indurre una maggiore ansietà. Con
questo tipo di clienti bisognerà adattare la strategia rispondendo a livello
cognitivo.

I consulenti che mettono sempre in evidenza i sentimenti a scapito del


comportamento, o viceversa, impongono delle limitazioni al processo di
consulenza. Indichiamo alcune di queste limitazioni che derivano dal
rispondere solo ai sentimenti:

- rispondere solo ai sentimenti non è realistico e riduce la capacità del


cliente di generalizzare gli aspetti della relazione di consulenza ad altre
relazioni. E’ altamente improbabile che per molti clienti un amico o un
familiare tengano conto soltanto dei loro sentimenti

- rispondere solo ai sentimenti mette in rilievo la parte interna di sé


escludendo il mondo che circonda il cliente. Il cliente può diventare
talmente preoccupato di sé da non tener conto delle sue relazioni con gli
altri

- Rispondere solo ai contenuti affettivi porta ad una catarsi, in quanto


vengono portati alla luce sentimenti ed inquietudini represse. Ciò può
andar bene, anzi può essere necessario per alcuni clienti. Per altri
invece la catarsi aumenta il rischio di rinforzare il “discorso malato” nel

49
senso che le risposte del consulente ai sentimenti possono generare nel
cliente una maggiore quantità di commenti negativi su se sesso.

Rispondere, d’altra parte, principalmente ai contenuti cognitivi presenta i


seguenti limiti:

- può rinforzare il processo di intellettualizzazione, nel senso che può


incoraggiare il cliente a continuare a fare astrazioni e a negare i
sentimenti che influenzano i suoi comportamenti;

- può togliere al cliente l’opportunità di identificare ed esprimere i


sentimenti in un contesto in cui non si senta giudicato. La relazione di
consulenza può essere l’unica situazione in cui il cliente sente che le
sue emozioni non sono fraintese.

Occorre sottolineare che la strategia iniziale nel processo di discriminazione è


una strategia esplorativa. Ogni cliente risponderà in modo diverso quando il
consulente evidenzierà i sentimenti o i comportamenti.

3.5.2. Tipi di discriminanti ai contenuti cognitivi e affettivi

Vi sono molte valide risposte discriminanti sia alle parti cognitive che a quelle
affettive. Vi sono risposte che mettono in evidenza una componente del
messaggio a scapito delle altre. Tre risposte sono particolarmente efficaci:
l’accento, il potenziale di capacità e il confronto.

a) L’accento

L’accento consiste in una ripetizione di una o due parole che mettono in


evidenza una piccola parte della comunicazione del cliente. Ha un effetto
paragonabile a quello di una domanda di chiarificazione o di elaborazione.
Esempio:

Cliente: “faccio molta fatica a scegliere quale facoltà prendere … non sono
abituato a prendere decisioni, quindi questa è una situazione confusa per me”.
Consulente: “Confusa” oppure: “molta fatica?” oppure: “per lei?”

Scegliere “confusa” o “molta fatica” mette in rilievo la parte affettiva, mentre


“per lei” mette in rilievo la parte cognitiva della relazione .L’uso dell’accento
serve ad evidenziare un pensiero o un sentimento particolare. Normalmente
incoraggia il cliente a chiarire ciò che ha appena detto, in quanto fa capire che

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il consulente non ha compreso del tutto il cliente. E’ usato più propriamente per
concretizzare un pensiero che sembra vago ed astratto. L’accento può essere
usato sia per rispondere al messaggio cognitivo che a quello affettivo. Il
consulente metterà l’accento sul contenuto affettivo se il cliente ha usato una
parola carica di emotività.

a) La capacità di impegnarsi

Si tratta di un tipo di risposta con la quale il consulente suggerisce al cliente


che ha le capacità o il potenziale per impegnarsi in una forma di attività
specifica. Può essere usata sia come risposta ad un contenuto cognitivo sia a un
sentimento. Non solo rinforza nel cliente un senso di controllo e di gestione
della sua vita, ma esprime anche la fiducia del consulente nelle capacità del
cliente di agire in modo autonomo. Se il cliente dicesse: “non so che fare per
procurarmi il denaro per pagare quel conto”, il consulente potrebbe dire:
“potrebbe lavorare per un semestre e guadagnare il denaro”: In questo modo il
consulente esprime l’idea che il cliente ha la capacità di pagare quel conto
anche se dovesse lavorare per sei mesi. Questo tipo di risposta non si deve
usare troppo spesso ma è efficace se serve ad individuare le possibili
alternative per il cliente..

b) Il confronto

Il confronto è una delle risposte più efficaci che il consulente ha a sua


disposizione. A volte però viene male interpretato, infatti alcuni la identificano
con il fare rimproveri, col giudicare o agire in modo punitivo. Deve, invece,
essere considerato come una risposta che mette il cliente in grado affrontare ciò
che desidera e vorrebbe invece sfuggire. Questa voglia di fuggire può essere
una resistenza ai suoi propri sentimenti o ad un’altra persona, compreso il
consulente e la relazione di consulenza. Il confronto aiuta il cliente ad
identificare una contraddizione. La contraddizione si esprime in tre diversi
modi:

- disaccordo fra ciò che il cliente dice e come si comporta (es.: il cliente
dice di essere un tipo tranquillo, poi nel colloquio parla
concitatamente);
-
- contraddizione fra come il cliente dice di sentirsi e come invece il suo
comportamento fa capire che si sente (es. dice che è a suo agio, ma
continua ad agitarsi);
-

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- disaccordo tra due messaggi verbali del cliente (es. il cliente dice di
voler cambiare il suo comportamento e subito dopo rimprovera i suoi
genitori e attribuisce a loro la causa del suo comportamento):

In pratica il confronto si esplicita con una frase composta: “lei ha detto che …
ma …” In altre parole la prima frase comincia con “lei ha detto” seguito dal
messaggio del cliente, la seconda comincia con “ma …” e presenta la
contraddizione del messaggio del cliente.

Il confronto consiste nel fare solo ciò che sta a significare la parola confronto e
non di più. Esso, sia nella prima parte che nella seconda, ‘descrive i messaggi
del cliente, osserva il suo comportamento, presenta l’evidenza e infine fornisce
la prova’. Tuttavia nel confronto non deve esserci né accusa, né valutazione, né
soluzioni.

Il confronto serve a vari scopi:

- porta il cliente verso la congruenza, che è lo stato in cui vi è accordo tra


ciò che si dice e ciò che si fa;

- rende possibile una comunicazione aperta e diretta. Ciò significa che se


il consulente non ha paura di affrontare queste contraddizioni forse
anche il cliente può averne meno paura;

- è uno stimolo orientato all’azione. Diversamente dallo stimolo del


riflesso, che rispecchia i sentimenti del cliente, il confronto rispecchia il
suo comportamento. E molto utile nel momento in cui il cliente vuole
iniziare a far progetti a livello di azione e di cambiamento del
comportamento.

3.5.3. .Effetti della risposta ai contenuti affettivi

Un primo effetto consiste nella riduzione dell’ansia del cliente perché in


generale rispondere alla parte affettiva diminuisce l’intensità dei sentimenti.
Per esempio, rispondere a dei forti sentimenti di collera manifestati dal cliente
diminuirà la loro intensità e aiuterà il cliente ad esercitare un maggior controllo
su di essi. Vi sono persone che hanno avuto talmente poche opportunità di
esprimere chiaramente i propri sentimenti che, quando trovano qualcuno che li
ascolta in maniera accettante ne ricavano un grosso beneficio.

Rispondere alla parte affettiva con accettazione e comprensione può anche


aiutare il cliente ad incorporare nell’immagine di sé sentimenti e percezioni
personali. L’accentuazione da parte del consulente di sentimenti che fino a
quel momento il cliente aveva negato o considerato cattivi, introduce l’idea che
il cliente abbia classificato negativamente questi sentimenti e lui stesso che li
prova.

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Infine, rispondere alla parte affettiva è spesso il modo migliore che il
consulente ha di comunicare il calore, l’interesse e il coinvolgimento verso il
cliente. Non solo, ma permette anche che si instauri un clima di fiducia
reciproca. E’ proprio questo tipo di fiducia che dà al cliente la possibilità di
gestire i propri sentimenti e comportamenti e potenzia l’impegno a cambiare i
comportamenti non soddisfacenti.

3.5.4. Effetti della risposta ai contenuti cognitivi

Rispondere ai contenuti cognitivi aiuta il cliente a sviluppare e ad esprimere i


procedimenti del pensiero relativi alla soluzione dei problemi e alla capacità di
prendere decisioni. Dato che il comportamento è il frutto sia dei pensieri che
dei sentimenti, il cliente ha bisogno di esaminare non solo ciò che sente ma
anche il suo modo di pensare. La rigidità del comportamento si deve spesso ai
tipi di modelli di pensiero del cliente, che devono infatti essere discussi ed
esplorati prima che sia possibile un qualsiasi cambiamento del comportamento.
Rispondere ai contenuti cognitivi rappresenta un passo ulteriore rispetto al
rispondere ai sentimenti perché focalizza direttamente il cambiamento del
comportamento. Una volta superata la fase esplorativa che ha permesso al
consulente di scegliere quando evidenziare il contenuto affettivo e quando il
contenuto cognitivo, subentra il momento di elaborare e di realizzare le
strategie proprie di ciascuna area. Vi sono strategie che sono più efficaci se
usate con materiale affettivo, altre strategie si rivelano utili se usate per
focalizzare il comportamento.

3.6. Concettualizzare i problemi e determinare gli obiettivi

Consideriamo ora un altro punto fondamentale del consulenza e cioè la natura


dei problemi del cliente e la determinazione degli obiettivi, che siano premesse
realistiche alla soluzione di tali problemi. Vi sono questioni di natura filosofica
che soggiacciono a tali problemi. Non è questa la sede peer affrontarle, poiché
la consulenza non è l’ambiente per concettualizzare i problemi umani. Il
consulente non è in grado di risolvere il problema esistenziale del cliente. Ciò
richiederebbe un’altra preparazione.

Cosa porta con sé il cliente venendo alla consulenza? Questa, meglio di


qualsiasi altra domanda, rivelerà il ruolo del consulente. E’ una domanda molto
semplice che tuttavia non deve essere presa alla leggera. Il cliente viene in
consulenza quando sente delle esperienze che da solo è incapace di capire o di
soddisfare.

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L’esperienza di sentire delle esigenze è parte naturale del processo di vita, anzi
è il mezzo con cui promuoviamo questo processo. Tutti gli esseri umani hanno
in comune certi bisogni fondamentali: bisogni di sicurezza, di nutrimento, di
sopravivenza, di affiliazione, d’amore e di autonomia. Per ogni essere umano
l’esperienza dei bisogni è parte integrante della sua vita.

La persona che sperimenta un bisogno non è strana, inadeguata, deficitaria.


D’altra parte gli esseri umani non sono sempre in grado di riconoscere bisogni
che provano e nemmeno possiedono necessariamente le capacità richieste per
soddisfare i propri bisogni una volta che siano stati riconosciuti.

L’aver bisogno è una risposta passiva che deve essere inquadrata in uno stato
attivo, il volere, affinchè tale bisogno possa essere soddisfatto. L’atto di volere
non soltanto richiede che riconosciamo e comprendiamo il bisogno ma anche
che immaginiamo qualcosa nel mondo reale che possa soddisfarlo. Può trattarsi
del desiderio di avere un amico, un lavoro, un partner. Se non individuiamo
esattamente cosa ci manca non possiamo mobilitare le nostre risorse per
soddisfare il bisogno. Per molte persone questo processo, cioè individuare ciò
che si sente come mancante, crea delle difficoltà e questa è la ragione per la
quale il cliente viene in consulenza.

3.6.1. Il mondo del cliente

Abbiamo descritto finora il cliente come qualcuno che sperimenta dei bisogni,
alcuni dei quali riconosciuti e capiti e altri non riconosciuti e capiti e che per
questa ragione cerca un aiuto. Il consulente, da parte sua, ogni volta che si
trova di fronte ad un cliente deve considerare non solo il mondo dei bisogni,
ma anche il mondo reale in cui il cliente vive, comprese le persone significative
per lui, la professione o condizione sociale, il contesto in cui trascorre il suo
tempo, le aspettative riguardo a sé e agli altri, le abitudini e i comportamenti, i
sogni e le speranze sul futuro, gli atteggiamenti verso il passato, i valori e
significati della vita e i suoi metodi per sopravvivere. I bisogni, infatti, nascono
dalle dimensioni del mondo del cliente.

È importante che il consulente capisca il più possibile il mondo del cliente; è


importante che comprenda i bisogni non soddisfatti che sperimenta in questo
suo mondo. Deve infine cogliere ciò che è di vitale importanza per il cliente,
ciò che ha fatto o pensa di fare per soddisfare questi suoi bisogni.

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3.6.2. Il ruolo del consulente

In basa a quanto detto sulla persona che chiede aiuto, è evidente che il
consulente si trova a gestire delle responsabilità importanti quando svolge il
suo compito. Oltre a creare un clima favorevole e ascoltare i bisogni del
cliente, deve aiutare il cliente a tradurre questi bisogni in mancanze, così che
possa passare da una condizione di passività ad una condizione attiva. Il
consulente deve cogliere quelle soluzioni che il cliente ha già provato e che
sono diventate magari parte del problema e aiutarlo a rendersi conto di ciò,
successivamente il ruolo del consulente consiste nell’aiutare il cliente a
formulare degli obiettivi volti al soddisfacimento delle sue esigenze. In base a
questi obiettivi si potranno elaborare piani di azioni, metterli in pratica e
valutarli. Inoltre il consulente dovrà aiutare il cliente a capire che sta facendo
dei progressi quando questi si verificano.

3.6.3. Obiettivi finali

Il processo di consulenza include due tipi di obiettivi: obiettivi condizionali e


obiettivi finali. Gli obiettivi condizionali riguardano la creazione delle
condizioni di consulenza necessarie perché il consulente possa cambiare. Come
abbiamo più volte sottolineato, esse sono: entrare in rapporto, fornire un
contesto non minaccioso, comunicare una considerazione empatica e un
rispetto caloroso.

Gli obiettivi finali, invece, variano da cliente a cliente. Si tratta degli obiettivi
direttamente connessi con i cambiamenti della persona e che dovrebbero
costituire il risultato della consulenza. Man mano che il consulente aiuta il
cliente a capire le sue inquietudini, lo aiuta anche a capire come può usare la
consulenza per rispondere ad esse. Consulente e cliente concordano insieme
degli obietttivi finali possibili. Man mano che la consulenza procede, il
consulente potrà modificare gli obiettivi iniziali in quanto avrà una maggiore
comprensione dei problemi e il cliente avrà elaborato degli atteggiamenti e dei
comportamenti più adeguati. Stabilire gli obiettivi è un processo flessibile,
sempre soggetto ad essere modificato e perfezionato.

È molto importante rendersi conto che gli obiettivi finali sono “comuni e
concordati” obiettivi, cioè, che sia il consulente che il cliente sono concordi nel
perseguire.

Quando si sono stabiliti precisi obiettivi finali, il consulente e il cliente avranno


una migliore comprensione di ciò che bisogna fare. Questa migliore
comprensione permette al consulente di lavorare in modo più diretto sui
problemi del cliente, riducendo gli sforzi laterali. Ugualmente importanti sono i
vantaggi che si possono realizzare se si perseguono obiettivi comportamentali
specifici. Il consulente può contare sulla cooperazione del cliente quando il
cliente ha la possibilità di sapere ciò che bisogna fare. Inoltre il consulente,

55
quando il cliente ha degli obiettivi specifici, può scegliere meglio le tecniche e
le strategie più appropriate. Infine quando si perseguono obiettivi specifici sia
il cliente che il consulente sono in grado di constatare i progressi.

3.6.4. I tre elementi costitutivi che rendono gli obiettivi finali buoni

Gli obiettivi finali differiscono da quelli condizionali sotto vari aspetti:

- un obiettivo finale tiene conto del comportamento da cambiare, delle


condizioni in cui questo avverrà e dell’entità del cambiamento. Ci sono
persone che vogliono cambiare i loro sistemi di nutrizione, altre
desiderano diminuire il concetto negativo che hanno di se stessi; altri
ancora desiderano aumentare le richieste positive o le capacità di
rifiutare ciò che non desiderano.
-
- Il secondo elemento di un obiettivo finale indica le condizioni
attraverso le quali avverrà il cambiamento desiderato. È importante
considerare attentamente le situazioni e il contesto in cui il cliente
proverà un nuovo comportamento. Il consulente non deve mettere il
cliente in condizione di fallire a causa di un contesto in cui c’è poca
speranza di riuscire. Per esempio, il cliente può essere d’accordo a
modificare le sue abitudini nel mangiare quando è a casa, ma non
quando è con gli amici il sabato sera.
-
- Il terzo elemento riguarda la misura in cui deve avvenire il
cambiamento nel comportamento, cioè quanto del nuovo
comportamento è voluto ed è perseguibile. Certi clienti cominciano, per
es., una cura dimagrante sicuri di passare da tremila a novecento calorie
al giorno, mentre un obiettivo più realistico potrebbe consistere nel
passare da tremila a millecinquecento.

3.6.5. Tradurre vaghe inquietudini in obiettivi specifici

Si può notare che raramente un cliente chiede aiuto per ottenere un


cambiamento del comportamento. Invece di dire “voglio diventare capace di
parlare con gli insegnanti senza impaurirmi”, è più probabile che il cliente dica:
“sono timido”: in altre parole ha descritto una caratteristica personale piuttosto
che i modi in cui lui la vive. In questi casi il compito del consulente è quello di
aiutare il cliente a descrivere i modi in cui si potrebbe cambiare questa
caratteristica.

Non è compito facile per il consulente prendere delle inquietudini non


specificate e tradurle in obiettivi determinati. Il consulente deve capire la

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natura del problema e le condizioni in cui si produce prima di iniziare la
traduzione. Anche allora, però, vi sono delle difficoltà in cui possono incappare
i consulenti che tentano di determinare gli obiettivi comportamentali.
Elenchiamo alcune di queste difficoltà:

- il cliente considera il suo problema come se fosse il comportamento di


qualcun altro;
- il cliente esprime il suo problema come un sentimento;
- il problema è la mancanza di un obiettivo;
- il problema consiste nel fatto che un comportamento desiderabile è
indesiderato;
- il problema è che il cliente non sa che il suo comportamento è
inadeguato;
- il problema è un conflitto di scelte;
- il problema è un interesse acquisito nel non individuare mai un
problema.

Viste queste difficoltà, all’inizio della consulenza gli obiettivi saranno non
specifici e non comportamentali. Mano a mano che il consulente e il cliente
esploreranno la natura di un particolare problema dovranno fissare più
chiaramente il tipo di obiettivo adatto a risolverlo. Dopo aver stabilito insieme
l’obiettivo finale desiderato il consulente cercherà che cosa può aiutare il
cliente a raggiungerlo. Si tratta di trovare dei sotto-obiettivi che consistono in
una serie di passi o compiti più piccoli che aiutano il cliente a comportarsi
gradualmente nel modo desiderato.

3.6.6. Resistenza del cliente alla determinazione degli obiettivi

A volte un cliente può mostrarsi incerto al momento di determinare gli obiettivi


e di impegnarsi in un cambiamento. Di fronte alla resistenza del cliente a
fissare degli obiettivi, il consulente dovrà pensare che il cliente sta proteggendo
il comportamento che dovrebbe essere modificato perché quel comportamento
gli fa comodo. Sarà compito del consulente far capire al cliente che cosa
guadagna dal suo comportamento attuale. Facendo questo potrà stabilire se
quel guadagno o risultato possono essere conseguiti in modo migliore.

A volte i clienti resistono ai tentativi di determinare gli obiettivi perché sentono


che il consulente li sta spingendo in una direzione scelta dal consulente ma non
condivisa da loro.

3.6.7. Partecipazione del cliente alla determinazione degli obiettivi

Spesso la determinazione degli obiettivi serve a far capire al cliente che è


ascoltato, che il consulente fa una valutazione mentale del suo problema e che

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vuole trovare una soluzione al problema. Un procedimento simile è destinato al
fallimento.

La natura della consulenza richiede che il cliente sia coinvolto nella scelta degli
obiettivi, altrimenti la sua partecipazione sarà vaga o interferirà addirittura con
il lavoro del consulente. Per capire meglio portiamo una esemplificazione. Un
consulente vede una cliente grassa, impacciata e riluttante ad allacciare rapporti
sociali a causa della sua mole. Il consulente le suggerisce l’obiettivo di perdere
da due a cinque chili la settimana sotto la guida di un medico. A quel punto la
cliente diventa molto difensiva e rifiuta l’obiettivo del consulente dicendo; “lei
parla come mia madre”:

Lo stabilire un obiettivo è qualcosa di molto personale. Richiede parecchio


sforzo e parecchio impegno da parte del cliente. Il cliente deve scegliersi degli
obiettivi che siano tanto importanti per lui da fare anche dei sacrifici pur di
raggiungerli. Nell’esempio di cui sopra la resistenza della cliente si poteva
evitare se il consulente si fosse mosso con più precauzione, permettendo
all’interessata di individuare da sola il significato del suo soprappeso e
l’importanza di un possibile dimagramento.

In conclusione la determinazione degli obiettivi, come altri aspetti del rapporto


di consulenza, deve essere portata avanti dal consulente e dal cliente in un
clima di reciproca responsabilità.

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CONCLUSIONE

In questo lavoro abbiamo presentato “la relazione d’aiuto” allo scopo di far
conoscere a coloro che sono impegnati nell’ambito socio-educativo, una
modalità di intervento che si è rivelata importante ed efficace nelle relazioni
con le persone con le quali ci si trova ad interagire, quando esse manifestano
difficoltà che non sono in grado di risolvere e superare da sole.

La lettura di questi appunti va integrata con la lettura di tre lbri:

a. Apprendere il Counseling di Roger Mucchielli


b. L’arte di aiutare di Robert Carkhuff – Manuale
c. L’arte di aiutare di Robert Carkhuff – Quaderno di esercizi

La lettura e l’approfondimento di tali testi sono basilari per poter partecipare


efficacemente alle esercitazioni pratiche che attueremo durante gli incontri
previsti nel programma del corso.

Apprendere la modalità del colloquio d’aiuto può essere utile nelle diverse
situazioni problematiche che s’incontrano nell’ambito lavorativo; inoltre
utilizzare una modalità di comunicazione ispirata al colloquio d’aiuto può
rivelarsi utile anche in molteplici relazioni personali e lavorative, quando tra
due o più persone si crea una situazione conflittuale.

Le scuole di counseling in Italia sono sempre più numerose, anche se non esiste
ancora una regolamentazione legislativa che stabilisca i criteri di base e gli
ambiti della professione.

In attesa che anche in Italia, come già avviene in America e in altri stati
europei, si istituisca la figura del consulente e ci sia un albo professionale, le
scuole esistenti stanno già definendo sia gli standard di formazione sia il codice
deontologico che regolamenti e garantisca questa nuova professionalità.

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BIBLIOGRAFIA

Carl Rogers, G:Marian Kinget (1970), Psicoterapia e relazioni umane,


Boringhieri

Calvin S. Hall, Gardner Lindzey (1966), Teorie della personalità, Boringhieri

Albino Ronco (1971), Introduzione alla psicologia, Pas- Verlag

Roger Mucchielli (1996), Apprendere il counseling, Erickson

Robert Carkhuff (1987), L’arte di aiutare. Manuale, Erickson

Robert Carkhuff (1987), L’arte di aiutare, Quaderno di esercizi, Erickson

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