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Jean-Claude Larchet

L'INCONSCIO
SPIRITUALE
Malattie psichiche
e malattie spirituali

4'
SAN PAOLO
Titolo originale dell'opera:
J;inconscient spirituel
© Les Éditions du Cerf, Paris 2005
Traduzione dal francese
di Lorenzo Bacchiare/lo

© EDIZIONI SAN PAOLO s.r.l., 2006


Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano)
www.edizionisanpaolo.it
Distribuzione: Diffusione San Paolo s.r.l.
Corso Regina Margherita, 2 - 10153 Torino
PREIVIESSA

Questo libro è anzitutto la risposta alla richiesta, fattami da più


parti, di spiegare in maniera più. dettagliata la mia idea sulle rela-
zioni fra.malattie mentali e malattie spirituali; si propone poi an-
che di sviluppare più a fondo la nozione d' <<inconscio spirituale>>
che ho spesso usato in altre opere e, infine,. di gettare le basi di
quella che potrebbe essere una psicoterapia cristiana, partendo
dalla ricca esperienza che la secolare Tradizione ortodossa ha ac-
cumulato nella «cura delle anime».
Esso riporta anche numerose conferenze e comunicazioni, che
qui: ho ulteriormente rielaborato, fatte in convegni o congressi in-
ternazionali.
Nei vari dibattiti avuti in coda ad alcune di quelle riunioni, cui
partecipavano anche psicologi, psichiatri e psicoterapeuti cristiani,
di varie «scuole», ma anche teologi e filosofi, diventò sempre più
chiaro. che il ricorso - da parte di psicoterapeuti cristiani con pa-
zienti cristiaru - a psicoterapie con fondamenti e metodi assai lon-
tani dai princìpi e dalle prassi del cristianesimo comportava sem-
pre un che di problematico. In Grecia e da molti anni ormai, que-
sta problematica è al centro di grandi controversie e forti tensioni.
Il contrasto più vivace è fra coloro, da una parte, i quali pensano
che le psicoterapie abbiano una struttura e collocazione analoghe
alle varie branche della medicina e siano quindi autonome dalla
religione e, dall'altra, ·quegli altri invece. secondo cui la tradizione
ascetica ortodossa e la pratica della paternità spirituale, nelle mo-
dalità che assumono all'interno della Chiesa ortodossa, siano in
grado d'offrire mezzi adeguati per trattare, come <<in sovrappiù»,
anche le turbe psichiche, rendendo così superfluo il ricorso alle
psicoterapie.
Nel mondo cattolico e in quello protestante, dibattiti del gene-
re sono ben meno vivaci. Uno dei motivi è. che in questi due

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mondi le psicoterapie sono state introdotte ormai da vari decen-
ni, e quindi le discussioni che la loro introduzione ha magari su-
scitato oggi non sono più d'attualità; inoltre, l'introduzione della
psicanalisi lì venne favorita dalla gran «moda» di cui, intorno
agli anni '60 del secolo scorso, godettero, anche fra il clero, le
scienze umane.
Per altro verso, sia nel cattolicesimo che nel protestantesimo
non esistono una tradizione ascetica elaborata e metodica né
una prassi della paternità spirituale analoghe a quelle del mondo
ortodosso, tradizione e prassi che potrebbero rivendicare a sé
una funzione psicoterapeutica inclusa nella loro funzione spiri-
tuale. A tutto ciò possiamo poi aggiungere anche la costatazione
- fatta dai sociologi - che l'assenza della pratica della confessio-
ne nel protestantesimo e una certa disaffezione per essa nel cat-
tolicesimo - o il passaggio da una confessione personale a una
sua forma collettiva - hanno in qualche misura favorito lo svi-
luppo della psicanalisi e delle psicoterapie nelle rispettive aree
d'influenza.
Ma con tutto ciò, neanche in Occidente diverse pubblicazioni
hanno mai smesso, di quando in quando e fino ai nostri giorni,
d'interrogarsi sul problema della compatibilità di questa o quella
forma di psicoterapia (in particolare, la psicanalisi e la psicologia
analitica) con i princìpi (soprattutto antropologici) del cristiane-
suno.
Checché ne sia d'un tale dibattito, siamo però sempre obbliga-
ti ad ammettere che, in forza delle loro implicazioni antropologi-
che - a livello sia dei loro fondamenti teorici che delle loro appli-
cazioni pratiche -, le psicoterapie pongono al cristianesimo un
problema assai particolare, che non suscitano invece quelle tera-
pie mediche, come la neurologia e la psichiatria, che hanno una
loro collocazione scientifica ben riconosciuta e incontestabile.
Nel mondo cristiano, diverse psicoterapie vennero adottate
come metodi già bell'e fatti e completi, «pronti per l'uso». Etut-
te ebbero i loro sostenitori e i loro detrattori; ma poi non si fece
mai nessuno sforzo - come sarebbe stato nella logica delle cose -
per sviluppare una psicoterapia cristiana, o come minimo una
psicoterapia i cui fondamenti antropologici e le cui prassi tera-
peutiche si ponessero, in maniera chiara e incontestabile, in linea
di continuità con quelli del cristianesimo.
In vari e recenti congressi in cui erano presenti anche psicotera-

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peuti cristiani, numerose voci si sono levate a chiedere che si faces-
sero ricerche in questa direzione.
In quanto nuovi contributi per una migliore comprensione e cu-
ra delle malattie psichiche, siffatte ricerche non possono essere che
benvenute; tanto più che, fra le centinaia di psicoterapie apparse e
sviluppatesi nel secolo XX, fin qui ancora nessuna si è imposta co-
me più adatta delle altre a guarire i malati di sua competenza. La
costatazione, fatta in studi recenti, che nel trattamento delle malat-
tie psichiche, <<tutte le terapie si equivalgono» esprime sì una loro
efficacia... ma pur anche un'equivalente inefficacia per mali la cui
natura profonda continua a restare sotto molti aspetti misteriosa e
la cui spiegazione resta in genere ipotetica; a tal punto che ancora
oggi - e forse tanto più oggi, dopo i progressi della genetica - si
resta per varie malattie esitanti fra cause totalmente eterogenee:
cause puramente biologiche secondo alcuni, cause puramente psi-
chiche e ambientali secondo altri.
Gli studi che da anni vado facendo sulle malattie spirituali e sul-
la tradizione terapeutica dell'Oriente cristiano offrono, non ho
dubbi, prospettive nuove per la comprensione e la terapeutica del-
le malattie psichiche, nella misura in cui quelle hanno delle rela-
zioni con queste.
Questo nostro libro, che non ha la pretesa di essere uno studio
sistematico e completo, si propone appunto di precisare quelle re-
lazioni e così suscitare ulteriori ricerche.
In tutto il libro si è mantenuta una rigorosa distinzione fra ma-
lattie psichiche e malattie spirituali, evitando così un duplice ri-
schio: quello, per un verso, d'una qualche concezione massimali-
stica che riduca lo psichico allo spirituale e, di conseguenza, non
lasci più spazio alla psicoterapia propriamente detta; e anche quel
secondo rischio, per altro verso, che sarebbe consistito nel confon-
dere fra loro psichico e spirituale. Mentre la prima posizione è fa-
cile incontrarla nel mondo ortodosso, la seconda è ampiamente
diffusa nel mondo cattolico, in cui le trasmissione radiofoniche e
la letteratura religiosa sono state ampiamente inondate, negli ulti-
mi anni, da discorsi psicologizzanti che mostrano la tendenza a
eclissare la spiritualità - i sociologi parlano d'un movimento <<psi-
rituale» -, sull'onda talora della New Age e talaltra, ancor più di
frequente, sulla scorta di schemi semplicistici e che quasi sempre
sono caratterizzati da un approccio ben poco rigoroso e anzi su-
perficiale, ma anche da un'assenza di fondamenti nella Tradizione,

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nonostante questa o quella citazione di Padri strappata in modo
ingannevole dal suo contesto1.
Se pure sosterremo che talune malattie mentali sono legate a de-
termillate malattie spirituali e, di conseguenza, che la guarigione di
quelle dipende dalla guarigione di queste, vogliamo tuttavia evitare
il rischio di strumentalizzare la spiritualità (a fortiori la vita sacra-
mentale, cui è indissolubilmente legata), coscienti come siamo che
la sua finalità non è già la guarigione psichica dell'uomo bensì la
sua guarigione spirituale, in vista della sua salvezza e deificazione.
Ma è evidente che - nella prospettiva in cui qui ci mettiamo - la
relazione fra la psicoterapia e la terapia spirituale pone un proble-
ma delicato, alla stessa maniera che lo pongono il ruolo e la fun-
zione dello psicoterapeuta rispetto al terapeuta spirituale. Speria-
mo d'aver contribuito a chiarire anche questa problematica.
Dobbiamo infine fare qualche chiarimento anche sulla nozione
di <<inconscio spirituale» che svilupperemo in quest'opera. La con-
cezione che ne proponiamo in questo libro non è per niente calca-
ta su questa o quella moderna teoria dell'inconscio. Essa si basa
piuttosto su elementi che troviamo nella più antica letteratura pa-
tristica; inoltre, se pur presenta un'analogia globale con le conce-
zioni moderne - ruolo dell'inconscio nella patologia, ruolo del
«divenire cosciente>> nella terapeutica -, se ne differenzia tuttavia
in modo ben netto.
Prima di tutto perché noi distinguiamo due forme d'inconscio,
entrambe presenti nell'uomo ma in qualche maniera in conflitto
fra loro. Poi perché la presa di coscienza di questi due inconsci mi
par essere una condizione necessaria, ma non sufficiente, per la
guarigione spirituale e la guarigione psichica, che è in qualche mi-
sura legata a quella. Tutto ciò che qui diremo va letto nel più glo-
bale contesto già esposto in Terapia delle malattie spiritualz2 . La
guarigione spirituale dipende da un modo di vita ascetico (nel sen-
so ampio della parola) e, indissociabilmente, dalla vita sacramenta-
le, di cui è la Chiesa la dispensatrice. Se lo sforzo spirituale del-

1 Su quest'abitudine e quest'uso invalso, si veda l'articolo di I. Frnnck, «"Psy" e "spi"


font-ils bon ménage?», in Ecritures, 55, 2003, p. 6-9; soprattutto,poi il dossier <<Psychologie
et vie spirituelle. Distinguer pour unirn, in Christus, 197, 2003. E comunque opportuno far
notare che quest'uso non pretende di essere psicoterapeutico in senso vero e proprio, ma ten-
de piuttosto alla ricerca d'un qualche benessere interiore; e proprio per questa ragione, esso
ha avuto così tanto successo.
2 Terapia delle malattie spirituali. Un'introdùzione alla tradizione ascetica della Chiesa or-
todossa, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2003.

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l'uomo e l'aiuto degli altri (in particolare, d'un padre spirituale ve-
ro ed esperto) è indispensabile per la sua guarigione spirituale,
questa non può tuttavia compiersi se non in forza della grazia. In
altre parole, la guarigione spirituale è sempre frutto d'una sinergia
un;iano-divina di cui il Cristo è il mediatore.

Fonti

Il capitolo 1 è la rielaborazione e l'ampliamento d'una comunicazione


presentata al 10° Congresso della Federazione europea delle Associazioni
mediche cattoliche, svoltosi a Bratislava, Slovacchia, 1-4 luglio 2004, sul
tema «New Challenges for Medicine and Health Care in Europe».
I capitoli 2 e 3 sono le due parti d'una comunicazione presentata al
Colloquio scientifico internazionale svoltosi a Livàdia, Grecia, 1-5 otto-
bre 2003, sul tema «Teologia cristiana ortodossa e psicoterapia>>.
Il capitolo 4 è l'ampliamento d'una comunicazione presentata alle
«Giornate di psicologia» orgànizzate il 27 e 28 agosto 2004 dal diparti-
mento di Psicologia dell'Università cattolica di Buenos Aires, Argentina,
sul tema <<Psicologia e pensiero cristiano».
Il capitolo 7 riprende e amplia il capitoJo 12 del mio libro Le chrétien
devant la maladie, la sou/france et la mort, Ed. du Cerf, Paris, 2002, intito-
lato <<La dimension inconsciente des passions».
I capitoli 9, 10 e 11 sono l'ampliamento di due conferenze tenute il 24
e 25 ottobre 2003 a Tessalonica, Grecia, su invito del Centro ellenico di
psicanalisi e della rivista TJ (j'\)VUV'tTJCTTJ.

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I

MALATTIE PSICHICHE
E MALATTIE SPIRITUALI

Scopo di questo libro è mostrare come alcune malattie psichi-


che abbiano la loro fonte, o radice, in certe malattie spirituali e,
dunque, come la guarigione delle prime dipenda, in parte almeno,
da una terapeutica spirituale.
A questo proposito dobbiamo comunque precisare molti punti,
in particolare sulla rispettiva natura delle malattie spirituali e delle
malattie psichiche.

1. Le malattie psichiche sono distinte dalle malattie spirituali,


né più né meno che le malattie spirituali sono distinte da quelle
psichiche

Le malattie psichiche non s'identificano con le malattie spiritua-


li: si tratta di malattie di natura diversa ed è opportuno tenerle ben
distinte.
Questa distinzione non significa tuttavia che dobbiamo pensare
a tre piani indipendenti, uno sopra l'altro: il piano corporale, il
piano psichico e quello spirituale. Pensarla così funziona per i due
primi elementi, ma non per il terzo, che nel suo senso più generale
ha un significato relazionale.
Se in un suo senso particolare l'aggettivo «spirituale>> fa andare
a ciò che è in relazione con lo spirito - o intelletto - dell'uomo
(pneuma, o nous1), e in un altro senso ancora particolare indica ciò
che viene dallo Spirito Santo o è in relazione con Lui, nel suo sen-

1 Nei Padri troviamo la tricotomia corpo, anima, spirito. In origine la parola spirito veniva
tradotta in greco con pneitma. Ma i rischi di confusione con lo Spirito indussero poi i Padri a
preferire nous. Quest'ultimo termine indica lo spirito (con la minuscola) o intelletto, cioè l'in-
telligenza intuitiva dell'uomo, la cui prima finalità è contemplativa. Questa facoltà è spesso
presentata come la facoltà superiore dell'anima; e ciò permette allora di riportare la tricoto-

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so più generico - e in questo libro daremo ali' aggettivo questo
senso generico - esso indica infatti un rapporto, positivo oppure
negativo, con Dio (significa per esempio che la negazione o trascu-
ratezza di Dio è un atteggiamento spirituale al medesimo titolo
che fare memoria di Lui o della fede in Lui). Ciò che dunque in-
tendiamo per malattia spirituale è una turba- nel contesto dell'at-
tività umana in generale e, in particolare, nel funzionamento delle
varie facoltà umane - del normale rapporto dell'uomo con Dio; di
conseguenza, ciò che intendiamo per guarigione spirituale è il ri-
stabilimento dl quel normale rapporto con Dio.
Le malattie ·psichiche esprimono invece una disfunzione della
vita psichica dell'uomo, disfunzione che implica una turba - in ge-
nere accompagnata da sofferenza psichica ,--- dei suoi rapporti con
se stesso, con gli altri e con la realtà esterna.
Sebbene ogni attività d'una facoltà psichica abbia un significato
spirituale - in forza della relazione con Dio, positiva o negativa,
che essa implica -, la sfera psichica gode d'una relativa autonomia
dalla sfera spirituale. Alla stessa maniera, la sfera corporale ha una
certa autonomia dalla sfera spirituale e da quella psichica.
E tuttavia, in forza dell'unità del composto umano - anima-cor-
po - e per il fatto che l'essere umano non esisté che in un rapporto
(positivo oppure negativo) con Dio, fra esse c'è un legame.

2. Un certo numero di malattie psichiche è direttamente collegato


· a malattie spirituali, né più né meno che un certo numero
di malattie psichiche è collegato a malattie corporali

Le malattie spirituali hanno un'origine sui generis. È assodato


che alcune malattie fisiche o psichiche possono talora costituire un
terreno favorevole per lo sviluppo di malattie spirituali, ma non
possono esserne la causa;
Quanto alle malattie corporali, alcune possono avere una causa
puramente fisica (ed è il caso più normale); altre invece possono
essere provocate da malattie, o perlomeno turbe, psichiche (in
questo caso si parla di malattie psico-somatiche); altre ancora pos-

mia (corpo-anima-spirito) a una dicotomia (corpo-anima). Si veda al riguardo il nostro libro


Thérapeutique des maladies mentales, Paris, 1992, p. 25-42. In senso stretto, le malattie spiri-
tuali sono malattie dello spirito (nous). In senso ampio - che è il nostro in quest'opera-, non
sono delle malattie soltanto dello spirito, o nous, ma incidono anche sulle altre facoltà.

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sono essere generate da malattie spirituali (pensiamo in particolare
alla passione della gola o alla lussuria, ma anche alla collera e al ti-
more, che hanno evidenti effetti patogeni sull'organismo). La mag-
gior parte delle malattie corporali ha tuttavia un'origine che pro-
viene ora da una disfunzione del corpo stesso e ora da un'influen-
za dell'ambiente, da cui l'organismo non ha modo di difendersi
(intossicazioni, contaminazioni ecc.).
Le malattie psichiche non sono, come le malattie spirituali, indi-
pendenti. In ogni caso hanno un'indipendenza minore delle malat-
tie corporali: le turbe sui generis sono più rare, nella sfera psichica.
Le malattie psichiche sono il più delle volte provocate o da malat-
tie corporali o da malattie spirituali o, ancora, da un intervento
esterno di tipo demoniaco o magari dall'intervento congiunto d'un·
certo numero di tali fattori.
Dobbiamo ben guardarci dal sottovalutare (e, afortiori, dal ne-,
gare) l'eziologia ,corporale (= causalità biologica oppure fisiologi-
ca) delle malattie psichiche, come alcune psicoterapie, invece, so-
no di fatto tentate di fare. Certe malattie psichiche possono avere
un'eziologia puramente somatica,- anche se poi nella loro manife-
stazione fanno intervenire dei fattori psichici e finanche spirituali.
È un fatto che certe dimensioni della malattia psichica possono es-
sere corporali e altre invece sono psichiche e spirituali.. Può allora
essere utile e perfino necessario associare al trattamento psichico
(psicoterapia) e al trattamento spirituale (terapeutica spirituale) un
trattamento medico che agisca sulla dimensione corporale. Per
esempio, l'assenza o l'eccesso di tono sono spesso strettamente le-
gati a fattori fisici, e la loro regolazione con una terapeutica medi-
ca è a volte la condizione indìspensabile per rendere il malato ac-
cessibile alle parole del terapeuta e·così permettergli di collaborare
direttamente alla propria cura.

Ma se per la comprensione e la terapeutica delle malattie psichi-


che è pregiudizievole sottovalutare il fattore corporale nell' eziolo-
gia d' alcune di esse, alla stessa maniera è pregiudizievole sottova-
lutarne il fattore spirituale. Fattore che la psichiatria, invece, scarta
senz'altro, in nome della scienza, volendo essa attenersi, per ragio-
ni epistemologiche, a un quadro unicamente naturalistico. Pur-
troppo questo fattore viene ignorato, o addirittura negato, anche
dalla maggior parte delle psicoterapie, alcune delle quali hanno di
fatto delle basi naturalistiche, mentre altre si oppongono per prin-

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cipio ai fattori spirituali (soprattutto perché intendono .la vita psi-
chica come un campo totalmente autonomo) e altre ancora parto-
no da un'antropologia schiettamente materialistica e atea che
esclude a priori simili fattori.
Alla luce della nostra concezione cristiana, la vita psichica è in-
vece strettamente legata alla vita spirituale e ben poco indipenden-
te da essa.
Considerando invero le cose in generale,. la vita psichica è ben
difficilmente dissociabile dalla problematica del senso, cioè - tut-
t'insieme - dal suo orientamento e dal suo contenuto. La vita psi-
chica è strettamente condizionata dai rapporti chel'uomo ha con
se stesso e con gli altri e anche con la propria rappresentazione del
mondo (ciò che in tedesco si dice Weltanschauung), tutte realtà
che sono a loro volta strettamente dipendenti dalla relazione (posi-
tiva oppure negativa) che egli ha con Dio.
Già soltanto per queste ragioni, noi non possiamo considerare
la vita psichica come un puro e semplice gioco meccanico di for-
ze, di cui si tratterebbe soltanto di controllare la potenza e 1' ar-
monia; né lo psicoterapeuta si può considerare l'equivalente, nel
c~mpo psichico, di ciò che è l'ortopedico o il cardiologo nel
campo medico.
Come mostreremo nel capitolo dedicato ai grandi princìpi del-
1' antropologia cristiana, questa vede nella relazione con Dio ciò
che definisce l'uomo, sia nella sua natura che nella sua esistenza
personale. Per questo; l'antropologia cristiana ritiene che le varie
facoltà umane siano per loro natuta orientate a Dio e. che il loro
esercizio vada «contro natura>> e sia anormale quando si orienta in
un altro senso. È da questo esercizio contro natura delle facoltà
umane che si formano le passioni. E queste sono malattie spirituali
che vanno tenute ben distinte dalle malattie psichiche: come le
passioni non sono malattie psichiche, così le malattie psichiche
non sono passioni. E tuttavia, le malattie spirituali, pur definendo-
si come tali sulla base della relazione che esse instaurano con Dio,
inevitabilmente coinvolgono l'uso o il modo di esercizio delle no-
stre facoltà (ragione, potenza desiderante [concupiscibile], poten-
za aggr~ssiva [irascibile], immaginazione, memoria ecc.). Ogni
modo di esercizio contro natura d'una facoltà corrisponde a una
malattia di questa facoltà, non solamente da un punto di vista spi-
rituale ma anche da un punto di vista psicologico.
La disarmonia che le passioni introducono nell'esercizio delle

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nostre facoltà è quindi una disarmonia non soltanto spirituale ma
anche psichica.
Vale a dire: ogni malattia spirituale genera una corrispondente
turba psichica.
Ciò comunque non significa che noi troveremo questa turba
senz'altro elencata nel quadro nosologico delle malattie psichiche
repertoriate dalla nostra società. E, di contro, alle malattie psichi-
che che questa nosologia elenca non sempre né immediatamente
noi troveremo un corrispondente fra le malattie spirituali.
Le due nosologie, sebbene elenchino delle malattie corrispon-
denti a un funzionamento anormale delle medesime facoltà, hanno
tuttavia origini e quadri culturali estremamente differenti. La ca-
pacità di stabilire un legame esplicito fra le due nosologie suppone
una certa familiarità con l'una e con l'altra. Ma va da sé che il rifiu-
to a priori, l'ignoranza o la misconoscenza della patologia spiritua-
le rendono impossibile l'indiV:iduazione dei fattori spirituali pato-
geni per la vita psichica.
Ma ancora altre ragioni rendono disagevole mettere in relazione
fra loro i due tipi di malattie.
· La difficoltà maggiore proviene dal fatto che le.malattie spiri-
tu,ali possono trovarsi fra loro in un equilibrio tale da non lasciar
trasparire, sul piano psichico, nessuna turba identificabile come
questa o quella malattia psichica elencata dalla nosologia in vigore.
Mi diceva un giorno uno dei maggiori maestri spirituali ortodossi
del XX secolo: «Ciò che la nostra società considera normalità e sa-
nità psichica non è che la somma di tutte le malattie spirituali che
essa contiene e tiene fra loro in equilibrio».
Anche Freud faceva osservare che in qualche misura tutti gli uo-
mini sono neyrotici. Una malattia psichica non si scorge se non dal
momento che raggiunge una soglia di squilibrio, se non dal mo-
mento che una particolare turba raggiunge una certa soglia d'in-
tensità e tutto comincia a diventare un fastidio o un disagio per la
persona e per chi le vive accanto.
La patologia spirituale provoca una patologia psichica realissi-
ma, spesso non identificabile secondo gli schemi della nosologia
classica ma che i padri spirituali esperti e dotati di discernimento
sanno invece ben individuare, essi che vedono come al microsco-
pio una realtà che alla vista comune resta nascosta.
In un gran numero di casi, le malattie psichiche «conclamate» o
che vengono alla luce hanno nel loro retroterra e come fonti turbe

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spirituali assolutamente evidenti., a volte isolate ma il più spesso
associate fra loro, come vedremo in un prossimo capitolo.

3. Malattia e colpa

Le malattie spirituali corrispondono a passioni che i Padri chia-


mano «colpevoli». Sostenere che le malattie spirituali hanno un
certo ruolo nella nascita, nello sviluppo o nella persistenza di certe
malattie psichiche non significa tuttavia dire che coloro che soffro-
no di malattie psichiche siano più colpevoli o più peccatori degli
altri.
L'uomo che si trova in stato di peccato è per forza abitato da
passioni, sebbene in proporzioni diverse da un individuo ali' altro.
Come abbiamo appena visto, possiamo dire che ogni persona svi-
luppa una patologia psichica relati.va alla sua patologia spirituale.
Ma nella maggior parte degli uomini, questa patologia psichica si
mllllriene in equilibrio, sì che non si manifesta in forma di turbe
percepibili o di malattie individuabili.
_ Le persone affette da malattie psichiche sono quelle che, a mori-
vo di circostanze personali, familiari o sociali particolari, non sono
riuscite a mantenere quell'equilibrio; in esse, questo o quell' ele-
mento patologico, invece di venire compensato, equilibrato o sof-
focato dagli altri elementi. .patologici, è diventato predominante o
in ogni caso sufficientemente forte_ da manifestarsi come patologi-
co e diventare patogeno. Possiamo dunque dire che la responsabi-
lità <<Inorale», o stato di peccato, è a priori identica sia nell'uomo
malato che nell'uomo caduto in peccato il quale si pretende sano.
Dal nostro punto di vista, non è dunque mai questione, in nessun
caso, di colpevolizzare quelli che sono malati psichicamente. Pos-
siamo, anzi, perfino dire che meritano una maggiore compassione,
nella misura precisamente in cui sono finiti. vittime di circostanze
più sfavorevoli e, in forza di questa loro condizione, stanno viven-
do una sofferenza maggiore degli altri..
In un certo numero di casi, può certamente essere che la malat-
tia psichica sia legata a colpe personali, e chi ne soffre possa esser-
ne direttamente responsabile; ma in molti. altri casi, il malato è una
vittima, il più delle volte del suo ambiente e delle sue relazioni fa-
miliari. .
La terapeutica deve allora sforzarsi, per un verso, di coinvolgere

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tutte le persone in causa, nella misura in cui il malato resti in rela-
zione con esse, e, per altro verso e soprattutto, di fornire al malato
il modo di sostenere quella relazione con mezzi spirituali adeguati.

4. La terapeutica spirituale non va assimilata


a una terapeutica psichica

Pur sostenendo che talune malattie psichiche possono essere


materia d'una terapeutica spirituale - nella misura in cui hanno
delle cause spirituali -, non dobbiamo però stravolgere le terapeu-
tiche spirituali e farne delle terapeutiche psichiche (o delle psico-
terapie) oppure dei semplici strumenti al servizio di queste.
·La natura e la finalità delle terapeutiche spirituali vanno assolu-
tamente salvaguardatè come tali, tanto più che in esse intervengo-
no, come fonte della guarigione, la grazia e i sacramenti, che della
grazia sono vettori; significa che le terapeutiche spirituali non si
possono dissociare dal campo soprannaturale e dal campo della vi-
ta ecclesiale, le quali sono entrambe realtà che traboccano dai limi-
ti d'una terapeutica <<profana>> e ne escludono ogni strumentalizza-
zione in vista di fini esterni e inferiori.
Ciò implica l'esigenza che vengano ben definiti i ruoli dei vari
terapeuti di cui si può chiedere l'intervento, ma pure che vengano
ben precisate la natura e le modalità della loro eventuale collabo-
razione.

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II

I GRANDI PRINCÌPI
DELL'ANTROPOLOGIA CRISTIANA

I vari capitoli di questo libro faranno di continuo riferimento al~


l'antropologia cristiana, nella visione che di essa dà in particolare
l'insegnamento dei Padri greci. È perciò indispensabile che neri-
chiamiamo i princìpi fondamentalil.
L'antropologia cristiana ha una caratteristica essenziale, quella
di non concepire l'uomo indipendentemente dalla sua relazione
con Dio. È questa relazione con Dio che caratterizza l'uomo, sia
nel suo essere che nel suo divenire.
La base dell'antropologia cristiana è biblica e sta nell'afferma-
zione che l'uomo venne creato a immagine e somiglianza di Dio
(Genesi 1,26). Quest'affermazione, sèbbene si trovi nel libro della
Genesi e nel contesto della creazione del primo uomo, tuttavia non
riguarda soltanto il primo uomo ma si applica a ogni uomo. Ri-
guarda dunque la natura stessa dell'uomo ed è parte costitutiva
della sua definizione.
L'immagine indica soprattutto la costituzione naturale dell'uo-
mo. L'uomo è a immagine di Dio nella sua natura stessa, soprattut-
to con le superiori facoltà che egli possiede: il suo intelletto (nous),
la sua ragione (l6gos), la sua volontà (thélema, thélesis), la sua fa-
coltà di scegliere (proairesis), la sua potenza d'amare. Un certo nu-
mero di commenti patristici sottolinea comunque che l'uomo è in
realtà a immagine di Dio per tutto l'insieme delle sue facoltà:
Mentre l'immagine è data fin dall'inizio all'uomo, è cioè costitu-
tiva della sua natura, la somiglianza, invece, l'uomo" deve conqui-
starla personalmente: la somiglianza proviene dalle virtù, che sono
delle disposizioni abituali, o stati (héxeis, habitus) spirituali, che
fanno aderire l'uomo a Dio e lo rendono simile a Lui.
I Per un'esposizione dettagliata, vedi il nostro srudio Terapia delle malattie spirituali.
Un'introduzione alla tradizione ascetica della Chiesa ortodossa, San Paolo, 2003, parte pri-
ma, p.15s.

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Possiamo allora dire che l'immagine di Dio inerisce in modo più
particolare all'essere (einai) dell'uomo, mentre la soniiglianza in
modo più particolare al suo modo di essere (tr6pos tes hupdrxeos)
o, più precisamente ancora, al suo benessere (eu einai), che sono
situazioni che alla partenza gli si presentano come un dover-essere.
C'è tuttavia uno stretto rapporto fra immagine e somiglianza.
In primo luogo, l'immagine è ciò che permette all'uomo di rea-
lizzare la somiglianza: è in forza delle potenze (dyndmeis), o facoltà
costitutive, dell'immagine e con il sostegno della loro energia
(enérgheia) che l'uomo potrà esercitare le virtù attraverso cui per-
verrà alla soniigliànza.
In·secondo luogo, come dei commenti patristici fortemente sot-
tolineano, le virtù sono· già presenti in germe nella natura stessa
dell'uomo, e il compito d'ogni persona è farle crescere in sé;· per
questo, nel libro della Genesi Dio non già dice: «Creiamo l'uomo a
nostra immagine, in vista della nostra somiglianza>>, ma «a nostra
immagine e somiglianza>>; perché in qualche misura la somiglianza
è già data all'uomo fin dalla creazione: l'uomo fu creato con un
orientamento alla realizzazione della somiglianza e già in atto di
realizzarla.
Infine, è nella realizzazione della somiglianza che l'immagine
raggiunge la propria finalità e trova il proprio compimento (sym-
plérosis) e la propria perfezione (pléroma). Per questo, un uomo
dotato d'intelligenza, volontà e libero arbitrio ma che non fosse
temperante, casto, disinteressato, dolce, umile, buono ecc. non sa-
rebbe un uomo completo né perfetto (dr. Efesini 4,13).
Per dirla in altro modo, possiamo anche affermare, con molti
Padri, che l'uomo è destinato dalla sua natura a diventare dio per
grazia. Sebbene la deificazione dell'uomo sia di per sé frutto della
grazia, tuttavia la natura dell'uomo è costituita in tal modo da po-
tersi direttamente disporre a ricevere quella grazia e raggiungere
quel fine: la natura dell'uomo è stata da Dio creata come dinami-
camente orientata alla realizzazione della finalità che Dio le ha at-
tribuito.
Significa che nell'uomo tutte le facoltà sono fatte perché, trami-
te esse, egli possa orientarsi verso Dio e unirsi a Lui. Come dire
che l'intelligenza, nella sua forma intuitiva (nous) e nella sua forma
razionale (l6gos), è fatta per conoscere Dio; la facoltà desiderante
[potenza concupiscibile], o del desiderio (epithymia, epithymeti-
k6n), è fatta per desiderare Dio e amarLo; la potenza irascibile, o

20
dell'ardore (thym6s), è fatta per combattere il male, schivare le
tentazioni e attivare quello zelo di cui la vita spirituale ha bisogno;
la volontà è fatta per conformarsi alla volontà di Dio e compiere i
Suoi precetti; la memoria è fatta per ricordarsi· di Lui; i sensi e
l'immaginazione son fatti per servire da base alla contempla.Zione...
Ma ciò significa pure che queste facoltà o ·potenze (dyndmeis)
sono per loro natura e spontaneamente orientate, in forza della lo-
ro attività (enérgheia), verso Dio.
È precisamente a quest'orientamento verso Dio delle facoltà
dell'uomo che corrispondono le virtù. Per questo, i Padri dicono
che la vita virtuosa è «conforme alla natura» (katà physin).

I commenti patristici del libro della Genesi, quando ci descrivo-


no lo stato paradisiaco, ci presentano il primo uomo - Adamo
(che rappresenta l'uomo come venne creato da Dio, nel suo stato
originale, naturale e normale) - interamente orientato in tutto il
suo essere verso Dio e che si attiva con tutte le sue potenze per
Dio. Eppure, in quello stato l'uomo not;t era ancora pienamente
compiuto: in verità, sit'rovava in uno stato dinamico di crescita, e
molti Padri lo paragonano a un bambino, con tutto ciò che il para-
gone comporta di fragilità e incompiutezza. Ma nello stesso tem-
po, quello stato di crescita era una condizione normale e sana, per-
ché Adamo conduceva· un modo di esistenza orientato verso Dio,
uno stato in cui tutte le sue facoltà operavano, con tutta la loro
energia, in funzione di Dio, in vista di realizzare la somiglianza con
Lui e sempre più essere, personalmente e coscientemente, unito a
Lui.
Secondo la fede cristiana, questo processo di crescita spirituale
non è soltanto il frutto dell'energia umana, ma il risultato d'una
collaborazione (synerghia, sinergìa) fra l'energia umana e quell' e-
nergia divina cui Dio concede all'uomo di partecipare e che si
chiama anche grazia. Quanto più l'uomo è puro, umile e vive in
conformità con le virtù, tanto meglio può lasciar entrare e agire in
sé la grazia o energia divina, e tanto meglio l'energia divina suben-
tra all'energia umana, anche se questa non viene affatto abolita,
ma volontariamente e liberamente disattivata. Se l'uomo che ha
concluso il processo di crescita spirituale può venire divinizzato, è
precisamente in forza dell'energia divina che ha in sé, dato che né
la sua potenza né la sua energia naturali sono in grado di farlo ac-
cedere a quello stato, che è sì al di là della sua naturà ma lo stesso

21
costituisce un compimento della sua natura: insegnano infatti i Pa-
dri, l'abbiamo visto, che il fine ultimo dell'uomo, lo scopo per cui
venne creato è diventare dio per grazia, la sua natura compiendosi
in un modo di esistenza soprannaturale.

Il peccato ancestrale [originale] sopraggiunse a introdurre delle


turbe in questo processo. Il peccato ancestrale - confermato e raf-
forzato dai peccati dei discendenti di Adamo ed Eva - è caratteriz-
zato dal fatto che l'uomo si è volontariamente allontanato da Dio.
Invece di riconoscere Dio come il principio e il fine (archè kaì
télos) della sua esistenza, l'uomo si è messo a ignorare Dio e tra-
scurarlo. Con uno stravolgimento e una perversione delle sue fa-
coltà conoscitive, alla conoscenza di Dio e alla contemplazione
delle creature in Dio l'uomo ha sostituito la conoscenza delle crea-
ture fuori di Dio e nelle loro sole apparenze sensibili. Con uno
stravolgimento della sua facoltà desiderante e dei suoi sentimenti,
invece di desiderare e amare Dio, l'uomo si è messo ad amare se
stesso fuori di Dio, in un atteggiamento passionale che i Padri
chiamano «amore egoistico di sé» (philautfa), e ad amare le creatu-
re, nel quadro di quell'amore egoistico, per il piacere sensibile che
esse gli procurano. Volendo diventare dio senza Dio, l'uomo fece
di sé un idolo e un idolo anche delle Sue creature, relativizzando
l'Assoluto e assolutizzando il relativo. Con uno stravolgimento
della sua potenza irascibile (thym6s), invece di combattere «il
buon combattimento» (Prima a Timoteo 6,12) contro le forze del
male e le tentazioni e far servire il suo zelo per unirsi sempre più a
Dio, l'uomo si mise a combattere contro Ciò che si oppone alla
soddisfazione dei suoi desideri passionali e rivolse la sua aggressi-
vità contro il prossimo, concedendosi alla collera, ali'odio, alle ri-
valità, alla dominazione. Similmente stravolse la sua volontà dal
compimento della volontà di Dio e ne fece una <<Volontà propria>>,
al servizio dei propri disegni mondani e dei propri desideri passio-
nali. La memoria si distolse dal ricordo di Dio per riempirsi dei ri-
cordi delle cose di questo mondo. L'immaginazione, invece di for-
nire all'uomo rappresentazioni utili alla contemplazione, si mise a
creare delle rappresentazioni in linea con i suoi desideri passionali
e a inventare tutte le forme del male.
Tutte le facoltà della natura umana vennero, insomma, in tal
modo stravolte dal loro uso originale, normale e sano, e indirizzate
a un uso perverso, contro natura (parà physin), sragionevole (parà

22
l6gon), anormale e malato. Tutta la natura dell'uomo cominciò co~
sì a esistere e funzionare fuori di sé, in uno stato non d'alterazione
soltanto ma anche di alienazione.
Come l'uso normale delle facoltà dell'uomo dà forma alle virtù,
il loro uso anormale dà forma alle passioni, il cui nome stesso si-
gnifica <<malattie>> e che i Padri all'unanimità considerano <<malat-
tie dell'anima», ma che ai nostri giorni sarebbe forse meglio chia-
mare «malattie spirituali», per non confonderle con le malattie psi-
chiche (sebbene di queste possano essere causa).
Le passioni presenti nell'uomo decaduto sono innumerevoli.
Per facilitarne l'individuazione e anche la lotta contro esse nella vi-
ta spirituale, i Padri ne hanno fatto delle classifiche, di vario tipo.
La tradizione ascetica dell'Oriente cristiano ne ha anzitutto
elencate, con intento di semplificazione, sulla scorta di Evagrio
Pontico, nove principali, o «generiche»: 1) la voracità, o gola (i Pa-
dri la chiamano gastrimarghia), che è un attaccamento passionàle
al cibo; 2) la lussuria (porneia), che è un attaccamento passionale
al piacere sessuale; 3) l'attaccamento al denaro (philargyria) e la
cupidigia (pleonexia), che sono degli attaccamenti passionali al de-
naro e alle ricchezze materiali; 4) la tristezza (lype); 5) l'accidia
(akedia); 6) la collera, o ira (orghl), che comprende tutte le forme
patologiche di aggressività; 7) il timore (ph6bos), che va dalla pau-
ra ali' angoscia,· con le forme intermedie dell'inquietudine e del-
1' ansia; 8) la vanagloria, o vanità (kenodoxia), che è una falsa valo-
rizzazione di sé ai propri occhi e agli occhi degli altri; 9) l'orgoglio
(yperephania), che è un atteggiamento in cui si afferma la propria
indipendenza da Dio e la propria superiorità sugli altri2.
Un'altra classificazione, compatibile con la precedente e pure
con la seguente, ripartisce le passioni in base al loro rapporto con
le principali facoltà o potenze (dyndmeis) dell' anima3. Possiamo al-
lora distinguere: 1) le passioni relative alla potenza desiderante
(epithymia, epithymetik6n), come la gola, la lussuria, l'avidità e l'a-
varizia, il timore ... ; 2) le passioni relative alla potenza irascibile
(thym6s), come la collera (orghé) ... ; 3) le passioni relative alla po-
tenza desiderante e alla potenza irascibile insieme, come la tristez-
za (lype) e l'accidia (akedia) ... ; 4) le passioni relative alla potenza

2 Vedi Evagrio Pontico, Trattato pratico sulla vita monastica, 5 (cfr. trad. it. presso Città
Nuova, Roma).
3 Vedi Giovanni Cassiano, Conferenze spirituali, xxrv, 15 (cfr. trad. it. presso Ed. Pao-
line).

23
razionale (loghik6n), come la vanità (kenodoxia) e l'orgoglio (ype-
rephania) ...
Una terza classificazione, proposta da san Massimo il Confesso-
re, è particolarmente interessante non soltanto dal punto di vista
della patologia spirituale, ma anche della psicopatologia e, per
quanto semplice, riesce a includere tutta la moltitudine delle pas-
sioni.
Come tutti i Padri, san Massimo il Confessore parte dall'idea
che i tre effetti del peccato ancestrale sulla natura umana sono la
passibilità (la sofferenza), la corruttibilità e la mortalità. L'irruzio-
ne della passibilità nell'uomo a causa del peccato ancestrale ha
portato l'uomo a fare l'esperienza del piacere e del dolore, che nel-
lo stato paradisiaco non esistevano.
Il piacere e il dolore hanno un potere fortissimo sull'uomo de-
caduto, che è fortemente attratto dal piacere mentre prova viva ri-
pulsa per il dolore.
Di queste due tendenze, fondamentale è l'attrazione al piacere:
l'uomo rifugge il dolore soltanto perché è uno stato che lo priva di
piacere e gli è contrario.
L'attrazione al piacere si spiega con il fatto che esso è diventato,
per l'uomo decaduto, un sostitutivo o surrogato di quella gioia spi-
rituale che alle origini egli provava nel suo desiderio di Dio e nel-
l'unione con Lui attraverso l'amore e la conoscenza. Per questo,
l'attrazione al piacere ci appare intimamente legata all'ignoranza o
trascuratezza di Dio e all'amore egoistico di sé (philautia).
Secondo san Massimo, è da questa duplicé tendenza dell'uomo
- cercare il piacere e rifuggire il dolore, in vista di soddisfare I' a-
more egoistico di sé (philautia) - che nascono tutte le passioni o
malattie spirituali.
La sua lunga lista di passioni egli la ripartisce perciò in tre cate-
gone:
1) le passioni che derivano dalla ricerca del piacere;
2) la passioni che derivano dalla fuga del dolore (o dalla voglia
&evitare del dispiacere);
3) le passioni che derivano dalla collaborazione fra queste due
tendenze4.

4 «Nella ricerca del piacere e nella fuga dalla sofferenza, l'uomo inventa forme molteplici
e innumerevoli di passioni corruttrici. Per esempio, se per avere del piacere uno coltiva l'a-
more egoistico di sé,_ allora suscita in sé la passione della gola, l'orgoglio, la vanità, la presun-
zione, l'avarizia, l'avidità, la tirannia, l'arroganza, l'ostentazione, la crudeltà, il furore, il senti-

24
L'attrazione al. piacere e la ripulsa del dolore condizionano or-
mai la coscienza morale dell'uomo decaduto: per lui è bene ciò
che g~ procura piacere ed è male ciò che gli procura dolore.

La tradizione patristica greca (a differenza di quella latina, che


su questo punto segue sant'Agostino) ritiene che i discendenti di
Adamo ereditino gli effetti del suo peccato sulla natura (la passibi-
lità, la corruttibilità e la mortalità), ma non il suo peccato e la sua
colpa, che sono personali. Al principio dunque gli uomini eredita-
no passioni non colpevoli, passioni che incidono sulla sua natura -
la fame, la sete, la fatica, il timore, il piacere, il dolore - e non
quelle passioni colpevoli che abbiamo diffusamente elencato. E
tuttavia, le passioni non colpevoli e la mortalità costituiscono zone
di fragilità; su cui i demoni puntano per esercitare della pressione
sull'uomo e partendo dalle quali l'uomo è fortemente incitato a
sviluppare passioni colpevoli e a commettere dei peccati, che di
quelle sono espressione.
E in effetti, se Massimo il Confessore sottolineò con forza che
l'uomo viene spinto a sviluppare in sé le passioni cattive a causa
della sua fortissima attrazione al piacere e della sua vivissima ripul-
sa per il dolore, a loro volta Teodoro di Mopsuestia e san Giovan-
ni Crisostomo sottolinearono che anche la paura della morte incita
l'uomo a sviluppare in sé le passioni, siccome gli danno l'illusione
di vivere con intensità e conservarsi in vita.
Possiamo allora dire che ogni uomo, se non nasce peccatore, na-
sce almeno con una forte tendenza al peccato, al quale prima o poi
finisce per assentire. Per questo, spesso i Padri parlano di tiranni-
co potere esercitato sull'umanità decaduta dalla morte, dal diavolo
e dal peccato e dicono, a contrappeso, che fu anzitutto da questo
triplice potere che il Cristo venne a liberare l'umanità.

mento cli superiorità, la cocciutaggine, il disprezzo degli altri, l'ingiuria, r empietà, la licenza
cli costumi, la prodigalità, la deboscia, la frivolezza, la vanteria, la mollezza, l'insulto, l'oltrag-
gio, la proliferazione cli parole, la chiacchiera, loscenità e ogni altro vizio dello stesso tipo.
Ma se l'amore egoistico cli sé viene impedito dalla sofferenza, allora ciò fa nascere la collera,
l'invidia, I'odio, lostilità, il rancore, l'oltraggio, la maldicenza, la calunnia, la tristezza, la di-
sperazione, langoscia, false accuse contro la Provvidenza divina, l'indifferenza, la negligenza,
lo scoraggiamento, l'abbattimento, la pusillanimità, la lamentela, la malinconia, l'amarezza, la
gelosia e tutti gli altri vizi imputabili alla privazione cli piacere. La mescolanzasofferenza-pia-
cere, che genera la malevolenza e la cattiveria, fa nascere in noi l'ipocrisia, l'ironia, la furbizia,
la dissimulazione, la lusinga, la compiacenza e tutti gli altri vizi che nascono da questo miscu-
glio» (Questioni a Talassio; PG [Patrologia Graeca] 90, 256B-D).

25
Dobbiamo comunque ben sottolineare che il peccato ancestrale,
confermato e perpetuato dai discendenti di Adamo, non ha modi-
ficato nel suo profondo la natura umana. I Padri insistono sul fatto .
che l'uomo resta sempre costituito a immagine di Dio. Possiamo
allora dire che la natura è rimasta intatta quanto alla sua essenza
(ousia) o l6gos del suo essere e che non è stata alterata se non nel
modo della sua esistenza (tr6pos tes hypdrxeos).
Vale a dire: l'uomo decaduto mantiene le medesime facoltà o
1

potenze (dyndmeis) dell'uomo delle origini, come uscì dalle mani


di Dio, ma esse non si esercitano più in quella medesima maniera .
.Per questo, i Padri dicono che le passioni consistono in un uso
malvagio (pardchresis), perverso o contro natura (parà physin) delle
varie facoltà dell'uomo.
Quest'uso perverso è determinato dall'attività o energia (enér-
gheia) su cui ogni persona ha sì del potere, ma solo parzialmente,
dato che quell'energia è a priori orientata in un senso malvagio
dallo stato decaduto della natura, in particolare, l'abbiamo visto,
dalla passibilità e dalle altre deficienze che ormai la caratterizzano.
Si tratta d'una situazione opposta a quella dell'uomo nel suo
stato originale e paradisiaco, quando, l'abbiamo visto, la sua ener-
gia era spontaneamente - sebbene di essa disponesse liberamente
- orientata verso il bene e verso Dio, in un senso conforme alla na-
tura (katà physin), una situazione insomma che già orientava, <<in
germe», a un modo di esistenza virtuoso.

La salvezza portataci dal Cristo si rivela perciò come una guari-


gione della natura (sappiamo che in molte lingue la parola «salvez-
za>> ha la medesima origine etimologica della parola «salute»; a
volte, come in francese, si usa addirittura la stessa parola per indi-
care sia l'una che l'altra).
Molti Padri fanno comunque osservare che quella guarigione
prese la forma d'un raddrizzamento, facendo passare la natura dal
suo modo di esistenza contro natura (parà physin) a quel modo di
esistenza conforme alla natura (katà physin) che era già della natu-
ra originaria dell'uomo.
Ma nello stesso tempo il Cristo ha dato a quanti sono uniti a Lui
per il battesimo di non essere più soggetti al potere tirannico del
peccato, del diavolo, della passibilità e della morte. Insieme a ciò, a
ogni persona ha dato il potere - esercitando l'energia della sua na-
tura in collaborazione (synerghia) con l'energia o grazia divina - di

26
vivere -secondo quel modo di esistenza conforme alla natura e di
compiere quella somiglianza che corrisponde alla vocazione spiri-
tuale dell'uomo e lo dispone a ricevere l'energia divina che perfe-
ziona la natura al di là della natura e fa dell'uomo un dio per grazia.
E tuttavia, ciò che il Cristo recò all'uomo nella sua economia di
salvezza assumendo la natura umana - cioè la grazia della guari-
gione, della salvezza e della deificazione che egli recò a tutta l'u-
manità - va da ognuno accolto nei sacramenti della Chiesa e assi-
milato in una vita d'ascesi, che consiste anzitutto in un lungo sfor-
zo di purificazione dalle passioni e di vita in linea con le virtù, cosa
che si compie praticando i divini comandamenti. È per questa via
- tanto più difficile quanto più gli attaccamenti a sé e al mondo so-
no potenti - che il fedele può passare dallo stato malato della na-
tura decaduta alla salute o sanità dell'uomo nuovo di cui il Cristo
ci mostra in Se stesso il modello perfetto.
Ma per avanzare su questa via dell'ascesi liberatrice l'uomo non
è solo: è guidato da santi padri spirituali che sono giunti al termine
del cammino e ne conoscono tutte le difficoltà; soprattutto poi
dispone del potente aiuto della grazia, che gli fa superare i limiti
delle proprie forze e lo fa anche uscire dalle difficoltà più grandi,
perché ciò che all'uomo è impossibile è possibile a Dio (cfr. Mat-
teo 19,26, Marco 10,27).

27
IlI

IL PROBLEMA DELLA COMPATIBILITÀ


DEI FONDAMENTI ANTROPOLOGICI:
L'ESEMPIO DELLA PSICANALISI FREUDIANA

1. Introduzione

Se, come abbiamo visto, la sfera psichica ha ben poca autonomia


in rapporto alla- sfera spirituale, e se la relazione - positiva o negati-
va - dell'uomo con Dio è determinante non soltanto per il suo stato
di salute e malattia spirituali ma anche per il suo stato di salute e
malattia psichiche - nella misura in cui quest'ultime dipendono da
quelle -, allora la questione dei fondamenti antropologici della te-
rapeutica psichica - qualunque sia la forma o il ruolo che essa assu-
me rispetto alla terapeutica spirituale - diventa cruciale. A me pare
che soltanto una psicoterapia con fondamenti antropologici in sin-
tonia con quelli dell'antropologia cristiana sia in grado - dato il
quadro che abbiamo delineato nel capitolo precedente - d' adem-
piere il suo ruolo. Di contro, una psicoterapia con princìpi antro-
pologici divergenti da quelli del cristianesimo avrebbe - sempre in
quel quadro - effetti non soltanto limitati ma perfino nocivi.
Uno psicoterapeuta cristiano deve dunque mostrarsi particolar-
mente attento al metodo psicoterapeutico che. usa; e simmetricac
mente, anche un paziente cristiano deve essere molto attento al ti-
po di psicoterapia cui ricorre. ,
Sarebbe qui assolutamente inutile fare una rassegna dei vari tipi
di -psicoterapie, dato che sono centinaia, e mentre alcune sono se-
rie e rivendicano una loro scientificità, altre invece sono totalmen-
te fantasiose, per il fatto che in molti paesi l'esercizio della profes-
sione di psicoterapeuta non è regolamentato e quindi lì si può im-
maginarne d'ogni sorta. E il problema si complica ancor più per la
ragione che in molti paesi non esistono, come invece in Francia o
in Italia, delle «scuole» con indirizzi ben precisi e identificabili; lì
un _buon numero di psicoterapeuti se ne confeziona una sintesi
personale con elementi dalle origini più disparate.

29
Mi sono perciò qui deciso a prendere, come primo esempio di
psicanalisi, quella freudiana, essendo essa, fra le varie forme di psi-
coterapia, una delle più serie e nello stesso tempo fra le più diffu-
se. Ha però anche essa le sue varianti; e per questo ci atteniamo a
ciò che tutte quante hanno in comune, cioè il pensiero fondatore
di Freud. Un pensiero che, comunque, è anche esso variato nel
tempo e non va neppure esente da incoerenze; mi sono quindi at-
tenuto alle ultime opere del maestro, rappresentative dell'ultimo
stadio del suo pensiero. E siccome esiste poi anche il problema
della varietà d'interpretazioni del suo pensiero, qui mi sono atte-
nuto ai suoi stessi scritti, di cui riporto molte citazioni facilmente
riscontrabili.

Il problema della compatibilità o incompatibilità della psicanali-


si freudiana con il cristianesimo si pose fin dalla sua prima com-
parsa e dai suoi primi sviluppi. Nei paesi nord-occidentali di euro-
pa e nell'America del Nord, dove la psicanalisi ebbe prestissimo
un grande sviluppo, è un problema già antico; ma neanche qui eb-
be mai una soluzione definitiva, dato che ancora ai nostri giorni
continua regolarmente a riproporsi. È più nuovo nei paesi di tradi-
zione ortodossa, nella loro globalità e fino agli ultimi decenni non
toccati dalle correnti di pensiero occidentali; qui invece suscita dei
dibattiti ben vivaci.
Il problema si pone a un livello pratico, a motivo particolarmen-
te delle evidenti analogie fra psicanalisi e confessione (exomol6-
ghesis). È noto che la psicanalisi ebbe uno sviluppo più rapido e di
massa nei paesi di tradizione protestante (Germania, paesi nordici,
Inghilterra, Stati Uniti) che non in quelli di tradizione cattolica; al-
cuni sociologi hanno spiegato il fenomeno con Fassenza della con-
fessione nel protestantesimo. In un contesto ortodosso, il proble-
ma si pone in maniera ancora più cruciale, a motivo del grande
ruolo che lì hanno il padre spirituale e la pratica della <<manifesta-
zione dei pensieri» (exag6reusis), o direzione spirituale, la cui ana-
logia con la psicanalisi è ancora più forte, trattandosi d'uno svela-
mento assai intimo e dettagliato delle manifestazioni più profonde
della vita dell'anima, con un intento terapeutico.
Per il momento non ci proponiamo di esaminare le somiglianze
e le differenze fra le due pratiche, ma piuttosto d'affrontare il pro-
blema della compatibilità fra psicanalisi freudiana e cristianesimo
sul piano - puramente teorico - dei rispettivi fondamenti antropo-

30
logici. È un problema più fondamentale del precedente, dato che
la psicanalisi - al contrario di ciò che sostengono alcuni suoi parti-
giani - non si può considerare una pratica puramente empirica, da
giudicare soltanto come tale, in se stessa, e che si potrebbe adatta-
re a ogni contesto antropologico; si tratta piuttosto d'una pratica
che deriva da una precisa concezione non soltanto del funziona-
mento dello psichismo umano; ma dell'uomo nella globalità del
suo essere e del suo divenirel.
E non si tratta nemmeno d'una pratica fondata su una concezio-
ne scientifica, la quale sarebbe, in quanto tale, neutra e quindi
compatibile con qualsiasi filosofia o religione, siccome apparter-
rebbe a un campo indipendente. In realtà, la scientificità che il
freudismo rivendica non gli è mai stata riconosciuta, ed è più co-
me filosofo che non come medico che Freud passò alla posterità.
Porre il problema della compatibilità fra psicanalisi e cristianesi-
mo è quindi porre il problema della compatibilità fra due antropo-
logie, fra due concezioni dell'uomo.

2. Elementi di analogia

Nella concezione freudiana possiamo rilevare un certo numero


di elementi analoghi a quelli che abbiamo presentato nel nostro
primo capitolo.
Possiamo in primo luogo notare il ruolo che nella patologia psi-
chica dell'uomo svolge ciò che Freud chiama il <<narcisismo», assi-
milabile-alla nozione patristica di «amore egoistico di sé» (o phi-
lautia).
Sappiamo inoltre dell'importanza che nella concezione freudia-
na hanno le pulsioni di vita (globalmente comprese nella nozione
di éros) e le pulsioni di morte (globalmente comprese nella nozio-
ne di thdnatos), dato che una gran parte della patologia psichica
deriva dall'incapacità dell'uomo di gestire correttamente queste
pulsioni. Ebbene, possiamo vedere un'analogia fra questi due poli

1 In una conferenza, Freud dis$e: <<Agli inizi la psicanalisi fu soltanto un metodo terapeu-
tico; eppure io vorrei che la vostra attenzione non si concentrasse esclusivamente su questa
sua utilizzazione, ma anche [...] sulle conclusioni che essa ci permette di trarre a riguardo di
ciò che più da vicino interessa l'uomo, cioè il suo essere, e poi anche sui rapporti che essa
scopre fra le varie forme d'attività umana», in Nouvelles conférences sur la psychanalyse, trad.
fr., Paris, 1975, p. 206-207 (le traduzioni italiane di questo o quello scritto di Freud sono in-
numerevoli; le Opere complete sono state edite da Bollati-Boringhieri, Torino).

31
di pulsioni e quelle due potenze fondamentali che nell' antropolo-
gia dei Padri greci sono la potenza desiderante (epithymia, epithy-
metik6n) e la potenza irascibile (thym6s), il cui uso deviato suscita
un certo numero di malattie spirituali. Quest'ultima analogia pro-
viene dal fatto che su questo punto sia Freud che i Padri greci
hanno una fonte comune, cioè l'antropologia platonica2 •
In rapporto con queste due nozioni, possiamo poi ancora notarè
che, tanto in Freud quanto nella concezione patristica, anche il
rapporto dell'uomo con il piacere e con il dolore svolge un ruolo
fondamentale. La ricerca del piacere e la fuga dal dispiacere costi-
tuiscono, nella dottrina freudiana, la base degli atteggiamenti e
comportamenti dell'uomo non soltanto nella prima infanzia ma
lungo tutta la sua vita3. Ebbene, abbiamo visto che anche i Padri
riconoscono a queste due tendenze un ruolo fondamentale e che
addirittura, secondo san Massimo il Confessore, esse sono alla ba-
se di tutte le passioni o malattie spirituali dell'uomo decaduto.
Anche sul piano della dinamica psichica possiamo costatare un
certo numero di analogie.
In primo luogo, per Freud come per i Padri, c'è una «econo-
mia>> dell'energia: l'energia deve necessariamente sfogarsi da qual-
che parte, in qualche direzione, ed è dalla natura, dal senso e dalla
misura di questo suo sfogo che dipende la buona o cattiva salute
dell'uomo.
In secondo luogo, la vita interiore dell'uomo è piena di conflitti,
ed è dall'esito di questi conflitti che dipende la buona o cattiva sa-
lute dell'uomo.
In terzo luogo, l'uomo è chiamato a uno sviluppo in cui a poco a
poco si dà la padronanza di sé. Secondo Freud, l'Io, in quella parte
di sé costituita da quelle facoltà superiori che sono la coscienza e la
volontà, è chiamato a dominare il Ciò [Es] o Id (costituito per un
verso dagli elementi repressi e per l'altro dalle. pulsioni sessuali e
aggressive che originariamente si esprimono in maniera bruta par-
tendo dalla zona inconscia dello psichismo)4. <<Dove c'era il Ciò,
scrive Freud, deve sopravvenire l'Io». Anche i Padri spiegano che
nell'uomo lo spirito e la ragione devono dominare e governare la
parte irrazionale dell'anima, la temperanza (enkrdteia) essendo ap-

2 Cfr. S. Freud, Essais de psychanalyse, trad. fr., Paris, 1975, p. 110.


3 Cfr. S. Freud, Le malaise dans la culture, trad. fr., Paris, 1995, p. 18-19.
4 Cfr. S. Freud, Essais de psychanalyse, cit., p. 193-194, 230.

32
punto una di quelle virtù generiche (ghenikdi aretdi) che condizio-
nano l'acquisizione delle altre virtù.
Anche per Freud la crescita interiore dell'uomo implica che egli,
abbandonando il suo originario narcisismo, sviluppi dei legami posi-
tivi con i suoi simili, cioè quella forma superiore di affetti che è alla
base d'una vita sociale armoniosa5. Questa concezione è analoga alla
concezione cristiana secondo cui l'uomo deve sostituire all'amore
egoistico di sé (philautia) l'amore del prossimo e l'amore di Dio.

3. Differenze

Mi pare tuttavia che le differenze fra l'antropologia cristiana e


quella freudiana e fra le rispettive concezioni della salute, o sanità,
della malattia e della guarigione siano ben più rilevanti delle analo-
gie, peraltro assai generiche, che abbiamo appena fatto notare.
Anzi, perfino potremmo astenerci a priori da ogni confronto,
dato che la salute e le malattie oggetto dei due sistemi non hanno
la medesima natura: salute e malattie psichiche (o mentali) nel ca-
so del freudismo, salute e malattie spirituali nel caso del cristiane-
simo. E tuttavia, se noi definiamo lo spirituale in base al rapporto
(positivo oppure negativo) con Dio, ·dobbiamo anche ritenere che,
se l'essere umano non può - secondo l'antropologia cristiana - de-
finirsi indipendentemente dalla sua relazione con Dio, allora ciò
che ha da fare con la salute e la malattia psichiche - né più né me-
no di tutto ciò che ha da fare con il modo di esercizio delle facoltà
umane - ha da fare, almeno in qualche misura, anche con il campo '
spirituale.
Ciò che radicalmente distingue l'antropologia freudiana da
quella cristiana è che questa concepisce il modo di esistenza del-
l'essere umano in rapporto a Dio, mentre quella lo concepisce in-
dipendentemente da Dio, perfino, anzi, in qualche misura, contro
Dio - nella misura precisamente in cui la relazione dell'uomo con
Dio è, secondo Freud, patologica6-. La posizione di Freud riguar-

5 Cfr. S. Freud, Le malaise dans la culture, cit., p. 49-58. .


6 Cfr. S. Freud, I:avenir d'une illusion, trad. fr., Paris, 1932, p. 44-45, 49-50, 54; <<Actions
compulsionnelles et exercices religieux», in Psychose, névrose et pérversion, trad. fr., Paris,
1973, p. 133-142; Un souvenir d'enfance de Léonard de Vinci, trad. fr., Paris, 1927, p. 177-
178; Totem et tabou, trad. fr., Paris, 1951, p. 211-213; Moise et le monothéisme, trad. fr., Pa-
ris, 1948, p. 90; Lettera del 2 gennaio 1910 a C. G. Jung, in S. Freud, Correspondance (1906-
1914), trad. fr., Paris, 1992, p. 372.

33
do a Dio e alla religione non è una posizione scientifica neutra, ma
piuttosto la posizione d'un ateo militante e d'un oppositore con-
vinto7. Freud ammette l'influenza che su lui esercitò Feuerbach, il
padre dell'ateismo e del materialismo moderni8, quel Feuerbach
che una capitale influenza esercitò anche su Marx. Se Marx pro-
clama: «La religione è l'oppio del popolo», Freud afferma: «L'ef-
fetto delle consolazioni religiose possiamo benissimo assimilarlo a
quello d'un narcotico»9. Per Freud, Dio è soltanto un «concetto
vuoto»rn. La sua realtà, insieme a quella di tutto il mondo spiritua-
le, non è che la realtà d'una proiezione psicologicall. Per questo,
ogni religione è soltanto un'illusione12. Dio è un'invenzione del-
l'uomo per soddisfare il proprio bisogno di rassicurazione e prote-
zione di fronte al sentimento d'abbandono (Hilflosigkeit) che pro-
va13; per l'uomo adulto, è un sostituto del padre biologico, più po-
tente di quello14. La religione è dunque, in realtà, una nevrosi col-
lettiva15. I rituali religiosi sono analoghi e paragonabili ai rituali

7 Si veda per esempio Nouvelles con/érences sur la psychanalyse, cit., p. 211-231. Sull'atteggia-
mento di Freud riguardo alla religione, si veda in particolare A Plé, Freud et la religion, Paris,
1968. Sull'ostilità di Freud verso la religione abbiamo anche una testimonianza diretta di C. G.
Jung: <<Nelle nostre numerose conversazioni su quest'argomento, più d'una volta capitò che ci-
tasse Voltaire: "Schiacciate l'infame!". [. ..]Che l'atteggiamento di Freud verso ogni religione sia
stato negativo è un dato storico, indipendentemente perfino dal fatto che l'abbia detto egli stesso
nel trattato che dedicò a quest'argomento» {Lettera del 7 maggio 1956 a Andrew R Eickhoff).
8 Cfr. lettera del 7 marzo 1875 a E. Silberstein; in Lettres de jeunesse, trad. fr., Paris, 1990,
p. 138. «Fra tutti i filosofi, Feuerbach è quello che riverisco e ammiro di piÙ>>.
9 L'avenir d'une illusion, cit., ed. del 1995, p. 49-50.
IO Cfr. lettera del 7 marzo 1875 a E. Silberstein, in Lettres dejeunesse, cit., p. 149.
11 Cfr. Psychopathologie de la vie quotidienne, trad. fr., Paris, 1999, p. 276: «Ritengo che la
concezione mitologica che fin qui anima le religioni più moderne altro non sia, in buona par-
te, che una psicologia proiettata sul mondo esterno».
12 Cfr. J;avenir d'une illusion, cit., ed. del 1995, p. 34: <<ln questa ricerca non ci proponia-
mo di prendere posizione sul valore di verità delle dottrine religiose. Ci basti aver provato
che, data la loro natura psicologica, sono delle illusioni»; p. 32: «Se poi consideriamo le dot-
trine religiose, possiamo dire, ripetendoci, che sono tutte illusioni>>.
13 Cfr. lenera del 2 gennaio 1910 a C. G.Jung, in Correspondance (1906-1914), cit., p. 372:
«La ragione ultima del bisogno di religione mi saltò agli occhi come un abbandono (Hilflosig-
keit) infantile>>. Si veda anche J;avenir d'une illusion, cit., ed. del 1995, p. 30-31; Nouvelles
con/érences sur la psychanalyse, cit., p. 221.
14 Cfr. Un souvenir d'enfance de Léonard de Vinci, cit., p. 177-178; J;avenir d'une illusion,
cit., ed. del 1995, p. 30-31.
15 Cfr. J;avenir d'une illusion, cit., ed. del 1995, p. 44: «La religione sarebbe la nevrosi co-
strittiva universale dell'umanità: come quella del bambino, sarebbe derivata dal complesso di
Edipo, dalla relazione con il padre>>; p. 45: «abbiamo continuamente sottolineato (io stesso e
specialmente Tu. Reik) lanalogia della religione, fin nei dettagli, con una nevrosi costrittiva»;
p. 54: allo psicologo <<l'idea s'impone che la religione è paragonabile a una nevrosi infantile,
ed egli è sufficientemente ottimista per supporre che l'umanità supererà questa fase nevroti-
ca, come tanti bambini crescendo superano la loro nevrosi, che è simile>>; MoiSe et le mono-
théisme, cit., p. 90: «Resto convinto che i fenomeni religiosi sono assimilabili ai fenomeni ne-
vrotici personali»; Nouvelles conférences sur la psychanalyse, cit., p. 222.

34
della nevrosi ossessiva16. Le dottrine religiose si possono parago-
nare a idee deliranti17.
Fondata su una professione di fede ateistica, l'antropologia freu-
diana è un'antropologia materialistica. È caratterizzata in primo
luogo dalla concezione che l'uomo è essenzialmente un animalelS.
La vita psichica dell'uomo è fondamentalmente costituita da un
gioco di forze biologiche.
Alla base della concezione freudiana c'è l'idea che la principale
forma dell'energia umana, la libido, è originariamente sessuale,
cioè al servizio delle pulsioni sessuali e orientata a un fine sessua-
lel9. È per evoluzione e differenziazione dell'energia sessuale che
si costituiscono le varie attività umane20, comprese le più elevate21.
Ed è così che per Freud l'attività religiosa o spirituale dell'uomo
corrisponde, né più né meno dell'attività artistica, a una sublima-
zione22 dell'energia sessuale23. L'amore dell'uomo per i suoi geni-
tori, i suoi figli, i suoi simili e anche l'amore per Dio provengono

16 Cfr. Totem et tabou, cit., p. 46; <<Actions compulsionnelles et exercices religieux», in


Psychose, névrose et pérversion, cit., p. 133-142; si veda in particolare p. 141: «Sulla base di
queste concordanze e analogie, potremmo arrischiarci a definire la nevrosi ossessiva come la
faccia patologica della formazione religiosa e a descrivere la nevrosi come una religiosità per-
sonale e la religione come una nevrosi ossessiva».
17 CTr. I.:avenir d'une z1lusion, cit., ed. del 1995, p. 32.
1s Cfr. «Une difficulté de la psychanalyse>>, in Essais de psychanalyse appliquée, trad. fr.,
Paris, 1952, p. 142-143. Freud scrive in particolare: «L'uomo non è nient'altro e niente di me-
glio che un animale. [. .. ] Le sue conquiste esteriori non sono riuscite a cancellare le testimo-
nianze di quest'equivalenza, che si manifestano sia nella conformazione del suo corpo sia nel-
le sue disposizioni psichiche>>.
19 Cfr. S. Freud, Essais de psychanalyse, cit., p. 109-110.
2 0 Nella sua presentazione del pensiero di Freud, scrive D. Stafford-Clark: «Come punto
di partenza della sua teoria, Freud pone il fatto che tutte le pulsioni istintive sono fondamen-
tali nel determinare il corso della vita personale. La più importante è di gran lunga la pulsio-
ne dell'istinto sessuale, o libido, presente dal primo barlume di coscienza nel bebè fino all'ul-
timo ed esitante soffio dell'adulto moribondo. Secondo Freud, tutta la vita dipende dallo svi-
luppo della libido. [. .. ] Possiamo paragonare la lz"bido al petrolio che esce grezzo dalle viscere
della terra ma si può raffinare e trasformare in prodotti finiti innumerevoli, dando a ogrii atti-
vità umana il suo impulso e la sua fonte di energia essenziale. A seconda della maniera in cui
viene canalizzata e sviluppata, la libido plasma la struttura della personalità proprio alla stessa
maniera che un fiume forgia la conformazione del suo alveo in tutto il suo corso dalla cima
delle montagne al mare>> (Ce que Freud a vraiment dit, Verviers, 1973, p. 133).
21 Alla stessa maniera, l'Io si costituisce per differenziazione del Ciò [Id o Es]. «L'Io non è
che una parte dell'Es che ha subìto una particolare differenziazione>>, in Essais de psychanaly-
se, cit., p. 208.
22 Sulla sublimazione, si veda S. Freud, Trois essais sur la théorie de la sexualité, trad. fr.,
Paris, 1962, p. 156; Le malaise dans la culture, cit., p. 22 e 40; Cinq leçons sur la psychanalyse,
trad. fr., Paris, 1975, p. 64.
23 In varie lettere al pastore Pfister, Freud parla della <<Sublimazione religiosa>> come della
forma più comoda di sublimazione (lettera del 9 febbraio 1909, del 5 giugno 1910 e del 9 ot-
tobre 1918). Si veda anche «L'homme aux loups», in Cinq psychanalyses, trad. fr., Paris, 1945,
p. 414417.

35
dalla libido e sono dunque di natura sessuale24 ; è soltanto <<inibito
riguardo al fine>>25.
La concezione cristiana è diametralmente opposta: per essa, l'e-
nergia sessuale corrisponde a un centramento sulla sessualità, in
conseguenza del peccato ancestrale26, di un'energia che in origine
era orientata verso Dio. Qui dunque l'energia sessuale corrisponde
a una «de-sublimazione>> dell'energia spirituale. L'ascesi, che tende
a recuperare lo stato normale e compiuto dell'umanità, effettua
una «ri-sublimazione» di quest'energia, cosa che gli sposi cristiani
realizzano spiritualmente nella virtù della castità (sophrosyni!) e i
monaci in maniera massimale nell'astinenza, in tal modo antièi-
pando la vita nel Regno dei cieli, dove «non c'è più uomo né don-
na» (Galati3;2.8).
Il centramento del desiderio nella sessualità, che Freud conside-
ra originario e dunque naturale e in qualche modo normativo, nel-
la prospettiva cristiana è di fatto l'espressione d'una deviazione
contro natura del desiderio. Mentre per Freud l'amore del prossi-
mo si forma prelevando e stornando una parte dell'energia sessua-
le dell'uomo (libido )27, nella concezione cristiana è piuttosto l' e-
nergia sessuale a costituirsi prelevando e stornando una parte del
desiderio e della corrispondente energia in origine e per norma
centrati su Dio.
Per quanto concerne l'aggressività, anche essa considerata da
Freud originaria (dato che le pulsioni di morte coesistono nel Ciò
[Id] con le pulsioni di vita sin dal principio)28, Freud finisce per
concluderne che l'uomo ha soltanto la scelta fra due usi di essa:
aggredire e distruggere gli altri per preservare sé (in questo caso la
pulsione di morte si ritrova alleata con la pulsione di vita) oppure
aggredirsi e distruggersi29. Freud avanza anche l'ipotesi che la pul-
sione di morte possa venire· «moderata e domata, in qualche modo

24 Cfr. S. Freud, Essais de psychanalyse, cit., p. 109-110: «Tutti questi vari amori la psica-
nalisi preferisce considerarli, anche in base alla loro origine, come delle inclinazioni sessuali».
Si veda anche p. 115: «In queste due folle convenzionali (Esercito, Chiesa), ogni individuo è
legato con legami di libido al capo (Cristo, il comandante in capo) da una parte e a tutti gli al-
tri individui che compongono la folla dall'altra>>; Le malaise dans la culture, cit., p. 45.
25 Le malaise dans la culture, cit., ibidem.
26 Questa concezione è stata sviluppata soprattutto da san Gregorio di Nissa e san Massi-
mo il C9nfessore. Si veda il mio libro Maxime le Confesseur, médiateur entre l'Orient et l'Oc-
cident, Ed. du Cerf, Paris, 1998, p. 80-81.
27 Cfr. S. Freud, Le malaise dans la culture, cit., p. 50-57.
28 Cfr. S. Freud, Essais de psychanalyse, cit., p. 55-77.
29 Cfr. S. Freud, Le malaise dans la culture, cit., p. 60-61.

36
inibita quanto allo scopo che si prefigge [e] orientata verso gli og-
getti [in modo da] procurare all'io la soddisfazione dei suoi biso-
gni vitali e il dominio sulla natura>>-30, ma è un'ipotesi accennata
come en passant e senza ulteriore seguito. In ogni caso, Freud non
concepisce nessun uso veramente positivo della pulsione dell' ag-
gressività nel processo dello sviluppo personale. La concezione
dell'antropologia e dell'ascetica cristiane è ben diversa, dato che
per esse l'aggressività contro il prossimo e contro sé (nel senso che
l'intende Freud) corrisponde a un uso deviato e perverso della po-
tenza aggressiva (thym6s). In effetti, originariamente questa era
orientata verso Dio, in quanto serviva a combattere tutto ciò che
può allontanare l'uomo da Lui - le tentazioni, i demoni, il peccato,
le passioni -; l'ascesi, in un processo di conversione interiore (me-
tanoia), ha appunto la funzione di restituirle questa sua finalità na-
turale e normale.
In una visione d'assie.i:ne delle due concezioni, il principio fon-
damentale dell'antropologia cristiana, l'abbiamo visto, è che lana-
tura umana è orientata verso Dio e la persona normale è quella che
asseconda, con la sua volontà e il suo libero arbitrio, con tutto il
suo essere e per tutta la sua esistenza, quest'orientamento della sua
natura verso Dio. Per Freud, ìnvece, non esiste un fine generale
della natura umana, verso cui essa dovrebbe orientarsi e la cui rea-
lizzazione le permetterebbe di giungere alla sua compiutezza3 1 ;
Freud non ha nessuna concezione normativa della natura e dell' e-
sistenza umane. Costata soltanto che di fatto gli uomini aspirano
alla felicità e che quest'aspirazione ha due facce: «da una parte
vuole che siano assenti il dolore e il dispiacere, dall'altra che si vi-
vano forti sentimenti di piacere»32. È il «raggiungimento del piace-
re», insomma, ad apparire come <<la molla di tutte le attività uma-
ne>>-33. Per Freud significa che «è semplicemente e puramente il
programma del principio del piacere a costituire la finalità della vi-
ta>>-34.
Va poi ancora precisato che per Freud il piacere verso il quale
l'uomo tende e che costituisce la sua felicità è di natura sessuale.

30 Ibidem, p. 64.
3! Ibidem, p. 17: <<ll problema della finalità della vita umana è stato posto un numero in-
calcolabile di volte; fin qui non ha ancora avuto nessuna risposta soddisfacente, e forse non
neha>>.
32 Ibidem, p. 18.
33 Ibidem, p. 37.
34 Ibidem, p. 18.

37
Siccome <<l'amore sessuato (genitale) procura all'essere umano le
più fotti esperienze di soddisfazione che possa vivere, è esso a for-
nirgli, propriamente parlando, il modello d'ogni felicità.>>35. L'uni-
co problema che al riguardo Freud vede profilarsi è che l'illimitata
ricerca a priori del piacere incontra degli ostacoli da parte del
mondo esterno. La felicità dell'uomo e la sua sanità psichica di-
penderanno allora dalla maniera con cui egli limiterà l'espressione
delle sue esigenze pulsionali- il «principio del piacere» - una vol-
ta messe di fronte al <<principio della realtà>> che la natura e la so-
cietà gli oppongono, natura e società da cui appunto gli provengo-
no numerose cause di dispiacere36. Freud insomma ritiene che la
felicità è la soddisfazione delle pulsioni37, ma siccome una loro
soddisfazione illimitata è impossibile, l'uomo deve contentarsi d'u-
na felicità relativa. Ne consegue che la felicità- nell'accezione mo-
derata ritenuta possibile - è un problema di economia libidinale
personale38; <<la felicità è qualcosa d' assolutamente soggettivo>>39.
Bisogna che ognuno sappia, in maniera ben empirica, «quanta rea-
le soddisfazione può aspettarsi dal mondo esterno e in quale misu-
ra può rendersi indipendente da esso»4o.
Anche su questo punto possiamo costatare una grande differen-
za fra la concezione freudiana della felicità - che è una concezione
edonistica41 e individualistica insieme - e quella cristiana. Per l' an-
tropologia cristiana, il piacere sensibile - in cui Freud vede l' ele-
mento costitutivo fondamentale della felicità - non è che un surro-
gato misero e patologico della beatitudine in vista di cui l'uomo
venne creato e di cui in parte già godeva nello stato paradisiaco. I
Padri insegnano in effetti che il piacere fece la sua comparsa come
una conseguenza del peccato ancestrale, che esso nel paradiso non
esisteva e nel Regno dei cieli non esisterà più. Marchio della natu-
ra decaduta, il piacere chiude l'uomo nei confini della sua natura
decaduta e, con l'attrazione che ispira, genera-tutte le malattie spi-

35 Ibidem, p. 43-44.
36 Ibidem, p. 18.
37 Ibidem, p. 21.
38 Ibidem, p. 27.
39 Ibidem, p. 32.
40 Ibidem, p. 27.
41 Essa mostra un'analogia con l'epicureismo. In entrambi i casi si tratta d'una filosofia
materialistica in cui la norma (la felicità) è definita da quel che di fatto accade Ga tendenza al
piacere) e si ritiene che, se alcuni piaceri si accompagnano a della sofferenza, si deve rinun-
ciare a essi optando per quelli che non mettono a rischio né la salute del corpo né l' atarassìa
dell'anima.

38
rituali e tutti i loro effetti patogeni sulla vita psichica. La ricerca
della felicità nel piacere è una delle più potenti illusioni della natu-
ra decaduta. L'ascesi cristiana combatte il piacere, in vista di libe-
rare l'uomo dalla sua dominazione e mettere al suo posto ciò di
cui esso è soltanto un Ersatz, un surrogato, cioè la gioia spirituale e
la beatitudine che il fedele sperimenterà in pienezza soltanto nel
Regno dei cieli ma di cui già quaggiù può avere delle caparre nella
sua vita spirituale.
Infine, a Freud è ben difficile proporre anche un modello di sa-
lute, o sanità dell'uomo. È del parere che «salute e malattia non
differiscono qualitativamente, ma si definiscono a poco a poco, in
modo empirico»42. «Già abbiamo visto, scrive ancora, che è im-
possibile stabilire scientificamente una linea di demarcazione fra
stati normali e stati anormali. Per questo, ogni distinzione, no-
nostante la sua grande importanza pratica, non può avere che un
valore relativo»43. Freud ammette che fu «studiando le turbe» che
egli «poté far[si] un'idea dello psichismo normale»44; dunque egli
non ha, per dirla in altre parole, nessuna concezione positiva della
salute.
Lo scopo della psicanalisi non è tanto di guarire l'uomo45 quan-
to piuttosto d'aiutarlo, con la vittòria sulle sue resistenze e la sco-
perta delle sue repressioni, a prendere coscienza di ciò che egli è
nella sua realtà attuale, al fine di meglio accettarsi così com'è e me-
glio controllarsi per meglio godere dell'esistenza46, una volta libe-
rato dalle sue angosce e dalle sue inibizioni47. La differenza fra la
salute e la malattia è quella d'una buona o d'una cattiva gestione
delle medesime pulsioni48 ; «è considerato corretto» - con altra pa-
rola, sano - «ogni comportamento dell'Io che soddisfi insieme le
esigenze del Ciò [Id], del super-Io e della realtà, e ciò avviene
quando l'Io riesce a conciliare queste varie esigenze»49; per Freud,

42 S. Freud, La technique psychanalytique, trad. fr., Paris, 1975, p. 6.


43 S. Freud, Abrégé de psychanalyse, trad. fr., Paris, 1950, p. 70-71. Sul carattere relativo
della salute psichica, vedi anche S. Freud, L:analyse avec fin et l'analyse sans fin, trad. fr., Pa-
ris, 1994.
44 S. Freud, Abrégé de psychanalyse, cit., p. 71.
45 A riguardo delle possibilità di guarigione cui la psicanalisi può giungere, Freud si mo-
strò sempre assai modesto. Si veda in particolare Nouvelles conférences sur la psychanalyse,
cit., p. 6.
46 S. Freud, La technique psychanalityque, cit., p. 6.
47 Vedi S. Freud, L:analyse avecfin et l'analyse sansfin, cit., p. 27.
48 Cfr. S. Freud, La vie sexuelle, trad. fr., Paris, 1973, p. 15.
49 S. Freud, Abrégé de psychanalyse, eit., p. 5.

39
ben poca importanza hanno la qualità morale e spirituale di quelle
esigenze e dunque la finalità verso cui operano le energie dell'uo-
mo, purché esse stiano in equilibrio. Equilibrio di cui Freud ha un
modello quasi meccanicistico, legato alla sua concezione materiali-
stica dell'uomo. ,
A questo punto un sostenitore della concezione freudiana po-
trebbe anche obiettare che Freud si attiene alla realtà dell'uomo
decaduto e, all'interno d'un simile quadro, non sarebbe poi tanto
lontano dall'antropologia cristiana.
Il problema è appunto che Freud ignora che si tratta dell'uomo
decaduto, e al di qua o al di là di questo stato egli non vede niente.
Per lui si tratta soltanto d'aiutare l'uomo ad accettare meglio que-
sto stato, attraverso la presa di coscienza della propria realtà, e per
niente d'aiutarlo a trasformarsi, in vista d'accedere a un diverso
modo di esistenza, modo più sano.
Nella prospettiva cristiana che abbiamo esposto, raggiungere
la salute (o salvezza) suppone invece una trasformazione interio-
re che trasferisca l'uomo al di là del suo stato decaduto, conside-
rato profondamente patologico e patogeno. Questa trasformazio-
ne avviene attraverso una ci-sublimazione dell'energia d<?lle varie
facoltà umane in un senso spirituale (cioè verso Dio). E questo
fine che persegue la. vita ascetica, in cui il moto di ri-sublimazio-
ne si chiama globalmente «raddrizzamento>>50, «ritorno», «con-
versione» (metanoia), e in cui il suo compimento perfetto, in
un'unione totale e costante dell'uomo con Dio, si chiama «santi-
tà». Il santo costituisce un modello di buona salute spirituale, ma
anche un modello di sanità psichica che deve fare da norma allo
psicoterapeuta cristiano; perché è soltanto nella santità che lana-
tura umana, in tutte le sue componenti, trova la propria perfezio-
ne e manifesta l'esercizio ideale delle sue facoltà. È anche per
questo che una psicoterapia cristiana, pur restando distinta dalla
terapeutica spirituale, deve porsi in linea di continuità con que-
sta e avere come punti di riferimento e modello le pratiche asce-
tiche; perché la buona salute, sia psichica che spirituale, è indis-
sociabile da un esercizio delle facoltà umane -in linea con la loro
vera finalità naturale.

50 Questa parola è spesso usata da san Massimo il Confessore.

40
4. Conclusione

Non c'è dubbio èhe le serie divergenze che qui abbiamo rilevato
fra l'antropologia freudiana e quella cristiana rendono assai pro-
blematico sia l'utilizzo della psicanalisi freudiana sia il ricorso a es-
sa come terapia.
Avere in mente i grandi princìpi dell'antropologia cristiana do-
vrebbe al contrario incitare gli psicoterapeuti cristiani a sviluppare
una terapia pienamente rispettosa di quei princìpi.

41
IV

IL PROBLEMA DELLA COMPATIBILITÀ


DEI FONDAMENTI TEOLOGICI ED ETICI:
L'ESEMPIO DELLA PSICOLOGIA ANALITICA DIJUNG

1. Introduzione

Gli elementi più problematici - dal punto di vista della teologia


e dell'antropologia cristiane - che abbiamo incontrato nella posi-
zione di Freud non li ritroviamo più in Carl Gustav Jung. Lontano
dall'ateismo di Freud e dal giudizio negativo che egli dà del feno-
meno religioso, per tutta la vitaJung mostrò un profondo interesse
per le religioni, sia occidentali che orientali, e quest'interesse lascia
il segno su gran parte della sua riflessione teorica e della sua prati-
ca terapeutica. Come fa osservare R Hostie, «è veramente eccezio-
nale che uno psicologo attribuisca alla religione il ruolo preponde-
rante che J ung le ha attribuito»l.
La relazione.dell'opera di Jung con il cristianesimo è stata am-
piamente studiata2 e molto spesso giudicata in termini positivi, sia
da teologi cattolici3 - alcuni dei quali hanno visto in lui «un ba-
stione contro l'ateismo freudiano»4 - che protestanti5. La simpatia
che Jung dimostra per il fenomeno religioso in generale e il cristia-
nesimo in particolare e l'integrazione della dimensione spirituale
dell'uomo nella sua concezione e pratica della psicoterapia6 attira-

1 R Hostie, Du mythe à la religion. La psychologie analytique de C. G. Jung, Bruges, 1955,


p. 101.
2 Si veda, fra gli altri: H. Schar, Religion und Seele in der Psychologie C. G. Jung, Bern,
1946; M.-L. von Franz, U. Mann, H.-W. Heidland, C. G. Jung und die Theologen, Stuttgart,
1971; G. Wehr, C. G. Jung und das Christentum, Olten-Freiburg im Breisgau, 1975; B.
Kaempf, Réconciliaton. Psychologie et religion selon Carl Gustav Jung, Paris, 1991.
3 Come fa osservare B. Kaempf, Réconciliation... , cit., p. 213.
4 J. Chazaud, nella prefazione a R Hostie, Psychologie analytique et religion, Paris, 2002,
p. II.
5 Vedi B. Kaempf, Réconciliation ... , cit., p. 217-219. Lo stesso libro di Kaempf rientra in
questa categoria.
6 Uno d_ei principi basilari diJung è che «il problema della guarigione è un problema reli-
gioso», in Uber der psychotherapie zur Seelsorge, § 523, in Gesammelte Werke, vol. 11, Ziirich-
Stuttgart, 1963, che da ora in poi citeremo nella traci. fr. Des rapports de la psychothérapie et
de la direction de conscience, in La guérison psychologique, Genève, 1953, p. 291. [In trad. it.,
le Opere complete di C. G. Jung sono edite presso Bollati Boringhieri, Torino; ma numerose
sono le opere singole presso vari editori].

43
rono, ben più della- psicanalisi freudiana, un certo numero di pa-
zienti e di psicoterapeuti cristiani, ansiosi di mantenere un legame
tra i fondamenti teoretici della loro pratica psicoterapeutica e la
loro fede cristiana.
L'esame del pensiero di J ung mostrerà un certo numero di punti
di convergenza con l'antropologia cristiana. In più, la plasticità di
molti concetti junghiani ben spesso si presta a una loro interpreta-
zione positiva nel quadro del pensiero cristiano.
Ma vedremo pure che, al di là degli elementi di convergenza, esi-
stono anche dei punti di divergenza di grande rilievo, dei punti che
vertono sui fondamenti stessi della fede e della spiritualità cristiane.

2. Punti di convergenza

Un primo punto di convergenza fra il pensiero diJung e l'antro-


pologia cristiana - come la troviamo espressa nei Padri orientali ~
è che la salute e le malattie psichiche dell'uomo sono in relazione
con il senso che egli dà al suo essere7.
Più precisamente, per Jung come per l'antropologia cristiana, la
malattia e la sanità psichica dell'uomo sono in gran patte definite
da ciò che appunto definisce anche il senso che egli dà al suo esse-
re, cioè dal suo atteggiamento religioso. «Ognuno di noi, scrive
Jung, soffre anzitutto per aver perduto ciò che le religioni viventi
hanno in ogni tempo dato ai loro adepti, e nessuno è veramente
guarito fino a quando non avrà ritrovato il suo atteggiamento reli-
gioso»s. La logica conseguenza d'una tale affermazione è che «il
problema della guarigione è un problema religioso»9.
Al contrario di Freud, che nella religione vede un fattore pato-
geno, J ung ritiene che sia proprio l'assenza di religione a essere la
fonte, nella società contemporanea, di tante turbe mentali.
<<Per me è evidente, scrive Jung, che l'angoscia>> - la quale ha un
ruolo essenziale nella maggior parte delle malattie psichiche -
«non va imputata all'insegnamento della religione, bensì alla sua
assenza>> 10•

7 Cfr. C. G. Jung, Des rapports de la psychothérapie et de la direction de conscience, trad.


cit., § 497' p. 278.
B Ibidem, § 509, p. 282.
9 Ibidem, § 523, p. 291.
IO Lettera del 2 luglio 1960 al pastore Oscar Nisse.

44
In tutta la sua opera J ung sottolinea il carattere strutturante, per
la vita psichica, dei simboli cristianill.
Già in prima battuta l'antropologia di Jung appare più equili-
brata, dal punto di vista dei fondamenti, di quella di Freud, nella
misura in cui rifiuta lassolutizzazione freudiana della sessualità,
che di questa fa il motore quasi esclusivo della vita psichica, per ri-
darle invece quel ruolo relativo che le spetta tra gli altri fattori del-
la vita psichica12.
In questa prospettiva, Jung ha della libido una concezione meno
spinta di Freud. Mentre per Freud la libido è già in partenza ses-
sualmente determinata, per Jung si tratta di un'energia «plastica>>,
a priori neutra e indeterminata, in grado di canalizzar,si sugli ogget-
ti più diversi13.
Un'altra divergenza fra Jung e Freud - ma che avvicina l'antro-
pologia junghiana a quella cristiana - è che, mentre Freud ritiene
che i primi otto anni di vita dell'essere umano condizionino tutto
il suo avvenire psicologico, J ung ritiene invece che le difficoltà psi-
cologiche in cui· una persona può essere finita siano sempre -
checché ne sia del loro legame con il passato - un problema attua-
le, cioè un problema che si può risolvere partendo dalla sua situa-
zione e dal suo stato psicologici presenti14. Questo modo di vedere
è in sintonia con quello dei Padri, i quali ritengono che la persona
possa sempre guarire partendo dal suo stato spirituale del momen-
to e che in ogni attimo, grazie alla collaborazione (synerghia) fra la
grazia e le sue energie proprie, essa possa radicalmente rompere
con il suo passato e realizzare un completo cambiamento - un ca-
povolgimento (metanoia) - del suo modo di esistenza.
La nozione junghiana d'inconscio collettivo e la teoria degli ar-
chètipi che a quella è connessa15 potrebbe concordare con l'idea
patristica che l'uomo possiede, come un'impronta nel più profon-
do del suo essere, l'immagine di Dio, immagine che l'orienta dina-

11 Jung rimprovera aspramente al protestantesimo d'averli a poco a poco eliminati. Si ve-


da per esempio la sua lenera del 17 marzo 1951 a M. H.
12 Si veda C. G. Jung, Der Gegensatz Freud-]ung, in Gesammelte Werke, cit., voi. 4, 1969;
trad. fr. I..:opposition entre Freud et Jung, in La guérison psychologigue, cit., p. 183.
13 Si veda Psychologie analytique et religion, cit., § 37, p. 43; Uber die psychologie des Um-
bewusstes, § 71, in Gesammelte Werke, cit., voi. 7, 1964, che da qui in avanti citeremo nella
trad. fr. Psychologie de l'inconscient, Genève, 1993, p. 91-92.
14 Si veda Des rapports de la psychothérapie et de la direction de conscience, cit., § 517,
p. 286-287.
15 Si veda in particolare C. G. Jung, Die Arcbetypen und das kollektive Unbewusste, in Ge-
sammelte Werke, eit., voi. 9-1, 1967.

45
micamente verso Lui. Del resto, anche nell'antropologia junghiana
il concetto d'imago Dei svolge un ruolo essenziale.
Anche l'idea di Jung che la terapia dell'anima debba consistere
nell'uscire dai limiti dell'Io per accedere al Sé, integrando nella di-
mensione cosciente della personalità la sua dimensione
inconscia16, potrebbe essere compatibile con l'antropologia patri-
stica, se essa significasse che l'uomo è chiamato ad accedere a
un'altra dimensione di sé di cui spontaneamente è incosciente e in
cui potrà superare i limiti attuali della natura decaduta, cioè a
quella dimensione dell' «uomo nascosto nel cuore», del <<Regno dei
cieli nascosto dentro di sé» che i Padri invitano a riscoprire - con
quella massima che desumono dal platonismo: «Conosci te stesso»
- e che progressivamente si rivela nella vita ascetica. In questa pro-
spettiva, la concezione junghiana secondo cui l'io cosciente (cioè
definito dalla coscienza primaria o spontanea di sé) non corrispon-
de che a una piccola parte di noi e che noi invece siamo chiamati a
realizzare in noi «l'uomo totale» (che Jung chiama il Sé), attraver-
so la complementare presa di coscienza d'una parte fondamentale
di noi che sulle prime ci sfugge, può essere valutata positivamente,
nella sua intenzione generale, tanto più che per Jung il Sé è il cor-
rispondente dell'immagine di Dio nell'uomo.

3. Punti cli divergenza

Ma l'attento esame del pensiero di J ung mostrerà nondimeno


che egli ha un'idea molto particolare della teologia e dell'etica cri-
stiane e dei loro rapporti con la vita psichica e, se pur utilizza con
abbondanza concetti cristiani e citazioni scritturistiche, a essi dà
tuttavia un senso nuovo e scarsamente compatibile con la fede cri-
stiana tradizionale. Per questo, l'opera di J ung si è attirata anche
numerose critiche di autori cristiani, di confessioni diverse17.

!6 Si veda C. G. Jung, Bewusssein, Unbewusstes und Individuation, in Gesammelte Werke,


cit., vol. 9-1, che da adesso in poi citeremo nella trad. fr. Conscience, inconscient et indivf.dua-
tion, in La guérison psychologique, cit., p. 255-272; <illas Gewissen>>, in Zivilisation im Uber-
gang, in Gesammelte Werke, cit., vol. 10, 1974, p. 249-257.
17 Si veda, fra gli altri:]. Goldbrunner, Individuation, Selbstfindung und Selbstent/altung.
Die Tie/enpsycologie van C. G. Jung, Freiburg im Breisgau, 1949; R Ho§tie, Du mythe à la re-
ligion. La psychologie analytique de C. G. Jung, Bruges, 1955; ried. Psychologie analytique et
religion, Paris, .2002; H. L. Philp, Jung and the Problem of Evil, London, 1958; D. Cox, Jung
and Saint Paul, New York, 1959; W Johnson, The search far Transcendance, New York, 1974;

46
Qui mi limiterò a richiamare alcuni punti del pensiero di J ung
che sono particolarmente contestabili e a mio parere lo rendono
incompatibile con i principi teologici e antropologici che dovreb-
bero far da base a una psicoterapia d'ispirazione autenticamente
cristiana.
Anche lo studio della personalità e della vita privata di J ung po-
trebbero arrecare degli elementi di grande interesse per ben com-
. prendere il suo pensiero e i suoi retroterra psicologici, religiosi e
politici18; qui nondimeno preferisco basarmi unicamente sul suo
pensiero, come lo troviamo espresso nei suoi scritti, facendo molte
citazioni; né intendo studiarne o seguirne l'evoluzione, ma lo cite-
rò come lo leggiamo nell'insieme delle opere che egli riconobbe
come proprie alla fine della vita, dopo averle riprese e riviste lungo
tutte le successive edizioni.

a. Il relativismo religioso di Jung

Figlio di un pastore protestante ed educato in ambiente cristia-


no, spesse volte Jung si dichiarò cristiano19 e sostenne anche di fon-
dare il suo pensiero su concetti cristiani20. E tuttavia, è facile osser-
vare che nel suo pensiero il cristianesimo non ha un peso maggiore
né minore delle altre religiqni; significa che i fondamenti dogmatici,
antropologici e spirituali della fede cristiana finiscono per ritrovar-
si, in lui, relativizzati dal generalissimo concetto del «religioso».
Jung non prende in considerazione le religioni- lo dice di con-
tinuo - se non in quanto hanno un contraccolpo sulla psiche2 1

E. Pavesi, «Die Gottesvorstellung des C. G. Jung>>, in Faaum, 1991, p. 30-34; <Non der Tri-
nitiit zur Quatemitiit. C. G. Jung Theorie der Integration der Gegensiitze in Gott», in
Faaum, 1995, p. 22-26. Anche la corrispondenza diJung testimonia le numerose critiche che
gli fecero alcuni suoi corrispondenti (si veda C. G. Jung, Le divin dans l'homme. Lettres sur
les religions, trad. fr., 1999, passim).
1s Si veda a questo proposito il libro, assai critico, di R Noll, Jung, le Christ aryen, Paris,
1999.
19 Si veda la lettera del 2 luglio 1960 al pastore Oscar Nisse; lettera del 25 ottobre 1955 a
Palmer A. Hilty. In un testo del 1932 Jung afferma, con maggiore precisione, d'appartenere
al protestantesimo e di collocarsi all' «estrema sinistra nel Parlamento dello spirito protestan-
te>> (Des rapports de la psychothérapie et de la direaion de conscience, § 537, in La guérison
psychologique, cit., p. 299).
20 In una lettera del 21 gennaio 1960, pubblicata nel giornale The Listener, Jung scrive:
<<Mi considero cristiano perché parto da concetti cristiani>>.
21 Con la parola «psiche>> Jung intende la coscienza dell'io più l'inconscio,fatto quest'ulti-
mo d'inconscio personale e d'inconscio collettivo.

47
umana e si rifiuta di pronunciarsi sulla questione del loro fonda-
mento oggettivo, al di là appunto dei loro riflessi sulla psiche; ed è
proprio per questa ragione che venne spesse volte considerato un
agnostico.
Questo suo atteggiamento si può tuttavia capire: egli intendeva
nel modo più rigoroso attenersi al metodo scientifico, il quale
esclude che si ricorra, per spiegare la natura, a un principio supe-
riore alla natura stessa (è ciò che l'epistemologia contemporanea
chiama <<il postulato dell'oggettività>>). E tanto più era necessario
che a questo principio J ung si attenesse in quanto l'ambiente in
cui il suo pensiero si andava evolvendo era globalmente scientista
e nella sua generalità si mostrava sospettoso del fenomeno religio-
so; in più, fin dai loro primi incontri anche Freud aveva definito
«occulte» alcune tesi di Jung, e ciò in qualche maniera ne squalifi-
cava la posizione.
J ung giustificò la propria posizione anche sotto l'aspetto filo-
sofico, richiamandosi spesso alla teoria kantiana della cono-
scenza22, teoria secondo la quale noi non abbiamo accesso alla
realtà in sé, ma soltanto ai fenomeni, cioè alla realtà come ci ap-
pare relativamente alle nostre strutture psichiche, percettive e
cognitive. Secondo J ung, supponendo che Dio esista, noi non
possiamo accedere a ciò che egli è in sé, ma soltanto alla sua
espressione nelle immagini o nei simboli che la psiche umana si
forma su .di Lui: «Di Dio abbiamo immagini innumerevoli, ma
l'originale ci resta introvabile. Per me è fuor di dubbio che die-
tro a quelle immagini si nasconde l'originale, ma a noi non è ac-
cessibile. Non saremmo neppure in grado di percepirlo, quel-
1' originale; perché dovremmo prima di tutto tradurlo in catego-
rie psichiche, volendo che diventi per noi anche soltanto perce-
pibile>>23.
Ma mentre Kant sostiene d'aver voluto «abolire il sapere per
trovare.un posto alla credenza>>24, Jung si rivela più restrittivo, af-
fermando che la credenza, essendo Dio inconoscibile, non può
avere la pretesa d'un fondamento oggettivo: «Non posso permet-
termi di credere alcunché a riguardo di cose che non conosco. Per

22 I riferimenti espliciti alla critica kantiana della conosc=a sono assai numerosi nell' o-
pera di Jung, testimoniando la grande influenza di Kant sulla posizione junghiana.
23 ]ung und der religiose Glaube, § 1589, in Gesammelte Werke, cit., vol. 18-2, 1981; trad.
fr. Jung et la croyance religieuse, in La vie symbolique, Paris, 1989, p. 161.
24 Critica della ragion pura, prefazione alla seconda edizione.

48
me, i,ma simile pretesa sarebbe bizzarra e ingiustificata>>; di conse-
guenza, <<io non confesso nessuna credenza»25.
· Qualcuno potrebbe pensare - e qualcuno l'ha effettivamente
pensato - che Jung scelga un atteggiamento analogo a quello della
teologia apofatica (o <<negativa») sviluppata dai Padri greci e che si
rifiuta di parlare di Dio in termini positivi, per rispetto della radi-
cale trascendenza della Sua essenza, teologia per la quale Dio è in-
conoscibile e inaccessibile. E tuttavia, mentre la teologia apofatica
si appaia nei Padri greci alla teologia affermativa, secondo fa quale
Dio si può conoscere nelle Sue energie, le riflessioni di Jung lo
portano invece al relativismo.
Per Jung, infatti, se dal punto di vista della psiche c'è sì nell'in-
conscio collettivo un comune archètipo di Dio, esso però si espri-
me in forme o simboli diversi a seconda dei popoli e delle epoche,
e ai suoi occhi tutte quelle varie espressioni si equivalgono26. Per
questo, Jung dichiara: «Se dicessi: "Credo in questo o quel Dio",
direi una cosa che non significa niente>>27. Dopo aver fatto osserva-
re che i suoi modelli psicologici di comprensione «si appoggiano
saldamente sulle rappresentazioni collettive di tutte le religioni»,
Jung aggiunge: «Non posso capire perché una religione dovrebbe
possedere la verità, unica e perfetta>>28. «La fede - scrive ·ancora,
in linea di continuità con quest'ultima affermazione - è estrema-
mente soggettiva, e ve ne renderete conto dal fatto che io non cre-
do assolutamente che il cristi:;mesimo sia la sola e più afta manife-
stazione della verità. Il buddismo contiene almeno altrettanto di
verità, e così pure le altre religioni>>29.
Non soltanto i vari simboli di Dio hanno dunque una verità
equivalente, ma questa verità è anche provvisoria, relativa appunto
all'utilità dei simboli: <<il simbolo è vero» nel senso che ha <<una va-
lidità temporanea; infatti, vale soltanto per una determinata situa-
zione. Basta che la situazione cambi e subito si fa sentire la neces-
sità d'una nuova verità; per questo, la verità è sempre relativa a

25 Lettera del 10 ottobre 1959 a G. Wittwer.


26 Questo modo di vedere avvicina il pensiero di Jung a quello del teologo protestante
Schleiermacher (1768-1834), in particolare all'ultimo dei suoi celebri Discorsi sulla religione;
secondo Schleiermacher, la-pluralità delle religioni è necessaria e corrisponde a forme deter-
minate attraverso cui la religione infinita si manifesta nel finito.
27 ]ung und der religiose Glaube, § 1589, in Gesammelte Werke, cit., vol. 18-2; trad. fr.
]ung et la crayance religieuse, in La vie symbolique, cit., p. 162.
2 8 ]ung et la crayance religieuse, § 1643, in La vie symbolique, cit., p. 189.
29 Lettera del 20 giugno 1933 al dr. Paul Maag.

49
una determinata situazione. Fino a quando il simbolo costituisce
una risposta vera, e quindi liberatrice, a una situazione che gli cor-
risponde, allora esso è vero e valido, magari anche "assoluto". Ma
basta che la situazione cambi e il simbolo invece venga semplice-
mente perpetuato che subito non è più che un idolo, e la sua azio-
ne è soltanto più d'impoverire e degradare>>30.
In linea di continuità con questi presupposti, J ung vede nella
Trinità cristiana non già lespressione d'una nuova rivelazione por-
tata dal Cristo, bensì il simbolo d'un archètipo che ha delle espres-
sioni analoghe e anteriori nel pensiero babilonese, egiziano, plato-
nico o gnostico31. Le tre divine Persone della Trinità cristiana non
si limitano insomma che a «indica[re] l'esistenza d'un archètipo
attivo ma che non opera in superficie e così permette alle triadi di
costituirsi».3 2. Se nella Trinità cristiana c'è della novità, non è se
non quella d'un particolare adattamento del corrispondente archè-
tipo generale ai bisogni di un'epoca e alla mentalità d'una cultura
particolari; insoffiIÌla, la Trinità <<non fa che tradurre una progres-
siva evoluzione dell' archètipo nella coscienza, o magari I' acco-
glienza che gli venne riservata nel potenziale concettuale
[del]l'Antichità>>33. In questo particolare caso, la storia del dogma
della Trinità nel cristianesimo «rappresenta la progressiva emer-
genza d'un archètipo che ha ordinato le rappresentazioni antropo-
morfe del padre, del figlio e del vivente in uno schema archetìpi-
co>>34.
Se c'è una rivelazione, non è che una rivelazione dell'inconscio,
dato che <<la rivelazione è anzitutto un'apertura, una scoperta delle
profondità dell'inconscio>>35. Più precisamente ancora, questa rive-
lazione è quella d'un archètipo che s'impone per la forza coerciti-
va di cui è portatore (e che Jung spesso chiama la «numinosità>>).
In effetti, <<l' archètipo è un elemento invisibile, una predisposizio-
ne che entra in azione in un dato momento dell'evoluzione dello

30Lettera del 10 gennaio 1929 al dr. Kurt Plachte.


3!Si veda Versuch einer psychologischen Deutung des Trinitiitsdogmas, in Gesammelte Wer-
ke, cit., vol. 11, 1963, § 172-193, che da ora in poi citeremo nella trad. fr. Essai d'interpréta-
tion psychologique du dogme de la Trinité, in Essais sur la symbolique de l'esprit, Paris, 1991,
p. 150-166. Si veda anche la lettera del 10 marzo 1958 al rev. dr. H. L. Philp.
32 Essai d'interprétation psychologique du dogme de la Trinité, § 209, in Essais sur la symbo-
lique de l'esprit, cit., p. 177.
33 Ibidem,§ 210, p. 178.
34 Ibidem, § 224, p. 189.
35 Psychologie und Religion, § 127, in Gesammelte Werke, cit., vol. 11, 1963, che d'ora in
poi citeremo nella trad. fr. Psychologie et religion, Paris, 1958, p. 148.

50
spirito umano; disponendo i dati della coscienza in figure partico-
lari o, in altre parole, ordinando le rappresentazioni divine in tria-
di e trinità. [. .. ] Qualunque sia il momento in cui esso appare, l' ar-
chètipo riveste, per l'inconscio, un aspetto coercitivo che, quando
diventa cosciente, si caratterizza per il suo aspetto numinoso>>36.
La credenza che sia stato lo Spirito Santo a ispirare il dogma si li-
mita a riflettere il fatto che «esso proviene da un campo esterno al-
la coscienza», cioè dall'inconscio collettivo37. I Padri che,elabora-
rono il dogma della Trinità non lavrebbero fatto in modo coscien-
te e volontario, ma sotto la spinta della forza inconscia dell'archè-
tipo, che, all'opera in altre epoche e altre civiltà, lì originò altre
espressioni simboliche di forma triadica38.
Come per la Trinità, anche <<la figura del Cristo, com' essa è stata
fissata nel dogma, è il risultato d'un processo di condensazione
partendo da numerose fonti [precristiane]. Una di queste è l'anti-
co uomo-Dio dell'Egitto: Osiride-Oro. Qui abbiamo la trasforma-
zione dell' archètipo inconscio, fino ad allora proiettato su un esse-
re divino, non umano»39.
Il Cristo è inoltre l'espressione simbolica dell' archètipo dell' e-
roe solare, e per questa ragione Jung lo colloca a fianco di eroi o
dèi considerati dei simboli equivalenti: Osiride, Tamnuz, Attis-
Adone, Mithra, F enìce40. Può perfino capitare che Jung assimili
il Cristo al Mana degli animisti41 o al Mercurio del Pantheon
greco42. Altrove Jung spiega che il Cristo è la personificazione
d'un archètipo che corrisponde all'idea dell'Ànthropos, dell'ho-
mo maximus, o dell' «Uomo delle origini» - come «in India il
Purusha e in Cina Chèn-yèn» - o magari all'idea del Messia spi-
rituale, anche esso rappresentato da Mithra, Osiride, Dioniso o
il Budda43.
Quanto alla sua economia di salvezza, scandita dalla sua incar-

36 Essai d'interprétation psychologique du dogme de la Trinité, § 222, in Essais sur la symbo-


lique del' esprit, eit., p. 187.
37 Ibidem, § 222, p. 188. Jung nota altrove: «Che la Bibbia sia stata ispirata dal Verbo è
per me un'ipotesi inverosimile» (Lettera del 5 maggio 1952 al prof. Fritz Buri).
38 Cfr. Essai d'interprétation psychologique du dogme de la Trinité, § 207-210, in Essais sur
la symbolique de l'esprit, cit., p. 176-178; § 222-224, p. 186-190.
39 Jung et la croyance religieuse, § 1656, in La vie symbolique, cit., p. 194.
40 Symbole der Wandlung, § 165, in Gesammelte Werke, vol. 5, Genève, 1952, che d'ora in
poi citeremo nella trad. fr. Métamorphoses de l'Jme et ses symboles, Genève, 1953, p. 202.
41 Ibidem, § 612, p. 646.
42 I.:Esprit Mercure, in Essais sur la symbolique de l'Esprit, trad. fr., Paris, 1991, p. 44.
43 Lettera del 1° giugno 1956 a Elena Kiener.

51
nazione, dalle sue sofferenze, dalla sua morte e dalla sua risurre-
zione, è anche essa, per Jung, espressione d'un archètipo che ha
avuto manifestazioni analoghe e anteriori, per esempio nell'indui-
smo, nel buddismo o nel mazdeismo44. Ed è per questo che J ung
sostiene: «La vita del Cristo non è un'eccezione, nel senso che già
molte altre figure della Storia hanno più o menò realizzato l'archè-
tipo della vita eroica, con tutte le peripezie che le sono caratteristi-
che»45. E altrove scrive: <<ll Budda può avere non meno ragione
del Cristo, e allora stentiamo a capire come e perché dovremmo
sentirci salvati e liberati dalla morte del Cristo»46.
Jung considera il Cristo - ma questo l'approfondiremo in ma-
niera dettagliata più avanti - anche come un simbolo del Sé. Ma
il Sé può assumere una moltitudine d'altri simboli equivalenti:
«Non c'è proprio ragione alcuna perché dobbiamo o non dob-
biamo chiamare il Sé trascendente "il Cristo" oppure "Budda"
oppure "Purusha" oppure "Tao" o "Khider" o "Tiferet". Tutte
queste nozioni si possono considerare delle formulazioni. di ciò
che io chiamo il Sé»47.
Ciò che nel Cristo unicamente importa è la sua dimensione ar-
chetipica, la cui espressione assunse in Lui ciò che corrispondeva
ai bisogni di un'epoca e alla mentalità d'una società particolari. Il
Cristo «cUventò la figura collettiva che l'inconscio contempora~
neo attendeva; ecco perché è vano chiedersi chi è com'era in
realtà»48. In altre parole, per J ung la realtà storica del Cristo non
ha alcun interesse né alcuna importanza; soltanto contano la sua
dimensione e la sua funzione simboliche49 legate alle proiezioni
archetipiche di cui la sua personalità utnana venne caricata50.
Vuol dire che, nel quadro della teoria di Jung, all'uomo non è

44 Cfr. Essai d'interprétation psychologique du dogme de la Trinité, § 202, in Essais sur la


symbolique de l'esprit, cit., p. 173.
45 Psychologie et religion, cit., § 146, p. 175.
46 Des rapports de la psychothbapie et de la direction de conscience, § 518, in La guérison
psychologique, cit., p. 287. Si veda anche la lettera del 29 giugno 1955 al pastore William La-
chat.
47 Jung et la eroyance religieusè, § 1672, in La vie symbolique, cit., p. 201. Si veda anche
Ma vie. Souvenirs, reves et pensées, p. 320-322, doveJung spiega che il CriSt:o e il Budda sono
entrambi delle incarnazioni del Sé.
4 8 Essai d'interprétation psychologique du dogme de la Trinité, § 228, in Essais sur la symbo-
lique de l'esprit_, cit., p. 192.
49 Si veda Uber die Au/stehung, in Gesammelte Werke, cit., voL 18-2, 1981; trad. fr. Sur la
résurrection, in La vie symbolique, cit., p. 151-156; Jung et la croyance religieuse, in La vie
symbolique, eit., p. 207.
50 Si veda la lettera del 25 ottobre 1955 a Palmer A. Hilty.

52
possibile nessuna relazione personale e concreta con un Dio che
abbia un'identità, che sia dotato d'una realtà assoluta~
Ben vediamo dunque che la concezione di J ung non può andare
d'accordo con la fede cristiana, ma piuttosto con l' «ateismo» del
buddismo o con la fede del Vedanta indù in una divinità imperso-
nale e le cui divinità particolari, dell'induismo come delle altre re-
ligioni, sarebhero delle manifestazioni relative. Del resto, Jung am-
mette di essersi ispirato proprio a queste due religioni. Scrive, per
esempio: «Per indicare la totalità dell'uomo ho scelto la parola Sé
[. .. ].Ho adottato quest'espressione in linea con la filosofia orienta-
le, che da secoli si occupa di questi problemi, i quali continuano a
porsi anche quando lo stadio dell'incarnazione umana degli dèi è
superato. La filosofia delle-Upanishad è in linea con una psicologia
che da tempo ha ammesso la relatività degli dèi»51.
Alla medesima relativizzazione Jung sottopone anche tutti gli al-
tri punti della fede cristiana, adducendo che si tratta soltanto di
simboli o immagini che si trovano anche nelle altre religioni: <<le
immagini cristiane», «come l'Uomo-Dio, la Croce, la Nascita ver-
ginale, [. .. ] la Trinità ecc. [ .. .] non sono specifiche del cristianesi-
mo [.. .] ma altrettanto spesso compaiono nelle religioni pagane, e
inòltre possono spontaneamente riapparire sòtto forma di fenome-
ni psichici, con ogni sorta di varianti, allo stesso modo che, nel
lontano passato, provennero da visioni, sogni o tranceS>-?2 .
Per Jung, la scelta d'un dio fra un gran numero possibile si spie-
ga con ragioni di psicologia sociale, ma anche personale. In par-
tenza gli dèi corrispondono a «potenze e forze che esistono di per
sé e noi non abbiamo bisogno di creare», potenze e forze che cor-
rispondono a loro volta ad archètipi dell'inconscio collettivo.
«Tutto ciò che è in nostro potere, precisaJung, è scegliere il Signo-
re che vogliamo servire, perché il suo servizio ci protegga contro la
dominazione degli "Altri" che.non abbiamo scelto», e quindi «è la
nostra scelta a definire "Dio''>-)3.
Dietro a tutte queste considerazioni, come in filigrana noi pos-
siamo individuare un altro aspetto assai contestabile del pensiero
diJung, cioè il suo psicologismo.

51 Psychologie et religion, cit., § 140, p. 164.


52 Ibidem,§ 81, p. 93.
53 Ibidem,§ 143-144, p. 173.

53
b. Lo psicologismo di Jung

Se nel pensiero diJung Dio occupa sì un posto centrale, più vol-


te tuttavia egli sostiene il carattere puramente psicologico della di-
vinità di cui parla. Anche se poi alle accuse di naturalismo e psico-
logismo egli ribatte d'anticipo, barricandosi dietro considerazioni
di carattere metodologico, cui peraltro abbiamo già accennato,
cioè facendo osservare, per essere più precisi, che, in quanto scien-
ziato, a lui non spetta pronunciarsi sull'esistenza «metafisica» di
Dio e che parlare di Dio in modo diverso da una realtà psichica sa-
rebbe fare della teologia; ma ciò lo farebbe uscire dalla sua qualità
di psicologo. QuiJung si rifà alla critica kantiana della conoscenza
- ma anche questo l'abbiamo già visto -, per affermare che Dio in
sé è a ogni buon conto inconoscibile, a tal punto che non possia-
mo neppure pronunciarci sulla sua esistenza.
Il complesso della sua teoria viene quindi elaborato in tal ma-
niera da poter fare a meno di quell'esistenza.
Del resto Jung ritiene che, <<per comprendere le cose religiose, og-
gi non esiste quasi niente di più che la via d'accesso psicologica>>54 .
E siccome «dire qualcosa su Dio è assolutamente impossibile»,
<<tutti gli enunciati [su Dio] riguardano soltanto la psicologia del-
l'immagine di Dio>>55. «Quando dico "Dio", scriveJung, con que-
sta parola intendo una imago divina antropomorfa e non m'imma-
gino affatto d'aver detto qualcosa su Dio stesso>>56.
Per Jung, Dio è, nell'uomo, una produzione dell'energia psichi-
ca, della libido connessa con l'inconscio collettivo. «A mio parere,
egli scrive, è in generale l'energia psichica, la libido, a creare l'im-
magine della divinità, utilizzando dei modelli archetipici, e, di con-
seguenza, l'uomo attribuisce l'onore divino alla forza attiva che ha
in sé. Per questo, finiamo per concludere [. .. ] che l'immagine del
dio è sì un fenomeno reale,· ma in primo luogo soggettivo>>57. E
Jung riprende la medesima spiegazione anche in altri passi, facendo
ancor più chiaramente capire che è partendo dalla realtà psicologi-
ca dell'inconscio collettivo che gli uomini si formano i loro dèi5 8 .

54 Ibidem, § 148, p. 177.


Lettera dell'8 febbraio 1941 al dr. Joseph Goldbrunner.
55
Lettera del 23 aprile 1952 al prof. H. Haberlandt.
· 56
Métamorphoses de l'iime et ses symboles, § 129, p. 166. Si veda anche la lettera del 25
57
maggio 1955 al pastore Jakob Amstutz.
58 Psychologie de l'inconscient, cit., § 105, p. 121.

54
Jung presenta Dio anche come un'idea: «Cos'è Dio? Un'idea
che in tutti i paesi del mondo e da sempre si è imposta all'umanità
in forma analoga>>59.
Ma il più delle volte lo presenta come un'immagine: «Dio è an-
zitutto un'immagine mentale dotata d'una numinosità naturale>>60;
«tutto ciò che l'uomo si rappresenta con l'immagine di Dio è
un'immagine psichica, e resta un'immagine anche se egli mille vol-
te ripete che non è un'immagine»61.
Quest'<<immagine di Dio» che si è formata nell'uomo viene così
definita daJung: «L'immagine di Dio è un complesso rappresenta-
tivo di natura archetìpica [che dobbiamo] considerare come l'e-
quivalente d'una certa quantità di energia (libido) che appare sotto
forma di proiezione»62.
È la fede a fare di quest'idea, o immagine, cioè di un'entità
psichica, una realtà esterna allo psichismo: «La figura del dio è in
primo luogo un'immagine psichica, un complesso rappresentati-
vo di natura archetìpica che la fede identifica con un ens metafi-
sico»63.
In altre parole, Dio è relativo alla psiche umana, proviene da es-
sa. All'origine della rappresentazione di Dio c'è la soggettività del-
l'uomo; non c'è da cercare nessun fondamento oggettivo di questa
rappresentazione: «Con [la nozione di] relatività di Dio, io inten-
do l'opinione in forza della quale Dio non esiste "in modo assolu-
to", cioè indipendentemente dal soggetto umano, al di fuori d'o-
gni condizionamento umano; intendo l'opinione secondo la quale
Dio dipende, in un certo senso, dall'essere umano, e che fra l'uo-
mo e Dio c'è un rapporto reciproco e inevitabile; in tal modo da
poter dire che l'uomo è una funzion~ di Dio, oppure che Dio è
una funzione psicologica dell'uomo. Per la nostra psicologia anali-
tica - scienza che va concepita empiricamente, dal punto di vista
umano-, l'immagine di Dio è l'espressione simbolica d'un certo
stato psicologico o d'una funzione la cui caratteristica è di oltre-
passare in modo assoluto la volontà cosciente del soggetto e, di
conseguenza, imporre, o rendere possibili, dei fatti e gesti inacces-
sibili allo sforzo cosciente. Quest'impulso estremamente potente -

59 Métamorphoses de l'ame et ses symboles, § 89, p. 123.


60 Lettera del 16 novembre 1959 a Valentina Brooke.
61 Lettera del 14 maggio 1950 al dr.Joseph Goldbrunner.
62 Métamorphoses de l'ame et ses symboles, cit., § 89, p. 123; dr. anche§ 95, p. 133.
63 Ibidem, § 95, p. 133.

55
quando la funzione-Dio si manifesta in atti-, o quest'ispirazione
che trabocca dall'intelletto cosciente proviene da un intasamento
di energia inconscia, di libido, che anima delle immagini che l'in-
conscio collettivo contiene in forma di possibilità latenti; fra esse,
l'imago di Dio, calco che dai tempi più lontani è l'espressione col-
lettiva delle influenze più potenti, più assolute che le concentrazio-
ni inconsce di libido esercitano sul cosciente. Per la nostra psicolo-
gia - che, in quanto scienza, deve attenersi all'empirismo, nei limiti
fissati alla nostra conoscenza -, Dio non è neppure relativo: è una
funzione dell'inconscio, l'attivazione dell'imago divina a opera d'u-
na massa dissociata di libido. La concezione ortodossa fa di Dio un
essere per natura assoluto, esistente in sé. Così facendo, essa espri-
me una totale dissociazione dall'inconscio; psicologicamente ciò
vuol dire che non abbiamo coscienza che l'effetto divino è uscito
dalla nostra propria sostanza. Al contrario, la concezione relativa
di Dio indica che si è, almeno vagamente, preso atto che una non
trascurabile porzione del processo inconscio era fatta di contenuti
psicologici. Naturalmente, questa concezione non può apparire se
· non quando si presta all'anima un'attenzione fuori del comune, e
che dunque si sono distinti e sottratti dei contenuti dell'inconscio
dalle loro proiezioni negli oggetti per dotarli d'una certa coscien-
za, la quale svela la loro appartenenza e, di conseguenza, il loro
condizionamento soggettivo»64.
Se «la realtà psichica "Dio" è un tipo autonomo», non lo è dun-
que come essere indipendente o espressione d'un essere esistente
in sé e per sé, ma in quanto «archètipo collettivo», «formazione
psichica inconscia>> indipendente soltanto dall'inconscio personale
e dall'io cosciente65. E se Dio è trascendente, lo è soltanto nel sen- ·
so che l'inconscio collettivo, che ne contiene l'archètipo, e il Sé,
che include quell'inconscio collettivo, sono trascendenti rispetto
all'inconscio personale e all'io cosciente.
In altre parole, per Jung l'alterità di esistenza e la trascendenza
di Dio rispètto all'uomo sono solamente di natura intrapsichica,
interessando solamente la relazione fra due dimensioni della psi-
che umana66. Per Jung, la trascendenza ha un senso solamente psi-

64 Psychologische Typen; trad. fr. Types psychologiques, Genève, 1950, p. 246-247.


65 Métamorphoses de !'time et ses symboles, cit., § 89, p .. 123, nota28.
Jung lassimila
66 È su questa linea che, accennando a una <<natura divina» diversa dall'io,
a «un contenuto uscito dalla zona dell'inconscio che trascende il cosciente» (Psychologie et
religion, cit., § 154, p. 185).

56
cologico67 e non si esprime che nella numinosità, cioè nella capaci-
tà di certi archètipi d'imporsi per un effetto dinamico, di modifi-
care la coscienza e di produrre un'emozione caratteristica. Per
questo, Jung scrive: «Se usiamo la nozione Dio, altro non facciamo
che mettere in formula un certo dato psicologico, cioè l'indipen-
denza, l'autonomia e il carattere preponderante e sovrano di certi
contenuti psichici»68.
In quanto archètipo, Dio è <<Uil essere psichico, da non confon-
dere con i concetti d'un dio metafisico»69. Per questo, afferma
Jung, «sarebbe un grave errore prendere le mie osservazioni come
una specie di prova dell'esistenza di Dio. Esse non provano che
l'esistenza di un'immagine archetìpica della Divinità»7o. Per Jung,
l'archètipo non postula affatto l'esistenza d'un modello di cui sa-
rebbe il tipo; ricompare qui l'agnosticismo di Jung: «L'esistenza
dell' archètipo non postula di dover porre un dio o negarne
uno»7 1. Ma quest'agnosticismo non proviene soltanto, come spes-
se volte Jung ripete, da ragioni di metodologia scientifica. Al con-
trario, spesse volte Jung ripete di considerare ingenua e da esseri
«primitivi» la credenza in un'esistenza di Dio diversa da un'esi-
stenza psichica: «Fra gli uomini rimasti nell'ingenuità primitiva,
naturalmente la coscienza dell'individuo non prendeva distanza da
questi dati, siccome gli dèi, i demoni ecc. erano concepiti non già
come proiezioni psichiche, e quindi contenuti dell'inconscio, ma
piuttosto e veramente come realtà indiscutibili. Il loro carattere di
proiezione non era ancora stato scoperto. Fu soltanto nell'epoca
dei "Lumi" che si capì come gli dèi in realtà non esistessero e fos-
sero soltanto delle proiezioni»72.
Jung supera i confini d'un semplice agnosticismo metodologico
anche quando si spinge a dire che la teologia, quando parla di
un'esistenza «metafisica» di Dio, è preda di un'illusione: «Quando
la teologia pensa che ogni volta che dice "Dio" si tratti proprio di

67 Cfr. Essai d'interprétation psychologique du dogme de la Trinité, § 210, in Essais sur la


symbolique de l'esprit, eit., p. 178.
68 Die Beziehung zwischen dem Ich und dem Umbewussten, § 400, in Gesammelte Werke,
cit., vol. 7, 1964, che d'ora in poi citeremo nella trad. fr. Dialectique du moi et de l'inconscient,
Paris,1964,p.255.
69 Métamorphoses de !'time et ses symboles, cit., § 89, p. 123, nota 28.
70 Psychologie et religion, eit., § 102, p. 113.
71 Métamorphoses de !'time et ses symboles, cit., § 89, p. 123, nota 28.
72 Psychologie de l'inconscient, eit., § 150, p. 163-164. Si veda anche la lenera del 5 ottobre
1945 al padre Victor White: «Per il pubblico colto e "illuminato" è della più grande impor-
tanza capire che la verità religiosa è un contenuto dell'anima».

57
Dio, in realtà divinizza degli antropomorfismi, delle strutture psi-
chiche e dei miti.>>73.
Ciò che vale per Dio in generale, a fortiori vale per le rappresen-
tazioni che le varie religioni si fanno di Dio. Per J ung, «le diverse
confessioni sono le forme codificate e dogmatizzate di esperienze
d'origine religiosa>>, forme in cui «sono stati santificati i contenuti
dell'esperienza iniziale»74; ma in realtà, secondo Jung, quelle espe-
rienze non sono, come abbiamo già visto, che delle esperienze di
natura psicologica. <<Le principali immagini simboliche d'una reli-
gione, scrive ancora, sono sempre l'espressione dell'atteggiamento
morale e mentale che a essa è inerente»75. E in un altro passo, an-
cora più chiaramente scrive: «Il ricorso a dèi o demoni invisibili
costituirebbe una formazione più adeguata dell'inconscio, sebbene
sia [ancora] una proiezione antropomorfica. Siccome d'ora in
avanti lo sviluppo della coscienza richiede la ritirata di tutte le pos-
sibili proiezioni, non potrà più continuare a esistere nessuna dot-
trina degli dèi che loro attribuisca il senso di un'esistenza non psi-
cologica. Se il processo storico di de-spiritualizzazione dell'univer-
so - la ritirata delle proiezioni - continuerà come nel passato, tutto
ciò che mostra esteriormente un carattere divino oppure demonia-
co dovrà tornare ali' anima, nell'interno di quell'uomo sconosciuto
D'inconscio collettivo] da cui, secondo ogni apparenza, tutto quel-
lo è derivato»76. ·
Le rappresentazioni di Dio variano secondo le società e le epo-
che, perché, secondo Jung, sono espressioni dei diversi stati psi-
chici d'ognuna di esse. Ed è così che il cristianesimo non è che l' e-
spressione d'uno stato psichico collettivo specifico d'una data so-
cietà in una data epoca: «Se la mia ipotesi secondo cui ogni religio-
ne è un'espressione spontanea d'un certo stato psichico generale è
esatta, allora il cristianesimo diventa l'espressione e la formula d'u-
no stato psichico che predominò agli inizi della nostra èra e nella
serie dei secoli successivi. Ma che una data situazione psichica ab-
bia predominato in una certa epoca non esclude l'esistenza, in
un'altra epoca, di altri stati psichici. Anche questi stati sono capaci
di un'espressione religiosa»77.

Lettera del 13 giugno 1955 al pastore Walter Benett.


73
Psychologie und Religion, cit., § 10, p. 20.
74
75 Psychologie et religion, cit., § 107, p. 119.
76 Ibidem,§ 141, p. 168-169.
77 Ibidem,§ 160, p. 189.

58
Ogni stato psichico collettivo specifico d'una società e di un' e-
poca suscita un tipo particolare di proiezione; questa proiezione è
tuttavia in sintonia con l'insieme dell'inconscio collettivo e corri-
sponde perciò agli archètipi generali che esso contiene.
Venendo al cristianesimo, la Trinità, secondo Jung, non è che
una proiezione psichica di elementi antropomorfici- il padre, il fi-
glio, il vivente - ordinati in triade sotto la pressione d'un archètipo
inconscio78. Jung ritiene che la proiezione che originò la rappre-
sentazione della Trinità possa anche essere stata quella delle suc-
èessive tappe dello sviluppo dell'individuo: il Padre rappresenta
allora lo stato di coscienza in cui si è ancora bambino; il Figlio, lo
stato in cui ci si distingue dal padre e dall'habitus che egli rappre-
senta, in vista d'affermare la propria autonomia; lo Spirito, lo stato
in cui la coscienza ha raggiunto il suo livello d'indipendenza, in
cui si è pronti a diventare padre a propria volta79 e si prende atto
dell'inconscio8o. La Trinità non ha quindi nessuna esistenza ogget-
tiva, all'infuori di quella psicologica: <<ll concetto di Trinità nacque
dall'aspirazione delle antiche teologie cristiane di sottrarre Dio alla
sfera dell'esperienza psicologica per collocarlo in un'esistenza as-
sol~ta.>>81.
Allo stesso modo, «il Cristo traspone psicologicamente il Sé,
rappresenta - in altre parole - la proiezione di quest'importantissi-
mo e centralissimo archètipo»82. Il Cristo è insomma un simbolo,
o un'immagine, del Sé83. Jung ritiene che pure gli attributi del Cri-
sto e i principali avvenimenti della sua economia di salvezza siano
tutti simboli del Sé: «Gli attributi del Cristo (consustanzialità con
il Padre, co-eternità, filiazione divina, partenogenesi, crocifissione,
Agnello immolato fra quelli che non lo sono, Uno condiviso fra un
gran numero ecc.84) fanno incontestabilmente riconoscere in lui
un'incarnazione del Sé»85. Per Jung, infatti, quesd attributi corri-

78 Essai d'interprétation psychologique du dogme de la Trinité, § 224, in Essais sur la symbo-


lique del' esprit, cit., p. 189; cfr. anche § 237, p. 198.
79 Ibidem,§ 269-272, p. 220-221.
so Ibidem,§ 273, p. 222.
81 Lettera dell'8 aprile 1932 al dr. A. Verter.
82 Métamorphoses de l'ame et ses symboles, cit., § 576, p. 610.
83 Ibidem, p. 610; Essai d'interprétation psychologique du dogme de la Trinité, § 231, in Es-
sais sur la symbolique de l'esprit, cit., p. 194; § 289, p. 235; AiOn, in Gesammelte Werke, cit.,
vol. 9-2, 1976, § 70, che d'ora in poi citeremo nella trad. fr. AiOn, Paris, 1997, p. 52; ibidem,
§ 79,p.59.
84 Altrove Jung aggiunge la risurrezione.
85 Aii:m, § 79,
trad. cit., p. 59. Cfr. Essai d'interprétation psychologique du dogme de la Tri-
nité, § 202, in Essais sur la symbolique de l'esprit, cit., p. 173.

59
spondono a degli attributi del Sé86 e quegli avvenimenti a delle fasi
del processo d'individuazione, cioè della realizzazione del Sé.
La «realtà psicologica» del Cristo si manifesta in questa sua fun-
zione d'immagine del Sé, siccome anche il Sé è una realtà psicolo-
gica che include l'io cosciente, l'inconscio personale e, soprattutto,
l'inconscio collettivo. Jung dice insomma che il Cristo è <<un'im-
magine archetipica, un'idea archetìpica che appartiene all'incon-
scio collettivo e rimanda a un retroterra sconosciuto»87; e poco ol-
tre: «Non c'è dubbio che il Cristo è un'immagine archetipica, e
questo in realtà è tutto ciò che io so di lui. In quanto tale, fa parte
del fondamento collettivo della psiche. Per questo, l'identifico con
ciò che io chiamo il Sé»88.
La riduzione del Cristo e delle varie «azioni» della sua econo-
mia di salvezza a una realtà psicologica è ancora nettamente perce-
pibile in quest'altra affermazione di Jung: «Invece di Dio, noi pos-
siamo dire "inconscio"; invece del Cristo, "il Sé"; invece d'incar-
nazione, "integrazione dell'inconscio"; invece di crocifissione e sa-
crificio sulla croce, "sforzo per far accedere la totalità alla coscien-
za"»89. E allora Jung confessa: «Siccome per me il Cristo non ha
mai significato niente di più di ciò che di lui posso comprendere, e
questa comprensione coincide con il sapere empirico che ho del
Sé, devo ammettere che è il Sé che io ho in testa quando m'occupo
dell'idea del Cristo»9o. Jung è insomma dell'idea che c'è una stret-
ta corrispondenza fra la vita del Cristo e la vita inconscia d' ognu-
no, nella misura in cui <<la vita del Cristo è archetipica», in quanto
«rappresenta la vita stessa dell' archètipo»: «siccome quest'ultimo
è il precondizionamento inconscio d'ogni vita umana, nella vita ri-
velata del Cristo si esprime, nel suo senso profondo,. la vita intima
e inconscia d' ognuno»91.
Quanto allo Spirito Santo, qui Jung vede una produzione intel-
lettuale che, in maniera inattesa e paradossale, ha completato in
triade una diade (Padre-Figlio) il cui terzo termine sarebbe natu-
ralmente dovuta essere la Madre92. Agli occhi di Jung, che nello

86 Vedi, piùavanti, la sezione intitolata: «La divinizzazione junghiana del Sé>>.


croyance religieuse, § 1648, in La vie symbolique, cit., p. 191.
87 Jung et la
88 Ibidem, § 1649, p. 192.
89 Ibidem, § 1664, p. 198.
90 Ibidem, § 1669, p. 200.
91 Psychologie et religion, cit., § 147, p. 176. .
92 CTr. Essai d'interprétatìon psychologique du dogme de la Trinité, § 235-238, in Essais sur
la symbolique de l'esprit, cit., p. 196-199.

60
Spirito Santo vede la vita o il soffio comune alle altre due Persone,
questi è «un concetto astratto, dato che una respirazione comune
alle due persone, che hanno delle caratteristiche differenti, non
può essere un' evidenza.>>93. Anche in questo caso abbiamo dunque
da fare con un concetto antropomorfico: «questo concetto, nato
nello spirito umano, mostra i segni del suo procreatore umano»94.
Lo Spirito proviene dal fatto che una qualità isolata, concepita dal-
la ragione, venne ipostatizzata e si vide attribuire un'esistenza con-
creta95. Ma il fatto che per elaborare la concezione della Trinità
cristiana si sia ricorso a un processo intellettuale non vieta che
questo processo sia avvenuto sotto la pressione di elementi incon-
sci: «Siccome il pensiero trinitario non esiste in sé, e le sue forze
d'impulso provengono da stati psichici collettivi e impersonali, es-
so esprime una necessità inconscia dell'anima che supera i bisogni
spirituali dell' individuo»96.
Come le azioni dell'economia di salvezza del Cristo corrispon-
dono, secondo Jung, ad archètipi che nelle altre religioni si espri-
mono in altre forme, alla stessa maniera anche gli atti attribuiti allo
Spirito Santo derivano dalla proiezione di archètipi universali. Per
esempio, la comunicazione della grazia agli apostoli sotto forma di
lingue di fuoco è l'espressione d'un archètipo dell'energia che
compare, espresso sotto la forma d'una forza magica, in tutte le
«religioni dinamiste» e corrisponde dunque a una «idea inscritta
da tempi immemorabili nel cervello umano»97.
J ung spiega che fu per un bisogno di regolazione psichica di-
nanzi alle forze ambivalenti dell'inconscio collettivo che l'uomo si
forgiò eroi, dèi e demoni. <<La nozione di Dio corrisponde a una
funzione psicologica assolutamente necessaria, di natura irraziona-
le, che non ha niente in comune con la nozione dell'esistenza di
Dio»98.

Jung respinse sempre, come un controsenso, le accuse di psico-


logismo che spesse volte gli vennero rivolte. Ma è improbabile che
lettori tanto diversi fra loro come quelli che quelle critiche gli ri-
volsero si siano messi tutti d'accordo per ingannarsi fino a tal pun-
93 Ibidem,§ 237, p. 198.
94 Ibidem,§ 239, p. 199.
95 Ibidem,§ 239, p. 199; cfr. anche§ 241, p. 200.
96 Ibidem, § 242, p. 201.
97 Si veda Psychologie de l'inconscient, cit., § 108-109, p. 123-124.
98 Ibidem, § llO, p. 128.

61
to sul suo pensiero. Comunque sia, il suo sistema di difesa, centra-
to su considerazioni di metodo e sulla critica kantiana della cono-
scenza - su queste basi, a lui rion spetterebbe, psicologo qual è, di
pronunciarsi sull'esistenza <<metafisica» di Dio (peraltro inaccessi-
bile alla conoscenza umana) -, presenta pur qualche breccia.
In primo luogo, parecchie volte Jung si spinse fino a sostenere
che la credenza nell'esistenza metafisica di Dio avrebbe da fare
con una mentalità ingenua e primitiva, mentre, al contrario, l'uo-
mo evoluto e intelligente sa di avere da fare lì soltanto con imma-
gini e simboli.
In secondo luogo, Jung fa tutta lina storia psicologica e sociolo-
gica della formazione dei vari concetti di Dio, storia che prova co-
me Dio non sia un dato rivelato ma il prodotto d'una elaborazione
mentale e sociale eminentemente relativa.

c. La teologiajunghiana

Sviluppando il suo pensiero in seno a una società globalmente


cristiana e rivolgendosi anzitutto all'uomo occidentale, un posto
del tutto particolare J ung riservò alla teologia cristiana. Benché
spesse volte rifiuti la qualifica di teologo, tuttavia ha lo stesso svi-
luppato, riguardo al cristianesimo, delle teorie che sono con tutta
evidenza d'ordine teologico. Queste teorie riguardano due campi
fondamentali della teologia cristiana, cioè la triadologia (la Trinità)
e la cristologia.

1) Dalla Trinità alla Quaternità

Una delle idee più bizzarre di Jung è la sua proposta di sostitui-


re la Trinità con una Quaternità.
La prima giustificazione che ne dà è una serie di considerazioni
che possiamo chiamare simboliche:
1) <<La trinità non è uno schema ordinatore naturale, ma artifi-
ciale»99, mentre <<la quaternità è lo schema ordinatore per eccel-
lenza.>>100.

99 Essai d'interyrétation psychologique du dogme de la Trinité, § 246, in Essais sur la symbo-


lique del' esprit, cit., p. 206.
100 AiOn, cit., § 381, p. 262.

62
2) A differenza della trinità, <<la quatemità è un archètipo per
così dire universale»101.
3) <<La quatemità è un simbolo della totalità, mentre la trinità
non lo è» 102.
4) «L'inconscio si esprime di preferenza in quatemità.>>103.
Per tutte queste ragioni, <<la quatemità non è una dottrina che si
possa discutere, ma un dato di fatto cui anche la dogmatica cristia-
na è subordinata»104.
La seconda giustificazione è un argomento psicologico: la pre-
senza del male come costitutivo essenziale dell'inconscio. «Mentre
il simbolo centrale del cristianesimo è una Trinità, la formula del-
l'inconscio è una quaternità. Per questa ragione, la formula cristia-
na ortodossa non è affatto completa, dato che alla Trinità manca
l'aspetto dogmatico del principio del male»105. Ritroviamo qui lo
psicologismo di J ung, che concepisce le realtà teologiche partendo
dalle realtà psicologiche e in funzione di esse.
La terza giustificazione sta in una serie d'argomenti relativi alla
natura del male stesso, che Jung considera essi pure di carattere
psicologico ma che più correttamente si possono ritenere di carat-
tere metafisico e teologico.
J ung parte dunque da una criticà della concezione cristiana clas-
sica del male - sviluppata da numerosi Padri della Chiesa, come
Gregorio di Nissa, Basilio di Cesarea o lo Pseudo-Dionigi-, per la
quale esso è una privatio boni (mancanza o privazione di bene).
Contro questa concezione, Jung difende l'idea che il male ha una
sostanza e una realtà positive, equivalenti a quelle del bene. Già il
giudizio morale, secondo lui, ne è una prova, perché «si può dare
un giudizio solo se il suo opposto ha un contenuto altrettanto rea-
le»106. Peraltro, se <<in faccia a un essere c'è un non-.essere, non si
dà mai un bene che esista in faccia a un male che non esiste, per-
ché sarebbe una contradictio in adjecto»l07.

101 Essai d'interprétation psychologique du dogme de la Trinité, § 246, in Essais sur la


symbolique del' esprit, cit., p. 206.
102 Lettera del 26 marzo 1951 al prof. Adolf Keller.
103 Ibidem.
104 Psychologie et religion, cit., § 103, p. 114.
105 Ibidem.
106 Essai d'interprétation psychologique du dogme de la Trinité, § 246, in Essais sur la
symbolique de l'esprit, cit., p. 206; cfr. ancheAiOn, cit., § 97, p. 67-68.
107 Essai d'interprétation psychologique du dogme de la Trinité, § 246, in Essais sur la
symbolique de l'esprit, cit., p. 206.

63
Se uno sostiene che il male è una semplice privatio boni, allo-
ra l'opposizione bene-male non è più possibile108: «Come si può
parlare di "bene", se non c'è un "male"? di "chiarezza", se non
c'è "oscurità"? di "alto", se non c'è un "basso"? E fatale che, se
si attribuisce una sostanza al bene, lo stesso si deve fare anche
per il male. Se il male non ha una sua sostanza, il bene resta fan-
tomatico, non avendo mai più da difendersi da un avversario
reale, ma soltanto da un'ombra, da una semplice privatio bo-
ni»109.
Jung vede una conferma alla sua idea che il male ha una sostan-
za nell'esistenza, nel potere e negli effetti dell'attività che il cristia-
nesimo attribuisce al Diavolo.
Cita allora delle tesi gnostiche, che in un primo momento in-
troduce come semplici riferimenti storici ma che poi fa manife-
stamente sue: «Siccome è l'avversario del Cristo, [il Diavolo]
dovrebbe occupare una posizione equivalente a lui ed essere lui
pure "figlio di Dio".
Ciò porterebbe direttamente a certe concezioni gnostiche se-
condo cui il Diavolo o Satana sarebbe il primo figlio di Dio,
mentre il Cristo ne sarebbe il secondo. Come altra logica conse-
guenza, avremmo la soppressione della formula trinitaria, da
rimpiazzare con una quatemità»110.
Jung giustifica allora con vari argomenti l'introduzione del
male nel seno stesso di Dio: «Volere un'altra cosa [diversa dal
bene] e volere il contrario [del bene] sono le caratteristiche del
Diavolo, alla stessa maniera che la disobbedienza caratterizza il
peccato originale. Son queste le condizioni della creazione in ge-
nerale: dovrebbero essere inserite nel piano divino e di conse-
guenza appartenere al campo divino»111.
Sulla scorta di tutte queste riflessioni, J ung conclude che la
quarta persona che sarebbe opportuno aggiungere alle tre Per-
sone della Trinità - il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo -, per
passare a una Quatemità, è il Diavolo, Satana stesso112.

10s Ibidem.
109 Ibidem. Cfr. AiOn, cit., § 98, p. 68-69; Jung et la croyance religieuse, § 1592-1593, in La
vie symbolique, cit., p. 164-165; lettera del30 aprile 1952 al p. Victor Whlte.
no Essai d'intei-prétation psychologique du dogme de la Trinité, § 249, in Essais sur la
SYmbolique del' esprit, cit., p. 207.
m Ibidem, § 252, p. 210.
112 Si veda Psychologie et religion, cit., § 103-104, p. 114-115 e le altre citazioni chefaremo
nella sezione seguente.

64
2) L'unione del bene e del male in ])io

Non contento d'introdurre il male in Dio sostituendo alla Trini-


tà una Quaternità, in cui Satana sarebbe la quarta ipostasi, Jung
introduce il male nel Padre stesso. Rifacendosi nuovamente a certe
fonti gnostiche, egli osserva che <<la speculazione religiosa non è
affatto all'oscuro del duplice aspetto del Padre»113. Il Padre con-
tiene in sé una coincidentia o complexio oppositorum, cioè un'unio-
ne del bene e del male che si sviluppa poi nel suo Figlio e nell' av-
versario di lui, il Diavolo114. <<Jahvè (Jhwh] ha due mani: la destra
è il Cristo e la sinistra è Satana>>m.
Come prova della presenza del male nel Padre, J :ung cita il
ruolo di giustiziere e vendicatore che egli svolge nell'Antico Te-
stamento, ruolo fortemente sottolineato da alcuni commentatori
ebraici116. -
Secondo J ung, soprattutto il libro di Giobbe ci rivela che Dio
non è interamente e unicamente buono, ma anche un essere vio-
lento, distruttore, in cui dunque bene e male stanno uniti117. <<ll
Dio dell'Antico Testamento è paradossale, buono e demoniaco,
giusto e ingiusto»l18, <<morale e immorale»119. Nella sofferenza in-
flitta a Giobbe,_ «la divinità ha semplicemente quell'altra sua faccia
che si chiama il diavolo»120. L'ha anche mostrata, quest'altra fac-
cia, in tutte le sofferenze che l'umanità ha subìto lungo tutta la sua
storia, fino ai nostri giorni e che, secondo J ung, sono imputabili a
Dio. «Il Dio vivente, dice Jung, è un terrore vivente» 12 1; secondo
lui, l'aggettivo «"brutale" è fin troppo blando; "barbaro'', "violen-
to", "crudele", "sanguinario", "infernale", "demoniaco" sarebbe-

113 Essai d'interprétation psychologique du dogme de la Trinité, § 259, in Essais sur la


symbolique de l'esprit, cit., p. 214.
114 Ibidem,§ 279, p. 226.
115 Lettera del 27 marzo 1954 al pastore W. Lachat, § 1537, in Gesammelte Werke, cit.,
vol. 18-2, 1981; trad. fr. in La vie symbolique, cit., p. 138. Si veda anche la lettera del 24 no-
vembre 1953 al padre Victor White e la lettera del novembre 1955 a Simon Doniger.
ll6 Si vedaAion, cit., § 105-111, p. 72-74;Jung et la croyance religieuse, cit., § 1593, in La
vie symbolique, cit., p. 165-166_
117 Si veda Antwort auf Hiob, in Gesammelte Werke, cit., vol. 11, 1963, p. 387-506; (dr.
trad. it. "Risposta a Giobbe, Bollati Boringhieri, anche in opera singola; SEI, Torino).
l!S Lettera del 27 marzo 1954 al pastore W. Lachat, § 1533, in Gesammelte Werke, cit.,
vol. 18-2, 1981; trad. fr. in La vie symbolique, cit., p. 136.
11 9 Jung et la croyance religieuse, cit., § 1593, in La vie symbolique, cit., p. 166.
12 0 Métamorphoses de !'lime et ses symboles, cit., § 89, p. 122-123. Questo tema è sviluppa-
to nella Risposta a Giobbe.
121 Das Symbolische Leben, § 690, in Gesammelte Werke, cit., vol. 18-1, 1981; trad. fr. in
La vie symbolique, cit., p. 83.

65
ro più giusti»122 . Neanche i due ultimi qualificativi debbono sor-
prendere, dato che l'affermazione, da Jung spesso ripetuta e che
egli riprende da un testo gnostico dei primi secoli (le Omelie pseu-
do-clementine), secondo cui il Cristo e Satana sono le due mani di
Dio, significa assai chiaramente che Dio agisce nel mondo sia at-
traverso Satana sia attraverso il Cristo; in altre parole, che le attivi-
tà diaboliche o demoniache sono in ultima analisi da attribuire a
Dio stesso.
CosìJung respinge non soltanto la definizione di Dio come sum-
mum bonum (il Bene supremo) 123, ma anche la classica formula
cristiana secondo la quale <<tutto il bene viene da Dio e tutto il ma-
le dall'uomo»124, insieme a tutte le altre affermazioni patristiche
che vanno in tal senso125. Secondo lui, non è già dalla libertà del-
l'uomo, come pensano i Padri, che il male viene nel mondo, bensì
da Dio. «Non possiamo certo aspettarci, scriveJung, che dalle ma-
ni d'un creatore moralmente ambiguo possa uscire un universo del
tutto buono» 126.
Non c'è dubbio che questa concezione sia stata ispirata a Jung
dalla gnosi, da cui J ung si dimostrò per tutta la vita - a partire dal
1916127 - fortemente influenzato128. Ma una concezione siffatta gli
venne imposta anche da considerazioni psicologiche, in particolare
dall'idea che nel Sé, che è una imago dez12 9 - e, di contro, Dio è
un'immagine del Sé -, i contrari, in particolare il bene e il male,
procedono uniti. «L'unità primaria dei contrasti, scrive, si ricono-
sce nell'unità primaria di Satana e J ahvè»no.
L'uomo non può arrivare a Dio se non prendendo atto di questa

122Lettera del 17 febbraio 1954 al rev. Erastus Evans.


123Aion, cit., § 80, p. 60; cfr. anche§ 99-100, p. 69-70.
124 Ibidem,§ 74, p. 56; dr. anche§ 81, p. 61; § 95, p. 67.
125 Ibidem, § 81-91, p. 56-66.
126 J;,.ettera del 3O aprile 1952 al p. Victor White.
127 E la data di pubblicazione dei Septem sermones ad mortuos (cfr. trad. it. anche presso
Arktos, 1989). Questo singolare libro, pubblicato sotto lo pseudonimo di Basilide d'Alessan-
dria, un autore gnostico dell'Antichità, venne scritto in seguito a una crisi interiore diJung,
che per alcuni commentatori fu psicotica e prossima alla schizofrenia (si veda P. J. Stem, C.
G. Jung, Prophet des Unbewussten; Munich, 1979, p. 138; P. Homans,Jung in context. Moder-
nity and the Making of Psychology, Chicago, 1970, p. 87 [dr. trad. it. ]ung: la costruzione di
una psicologia, Astrolabio, Roma, 1982]; B. Ka=pf, Réconciliation. Psychologie et religion se-
lon Carl Gustav Jung, cit., p. 123). Pare che quella crisi sia stata determinante nell'evoluzione
del pensiero di J ung.
128 Sulla dimensione gnostica dell'opera di J ung, si veda in particolare R A. Segal, The
gnostic Jung, Princeton, N.Y., 1992.
129 Métamorphoses de l' Jme et ses symboles, § 612, p. 646.
130 Ibidem, § 576, p. 610.

66
parte satanica di Dio, parte che peraltro Dio stesso cerca di rive-
largli: «Non c'è dubbio che Dio, per arrivare all'uomo, debba rive-
largli il Suo vero volto; altrimenti l'uomo loderebbe per l'eternità
la bontà e la giustizia divine, impedendo in tal modo a Dio d' arri-
vare fino a lui. Quel vero volto, Dio non può mostrarlo che attra-
verso Satana»131.

3) Il Cristo
Un secondo punto problematico della teologia di Jung riguarda
il Cristo, a proposito della cui figura Jung elabora più d'una serie
d' affermazioni la cui incompatibilità con la fede cristiana risalta
con assoluta evidenza.
1) A cominciare dalla particolarissima teoria della Quaternità,
dove Satana occupa il posto della quarta Persona e il Cristo non è
più il Figlio unico del Padre ma il fratello di Satana; questi è poi il
primo Figlio di Dio mentre il Cristo ne è il secondol32 •
Prima dell'incarnazione del Figlio, Satana e il Cristo coesisteva-
no in Dio e formavano in lui una coincidentia oppositorum133. Do-
po l'incarnazione, in certo qual modo i due si sono oggettivati e se-
parandosi dal Padre si sono separati l'uno dall' altro134; da allora,
sono diventati avversari; ma proprio perché avversari, sono anche
inseparabili. Il Cristo e Satana·«appaiono come degli opposti equi-
valenti.»135, in cui il Cristo incarna la parte luminosa di Dio e Sata-
na la sua parte tenebrosa.
Jung fa di Satana il fratello del Cristo anche per un'altra ragio-
ne, d'ordine psicologico, cui abbiamo già accennato: il fatto che
nel Sé (di cui il Cristo e Satana sono delle proiezioni136) il bene e il
male sono riuniti in una coincidentia oppositorum. «l contrasti riu-
niti nell' archètipo si sono distribuiti in parte nel Figlio luminoso di
Dio e in altra parte nel Diavolo»137.
Per .la medesima ragione, il Cristo e l'Anticristo sono estrema-

13 lLettera del 5 gennaio 1952 al dr. Erich N eumann.


132 Cfr. Aion, cit., § 103, p. 71; § 113, p. 75.
m Si veda la lettera del 27 marzo 1954 al pastore W. Lachat, § 1553-1556, in Gesammelte
Werke, cit., voL 18-2; trad. fr. in La vie symbolique, cit., p. 139-147.
134 Si veda la lettera del 24 novembre 1953 al p. Victor White.
135 Essai d'interprétation psychologique du dogme de la Trinité, § 258, in Essais sur la
symbolique del' esprit, cit., p. 213.
136 Su Cristo come proiezione del Sé, si veda Métamorphoses del'ame et ses symboles, cit.,
§ 576, p. 610.
m Ibidem.

67
mente prossimi138: «come l'ombra.alla luce, il "mistero d'iniquità"
[dell'Anticristo] si attacca inseparabilmente al "Sole di giustizia",
come un fratello a un fratello»139. Proprio come il bene e il male,
essendo relativi l'uno all'altro, sono l'uno dall'altro indissociabili,
così è indispensabile che il Cristo, che la teologia cristiana dice del
tutto buono, abbia una controparte a lui attaccata: «bisogna dun-
que che sull'altro versante spunti un elemento malvagio, "inferna-
le", cioè l'Anticristo»140. Confida Jung a un suo corrispondente:
<<Mi avete imputato l'immagine tradizionale, dogmatica, familiare,
del Cristo. Quest'immagine non corrisponde affatto alla mia con-
cezione personale del Cristo, perché io mi sento attratto da una
concezione molto più sobria e rozza dell'uomo Gesù. La ragione è
che la concezione dogmatica e tradizionale del Cristo è luminosa
al massimo - lumen de lumine - e tutta la materia nera è stata rele-
gata all'altro estremo del quadro»14,1.
2) In secondo luogo, Jung relativizza l'importanza della realtà
storica del Cristo142. Secondo lui, si tratta d'un giusto che sarebbe
rimasto anonimo per sempre 143, o magari d'un giovane rabbi che
sarebbe rimasto per sempre sconosciuto se non fosse diventato
l'oggetto della proiezione d'un archètipo collettivo e quindi carica-
to di simboli. Ma ciò che veramente importa non sono che i sim-
boli e la funzione psicologica di cui il Cristo venne caricato, cioè
di essere immagine del Sé: «Quelli che scrissero i vangeli erano del
tutto presi, né più né meno di Paolo, a riversare tratti miracolistici
e significati spirituali sul capo di quel giovane rabbi quasi total-
mente sconosciuto a cui, dopo una carriera forse durata non più
d'un anno, toccò una fine prematura. Ciò che essi fecero di lui, noi
ben lo sappiamo, ma non sappiamo fino a che punto quest'imma-
gine corrisponda alla realtà storica. Erano il L6gos e il Cristo eter-
namente viventi? Non lo sappiamo. Ma del resto non importa, vi-
sto che l'immagine dell'uomo-Dio è viva in ciascuno di noi e si è
incarnata (cioè proiettata) nell'uomo Gesù, per manifestarsi in for-
ma visibile in maniera che gli umani possano riconoscere in lui il
proprio homo interiore, il loro Sé>>l44.

138 Ibidem.
139 Awn, cit., § 103, p. 58.
140 Aion, cit., § 116, p. 77.
141 Lettera del 17 ottobre 1954 al rev. Erastus Evans.
142 Cfr. Aion, cit., § 123, p. 82.
143 ]ung et la croyance religieuse, § 1669, in La vie symbolique, cit., p. 200.
144 Sur la résurrection, in La vie symbolique, cit., p. 154-155.

68
Nel medesimo ordine di idee, Jung avanza dei dubbi anche
sulla realtà storica di quella che costituisce uno dei pilastri della
fede cristiana, cioè la risurrezione, in essa altro non vedendo - in
linea peraltro con un certo numero di teologi cattolici e prote-
stanti moderni145 - che un simbolo - quindi un «avvenimento
psicologico»146 - la cui funzione è di esprimere il fatto che <<la
nostra totalità psichica [il Sé] dilaga al di là dei limiti di spazio e
tempo» 147.
Dunque il Cristo si ritrova ridotto alla realtà psicologica d'un
tipo o d'un simbolo del Sél48. Dobbiamo ricordare che per Jung
questo simbolo è adattato ali' epoca e alla mentalità della civiltà
in cui si formò, e che altre epoche e altre civiltà diedero vita ad
altri simboli del Sé, che J ung considera equivalenti: Osiride,
Tamnuz, Attis-Adone, Mithra, Fenice, Mercurio, oppure Mana
per esempio. In altre parole, il Cristo non è che «il modello cri-
stiano del Sé»l49. Al di fuori di lui esistono altri modelli, non cri-
stiani, del Sé, altrettanto validi perché altrettanto significanti.
Ma pur vedendo nel Cristo un simbolo del Sé, J ung ritiene
tuttavia che sia un simbolo imperfetto: il Cristo, infatti, è senza
peccato, è luce, è perfetto. Mentre il Sé è un simbolo di totali-
tà150 - che include dunque tutt'insieme il male e il bene-, «il
simbolo del Cristo è privo della totalità, in quanto non include
l'aspetto notturno delle cose, ma dichiaratamente lo rigetta co-
me avversario luciferino»151. Il Cristo ha tagliato via da sé la
propria ombra, ed è «l'Anticristo, la controparte così tagliata
via» 152. Significa che l'Anticristo corrisponde a un'altra parte
del Sé diversa da quella che rappresenta il Cristo; l'Anticristo
corrisponde cioè ali'«ombra del Sé», alla <<metà oscura della to-
talità umana»153.
J ung perfino pensa che, essendo il Cristo nato da una vergine ed
145 Pensiamo in particolare a Bultmann e ai suoi discepoli (anche se non vanno taciute le
profonde divergenze che esistono fra Bultmann eJung).
l46 Si vedaSur la résurrection, in La vie symbolique, cit., p. 151-156.
147 Ibidem, p. 155. .
148 Métamorphoses de !'time et ses symboles, cit., § 612, p. 646; Essai d'interprétation
psychologique du dogme de la Trinité, § 231, in Essais sur la symbolique de l'esprit, cit., p.194;
§ 289, p. 235: «Cristo, che possiamo psicologicamente considerare come un simbolo del
Sé...»; Aiòn, cit., § 70, p. 52; § 79, p. 59; § 115, p. 76.
l49 Jung et la croyance religieuse, § 1657; in La vie symbolique, cit., p. 195.
150 Cfr. Aìon, cit., § 123, p. 82.
151 Ibidem,§ 74, p. 55.
152 Ibidem.
m Ibidem,§ 76, p. 56-57.

69
essendo stato esentato dal peccato originale, anche la sua incarna-
zione è imperfettal54.
Le speculazioni diJung dunque non sfociano soltanto in una re-
lativizzazione della persona e dell'economia di salvezza del Cristo,
ma anche nella sua snaturazione e depersonalizzazionel55.
Eroe mitico, il Cristo non è realmente Dio (Jung attribuisce
quest'idea a una forma primitiva della fede cristianal56) né pro-
priamente un uomol57. Del resto, per lui gli aspetti dell'umanità
reale del Cristo, la sua figura storica ben poco importano; per lui
ciò che importa è soltanto ciò che egli esprime, simbolicamente,
d'un archètipo universale e del Sé indeterminato158.

4) Lo Spirito Santo

Per J ung, lo Spirito Santo non è propriamente una Persona. Se-


condo lui, <<la terza Persona della Trinità non possiede nessuna ca-
ratteristica di persona, al contrario del Padre e del Figlio. In sé, la
parola "spirito" non indica una persona, ma esprime qualitativa-
mente una sostanza di carattere pneumatico»159. Per Jung, lo Spi-
rito è in origine una qualità, una potenza, un'attività vitale, un sof-
fio (pneuma) attribuiti al Padre e al Figlio. Ed è questa qualità che
lo spirito umano ha isolato, ha ipostatizzato16o.

d. I.:antropologiajunghiana

1) L'immagine di Dio

La nozione d'immagine di Dio, che un ruolo centrale ha nell'an-


tropologia patristica, inJung assume un significato ben diverso.
Jung ne dà questa definizione: «L'immagine di Dio è un com-
plesso rappresentativo di natura archetìpica [che dobbiamo] con-
siderare come il corrispettivo d'una certa quantità di energia (libi-

89-90 157-158.
154 Si veda Réponse a ]ob, cit., p. e
536, p. 572.
155 Métamorphoses de l'ame et ses symboles, cit., §
536,
156 Ibidem, § p. 572.
157 Ibidem: <<l paralleli del genere mostrano quantopoco d'umano personale e quanto di
genericamente mitico sia contenuto nella figura di Cristo».
15s Cfr. AiOn, cit., § 123, p. 82.
159 Essai d'interprétation psychologique du dogme de la Trinité; § 276, in Essais sur la
symbolique de l'esprit, eit., p. 225.
160 Ibidem,§ 197, p. 169-170; § 204, p. 174.

70
do) che si mostra sotto forma di proiezione»161. Subito dunque ve-
diamo che l'immagine di Dio non è una realtà ontologica presente
nella natura umana, impronta di Dio stesso, riflesso delle Sue qua-
lità e fonte della strutturazione e dinamizzazione della natura uma-
na in relazione a Lui, bensì una realtà puramente psicologica, con-
sistente in una rappresentazione di Dio, cioè in una proiezione ar-
chetìpica la cui natura profonda è un'energia psichica.
Peraltro, J ung presenta Dio o il Cristo come delle immagini del
Sé, mentre in una prospèttiva cristiana ci si sarebbe al contrario at-
tesi che concepisse il Sé come un'immagine di Dio o del Cristo. È
vero che J ung non esclude neppure questa seconda possibilità, ma
per una ragione di carattere puramente dialettico162. Nel suo pen-
siero è la prima possibilità - quella di Dio o del Cristo come imma-
gine del Sé - a essere ampiamente dominante. In AiOn scrive: «Il
Sé è un simbolo del Cristo, oppure il Cristo è un simbolo del Sé?
In questo studio adotto il secondo termine dell'alternativa. Cerco
di mostrare come l'immagine tradizionale del Cristo riunisca in sé
le caratteristiche d'un archètipo, che è quello del Sé»163. In tal ma-
niera, la visione di Jung capovolge il principio basilare dell'antro-
pologia patristica: non già l'uomo è, propriamente parlando, l'im-
magine di Dio, ma, al contrario, Dio è a immagine dell'uomo o,
più esattamente, di ciò che ne rappresenta la totalità, cioè il Sé.
È un rovesciamento che ci spieghiamo rifacendoci allo psicolo-
gismo diJung, che in Dio vede una proiezione della psiche, ma an-
che al suo relativismo religioso: riconoscere che il Sé è un'immagi-
ne del Cristo sarebbe come attribuire un valore assoluto al Cristo e
un valore relativo al Sé. Ebbene, la concezione diJung va in senso
opposto: è il Sé che ha un valore assoluto, mentre il Cristo è un
simbolo o un'immagine relativa del Sé, dato che il Sé può venire in
maniera altrettanto buona simboleggiato dai vari eroi o dèi d' altre
religioni; è questa la ragione pr cui Jung dice che «i simboli del Sé
si ammantano dei simboli della divinità»164 in generale. Per que-

161 Métamorphoses de l'Jme et ses symboles, trad. cit., p. 123; cfr. p. 133.
162 <<Possiamo pensare che l'aspetto dell'immagine divina nella Quaternità sia un riflesso
del Sé, oppure, inversamente, fare del Sé un'immagine di Dio nell'uomo. Psicologicamente,
entrambi gli atteggiamenti sono veri, giacché il Sé, che soggetòvamente non si può cogliere se
non come l'isolamento più estremo e più intimo, ha bisogno del retroterra d'una universalità,
senza la quale non potrebbe minimamente realizzare il suo assoluto isolamento» (Essai d'in-
terprétation psychologique du dogme de la Trinité, § 282, in Essais sur la symbolique de l'esprit,
cit., p. 230).
163 AiOn, cit., § 123, p. 82.
164 Jung et la croyance religieuse, § 1624, in La vie symbolique, cit., p. 177.
sto, Jung confessa d'attribuire «una maggiore importanza alla pre-
senza viva e immediata dell'archètipo che non all'idea del Cristo
storico»l65. È ancora per questo che considera il Cristo come un
simbolo imperfetto del Sé, dato che, se il Cristo fosse perfetto, non
sarebbe totale (non contenendo in sé anche il male), mentre il Sé,
in quando include in sé anche il male, è totale ma non perfetto o,
più esattamente, trova la sua perfezione nella totalità, che è una
perfezione d'altro generel66. Per questo, Jung ancora dice che l'ac-
cesso al Sé - nel processo d'individuazione - deve avvenire «an-
nullando le proiezioni. di un Cristo esterno, storico o metafisico
che sia, [... ] dato che il Sé non può diventare reale e cosciente se
non annullando le proiezioni esterne».

2) Il Sé
1) La divinizzazione junghiana del Sé.
L'assolutizzazione del Sé corrisponde, nel pensiero di J ung, a
una divinizzazione del Sé.
Jung fa osservare che, sul piano empirico (il solo a noi accessibi-
le), il Sé e Dio non si distinguono: «Per quanto riguarda il Sé, egli
scrive, potrei dire che è un equivalente di Dio. [. ..] I due archètipi
vengono espressi, sul piano empirico, da simboli identici o analo-
ghi, sicché non è possibile distinguerli l'uno dall' altro»l67.
Del resto, Jung attribuisce al Sé un certo numero di qualità divi-
ne: essenziale ineffabilità, trascendenza, universalità, unicità, im-
mortalità, eternità, totalità, perfezionel68. E scrive anche: «Del Sé
potremmo dire che è "Dio in noi"»l69.
Per certi aspetti, il Sé junghiano è assai vicino al Sé dell'indui-
smo, e del resto Jung non nasconde d'aver proprio da esso tratto
la nozione170.
Ma nello stesso tempo, per J ung il Sé resta una realtà psichica
cl' ordine naturale. Questo naturalismo confina con il materialismo,
dato cheJung, lo vedremo, assimila gli archètipi dell'inconscio collet-
tivo, che costituiscono la parte essenziale del Sé, a degli istinti, a delle
energie o delle tracce lasciate nel cervello da ripetute esperienze.
· 165 Aion, cit., § 123, p. 82.
166 Ibidem.
167 Leuera del 13 gennaio 1948 al dr. Gebhard Frei.
168 Si vedaAion, cit., § 75, p. 59; § 115, p. 76-77; § 123, p. 83.
169 Dialectique du moi et de l'inconscient, cit., § 399, p. 255.
no Psychologie et religion, cit., § 140, p. 164.

72
Che il Sé, nel pensiero di J ung, non sia una manifestazione o
un'espressione di Dio, ma che piuttosto sia Dio a essere una deifi-
cazione del Sé, si rivela con chiarezza in questa spiegazione: il sim-
bolo «è al di là dell'uomo; per questo, lo si chiama "Dio", perché
esprime una realtà spirituale (o un fattore) più forte dell'Io (io lo
chiamo il Sé)»171. _
Questo paradosso - divinizzazione d'una realtà naturale - si ri-
solve sapendo che la religione diJung è in realtà una sorta di pan-
teismo. Peraltro, in una maniera che gli è assai caratteristica, Jung
fa notare che il Sé <<ha diritto di rivendicare le esigenze più con-
traddittorie, la parentela con gli animali non meno che con gli dèi,
con i minerali ma anche con le stelle»172.
Questo panteismo di Jung ha una qualche parentela con quello
di Hegel, dato che il Sé cerca d'arrivare alla coscienza di sé attra-
verso lo sviluppo storico delle sue varie espressioni simboliche.
Sotto questo aspetto, la conclusione della celebre conferenza di
Strasburgo ben lo caratterizza: «Sui bordi della vita dello spirito
che eternamente si rinnova, che per tutta la storia dell'umanità
cerca il suo fine per vie confuse e spesso incomprensibili, i nomi e
le forme cui gli uomini tentano d'aggrapparsi contano ben poco,
dato che gli esseri non sono niente di più che dei frutti e delle fo-
glie caduche sul medesimo tronco dell'albero eterno»173.

2) La duplice dimensione etica del Sé.


Ancora un'altra caratteristica del Sé attira I' attenzione. Per
Jung, il Sé rappresenta la totalità dell'uomo, totalità che com-
prende l'io cosciente, l'inconscio personale e l'inconscio colletti-
vo. E del Sé, l'inconscio collettivo è la parte più importante, sot-
to l'aspetto sia della quantità che della qualità. Esso rappresenta
nell'uomo la parte trascendente di lui, se così possiamo dire,
quella che contiene tutti gli archètipi. Per Jung, il Sé «è un'unità,
ma duale, fatta di due opposti; altrimenti non sarebbe una totali-
tà.>>174. Il Sé ha una parte luminosa, per il cristiano simboleggiata
dal Cristo, ma anche «una metà oscura», simboleggiata dal Dia-
volo o dall'Anticristo. Per questo, la luce e l'ombra sono «riparti-
171 Lettera del10 gennaio 1929 al dr. Kurt Plachte.
172 Dialectique du moi et de l'inconscient, cit., § 398, p. 254-255. Jung parla della namra
anche come di «Un aspetto della divinità» {lettera del 25 ottobre 1955 a Palmer A. Hilty).
m Des rapports de la psychothérapie et de la direction de conscience, § 538, in La guérison
psychologique, cit., p. 300.
174 Lettera del 10 aprile 1954 al p. Victor White.

73
te in ugual maniera nella natura umana» e <<formano nel Sé un'u-
nità paradossale»l 75.
Altrove Jung dice che «al concetto di Sé non si può attribuire il
qualificativo summum bonum, dato che per definizione esso rap-
presenta un'unificazione virtuale di tutti gli opposti»176, dunque
del bene e del male. Per questo, Jung simboleggia il Sé con una
croce il cui braccio verticale unisce il buono al malvagio e quello
orizzontale lo spirituale al materiale177.
È come dire non soltanto che nell'uomo il bene e il male coesi-
stono, ma che questa coesistenza è naturale, normale e inevitabile
e dunque definitiva.
Possiamo qui costatare un'analogia fra la costituzione del Sé e la
costituzione di Dio, così come la concepisce J ung: in entrambi, be-
ne e male coesistono proprio per natura, inevitabilmente ed eter-
namente.
Non è un'analogia casuale: Jung, l'abbiamo visto, considera Dio
un'immagine o una proiezione del Sé. Peraltro, a più riprese Jung
afferma che la proiezione che costituisce l'immagine di Dio è di
carattere antropomorfico (d'altronde, «ogni immagine di Dio è
più o meno antropomorfica>>178). Costatando la coesistenza del be-
ne e del male nella realtà umana, era nella logica della sua teoria
che J ung l'attribuisse anche a Dio.
Jung pensa che <<noi non sappiamo come in Dio i contrari si ri-
concilino e s'uniscano», e neppure «possiamo capire come s'uni-
scono nel Sé». Quanto poi alla proporzione lì presente di bene e
di male, J ung pensa che, «dal punto di vista archetipico, la bilancia
pende un po' di più, ma proprio poco, dal lato positivo»179.

3) L'ombra
. La parte di male che esiste nel Sé esiste nell'inconscio collettivo
ma anche nell'inconscio personale1so. Jung la chiama «l'ombra»1s1

m Aion, cit., § 76, p. 56-57; dr.§ 117, p. 77.


176 Letteradel 18 giugno 1949 ad Armin Kesser.
m Cfr. Aion, cit., § 116, p. 77.
178 Ibidem,§ 99, p. 69.
179 Lettera del 14 aprile 1952 al p. Victor White.
180 Conscience, inconscient et individuation, in La guérison psychologique, cit., p. 266-267;
Psychologie de l'inconscient, cit., § 103, p. 120.
181 Il più delle volte Jung usa quest'espressione in un senso ristretto, riferendolo all'incon-
scio personale, ma a volte l'usa anche in un senso più ampio, applicandolo alla totalità del Sé.

74
e ritiene anche essa naturale e inevitabile: «Le tendenze riprovevo-
li fanno parte di noi come contributi al nostro essere esistente e
corporale: formano la nostra "ombra". [ .. .] Come posso esistere
nel mondo senza proiettare un'ombra? Il mio essere oscuro fa
perciò parte della mia integralità, e quando prendo coscienza del-
la mia ombra mi ricordo che sono un uomo fra gli altri e come gli
altri»l82.

e. I.: etica junghiana

1) Relatività della morale

Jung ritiene che «la morale costituisce una regolazione istintiva


delle attività che ordina l'esistenza comunitaria fin delle greggi>>.
Da quest'affermazione potremmo concludere che la morale è uni-
versale, fondata com'è sulla natura. Eppure, subito appresso Jung
non si perita di sostenere che <<le leggi della morale valgono soltan-
to nel chiuso d'un dato gruppo umano» e «al di là delle frontiere
esse smettono di essere valide»183.

2) Relatività del bene e del male

Sulla scorta delle sue speculazioni circa il bene e il male, J ung


arriva alla conclusione del <<Valore relativo del bene>> e del «non-
valore relativo del male»I84. Jung vuole attenersi a un punto di vi-
sta puramente psicologico. Ebbene, <<la psicologia non sa cosa so-
no il bene e il male in sé»I85. Il bene non si definisce che in rap-
porto al male e il male in rapporto al bene. La valutazione di ciò
che è bene e di ciò che è male dipende dunque dal giudizio che
uno dà sull'altro termine, e questo giudizio può cambiare a secon-
da delle circostanze e dei momenti. «Nei limiti del nostro universo
empirico, scrive Jung, il bene e il male costituiscono le due metà
d'un giudizio logico, come bianco e nero, destra e sinistra, alto e

182 Einige Aspekte der modernen Psychoterapie; trad. fr. in La guérison psychologique, eit.,
p.37.
183 Psychologie de l'inconscient, eit., § 30, p. 59-60.
184 Essai d'interprétation psychologique du dogme de la Trinité, § 258, in Essais sur la
symbolique de l'esprit, eit., p. 213.
185 Awn, eit., § 97, p. 67.
basso ecc. Sono dei contrari equivalenti, che per natura sono sem-
pre relativi alla situazione di chi dà il giudizio, si tratti d'una per-
sona o d'una legge. Noi non siamo in grado di arrivare empirica-
mente all'esistenza d'un assoluto»186.
Jung qui si rifà, approvandolo, all'insegnamento del filosofo
gnostico Carpocrate, secondo il quale <<il bene e il male non sono
che delle maniere di vedere dell'uomo» 187. E allora scrive: «Quel
che nell'uno è una virtù, nell'altro può venire considerato un vizio;
ciò che per l'uno è buono, per l'altro è veleno»188. Un'altra ragio-
ne della relatività del bene e del male è che «da un male può veni-
re un bene e da un bene un male»189.

3) Positività del male


Appoggiandosi alla gnosi e all' alchimìa (corrente esoterica che
in modo altrettanto forte ha influenzato il suo pensiero), Jung at-
tribuisce al male una positività: il male serve al bene ed è perfino
indispensabile perché questo si realizzi.
La conseguenza di tale principio è che l'uomo deve integrare il
male nella sua esistenza, e prima di tutto nella sua coscienza, e
che soltanto in questo modo egli può interiormente progredire.
Negare e reprimere il male in sé sarebbe sminuire la propria per-
sonalità. «Con la rimozione, scrive Jung, la personalità non si ar-
ricchisce per niente; al contrario, s'impoverisce e s'impania; ciò
che in base all'esperienza e alla conoscenza odierne appare de-
plorevole o perlomeno senza valore e senza senso, in un livello
più elevato dell'esperienza e della conoscenza potrà invece di-
ventare una fonte del meglio; naturalmente tutto dipende dall'u-
so che uno fa dei suoi demoni familiari. Dire semplicemente di
questi che non hanno alcun senso oppure si sbagliano è privare
la personalità dell'ombra che le appartiene. Ma quando si nega la
propria parte oscura si distrugge la forma di tutta una personali-
tà. Ogni "forma viva" ha bisogno di una densa ombra per essere
plastica. Senza ombra, una forma è soltanto un fantasma o un
miraggio» 190.

186 Lettera del 14 aprile 1952 al p. Vietar White.


187 Psychologie et religion, cit., § 133, p. 154.
!88 Jung et la croyaftce religieuse, § 1595, in La vie symbolique, cit., p. 166.
189 Ibidem,§ 1654, p. 194.
190 Dialectique du moi e de l'inconscient, cit., § 400, p. 356.

76
4) L'integrazione del male come condizione della buona salute
e dell'accesso alla pienezza
Nel quadro della terapeutica delle nevrosi, si deve arrivare al-
l'integrazione del male; quest'integrazione si rivela infatti come la
previa condizione d'ogni terapeutica. «Quando una persona fini-
sce nella nevrosi, invariabilmente abbiamo da fare con un'ombra
assai intensificata. E se quella persona si vuole guarirla, è indispen-
sabile aiutarla a trovare una via su cui la sua personalità cosciente
e la sua ombra possano vivere insieme»191. Torneremo più avanti
su questo punto.
Ma quest'assunzione del male deve avvenire - al di fuori d'un
quadro di terapeutica delle nevrosi - anche nel quadro più genera-
le della realizzazione di sé.
In particolare, l'uomo deve assumere, «gerarchizzandoli e inte-
grandoli in un insieme pieno di senso»l92, i suoi istinti - chiamati
anche «impulsi animali» -, che sono legati al suo corpo e fanno
parte dell'ombra, che è un'inalienabile dimensione di sé. Su que-
sto punto, Jung critica l'ascetica cristiana, che vuole liberare l'uo-
mo da tale dimensione istintiva: «È comprensibile che una scuola
psicologica che insiste sui lati oscuri dell'uomo [. ..] venga male ac-
colta, e perfino faccia paura; essa infatti costringe a un confronto
con le profondità insondabili del problema. Eppure, un oscuro
presentimento ci avverte che, avendo un corpo, questo corpo im-
placabilmente proietta un'ombra (come ogni corpo) e, se noi non
inseriamo questo lato negativo della nostra natura nell'insieme,
non siamo completi: se neghiamo il corpo, nori siamo più degli es-
seri a tre dimensioni, ma degli esseri appiattiti e che hanno perso
la loro essenzal93. Ebbene, questo corpo è un animale, con un' ani-
ma d'animale, è cioè un sistema vivente che obbedisce in modo as-
soluto all'istinto. Allearsi a quest'ombra vuol dire accettare l'istinto
e accettare anche i suoi giganteschi dinamismi, che minacciano in
sottofondo. Ebbene, è precisamente da tutto questo che la morale
ascetica del cristianesimo vuole liberare l'uomo, con il rischio di
sconvolgere nel profondo di lui la sua natura animale»l94.

191 Psychologie et religion, cit., § 132, p. 153-154.


192-Psychologie de l'inconscient, cit., § 88, p. 58.
193 Potremmo essere pienamente d'accordo con quest'ultima affermazione diJung, se per
lui il corpo non significasse soprattutto gli istinti.
194 Psychologie de l'inconscient, cit., § 35, p. 46.
L'integrazione del male deve avvenire, nel quadro del proces-
so d'individuazione, fino al più alto livello. Come abbiamo già
visto, il Sé è una totalità che include il bene e il male, ed è in
questa totalità che sta il suo compimento. A riguardo del quale,
Jung preferisce parlare di completezza (Vollstiindigkeit) piutto-
sto che di perfezione (Vollkommenheit), dato che questo è un
concetto troppo legato alla nozione di bene ed esclude il male.
«La parola "integrazione" significa completare e non già rende-
re perfetto»195.
Secondo Jung, compito dell'uomo è tendere alla completezza, e
ciò significa che egli «deve lasciar irrompere la sua totalità» e dun-
que accettare e assumere la parte del male che è nel Sé. In altre pa-
role, l'uomo non può giungere alla <<totalità» di sé, alla pienezza,
alla completezza, se non integrando anche il male. «Il processo
dell'individuazione inizia con la presa di coscienza dell' ombra»196
e prosegue con l'accettazione e l'integrazione cosciente della parte
di male che è nel Sé, in maniera da realizzare la conjunctio opposi-
torum che caratterizza il Sé197. Il fine dell'individuazione è buono,
per noi, dice J ung, «perché ci libera dal conflitto degli opposti,
che sarebbe altrimenti insolubile»198.
Questa concezione è in linea perfetta con la teologia di J ung, la
quale, l'abbiamo visto, integra il male nel seno stesso della divinità,
e anche con la sua concezione religiosa della vita, dato che per lui
<<la religione è una relazione con il valore più alto e più forte, e
non importa che esso sia positivo oppure negativo»199.
È però anche una concezione fortemente influenzata - anche
questo l'abbiamo già sottolineato - dallo gnosticismo e dall'alchi-
mìa, ma anche dalle filosofie dell'estremo Oriente, in particolare
l'induismo. Nelle sue Memorie, Jung scrive: «In India, ciò che so-
prattutto m'interessò fu la questione della natura psicologica del
male. Rimasi molto impressionato dalla maniera con cui questo
problema s'integra nella vita dello spirito indiano, e ne ricavai una
nuova concezione. [. .. ] Per un Orientale, il problema morale non
par essere al primo posto, come da noi. Per lui, il bene e il male

195 Lettera del 27 novembre 1958 ad A. Tjoa e R H. C. Janssen. Cfr. anche la lettera del
28 marzo 1955 al p. Lucas Menz.
1% Essai d'interprétation psychologique du dogme de la Trinité, § 292, in Essais sur la
symbolique del'esprit, cit., p. 239.
191 Cfr. Aion, cit., § 124-126, p. 83-84.
198 Jung et la croyance religieuse, § 1641, in La vie symbolique, cit., p. 187.
199 Psychologie et religion, cit., § 137, p. 161.

78
sono integrati nella natura e, in fondo, non sono che delle diffe-
renze di grado d'un solo e medesimo fenomeno»200.

f La teoria degli archètipi

Una gran parte del pensiero diJung si basa sulla teoria degli ar-
chetipi, che resta tuttavia una pura ipotesi.
Si potrebbe pensare che per Jung gli archètipi, che per la mag-
gior parte hanno un significato religioso e sono il punto di parten-
za di tutti i simboli religiosi, traggano la loro origine da quelle real-
tà trascendenti che pur esprimono. In una delle sue opere, Jung
infatti scrive: «Noi scopriamo un numero grandissimo di immagini
di Dio, ma l'originale resta introvabile. Per me è fuori dubbio che
dietro alle nostre immagini si nasconde l'originale, ma esso non ci
è accessibile>>20 1.
E tuttavia, vediamo che Jung concepisce gli archètipi secondo un
modello biologico, o fisiologico. In effetti, Jung è del parere che <<tut-
ti gli archètipi hanno una. vita propria, che si snoda secondo un mo-
dello biologico>>202; non solo, ma gli archètipi si sono formati nel cor-
so della storia dell'umanità in seguito alla ripetizione di esperienze
che hanno lasciato delle impronte nel cervello umana203. «L'archèti-
po, egli scrive, è una sorta [. .. ] di propensione a riprodurre di conti-
nuo le medesime rappresentazioni mitiche o immagini analoghe. Co-
sì stando le cose, pare che ciò che s'imprime e si esprime nell'incon-
scio sia esclusivamente la rappresentazione immaginifica e soggettiva
suscitata dal fenomeno fisico cui corrisponde e fa eco. Potremmo
dunque ammettere che gli archètipi siano costituiti dalle impronte,
tante volte impresse, delle reazioni soggettive>>204. Per questa ragione,
<<niente ci impedisce d'ammettere che certi archètipi esistano già ne-
gli animali, e, di conseguenza, che gli archètipi traggano esistenza
dalle particolarità stesse dei sistemi viventi, che siano puramente e
semplicemente un'espressione della vita, manifestazione la cui esi-
stenza e forma sfuggono a ogni tentativo di spiegazione>>205.

2 00Ma vie. Souvenirs, reves et pensées, trad. fr., Paris, 1966, p. 316-317.
201 ]ung et la croyance religieuse, in La vie symbolique, cit., p. 161.
202 Ibidem,§ 307, p. 205.
203 Psychologie de l'inconscient, cit., § 109, p. 124.
204 Ibidem,§ 109, p. 125.
205 Ibidem, p. 125-126.

79
Più avanti, Jung completa in questi termini la sua spiegazione:
«L'inconscio collettivo appare come il risultato di esperienze sedi-
mentate nell'esperienza umana dai tempi più remoti, e nello stesso
tempo come un a priori di quella stessa esperienza, un'immagine
preformata del mondo. In s~no a quest'immagine, nel corso dei se-
coli certi tratti hanno assunto un rilievo tutto particolare; parlo al-
lora di dominanti dell'inconscio collettivo o archetipico. Sono i va-
lori regnanti, gli dèi, cioè delle immagini di leggi predominanti, di
princìpi che derivano da medie regolari nella successiOne delle
rappresentazioni, di cui l'anima umana instancabilmente rifà l' e-
sperienza>>206. Se l'inconscio collettivo è identico in tutti gli uomi-
ni, è perché è impresso nel cervello e tutti hanno un cervello strut-
turato alla medesima maniera: <<L'uniformità universale dei cervelli
determina la possibilità universale d'un modo di funzionare men-
tale analogo. Questo modo di funzionare è appunto la psiche col-
lettiva>>207. ·
E questa concezione meccanicistica e biologistica, che potrem-
mo anche chiamare materialistica.208, non riguarda soltanto gli dèi,
ma anche gli altri <<Valori», come quelli etici. Se gli archètipi corri-
spondono alle impronte lasciate dalle più varie esperienze umane,
signilica che essi rappresentano quelle del bene ma anche quelle
del male. Ciò implica che le «immagini primordiali» formatesi sul-
la loro base «non contengono soltanto tutto ciò che di più bello e
grande c'è in seno a quanto l'umanità ha da sempre pensato, senti-
to e vissuto, ina anche tutte le peggiori infamie e le peggiori inven-
zioni di cui gli uomini sono stati capaci>>209. Questa concezione è
petlettamente in linea sia con la teologia di Jung, che introduce il
male nel cuore stesso del divino e in seno al Sé, sia con la sua etica,
che considera il bene e il male come due realtà ugualmente sostan-
ziali e inseparabili.

206 Ibidem,§ 151, p. 165. .


201 Dialectique du moi et de l'inconscient, § 325, p. 64-65.
208Glielo rimprovera per esempi.o E. Pavesi, «Di.e Gottesvorstellung des C. G. Jung», in
Factum, 1991, p. 33. In relazione con gli archèti.pi, bisogna osservare che la libido, che a quelli
è strettamente associata, è concepita daJung secondo un modello fisico, d'ordine quantitativo.
Nelle sue Memorie, scrive d'avere immaginato la libido «come un'analogia psichica dell'ener-
gia fisica, dunque come un concetto approssimativamente quantitativo, ed è per questo che
egli respinse ogni determinazione qualitativa della libido»; aggiunge poi ancora: «Anche in fisi-
ca si parla di energia e di sue manifestazioni., sotto forma di elettricità, luce, calore ecc. In psi-
cologia è esattamente la stessa cosa. Anche qui si tratta in primo luogo di energia (cioè di valo-
re d'intensità, in più o in meno)» (Ma vie. Souvenirs, reves et pensées, trad. cit., p. 242-243).
209 Psychologie de l'inconscient, cit., § 110, p. 126.

80
g. Conseguenze sulla psicoterapia

1) La diagnosi fondamentale delle turbe psichiche:


il conflitto interno
Considerando le cose nella loro generalità, J ung concepisce le
malattie mentali come l'espressione d'un conflitto interno. <<La ne-
vrosi è una disunione interiore, una discordia intestina; tutto ciò
che rincrudisce questa discordia dentro di noi aggrava il male, tut-
to ciò che l'allevia porta alla salute. Ciò che provoca tale discordia
è l'intuizione, o perfino conoscenza, che nel cuore della medesima
persona vivono due esseri, che si comportano in maniera antitetica
fra loro, un po' come dice Faust. "Due anime, ahimè!, vivono nel
mio petto": l'uomo sensuale e l'uomo spirituale, l'io e la sua om-
bra ecc.>>210.
Il conflitto fondamentale è quello che oppone l'io cosciente e
l'inconscio, personale da una parte e collettivo dall'altra.

2) Il principio di base della terapeutica: la riconciliazione

Per Jung la terapeutica consiste essenzialmente nell'armonizza-


zione e, prima ancora, nella riconciliazione degli elementi psichici
coscienti e inconsci, che costituiscono degli opposti e sono fra loro
in conflitto2 11 .
Questa conciliazione dei contrari corrisponde peraltro a una
tendenza naturale dell'inconscio, che la terapeutica fa passare allo
stato cosciente e controlla con la volontà: «Per me è stato il discor-
so della natura, che spontaneamente concilia i contrari, a far da
modello e fondamento d'un metodo che nella sua essenzialità ten-
de a suscitare intenzionalmente ciò che per natura si verifica in
maniera spontanea e inconscia e a integrarlo nella coscienza, nel
suo modo concettuale. In effetti, la disgrazia di molti malati è la
loro impossibilità di trovare dei mezzi o delle vie che facciano loro
assimilare gli avvenimenti di cui sono il teatro>>212.
Si tratta anzitutto (una volta superata l'identificazione dell'io con

210 Des rapports de la psychothérapie et de la direction de conscience, § 522, in La guérison


psychologique, cit., p. 291.
211 B. Kaempf ritiene che il tema degli opposti sia il tema per eccellenza del pensiero jun-
ghiano (op. cit., p. 188), e proprio per questo mise la parola riconciliazione nel titolo del libro
dedicato al pensiero di Jung.
212 Psychologie de l'inconscient, cit., § 121, p. 144.

81
la persona, che corrisponde al ruolo sociale dell'individuo) di ricon-
ciliare l'io cosciente con la sua ombra (che fa parte dell'inconscio
personale ma anche, in senso più ampio, dell'inconscio collettivo).
Quest'ombra è costituita in ogni uomo, già l'abbiamo visto, «dal-
l'uomo primitivo e inferiore, con le sue avidità e le sue emozioni»,
con <<le sue esigenze corporali» e le sue malvagie tendenze d'ogni
sorta. Si tratta allora di passare «all'accettazione dei lati d'ombra
della naturà umana, e dunque accettare il diritto a esistere dello
sragionevole, dell'insensato, del malvagio>>213. Il «malato» ha biso-
gno che lo psicoterapeuta laccompagni in questo percorso: qui
J ung distingue il suo metodo da quello di Freud, che «si limita a
rendete cosciente il male e il mondo delle ombre», che «si limita
puramente e semplicemente a inaugurare la guerra civile fin lì la-
tente», mentre lascia che per il resto il malato «veda da sé come
uscirne>>214. Per Jung, l'uomo che vuole guarire (e poi anche arriva-
re a una piena realizzazione di sé) non può limitarsi a prendere atto
della parte di male che c'è in lui, ma deve poi ancora accettarla, in-
tegrarsela e farla propria; è, questa, l'unica soluzione valida,

dato che, per un verso, la soppressione pura e semplice dell'ombra


non costituisce un rimedio, come la decapitazione non è un rimedio
per l'emicrania; ma neppure, per altro verso, la distruzione della mora-
le d'un uomo gli sarebbe d'aiuto, perché ciò distruggerebbe anche il
suo miglior io, senza il quale anche l'ombra non avrebbe più senso. Per
questo, la riconciliazione dei contrari è uno dei più grandi problemi
che esistano. "
Lo era già per Carpocrate [. ..] , filosofo neoplatonico la cui scuola
[. ..] insegnava che il bene e il male non sono che modi di vedere del-
l'uomo, mentre le anime, prima di morire, dovrebbero aver vissuto tut-
te le esperienze umanamente possibili, anche le più estreme, se non vo-
lessero ricadere nella prigione del corpo. L'anima, professava quella
dottrina, in certo qual modo non può liberarsi dalla sua schiavitù nel
mondo somatico del Demiurgo se non pagando il riscatto integrale da
tutte le necessità della vita [dunque comprese anche le più malvagie].
[. .. ] Rispetto all'altra dottrina gnostica, secondo la quale non si può ve-
nire liberati da un peccato che non si è commesso, noi vediamo qui un
problema della più grande importanza, che sono stati i filosofi neopla-
tonici a sollevare215.

2U Des rapports de la psychothérapie et de la direction de conscience, § 528, in La guérison


psychologique, eit., p. 293.
214 Ibidem,§ 531, p. 295.
215 Psychologie et religion, cit., § 133, p. 154-155.

82
È in questo senso, tipicamente gnostico, che Jung interpreta
l'insegnamento del Cristo, il quale condanna chi va in collera con-
tro il fratello (cioè, secondo Jung, l'ombra o la parte di male che
uno ha in sé) e comanda di riconciliarsi e mettersi d'accordo con
lui (cfr. Matteo 5,22).
Per Jung, ciò che definisce il valore d'un comportamento non è
già il fatto che esso sia buono oppure malvagio, ma che sia co-
sciente oppure non lo sia. E ancora una volta si rifà a un insegna-
mento gnostico: «Se sai ciò che fai, sei beato; ma se non sai ciò che
fai, sei dannato>>216.
Jung ammette che ciò corrisponde a un processo di conversione
interiore. <<La transizione dal mattino al pomeriggio della vita av-
viene attraverso una sorta di trasmutazione dei valori. È assoluta-
mente necessario che riconosciamo la validità non più dei nostri
vecchi ideali ma dei loro contrari, che vediamo l'errore di quella
che fin lì era la nostra convinzione, che sentiamo la menzogna di
quella che era la nostra verità. [. .. ]Non è che dobbiamo tendere a
una conversione radicale, ribaltando tutto lo stato di cose anterio-
re, ma a una conservazione degli antichi valori cui si aggiunge la
presa in considerazione dei loro contrari>>2I7_

3) Attuazione della terapeutica: l'apertura controllata


all'inconscio collettivo
Il confronto con I'ombra è soltanto la prima tappa d'un proces-
so attraverso cui l'uomo si apre all'inconscio collettivo, avviando

216 Ibidem,§ 133, p. 156.


211 Psychologie de l'inconscient, cit., § 115-116, p. 134-135. Nel suo studio ]ung, le Christ
aryen, Paris, 1999, p. 81-108, R Noli, professore di psicologia e di storia delle scienze ad
Harvard, dimostra che su questo punto Jung subì l'influenza non soltanto dello gnosticismo e
della corrente esoterica dell'alchimìa, ma anche quella d'un personaggio particolarmente tor-
vo, Otto Gross, <<medico nietzschiano, psicanalista freudiano, anarchico, gran sacerdote della
liberazione sessuale, organizzatore d' orge, morfinomane ed eroinomane forsennato», e insie-
me «brillante, carismatico e svitato». Jung ebbe l'incarico da Freud di psicanali2zarlo, in un
periodo in cui stava vivendo una situazione critica. MaJung confessa di esser stato lui stesso
trasformato da quella relazione. «In Gross, scrive in particolare, feci l'esperienza di troppi
aspetti della Inia stessa natura, tanto da apparirmi spesso come il Inia fratello gemello». Scri-
ve al riguardo Noli: «In quella loro relazione, Gross mostrò aJung il frutto proibito. E dopo
una tormentata riflessione, Jung finì per cedere. La sua concezione della natura del "peccato"
si trasformò; "fare il male" poteva avere un effetto benefico sulla personalità, liberandoci
dall'"univoco" e facendoci ritrovare il contatto con un essere istintivo da Eden. Jung finì per
credere che non cedere a una pulsione sessuale poteva anche far ammalare e perfino portare
alla morte. E tutte queste idee non avrebbe mai più smesso d'ingiungere agli altri di praticar-
le» (p. 98-99).

83
così quel suo processo d'individuazione attraverso cui compirà la
totalità di sé che il Sé rappresenta.
Per Jung, è nelle associazioni e nei sogni che si rivelano non sol-
tanto i complessi e i conflitti presenti nella psiche e che sono re-
sponsabili delle nevrosi218, ma anche gli archètipi, che sono i con-
tenuti dinamici dell'inconscio collettivo capace di strutturare e dar
senso a ciò. che egli interiormente vive219. A differenza di Freud,
Jung ritiene che il sogno sia un puro prodotto della natura e ci ri-
veli l'inconscio in maniera diretta, senza travestimenti, senza essere
la maschera d'altra cosa220.
Qui non possiamo scendere nei particolari della concezione jun-
ghiana dell'apertura all'inconscio, che egli espone soprattutto in
Psicologia dell'inconscio e Dialettica dell'io e dell'inconscio. Ci limi-
tiamo a far osservare che per Jung il confronto con l'inconscio è a
priori fitto di pericoli. In effetti, <<l'inconscio presenta due aspetti:
uno buono, favorevole, benefico; l'altro cattivo, malevolo, disastro-
so>>221. L'individuo che si apre all'inconscio rischia di farsi inghiotti-
re dall' «oceano» che irrompe, in ondate flagellanti, attraverso la
breccia che si è formata. In particolare, rischia di rifiutare l'incon-
scio, oppure d'assoggettarvisi senza spirito critico222; in quest'ulti-
mo caso, rischia d'identificarsi con i contenuti dell'inconscio collet-
tivo e finire allora vittima - attraverso quello che J ung chiama un
fenomeno d' <<inflazione» - d'una super-valorizzazione e d'una de-
valorizzazione improprie di sé. Il fine dell'apertura all'inconscio è
di far emergere il Sé, ma liberandolo dalla forza suggestiva di quelle
immagini dell'inconscio che rischiano d'alienarne la personalità223.
Per aiutare l'individuo a tener testa ai contenuti dell'inconscio che
si presentano come ambivalenti e pericolosi e rispetto ai quali ri-
schia di perdere i suoi punti di riferimento e perdere se stesso, lo
psicoterapeuta rappresenta un aiuto indispensabile.

4) La fiducia nella natura e nell'inconscio

Per Jung, l'inconscio non è pericoloso se non quando l'uomo se

218 Si veda Psychologie et religion, cit., § 37, p. 43; Psychologie de l'inconsdent, § 21-26,
p. 51-56.
219 Psychologie et religion, cit., § 88, p. 102.
220 Ibidem, § 136, p. 160.
221 Lettera del 27 marzo 1954 al pastore W Lachat, § 1538, in La vie symbolique, cit., p. 139.
= ]ung et la croyance religieuse, § 212, in La vie symbolique, cit., p. 160.
223 Dialectique du moi et de l'inconsdent, cit., § 269, p. 117.

84
ne lascia sedurre e dominare. Ma se, al contrario, l'uomo perviene
con piena coscienza a integrarselo e a dominarne i contenuti, allo-
ra l'inconscio costituisce una guida preziosa e in grado, in forza
delle sue leggi e del suo dinamismo, di ristabilire nell'uomo w:i
equilibrio infranto, dal momento che gli archètipi che esso contie-
ne hanno un valore e una funzione strutturanti.
«Io penso, scrive Jung, che una perdita di equilibrio può essere
salutare, perché, grazie a essa, il cosciente che vien meno sarà so-
stituito dall'attività automatica e istruttiva dell'inconscio; questi
tenderà alla ricostituzione d'un nuovo equilibrio, fine che esso è
capace di far raggiungere, purché il cosciente sia in stato d'assimi-
lare i contenuti prodotti dall'inconscio, cioè comprenderli e inte-
grarseli>>224.
Questa concezione dell'inconscio, assimilato alla fin fine alla
manifestazione d'una natura fondamentalmente buona (dato che
anche al male va attribuita, nella totalità di questa natura, una
funzione positiva), la ritroviamo anche in que·st' altro passo:
«Quando si riesce ad attivare questa funzione, che io ho chiamato
trascendente, la disunione con se stessi cessa e il soggetto potrà
beneficiare degli apporti positivi dell'inconscio. Perché, appena la
dissociazione fra i vari elementi di noi cessa, l'inconscio presta -
l'esperienza lo prova con abbondanza - tutto I' aiuto e tutti gli
slanci che una natura benevola e prodiga può concedere agli uo-
mini. La ragione è che l'inconscio contiene in sé delle possibilità
assolutamente inaccessibili al cosciente, dato che esso dispone
[... ] di tutta la saggezza conferita dall'esperienza di millenni innu-
merevoli, saggezza depositata e affidata alle sue strutture archeti-
piche. [...] Per questo, l'iiiconscio può essere per l'uomo una gui-
da ineguagliabile, con la sola condizione che sappia resistere alle
seduziollÌ>>225.

5) L'assenza d'una precisa concezione della malattia e della salute

Jung ha fatto un grandissimo lavoro sul ruolo del religioso nella


vita psichica; eppure, le sue applicazioni alla diagnosi e alla tera-
peutica delle malattie mentali restano molto esitanti. Perché J ung
non ha una ben precisa concezione né della malattia né della salu-

224 Ibidem,§ 253, p. 92-93.


225 Psychologie de l'inconscient, cit., § 196-197, p. 198.

85
te mentale; del resto, è un'imprecisione che rivendica e coltiva226.
Per questo, Jung non ha elaborato nessuna precisa teoria sull' ori-
gine delle malattie mentali, nella loro specificità, né una terapeuti-
ca adattata a ciascuna di esse. Diversamente dalle teorie di Freud,
che tendono alla precisione e alla coerenza, le concezioni di Jung
restano vaghe e generiche.
Si resta colpiti, nell'opera di J ung, dall'assenza di norme precise
che permettano sia di valutare la natura e il grado della malattia sia
d'orientare con rigore la terapeutica. Riassumendo questa conce-
zione di Jung,_ scrive E. Perrot: <<Agli occhi di J ung, il ventaglio
delle psicoterapie non è meno vario della natura umana. Non si
può stabilirle nessun fine a priori. L'evoluzione psicologica è per
essenza imprevedibile. Le intenzioni e le vie della natura non sono
le nostre; la nostra disposizione a loro riguardo deve dunque esse-
re una vigile attenzione, congiunta a una disponibilità totale. Men-
tre la terapeutica di Freud si limita a far affiorare alla coscienza i
contenuti personali inconsci che, per essere stati trascurati oppure
repressi, turbano la vita cosciente, Jung non si contenta di voler ri-
stabilire una normalità che resta tutta da definire. Facendo dell'in-
conscio un'energia preesistente all'io, egli non fissa limiti al rigo-
glio della sua attualizzazione e ammette tutte le possibili forme di
realizzazione, unicamente stando attento a salvaguardare il con-
trollo dell'io cosciente»227.
Quando sviluppa la sua concezione dell'apertura all'inconscio e
invita ad accoglierne con discernimento i contenuti, per poterli far
propri in tutta coscienza e padronanza, Jung non fornisce nessuna
norma precisa e si ferma a delle generalità. Gli basta che nella psi-

226 Si veda Medizin und Psycbotberapie, in Gesammelte Werke, cit., t. 16, 1958; trad. fr.
Médecine et psycbotbéi-apie, in La guérison psychologique, Genève, 1953, p. 17-19. A riguardo
della diagnosi, Jung scrive per esempio: <<La diagnosi della malattia è qualcosa d'assoluta-
mente secondario. [.. .] Con l'andare degli anni, personalmente ho preso l'abitudine di fare a
meno d'ogni diagnosi specifica delle nevrosi. [. .. ] Se in medicina generale è molto importante
e auspicabile avere una diagnosi e poterne disporre•per procedere con sicurezza, in psicotera-
pia è altrettanto vantaggioso fare il più possibile a meno d'una diagnosi specifica. [. .. ] In ge-
nerale, quante meno cose lo psicoterapeuta sa in anticipo, tante maggiori possibilità ha la cu-
ra di evolvere favorevolmente>>, E a proposito della terapeutica: «Per le psiconevrosi, la sola
direttiva psicoterapeutica che resta valida è che il trattamento dev'essere un trattamento psi-
chico. Ma quando poi è questione di passare al trattamento specifico, allora ci troviamo da-
vanti a un'infinità cli metodi, regole, concezioni e dottrine, e quel che il nostro campo ha di
singolare è che, alla fine, qualunque sia il procedimento terapeutico cui uno si rif'a, si ha suc-
cesso, qualunque sia la nevrosi. Per questo dobbiamo costatare che, nel campo della psicote-
rapia, le varie dottrine di cui oggi si fa largamente e pomposamente sfoggio, alla fin fine non
possiedono poi tutto quel gran potere>>.
227 E. Perrot, <~ung (Carl Gustav)», in Encyclopaedia universalis, Paris, t. 9, 1968, p. 562.

86
che i conflitti cessino e l'uomo passi a quella che egli considera la
totalità di sé.
Quest'aspetto del pensiero e della pratica diJung può apparire as-
. sai seducente, per il suo carattere libertario e aperto; ma è anche ben
insufficiente rispetto alla necessità di trattare delle patologie specifi-
che avendo a disposizione un precis,o modello di salute che possa
aiutare i pazienti a dirigere e organizzare il loro comportamento.
È un bilancio ben smilzo, alla fin fine, quello cheJung fa dei risµl-
tati della sua pratica terapeutica: «In quanto medico, ho potuto toc-
care con mano tutta la profonda miseria e dissociazione dell'uomo
d'oggi. Ho aiutato un gran numero di persone a diventare un po'
più coscienti di sé e ad accettare che son fatte di componenti diver-
se, luminose e oscure. È questo che io intendo per integrazione: di-
ventare espressamente cosciente di ciò che si era in origine>>228.
Se la psicanalisi freudiana si limita ad aiutare l'uomo a prendere
coscienza, verbalizzandoli, dei contenuti del proprio inconscio, la
psicologia analitica di Jung non tende che ad aiutare l'uomo a
prendere coscienza della propria parte oscura e a farla propria. Ma
né più né meno di Freud, neanche Jung ha da offrire una vera te-
rapia dell'anima che costituisca un superamento ontologico della
malattia e un accesso a una sanità che corrisponda a una modalità
superiore di esistenza. Per Jung come per Freud, la guarigione sta
nel restaurare un relativo equilibrio tra forze in conflitto, ma equi-
librio in cui la qualità etica o spirituale delle forze non ha, in ulti-
ma analisi, importanza alcuna.

h. Riserve supplementari sulla teoria junghiana

La nostra esposizione ha mostrato con abbondanza tutto ciò


che d'incompatibile c'è, nella teologia e nell'etica junghiane, con la
concezione cristiana di Dio e dell'uomo. In questi campi, le conce-
zioni di J ung si basano su certe idee gnostiche che i Padri combat-
terono fin dai primi secoli e la cui continua riapparizione, nel cor-
so della storia, presso varie sètte e correnti esoteriche ha sempre
suscitato, da parte dei rappresentanti della tradizione cristiana,
delle critiche ben note. ·
In questa sezione conclusiva ci limiteremo a richiamare alcuni

228 Lenera del 27 dicembre 1958.

87
altri punti del pensiero junghiano che si rivelano problematici dal
punto di vista del cristianesimo in generale e d'una terapia d'ispi-
razione cristiana in particolare.

1) La confusione fra divino e umano, naturale e soprannaturale,


spirituale e psichico
I presupposti metodologici (naturalistici) e filosofici (kantiani)
di J ung creano una rottura e una separazione (quasi schizofrenica)
fra il mondo psichico, di cuiJung si occupa in modo esclusivo, e la
realtà metafisica (inconoscibile e inaccessibile) di cui esso è l' e-
spressione.
Il divino viene confuso con l'umano, per la ragione che si ritro-
va de facto ridotto a degli archètipi (o a loro espressioni simboli-
che) appartenenti alla psiche umana, più esattamente all'inconscio
collettivo.
Abbiamo anche visto che, in linea generale, Jung trasferisce ne-
gli archètipi del divino una gran parte degli attributi abitualmente
riferiti a Dio.
De facto, soprannaturale e naturale vengono confusi, a tutto
vantaggio di quest'ultimo: la trascendenza di Dio si riduce alla tra-
scendenza degli archètipi e dell'inconscio collettivo cui essi appar-
tengono, di contro alla coscienza e all'inconscio personali229.
Quanto alla grazia, non è che I'espressione d'una forza legata al di-
namismo degli archètipi.
Infine, anche lo spirituale e lo psichico vengono confusi, dato
che lo spirituale non è che una dimensione dello psichico, quella
dimensione per cui è in relazione con l'inconscio collettivo.
Le relazioni fra Dio e l'uomo e, reciprocamente, fra l'uomo e
Dio (relazioni che costituiscono di per sé il campo della spirituali-
tà) si riducono di fatto a relazioni fra la dimensione cosciente della
psiche e la sua dimensione inconscia (collettiva).
Per Jung, nell'uomo la fede si riduce in realtà alla fede nella
propria esperienza interiore230.

229 «La trascendenza, scrive Jung, non è nient'altro se non ciò che è per noi inconscio»
(lettera del giu,,ono 1957 al dr. Bemhard Lang).
z3o «Siccome mi chiedete se faccio parte dei credenti, scrive a un suo corrispondente, eb-
bene, mi sento obbligato a rispondervi: no». E aggiunge: «Sono certamente fedele alla mia
esperienza interiore e ho la pfstis nel senso paolino» (lettera del 5 gennaio al dr. Erich Neu-
mann), per pfstis intendendo <<la fedeltà (lealtà), la fede e la fiducia in una certa esperienza
dagli effetti numinosi» (Psychologie et religion, § 9, p. 19).

88
2) L'assenza di relazione con un Dio trascendente

Siccome J ung rifiuta di pronunciarsi sull'esistenza in sé di Dio


e prende in considerazione la realtà religiosa soltanto da un
punto di vista puramente psicologico, per questo anche la di-
mensione religiosa della diagnosi e della terapeutica resta pura-
mente psicologica e si riduce a un rapporto del paziente con· se
stesso (più esattamente, fra due dimensioni della sua psiche, il
suo io cosciente e il suo Sé, che include l'inconscio personale e
l'inconscio collettivo) e con il suo terapeuta, ma non diventa la
relazione con un Dio d'una natura diversa dalla sua e che la tra-
scende.
L'uomo non può contare sull'aiuto d'una grazia che sia una
forza trascendente, soprannaturale. Se per Jung esiste sì un'espe-
rienza della grazia, quest'esperienza resta puramente psicologica
e non mette in gioco se non l'uomo. La forza che l'uomo può ri-
cevere a proprio sostegno,- per avanzare e riuscire a compiersi,
non è una grazia soprannaturale che viene da Dio, ma una forza
naturale legata ali' archètipo di Dio e che proviene dal carattere
«numinoso» di quest'archètipo231.
Uscita dall'inconscio collettivo, che appartiene al campo della
natura, questa forza permette all'uomo di superare i limiti del
suo io cosciente e del suo inconscio personale232, ma non quelli
della sua natura decaduta.
La deificazione di cui i Padri greci fanno l'ideale e il fine della
vita cristiana non consiste già, per J ung, in una trasformazione
dell'uomo in forza del suo accesso a una modalità di esistenza di-
vina, ma si riduce piuttosto a «portare Dio in sé>>233, nel senso
che a quest'espressione dà Jung, cioè ad aprirsi all'archètipo di
Dio e all'energia di quest'archètipo (la libido) presenti nella prin-
cipale dimensione del Sé, che è quella dell'inconscio collettivo e
di cui l'io non è immediatamente cosciente.

23! Jung spiega che <<l'immagine psichica di Dio [. .. ] esercita una potente azione nell' ani-
ma>>, ma ciò, «per la scienza, non ha niente da vedere con l'esistenza di Dio; è piuttosto uni-
camente una questione di fenomenologia delle dominanti cosiddette psichiche, si chiamino
Dio, Allah, Buddha, Purusha, Zeus, Zodiaco oppure Sessualità» (lettera del 7 aprile 1945 al
pastore Max Frischknecht).
232 Si vedaMétamorphoses de l'ame et ses symboles, cit., § 89, p.123-125.
233 Ibidem,§ 130, p. 167-168.

89
3) L'assenza di relazione con un Dio personale

Nel quadro della teoria di Jung, la relazione personale dell'uo-


mo con un Dio personale diventa impossibile, oppure fittizia; e ciò
per molte ragioni:
1) Dio in sé (cioè nella sua esistenza <<metafisica») è, per Jung,
assolutamente inconoscibile e inaccessibile, e dunque assoluta-
mente indeterminato.
2) Dio non è accessibile se non attraverso degli archètipi univer-
sali e dei simboli di questi archètipi, che hanno un valore relativo;
çiò dissolve il Suo carattere e la Sua identità personali.
3) Dio è de facto identificato con la Sua immagine, la quale a sua
volta s'identifica con il Sé, che rappresenta la totalità dell'uomo ed
è esso stesso indeterminato e d'una natura collettiva, dunque im-
personale.
4) Dio si ritrova ridotto a una nozione psicologica e non è rico-
nosciuto come realtà ipostatica: «Quando parlo del concetto di
Dio, scrive J ung, non mi riferisco che alla sua psicologia e non alla
sua ipostasi>>234.
Legittimamente Martin Buber ha rimproverato alla psicologia
della religione di J ung di non essere che una religione della pura
immanenza psichica, in cui non è più possibile distinguere fra il
soggetto e l'oggetto dell'esperienza religiosa, dato che la coinci-
denza fra Dio e il Sé rendono impossibile una relazione interper-
sonale fra un io e un Tu235.

4) Il ruolo secondario della relazione con l'altro

Non si può poi anche non notare che J ung ignora quella che è
invece una componente essenziale del modo di esistenza cristia-
no, indissociabile dalla relazione con Dio, cioè la relazione con
gli altri, che deve compiersi nella carità. Mentre la forma di que-
sta relazione svolge un ruolo essenziale nella salute e nella ma-
lattia (sia psichiche che spirituali) dell'uomo, Jung concepisce il
percorso terapeutico nel quadro d'un cammino puramente indi-
viduale236.

Lettera del 1° giugno 1933 al dr. P. Maag.


234
Gottesfinsternis, Zurich, 1953.
235
Si veda in particolare Des rapports de la psychothérapie et de la direction de conscience,
236
§ 525-526, in La guérison psychologique, cit., p. 293.

90
5) Il rifiuto dell'ascesi cristiana
Jung ha una posizione estremamente negativa nei confronti del-
1' ascesi cristiana; né soltanto di certe forme deviate che essa poté
assumere nel corso della storia (e ciò potremmo anche capirlo),
ma pure com' essa si manifesta fin dai primi secoli del cristianesi-
mo nell'insegnamento dei Padri della Chiesa. Le rimprovera, in
particolare, di voler estirpare il male dalla natura umana, invece
d'accoglierlo, com' egli vuole. Ben lontano dal vedere nell'ascesi 'un
modo di vita liberatorio, Jung, al contrario, è dell'idea che essa si
limiti a soffocare il male e così perpetuare i conflitti in seno alla
psiche.
Questa concezione di Jung ha la sua radice nelle prospettive
teologiche ed etiche della sua teoria, che egli ricavò dallo gnostici-
smo e da varie correnti esoteriche (in particolare l'alchimìa), se-
condo le quali il male ha una sostanza, è indissociabile dal bene, fa
parte in maniera inalienabile sia della realtà umana che di quella
divina e in esse svolge un ruolo positivo né più né meno del bene.
Infine, Jung presenta l'imitazione del Cristo come una prima
tappa della vita spirituale, ma tappa chiamata a essere superata. Ai
suoi occhi, in effetti, il Cristo non potrebbe essere un modello dal
valore assoluto, essendo perfetto ma non completo. Per lui, infatti,
la completezza (che prevede l'inclusione in sé anche del male), co-
me abbiamo visto, è preferibile alla perfezione; sta qui la ragione
per cui egli rifiuta la santità come norma cristiana di sanità spiri-
tuale e di compimento di sé in Dio.
Se nel suo processo d'individuazione l'uomo deve anzitutto op-
tare per il bene - allorquando si scontra con la sua ombra -, e per-
ciò imitare il Cristo (che in questo stadio rappresenta il Sé), tutta-
via egli deve, a un livello più alto, tendere a superare anche il con-
flitto con il male e con le tenebre, integrandoli nell'unità dello Spi-
rito Santo, unità che corrisponde alla totalità del Sé e «all'unione
degli opposti divini» che esso rappresenta237. Insomma, l'avvento
del Diavolo completa la venuta del Cristo, ma senza che quello im-
plichi tuttavia un superamento di questa: «Il simbolo eristico del
Sé non viene svalorizzato dall' adventus diaboli. Al contrario, se ne
ritrova completato. È una misteriosa metamorfosi dei due aspetti
che qui si compie>>238; «se costato che il Cristo non è un simbolo

237 Lettera del 24 novembre 1953 al p. Victor White.


23s Ibidem.

91
completo del Sé, non lo rendo più completo sdegnandolo. Bisogna
che io lo mantenga e a questo lumen de lumine io aggiunga l' oscu-
rità, se voglio dare una. forma al simbolo della perfetta ambivalen-
za interiore di Dio>>239.
È evidente che questi princìpi sono ben lontani non soltanto
dall'insegnamento e dalla pratica della tradizione cristiana rappre-
sentata dai Padri, ma sono con essi incompatibili, come peraltro lo
stesso Jung ha spesse volte scritto criticando questo o quell'inse-
gnamento patristico240. -

6) I rischi d'illusione
Come Freud, anche Jung aiuta l'uomo ad accettare i contenuti
del suo inconscio, attraverso la loro presa di coscienza e simboliz-
zazione, e l'aiuta a coabitare in pace con quella parte buia e malva-
gia di sé che invece caratterizza; secondo il cristianesimo, la sua
natura decaduta. Ma non I' aiuta a superare questa natura decadu-
ta in una reale trasformazione di sé. Per Jung, è soltanto nella co-
scienza che ha di sé che l'uomo cambia e diventa un uomo nuovo.
L'idea junghiana che l'uomo incontra Dio e compie se stesso
prendendo coscienza del Sé («l'individuazione, scriveJung, è la vi-
ta di Dio»241) è un'illusione che rischia d'allontanare definitiva-
mente l'uomo dal Dio vero, dalla vera sanità spirituale e dal vero
compimento di sé. Jung fu la prima vittima di quest'illusione nel
suo tentativo d' autodeificazione242.

239 Ibidem.
I soli scritti patristici che trovano grazia ai suoi occhi sono quelli apocrifi di tendenza
240
gnostica, come le Omelie psuedo-clementine, oppure le esposizioni delle dottrine gnostiche
contenute nelle opere di sant'Ireneo di Lione.
241 Jung et la croyance religieuse, § 248, in La vie spirituelle, cit., p. 176-177.
242 Si veda R Noli, Jung, le Christ aryen, cit., p. 131-157.

92
V

UNA DIVERSA CONC:EZIONE DELL'INCONSCIO:


L'INCONSCIO SPIRITUALE

1. La nozione d'inconscio spirituale

· Nei secoli XIX e XX la nozione d'inconscio psichico fu oggetto


di tali e tante teorie - estese e potentemente strutturate (Freud,
Jung, Adler... ) - da far pensare che si tratti d'una scoperta recente.
Ebbene, l'esistenza d'un inconscio psichico è nota fin dalla più
remota Antichità. Vi allude per esempio Platone, quando mette il
sogno in relazione con i desideri insoddisfatti oppure con l' aggres-
sività non espressa, avanzando un'idea che anticipa quella della ri-
mozione!.
Possiamo poi dire che esiste anche un inconscio corporale, costi-
tuito da tutto ciò che esiste, agisce e avviene nel nostro corpo ma
non ha intensità sufficiente perché noi lo percepiamo e ne prendia-
mo chiara coscienza (Leibniz parlava di «piccole percezioni>>2).
Allo stesso modo esiste un inconscio spirituale.

Di esso non possiamo tuttavia dire che si trovi nella «parte» o


«sfera>> spirituale del nostro essere. È vero, spesso si dice, nel qua-
dro dell'antropologia cristiana, sulla scorta d'un passo della prima
lettera di san Paolo ai Tessalonicesi {5,23), che l'essere umano è
<<tripartito», composto com'è di tre elementi: il corpo, l'anima (o
lo psichismo) e lo spirito. Ed è vero che lo spirito (dai Padri greci
chiamato perlopiù nous, che abitualmente ma impropriamente si
traduce con «intelletto») è la facoltà più alta dell'uomo, la prima a
entrare in relazione con Dio nella contemplazione e nella «visione
di Dio», la facoltà mediante la quale noi conosciamo, di norma, le
realtà spirituali. Eppure, non possiamo dire che lo spirituale costi-

1 Si veda in particolare La Repubblica, IX, 571a-572b.


2 Si veda in particolare Nuovi saggi sull'intelletto umano, prefazione.

93
tuisca nell'uomo una sfera, un campo o un livello sovrapposto a
quello del corporale e dello psichico. Per questo, un certo numero
di Padri si ferma a una concezione bipartita dell'essere umano e
dice che esso è èomposto di un'anima e d'un corpo e che lo spirito
(o intelletto) non è che la facoltà più alta dell'anima o la sua «fine
punta».
Lo spirituale, più che una «parte» dell'uomo, è piuttosto una
sua dimensione.
È d'una natura completamente diversa da quella del corporale e
dello psichico, e bisogna ben guardarsi dal confonderlo con que-
st'ultimo.
E tuttavia, non è che lo spirituale non abbia dei rapporti con il
corporale e con lo psichico: in certa qual maniera, li ingloba.
Lo spirituale si può definire come ciò che in noi è costitutivo
d'una relazione con Dio.
Ma allora, ogni stato e ogni attività del nostro psichismo o del
nostro corpo, quando vengono considerati in rapporto a Dio - o
dal punto di vista della nostra relazione con Dio - assumono una
dimensione e una qualità spirituali.

Dobbiamo comunque far notare che questa relazione può esse-


re:
a) positiva, ma anche negativa (per questo, le passioni, disposi-
zioni e stati che ci separano da Dio, sono chiamate malattie «spiri-
tuali>>);
b) soggettiva (è il caso del nostro orientamento cosciente evo-
lontario verso Dio), ma anche oggettiva (per esempio, la nostrana-
tura ci orienta verso Dio, oppure il battesimo ci innesta oggettiva-
mente sul corpo del Cristo, fin da prima che ne abbiamo preso co-
scienza e ci siamo personalmente determinati verso esso). Qui di-
ciamo oggettivo ciò che non dipende dalla persona ed appartiene
oggettivamente alla sua natura; diciamo soggettivo ciò che dipende
dalla persona e proviene dalla sua coscienza e dalla sua volontà;
c) cosciente, ma anche inconscia (ed è ciò che dimostreremo in
questo libro).

La psicanalisi freudiana ignora del tutto l'inconscio spirituale;


nei suoi fondamenti, essa è atea e materialistica3. La psicanalisi la-

3 Si veda il capitolo 3 di questo libro, dedicato appunto alla psicanalisi freudiana.

94
caniana l'ha intuito, quando parla d'un grande Altro; ma ha poi la-
sciato fluida e ambigua la nozione.
Di contro, un grande ruolo esso svolge nella psicologia analitica
di C. G. Jung. Massimo teorico dell'inconscio, Jung si occupò
molto anche dei rapporti fra psicologia e religione e sviluppò una
teoria dell'inconscio in cui i simboli religiosi occupano un grande
spazio. E tuttavia, come già abbiamo fatto vedere, Jung confonde
spirituale e psicologico, a tutto vantaggio di quest'ultimo. La sua
teoria è più una spiegazione del fenomeno religioso da parte della
psicologia che non della psicologia da parte della spiritualità. Con
lui, in effetti, non si esce mai dal campo della psicologia. In più,
Jung ha una concezione assai dilatata della religione e della spiri-
tualità, e la sua dottrina si sviluppò inoltre assumendo come luogo
di riferimento uno spiritualismo più prossimo allo gnosticismo e a
varie correnti esoteriche (come l' alchirrùa) che non al cristianesimo
ortodosso.
L'inconscio spirituale è una nozione presente soprattutto nella
psicanalisi esistenziale, i cui principali rappresentanti furono Igor
Caruso, Wilfried Daim e Viktor Frankl.
Quest'ultimo dedica all'inconscio spirituale un breve capitolo
nel libro Il Dio inconscio4; ma per quanto concerne la spiritualità,
si limita a poche e generiche osservazioni; ciò gli fu imposto forse
dal suo progetto di elaborare una psicoterapia che si adattasse agli
uomini d'ogni credenza. La sua tesi principale è che ogni nevrosi
proviene da una perdita del senso dell'esistenza e che la sola tera-
peutica adeguata è la «logoterapia>>, la quale mira a far ritrovare il
senso perduto, che sta in Dio.
Quanto a Igor Caruso, egli pensa che ogni nevrosi provenga da
un'assolutizzazione (e dunque una deificazione) di valori relativi; e
allora la terapeutica consisterà nel ridare ai valori dell'esistenza la
loro giusta dimensione5. Il suo discepolo Wilfried Daim riprese
questa concezione. Secondo lui, l'uomo - costituito da una vitale
relazione con l'Assoluto - scatena in sé dei conflitti psichici ogni
volta che attribuisce un carattere d'assoluto a degli esseri relativi e
sostituisce degli idoli all'unico assoluto che è Dio6.

4 L'edizione originale è del 1948, Vienna; in Francia venne tradotto nel 1975 (a Parigi). Si
veda anche La psychotérapie et son image de l'homme, trad. fr., Paris, 1970.
5 Si veda Psychanalyse et sinthèse personnelle. Rapports entre l'analyse psychologique et !es
valeurs existentielles, trad. fr., Paris, 1959; Psychanalyse pour la personne, trad. fr., Paris, 1962.
6 Transvaluation de la psychanalyse. I.:homme et l'Absolu, trad. fr., Paris, 1956.

95
Come si vede, questi autori restano tutti quanti nel quadro nella
psicopatologia, cioè di quella parte della psicologia che si occupa
dell'origine, della forma, dell'evoluzione e del trattamento delle
malattie psichiche. Il riferimento che queste teorie fanno a Dio -
benché si proclamino giudaica quella di Frankl e cristiana quella
di Daim e quella di Caruso - resta dunque assai generico.

Possiamo dunque dire che fin qui l'inconscio spirituale è una


nozione che - nel quadro della spiritualità cristiana - non è ancora
diventata oggetto di studio sistematico. Eppure, i riferimenti e le
allusioni a ciò che possiamo chiamare un «inconscio spirituale>> so-
no sufficientemente numerosi, nelle fonti della Tradizione (in par-
ticolare negli scritti patristici), da poter dire che veramente c'è,
nella spiritualità cristiana orientale, una soggiacente concezione
dell'inconscio spirituale, e che questa nozione può aiutare a capire
una gran parte non soltanto della vita spirituale ma anche, di con-
seguenza, della psicologia e del comportamento umani legati a es-
sa, finanche in coloro che non hanno nessuna intenzione di consi-
derare il loro essere e il loro modo di esistenza in rapporto a Dio o
a una specifica spiritualità.

2. Le due dimensioni fondamentali dell'inconscio spirituale

Già abbiamo visto che la relazione dell'uomo con Dio può esse-
re positiva oppure negativa. A questa distinzione corrispondono
due dimensioni dell'inconscio spirituale.
La sua dimensione positiva è costituita da tutto ciò che nell'uo-
mo lo mette in relazione, l'unisce e lorienta a Dio senza che egli
ne sia cosciente; per questo, possiamo chiamarlo «inconscio teòfi-
lo».
La sua dimensione negativa è tutto ciò che stacca, separa, allon-
tana l'uomo da Dio e l'orienta in un senso opposto senza che l'uo-
mo ne sia cosciente; possiamo chiamarlo <<inconscio deìfugo».
Queste due dimensioni sono legate, per un verso, alla natura
dell'uomo (nei suoi caratteri comuni a tutti gli uomini) e, per l'al-
tro, alla persona (alla sua storia, alle sue esperienze personali e al
modo di esistenza che questa ha dato alla sua natura).
Queste due dimensioni dell'inconscio spirituale coabitano in
tutti gli uomini, in proporzioni variabili e in relazione, in ognuno,

96
sia al grado di coscienza che egli ha dell'una e dell'altra, sia anche
alla sua storia personale (per la parte d'inconscio che ha appunto
da fare con questa storia).
Nell'uomo decaduto, che vive lontano da Dio e da ogni solleci-
tudine spirituale, l'inconscio spirituale raggiunge il suo livello più
alto.
Nel cristiano che conduce una vita spirituale, la vita ascética
(nel senso ampio della parola) favorisce una progressiva presa di
coscienza e, di conseguenza, una riduzione dell'inconscio spiritua-
le, nelle sue due dimensioni. Nell'asceta che raggiunge l'impassibi-
lità, la dimensione negativa dell'inconscio spirituale scompare, così
come la dimensione positiva dello stesso, a vantaggio d'una piena
coscienza di ciò che egli è nel suo rapporto con Dio.
Le due dimensioni dell'inconscio spirituale non si devono con-
cepire come realtà statiche, ma piuttosto realtà dinamiche; né poi
solamente nel senso che possono crescere o ridursi in relazione al-
la coscienza che la persona ne ha, ma anche nel senso che hanno
un'attività e un dinamismo propri quanto alla forma e quanto al
contenuto.
E quest'attività ha un'influenza sulla vita spirituale della perso-
na, ma anche sulla sua vita psichica, nella proporzione in cui que-
sta dipende da quella.

97
VI

L'INCONSCIO «TEÒFILO»

La dimensione positiva dell'inconscio spirituale, dimensione


che abbiamo chiamato <<inconscio teòfilo», è costituita, l'abbiamo
visto, da più elementi spirituàli presenti nella natura dell'uomo
che lo rimandano a Dio, l'uniscono a Lui, l'orientano verso Lui.
Questi elementi, in origine inconsci, a certe condizioni possono di-
ventare oggetto d'una presa di coscienza, più o meno ampia e più
o meno profonda, ma possono anche restare definitivamente in-
consci al soggetto.

1~ Il «logos» della natura

Fondamentalmente, la dimensione positiva dell'inconscio spiri~


tuale è costituita in ogni uomo dal l6gos della sua natural.
Il «l6gos della natura» dell'uomo .è la definizione della natura
umana nel progetto divino, come Dio la concepì e volle prima dei
secoli nel Suo Consiglio e anche, dunque, come la realizzò crean-
dola. ·
Il l6gos è dunque ciò che definisce fondamentalmente, che ca-
ratterizza essenzialmente l'uomo alla sua uscita dalle <<mani di
Dio». È anche la natura umana nella sua qualità di creazione
«buona>>, nella sua (relativa) perfezione delle origini.
Ma il l6gos della natura definisce anche la finalità della natura,
cioè il fine che Dio a essa assegna, fine già potenzialmente o ideal-

1 La nozione di l6gos della natura, sebbene già d'antica origine, nel pensiero cristiano ven-
ne esplicitata da san Massimo il Confessore. In questa nostra esposizione faremo quindi rife-
rimento soprattutto a questo grande teologo bizantino. Per maggiori dettagli, si veda il nostro
studio La divinisation de l'homme selon saint Maxime le Confesseur, Paris, 1996, p. 125s; la
nostra introduzione a san Massimo il Confessore, Questions à Thalassios, Paris-Suresnes,
1992, p. 10-12, 34-37, e poi ancora la nostra introduzione all'opera del medesimo autore,
Ambigua, Paris-Suresnes, 1994, p. 28-41.

99
mente realizzato nell'idea-volontà di Dio, fine che corrisponde -
per realizzare la sua natura - alla norma della sua perfezione, ·a un
ideale di realizzazione o compimento di sé di cui essa è portatrice
e verso il quale tende. Insomma <<il l6gos della natura è una legge
naturale e divina>>2 insieme.
Nel progetto di Dio prima dei secoli, l'uomo ha come fine, dalla
sua natura, in linea con il l6gos che la definisce, quello di essere di-
vinizzata3.
Significa che l'uomo venne creato - nella sua costituzione natu-
rale - con le potenze (o facoltà) che gli permetteranno di raggiun-
gere questo fine4, che si compirà in forza della grazia. Le sue po-
tenze sono per natura orientate a questo fine e per loro natura ten-
dono a esso.
Quest'orientamento non è tuttavia statico, bensì dinamico. In-
somma, secondo san Massimo il Confessore, insieme ali' esistenza
l'uomo riceve anche il movimento che deve trovare il suo fine nel
riposo in Dio5. San Massimo fa infatti ancora notare che già nella
nostra genericità noi siamo mossi al bene dai «semi naturali»6 o,
con altra espressione, dalle <<tendenze profonde della nostra natu-
ra>>7. Più precisamente, san Massimo considera «insita nella natura
[. ..] l'ascesa (dell'uomo) verso il suo principio»s. Parla, del resto,
anche d'un <<01oto [d'ogni essere creato] verso il proprio fine» e
dice che «è proprio degli esseri creati venir mossi verso un fine
senza iriizio», fine che è Dio9. Insomma, possiamo dire che per san

2 Si veda san Massimo il Confessore, Commentaire du Notre Père, in CCSG (Corpus Chri-
stianorum Series Graeca, Paris) 23, p. 65-66 (cfr. trad. it. in La Filocalia, Gribaudi, Torino,
1982s, vol. II, <<Sulla preghiera del «Padre nost,o»»).
3 San Massimo il Confessore, Ambigua a Giovanni, 7 (dr. PG ·Patrologia Graeca, =·
Migne -91, 1080BC).
4 Si veda san Massimo il Confessore, Ambigua a Giovanni, 10 (PG 91, 1205C); Questioni
a Talassio, 40 (dr. CCSG 7, p. 267); Gregorio di Nissa, Discorso catechetico, V, 5-6 (dr. trad.
it. La grande catechesi, Città Nuova, Roma).
5 Si veda san Massimo il Confessore, Ambigua a Giovanni, 15 (PG 91, 1217A-1120A). La
triade «avvento all'esistenza-moto-riposo» è importantissima nel pensiero di Massimo il Con-
fessore.
6 Si veda san Massimo il Confessore, Centurie sulla carità, II, 32. Cfr. ibidem, IV, 93 (dr.
rrad. it. in La Filocalia, cit., vol. II, Centurie sulla carità). La medesima nozione - che fa pen-
sare alla teoria stoica dei l6goi spermatik6i utilizzata dai primi Padri (dr. H. Meyer, Geschichte
der Lehre von der Keimkrii/ten von der Stoa bis zum Anfang der Patristik, Bonn, 1914; M.
Spanneut, Le Stoiasme des Pères de l'Église, Paris, 1957, p. 316s) - si trova anche in Origene
ed,Evagrio Pontico (dr. M. Viller, <<Aux sources de la spiritualité de S. Maxime, Les oeuvres
d'Evagre le Pontique>>, in Revue d'ascétique et de mystique, 11, 1930, p. 180).
7 Traduzione diJ. Pégon nella sua edizione per Sources chrétiennes.
8 Ambigua a Giovanni, 7 (PG 91, 1084A).
9 Ibidem (PG 91, 1073B).

100
Massimo «è Dio stesso il fine d'ogni moto delle creature»lO e che
<<l'uomo è in se stesso moto verso Dio»ll.
Un'idea analoga l'esprime san Gregorio di Nazianzo quando di-
ce che l'anima umana <<Viene da Dio, è divina, partecipa della no-
biltà del cielo e si slancia a recuperarla»12; e poi ancora quando de-
scrive l'uomo appena creato da Dio come «un essere vivente [. .. ] in
cammino verso un altro mondo» e che, «cu1mine del mistero, in
forza della sua inclinazione verso Dio», tende a essere div:inizzato13.
Fra tutte le facoltà dell'uomo, dinamicamente orientate verso
Dio, al primo posto c'è l'intelletto (nous). San Massimo parla del
suo slancio naturale verso Dio14 e dice che, in linea con questo
slancio della sua natura, l'intelletto è proteso a cercare Dio15; sot-
tolinea anche la capacità naturale di questa facoltà di godere spiri-
tualmente, alla fine del suo slancio, di Dio16.
In modo corrispondente alla sua natura, anche la ragione ha la
medesima tendenza17.
Al secondo posto c'è il desiderio. Massimo il Confessore scrive
che abbiamo «un desiderio naturale di Dio»18. E considerando in-
sieme le facoltà della conoscenza e del desiderio, scrive: «Dio, il
quale con sapienza creò ogni natura e inserì nell'intimo di ciascuna
delle essenze razionali come primaria facoltà la conoscenza di Lui,
da Padrone generoso ci ha anche donato, a noi umili uomini, se-
condo la nostra natura, il desiderio proteso a Lui19 e l'amore [di
Lui], precisamente quando ci dotò per natura della potenza della
ragione, con la quale ci è possibile conoscere con facilità i modi
del compimento di [questo] desiderio e perché non ci lasciassimo
per sbaglio sfuggire ciò che ci sforziamo di.raggiungere>>20.

10 P. Sherwood, St. Maxime the Confessar, London, 1955, p. 48.


11 B. Sartorius, La doctrine de la déification de l'homme selon les Pères grecs en général et
Grégoire Palamas en particulier; Genève, 1965, p. 106.
12 Discorsi, II, 17 (SC - Sources chrétiennes, Paris -247, p. 112; dr. trad. it. presso Città
Nuova, Roma; Bompiani, Milano).
n Ibidem, XXXVIII, 11 (SC 358, p. 126 e 22-24). Cfr. ibidem, XLV, 7 (PG 36, 632B9).
14 San Massimo il Confessore, Questioni a Talassio, 61 (CCSG 22, p. 85).
15 Ibidem (ibidem, p. 65).
16 Ibidem (ibidem, p. 85).
11 Ibidem (ibidem, p. 65).
18 Ambigua a Giovanni, 48 (PG 91, 1364B).
19 Cfr. Gregorio di Nissa: <<La Divinità è il Bene supremo verso cui tendono tutti gli esseri
posseduti dal desiderio del Bene. Per questo, anche il nostro spirito, essendo a immagine del
Bene perfetto, fino a quando conserva, per quanto sta in lui, la somiglianza con il suo model-
lo, si conserva nel Bene>>, in La creazione dell'uomo, XII (PG 44, 161C; cfr. trad. it. J;uomo,
Città Nuova, Roma).
20 Ambigua a Giovanni, 48 (PG 91, 1361 AB).

101
Al terzo posto c'è la potenza irascibile, che Massimo associa alla
ragione e al desiderio per riconoscere anche a essa, come finalità
del suo uso, Dio stesso: «Il fine dell'attività raziocinante dell'anima
è la vera conoscenza; quello dell'attività desiderante è l'amore;
quello dell'attività irascibile è la pace. [. .. ] Ne discende che noi ab-
biamo per natura la capacità di ragionare per cercare Dio, che
usiamo la facoltà desiderante (epithymfa) per desiderare Lui solo,
mentre la potenza irascibile (thym6s) ci è data perché lottiamo per
Lui soltanto>>21.
A queste principali facoltà, che un ruolo essenziale svolgono
nell'orientamento dinamico della natura umana verso Dio, dob-
biamo ancora aggiungere la volontà (thélema, thélesis), che è legata
- sottolinea san Massimo - ali' essenza, o natura22 dell'uomo, e non
già all'ipostasi, o persona. Secondo san Massimo, la volontà è <<Un
orientamento generale della natura razionale comune verso il be-
ne, orientamento in linea con questa natura; [è] un'armonia con
Colui che le darà il suo essere completo>>23, cioè Dio. <<ln quanto
naturale», cioè facoltà della natura, la volontà umana non soltanto
«non è contraria a Dio», ma, «se usata e mossa nativamente [cioè
secondo la sua natura], è in accordo [con Dio]>>24 e tende verso
Lui come a Colui nel quale la natura troverà il suo compimento.
Possiamo dunque dire che <<la deificazione [è] il fine supremo cui
la volontà umana tende>>25; ma possiamo pure dire che la deifica-
zione corrisponde alla «piena soddisfazione del desiderio profon-
do dell'uomo, mediante il ritorno al suo principio>>26.
Pur sottolineando la naturalità .del moto della natura umana
verso Dio - moto per cui essa tende a realizzare in Lui il proprio
fine, a trovare in Lui il proprio compimento -; pur dicendo che le
potenze dell'uomo sono per loro natura dinamicamente orientate
verso Dio, e perfino ribadendo una partecipazione naturale degli

21Lettere,31(PG91, 625AB; cfr. trad. it. Epistole, Associazione di studi tardoantichl, Na-
poli). Cfr. anche Questioni a Talassio, 39 (CCSG 7, p. 259); ibidem, 49 (ibidem, p. 355).
22 Cfr. Opuscoli teologici e polemici, 1 (PG 91, 12CD); 16 (ibidem, 185D); Disputa con Pir-
ro (PG 91, 292BC).
23 M. Doucet, La dispute de Maxime le Confesseur avec Pyrrhus, Montréal, 1972, p. 357.
24 Opuscoli teologici e polemici, 20 (PG 91, 236C). .
25 V. Lossky, Vision de Dieu, Paris, 1962, p. 110. Andando nella medesima direzione,
J. Meyendorff osserva che <<il moto (energia o volontà) naturale dell'uomo, instaurato da Dio,
è diretto 'verso la comunione con Dio, ossia alla deificazione» (Initiation à la théologie byzan-
tine, Paris, 1975, p. 53).
26 I.-R Dalmas, «Un traité de théologie contemplative, le "Commentaire du Pater" de
saint Maxime le Confesseur>>, in Revue d'ascétique et de mystique, 29, 1953, p. 140.

102
esseri creati a Dio - siccome da Lui hanno il loro essere, la loro
sussistenza e il loro moto, e anche il loro l6gos hanno prestabilito
in Lui27 -, neanche a questo livello san Massimo trascura tuttavia
il ruolo della grazia divina. C'è un'attività (enérgheia) provviden-
ziale di Dio che in qualche modo sostiene il moto degli esseri ver-
so Lui28, cioè un'attività divina che sostiene l'operazione delle loro
potenze in vista di Lui e del compimento del loro l6gos in Lui. Per
questo, san Massimo scrive che «Dio, dopo aver completamente
realizzato, una volta per tutte, in un modo che Lui solo conosce, i
l6goi primordiali degli esseri creati e le essenze universali di tutto
ciò che esiste, ancora oggi continua non soltanto a conservarli nel-
1'essere, ma a farli passare all'atto, a far venire alla luce e formare
le parti che erano in essi>>29, cioè ad attualizzare le loro potenziali-
tà. Scrive pure che lo Spirito Santo «provvidenzialmente diffonde
dappertutto la sua potenza, promovendo in ciascun essere il l6gos,
secondo la sua natura.>>30. E afferma che Dio non è soltanto il prin-
cipio degli esseri, in quanto loro Creatore, e il loro fine in quanto
li porta a compimento, ma anche, in quanto Provvidente, l'am-
biente che lega fra loro quelle due realtà31.
E tuttavia, l'uomo, se pure è per natura orientato verso Dio, se
pure ha in Lui il suo fine e si eleva verso Lui spinto da tutte le sue
facoltà, tendendo, in virtù del suo l6gos, a trovare nell'unione con
Lui e nella deificazione da parte di Lui e in Lui il compimento del
suo essere - già idealmente definito in Lui sulla base del suo l6gos
-, nondimeno non è affatto determinato dalla sua natura. E nean-
che la grazia, se pur lo sostiene nel suo moto verso il suo fine, lo
costringe in alcun modo. Il compimento da parte dell'uomo del
proprio fine non è un processo di necessità: fra la sua natura e la
grazia divina c'è uno spazio anche per lui, ed è lo spazio della cor-
retta disposizione del suo volere e del suo libero arbitrio, che di-
pendono dalla sua ipostasi, cioè dalla sua persona.
È qui che interviene, nel pensiero di san Massimo, legata alla
nozione di l6gos, quella di tr6pos.
Mentre il l6gos è in relazione con l'essenza, o natura, il tr6pos è
in relazione con l'ipostasi, o persona.
27 Cfr. Ambigua a Giovanni, 7 (PG 91, 1080B).
28 Cfr. ibidem, 10 (ibidem, 1133C).
29 Questioni a Talassio, 2 (CCSG 7, p. 51).
30 Ibidem, 15 (ibidem, p. 101).
31 Centurie sulla teologia e sul!' economia dell'incarnazione, 1, 10 (cfr. trad. it. in La
filocalìa, cit. vol. II, Duecento capitoli sulla teologia e sull'economia dell'incarnazione).

103
Mentre il l6gos definisce la natura, le sue potenze (o facoltà) e le
attività (od operazioni) delle potenze, il tr6pos definisce la maniera
di esistere della natura e la maniera di esercizio o d'operazione
delle sue facoltà. Mentre il l6gos è immutabile, il tr6pos varia se-
condo le persone32.
Il tr6pos dipende dalla disposizione della volontà (gnome-J33, in-
sieme alla scelta (proairesis) d'ognuno, disposizione e scelta che
ognuno esprime in una certa maniera di essere o in un certo com-
portamento (è il senso elementare della parola tr6pos), che acqui-
stano il loro senso considerandoli alla luce del suo l6gos. Questi,
l'abbiamo già visto, definisce la norma di ciò che l'uomo è in base
alla sua natura vera, cioè alla luce sia della sua costituzione essen-
ziale sia del suo fine o compimento in linea con l'idea-volontà di
Dio. Ma per san Massimo, è nel modo con cui gli' uomini compio-
no le attività della loro natura che <<Vien fuori la differenza fra
quelli che fanno e fra le cose che fanno, se (le fanno) in linea o
contro la loro natura>>34, ed è appunto in base al tr6pos che <<uno è
giusto o ingiusto, è più o meno, è pro o contro, a seconda che di
più si allinei alla natura o se ne discost:i.>>35.
A seconda dunque che uno segua - con la disposizione della sua
volontà e la scelta del suo libero arbitrio - il moto della sua natura
verso il suo fine (vivendo secondo le virtù) oppure se ne discosti e
lo contraddica (vivendo nel peccato e nelle passioni), costui con-
duce un modo di esistenza «secondo natura» oppure «contro na-
tura>> e fa r esperienza di «benessere» oppure di <<malessere». Scri-
ve al riguardo san Massimo; «Di tutti gli esseri che esistenzialmen-
te, per essenza, sono e saranno, o sono divenuti o diverranno, o
appaiono o appariranno, i l6goi preesistono e sono in Dio, lì soli-
damente fondati; è in linea con essi Ecioè i l6goz] che tutti [gli esse-
ri] sono, sono divenuti e sussistono sempre, avvicinandosi, in forza
d'un movimento naturale, ai loro l6goi [fissati] dal progetto [divi-
no] e prendendo sempre maggiore consistenza in vista dell'essere,
ricevendo - secondo la qualità e l'intensità del loro movimento e
della loro inclinazione liberamente scelti - ora il benessere, a ca-
gione della loro virtù e del retto orientamento al l6gos in base al

32 Opuscoli teologici e polemici, 10 (PG 91, 136D-137B).


33 La disposizione della volontà (gnomi!) va tenuta ben distinta dalla volontà in sé
(thélema, thélesis). Mentre questa ha da fare con la natura, quella ha da fare con la persona.
34 Opuscoli teologici e polemici, 10 (PG 91, 136D-137B).
35 Ibidem (ibidem, 137AB).

104
quale esistono, e ora il malessere, a causa della loro malizia e del
loro movimento contrario al l6gos in base al quale esistono»36.
Il benessere e il malessere di cui qui parliamo rion sono il benes-
sere e il malessere che intendiamo oggi, sebbene anche questi pos-
sano avere dei rapporti con quelli. Qui benessere e malessere indi-
cano sicuramente una qualità di vita, ma una qualità di vita spiri-
tuale. Il benessere proviene da un modo di esistenza conforme al
l6gos della natura, ma conforme tutt'insieme anche al bene e alla
volontà di Dio, dato che questi tre elementi sono fra loro legati e
in armonia, siccome il l6gos della natura è stato definito dalla vo-
lbntà buona di Dio. Di contro, il malessere proviene da un modo
di esistenza in disarmonia con il l6gos della natura, perfino in op-
posizione con esso (per questo, spesso i Padri greci usano l' espres-
sione «contro natura>>), e in disaccordo o addirittura in opposizio-
ne pure con la volontà di Dio e con il bene; corrisponde dunque a
un disordine e a una disarmonia, che si traducono nelle varie ma-
lattie spirituali (le passioni) e nei loro effetti patologici sulla vita
psichica e corporale della persona che colpiscono.

Ma anche quando la persona conduce un modo di esistenza che


contraddice il l6gos della sua natura, il l6gos continua nondimeno
a esistere in essa e a orientare dinamicamente la sua natura verso
Dio. Questo l6gos costituisce un inconscio spirituale che ha, in
qualche modo, una vita sua e un dinamismo proprio, continuando
a orientare la natura verso Dio finanche quando la persona che vi-
ve nel peccato, nelle passioni e nella trascuratezza di Dio conduce
un modo di esistenza contrario a Dio.
Il malessere costituisce, per così dir~, una rimozione attiva e
permanente delle tendenze della natura, a motivo d'un modo di
esistenza contrario a essa.
Nel profondo dell'uomo decaduto avviene dunque un conflitto
fra - da una parte - ciò cui la natura aspira nel suo profondo e
tende con tutte le sue facoltà e - dall'altra - l'attività che la perso-
na dà a queste facoltà usandole in un senso contrario a quello del
l6gos della natura.
Ecco comé l'uomo - molti Padri l'hanno sottolineato e, fra essi,
anche san Massimo - diventa nemico di se stesso, alimentando con

36 Ambigua a Giovanni, 42 (PG 91, 1329A). Si veda anche Opuscoli teologici e polemici, 1
(PG 91, 28D-29A). -

105
il peccato e il modo di vita che a questi è legato un conflitto fra ciò
che nella sua natura profonda vuol essere e ciò che, nel suo modo
di esistenza decaduto, egli invece sceglie di essere.

Nell'uomo che vive nel peccato e nelle passioni, il libero arbitrio


della persona di continuo ·contraddice e reprime la volontà della
sua natura. Questa non può imporsi, giacché dipende dal libero
arbitrio della persona che la volontà della natura possa o non pos-
sa esprimersi e compiersi.

Il l6gos della natura continua tuttavia a esprimersi nelle tendenze


positive e buone dell'uomo, come un certo senso del beò.e e del ma-
le oppure della giustizia e dell'ingiustizia, l'amore che ha per i geni-
tori, i figli o uno sposo, l'amicizia, i sentimenti di pietà e compassio-
ne, le manifestazioni d'aiuto reciproco e di solidarietà, la ricerca del-
la giustizia e della pace ecc.37. Ma il più delle volte queste tendenze,
non più messe coscientemente in relazione con il loro principio e il
loro fine che è in Dio, perdono la loro qualità spirituale.

Per altro verso, il l6gos della natura continua a esprimersi, in


una modalità deviata, anche nei comportamenti, nei culti e riti
pseudo-religiosi cui, in misure diverse e maniere spesso inconsce,
tutti gli uomini senza eccezione si concedono. Guardando le cose
sotto questo aspetto, potremmo parlare come d'un «ritorno del re-
presso», nella misura in cui l'orientamento dinamico verso Dio,
che caratterizza fondamentalmente il l6gos della natura umana ed
è dunque attivo in ogni uomo, riesce ugualmente a esprimersi a li-
vello cosciente, ma in forma stravolta, mascherata, deformata e
senza raggiungere il suo fine vero.
È qui che possiamo trovare una spiegazione a queste costatazio-
ni di Mircea Eliade:

L'uomo a-religioso allo stato puro è un fenomeno piuttosto raro, an-


che nella più desacralizzata delle società moderne. La maggior parte
dei «senza-religione>> si comporta religiosamente, a sua insaputa. [. ..]

37 Queste tend=e positive sono state sottolineate da alcuni filosofi come caratteristiche
della natuta umana profonda od originale (Aristotele, Rousseau ... ); ma ben sappiamo come
molti altri filosofi abbiano considerato predominanti le passioni che impregnano gli uomini:
egoismo, avidità, ricerca del godimento sessuale in tutte le sue forme, aggressività, orgoglio,
volontà di dominazione e di sfruttamento dell'altro ...

106
I..:uomo moderno, che si dichiara e pretende di essere a-religioso, con-
tinua a disporre di tutta una mitologia camuffata e di numerosi rituali-
smi degradati. [. ..]La grande maggioranza dei «senza-religione>> non è,
propriamente parlando, indenne da comportamenti religiosi, da teolo-
gie e mitologie. A volte costoro sono pieni di tutto un ciarpame magi-
co-religioso, ma degradato fino alla caricatura, e per questo difficil-
mente riconoscibile. Il processo di desacralizzazione dell'esistenza
umana è più d'una volta sfociato in forme ibride di bassa magia e reli-
giosità scimmiesca. [ ... ]
Né è soltanto nelle «piccole religioni>> o nelle mistiche politiche che
si ritrovano comportamenti religiosi camuffati o degenerati: li intuiamo
anche nei movimenti che si proclamano francamente laici, addirittura
anti-religiosi. Come nel nudismo, per fare un esempio, oppure nei mo-
vimenti per la libertà sessuale assoluta, ideologie in cui si possono in-
travedere le tracce della <<nostalgia del Paradiso», il desiderio di ripete-
re lo stato edenico anteriore alla caduta, quando il peccato non esisteva
e non c'era rottura fra le beatitudini della carne e la coscienza. [. .. ]
È poi anche interessante costatare fino a che punto gli scenari inizia-
tici persistano in un gran numero d' atti e gesti dell'uomo a-religioso
dei nostri giorni. [ ... ] I..:iniziazione è tanto strettamente legata al modo
di essere dell'esistenza umana che un considerevole numero di gesti e
atti dell'uomo moderno continua a ripetere scenari iniziatici. Quante
volte la <<lotta con la vita>>, le <<prove» e le «difficoltà>> che ostacolano
una vocazione o una carriera reiterano in qualche modo le prove ini-
ziatiche! [. ..] Dato che ogni esistenza umana si costituisce tramite una
serie di prove, nella reiterata esperienza della «morte» e della «risurre-
zione». [...]
Insomma, la maggioranza degli uomini «senza-religione» persevera
nel condividere delle pseudo-religioni e delle mitologie degradate.
Nulla in tutto questo che debba sorprendere, [dato che] una gran par-
te dell'esistenza [dell'uomo] è nutrita da pulsioni che gli giungono dal
più profondo del suo essere, da quella zona che chiamano inconscio.
[. .. ] In un certo senso, potremmo dire che in quei moderni che si pro-
clamano a-religiosi la religione e la mitologia sono occultate nelle tene-
bre del loro inconscio. [. ..] Guardando le cose da una prospettiva giu-
deo-cristiana, potremmo anche dire che la non-religione equivale a una
nuova «caduta>> dell'uomo: l'uomo a-religioso avrebbe perso la capaci-
tà di vivere coscientemente la religione e dunque di comprenderla e
farla propria; ma nel più profondo del suo essere continua a conservar-
ne il ricordo38.

3 8 Le sacré et le profane, trad. fr., Paris, 1965, p. 173-180 (dr. trad. it. Il sacro e il profano,
Bollati Boringhieri, 1973). La nostra concezione dell'inconscio religioso è tuttavia diversa da
quella di :Mircea Eliade: un po' alla maniera di Jung, :Mircea Eliade ne fa una sorta d'incon-
scio collettivo e archetìpico, previamente formatosi sulla base dei comportamenti dell'<<homo
religiosuS>> e da cui l'uomo a-religioso avrebbe ereditato (ibidem, p. 177-178).

107
2. :Vimmagine divina nell'uomo

La diade l6gos-tr6pos, che abbiamo analizzato soprattutto in san


Massimo il Confessore, corrisponde, per lui e per molti altri Padri
greci, a una diade ben più nota: l'immagine (eikon) e la somiglian-
za (homoiosis) di Dio. Questa diade ha un'origine biblica (Genesi
1,26) e la maggior parte dei Padri la usa con abbondanza39, attri-
buendole un ruolo essenziale, tanto da farla diventare uno degli
elementi caratteristici della loro antropologia e della loto dottrina,
spirituale40. Può perciò essere utile riformulare anche secondo
queste categorie quanto abbiamo già spiegato.
L'immagine di Dio corrisponde all'essenza - o natura - dell'uomo
così come venne creata da Dio41. È dunque costituita da attributi,
facoltà o qualità che caratterizzano fondamentalmente, essenzial-
mente la sua natura. Attributi, facoltà o qualità che sono stati dati
all'uomo per natura dal suo Creatore42, che sono un riflesso della
Sua.stessa essenza. San Massimo il Confessore le definisce <<proprie-
tà divine>> attribuite alla natura umana43 o, più precisamente, «im-
magini (eikonismata) dell'essenza di Dio»44, dove la parola immagi-
ne esprime la similitudine con il suo archètipo ma anche ciò che da
esso la distingue: la natura umana realmente possiede dei tratti di
Colui del qua:le è l'immagine, ma è <<nondimeno diversa da Lui, in
forza della sua natura particolare; a:ltrimenti non sarebbe un'imma-
gine ma una tota:le identi:ficazione»45. Queste qualità fanno sì che la
creatura partecipi - per natura - in certa misura, di Dio46.

39 Cfr. A Struker, Die Gottebenbildlichkeit des Menschen in der christlichen Literatur der
ersten zwei Jahrhunderte, Miinster, 1913; E. Peterson «L'immagine di Dio in S. Ireneo», in La
scuola cattolica, 19, 1941, p. 3-11; A. Mayer, Das Gottesbild im Menschen nach Clemes von
Alexandrien, Roma, 1942: H. Crouzel, Théologie de l'image de Dieu chez Origène, Paris,
1956; R Bernard, I.:image de Dieu d'après saint Athanase, Paris, 1952; H. Merki, Hom6iosis
The6i. Von der platonischen Angleichung an Gott zur Gottiihnlichkeit bei Gregor von Nyssa,
Freiburg, 1952; R Leys, I.:image de Dieu chez saint Grégoire de Nysse, Bruxelles-Paris, 1951;
W J Burghardt, The image of God in Man according to Cyril of Alexandria, Baltimora, 1957;
L. Thunberg, Microcosm and Mediator, Lund, 1965, p. 120-133; W Wolker, Maximus Confes-
sar als Meister des geistlichen Lebens, Wiesbaden, 1965, p. 47-69; 88-102.
4 0 Cfr. J Kirchmeyer, <<Grecque (Église)», in Dictionnaire de spiritualité, VI, 1967, col.
812-822,
41 Cfr. Massimo il Confessore, Centurie sulla carità, ill, 25; Opuscoli teologici e polemici, I,
scolio 2 (PG 91, 37BC).
42 Cfr. Massimo il Confessore, Questioni e difficoltà, III/I (CCSG 10, p. 170).
43 Massimo il Confessore, Centurie sulla carità, m, 25.
44 Massimo il Confessore, Questioni e difficoltà, III/I (CCSG 10, p. 170 e p. 10; cfr.
p. 13).
45 Massimo il Confessore, Lettere, 6 (PG 91, 429B).
46 Cfr. Massimo il Confessore, Centurie sulla carità, ill, 25; Lettere, 6 (PG 91, 429B).

108
Pur riferendo queste qualità alla natura divina, per molti Padri
l'archètipo dell'immagine divina nell'uomo è il Verbo47. San Mas-
simo il Confessore lo spiega dicendo che il Verbo è il Creatore e il
L6gos in cui tutti i l6goi delle creature hanno la loro origine e tro-
vano il loro fine.
Nella loro generalità, i Padri pensano che fondamentalmente è
in forza della sua anima intellettiva e razionale che l'uomo è a im-
magine di Dio48.
L'uomo è a immagine di Dio anche per la sua capacità di auto-
determinazione49 che, l'abbiamo visto, s'identifica, per Massimo il
Confessore, con la volontà naturale50.
Fra le proprietà costitutive della natura dell'uomo che sono par-
tecipazioni naturali a proprietà divine e ne fanno un essere a im-
magine di Dio figurano dunque il fatto di essere intelligente era-
zionale51, ma anche l'indipendenza (autodéspoton)52 e l'autodeter-
minazione (autexousion )53.
Alcune di queste proprietà costitutive dell'immagine di Dio ri-
guardano l'inizio, altre il fine dell'uomo. San Massimo il Confesso-
re considera l'immagine di Dio come il l6gos dell'uomo54, il quale,
l'abbiamo visto, definisce le caratteristiche essenziali dell'uomo ma
anche ciò che egli è idealmente e potenzialmente secondo la vo-

47 Si veda per esempio Ireneo di Lione, Contro le eresie, V, 16, 2 (SC 153, p. 216; cfr. tra<;l..
it. Contro le eresie e gli altri scritti, Jaca Book, Milano); Clemente d'Alessandria, Il protreptico,
X, 98, 4 (SC 2, p. 166; cfr. trad. it. Protreptico ai Greci, SEI, Torino); Origene, Omelie sulla
Genesi, I, 13 (SC 7bis, p. 60: cfr. trad. it. Omelie sulla Genesi, Città Nuova, Roma); Contro
Celso, Iv, 85 (SC 136, p. 396); Atanasio d'Alessandria, I:incarnazione del Verbo, m, 3 (SC
199, p. 270-272; cfr. trad. it. presso Città Nuova, Roma); Contro gli ariani, m, 10 (PG 26,
334A); Massimo il Confessore, Disputa con Pirro (PG 91, 324D); Questioni a Talassio, 53
(CCSG 7, p. 431).
48 Cfr. Clemente d'Alessandria, Stromata, II, 19 (GCS Il, p. 169; dr. trad. it. Stromati, Ed.
Paoline, Milano); Protreptico, X, 98, 4 (SC 2, p. 166; cfr. trad. it. Protreptico ai Greci, cit.);
Origene, Omelie sulla Genesi, I, 13 (SC 7bis, p. 62; dr. trad. it. cit.); Contro Celso, VI, 63 (SC
199, p: 272); Atanasio d'Alessandria, I:incamazione del Verbo, III, 3 (SC 199, p. 272; dr.
trad. it. presso Città Nuova, Roma); Gregorio di Nissa, La creazione dell'uomo, XII (PG 44,
161D; dr. trad. it. I:uomo, Città Nuova, Roma); Gregorio di Nazianzo, Discorsi, XXXVIII,
11 (SC 358, p. 124; trad. it. Discorsi sulla natività, discorsi 38-40, Città Nuova, Roma); Cirillo
d'Alessandria, Contro gli antropomorfiti (PG 76, 1069-1072); Massimo il Confessore, Mista-
gogia; VI (PG 91, 684CD); Lettere, 6 (PG 91, 429B), 23 (PG 91, 650D); Questioni a Talassio,
65 (PG 90, 741B; CCSG 22, p. 259); Ambigua a Giovanni, 10 (PG 91, 1024A), 42 (PG 91,
1325A); Opuscoli teologici e polemici, 23c (PG 91, 268A).
49 Cfr. Massimo il Confessore, Disputa con Pirro (PG 91, 340C, 324CD).
50 Ibidem.
51 Cfr. Ambigua a Giovanni, 7 (PG 91, 1092B).
5,2Massimo il Confessore, Questioni e difficoltà, III/I (CCGS 10, p. 170).
53 Ibidem (ibidem, p. 170 e p. 9).
54 Massimo il Confessore, Opuscoli teologici e polemici, l, scolio 2 (PG 91, 37BC).

109
lontà di Dio, ne definisce il fine ma anche la tendenza verso quel
fine. Come componenti dell'immagine di Dio figurano anche delle
proprietà in grado d'aiutare l'uomo a realizzare il suo fine55. Per
questo, san Massimo il Confessore lega all'immagine il movimento
verso l' essere56, la capacità di cercare Dio e tendere a Lui57. San
Massimo ha dunque una concezione dell'immagine di Dio nell'uo-
mo eminentemente dinamica. Per lui, ma anche per altri Padri
greci58, l'immagine è un insieme di capacità che aiutano l'uomo a
realizzare la somiglianza e già l'orienta dinamicamente verso que-
sto compimento,
La somiglianza, pur essendo in linea di continuità con l'immagi-
ne, è tuttavia d'altra natura. Mentre l'immagine è in relazione con
la natura, la somiglianza è in relazione con l'ipostasi59. Mentre
l'immagine fa parte della costituzione naturale dell'uomo e gli è
data dal Creatore fin dagli inizi, senza presupporre intervento al-
cuno da parte dell'uomo, la somiglianza non è, al principio, che
potenziale; essa esige, per venire realizzata, la partecipazione per-
sonale dell'uomo, e in questo senso tutto essa deve al suo libero
arbitrio60. Secondo san Massimo, mentre l'immagine dipende dal
l6gos della sua natura, la somiglianza dipende dal suo genere di vi-
ta, cioè dal modo (tr6pos) della sua esistenza61.
È anche la concezione di san Basilio, che l'esprime nelle catego-
rie aristoteliche di potenza e atto: «Noi possediamo [l'immagine]
dalla creazione, raggiungiamo O.a somiglianza] con la volontà. Nel-
la nostra. prima struttura, ci è dato di essere nati a immagine' di
Dio; con la volontà si forma in noi l'essere a Sua somiglianza. Ciò
che viene dalla volontà, la nostra natura lo possiede in potenza, ma
è con la nostra attività che noi ce lo procuriamo. Se creandoci il Si-
gnore non avesse in anticipo preso la precauzione di dire "creia-
mo" e anche "a somiglianza", se non ci avesse gratificati della po-
tenza di diventare somiglianza, non è per un qualche nostro potere
che avremmo potuto arrivare alla somiglianza con Dio. Ma ecco

55 Per il polo almeno che dipende da lui, l'altro polo essendo la grazia divina, senza la
quale la realizzazione di quel fine non si potrebbe realizzare.
56 Centurie sulla teologia e sull'economia dell'incarnazione, I, 11 (dr. trad. it. cit.)
57 Cfr. Lettere, 1 (PG 91, 377B); Ambigua a Giovanni, 48 (PG 91, 1361AB).
58 In particolare Clemente d'Alessandria. Cfr. H. Crouzel, Théologie de l'image de Dieu
chez Orig,ène, Paris, 1956, p. 67.
59 Massimo il Confessore, Opuscoli teologici e polemici, 1, scolio 2 (PG 91, 37BC).
60 Che consiste, secondo san Massimo, nella disposizione del volere (gnifmi!) e nella scelta
(proairesis).
61 Cfr. Massimo il Confessore, Opuscoli teologici e polemici, 1, scolio 2 (PG 91, 37BC).

110
che Lui ci ha creati capaci in potenza di somigliarGli. Dandoci la
potenza di somigliarGli, ha fatto sì che siamo noi gli artefici della
somiglianza con Dio, in maniera da avere la ncompensa per il no-
stro lavoro»62.
·La somiglianza è costituita dalle virtù63.
Mentre Dio possiede per natura le qualità che corrispondono
alle virtù, l'uomo è chiamato a possederle per partecipazione64.
Tocca a lui, mediante la disposizione del volere e la scelta, acqui-
sirle65, facendosi personalmente imitatore di Dio66. Mentre il pos-
sesso dell'immagine è immediato, il possesso della somiglianza è
frutto d'un divenire67; la somiglianza non si può raggiungere che al
termine68 d'un costante sforzo ascetico attraverso cui l'uomo cerca
di conformarsi all'Archètipo divino69, cioè al termine d'un abituale
modo di vita conforme alle virtù che la costituiscono70. In effetti, è
mediante una vita fatta di virtù - legata alla pratica dei comanda-
menti- che l'uomo diviene simile a Dio?l ..
La somiglianza non è tuttavia effetto del solo sforzo umano:
mentre l'uomo è a immagine di Dio per natura, è per grazia che
Gli diventa simile72.
Potrebbe dunque sembrare che le qualità che danno forma alla
somiglianza, essendo il risultato per un verso d'un divenire spiri-
tuale e per l'altro date gratuitamehte da Dio, vengano ad aggiun-
gersi alla natura. ·

62 Omelie sull'origine dell'uomo, I, 16.


63 Cfr. Massimo il Confessore, Centurie sulla carità, III, 25; Centurie sulla teologia e sul!'e-
conomia dell'incarnazione, I, 13; Doroteo di Gaza, Insegnamenti spirituali, XII, 134 (trad. it.
presso Città Nuova, Roma); Giovanni Damasceno, Esposizione esatta della fede ortodossa, II,
I2; Niceta Stetatos, Centurie, III, 8, 11 (cfr. trad. it. in La Filocalia, cit. vol. III, «Tre centu-
rie>>).
64 Massimo il Confessore, Centurie sulla carità, III, 25.
65 Cfr. Massimo il Confessore, Questioni e difficoltà, III, I (CCSG 10, p. 170);. Centurie
sulla carità, III, 25; IV, 90; Commento del Padre nostro (PG 90, 889B; CCSG 23, p. 50); Am-
bigua a Giovanni,42 (PG 9I, I345D).
66 Cfr. Massimo il Confessore, Centurie sulla carità, N, 90; Questioni e difficoltà, III/I
(CCSG 10, p. I70).
67 Cfr. Massimo il Confessore, Centurie sulla carità, III, 25.
68 Cfr. Massimo il Confessore, Questioni e difficoltà, III/I (CCSG 10, p. 170).
69 Cfr. Massimo il Confessore, Commento del Padre nostro (CCSG 23, p. 50). Cfr. Orige-
ne, Trattato dei princìpi, III, 6, 1.
70 Cfr. Massimo il Confessore, Centurie sulla carità, III, 25. Si veda anche Centurie sulla
teologia e l'economia dell'incarnazione, I, I3; Lettere, I (PG 9I, 265C).
71 Cfr. Massimo il Confessore, Mistagogia, V (PG 91, 680A); Lettere, 1 (PG 91, 365C,
380A); Ambigua a Giovanni, 10 (PG 9I, 1140B, I205A); Questioni a Talassio, 53 (CCSG 7,
p.435). .
72 Cfr. Massimo il Confessore, Centurie sulla carità, III, 25.
In realtà, in qualche modo le virtù si possono, paradossalmente,
considerare come date dall'inizio all'uomo, o addirittura apparte-
nenti, in certa misura, alla sua stessa natura. È un'idea di molti Pa-
dri, fra cui sant'Antonio il Grande73, san Gregorio di Nissa74, san
Doroteo di Gaza75, san Massimo il Confessore76, sant'Isacco il Si-
riaco77, san Giovanni Damasceno78 e san Simeone il Nuovo Teolo-
go79. È comunque sottinteso che questo possesso delle virtù è -
dal punto di vista della persona - potenziale: tocca all'uomo, con
una vita conforme a tali virtù, attraverso un costante orientamento
della buona -disposizione della sua volontà verso il bene e in una
scelta permanente di esso, esercitarle effettivamente. Ed è appunto
l'ascesi, spiega san Massimo il Confessore nel suo Dialogo con Pir-
ro, a proporsi di allontanare ciò che impedisce la manifestazione
delle virtù, manifestazione che pure per natura tende a verificarsi.
Questa spiegazione è punto per punto in linea con l'idea di san
Massimo che alla persona basta condurre una vita- o modo di esi-
stenza - semplicemente conforme al l6gos della sua natura per tro-
vare il benessere e incamminarsi verso il suo fine spirituale.

Pirro. Se non è dall'ascesi che viene in noi ciò ch'è naturale, bensì
dalla creazione, e se la virtù è naturale, come mai è con sforzo e con
l'ascesi che acquistiamo le virtù, pur essendo esse naturali?
Massimo. L'ascesi e gli sforzi che essa richiede, coloro che amano la
virtù li hanno intrapresi unicamente per espellere la seduzione che l' at-
tività dei sensi ha insinuato nell'anima, non già per aggiungere le virtù
come dall'esterno e in maniera avventizia; perché esse sono in noi in
forza della creazione, come abbiamo già detto. Ne consegue che, una
volta totalmente espulsa la seduzione, subito l'anima fa vedere tutto lo
splendore della virtù conforme alla natura.

73 Cfr. Lettere, I, 1 (cfr. trad. it. in Vita di AYltonio. Detti e lettere, Ed. Paoline, Milano).
74 Cfr. La creazione dell'uomo, N: <<Dire che l'uomo è stato creato a immagine di Dio si-
gnifica dire che [Dio] ha reso la natura umana partecipe d'ogni bene... In noi c'è ogni specie
di bene, ogni virtù, ogni sapienza e tutto ciò che di meglio possiamo imma,,oinarci» (PG 44,
136CD; dr. trad. it. cit.).
75 Cfr. Istruzioni spirituali, I, 1: <<Dio ha fatto l'uomo a Sua immagine, l'ha cioè provvisto
d'ogni virtù»; XII, 134: <<Per natura noi possediamo le virtù, che ci sono state date da Dio.
Dio le ha messe nell'uomo creandolo»; <<Dio ci ha donato, insieme con la nostra natura, an-
che le virtù>> (cfr. trad. it. cit.).
76 Massimo il Confessore, Lettere, 3 (PG 91, 409A); Disputa con Pirro (PG 91, 309C);
Centurie sulla carità, fil, 27.
77 Cfr. Discorsi ascetici, 83: <<La virtù è per natura nell'anima>> (cfr. trad. it. Discorsi ascetici,
Città Nuova, Roma).
78 Cfr. Esposizione esatta della fede ortodossa, Il, 12: <<Dio ha fatto l'uomo ornato d'ogni
virtù e ricco d'.ogni bene»; m, 14: <<Le virtù sono naturali per l'uomo» (cfr. trad. it. cit.).
79 Cfr. Capitoli teologici, gnostici e pratici, III, 90.

112
Infatti, chi non è insensato è sapiente, chi non è vile o temerario è co-
raggioso, chi non è sregolato è temperante e chi non è ingiusto è giusto.
Quando è conforme alla natura, la ragione è sapienza, la potenza del giu-
dicare è giustizia, la collera è coraggio, la cupidigia è temperanza. Appe-
na raschiamo via ciò che è contro la natura, non potrà che apparire ciò
che è secondo la natura, e questo soltanto. Come per il ferro: quando ra-
schiamo via la ruggine, subito appare tutto il suo splendore ,e fulgore8o.

Sembra dunque che per Massimo le virtù siano già tutte prefor-
mate in noi e le varie operazioni si limitino a farle apparire81. E tut-
tavia, altrove egli presenta le virtù come dei «semi» (spérmata) posti
alle origini82 e parla dell'uomo che <<ha sinceramente coltivato per
scelta il seme naturale del bene»83. Potremmo vederci un' espressio-
ne dell'idea che le virtù sono in qualche modo contenute nella na-
tura, o immagine, in potenza, e che la persona, con il suo libero
sforzo, le attualizza in somiglianza. Non dobbiamo invece intende-
re questi «semi>> -1' abbiamo già visto - come dei germogli che toc-
cherebbe all'uomo far crescere, quanto piuttosto come delle ten-
denze profonde della natura in linea con il suo l6gos e che la buona
disposizione della volontà dell'uomo e la sua scelta dovrebbero la-
sciar esprimere. E se nondimeno Massimo parla d'una pratica atti-
va della virtù84 e d'un progresso in essa, allora dobbiamo intendere
quella pratica come un'attiva sintonizzazione della persona con la
sua natura e quel progresso come il progresso nella sintonizzazione.
È chiaro che per Massimo non c'è soluzione di continuità fra la
somiglianza e l'immagine85, quella essendo contenuta nella finalità
di questa, e dunque sul prolungamento della natura86. Peraltro,

80 Massimo il Confessore, Disputa con Pirro (PG 91, 309B-312A). L'idea non è nuova. Cfr.
Isaia di Scete: «Chi vuole pervenire alla conformità con la natura espelle tutte le sue volontà
secondo la carne, fino a quando si trovi stabilito nello stato naturale>> (Ascetik6n, II, 4 ); Gre-
gorio di Nissa: <<ll ritorno dell'anima allo stato che le è proprio e naturale è una spoliazione
d'ogni elemento estraneo» (La verginità, XII, 2; cfr. trad. it. presso Città Nuova, Roma).
8l M. Doucet, La dispute de Maxime le Confesseur avec Pyrrhus, cit., p. 73 L
82 Cfr. Massimo il Confessore, Lettere, 3 (PG 91, 409C). In una prospettiva ben prossima,
le virtù sono considerate dei semi anche da Evagrio Pontico (Centurie gnostiche, I, 39) e san
Gregorio di Nazianzo (Discorsi, II, 17).
83 Massimo il Confessore, Ambigua a Giovanni, 7 (PG 91, 1081D). Cfr. Gregorio diNa-
zianzo, Discorsi, II, 17: la virtù è <<Un bene che non è soltanto come un seme affidato alla na-
tura, ma è anche l'oggetto d'una coltura che dipende dalla nostra volontà e dai moti che spin-
gono il nostro libero arbitrio nell'una o nell'altra direzione>>.
84 Cfr. Massimo il Confessore, Questioni a Talassio, 55 (CCSG 7, p. 497).
85 M. Doucet, La dispute de Maxime le Confesseur avec Pyrrhus, cit., p. 227.
86 Possiamo dire, vedendo le cose in generale, chè per Massimo la natura è ordinata al so-
prannaturale. Cfr. H. U. von Balthasar, Kosmische Lz"turgie, Einsiedeln, 1961, p. 598 (cfr. trad.
it. Massimo il Confessore. Liturgia cosmica, Jaca Book, 2001).

113
possiamo concepire l'immagine come l'insieme delle capacità che
aiutano l'uomo a raggiungere la somiglianza, facendolo tende-
re verso essa87. È una concezione comune alla maggior parte dei
Padri.

3. La tendenza della natura al suo compimento nel Cristo,


ovvero «lanima per natura cristiana»

Un terzo aspetto dell'inconscio <<teòfilo» mostrerà l'aspetto non


solamente religioso ma propriamente cristiano della nostra conce-
zione dell'inconscio.
Molti Padri affermano che fu a immagine stessa del L6gos, del
Verbò di Dio, che Adamo venne creato88, e che il mistero della
creazione dell'uomo a immagine del L6gos è in stretto rapporto
con quello della sua deificazione nel Verbo incarnato. Fin dalla
sua creazione, per l'uomo nori esiste che un solo fine normale: la
somiglianza con il Cristo, norma del compimento della sua natura,
norma pienamente e chiarameij.te rivelata nella Sua incarnazione.
L'uomo venne creato come essere <<logico» (loghik6s), cioè ragio-
nevole, ma, più fondamentalmente ancora, come essere cristologi-
co, dato che per i Padri loghik6s significa «conforme al L6gos», al
Verbo di Dio89. E i Padri si spingono fino a sostenere che l'uomo
venne creato a immagine non soltanto del L6gos in quanto Dio,
ma anche del L6gos incarnato, del Cristo Dio e uomo, e che fin
dalla sua creazione l'uomo ha per destino, in base alla sua stessa
natura, di tendere con tutto il suo essere ad assimilarsi attivamente
al Cristo90.
Scrive san Nicola Cabasilas: «Fin dalle origini la natura umana
venne creata in vista dell'Uomo Nuovo; l'intelligenza e il desiderio
dell'uomo vennero creati per il Cristo: ricevemmo l'intelligenza
per conoscere il Cristo, il desiderio per essere attratti a Llii e la

87 Cfr. Massimo il Confessore, Commento del Padre nostro (CCSG 23, p. 50); Ambigua a
Giovanni, 7 (PG 91, 1092B); Centurie sul/,a teologia e sull'economia dell'incarnazione, l, 13.
Quest'idea compare anche in Gregorio di Nazianzo, Discorsi, XXVIII, 17.
88 Si veda per esempio Ireneo di Lione, Contro le eresie, V, 16, 2 (trad. it~ cit.); Origene,
Omelie sulla Genesi, I, 13 (cfr. trad. it. presso Città Nuova, Roma); Tertulliano, Sulla risurre-
zione, VI, 3-5 (cfr. trad. it. La risurrezione dei morti, Città Nuova, Roma); Atanasio d'Alessan-
dria, I:incarnazione del Verbo, 3 (cfr. trad. it. presso Città Nuova, Roma); Contro i pagani, 2;
Orillo d'Alessandria, Spiegazione dei dogmi, IV (cur. Pusey, Oxford, vol. V, p. 558).
89 Questo punto è sottolineato soprattutto da Atanasio d'Alessandria.
90 Cfr. Macario d'Egitto, Omelie spirituali (Coli. III), XX, 1, 2.

114
memoria per portarLo in noi. Tutto ciò è accaduto in quanto Egli
fece da modello alla nostra creazione. In effetti, non fu il vecchio
Adamo a far da modello (paradeigma) per il Nuovo, ma il Nuovo
per il vecchio (cfr. Lettera ai Romani 5,14). Per noi che lo ricono-
sciamo come nostro antenato, il primo Adamo appare come l' ar-
chètipo della natura umana; ma per Colui che ha tutti gli esseri da-
vanti agli occhi fin da prima che esistano, l'antenato non è che l'i-
mitazione del nuovo Adamo. Quegli venne creato a immagine e
somiglianza di questi»91. Possiamo dunque dire che <<l'uomo tende
al Cristo non soltanto a motivo della divinità di Nostro Signore,
ma .a motivo anche dell'altra natura [umana] che egli possiede>>92 .
Insegna, nello stesso senso, san Gregorio Palamas: «Già la stessa
formazione dell'uomo alle origini, uomo creato a immagine di Dio,
awenne in vista del Cristo, affinché a tempo debito l'uomo possa
comprendere in sé l' Archètipo»93.
Il Cristo dunque si rivela da sempre il principio e il fine (Prima
lettera ai Corinzi 8,6; Apocalisse 22,13) della natura umana, come
afferma anche san Massimo il Confessore, il quale, a proposito
dell'unione, nell'ipostasi del Verbo, della natura divina con lana-
tura umana, scrive: «Ecco il beato fine in vista del quale ogni cosa
venne formata. Ecco il progetto che Dio concepisce fin da prima
della creazione degli esseri.>>94.
Nella Persona del Cristo si esprimono totalmente il principio e
il fine della natura dell'uomo, appaiono chiaramente il suo essere
autentico e il suo vero destino. L'immagine di Dio, oscurata nell'u-
manità dal peccato di Adamo, viene ri-manifestata in Colui che è
senza peccato, con uno splendore anche maggiore che nell'Adamo
di prima del peccato: perché nel Cristo l'immagine di Dio si rivela
nella sua compiuta perfezione, totalmente attualizzata dalla totale
realizzazione della somiglianza dell'uomo con Dio che avviene nel-
la Sua persona attraverso l'unione della natura divina con quella
umana. Qui l'immagine e la somiglianza di Dio nell'uomo sono
manifestate dal suo stesso Creatore - il L6gos di Dio fatto carne,
immagine perfetta del Padre -, quali fin dall'origine Egli stesso le
volle, nel loro compimento intero e definitivo. In Adamo si vedeva
soltanto l'immagine del modello; nella Persona del Cristo si vede il

91 La vita in Cristo, VI, 91-93.


92 Ibidem, 97.
93 Omelie sull'Epifania.
94 Questioni a Talassio, 60 (PG 90, 621AB).

115
Modello in persona; nella Persona del Cristo il Modello s'unisce
all'immagine - senza confondersi con essa, ma senza esserne nep-
pure separato - e, in forza proprio di quest'unione, la restaura e la
porta alla sua perfezione.
Scrive sant'Ireneo, a proposito di questa smagliante manifesta-
zione dell'immagine e della somiglianza, di questa rivelazione del-
l'uomo-dio nel Dio-uomo: «La verità di tutto ciò apparve quando
il Verbo di Dio si fece uomo, rendendosi simile all'uomo e renden-
do l'uomo simile a Sé, affinché, attraverso la somiglianza con il Fi-
glio, l'uomo divenga prezioso agli occhi del Padre. Nei tempi pre~
cedenti, in effetti, si diceva sì che l'uomo era stato fatto a immagi-
ne di Dio, ma non si vedeva, perché il Verbo era ancora invisibile,
il Verbo a immagine del quale l'uomo venne fatto: è per questo,
peraltro, che la somiglianza andò facilmente perduta. Ma quando
il Verbo di Dio si fece carne, confermò l'una e l'altra; fece apparire
l'immagine in tutta la sua verità, diventando Egli stesso ciò che era
la Sua immagine, e ristabilì la somiglianza in maniera stabile, ren-
dendo l'uomo del tutto simile al Padre invisibile, attraverso il Ver-
bo d'ora in poi visibile»95.
Nel Cristo, insomma, viene chiaramente rivelato all'uomo l' ar-
chètipo della sua vera natura, il modello che :fin dalla sua creazio-
ne e in forza della sua natura l'uomo è destinato· a realizzare96,
«dato che il Cristo - fa osservare san Nicola Cabasilas - è il solo e
il primo ad aver realizzato l'uomo autentico e perfetto dal punto di
vista del comportamento, dello stile di vita e sotto tutti gli altri
aspetti»97.
È allora evidente che far maturare il proprio essere, realizzarsi,
vivere in conformità con la propria natura, ma anche vivere in ma-
niera perfetta, significa - per l'uomo- somigliare al Cristo, assimi-
larsi a Lui e. in Lui diventare dio98. È soltanto nell'unione con il
Cristo che l'uomo trova la pienezza del suo essere - in tutta l'inte-
grità e integràlità della sua natura -, il senso vero, primo e ultimo,·
del suo destino, la perfezione della sua attività e della sua intera vi-
ta. È soltanto nel Cristo che l'uomo può essere se stesso, può esse-
re pienamente uomo e compiere la sua vera natura in tutte le sue
dimensioni: <<ll Figlio, dice san Massimo, restituisce la natura a se

95 Contro le eresie, V, 16, 2.


% <<Egli è l' archètipo di ciò che siamo», scrive san Gregorio di Nazianzo.
97 La vita in Cristo, VI, 94.
98 Cfr. Simeone il Nuovo Teologo, Trattati etici, IV; 586-592.

116
stessa>>99; e san Gregorio di Nazianzo: «Nel Cristo viene restau~ata
l'integrità della nostra natura». Siccome l'uomo è per natura - nel-
la sua origine, nella struttura del suo essere e nella sua destinazio-
ne - un essere cristologico e teocentrico, è soltanto volgendosi ver-
so Dio che diventa veramente uomolOO; è soltanto unendosi total-
mente al Cristo che può essere uomo reale (6ntos anthropos, secon"
do l'espressione di san Gregorio di Nissa) e, diremo noi, uomo
normale (cioè uomo in linea con la sua norma) e trovarsi in uno
stato di sanità totale, che è <<l'assimilazione al Cristo, sanità e per-
fezione dell'anima>>, come scrive san Gregorio Palamas101.
E se adesso leggiamo tutte queste considerazioni alla luce di ciò
che abbiamo prima detto circa il l6gos dell'uomo e l'immagine di
Dio in lui, allora possiamo ben dire che ogni uomo - cristiano op-
pure no, credente oppure no - inconsciamente tende per natura al
Cristo, come al fine e al compimento del suo essere. Tertulliano
l'ha espresso in una sua maniera particolarmente forte, quando
disse che l'anima è «per sua natura cristiana>> (naturaliter christia-
na) 102.

4. La grazia

Un'altra dimensione dell'inconscio «teòfilo» presente nell'uomo


è costituita dalla grazia divina cui esso partecipa. La grazia è pre-
sente in gradi e forme diverse, sebbene sempre si tratti della mede-
sima grazia, divina nella sua natura e nella sua origine.
Per san Massimo il Confessore, la grazia non va puramente con-
siderata come un qualcosa che viene ad aggiungersi o sovrapporsi
·alla natura, come pensava la teologia medioevale occidentale
quando, a proposito della natura, parlava di <<natura pura>>103. Già
la natura stessa dell'uomo e il semplice fatto di esistere sono un
dono di Dio104. Al contrario, possiamo benissimo dire che già per
il solo fatto della loro creazione tutti gli esseri godono d'una parte-

99 Commento del Padre nostro (PG 90, 877D).


100 Cfr. Giovanni Crisostomo, Omelie sulla Prima lettera ai Corinzi, IX, 4; Omelia sulle
Calende,3 .
.101 Triadi per la difesa delle sante ipostasi, II, 1, 42.
102 La testimonianza dell'anima (cfr. trad. it. presso Ed. Paoline, Alba-Roma, 1982).
103 Cfr. M. Doucet, La dispute de Maxime le Con/esseur avec Pyrrhus, cit., p. 227. H. U.
von Balthasar, Kosmische Liturgie, cit., p. 598 (dr. trad. it. cit.).
104 Si veda in particolare Centurie sulla carità, ID, 25.

117
cipazione naturale di Dio105; e che c'è una presenza e un'attività
della grazia in seno alla loro stessa natura. Per questo, san ·Massi-
mo scrive che, fra le cose cui si può attribuire un l6gos naturale, al-
cune «sono per grazia impiantate (empéphyken) nelle creature co-
me una potenza innata (émphytos) la quale potentemente grida
che Dio è in tutti>>l06.
Secondo san Massimo il Confessore, ogni essere esiste in po-
tenza in Dio, in linea con il suo l6gos, da prima dei secoli. Esiste
in atto, in linea con quel medesimo· l6gos, nel tempo in cui Dio,
secondo la Sua sapienza, giudica opportuno crearlo107. E già una
volta creato in linea con quel l6gos, è ancora in linea con quel l6-
gos che Dio, nella sua Provvidenza, lo conserva, ne attualizza le
potenzialità - gli esseri dotati di ragione e libero arbitrio contri-
buiscono essi stessi a questa attualizzazione - e lo conduce a
Sél08. Agendo come Provvidente, Dio agisce anche e in perma-
nenza in tutti gli esseri come Giudice, sapientemente dispensan-
do a ognuno la potenza naturale che corrisponde alla sua essenza
propria109.
Nella loro esistenza, gli esseri manifestano Dio attraverso i loro
l6goi, essendo questi contenuti nel L6gos, il quale, inversamente, è
presente in essi e per questo come incarnato nella creazionellO. «Il
L6gos si cela nei l6goi degli esseri visibili, ineffabilmente e in misu-
re particolari in ciascuno di essi [... ],pienamente tutto in tutti, in-
tegralmente in ciascuno senza venirne diminuito, invariabile nella
loro varietà, sempre simile a Sé, semplice e senza composizione ne-
gli esseri composti, senza inizio negli esseri che hanno un inizio,
invisibile negli esseri visibili, intangibile negli esseri tangibili>>lll.
L'attiva presenza di Dio nei l6goi degli esseri corrisponde a ciò
che la teologia ortodossa chiama le energie divine. San Massimo il
Confessore può perciò dire che nella moltitudine dei l6goi che es-
so può contemplare negli esseri, l'intelletto - se ne ha le disposi-

105 Cfr. Massimo il Confessore, Ambigua a Giovanni, 7 (PG 91, 1080B).


!06 Massimo il Confessore, Centurie sulla teologia e sull'economia dell'incarnazione, I, 49
(PG 90, llOlA). Si veda il co=ento che ne fa H. U. von Balthasar in Kosmische Liturgie,
cit., p. 598.
107 Cfr. Massimo il Confessore, Ambigua a Giovanni, 7 (PG 91, 1081C).
10s Ibidem.
109 Cfr. H. U. von Balthasar, Kosmische Liturgie, cit., p. 131; L. Thunberg, Microcosm and
Mediator, Lund, 1965, p. 69-76.
uo Cfr. Massimo il Confessore, Ambigua a Giovanni, IO, 22 e 33 (PG 91, 1128D-1133A,
1257AB e 1285CD).
Ili Ibidem, 33.

118
zioni adatte - «contempla le energie di Dio»112. In effetti, egli an-_
cora spiega, «in ogni l6gos d'ogni cosa particolare, e similmente in
tutti i l6goi in forza dei quali tutte le cose esistono, c'è Dio», che
tuttavia non è nessuno di essi ed è al di sopra di tutti. «Ogni ener~
gia divina esprime - indivisibilmente - tutto Dio attraverso quel-
1'energia»; ma, «pur essendo tutto quanto e in maniera comune in
tutti e in maniera particolare in ciascuno, Dio lo è senza spartirsi
né dividersi, senza essere diversamente separato nelle infinite clif-
ferenze degli esseri cui inerisce, né dunque limitato dall'essenza
particolare d'uno solo né limitante le differenze degli esseri all'in-
. temo della sola e unica totalità di tutti, ma è veramente tutto in
tutti, Egli che pur mai abbandona la Sua propria e indivisibile
semplicità.>>113.
In quanto comunicate, date da Dio alle creature, le energie divi-
ne vengono comunemente chiamate «grazia».
Queste energie divine, che si manifestano in tutti gli esseri della
creazione in gradi diversi, sono presenti nell'uomo in grado emi-
nente, siccome l'uomo occupa il primo posto fra le creature ed è la
sola creatura a essere fatta a immagine di Dio. Queste energie divi-
ne sono presenti nel l6gos della natura umana, ma anche, beninte-
so, nell'immagine di Dio presente nell'uomo che caratterizza fon-
damentalmente quel l6gos, e anche nelle virtù che, l'abbiamo visto,
sono presenti nella natura sotto una certa forma.

5. La rimozione dell'inconscio «teòfilo»

«Usciti dalla nostra prima natura, siamo finiti in una dimora di


tenebre», scrive sant'Antonio 114. In conseguenza del peccato origi-
nale, in effetti, l'intelletto (nous) dell'uomo si è velato e oscurato;
come dice san Simeone il Nuovo Teologo, è diventato <<la spenta
lampada dell' anima»115. E così l'uomo è arrivato fino a ignorare
l'esistenza in lui d'una facoltà che gli permette di contemplare, co-
noscere Dio ed entrare in comunione con Lui; perché quella facol-
tà si è sfigurata, dedicandosi tutta alla conoscenza delle «cose di

112 Ibidem, 22 (ibidem, 1247 A). Significa che le energie sono presenti nei l6goi degli esseri
e non già, come dei commentatori hanno ritenuto, che sono gli stessi l6goi a essere le energie.
113 Ibidem, 35 (ibidem, 1289A).
114 Lettere V 1
115 Catech;si: iv, 70 (dr. trad. it. presso Città Nuova, Roma).

119
questo mondo», viste non più alla luce dei loro l6goi, ma soltanto
nelle loro apparenze. Cessando quindi di conoscere le realtà spiri-
tuali, sia in sé che fuori di sé, l'uomo si diede a credere che non
esistessero, come il cieco che nega l'esistenza della luce perché i
suoi occhi non la vedono e tratta da bugiardi, illusi e pazzi quelli
che ne parlano e gliela descrivono116.
Essendo il suo intelletto diventato per lui inconscio - sotto l' a-
spetto della sua realtà e funzione spirituali -, essendosi la sua intel-
ligenza ottenebrata e la sua coscienza oscurata, sotto l'effetto delle
passioni117, l'uomo decaduto, fino a quando non si sarà purificato
dei suoi peccati, liberato delle sue passiòni e non sarà stato illurrii-
nato dalla grazia dello Spirito, si trova nell'incapacità di conoscersi
in modo adeguato e continua a mostrarsi incosciente anzitutto del-
la sua vera natura, dell' <<Uomo nascosto in fondo al cuore» (Prima
lettera di Pietro 3,4)118. Nello stato decaduto dell'umanità, <<molti
uomini, costata san Giovanni Crisostomo, perdono finanche la
coscienza della loro natura, delirano, non si conoscono più»119.
Sant'Isacco il Siriaco grida: «Guai a noi, perché non conosciamo
le nostre anime, ignoriamo a quale altra vita siamo stati chia-
mati!»120. E san Simeone, dopo aver osservato che, <<Velati dalle
passioni>>, non sappiamo più quel che in realtà noi siamo121, altro-
ve scrive ancora che «i nostri peccati si levano come un muro fra
noi e Dio» e, «se non li distruggiamo o li superiamo, [... ] non sa-
premo neppure che siamo degli uomini»; si chiede poi: «Come po-
tremo, fin quando la prigione starà in piedi e ci separerà dalla lu-
ce, in questa oscurità in cui viviamo, come potremo, dico, cono-
scere noi stessi? Come sapremo veramente ciò che siamo e come
siamo, dove andiamo e donde veniamo, dove siamo condotti e chi
siamo?»122 .
Nella sua caduta, l'uomo non perde l'immagine di Dio, che de-
finisce la struttura fondamentale del suo essere; e tuttavia, a causa

116 Ibidem, XV, 41s.


117 Cfr. Atanasio d'Alessandria, I:incarna1ione del Verbo, 32 (cfr. trad. it. cit.); Simeone il
Nuovo Teologo, Trattati etici, IX, 437s (hanno <<le orecchie del cuore turate e l'occhio dell'a-
nima velato dallè passioni»); Catechesi, XXXIII, 93 (cfr. trad. it. cit.); Giovanni Crisostomo,
Omelie sui demoni, II, 4; Gemente d'Alessandria, Il protreptico, X, 100, l; 105, l; XI, 114, 1
(cfr. trad. it. cit.).
118 Cfr. Macario d'Egitto, Omelie spirituali (Coli. II), XI, 4.
119 Commento ai salmi, 9, 8.
120 Discorsi ascetici, 17 (cfr. trad. it. presso Città Nuova, Roma).
121 Catechesi, cit., XVII, 26s.
122 Trattati teologici, I, 253s.

120
del peccato originale, quest'immagine si ritrova rimossa e nascosta.
E perciò l'uomo diventa incosciente sia della sua natura deiforme
sia di Dio presente in lui con la Sua immagine.
Similmente viene rimosso e nascosto anche l'abbozzo di somi-
glianza con Dio che si trova per natura in lui, in forza delle virtù
presenti in seme. Siccome le passioni sono costituite dalla perver-
sione d'uso delle facoltà dell'uomo - la cui attività conforme alla
loro natura costituisce invece le virtù -, con sant'Isacco il Siriaco
possiamo dire che <<le passioni levano un muro davanti alle virtù
nascoste dell'anima>>, e fino a che quelle non spariscono, <<le virtù
nascoste nell'anima non si lasciano scorgere»123. L'anima umana,
scrive dal canto suo sant'Atanasio, si è come sprofondata nell' o-
blìo delle cose divine124: «Stornata dal bene e dimentica di essere a
immagine del buon Dio, la potenza che è in essa non vede più il
Dio Verbo a somiglianza del quale è stata fatta; uscendo da sé, non
pensa e non immagina più che il nulla. La ragione è che essa ha
nascosto nelle pieghe dei desideri corporali lo specchio che ha
dentro, quello specchio nel quale soltanto poteva vedere l'immagi-
ne del Padre, e dunque non vede più ciò cui un'anima deve pensa-
re>>125.
E tuttavia, Dio non cessa di essere presente nel cuore d'ogni uo-
mo, anche se lui l'ignora o, per essere più precisi, rifiuta di ricono-
scerlo. «In realtà, nessuno può fuggire da Dio», dice san Giovanni
Crisostomo126. E perfino possiamo dire, per le ragioni già esposte,
che ogni uomo nel profondo di sé, nel suo essere intimo tende a
Dio e in qualche modo è unito a Lui anche quando rifiuta di rico-
noscerLo. Tertulliano, l'abbiamo già visto, pensa che <<l'anima (è)
per natura cristiana.>>127. Evagrio Pontico si spinge fino a dire che
<<la fede è un bene immanente che esiste per natura anche in quelli
che ancora non credono in Dio»128. Con la Sua operante presenza
nella natura stessa dell'uomo, Dio non cessa di presentarsi a- lui
perché lo riconosca, senza tuttavia forzarlo in alcun modo. Ma

123 Discorsi ascetici, cit., 68.


124 Contro i pagani, 8. Si veda anCb.eI:incarnazione del Verbo, lL
125 Contro i pagani, 8.
126 Omelie sulla penitenza, II, 3.
127 Apologetico, XVII, 6 (cfr_ trad_ it. presso Ed. Paoline, Roma).
128 Trattato pratico sulla vita monastica, 59 (dr. trad. it. presso Città Nuova, Roma). Scrive
anche Clemente d'Alessandria: <<La fede è un bene immanente» (Stromati, VII, 10, dr. trad..
it. presso Ed. Paoline, Milano). E Atanasio d'Alessandria: <<La fede nasce dalla disposizione
intima dell'anima>> (Vita di Antonio, 77; cfr. ttad. it. presso Ed. Paoline, Milano).

121
l'uomo, per la forza delle sue passioni, soffoca le continue e per-
manenti «gemmazioni» della grazia che avvengono nel suo profon-
do, censura le chiamate dello Spirito, resiste a Dio. Sant'Agostino,
analizzando le disposizioni della propria anima prima che essa ri-
conoscesse Dio, descrive in parole esplicite questo fenomeno: «La
mia anima malata, che non poteva trovare guarigione se non nella
fede, [. . .] si rifiutava di guarire. Resisteva alle Tue mani, o Dio, a
Te che hai preparato il rimedio della fede!»129. Sant'Ireneo si
esprimeva con parole analoghe: «Vani e disgraziati veramente,
quelli che non vogliono vedere cose tanto evidenti e chiare, ma ri-
fuggono la luce della verità, essendosi da se stessi accecati, come
l'infelice Edipo»Bo. Anche san Simeone il Nuovo Teologo dice la
stessa cosa: «Come una vipera, ci turiamo le orecchie, come sordi
e muti, morti e ciechi ai sensi della nostra anima.>>131. «Noi che sia-
mo vacillanti, mutilati e feriti, trascuriamo i mezzi per guarire e ci
ingegniamo in ogni modo a non far nulla>>, costata ancora132, sot-
tolineando l'aspetto attivo di quella che dobbiamo pur chiamare la
rimozione di Dio e della Sua grazia da parte dell'uomo dominato
dagli effetti morbosi del peccato originale e dalle sue passioni.
Succede ~ora che tutte le attività che l'uomo decaduto intra-
prende sotto la pressione delle sue passioni, molto spesso vengano
poste al servizio di quella rimozione e di quella resistenza e gli ser-
vano per fuggire da Dio, o almeno per tenersi lontano da Lui, per
nasconderseLo, e con ciò stesso per allontanarsi anche da se stes-
so, per rifiutare di riconoscere la propria vera natura e implicita-
mente rifiutare le varie implicazioni che quel riconoscimento ha
sulla sua esistenza.
Anche la coscienza morale, <<Voce misteriosa ma chiara e distinta
che dalle profondità d~lla nostra natura, in cui Dio l'ha posta, si
leva come un padrone di casa a insegnarci il bene e il male»133, an-
che questa gli uomini hanno rimosso, «l'hanno a poco a poco se-
polta e calpestata sotto i loro piedi con i loro peccati»l34. Essa
continua tuttavia a dare indicazioni all'uomo decaduto135; ma è nel
129 Conferenze, VI, 4.
uo Contro le eresie, V, 13, 2 (cfr. trad. it. presso Jaca Book, .Milano).
131 Catechesi, xxvm, 220s.
132 Trattati etici, VII, 287 s.
133 Giovanni Crisostomo, Omelie sulle statue, XII, 3; dr. 4; XIII, 3; Doroteo di Gaza, In-
segnamenti spirituali, m, 40; Barsanufio, Lettere, 158; Origene, Commento alla lettera ai Ro-
mani (PG 14, 1081A; trad. it. presso Marietti, Casale Monferrato).
134 Doroteo di Gaza, ibidem.
135 Cfr. Giovanni Crisostomo, Omelie sulle statue, XIII, 3.

122
potere dell'uomo lasciare che si esprim,a «oppure _seppellirla di
nuovo»136. In questo caso, potrà soltanto più dare delle indicazio-
ni confuse, come spiega san Doroteo di Gaza, con parole che bene
esprimono tutta la forza di rimozione che esercitano su essa le pas-
sioni: «Se la nostra coscienza ci dice di fare questo o quello e noi la
disprezziamo, se di nuovo parla e non facciamo ciò che ci dice, ma
persistiamo invece a calpestarla sotto i nostri piedi, allora finiamo
per seppellirla dd tutto, e il peso che le grava addosso le impedi-
sce d'ora in poi di parlarci chiaramente; ma come una lampada
che fa meno chiaro per la sporcizia che la ricopre, comincia a farci
vedere la cose in maniera sempre più confusa, in modo sempre più
oscuro, per così dire»137. Anche la coscienza morale finisce per di-
ventare inconscia per l'uomo, se egli continua in perpetuo a ri-
muoverne le manifestazioni. «Come in un'acqua torbida, continua
san Doroteo, nessuno può vedere il proprio volto, anche noi a po-
co a poco finiamo per non percepire più la voce della nostra co-
scienza, al punto da credere di non averne più. Eppure, nessuno
n'è privo, perché, l'abbiamo già detto, c'è qualcosa di divino che
non muore mai; essa continua sempre a ricordarci il nostro dove-
re, ma siamo noi, come ho già detto, che non la sentiamo più, per
averla disprezzata e calpestata sotto i nostri piedi»138.

136 Doroteo di Gaza, Insegnamenti spirituali, III, 40.


m Ibidem.
us Ibidem.

123
VII

L'INCONSCIO <<DEÌFUGO»

Incosciente della dimensione spirituale positiva del suo essere,


l'uomo decaduto lo è, correlativamente, anche del suo stato di de-
cadenza e delle sue passioni - in altre parole, delle sue malattie
spirituali - e di un buon numero di fattori legati a esse (come le
pulsioni e i pensieri malvagi). Molti Padri lo sottolineano.
San Macario costata che la maggior parte degli uomini è inco-
sciente degli effetti che ha su essi il peccato originale: «È il peccato
insinuatosi [per la disobbedienza di Adamo], peccato che provie-
ne da una qualche potenza spirituale di Satana e corrisponde a
una realtà, ad aver seminato tutti i mali; se non viene portato allo
scoperto, esso agisce sull'uomo interiore e sullo spirito e mette
guerra nei pensieri. Ma l'uomo non sa di agire per istigazione d'u-
na forza estranea. S'immagina che tutto ciò sia naturale e si tratti
di riflessioni sue. [. .. ] Il mondo è malato della passione malvagia e
non lo sa»I. La medesima costatazione fa anche san Simeone il
Nuovo Teologo, sottolineando inoltre come le passioni non costi-
tuiscano soltanto il contenuto di quest'inconscio, ma ne siano an-
che la fonte: «Tale è il sopravvento che le passioni hanno preso su
noi, tanto intensi sono l'ottenebramento e l'ignoranza in cui ci tro-
viamo che neppur più avvertiamo in quale stato siam caduti, nep-
pure più capiamo di agir male>>2. «La luce del cuore è tanto oscu-
rata che non ci accorgiamo neppure di quanto l'anima sia ferita e
disgraziata», osserva un altro Padre3.
A Eusebio, che gli chiede perché gli uomini curino le malattie
del loro corpo ma di quelle dell'anima non si diano pensiero, Gio-
vanni il Solitario risponde che, per effetto del peccato, gli uomini

1 San Macario d'Egitto, Omelie spirituali (Coli. Il), XV, 49.


2 Catechesi, III, 20ls.
3 Apoftegmi (in CSP), V, 1 (dr. trad. it. Apoftegmi di sapienza latina, ossia florilegio di pa-
recchie migliaia di locuzioni latine, Jovene, Napoli).

125
«diventano incapaci di vedere e capire; sono come dei morti che
non s~ntono nessuna pietà per il loro stato interiore»4. «Malati co-
me siamo, costata san Giovanni Climaco, non possiamo diagnosti-
care Oe malattie spirituali che sono in noi], sia a causa della nostra
debolezza, sia perché esse sono radicate troppo in profondità>>5.
Sant'Isacco il Siriaco osserva che <<IDolti malati non sanno di esser-
lo», anzi «la maggior parte degli uomini che sono malati sostengo-
no di essere sani>>6 . Scrive san Giovanni Crisostomo: «Chi si è ab-
bandonato alle passioni, annebbiato da una specie d'ubriacatura
non sa di essere malato»7. E non teme, altrove, d'aggiungere: «Tut-
ti questi mali che ci troviamo addosso ... non ne abbiamo coscien-
za. [. .. ] Con la nostra insensibilità, non siamo affatto diversi da
quegli alienati che dicono e fanno mille cose pericolose e vergo-
gnose e, ben lontani dall'arrossirne, piuttosto se ne vantano e s'im-
maginano di essere di spirito più sano dei loro prossimi. Noi fac-
ciamo lo stesso: facciamo tutto ciò che fanno i malati e non sappia-
mo di essere malati»8.

L'uomo decaduto, nella misura in cui non ha coscienza del suo


stato di malattia, trascura di lasciarsi curare9 e pretende di non aver
nessun bisogno della guarigione che gli propongonolO. Sono molti
«quelli incapaci d'intuire le loro passioni. E siccome non le avver-
tono, neppure si danno da fare per guarirne>>, costata sant'Isaccoll;
resistono cioè alla medicina spirituale. «Come potrebbe accettare
di venire curato chi non si lascia convincere che è malato o feri-
to?», chiede san Simeone12; ma se resta incosciente del suo stato,
non fa che aggravarlo. «La peggior malattia è quella che mina il
paziente senza che egli la sospetti», osserva san Giovanni Crisosto-
mo13, il quale, in un altro passo, fa anche notare che «non cono-
scersi è la follia e frenesia peggiore che esista>>l4.
4 Dialogo sull'anima e sulle passioni degli uomini (cfr. edizione frane. a c. di I. Hausherr,
Roma, 1939, p. 51).
5 La scala del paradiso, XXVI, 147 (cfr. trad. it. presso Città Nuova, Roma).
6 Lettere, 4.
7 Omelie sulla lettera ai Romani, XI, 5.
8 Trattato sulla compunzione, I, 1.
9 Cfr. Giovanni Crisostomo, Omelie sulla lettera ai Romani, XI, 5.
10 Cfr. Giovanni Crisostomo, Apologia della vita monastica, m, 9; Simeone il Nuovo Teo-
logo, Catechesi, VII, 87-88.
11 Discorsi ascetici, 30.
12 Catechesi, VII, 89.
13 Omelie sulla penitenza, VI, 1.
14 Commento dei salmi, 9, 9.

126
E tuttavia, all'uomo non basta prendere genericamente coscien-
za della sua vera natura e, correlativamente, del proprio stato di
decadenza perché il suo essere nascosto cessi di essergli inconscio.
Neppure il cristiano, che pur dalla fede e dallo Spirito ha ricevuto
la possibilità di conoscersi, riesce a prendere totalmente coscienza
delle passioni che abitano in lui, se non a prezzo di tutto un com-
plesso di condizioni che ben di rado si trovano tutte insieme riunite.
E perfino a chi cerca di prendere coscienza nel modo più accurato
delle sue passioni, in vista di liberarsene, alcune possono continua-
re a restare nascoste per lunghi periodi e altre mostrarsi solamente
in parte.
Più d'una volta san Macario sottolinea che il male ereditato dal
peccato ancestrale ha radici ben profonde e ben propagate nel-
l'uomo15. Dice, in particolare, che l'attività diabolica opera nel più
profondo del cuore e, per questo, in maniera che non appare: <<ll
serpente, il tuo assassino, si nasconde ben sotto lo spirito e più in
profondo dei pensieri, in quelli che sono i recessi dell'anima. Il
cuore, in effetti, è un abisso»16. Fino a quando l'uomo non avrà to-
talmente adempiuto tutti i comandi del Cristo, le passioni gli reste-
ranno totalmente o parzialmente inconsce; perché, spiega san Si-
meone, mantiene come un velo sul cuore (cfr. Seconda lettera ai
Corinzi 3,15-16), un velo che gli impedisce di vedersi totalmente17.
Evagrio, san Giovanni Cassiano e san Massimo il Confessore par-
lano di <<passioni nascoste nell' anima>>18; Giovanni il Solitario, di
«moti della nostra natura nascosta»19, di «mali segreri>>20, di «esse-
re nascosto» dell'uoma2 1 e anche di «cose nascoste nelle profondi-
tà dell' anima>>22; san Giovanni Climaco parla di «invisibile oscuri-
tà interiore>>23 e san Gregorio il Grande di passioni <<nascoste nelle
pieghe più segrete del cuore>>24. <<Molte passioni ci sono nelle no-
stre anime, passioni che ci sfuggono», sottolinea ancora Evagria25.

15 Cfr. Omelie spirituali (Coli. ID, XV, 21.


16 Ibidem, XVII, 15.
17 Cfr. Catechesi, xrv, 80s; Trattati etici, I, 12, 209s.
18 Cfr. Evagrio Pontico, Centurie gnostiche, VI, 52; Giovanni Cassiano, Conferenze, XIX,
12; Massimo il Confessore, Centurie sulla carità, Il, 31; III, 78; N, 92.
19 Dialogo sull'anima e le passioni degli uomini (cfr. trad. cit., p. 92).
20 Ibfdem (ibidem, p. 50).
21 Ibidem (ibidem).
22 Ibidem (ibidem, p. 91).
23 La scala del paradiso, XXVI, 6.
24 Commento moralea Giobbe (Moralia), V, 46 (cfr. traci. it. presso Città Nuova, Roma).
25 Centurie gnostiche, VI, 52.

127
San Massimo, san Talassio e san Esichio di Batos riprendono que-
st'affermazione quasi alla lettera26. In linea ancora con questo me-
desimo ordine di idee, san Giovanni Cassiano cita i semi delle pas-
sioni che persistono nel segreto dell'anima e se ne stanno acquatta-
te nelle sue pieghe profonde27. San Marco il Monaco osserva che
nell'anima esistono delle passioni che sono come quei serpenti che
si appiattano nelle case28; parla poi di «impulsi nascosti che agi-
scono nel fondo [dell'uomo]».29; insegna che ogni passione, anche
molto antica, costituisce, per l'uomo che non se n'è totalmente pu-
rificato, come un insieme di sonnecchianti predisposizioni che si
mostreranno al tempo buono30; per questo, parla di «cattivi pen-
sieri nascosti in noi>>-31, di <<pensieri nascosti che ci nascondono a
noi>>32, di «semi delle passioni nascosti nel [nostro] intern0>>33 e,
fra essi, al primo posto egli mette, come abbiamo già visto, la tra-
scuratezza, la negligenza e l'ignoranza, <<vizi più funesti degli altri,
di cui la maggior parte degli uomini non sa niente, anzi non sa
neanche che esistano>>3 4 . Anche san Paolo parla di «segreti del
cuore» (Prima lettera ai Corinzi 14,25) e di «segreti degli uomini>>
(Romani 2,16). E così il salmista prega Dio: «I suoi peccati, chi li
conosce? I Da quelli nascosti in me, purificami!» (Salmo 19, 13).

La ragione evidentemente è che le passioni - o· almeno alcune di


esse - sono più o meno inconsce a seconda del grado di coscienza
spirituale d'ognuno. Se a coloro che vivono lontani da Dio sono
nascoste del tutto, o perlomeno appaiono solamente quando si
manifestino nelle forme più grossolane o estreme, a coloro che in-
vece si accostano a Dio e praticano i Suoi comandi alla luce. dello
Spirito esse si rivelano con sempre maggiore finezza. C'è insomma
uno stacco notevole fra il peccatore - che a riguardo delle passioni
è come un cieco - e chi invece avanza con l'ascesi. Mentre questi
26 Massimo il Confessore: «Nelle nostre anime sono nascoste molte passioni» (Centurie
sulla carità, IV, 52); Talassio: «Nelle nostre anime sono nascoste le peggiori passioni» (Centu-
rie, Ill, 30); Esichio di Batos: «Numerose passioni si nascondono nelle nostre anime>> (Capi-
toli sulla vigilanza, 72).
27 Conferenze, XXII, 3.
28 La legge spirituale, 179 (dr. trad. it. inLafilocalia, cit., val. I, p.172-187).
29 Ibidem, 180.
30 Cfr. A proposito di quelli che credono di essere giustificati per le opere (dr. trad. it. in La
filocalia, cit., val. I, p. 188-211).
3! Controversie con un avvocato (dr. trad. it. in La fi!ocalia, cit., val. I).
32 Ibidem.
33 Lettera al monaco Nicola, 4 (dr. tracL it. La filocalia, cit., vol. I, p. 212-269).
34 Ibidem, 13; dr. anche 10.

128
le stana dalle pieghe più nascoste della sua anima, quell'altro se ne
crede indenne, fino a quando perlomeno esse non raggiungano
delle proporzioni straordinarie rispetto allo stato medio .di deca-
denza dell'umanità che ha intorno. Per questo, san Macario osser-
va: <<Fin quando un uomo è prigioniero delle cose visibili di questo
mondo, legato dalle varie catene della terra, trascinato dalle pas-
sioni malvagie, neppur sa che dentro di lui avviene un altro com-
battimento, un' altr.a lotta, un'altra guerra. Infatti, è da quando un
uomo si leva per combattere e liberarsi da tutti i legami visibili di
questo mondo [. ..] e comincia a stare çon perseveranza davanti al
Signore, svuotandosi di questo mondo, che può conoscere il com-
battimento interiore delle passioni che avviene in lui, la sua guerra
intestina e i suoi pensieri malvagi. Come abbiamo detto, fino a
quando uno non lotta, non rinuncia al mondo, non si stacca con
tutto il cuore dalle cupidigie terrene, fino a quando non vuole
unirsi interamente e senza riserve al Signore, fino ad allora non co-
noscerà le astuzie segrete degli spiriti della malizia né le passioni
malvagie che sono nascoste in lui. Ma costui è straniero a se stesso,
non sapendo di portare in sé le piaghe di passioni segrete>>35.
Per farci ben comprendere tutta la differenza di percezione che
corre fra l'asceta e chi non conduce nessun combattimento interio-
re, san Giovanni Cassiano ricorre a un illuminante paragone: «Sup-
poniamo che in una casa bella, spaziosa, piena di tante cose, mobi-
li, oggetti vari, entrino due uomini; il primo ha una vista sana e acu-
ta, il secondo ha gli occhi appannati da un' oftalmìa. Questi, che per
la sua vista oscurata non può vedere tutto, assicura che lì non ci so-
no che armadi, letti, panche, tavoli, cioè tutte cose che è stato il tat-
to più che la vista a dirgli che ci sono. L'altro, al contrario, il cui oc-
chio acuto ha sondato, come un raggio di luce, gli angoli più nasco-
sti, elenca tutta una quantità di oggetti che a stento uno noterebbe
e, ad ammucchiarli tutti insieme, difficilmente raggiungerebbero il
volume d'uno solo dei mobili che il· suo compagno ha riconosciuto
a tastoni. Così sono i santi. Sono essi i veggenti, se così posso dire.
Nel loro zelo per la perfezione, essi scoprono in sé, con rara perspi-
cacia, e condannano senza misericordia, delle cose che il nostro
sguardo interiore, ottenebrato com'è, non sa vedere. Dove il pecca-
to più lieve -lieve a giudizio della nostra negligenza- non avrebbe
secondo noi che appannato appena il biancore della nostra coscien-

35 Omelie spirituali (Coli. Il), XXI, 4; cfr. 5.

129
za, essi si vedono stracolmi di macchie>>. Al contrario, «quelli che
coprono gli occhi del loro cuore con il velo spesso dei vizi, e secon-
do la parola del Signore "vedendo non vedono, ascoltando non
sentono e non capiscono" (Matteo 13,13), costoro stentano a vede-
re, nei recessi del loro cuore, perfino le colpe più gravi e capitali.
Ma come potrebbero costoro avere quello sguardo puro che è ne-
cessario per intuire l'apparizione impalpabile dei pensieri, oppure i
moti d'un attimo e nascosti della concupiscenza, quel tipo di moti
che ferisce l'anima con una puntura lieve e sottile, o magari tutte le
distrazioni che li tengono prigionieri?>>-36.
A questo punto dobbiamo dire che è l'orgoglio, fra tutte le pas-
sioni, a ottenebrare di più la coscienza dell'uomo e a renderlo in-
cosciente delle sue malattie, dalle più lievi o tenui alle più gravi e
serie. <<L'orgoglio, dice san Giovanni Climaco, produce una trascu-
ratezza totale dei peccati>>-37. <<La maggior parte degli orgogliosi,
costata ancora, non sa di esserlo; costoro anzi credono di essere di-
ventati impassibili; è soltanto nell'ora della morte che scoprono la
loro povertà>>-38. All'orgoglio s'unisce poi anche quella che i Padri
chiamano la «manìa di giustificarsi», quell'atteggiamento per cui,
messo davanti al suo peccato, l'uomo rifiuta di riconoscerlo come
suo, ne rimuove la coscienza. '
Né è sempre per non essere spiritualmente abbastanza desto
che l'uomo è totalmente o parzialmente incosciente delle passioni
che sono in lui. Spesso, come fa osservare san Massimo il Confes-
sore, le passioni si trovano in uno stato di «apatia>> (anérgheia)39,
cioè di inattività o sonno. Questo stato può durare più o meno a
lungo e perfino far credere all'uomo spirituale di essere esente o li-
berato da questa o quella passione che da qualche tempo non si è
più manifestata o che non si è mai rivelata. Ed è così che può in-
staurarsi nell'anima un certo stato di pace, che però è illusorio.
In effetti, oltre allo stato autentico di pace, che proviene dall'im-
passibilità (stato che l'uomo raggiunge al culmine della praxis,
quando è liberato realmente da ogni passione), può esistere, come
avverte Evagrio, anche un falso stato di pace, che uno sente quan-
do i demoni si ritirano40, e ciò accade quando essi sono ben certi

36 Conferenze, XXIII, 6; cfr. 7.


37 La scala del paradiso, XXII, 22.
38 Ibidem, 29.
39 Centurie sulla carità, II, 40.
40 Trattato pratico sulla vita monastica, 57.

130
d'avere già saldamente in loro potere, per altre vie, la loro vittima.
È il caso per esempio quando la vanagloria (la kenodoxfa dei Pa-
dri) o l'orgoglio hanno preso nell'anima il posto di tutte le altre
passioni.
Può anche accadere che l'uomo abbia la coscienza tutta quanta
ingombra delle molteplici e ansiose attività mondane cui si dedica,
e che allora le sue passioni gli siano velate dalle sue preoccupazio-
ni quotidiane, che lo distolgono dall'esame del proprio stato41. «A
causa del suo corpo», osserva san Doroteo di Gaza, parlando pro-
prio d'una situazione del genere, <<l'anima è distratta e disattenta
alle sue passioni»42; ma <<Venga avanti uno qualsiasi di voi e si fac-
cia rinchiudere in una cella buia e lì viva anche soltanto per tre
giorni senza mangiare, senza bere, senza dormire., senza vedere
nessuno, senza salmodiare, senza pregare, senza mai ricordarsi di
Dio, e allora vedrà cosa gli faranno le passioni>>43.
. Quando l'uomo rinuncia alla vita mondana per impegnarsi a
fondo nella vita spirituale, in genere accade che delle passioni che
non credeva di avere o che gli parevano fino ad allora poco svilup-
pate si destino e si risveglino in tutta la loro intensità. «Non stu-
piamoci, scrive san Giovanni Climaco, agli inizi della nostra vita
monastica, di vederci aggredire dalle passioni ben peggio di quan-
do vivevamo nel mondo. [. .. ] In effetti, le bestie feroci erano già lì,
nascoste, ma non si facevano vedere»44. E san Talassio fa notare:
«Nella nostra anima sono nascoste le peggiori passioni. Ma esse
non appaiono se non quando respingiamo le cose [del mondo]»45.
Il più delle volte sono le tentazioni a rivelare all'uomo la presen-
za in lui di passioni di cui era incosciente: «Nell'anima ci sono
molte passioni di cui non sappiamo niente, fino a quando arriva la
tentazione e ce le rivela», osserva Evagrio46.
Spesse volte accade pure che l'uomo resti incosciente delle sue
passioni fino a quando non finisce in circostanze tali che gliele ri-
velano e le fanno risorgere. L'assenza nell'anima di questo o quel
pensiero passionale, per esempio, non è affatto segno che nell' ani-
ma quella passione non esista, ma al massimo significa che in quel

41 Non possiamo fare a meno cli pensare al pascaliano «cli-vertissment>>.


42 Insegnamenti spirituali, XII, 126.
43 Ibidem, 122.
44 La scala del paradiso, XXVI, 169.
45 Centurie, m, 30.
46 Centurie gnostiche, VI, 52.

131
momento l'anima non si trova alle prese con un oggetto o una cir-
costanza che la susciti. «Una cosa, scrive san Massimo, è essere
senza pensieri [passionali] e un'altra essere libero dalle passioni.
Spesso non si hanno pensieri [passionali] perché non ci sono og-
getti per cui si ha una passione. Ma le passioni restano nell'anima,
lì nascoste: compaia quell'oggetto, ed esse si rivelano! »47 ..L' espe-
rienza di quanti vivono nell'isolamento ne è un esempio continuo:
fino a quando vivono ritirati, magari si credono liberi da quelle
passioni che si manifestano principalmente nei rapporti con gli al-
tri; ma lascino la loro solitudine, e quelle di nuovo appaiono, e
spesso con maggiore intensità di prima. «Tutte le passioni che ci
siamo portati nel deserto senza averle prima corrette, le sentiremo
tacitate in noi, ma non soppresse», scrive san Giovanni Cassiano48.
«Un tale, prosegue poi, si crede paziente e umile, fino a quando
non entra in contatto con nessuno, ma subisca· una piccola contra-
rietà, e subito tornerà alla sua prima natura. I dlletti nascosti ri-
compaiono subito e, come cavalli senza morso dopo un lungo ri-
poso, si lanciano dalla scuderia con una violenza e una foga da
causare la morte del cocchiere. In effetti, anche quando tutte le re-
lazioni umane cessano, i nostri vizi continuano in noi a svilupparsi,
se prima non saranno stati purificati.>>49.

Quest'insegnamento di san Cassiano mette in evidenza come la


passione, fino a quando non sia stata estirpata totalmente dall' ani-
ma, non solamente continui lì a esistere, ma continui anche a svi-
lupparsi, senza che la persona n'abbia coscienza; e crescendo sem-
pre più, prende sempre più forza, fino a sfogarsi con violenza ap~
pena un oggetto appropriato le porga l'occasione di esprimersi;
sempre che l'uomo sia così poco attento da lasciarle via libera e
non la domini con la forza della grazia.
Nelle sue Conferenze, san Giovanni Cassiano riafferma la persi-
stenza.50 e il rafforzamento inconsci delle passioni non distrutte, o
perlomeno non combattute e alle quali non è data occasione di ma-
nifestarsi: <<Dobbiamo sapere che, se anche ci ritiriamo nel deserto
o in un qualche remoto luogo prima d'aver guarito i nostri vizi, di

47 Centurie sulla carità, m, 78.


48 Istituzioni cenobitiche, VIII, 18.
49 Ibidem.
50 Possiamo riconoscerla da taluni indizi, e Giovanni Cassiano ne dà qualche esempio
(Conferenze, XIX, 12).

132
essi impediamo soltanto gli effetti, le manifestazioni, ma la passione
non è affatto estinta. La radice dei peccati rimane celata nel nostro
cuore, fino a quando non l'avremo estirpata. Che dico? non fa che
ingigantire [... ] È dunque l'atto del peccato che non c'è, non già
l'inclinazione cattiva. Mescoliamoci per qualche giorno alla vita de-
gli altri uomini, e subito le passioni usciranno dalle caverne dei no-
stri sensi. Così provando che le passioni non nascono nel momento
in cui si sfogano con impeto, ma che in quel momento vengono sol-
tanto alla luce, dopo essersi tenute per lungo tempo nascoste>>5 1.

Vien fuori evidente, da tutto ciò, che non sono le circostanze


esterne a produrre le passioni degli uomini, come troppo spesso si
pensa. Gli avvenimenti (o, più in generale, gli oggetti) esterni non
si limitano che a offrir loro loccasione di rivelarsi. «Ognuno, inse-
gna san Giacomo, è tentato dalla propria cupidigia» (Lettera di
Giacomo 1,14). E fa notare san Giovanni Cassiano: <<Mai nessuno,
provocato dal vizio d'un altro, è costretto a peccare, se non ha già
in cuor suo la materia dei suoi peccati. Né dobbiamo pensare che
uno venga sedotto d'un colpo, quando, per esempio, se vede la
bellezza d'una donna sprofonda nell'abisso d'una vergognosa con-
cupiscenza; dobbiamo piuttosto ritenere che quella vista è stata
soltanto l'occasione perché la malattia che covava nel segreto si
mostrasse in superficie>>52 . «È un inganno, un falso ragionamento
- scrive dal canto suo san Doroteo di Gaza -, sostenere che uno,
sconvolto da una parola di troppo d'un fratello, si dica: "Se questo
fratello non fosse venuto a parlarmi e sconvolgermi, non avrei pec-
cato"». In verità, fu poi questo fratello «a mettere in lui la passio-
ne? Gli ha semplicemente rivelato la passione che era già dentro di
lui. [. ..] Costui, insomma, [. ..] si credeva in pace, ma dentro di sé
aveva una passione che ignorava. Bastò una sola parola del fratello
a portare alla luce il marciume che era nascosto nel suo cuore>>53.
Anche san Giovanni Cassiano fa un esempio analogo, concluden-
do alla stessa maniera: «Se, sopraffatti dall'ingiuria, ci infiammia-
mo di collera, non dobbiamo credere che sia il morso dell'affronto
la causa del peccato; quell'ingiuria si è limitata a manifestare una
nostra debolezza nascosta>>54.

51 Conferenze, :xIX, 12.


52 Istituzioni cenobitiche, IX, 6.
53 Insegnamenti spirituali, VII, 82.
54 Conferenze, XVIII, 13.

133
Concludendo, dobbiamo ancora accennare al carattere profon-
damente patogeno delle passioni inconsce. Le passioni portate alla
luce mantengono sì malata l'anima, ma almeno l'uomo può com-
batterle più facilmente. Le passioni nascostè (le passioni che stan-
no nascoste, che uno si nasconde o nasconde), invece, fanno al-
l'uomo un torto ancora peggiore e rendono l'anima tremendamen-
te malata, insegnano i Padri. Esse la minano, la corrodono, a poco
a poco la distruggono, in maniera sorda ma tanto più efficace e
potente in quanto a esse vien lasciato tutto lo spazio possibile per-
ché si sviluppino e si rafforzino. I pensieri nascosti «corrodono il
cuore», afferma san Giovanni Cassiano'.55, e nella sua seconda Con-
ferenza cita le parole di Abbà Teone sulla <<tirannia dei pensieri se-
greti [. .. ], di tal natura da esercitare una crudele violenza, fino a
quando uno li tiene nascosti>>5 6. Nel medesimo ordine di idee, in-
segna un altro Padre: «Nella misura in cui uno nasconde i propri
pensieri, questi si moltiplicano e prendono forza [. ..] E come un
verme nel legno, il cattivo pensiero corrompe il cuore>>57.
Vien allora da sé come una delle prime funzioni della terapeuti-
ca da usare per guarire dalle sue passioni l'uomo decaduto debba
essere proprio quella di portare quelle passioni in piena luce, di
rendere l'uomo pienamente cosciente di esse.

55 Istituzioni cenobitiche, N, 9.
56 Conferenze, II, 11.
57 Apoftegmi, cit., 592150.

134
VIII

L'INCONSCIO SPIRITUALE E LA TERAPEUTICA

1. L'incop.scio spirituale e la patologia

I due inconsci che abbiamo distinto non sono entrambi patolo-


gici, né patogeni alla stessa maniera.
E tuttavia, per l'uomo la loro coesistenza è già da sola una fonte
di dualità, di contraddizioni e conflitti. Ogni uomo avverte in sé -
in maniera più o meno acuta, più o meno dolorosa, più o meno in-
quietante - questa contraddittoria dualità di tendenze. La lettera-
tura se ne nutre a iosa; sappiamo per esempio che è presente in
ogni pagina di Dostoevskij. Anche Pascal è uno di quelli, tra i filo-
sofi e gli scrittori, che hanno meglio percepito questo fenomeno;
Pascal ha avuto la giusta intuizione che la sua origine sta nella
«doppia natura>> di cui l'uomo è portatore - la sua natura decadu-
ta e la sua natura originaria - e che la sua natura originaria è stata
sì deteriorata ma non distrutta:

Quale chimera è dunque l'uomo? Quale novità, quale mostro,


quale caos, quale miscuglio di contraddizione, quale prodigio! Giu-
dice di tutte le cose, imbelle verme della terra; depositario del vero,
cloaca d'incertezza e di errori; gloria e rifiuto dell'universo. [ ... ]
Sappi dunque, superbo, quale paradosso sei per te stesso! Umiliati,
ragione impotente! taci, natura imbelle! impara che l'uomo supera
l'uomo infinitamente e senti dal tuo padrone la tua verà condizione,
che tu ignori! Ascolta Dio! Perché, a ben guardare, se l'uomo non
fosse mai stato corrotto, nella sua innocenza godrebbe sicuro della
verità e della felicità; e se non fosse mai s.._tato che corrotto, non
avrebbe nessun'idea della verità né della beatitudine. Ma, disgraziati
che siamo - e tanto più disgraziati in quanto nella nostra condizione
c'è già della grandezza:-, noi abbiamo un'idea della felicità e non
siamo capaci d'arrivarci; intuiamo un'immagine della verità e non
possediamo che la menzogna; siamo incapaci d'ignorare in modo as-
soluto e di sapere con perfetta certezza, tant'è manifesto che ci sia-

135
mo trovati in uno stato di perfezione da cui sciaguratamente siamo
decadutil.

L'inconscio <<teòfilo» non è patogeno in sé, cioè in forza del suo


contenuto. È patogeno solamente in quanto inconscio, nella misu-
ra in cui l'uomo non prende atto del suo contenuto, ma ne fa anzi
oggetto di rimozione, e nella misura in cui quest'assenza di presa
d'atto e anzi rimozione creano, negli uomini che ne sono vittime,
un deficit di essere e un vuoto, immediatamente compensati da
comportamenti e stati surrogatori, i quali invece, questi sì, sono
propriamente patologici e patogeni. ,
Siccome la naturale tendenza dell'uomo a Dio - insita nel moto
della sua natura e in tutte le facoltà della sua natura -, ma anche la
tendenza alla realizzazione di sé - nell'unione con Dio e nella dei-
ficazione, per iniziativa di Lui, in Lui e per Lui - vengono ignorate
e anzi represse, queste tendenze si ritrovano a essere deviate e per-
vertite in un moto e una tendenza verso il «mondo» e verso l'io, in
tal modo originando una «idolificazione» e un culto degli oggetti e
degli pseudo-valori di questo mondo e dell'io e culminando in
quegli stati patologici che sono l'egoismo. (o amore egoistico di sé,
philautfa) e le altre passioni.
Da questa patologia spirituale proviene anche una patologia psi-
chica; ma di questa parleremo in un prossimo capitolo.

Quanto all'inconscio «deìfugo», questi è invece patologico e


patogeno in sé e per sé, in ragione dei suoi contenuti e dei suoi
effetti.
Per la ragione, in primo luogo, che l'uomo decaduto è sponta-
neamente inconscio delle sue malattie spirituali, e appunto que-
st'incoscienza è il primo ostacolo alla guarigione: è evidente che
una malattia non si può curare, se non se ne ha coscienza.
Per la ragione, in secondo luogo, che il carattere inconscio delle
pulsioni, dei pensieri, degli stati, delle disposizioni, degli atteggia-
menti e delle tendenze patologiche ne mantiene ben potente la
forza e la fa anzi crescere. Su questo punto, le analisi dei Padri
convergono con quelle della moderna psicanalisi.

1 Pensieri (a cura di Brunschvicg), 434 (cfr. trad. it. Pensieri e altri scritti, San Paolo, Cini-
sello Balsamo, 199612).

136
2. :VinconsCio spirituale e la terapeutica

La terapeutica di questa o quella malattia spirituale presuppone


anzitutto che chi ne è colpito ne prenda coscienza. La minuziosa
descrizione che i Padri fanno delle passioni non ha altro scopo se
non di favorire questa presa di coscienza: «Se non vengono prima
esposte le varie forme d'una malattia, ~e non si fa prima l'inventa-
rio della sua origine e delle sue cause, alla malattia non si potrà
mai applicare la cura adatta>>, scrive san Giovanni Cassiano2; che
poi aggiunge: «Le malattie non si potranno mai guarire né rimedi
trovare ai malanni della salute se prima non si saranno cercate, con
minuziosa investigazione, le loro origini e cause>>3.
Va osservato che questo minuzioso studio delle cause e origini
delle passioni ha già di per sé un valore terapeutico. San Giovanni
Cassiano sostiene che alcune persone guarirono dalle loro" malattie
spirituali già semplicemente ascoltando i loro Padri spirituali spie-
gare le varie cause, forme e manifestazioni di quelle malattie ed
esporre i rimedi capaci di guarirle. «Nel loro insegnamento - egli
scrive - gli Antichi hanno l'abitudine di espoFre tutte queste cose.
[... ] E mentre ce le esponevano, bene spesso ne riconoscevamo in
noi diversi elementi [. .. ] e venivamo guariti, pur noi .tacendo, sol-
tanto a sentire le cause e i rimedi delle passioni che ci animavano»4.
La terapeutica delle malattie spirituali comincia dunque ad ab-
bozzarsi già con la pura e semplice descrizione delle malattie, in
quanto essa permette all'uomo di scoprire a' che punto è, di cono-
scere e capire i moti della sua anima, di scoprirne il significato
profondo e così già prendere distanza dalla malàttia di cui è mala-
to, di non venire più ciecamente determinato da meccanismi che
ignora, che lo turbano e lo fanno soffrire. Né i Padri descrivono
soltanto le malattie evidenti e facilmente individuabili, ma anche
quelle che, sebbene presenti nel cuore, restano nascoste a coloro
che sono privi d'un discernimento spirituale affinato, e quelle altre
che esistono soltanto in germe ma rischiano di esplodere se non si
presta loro attenzione5.
È evidente comunque che la descrizione delle malattie spirituali
-loro natura, origine, meccanismi profondi e modi comuni di ma-

2 Istituzioni cenobitiche, VII, 13.


3 Ibidem, Xll, 4.
4 Ibidem, V, 13.
5 Ibidem, XI, 17 (2).
nifestarsi in tutti gli uomini - va completata da un'analisi sulla for-
ma, sul grado e sulle alleanze specifiche che esse assumono in ogni
persona. Sotto questo aspetto, la confessione e la <<manifestazione
dei pensieri>> (nella direzione spirituale), insieme ai consigli che in
quell'occasione il Padre spirituale impartisce, svolgono un ruolo
fondamentale per una siffatta presa di coscienza.
In secondo luogo, la presa di coscienza delle malattie spirituali
permetterà di prendere coscienza anche delle malattie psichiche
che da esse derivano o sono a esse collegate. Qui il ruolo del tera-
peuta è d'aiutare il malato a capire in qual modo le turbe psichi-
che s'innestano su certe malattie spirituali e come la terapeutica di
queste aiuti a curare anche quelle.
Il ruolo del terapeuta è anche di aiutare il malato a rendersi con-
to che le malattie psichiche e le malattie spirituali cui le prime so-
no collegate hanno in realtà la loro radice in certe tendenze della
natura che sono state pervertite, deviate, stravolte dal loro fine ori-
ginario e normale e quindi si esplicitano in modalità contro natura.
E anche, correlativamente, di fargli prendere coscienza dell' orien-
tamento originario e normale di quelle tendenze - che continuano
a improntare la sua natura profonda -, orientamento che caratte-
rizza ciò che noi abbiamo chiamato l' «inconscio teòfilo».
Ciò dunque significa che nel processo terapeutico la coscientiz-
zazione dell'inconscio «teòfilo» deve procedere di pari passo con
quella dell' «inconscio deìfugo».
Su questo punto, la terapeutica implica un processo analogo a
quello che già san Paolo aveva abbozzato nel suo discorso agli
Ateniesi: «Cittadini ateniesi, vedo che siete gli uomini più religiosi
che esistano. Percorrendo infatti la vostra città e osservando i vo-
stri monumenti sacri, ho trovato anche un'ara con questa dedica:
"Al dio ignoto". Ebbene, ciò che voi adorate senza conoscerlo, io
ve lo annuncio» (Atti degli apostoli 17,22-23 ). La vita interiore del-
l'uomo e tutta la sua esistenza sono come una città zeppa di edifici
che egli ha costruito per il suo bisogno profondo d'adorare Dio;
ma l'uomo, non conoscendo o non trovando il vero Dio, si è rivol-
to a falsi dèi. Il ruolo del terapeuta è quindi di rivelare all'uomo il
Nome di Dio verso il quale egli tende in forza della sua natura
profonda ma dal quale la sua natura decaduta l'allontana.
Tutto ciò non fa nascere nessun problema quando si tratti d'un
padre spirituale che parla a un suo figlio spirituale. Ma per uno
psicoterapeuta che ha da fare con un paziente tutto diventa più

138
problematico. Infatti, uno psicoterapeuta cristiano non può tra-
sformarsi in predicatore e deve esercitare la sua funzione nell'asso-
luto rispetto della libertà di chi ha in cura. Deve tuttavia dirgli ciò
che ritiene sia la causa delle sue turbe e il modo di rimediarvi. In-
dicare a una persona la direzione buona non è lo stesso che forzar-
la a prendere quella via. Ma sarebbe anche sconveniente non indi-
care a uno che si è perso la direzione buona, quando la si conosca.

Il ruolo del terapeuta non dev'essere soltanto d'aiutare la perso-


na a prendere coscienza del contenuto dell'inconscio deìfugo e
dell'inconscio teòfilo. Il terapeuta deve anche ruutare il malato a
dominare e orientare quel contenuto. Come già abbiamo mostrato
e ~cora meglio mostreremo in un prossimo capitolo, siccome la
malattia sostanzialmente consiste nell'uso pervertito delle varie fa-
coltà dell'uomo, la guarigione consisterà nel raddrizzamento o
conversione di quelle medesime facoltà, raddrizzamento che faccia
ritrovare all'uomo la loro funzione naturale e normale, in linea
cioè con Dio. Dobbiamo infatti sapere che, se - fino a un certo
punto - il terapeuta può svolgere un ruolo di rivelatore e guida, il
buon esito di quella conversione è però condizionato soprattutto
dalla volontà del malato e dai suoi sforzi per realizzarla effettiva-
mente - nel quadro d'un modo di vita ascetico (nel senso ampio
della parola) - e, correlativamente, dall'aiuto della grazia, la sola
capace d'aiutare l'uomo a liberarsi dalla dominazione sia del pec-
cato che delle sue conseguenze e a unirsi in modo vero a Dio.

139
IX

DUE PRATICHE TERAPEUTICHE CRISTIANE:


LA CONFESSIONE E LA MANIFESTAZIONE .
DEI PENSIERI

In vista della presa di coscienza dell'inconscio spirituale, nelle


sue due forme, e, in termini più generali, nel quadro della terapeu-
tica delle malattie psichiche che hanno relazione con questa o
quella malattia spirituale, due pratiche - in uso, nella Chiesa orto-
dossa, con una loro specifica modalità - svolgono un ruolo di par-
ticolare rilievo: la confessione (exomol6ghesis) e la cosiddetta «ma-
nifestazione dei pensieri» (exag6reusis ton loghismon), o direzione
spirituale, che presentano delle analogie con questa o quella psico-
terapia - in particolare la.psicanalisi-, ma anche delle differenze.

1. La .confessione

La confessione (exomol6ghesis) è un sacramento in cui la perso-


na che si ritiene peccatrice manifesta, con spirito di pentimento, il
suo dispiacere per i peccati commessi e la sua volontà di emendar-
si, confessa i suoi peccati a Dio dinanzi al sacerdote e da Dio - dal
quale il sacerdote invoca il perdono - riceve l'assoluzione dei suoi
peccati. Alla confessione, il penitente riceve dal confessore anche
dei consigli spirituali .appropriati al suo stato ed eventualmente
una «penitenza>> (epitimfa)l, il cui scopo è di aiutarlo a non ricade-
re più nei medesimi peccati e a ritrovare la via delle virtù che ave-
va abbandonato.

Ciò che subito colpisce, nella concezione e nella pratica cristia-


ne del sacramento della confessione, è il suo aspetto medicinale.
Non soltanto i Padri, ma l'intera Tradizione della Chiesa, i rituali e

1 ~ epitimia dei Padri è appunto un'attività penitenziale.

141
i libri liturgici parlano in termini di medicamento sia della forma e
degli effetti di questo sacramento sia della funzione del sacerdote
che l' amministra2.
La confessione si rivela una terapeutica efficace in molte manie-
re e a più livelli.
Già dire i propri peccati è in sé liberatorio. Fino a quando non
viene ammesso e riconosciuto, perfino svelato a un altro, il peccato
si radica nell'anima, vi si sviluppa e diffonde per contagio, corro-
dendo e avvelenando la vita interiore e provocando dappertutto
grandi disastri. Il peccato è un peso greve da portare per uno solo,
tanto più che spesso i suoi effetti si manifestano in turbe che egli
non riesce a ben individuare e non è capace di tenere sotto con-
trollo. Il peccato è principalmente motivo d'ansia, perfino ango-
scia, soprattutto a causa del senso di colpa che in genere l' accom-
pagna, ma anche perché suscita e asseconda l'attività dei demoni i
quali, approfittando di questo sostrato morboso, seminano turbe
nell' aniffia con ogni mezzo. Spesso tutto ciò induce la persona a
non più stimarsi, a sentirsi da poco, ad avere una visione pessimi-
stica del proprio essere e della propria esistenza; genera in essa
uno stato d'abbattimento e scoraggiamento, che può anche arriva-
re fino alla disperazione.
Nell'incontro con il sacerdote nel quadro del sacramento, il pe-
nitente ha la possibilità di rompere il suo isolamento, d'uscire da
quella solitudine morbosa che un terreno tanto favorevole offriva
allo sviluppo dei suoi mali. Parlando al sacerdote di ciò che la tur-
ba, la persona incide l'ascesso che intimamente la corrodeva. Il
semplice fatto d'andare verso l'altro, d'osar aprirsi a lui in tutta
umiltà e vincendo ogni vergogna, d'accusarsi senza pietà davanti a
lui superando ogni amor proprio costituisce già un primo impor-
. tante passo per uscire dall'universo morboso del peccato.
Fare l'elenco dei mali di cui uno soffre ha dunque un effetto li-
beratorio; possiamo al riguardo riandare anche alle parole del sal-
mista: «Tacevo e le mie ossa si logoravano, I mentre gemevo tutto
il giorno. [... ] I Ti ho manifestato il mio peccato, I non ho tenuto
nascosto la mia iniquità. I Ho detto: "Confesserò le mie trasgres-
sioni al Signore", I e Tu hai rimesso il mio peccato» (Salmo
31,3.5).

2 Si veda il nostro studio Terapeutica delle malattie spirituali, San Paolo, Cinisello Balsa-
mo, 2003, p. 30ls.

142
Confessando le sue malattie spirituali, il penitente le fa uscire da
sé, le oggettivizza e si libera da esse; spezza i legami che a esse lo
univano e lo alienavano. Le malattie spirituali cessano d'mgolfare
il suo mondo interiore e di parassitare la sua anima per diventarle
adesso estranee. Con ciò stesso, anche la strategia dei demoni si ri-
trova spiazzata: infatti, non possono più agire nell'ombra; siccome
il regno delle tenebre, di cui.i demoni sono i principi, viene bru-
scamente illuminato, il loro potere crolla, perché le loro vie sono
state svelate. Si vedono espulsi dall'anima, insieme con il peccato
che li nutriva.
La portata terapeutica della confessione è tanto maggiore quan-
to più, nella sua forma tradizionale - che la Chiesa ortodossa ha
saputo ben conservare -, la confessione non si limita a essere un' e-
lencazione secca e stereotipata d'un catalogo di peccati più o me-
no artificialmente predisposto. Il penitente confessa spontanea-
mente, in maniera diretta e viva, i suoi peccati e le sue deficienze,
riferendone al confessore anche le circostanze, perché sappia me-
glio capire e quindi meglio dargli i consigli più appropriati al suo
stato. Ma oltre a ciò, chi si confessa informa il sacerdote anche di
tutto quello che gli dà preoccupazioni, gli espone, in maniera libe-
ra e naturale, tutti i suoi problemi, tutte le particolari difficoltà che
può incontrare nell'esistenza quotidiana, gli accenna anche a ciò
che l'inquieta, l'angoscia, l'ossessiona, gli rivela le sue paure, le sue
sofferenze, gli espone al meglio i suoi stati d'animo, gli confida le
sue debolezze, gli apre la sua personalità, gli mette davanti tutta la
sua vita, con tutte le sue mancanze e imperfezioni.

Una tale apertura è resa più facile al penitente dalla sua certezza
di beneficiare della misericordia divina - come il sacèrdote gli ri-
corda nelle preghiere preliminari -, ma anche dall'atteggiamento
d'ascolto che il confessore deve premurarsi di manifestargli visibil-
mente e dalla compassione di cui deve dar prova. Dovere del con-
fessore è infatti mostrarsi estremamente attento a tutto ciò che gli
viene riferito e non dare giudizi su chi a lui si apre. Deve lasciargli
la più ampia libertà di espressione e farsi incontro a lui con grande
dolcezza e pazienza. Inoltre, i confessori santi danno prova, men-
tre ascoltano i mali che vengono loro rivelati, di profonda compas-
sione, realmente spartendo con la persona che stanno ascoltando
le sue difficoltà e sofferenze, e invisibilmente manifestano l'amore
spirituale che provano per essa, come il padre davanti al figlio pro-

143
digo, a immagine del Cristo a fianco del buon ladrone. Quest'a-
more, ben lontano dall'essere opprimente e invadente, è fatto della
dolcezza e della discrezione della grazia consolante e materna del
Paràclito e copre di balsamo ristoratore il cuore ferito e straziato
dal peccato.
Quest'atteggiamento del sacerdote, fatto di paziente e umile
ascolto, che non giudica ma comprende, che è assoluta disponibili-
tà per l'altro fin da subito accolto come un fratello sofferente, fon-
da, nella carità, la relazione più profonda e stretta che esista, dà vi-
ta a quel clima d'indispensabile confidenza che è necessario per
l'efficacia della terapeutica e rende possibile una éomunicazione di
grande qualità; che al penitente permette di non aver timori né re-
ticenze ad aprire la sua anima quanto più completamente possibile
e a ricevere nelle migliori condizioni le cure adeguate al suo stato.
Se il ruolo del confessore è essenzialmente, in un primo tempo,
quello d'ascoltare, può però anche essere, se necessario, di far do-
mande; far precisare meglio questo o quel punto, farsi chiarire dei
particolari, se ciò fosse necessario per capire meglio il penitente e
meglio curarlo. In ogni caso, il sacerdote deve farlo con tatto e di-
screzione, in spirito di carità, atteggiamenti che mostreranno come
la sua intenzione sia puramente di prestare aiuto a chi è venuto a
parlargli; deve evitare di entrare nella sua anima con effrazione,
deve trattenersi da ogni intrusione nella sua intimità, da ogni vana
curiosità, rispettandone in modo assoluto la libertà. E tuttavia, in-
dagare può rivelarsi necessario, quando si rendesse ç:onto che il
penitente gli nasconde qualcosa, riferisce in modo incompleto
questo o quel peccato o stato patologico, si mostra reticente su
questo o quel punto. Peraltro, anche la preghiera che precede la
confessione invita il penitente a non omettere nulla: <<Non avere
vergogna, non temere e non nascondermi nulla, ma dimmi, senza
reticenza, tutto ciò che hai commesso, per riceverne il perdono di
Nostro Signore Gesù Cristo».
Può però accadere che dei peccati rimangano inconsci. Compi-
to del confessore sarà allora di scoprire gli atteggiamenti provocati
dalle passioni o gli stati d'animo che il penitente non vuole o non
. può vedere in sé e quindi non confessa. Alcune passioni, in effetti
- in particolare l'orgoglio e la vanagloria (kenodoxia) -, ma anche
l'attività dei demoni peraltro, possono annebbiare la coscienza. Un
confessore esperto può arrivare in modo indiretto a scoprire lo
stato che il penitente non ha confessato: da certe sue parole, certe

144
intonazioni della voce, certi silenzi, certe esitazioni, ma anche da
altri atteggiamenti o mimiche e magari rifacendosi a ciò che del
passato del penitente, della sua storia e personalità egli già cono-
sce. Può perfino averne una conoscenza diretta, leggendo nel cuo-
re del penitente, se da Dio, come a certi santi confessori è accadu-
to, egli ha ricevuto il carisma della «conoscenza del cuore» (kar-
diognosis). In ogni caso, il discernimento di cui il confessore dà
prova, qualunque ne sia il livello e la finezza, si rivela una grazia
divina legata al suo ministero e più o meno sviluppata a seconda
del suo personale livello di sviluppo spirituale. Non sempre il con-
fessore farà esplicitamente sapere al penitente la conoscenza che
ha di lui attraverso queste vie, soprattutto quando rischiasse di fe-
rirlo: sarà piuttosto al momento di dargli dei consigli che potrà al-
ludervi, o almeno tenerne conto. È per questo che a volte il peni-
tente può molto sorprendersi di ricevere delle raccomandazioni
che non hanno nessun rapporto con ciò che ha detto in confessio-
ne né rapporti con la condizione in cui credeva di trovarsi.
È soprattutto in questa fase della confessione, in cui il sacerdote
prodiga i suoi consigli spirituali a chi viene a confessargli i suoi
peccati, che la Tradizione vede nel confessore un medico e nelle
sue parole una medicina. In effetti, in questo momento il sacerdo-
te ha presente e spiega la terapeutica da attuare per venire a capo
delle malattie che gli sono state rivelate o ha da sé intuito.
La sua funzione non è impartire un qualche insegnamento gene-
rico, ma in primo luogo ben individuare -ciò che di più conviene
alla persona che gli sta a fianco, tenendo conto della sua personali-
tà, del suo genere di vita e d'attività, delle sue possibilità, delle sue
abituali difficoltà ecc. e anche del tipo di patologia che presenta. È
auspicabile, sotto quest'aspetto, che il confessore conosca bene il
penitente e possa seguire I'evoluzione del suo stato interiore, per
poter correttamente giudicare sia la sua particolare situazione sia il
divenire, positivo o negativo, della sua malattia.
Per questa ragione si deve consigliare al fedele di confessarsi
sempre dal medesimo sacerdote.
È così che fra il confessore e il penitente viene a stabilirsi una
relazione personale, non solamente nel senso che, per le ragioni
esposte, non è una relazione anonima, ma anche perché, in questo
stadio della confessione, incomincia un dialogo. Il penitente può
reagire a ciò che il sacerdote gli dice, può interrogarlo, discutere,
approfondire questo o quel punto, per una migliore comprensione

145
della propria situazione e una migliore strategia terapeutica. In
questo dialogo, che tanto più profondo ed efficace si rivela quanto
' più avviene in quel medesimo clima di fiducia, semplicità e carità
che caratterizzava la confessione dei peccati, il sacerdote non ap-
pare come un maestro che impartisce un insegnamento dogmatico
e astratto, ma come un padre che incoraggia, esorta, consola, met-
te in guardia con severità o tutta dolcezza, con lo zelo, la sapienza
e l'amore che gli vengono dallo Spirito. Con le sue parole - ac-
compagnate dalla preghiera e che, per questo e anche in forza dei
carismi legati alla sua funzione dal sacramento che l'ha consacrato,
possiedono un valore non già speculativo bensì operativo -, alla
maniera di san Giovanni Battista egli prepara il ritorno del Signore
nell'anima del penitente, spianando i Suoi sentieri, colmando ogni
valle, livellando montagne e colline e raddrizzando tutto ciò che il
peccato aveva reso storto (dr. Luca 3,4-5).
Quando si confessa, il penitente dev'essere animato dal penti-
mento. Quest'atteggiamento - fatto tutt'insieme di dispiacere di
essersi allontanato da Dio e di ferma volontà di riformarsi per l' av-
venire - lo rende particolarmente ricettivo ai consigli prodigati dal
sacerdote per la sua guarigione. Anche il prestigio inerente alla
funzione di confessore ed eventualmente la sua santità personale
contribuiscono a una tale ricettività.
Insomma, le parole che il sacerdote pronuncia non sono delle
parole ordinarie, e tanto maggior valore esse ricevono in quanto
pronunciate in un contesto di tempo e spazio ecclesiali: perché in- ·
somma il sacerdote non parla in nome proprio ma in nome della
Chiesa e rivela la parola e la grazia terapeutica di Dio sotto l'ispira-
zione dello Spirito; ciò conferisce alle sue parole una forza e un' ef-
ficacia particolari, soprattutto poi se il penitente si apre totalmente
a esse e manifesta una ferma volontà di guarire.
Davanti al confessore, il penitente non è più solo, sperduto,
sviato dalle conseguenze dei suoi peccati: i consigli del sacerdote
gli rimettono davanti agli occhi le norme veridiche e sicure che gli
permetteranno di ristabilirsi e sapere - sénza timore di sbagliarsi -
ciò che deve fare per ritrovare e conservare la buona salute che
aveva perso. Questi consigli l'aiutano a ritrovare un giudizio retto
e una via dritta, conformi alla volontà di Dio, gli ricordano il fine
spirituale cui deve tendere, la norma della perfezione cui ogni cri-
stiano è chiamato a conformarsi, ma gli indicano anche le vie che
gli permetteranno d'arrivarci. Questi consigli, essenzialmente pra-

146
ti.ci, gli indicheranno per esempio come lottare contro la tendenza
morbosa di cui soffre, come tener testa a questo o quell'impulso,
come resistere a questa o quella passione, come fare a praticare
meglio questa o quella virtù, come aggirare questa o quella diffi-
coltà che continua a trovare sul suo cammino o che in questa o
quella circostanza continua a riapparire.
La cosiddetta «penitenza>> (epitimia) che il confessore può pre-
scrivere ha il medesimo senso terapeutico dei consigli. Paul Evdo-
lQmov scrive che essa «non è un castigo ma un rimedio, e il padre
spirituale cerca il rapporto 'organico fra il malato e il mezzo tera-
peutico. Scopo di essa è mettere il penitente in condizioni tali da
non essere più sollecitato dal peccato>>3.
Al momento dell'assoluzione, dal Cristo vengono perdonati, per
la preghiera del sacerdote, le colpe «volontarie e involontarie, co-
scienti e inconsce, del giorno e della notte, in spirito e nei pensie-
rl>>.
Il momento dell'assoluzione è necessario, per una guarigione ve-
ra e profonda: già la pura elencazione dei peccati certo solleva il
malato, ma il peccato, benché sia in certo qual modo esteriorizzato
e oggettivato, conserva ancora una qualche potenza, ed è soltanto
l'assoluzione che, distruggendolo con il perdono divino, lo mette
totalmente in condizione di non nuocere. Non basta dire al medi-
co che si è malati e di quali mali si soffre per venire senz'altro gua-
. riti dalla malattia; e neppure bastano le sue parole d'incoraggia-
mento o i suoi consigli, anche se ciò costituisce di certo un ele-
mento importante della terapeutica; ma è solamente quando il ma-
le viene distrutto dalle medicine alle radici stesse che la guarigione
avviene. L'assoluzione garantisce all'uomo che le sue vecchie ma-
lattie non esistono più, gli dà la garanzia del perdono divino per
tutti i suoi peccati. Il penitente fa allora lesperienza d'una libera-
zione interiore, ritrova la pace e la gioia spirituali.
Il sacramento della penitenza fa sì che l'uomo, liberato dagli im-
pacci del peccato, non sia più determinato dal male passato e ri-
prenda possesso di sé; rimette a sua disposizione tutte le forze che
gli erano state date al battesimo e alla cresima, lo rinnova in tutto
il suo essere, gli permette di essere di nuovo, in Dio, padrone del
suo destino e di riprendere con novità di vita il cammino che lo

3 I:orthodoxie, Neuchatel-Paris, 1965, p. 291 (dr. trad. it. I: ortodossia, Il Mulino, Bolo-
gna, 1965). ·

147
porta alla piena salute nel Cristo e alla salvezza. Come il battesimo,
ma a un altro livello, il sacramento della penitenza è un rituale di
rinnovamento, che annienta i rigurgiti del <<Vecchio uomo» e fa dei
suoi atteggiamenti e comportamenti colpevoli e dei loro effetti sul-
1' anima un passato ormai superato, perché pienamente riviva l'uo-
mo nuovo del battesimo ..
Con l'assoluzione il penitente si trova riconciliato e riunito alla
Chiesa del Cristo. Il peccato l'aveva separato dal corpo di Lui, dal-
la grazia, dalla comunione dei santi, dalla comunione ecclesiale. Il
sacramento abolisce queste separazioni, queste rotture patologiche
della relazione con Dio e con i fratelli e tira il penitente fuori dal
suo mortale isolamento. Il penitente può allora ritrovare la piena
comunione al sacramento dell'altare e al «sacramento del fratello»
e riprendere così il posto che gli spetta tra i figli di Dio. Ritrovan-
do la fonte della grazia che aveva abbandonato, adesso può conti-
nuare, nello Spirito, la sua crescita spirituale, fino alla statura
d'uomo adulto nel Cristo, archètipo della sua natura, modello e
principio della sua buona salute e della_ sua santità.

2. La manifestazione dei pensieri, o direzione spirituale

In relazione con l'argomento di cui qui ci occupiamo, cioè la te-


rapeutica delle malattie psichiche legate a malattie spirituali, la
confessione presenta dunque molti vantaggi. Per un verso, essa
pennette, con l'assoluzione dei peccati, di curare in maniera radi-
cale il senso di colpa (fondato oppure no che sia) e l'angoscia che
ne deriva, senso di colpa e angoscia che sono legate anche a un
certo numero di malattie psichiche: i peccati sono estinti e l'uomo
ha la certezza del loro perdono da parte di Dio. Per altro verso,
nella confessione l'uomo riceve, essendo essa un sacramento, una
grazia che l'aiuta a combattere contro il ritorno di quei medesimi
peccati.
E tuttavia, questa pratica presenta, sempre e soltanto dal punto.
di vista di cui qui ci occupiamo, dei limiti. In primo luogo perché,
essendo la confessione appunto un sacramento, non possiamo
strumentalizzarla e servircene come fosse un semplice mezzo tera-
peutico. In secondo luogo, prendendo la confessione un tempo re-
lativamente breve ed essendo le confessioni relativamente spaziate
l'una dall'altra, nella generalità da casi non permettono di seguire

148
in modo continuo la situazione e il divenire del malato. In terzo
luogo, non tutte le turbe psichiche sono peccati o manifestazioni
di peccati personali; quindi, non necessariamente diventano ogget-
to di confessione; ma alcune di esse potrebbero benissimo diventa-
re oggetto anche d'una terapeutica: spirituale, data la loro connes-
sione con talune malattie spirituali.

La manifestazione dei pensieri (exag6reusis ton loghismon), o di-


rezione spirituale, è dunque chiamata a svolgere, accanto alla con-
fessione, un ruolo complementare.
Questa pratica risale ai primi secoli del cristianesimo4. Nella
Chiesa ortodossa è tuttora in vigore, benché spesso limitata agli
ambienti monastici e ai laici d'intensa vita spirituale.
La manifestazione dei pensieri si può accostare alla confessione,
e tuttavia se ne distingue ampiamente.
In primo luogo perché, mentre la confessione è un sacramento,
la manifestazione dei pensieri non lo è. Non è dunque assoluta-
mente necessario che venga riservata a un sacerdote, ma piuttosto
a un padre spirituale, che può sì anche essere un sacerdote, ma pu-
re un semplice monaco, autorizzato a questa funzione per le sue
qualifiche spirituali. E se spesso è alla stessa persona- padre spiri-
tuale e sacerdote - che si manifestano i propri pensieri e si fa la
confessione, a volte è a due diverse persone che si ricorre, per due
funzioni ben distinte fra loro5.
In secondo luogo, mentre la confessione è ammettere i propri
peccati davanti a Dio alla presenza del sacerdote - che nèl formu-
lario ortodosso della confessione è soltanto un testimone - per ri-
ceverne l'assoluzione, la manifestazione dei pensieri consiste inve-
ce nel far parte al padre spirituale stesso di pensieri che non neces~
sariamente sono peccati, in maniera da fargli conoscere il proprio
stato interiore e riceverne dei consigli spirituali appropriati per
avanzare nella via della guarigione spirituale e della salvezza.

4 Il miglior studio sulle origini e sulla natura di questa pratica: tradizionale resta quello di
P. I. Hausherr, <illirection spirituelle en Orient autrefois», in Orientalia Christiana Analecta,
144, Roma, 1955.
5 Confessore e padre spirituale andrebbero distinti anche in linea di principio. Di fatto,
tuttavia, il più delle volte le due figure si fondono. In Grecia la funzione di confessore è riser-
vata dal vescovo solamente a taluni sacerdoti, che allora vengono chiamati pneumatik6i (pa-
dri spirituali). Peraltro, la maggior parte dei fedeli non ha altro padre spirituale all'infuori del
confessore, che in occasione delle confessioni dà loro dei consigli per la loro vita spirituale.

149
I pensieri da manifestare al padre spirituale sono dei pensieri
attuali - non importa quali siano - che si ripetono o hanno una
certa consistenza nell' anima6. In verità, sono questi pensieri che
potranno dare al padre spirituale indicazioni significative sulla si-
tuazione, sulle tensioni, sugli impulsi, sulle disposizioni e tenden-
ze interiori del suo figlio spirituale, sulle tentazioni che l'assilla-
no, provengano esse dalla propria cupidigia7 o dalla diretta atti-
vità dei demoni. I pensieri di tal natura sono pure rivelatori dei
punti deboli dell'anima, delle sue zone di fragilità, cui più volen-
tieri i demoni si attaccano, delle sue zone in convalescenza e
quindi più facilmente a rischio di ricaduta o, più comunemente,
delle sue parti ancora malate.
E tuttavia, in un senso più ampio, la manifestazione dei pensieri
consiste nel far parte al padre spirituale d'ogni pensiero che turbi,
d'ogni stato insolito, d'ogni dubbio, di tutto ciò che può inquieta-
re o dar ansia. Si può anche, tutt'insieme, fargli conoscere certi
particolari del proprio modo di vita, sì da essere sicuri della loro
validità, tenuto conto della loro incidenza sulla vita spirituale.

Le modalità pratiche della manifestazione dei pensieri, o dire-


zione spirituale, possono variare. C'è chi raccomanda di praticarla
almeno ogni giorno, altri ogni ora8; si può cioè fare con grande
frequenza, fino a un numero indefinito di volte nel corso della me-
desima giomata9. La frequenza può anche essere minore e in con-
creto dipende dalla frequenza dei pensieri stessi e dalle possibilità
reali di contatto con il proprio padre spirituale. Non potendo su-
bito contattarlo, si raccomanda d'annotare i pensieri a mano a ma-
no che si presentanolO, precisando anche il momento e le circo-
stanze della loro comparsa, per poterli poi riferire con tutta la pre-
cis10ne necessana.
Questa pratica suppone evidentemente attenzione e vigilanza
continue sugli stati e sui moti della propria anima.
Ciò che soprattutto poi importa è applicare la regola della non-
omissione, cioè non nascondere nulla, sforzarsi di non dimenticare
mente, non eludere, deformare o mascherare, ma parlare con tutta

6 Cfr. Giovanni di Gaza, Lettere, 165; Barsanufio, Lettere, 215.


7 Cfr. Lettera di Giacomo 1,14; Barsanufio, Lettere, 256; Apoftegmi, serie alfabetica, Sisoe, 45.
s Cfr. Simeone il Nuovo Teologo, Catechesi, XXVI, 299-303.
9 Cfr. Vita dei Padri, V, 5, 13 (dr. PL 73, 87 6C-D).
IO Cfr. Giovanni Climaco, La scala del paradiso, Iv, 43.

150
libertà, senza vergogna o timorell. In verità, quando si tratta di
manifestare i propri pensieri, bisogna vincere molte resistenze in-
teriori, provenienti in particolare dall' orgoglio 12 e dalla vanaglo-
ria 13 e, sulla scia di queste due passioni, dalla paura di venire giu-
dicati o sentirsi fare dei rimproveri14. Bisogna poi anche vincere le
suggestioni dei demoni, che si accaniscono a impedire questa pra-
tica15, da essi temuta in modo tutto speciale, dato che il suo effetto
è appunto di smascherare le loro macchinazioni16; in genere, è ten-
tando di far credere che essa è inutile che vi si oppongono17 .

. È particolarmente utile sottolineare il valore terapeutico e profi-


lattico di questa prassi, che nella pratica della medicina spirituale
ha un'importanza di primo piano.
La manifestazione dei pensieri permette di ricevere dal padre
spirituale delle indicazioni sul significato e sulla validità spirituale
di ciò che gli si svela, insieme ai consigli sull'atteggiamento più ap-
propriato da tenere. Impassibile e dotato di discernimento, il vero
padre spirituale è in grado di dare un giudizio oggettivo su ciò che
gli è stato detto; illuminato dallo Spirito, è all'altezza di dare il con-
siglio più conveniente. Può per esempio chiarire la natura di questo
o quel pensiero, ciò che a esso sta dietro, quali conseguenze può
avere, se è indifferente oppure malvagio e come si può allora af-
frontarlo e contrastarlo. Una certa idea, una certa ispirazione che
porta a una certa azione ... viene essa dai demoni oppure si può ve-
derci un'ispirazione buona cui dar seguito? Questa o quell'immagi-
nazione, più volte ripresentatasi, questo o quel desiderio spuntato
nel cuore in questa o q{J.ella circostanza, questo o quel moto dell' a-
nima sono innocenti, conformi alla volontà divina, indifferenti op-
pure malvagi 18? Consultando il proprio padre spirituale, si può
avere una risposta sicura a tutte queste domande, una risposta che
farà schivare gli inconvenienti del dubbio, gli errori e le illusioni del

li Cfr. Giovanni Cassiano, Conferenze, Il, 11; Istituzioni cenobitiche, rv, 9; Isaia l'Anaco-
reta, Asketik6n, IV, 3; Doroteo di Gaza, Insegnamenti spirituali, V, 61; Giovanni di Gaza, Let-
tere, 375; Simeone il Nuovo Teologo, Inni, IV, 27-28.
12 Cfr. Apoftegmi, 592150.
13 Cfr. Ammona, Istruzioni, IV, 24.
14 Cfr. Giovanni Cassiano, Conferenze, Il, 12e13.
15 Cfr. Apoftegmi, 509-510; Giovanni Climaco, La scala del paradiso, IV, 75.
16 Cfr. Doroteo di Gaza, Insegnamenti spirituali, V, 64, 65, 66.
17 Cfr. Apoftegmi, 509-510.
18 Numerosi esempi di <<manifestazione dei pensieri>> e d'interrogazione del padre spiri-
tuale si possono trovare nella Lettere di san Barsanufio e san Giovanni di Gaza.

151
proprio giudizio, le trappole della propria volontà, le bugie e le
astuzie dei demoni e i seri sgarri che possono venirne19.
Vedendo le cose in generale, la manifestazione dei pensieri per-
mette insomma di evitare i peccati generati dai pensieri nascosti2 0.
Essa permette anche d'impedire che le passioni esistenti si raf-
forzino o delle nuove si formino, dato che le passioni si consolida-
no, quando si dà libero corso alla loro ripetizione.
Permette di evitare, infine, che continuino a esistere nell'anima
dei pensieri che la corrodono e la distruggono, pensieri che hanno
in ogni caso numerosi effetti patologici sulla vita interiore, precisa-
mente perché restano nascosti. In effetti, i pensieri non manifestati
continuano a vivere nell'anima, spesso in sordina e in modo im-
percettibile, ne fanno la loro dimora, vi si sviluppano sempre più e
a poco a poco l'avvelenano. La fanno finire in uno stato di cattività
da cui sarà tanto più difficilè alla persona uscire quanto più a lun"
go sarà essa rimasta senza reagire e avrà tardato a manifestarli2 1.
Così un Padre riassume tutte queste vicende: «Se sei ossessionato
da pensieri impuri, non nasconderli, ma dilli subito al tuo padre
spirituale [...]. Perché, nella misura in cui uno nasconde i propri
pensieri, essi si moltiplicano e si rafforzano. [. .. ] E come un verme
nel legno, il cattivo pensiero corrompe il cuore>>22 .
I Padri insistono sul fatto che a non manifestare i propri pensie-
ri ci si ammala, oppure ci si tiene addosso le malattie esistenti23, o
si fanno passare delle malattie benigne o acute allo stadio di malat-
tie gravi o croniche24.
La manifestazione dei pensieri è dunque il solo mezzo di cui la
persona dispone per proteggersi dalle malattie incombenti, ma an-
che per guarire da quelle già contratte. Su questo punto, il parere
dei Padri è unanime. «Chi si trattiene dall'esporre i suoi pensieri
resta senza rimedio», scrive san Giovanni di Gaza25. Anche san
Giovanni Cassiano dice che, «se reprimiamo i nostri cattivi pensie-
ri e arrossiamo di farli conoscere agli anziani [. .. ],ci mettiamo nel-
19 Cfr. Apoftegmi, serie alfabetica: Antonio, 37; ibidem, Poemen, 103; Prima vita di Paco-
mio, 96; Giovanni Cassiano, Conferenze, II, 10; Doroteo di Gaza, Insegnamenti spirituali, -v,
62, 63, 64; Teodoro Studita, Grandi catechesi, a cura di Papadopoulos-Kerameus, p, 533 e ci-
tazione riportata in I Hausherr, <<Direction spirituelk .. », cit., p, 159,
20 Si veda Teodoro Studita, Piccole catechesi, a cura di Auvray, p, 464.
21 Cfr Giovanni Cassiano, Conferenze, II, lL
22 Apoftegmi, 592150. Cfr. Teodoro Studita, Grandi catechesi, cit., p, 623.
23 Si veda per esempio Giovanni Climaco, La scala del paradiso, rv, 5L
24 Cfr. Prima vita di Pacomio, 96.
25 Lettere, 320.

152
la condizione di non ricevere nessun rimedio»26. Di contro, «chi
non teme di rivelare i suoi pensieri ai suoi Padri, li scaccia lontano
da sé», come insegna sant'Ammona27. E san Giovanni Climaco fa
osservare che, <<Una volta esposte, le nostre piaghe [. .. ] non si ag-
graveranno più, ma al contrario guariranno>>28. In effetti, dice un
altro Padre, «come un serpente che esce dalla tana subito corre
via, così il pensiero cattivo, appena si manifesta, subito si dissolve.
[. .. ] Chi manifesta i suoi pensieri, rapidamente viene guarito>>29.
La guarigione già si ottiene, in buona parte, per la pura e sem-
plice manifestazione dei pensieri. Chi ha manifestato ed esposto i
suoi pensieri si sente liberato dall'oppressione e dall'oscurità che
essi provocavano in lui, si ritrova liberato dall'inquietudine, dal ti-
more e dalle tribolazioni interiori, dall'angoscia per.6.no e dispera-
zione che ne derivavano, sperimenta un senso di sollievo e di pace,
si sente leggero e gioioso3°. I Padri insistono in modo tutto parti-
colare sullo stato di calma o tranquillità spirituale (amerimnfa) che
la pratica abituale della manifestazione dei pensieri procura31.
Ma questi effetti in certo qual modo immediati della manifesta-
zione dei pensieri non devono far trascurare che una gran parte
della sua efficacia terapeutica proviene dai consigli del padre spiri-
tuale che essa suscita; Grazie alle indicazioni che il suo figlio spiri-
tuale gli avrà fornito, il padre spirituale è in grado· di conoscerne
con esattezza lo stato interiore, farne una diagnosi precisa e indivi-
duare il trattamento più conveniente. Senza questo, l'uomo non
avrebbe quasi nessuna chance di guarire32. ·.
E sarà grazie· soprattutto a una manifestazione frequente e con-
tinua dei pensieri che il padre spirituale potrà dar corpo a quel
trattamento, spesso lungo, che culminerà nella guarigione di tutte
le malattie dell'anima, dato che egli conoscerà con esattezza e in
modo globale lo stato, le tendenze e l'evoluzione del malato33.

26Conferenze, II, 12.


21Istruzioni spirituali, N, 24.
28Lo, scala del paradiso, N, 12.
29Apoftegmi, 592150. Si veda anche il Typik6n [o rituale] del monastero di santa Maria
Evergete a Costantinopoli, il quale proclama: «Ora è il tempo della manifestazione dei pen-
sieri e della medicazione delle malattie della vostra anima. [...] Dite chiaramente [le vostre
malattie], per[...] giungere alla perfetta salute dell'anima>> (cap. 7; citato da I. Hausherr, <illi-
rection spirituelle...», cit., p. 226).
30 Si veda Antonio Studita, citato da I. Hausherr, <illirection spirituelle...», cit., p. 159.
31 Si veda Doroteo di Gaza, Insegnamenti spirituali, I, 25; V, 66 e 68.
32 Cfr. Antonio Studita, citato da I. Hausherr, <illirection spirituelle... », cit., p. 159. ·
33 Cfr. Giovanni Cassiano, Istituzioni cenobitiche, VI, 3.

153
Per questo, chi è malato deve andare dal padre spirituale a ma-
nifestargli i suoi pensieri come si va da un medico34.
La sua funzione di terapeuta, nel quadro della manifestazione
dei pensieri, il padre spirituale l'esercita offrendo il suo ascolto at-
tento e benevolo, consolando ed esortando chi si è confidato con
lui, prendendo su di sé le difficoltà che il suo figlio spirituale gli ha
rivelato e anche pregando per lui; i Padri sottolineano spesso que-
sto ruolo d'intercessore che ha il padre spirituale, nel quadro della
manifestazione dei pensieri, e allora attribuiscono l'efficacia tera-
peutica di questa pratica a un intervento della grazia divina in ri-
sposta alle sue preghiere35.
Ciò suppone tuttavia che chi manifesta i suoi pensieri abbia ver-
so il suo padre spirituale e, attraverso lui, verso Dio, le disposizio-
ni adatte; deve, in particolare, farlo con fede, compunzione e di
tutto cuore36.
Perché la manifestazione dei pensieri costituisca una terapeutica
efficace, è indispensabile che chi va a consultarsi abbia una fiducia
totale in colui al quale si rivolge37. Deve dunque sceglierlo con molta
cura; ma altrettanto indispensabile è che poi applichi scrupolosa-
mente i trattamenti che l'altro gli avrà proposto38. È la fiducia, ap-
punto, ciò che, oltre a facilitare la confessione dei peccati - data la
certezza che non si verrà giudicati né condannati da chi ascolta -, fa-
rà applicare il trattamento che quegli avrà indicato senza esitazioni e
senza dubbi sulla sua validità, checché magari ne sia delle apparenze.
È anche importante che la manifestazione dei pensieri si fac-
cia sempre al medesimo padre spirituale e gli si resti fedele39. I
Padri mettono in guardia da ogni desiderio di cambiare il padre
spirituale: ciò è prova d'una deleteria reticenza, quasi sempre
proviene da una suggestione del demonio40 e rischia d'aggravare

34 Si veda per esempio Apoftegmi, 509-510; Giovanni Cassiano, Conferenze, II, 13; Basilio
di Cesarea, Regole lunghe, 26; Giovanni Climaco, La scala del paradiso, rv, 68; Barsanufio di
Gaza, Lettere, 215; Typik6n del monastero del Prodromo, cap. 13, in Byzantion, 12, 1937,
p. 50; Typikè Dritaxis del monastero della santissima Vergine di Dio di Machaera, citato da
I. Hausherr, «l)irection spirituelle...», cit., p. 219.
35 Si veda per esempio Apoftegmi, 509-510; Barsanufio, Lettere, 215.
36 Cfr. Apoftegmi, 509-5l O.
37 Cfr. Apoftegmi, serie alfabetica, Poemen, 80.
38 Si veda l'apòftgema riportato da P. Evergétinos, Synagogé, Costantinopoli, 1861, p. 68,
col. 1.
39 Cfr. Simeone Studita, citato da I. Hausherr, nell'introduzione alla Vie de Syméon le
Nouveau Théologien, p. XLIX-L.
40 Ibidem, p. L.

154
il male4 1 . Manifestare i propri pensieri sempre al medesimo pa-
dre garantisce invece quella continuità e linearità che un tratta-
mento richiede. In questo modo, il padre spirituale può cono-
scere bene chi gli apre il suo cuore, può sapere quali sono i suoi
punti forti e quelli deboli, può conoscere le sue peculiari diffi-
coltà, le sue tendenze profonde, il suo tipo di evoluzione ecc. e
così fare una diagnosi e stabilire una terapeutica basate sulla co-
noscenza globale della sua personalità.
La manifestazione dei pensieri non è un fine in sé. La sua effica-
cia terapeutica non proviene soltanto, ripetiamolo, dalla pratica
presa in se stessa, e non bisogna quindi aspettarsene degli effetti
immediati. Da sola, la manifestazione dei pensieri non potrebbe
guarire l'uomo. Se solamente manifestati, i pensieri non perdereb-
bero infatti niente del loro potere patogeno. I pensieri che si sono
già presentati più volte potrebbero ancora e di nuovo presentarsi.
Ciò che il più delle volte importa è dunque il loro destino. Manife-
stare i propri pensieri permette soprattutto d'interrogare il pro-
prio padre spirituale (ben spesse volte i testi ascetici fanno appari-
re che queste due espressioni si equivalgono), in maniera da cono-
scerne la precisa natura e, soprattutto, ottenere dal padre spiritua-
le dei consigli sul modo di combatterli. Dopo ciò, la battaglia è co-
munque e ancora tutta da fare; ma con l'illuminazione e l'aiuto del
padre spirituale, cui si è completamente aperta la propria anima,
essa sarà più facile e più sicuri saranno i suoi effetti.

3. Analogie e differenze dalla psicanalisi

a. Analogie

Coloro che hanno alquanta familiarità con la psicanalisi - qui


pensiamo soprattutto alla psicanalisi freudiana e alle sue forme de-
rivate - potranno scorgere un certo numero di elementi comuni a
questa pratica da una parte e alla confessione e alla manifestazione
dei pensieri dall'altra.
Gli storici della psicanalisi ben sanno che essa si. è sviluppata a
cominciare dai paesi in cui dominava il protestantesimo, cioè dove
la confessione non esisteva. È un indizio che in quei paesi la con-

41 Ibidem.

155
fessione assolveva, in certa misura,. la funzione della psicanalisi e,
inversamente, la psicanalisi ha in parte occupato lo spazio lasciato
vuoto dalla soppressa confessione.
Il principio fondamentale di tutte le psicoterapie, psicanalisi
compresa, è che già il semplice fatto che il malato possa esprimere
i suoi mali davanti a qualcuno che stia ad ascoltarlo con attemione
fa migliorare il suo stato. Ebbene, è evidente che la confessione e
la manifestazione dei pensieri svolgono questo ruolo.
In entrambi i campi si ammette il carattere nefasto dell'isola-
mento, del ripiegamento in sé, e il carattére invece benefico d'una
regolare relazione attraverso cui, in completa fiducia, chi soffre
può parlare dei suoi mali. Anche questa condizione della fiducia è
presente in entrambi i campi, dato che sia lo psicoterapeuta sia il
padre spirituale sono tenuti dalla loro deontologia (segreto medi-
co, segreto della confessione) a non svelare ad altri ciò che è stato
loro confidato.
L'ascolto attento prima, il dialogo poi, fanno parte delle condi"
zioni di esercizio di entrambe le funzioni (sebbene il dialogo sia
più o meno presente a seconda del tipo di psicoterapia).
L'assenza di giudizio da parte del terapeuta è richiesta sia in un
campo che nell'altro; essa facilita al malato la confessione di fatti
che gli appaiono moralmente o spiritualmente condannabili, ver-
gognosi o riprensibili. .
In entrambi i campi, sebbene non si concepisca l'inconscio
alla medesima maniera, si riconosce il carattere patogeno dei
pensieri <<nascosti>> o «inconsci», quando si tratti di pensieri le-
gati a situazioni difficili o traumatizzanti o che si accompagnino
a sentimenti riprensibili e a un senso di colpa (indipendente-
mente dal problema di sapere se il senso di colpa è giustificato
oppure no).
Da una parte come dall'altra esiste la possibilità d'aprirsi, fino ai
dettagli più minuti e liberamente, su tutte le preoccupazioni, in-
quietudini, ossessioni,· difficoltà, conflitti interni ed esterni ecc. E
si raccomanda di non omettere nulla e nulla nascondere.
In entrambi i campi, dunque, nonostante una diversa concezio-
ne dell'inconscio, si riconoscono il carattere liberatorio che hanno
la presa di cosciema e. la «confessione» dei pensieri nascosti o in-
consci - dato il loro carattere patogeno - e il miglioramento dello
stato interiore che proviene già dal semplice fatto di poter formu-
lare davanti ad altri ciò che si ha dentro.

156
b. Differenze

Accanto a queste analogie, esistono tuttavia differenze rilevanti


fra la confessione e la manifestazione dei pensieri da una parte e la
psicanalisi e le altre forme di psicoterapia dall'altra. Queste diffe-
renze riguardano sia il contenuto che la forma delle varie pratiche.

Per ·quanto riguarda il loro contenuto, la prima cosa ehe salta


agli occhi è che la confessione verte su peccati o colpe riconosciuti
tali davanti a Dio alla presenza del sacerdote e di cui si vuole otte-
nere il perdono. Questi peccati, o colpe, sono in relazione con dei
comandamenti divini che definiscono le norme del buon compor-
tamento. Nel quadro del pentimento, il senso di colpa di chi si
confessa ha un ruolo di rilievo e positivo: l'assoluzione lo fa supe-
rare e gli mette fine.
Per la psicanalisi e la maggior parte delle altre psicoterapie, il
peccato e la colpa non hanno invece nessun fondamento oggetti-
vo. Esistono soltanto in forza del sentimento o senso - puramente
soggettivo - di colpa, e in genere questo viene considerato patolo-
gico, con una funzione dunque puramente negativa. La psicanalisi
e le psicoterapie, infatti, non mirano minimamente alla presa di
coscienza delle colpe in quanto tali e non permettono la loro abo-
lizione nel perdono attraverso il pentimento; non tendono che alla
riduzione del senso di colpa, checché ne sia della sua natura (in al-
tre parole: sia esso giustificato oppure no, non importa), spesso
negando la realtà stessa della colpa o del peccato42.

Anche per quanto riguarda il tempo in cui le malattie si forma-


no, la differenza è rilevante, .
Per la teoria freùdiana, la maggior parte delle malattie psichiche
ha origine nella prima infanzia (fra la nascita e gli otto anni). La
psicanalisi freudiana si concentra quindi sulla reminiscenza di av-
venimenti antichi, mentre una ben scarsa importanza essa attribui-
sce agli avvenimenti recenti.
Di contro, i peccati svelati nella confessione sono colpe com-
messe dall'ultima confessiOne, e i pensieri che si manifestano sono

42 Questo punto di vista è stato fortemente sottolineato, in due celebri opere, da H. He-
snard, I.:univers morbide de la faute, Paris, 1949, ed Esquisse d'une morale sans obligation ni
sanction, Paris, 1884.

157
pensieri attuali o relativaniente recenti (per quanto non siano da
escludere neppure la manifestazione di pensieri antichi oppure la
rievocazione di situazioni passate). Secondo la concezione cristia-
na, infatti, l'uomo va curato in base al suo stato attuale43. Ed effet-
tivamente è soltanto così che può venire curato; perché il passato,
se ancora può influire sull'uomo, non è però determinante: con il
battesimo, il cristiano riceve una vita nuova in cui può spiritual-
mente vanificare, con l'aiuto della grazia, tutti i determinismi di
questo mondo, compresi quelli del suo stesso passato.

Un'altra differenza è che la psicanalisi - e questo vale per tutte


le varie scuole di psicanalisi - implica una reminiscenza dettagliata
del passato. Questa reminiscenza prende la forma bruta e rozza
d'una narrazione che include tutto quanto è stato vissuto, senza
procedere ad alcuna cernita.
Sia nella confessione che nella manifestazione dei pensieri, al
contrario, in genere i .Padri proscrivono ogni dettagliato ritorno
sul passato, a motivo degli inconvenienti, e perfino rischi, che ciò
rappresenta, soprattutto quando si trattasse di peccati o atti immo-
rali e d'avvenimenti traumatizzanti. Uno di questi rischi è di ripro-
durre nella memoria i peccati commessi o di ridar vita e forza ad
avvenimenti traumatizzanti vissuti nel passato«. Scrive a questo
proposito san Marco il Monaco: «È nocivo [. .. ] tornare con la me-
moria ai particolari .dei peccati passati; perché, quando ciò provo-
ca tristezza, allontana dalla speranza; quando invece lascia senza
dispiacere, fa tornare ali' antica sozzura>>45. E aggiunge: «Quando
lo spirito, grazie al rinnegamento di sé, si aggrappa unicamente al-
la speranza, allora il nemico, il diavolo, gli rimette sotto gli occhi-
con il pretesto della confessione - l'immagine dei vecchi peccati,
in maniera da riattizzare le passioni che la grazia di Dio gli aveva
fatto vincere e sornionamen~e tornare a nuocergli. La ragione è
che, se anche in quel momento lo spirito è luminoso e pieno d' av-
versione per le passioni, per forza si colmerà adesso di tenebra, ir-
retito com'è di nuovo nelle azioni del passato. Se la sua anima è

43 Questa concezione è condivisa anche dalla psicanalisi junghiana, nonostante il carattere


arcaico che essa attribuisce agli archètipi che costituiscono l'inconscio collettivo.
44 Questo pericolo è invece presente nella psicanalisi, quando la difficoltà di accettate cer·
ti fatti richiamati alla memoria può fortemente aggravare lo stato del malato; la «reazione di
ritorno» assume qualche volta un risvolto drammatico, che può arrivare fino al suicidio.
45 A proposito di quelli che credono di essere giustificati per le opere (PG 65; trad. it. in La
Filocalia, cit., vol. I, p. 188s).

158
torbida e amica del piacere, non potrà fare a meno d'attardarsi
compiacente su quelle suggestioni, di modo che il loro risveglio sa-
rà in concreto più una predisposizione al peccato che alla confes-
sione»46.

Sotto quest'aspetto, c'è dunque una differenza fondamentale fra


la concezione cristiana e quella freudiana.
Nella· concezione freudiana, attraverso la presa di coscienza di
sé il malato deve poter riconoscere com'è veramente, nella sua di-
mensione fin lì inconscia, e accettarsi com'è, nella totalità del suo
essere.
Ma da un punto di vista cristiano, tutto ciò è come rifar proprio
il vecchio uomo, in quanto l'inconscio, nel modo che lo concepi-
sce la psicanalisi (la quale trascura del tutto ciò che noi abbiamo
chiamato l' «inconscio teòfilo»), è costituito essenzialmente dagli
aspetti negativi della personalità psichica. La terapeutica spiritua-
le, al contrario, si propone appunto di far morire il vecchio uomo
perché viva l'uomo nuovo, e di eliminare l' «inconscio deìfugo»
perché s'irraggi invece l' «inconscio teòfilo» e la persona lo faccia
coscientemente suo.
La confessione e la manifestazione dei pensieri, se pur mirano
anche alla presa di coscienza dell'aspetto negativo di sé, non sono .
tuttavia intese per meglio accettarsi (come se quest'aspetto negati-
vo facesse parte del vero io), ma piuttosto per meglio rifiutare den-
tro di sé ciò che non è conforme all'ideale cristiano, ciò che non è
conforme neppure a quello che uno è nel suo profondo, nella sua
realtà spirituale vera.
È il pentimento allora a svolgere un ruolo fondamentale, quello
cioè di aiutare il malato a prendere le distanze da tutto ciò che nel-
la sua vita passata e presente e nella sua situazione attuale è stato
ed è malvagio, o, più in generale, di aiutarlo a prendere le distanze
dal suo <<io decaduto».

Nella psicanalisi, il ruolo dello psicoterapeuta è essenzialmente


di stare ad ascoltare e di prestarsi al transfert che il malato fa sulla
sua persona. In qualche modo, il malato si guarisce da sé, pren-
dendo semplicemente coscienza degli elementi repressi e liberan-
dosi, tramite il transfert, dagli afferri legati a quegli elementi. Freud

46 Ibidem.

159
lo sostiene a chiare lettere: <<L'aspetto più caratteristico del meto-
do [psicanalitico], quello che lo distingue da tutti gli altri procedi-
menti, si scopre nel fatto che la sua efficacia terapeutica non gli
viene da un comando dato dal medico»47.
Nella confessione, è certamente vero che nel riconoscimento
delle proprie colpe, delle proprie passioni o tendenze malvagie il
malato dà la prova di quel pentimento che nella terapeutica cri-
stiana occupa un così importante ruolo; ma lo scopo della confes-
sione è ottenere il perdono dei peccati passati, ed è questo perdo-
no ciò che costituisce l'elemento essenziale della terapeutica.
Quanto alla manifestazione dei pensieri, il suo scopo è soprat-
tutto di fornire al padre spirituale le informazioni che gli permet-
teranno poi di dare al malato i consigli più adeguati. Anche il con-
fessore dà dei consigli al momento della confessione; ma in l,lil
contesto di manifestazione dei pensieri i consigli sono più detta-
gliati, più legati a ogni momento dell'esistenza. In un caso come
nell'altro, i consigli del padre spirituale aiutano il malato a collabo-
rare alla propria guarigione, ma seguendo una precisa direzione e
un metodo suggerito. Sotto quest'aspetto, il p~dre spirituale si di-
stingue nettamente dallo psicanalista freudiano, il quale non sol-
tanto deve astenersi dal dare consigli48, ma deve anche escludere
ogni dirigismo49. Il padre spirituale, invece, appare più dirigista
che nella maggior parte delle psicoterapie, anche di quelle che am-
mettono un ruolo di consigliere; i suoi consigli, inoltre, sono più
esigenti e senza dubbio più efficaci, nella misura in cui l' obbedien-
za dei figli spirituali ai loro padri spirituali è certamente un' esigen-
za e viene senz'altro dichiarata una virtù fondamentale.
A differenza dello psicanalista freudiano, che ha per regola
d' «astenersi da ogni critica contro l'inconscio e i suoi derivat:i>>50, il
padre spirituale non esita a dare il suo giudizio sullo stato interio-
re, sulle tendenze, sugli atteggiamenti e sui comportamenti del suo
figlio spirituale; ma ciò non equivale a giudicare il suo figlio spiri-
tuale, bensì ad aiutarlo a vedere più chiaro in sé.
A differenza ancora dello psicanalista, che non cerca di edificare
il malato né di proporgli degli ideali.51, il padre spirituale gli indica

47 Si veda S. Freud, La technique psychanalytique, trad. fr. cit., p. 2.


48 Ibidem, p. 138.
49 Freud lo respinge definendolo «orgoglio educativo» (ibidem, p. 70).
50 Ibidem, p. 71.
5 1 Ibidem, p. 138.

160
delle norme rispetto alle quali egli deve prendere posizione. Que-
ste norme sono ispirate non soltanto dalla concezione cristiana
dell'uomo e dell'esistenza, ma anche dalle concezioni che l'ascetica
classica - così com'è definita nella Tradizione - ha in particolare a
riguardo della natura delle passioni (ciò lo aiuterà a individuare
con maggiore precisione in sé gli elementi patogeni) e -delle virtù
(ciò gli fornirà delle norme di buon comportamento). Spesso il pa-
dre spirituale gli sottopone anche un preciso metodo per combat-
tere e progredire. L'efficacia della terapeutica dipende in gran par-
te dall'applicazione dei suoi consigli.
La condizione di padre spirituale l'autorizza anche a intervenire
consolando, incoraggiando, esortando, mettendo in guardia, men-
tre d'ordinario lo psicoterapeuta è ben più riservato, quando addi-
rittura non si astenga da ogni intervento verbale52.

In genere la relazione con il padre spirituale è più continua della


relazione con lo psicoterapeuta. La relaiione con lo psicoterapeuta
si limita alle sedute e alla loro durata, mentre la relazione fra il pa-
dre spirituale e i suoi figli spirituali è più assidua e perfino assume,
attraverso la preghiera, un carattere permanente.
La relazione con il padre spirituale è anche più profonda della
relazione con lo psicoterapeuta. Nella psicanalisi (e nelle psicote-
rapie) è un atteggiamento di neutralità (benevola, nel migliore dei
casi) quello che si richiede allo psicoterapeuta, ma oglli suo coin-
volgimento affettivo è totalmente proscritto53.
Il padre spirituale va oltre quest'atteggiamento di benevola neu-
tralità. Deve piuttosto avere un atteggiamento d'amore e di compas-
sione, che eviti, tuttavia, per la sua natura spirituale (si tratta d'una
forma d'amore del prossimo), le possibili deviazioni verso un coin-
volgimento affettivo di carattere psicologico (desiderio e sentimenti).
Questa virtù e le altre virtù cristiane - in particolare la pazienza,
la dolcezza e l'umiltà - che un vero padre spirituale possiede svol-
gono un ruolo importantissimo nella terapeutica, in particolare
perché favoriscono una migliore relazione con il malato.

52 È ben frequente che degli psicanalisti (freudiani) se ne stiano del tutto muti durante le
loro relazioni con gli analizzanti. Mi diceva uno psichiatra che, durante la sua analisi didatti-
ca, il suo psicanalista non gli aveva mai detto di più che «buongiorno» e «arrivederci».
53 Freud raccomanda ai suoi colleghi di prendere a modello il chirurgo, che <<mette da
parte ogni reazione affettiva e finanche ogni simpatia umana» (La technique psychanalityque,
cit., p. 65 e 66).

161
Di gtande importanza è la pazienza. Perché, per un verso, in ge-
nere le malattie psichiche e quelle spirituali richiedono un lungo
trattamento, in cui i progressi sono lenti e le medesime turbe e dif-
ficoltà continuano a ricomparire per lunghi periodi e con grande
frequenza; per altro verso, le relazioni costanti con persone colpite
da malattie psichiche sono in genere difficili, per le ragioni più
svariate (rifiuto di comunicazione, iperattività, aggressività ecc.).
Anche la dolcezza, che è una forma della carità e consiste in
un'assenza d'aggressività, è di grande importanza per favorire la
relazione con il malato e la continuità della relazione. Molte malat-
tie psichiche sono caratterizzate sia da una tendenza all'aggressivi-
tà (che spesso costituisce un modo di proteggersi) sia da una paura
dell'aggressività altrui. È importante che il terapeuta sia capace di
non contrattaccare ali' aggressività del malato e sappia, per altro
verso, rassicurarlo evitando ogni forma d'aggressività verso di lui.
Anche l'umiltà del padre spirituale svolge un ruolo fondamentale
nella -relazione terapeutica, sotto vari aspetti. Infatti, essendo vero
che l'orgoglio costituisce una delle principali malattie spirituali e ri-
entra nella composizione d'un certo numero di malattie psichiche -
nella forma di ciò che gli psicoterapeuti chiamano <<narcisismo» o
<<ipertrofia dell'io» -, lorgoglio del terapeuta provocherebbe un
rafforzamento di quelle tendenze; la sua umiltà, al contrario, con-
tribuisce ad affievolirle e indebolirle. I.:umiltà favorisce anche una
relazione più profonda e che riduca il ripiegamento del malato su
se stesso, facendo diminuire il suo timore di confidarsi e infonden-
dogli invece fiducia in sé. Molte turbe psichiche nascono dal senti-
mento - giustificato oppure no che sia - di essere disprezzati, op-
pure dominati, perfino soffocati o schiacciati, dagli altri, in partico-
lare da taluni prossimi (per esempio, l'aspetto soffocante di certi at-
teggiamenti genitoriali è stato spesso tirato in ballo come una delle
cause dell'autismo e della schizofrenìa). I.:umiltà, unita alla carità,
permette di ridurre questo sentimento del malato e contribuisce a
ridargli il suo valore, la sua importanza e la sua autonomia. Dob-
biamo anche ricordare, a questo proposito, che il vero padre spiri-
tuale, pur mostrandosi direttivo, rispetta pienamente la personalità
e la libertà dei suoi figli spirituali e lavora perché essi arrivino a una
sempre maggiore autonomia, in maniera che il suo intervento di-
venti, a poco a poco, sempre più ridotto. Il vero padre spirituale
prende come suo ideale queste parole di san Giovanni Battista:
<<Egli deve crescere e io invece diminuire» (Giovanni 3 ,3 O).

162
Anche la carità, infine, svolge un ruolo essenziale nel favorire
una relazione profonda e continuativa; ma è già di per sé che essa
ha una grande efficacia terapeutica. Il sentimento. di non essere
amati è infatti all'origine di molte malattie psichiche e una compo-
nente di quasi tutte. L'amore disinteressato, profondo e costante di
cui il vero padre spirituale dà prova permette d'abolire gradual-
mente questo sentimento, mentre insieme riduce il sentimento di
svalutazione che il malato prova e quella perdita di autostima che
ne proviene (sentimento che è una componente per esempio delle
depressioni).
Le virtù del padre spirituale svolgono nella terapeutica un im-
portante ruolo anche nella misura del loro valore esemplare, come
norme di atteggiamenti e comportamenti ideali. I Padri ritengono
che il vero padre spirituale, per esercitare la sua funzione, debba
avere egli stesso raggiunto la sua sanità spirituale; in altre parole,
deve aver raggiunto l'impassibilità (apatheia)54, senza la quale ri-
schierebbe soltanto di essere «un cieco che guida altri ciechi»
(Matteo 15,14; dr. Luca 6,39) e di aggravare le malattie di quelli
che ha in cura, invece di guarirli55.
Tutte queste virtù e una tale perfezione non vengono affatto ri-
chieste allo psicanalista, al quale Freud chiede soltanto di essere
stato prima egli stesso psicanalizzato56, allo scopo principahnente
di conoscere i propri complessi57, di vincere anche le-proprie resi-
stenze al riconoscimento dell'inconscio e di tenere sotto controllo
il contro-transfert (risposta ai sentimenti d'affetto e di aggressività
del malato)58. Ma non gli chiede una perfetta buona salute. <<È in-
negabile, scrive, che gli analisti non hanno completamente rag-
giunto, nella loro personalità, il grado di normalità psichica che
vogliono far raggiungere al loro paziente»59.

54 Si veda Apoftegmi, 603 (Antonio); Ammona, Lettere, IV, 2; Evagrio Pontico, Antir-
rhetico, <<La vanagloria», 9; Gregorio di Nazianzo, Discorsi, II, 13 e 78; Basilio di Cesarea,
Omelie sull'origine dell'uomo, I, 19; Giovanni Cassiano, Istituzioni cenobitiche, VIII, 5; Ni-
lo l'Asceta, La pratica monastica, 23 (PG 79, 749C-752A), Giovanni Climaco, La scala del
paradiso, IV,.6; XXVI, 11; Lettera al Pastore, 9, 15, 21, 49, 57, 97; Isacco il Siriaco, Discorsi
ascetici, 21; 56; Simeone il Nuovo Teologo, Trattati etici, VI, 258s; Capitoli teologici, gnosti-
ci e pratici, I, 48 e 49.
55 Cfr. Evagrio Pontico, La preghiera, 25 (cfr. trad. it. presso Città Nuova); Isacco il Siria-
co, Discorsi ascetici, 58.
56 Si veda La techique psychanalytique, eit., p. 27, 67.
57 Ibidem, p. 67.
58 Ibidem, p. 27.
59 r;analyse avec fin e l'analyse sans fin, trad. fr., Paris, 1994, p. 57.

163
Il padre spirituale, invece, ha sempre, nella relazione con i suoi
figli spirituali, una forte presenza come persona; una presenza tut-
tavia che, muovendo dalla sua carità e dalla sua umiltà, non ha
niente di soffocante e si mostra pienamente rispettosa della libertà
dell'altro. Pur senza erigersi direttamente a modello, il padre spiri~
tuale è di fatto modello per i suoi figli spirituali, dato che li am-
maestra con gli atteggiamenti e i comportamenti non meno che
con le parole.
Lo psicanalista rifiuta questa funzione di esemplarità60. Coltiva,
al contrario, una certa qual forma d'assenza personale61, in manie-
ra tale da essere come unò schermo vuoto che permetta ai pazienti
di proiettarsi ed effettuare quel <<transfert>> che svolge un ruolo es-
senziale nella terapeutica psicanalitica. «Ali' analizzato, scrive
Freud, il medico deve restare impenetrabile e, come uno specchio,
limitarsi a riflettere ciò che l'altro gli mostra»62.

Un'ultima differenza è che la psicanalisi e le altre psicoterapie si


pongono su un piano esclusivamente naturale, mentre il terapeuta
spirituale si pone anche su un piano soprannaturale, facendo cioè
intervenire la grazia divina. Questa componente «soprannaturale>>
della terapeutica spirituale le infonde non soltanto una dimensione
supplementare, ma anche una maggiore efficacia.
La confessione possiede due immensi vantaggi. In primo luogo, il
peccatore che si pente ha la sicurezza della misericordia divina e del
perdono delle sue colpe. L'assoluzione, effetto della grazia invocata
dal confessore, permette l'oggettiva distruzione dei peccati commes-
si. Svolge un ruolo autenticamente liberatorio riguardo al peccato,
ma anche riguardo al senso di colpa che a quello è legato, e riguardo
anche al passato, da adesso non più subito come un peso e un im-
placabile determinismo. Come dice il formulario del sacramento, la
confessione opera immediatamente una guarigione, insieme a un
rinnovamento che permette al penitente di ripartire su nuove basi.
Anche i carismi (doni dello Spirito Santo) che i migliori padri
spirituali possiedono hanno una grande efficacia nella terapeutica
sia delle malattie spirituali sia delle malattie psichiche che da quel-
le derivano.

60 Si veda La technique psychanalytique, cit., p. 138; Essais de psychanalyse, trad. fr., Paris,
1986, p. 223.
61 Si veda La technique psychanalytique, cit., p. 68.
62 Ibidem, p. 69.

164
Il carattere ispirato delle loro parole dà a esse un'efficacia che
sorpassa quella delle parole ordinarie. Negli Apoftegmi accade fre-
quentemente di vedere taluni, che ricorrono a padri spirituali ben
noti per la loro santità, chiedere a essi: «Padre, dimmi una parola
di salvezza>>, e molto spesso si vede che poche parole - una sem-
plice battuta, a volte - hanno un effetto maggiore d'un lungo di-
scorso; e ciò perché la parola dei santi è impregnata della forza
dello Spirito. Accade anche ai nostri giorni: i racconti sui grandi
padri spirituali della nostra epoca contengono esempi numerosi
del carattere decisivo che certe loro parole ebbero sulla ristruttu-
razione delle personalità e sul cambiamento del modo di vita di
quelli che le sentirono.
Anche i carismi del discernimento e della «conoscenza del cuo-
re» (kardiogn8sis, lettura nei cuori e conoscenza delle dimensioni
nascoste della vita interiore) permettono ai padri spirituali che li
possiedono d'andare più lontano degli psicoterapeuti profani nella
conoscenza delle cause delle malattie, nell'accompagnamento della
loro evoluzione e nella ricerca di mezzi terapeutici adeguati, sco-
prendo direttamente nell'inconscio non soltanto le malattie nasco-
ste, ma anche le risorse di cui la persona dispone per liberarsene e
liberare la sua vera personalità orientata verso Dio63.
C'è poi ancora da sottolineare il ruolo della preghiera del padre
spirituale, tanto più efficace quanto più grande è la sua santità, e
quella del malato stesso per la sua guarigione. La preghiera invoca
la forza soprannaturale della grazia divina per ottenere la guarigio-
ne; e di frequente accade che la guarigione o un notevole migliora-
mento dello stato del malato avvenga.

4. Conclusione

A me pare che le pratiche della confessione e della manifestazio-


ne dei pensieri offrano possibilità più ampie delle psicoterapie
classiche. Una volta di più dobbiamo tuttavia ricordare che il loro
scopo non è primariamente psicoterapeutico, ma che l'effetto psi-
coterapeutico esse l'hanno <<in sovrappiÙ>>, come dire che possono

63 Uno dei più grandi padri spirituali del XX secolo, il padre Paissios, che viveva da ere-
mita sul Monte Athos, diceva un giorno a un suo visitatore, psicologo clinico di professione:
«Voi conoscete le anime con l'aiuto del sapere che vi siete procurato all'università e sui libri;
io vedo direttamente il loro contenuto».

165
contribuire a una terapia delle malattie psichiche attraverso una
terapia delle malattie spirituali, nella misura in cui queste sono le-
gate a quelle.
Bisogna anche ricordare che non costituiscono dei metodi chiu-
si e autosufficienti: devono piuttosto integrarsi in una terapeutica
spirituale globale, le cui due dimensioni fondamentali e comple-
mentari sono la vita ascetica personale e la vita sacramentale, due
realtà che si collocano entrambe nel quadro d'una vita ecclesiale.

166
X

LE RADICI SPIRITUALI
DELLE MALATTIE PSICHICHE

È il momento adesso di far più concretamente vedere come cer-


te malattie psichiche possano avere origine da questa o quella ma-
lattia spirituale e come si possa pensare a guarirle partendo dalla
terapeutica di queste ultime.
Un possibile metodo per trattare quest'argomento sarebbe di
esaminare l'una dopo l'altra le varie malattie psichiche e indicarne
le rispettive radici spirituali. Ma è un metodo che presenta due m-
convenienti. Prima di tutto perché la classificazione delle malattie
psichiche è soggetta a condizioni e variazioni storiche e culturali e
resta perciò sempre contestabile. Poi anche perché identiche radi-
ci spirituali compaiono in più d'una malattia psichica; variano sol-
tanto la proporzione e il modo d'agire. Ci pare quindi più giudi-
zioso presentare prima le principali radici spirituali delle malattie
psichiche e poi eventualmente precisare in quali di queste (che qui
indicheremo secondo la più usuale classificazione attualmente in
vigore) ciascuna di quelle interviene in modo particolare.

1. Falso senso di colpa

Il senso di colpa compare in più d'una malattia psichica e il suo


ruolo patogeno è stato spesso sottolineato. Talora si sono accusate
la morale e la religione di esserne all'origine, per il grande rilievo
che esse danno al peccato e alla colpal; per questo, talvolta si è
predicata, come mezzo terapeutico, la liberazione appunto dalla
morale e dalla religione2. E tuttavia, quest'aspetto patogeno non è
poi tanto imputabile al senso di colpa in sé, quanto piuttosto all'a-
1 Si veda, fra gli altri, H. Hesnard, I:univers morbide de lafaute, Paris, 1949; P. Solignac,
La névrose chrétienne, Paris, 1990.
2 Si veda H. Hesnard, Esquisse d'une morale sans obligation ni sanction, Paris, 1884.

167
spetto patologico di quello che possiamo chiamare un <<falso senso
di colpa>>.
Questo falso senso di colpa può assumere varie forme.
Può trattarsi d'un senso di colpa eccessivo, cioè corrispondente
sì a una colpa o un peccato reali, ma sproporzionato rispetto a ciò .
che essi sono in realtà. Questo sentimento si accompagna spesso a
un rimorso che mina la vita interiore della persona e a un forte
sentimento di svalutazione di sé. Lo s'incontra spesso nelle depres-
sioni.
Può inoltre trattarsi d'un senso di colpa per una colpa o un pec-
cato immaginari. Questo tipo di senso di colpa s'incontra, in una
forma estrema, nella malinconia, dove si fonda su un'idea deliran-
te e si accompagna a una volontà d'autopunizione che può arriva-
re fino ali' automutilazione e al suicidio3.
Data la sua relazione con le nozioni di colpa e di peccato, il fal-
so senso di colpa costituisce una vera e propria patologia spiritua-
le, cui si può applicare una terapeutica spirituale.
Questa terapeutica deve aiutare il malato a recuperare un senso
esatto della colpa e del peccato, proporzionato al suo reale stato.
Deve poi fargli integrare il suo senso di colpa, nella misura in cui è
fondato, in un atteggiamento penitenziale di dispiacere e di contri-
zione, atteggiamento che culminerà nel perdono e nell'assoluzione
dei peccati. In questa terapeutica, è insomma il sacramento della
confessione che è destinato a svolgere un ruolo fondamentale (re-
stando comunque ben chiaro che il sacramento non va preso come
il mezzo d'una terapeutica psichica, bensì come il mezzo d'una te-
rapeutica spirituale, il cui intento primario è di restaurare la rela-
zione dell'uomo con Dio).
Si potrebbe obiettare che questa terapeutica è efficace soltanto
· nel caso di stati nevrotici, mentre nel caso della malinconia il senso
di colpa si fonda in un'idea delirante che resiste a ogni forma d' ar-
gomentazione esterna. Eppure, sulla base di numerose osservazio-
ni, sono convinto che lo psicotico rimane in genere impermeabile
al discorso d'altri, ma non alla realtà, e che soprattutto è sensibile
ad atteggiamenti e parole rassicuranti e consolatrici accompagnate
nel terapeuta da un sentimento autentico di compassione.

3 Ho conosciuto un malato che s'identificava con Adamo e si considerava colpevole del


peccato originale e quindi responsabile di tutte le sciagure dell'umanità; si puniva tentando il
suicidio in forme atroci, alle quali assegnava lo scopo di farlo soffrire al massimo prima della
morte.

168
2. Falso timore e falsa inquieti.dine

La paura è il nucleo delle malattie psichiche comunemente chia-


mate «nevrosi fobiche». Qui la paura prende la forma d'un timore,
accompagnato da angoscia, che si prova dinanzi a certi oggetti o
certe situazioni. Possiamo però qualificarlo come un <<falso timo-
re», perché il timore che uno ha è eccessivo, sproporzionato ri-
spetto ali' oggetto che lo causa e talora ingiustificato. Inoltre, qui il
timore non è poi tanto suscitato dall'oggetto in sé, quanto piutto-
sto dall'aspetto di pericolosità che nella sua immaginazione la per-
sona gli attribuisce.
L'angoscia è presente nella maggior parte delle malattie psichi-
che ed è una componente di rilievo di tutte le nevrosi. Corrispon-
de, di fatto, a ciò che, da un puntp di vista spirituale, possiamo
chiamare <<falsa inquietudine»: perché uno s'inquieta senza ragio-
ne e senza motivo o per cose che non hanno un vero valore.
La paura e l'angoscia sono delle forme di quella passione che è
il timore e che fa parte delle otto passioni principali, o generali, e
come tale è stata spesso descritta dai Padri4. Questa passione del
timore, com' essi la concepiscono, comporta paura, orrore, terrore
per un verso, ansietà, angoscia e disperazione per l'altro.
Per ben comprendere l'aspetto patologico del timore, in tutte le
sue forme, e poi anche per ben comprendere come si debba impo-
starne la terapeutica, dobbiamo subito dire che esso può assumere
anche una forma normale e virtuosa, di cui il timore patologico e
passionale è una perversione.
Nelle sue varie forme, il timore è provocato dall'idea o senti-
mento di poter perdere, nell'immediato, ciò cui si è attaccati in
modo fondamentale. È dalla natura e dall'oggetto dell'àttaccamen-
to che il timore assume una forma normale oppure patologica.

1) La forma normale del timore può a sua volta assumere altre


due forme.
a) La prima è quella d'una forza che fa attaccare l'uomo al suo
stesso essere e gli fa temere di perdersi, anima e corpo. In questa
forma di timore e nelle sue manifestazioni più elementari, la perso-
na si attacca alla vita, ali' esistenza e teme tutto ciò chè potrebbe
danneggiarle e fargliele perdere, sente ripulsa per il non-essere, co-

4 Si veda il nostro libro Terapia delle malattie spirituali, cit., p. 136 e 216s.

169
me spiega san Massimo il Confessore sottolineando che questa
tendenza fa parte della natura stessa dell'uomo.
Questa forma di timore corrisponde, potremmo dire, all'istinto
di conservazione, all'istinto di vita, alla tendenza presente nell'uo-
mo di perseverare nell'essere e di perpetuare la propria esistenza.
Si manifesta in particolare come timore della morte, timore che è
una tendenza naturale dal momento che il Creatore ci ha dato la
vita perché la conserviamo e la corruzione e la 'morte costituiscono
dei fenomeni antinatu:rali introdotti dal peccato.
b) La sua seconda forma è il <<timore di Dio», che nel suo grado
più alto è il timore di venire separati da Dio. Questa seconda for-
ma di timore è collegata per sua natura alla precedente: l'uomo at-
taccato al suo essere e alla sua vita e che teme di perderli non può,
se ne conosce l'autentica natura, non temere di venire separato da
Dio, che del suo essere e della sua vita è appunto il principio e il
fine, la fonte e il senso. Ma più che la vita biologica, è la vita in
Dio che teme di perdere l'uomo cosciente della propria realtà fon-
damentale e vera. Pèr questo, nell'uomo spirituale il timore della
morte si trova eclissato dal timore di Dio, dal timore di tutto ciò
che può separarlo da Dio, cioè il peccato e il Maligno che danno la
morte all'anima (cfr. Matteo- 10,28; Luca 12,5), la sola morte da te-
mere veramente, dato che toglie definitivamente l'intera vita, men-
tre la morte biologica non separa che temporaneamente l'anima
dal corpo e non distrugge se non la forma terrena e corrotta dell' e-
sistenza.

2) Anche la forma patologica del timore, che i Padri considerano


una passione cattiva, si manifesta come una ripulsa che l'uomo
prova dinanzi a tutto ciò che può corrompere e distruggere il suo
essere. Ma in questo caso non si tratta più del suo essere secondo
Dio, ma del proprio essere decaduto, cui è attaccato in forza del-
l'amore egoistico di sé (philautia). È anche timore della morte, ma
non più per la medesima ragione di prima.
San Massimo il Confessore classifica questa forma di timore fra
le passioni imputabili alla privazione di piacere e dice che esso
proviene, al par di quelle, dal fatto che l'amore egoistico di sé (la
philautia) si ritrova mortificato da una sofferenza dell'anima e del
corpo: l'uomo teme di perdere - e teme ciò che può fargli perdere
- un oggetto sensibile il cui possesso (reale o immaginariamente
anticipato) gli procura un qualche godimento sensibile. L'idea o

170
sentimento di questa possibile perdita genera nella sua anima uno
stato di malessere e sconvolgimento i cui effetti si fanno sentire an-
che a livello del corpo.
Il timore-passione rivela dunque, in tutti i casi, un attaccamento
a questo mondo: ai beni di questo mondo e al loro godimento sen-
sibile, e anche a questa vita in quanto concepita al servizio del rag-
giungimento di questa sorta di godimento. A questa forma di ti-
more possiamo allora assimilare ogni paura della morte, ma non
più intesa - come nel quadro del timore naturale e normale - co-
me paura di perdere la vita che è un bene dato da Dio e che deve
servire per unirsi a Lui, bensì come la perdita dei piaceri sensibili
di cui la vita permette di godere in questo mondo. I Padri sottoli-
neano spesso l'essenziale relazione del timore-passione con la vita
secondo questo mondo, ossia con la vita «carnalmente>> intesa.
Mentre la prima forma di timore è conforme alla natura, questa
seconda forma, che è cattiva, è contro natura. Sta nel fatto che
l'uomo ha stravolto la duplice finalità naturale e normale di quel
timore che lo faceva attaccare al suo essere vero e a Dio per farlo
diventare timore di perdere il suo essere «decaduto», timore di es-
sere separato dal mondo sensibile, di perdere la vita passionale e il
piacere che a questa inerisce (anche se il più delle volte tutto que-
sto ragionamento non è affatto cosciente). Invece di temere ciò
che minaccia il suo essere spirituale, l'uomo si dà a temere tutto
ciò che minaccia e mette a -rischio la sua esistenza sensibile e i go-
dimenti che da essa trae.
La passione del timore rivela una relazione patologica dell'uo-
mo con Dio. Temendo di perdere qualche bene di questo mondo e
qualche piacere sensibile, invece di temere di perdere Dio e perde-
re se stesso, l'uomo si sottrae a Dio, fonte della sua vita, principio
e fine del suo essere, senso della sua esistenza, e fissa invece il cen-
tro delle sue preoccupazioni sulla realtà sensibile, che diventa per
lui l'Assoluto.
Nel timore-passione, Dio non viene soltanto dimenticato come
principio e fine dell'essere e della vita, come senso e centro dell' e-
sistenza; viene anche negato, trascurato, rifiutato sotto l'aspetto
della sua attività provvidenziale e della benevola protezione che
eser-cita verso ogni essere.
Questo timore rivela la falsa idea che l'uomo si fa di essere ab-
bandonato a sé solo, di non potere o non dover contare che sulle
sole proprie forze, di essere privo dell'aiuto di Dio. L'insegnamen-

171
to del Cristo stesso denuncia questa falsa idea, quando all'uomo ri-
corda che Dio si prende di continuo cura di lui (cfr. Matteo 10,29-
31; Luca 12,6-7). Il timore è insomma anche il segno d'una man-
canza di fede nella Provvidenza divina (cfr. Marco 4,36-40).
Ma questa forma di timore esprime anche una mancanza di fede
nei beni spirituali. Perché, se l'uomo fosse attaccato a essi, soltanto
essi temerebbe di perdere. In effetti, sono i soli beni che per l'uo-
mo hanno un valore assoluto e un'importanza vitale. L'uomo che si
affida a Dio, diventando partecipe della risurrezione del Cristo e
della vita divina, non deve più temere nessun danno per la sua ani-
ma o il sùo corpo, non deve più temere neanche la morte, che uc-
cide provvisoriamente il corpo ma non può far niente di più (Mat-
teo 10,28; Luca 12,4). Chi s'unisce a Dio trova in Lui la totalità dei
beni e non teme quando viene spogliato di qualche bene sensibile.
Temere non è soltanto non aver fede nei beni spirituali, i soli
reali; è anche, a un tempo, accordare una fede vana ai beni sensibi-
li, d'illusoria realtà (cfr. Matteo 6,19; Luca 12,33): più presto o più
tardi, a motivo della loro provvisorietà o per la propria morte,
questi l'uomo li perde, e con essi anche il piacere legato al loro
possesso, un piacere che è peraltro ben poca cosa rispetto al. godi-
mento dei beni del Regno. È perché l'uomo decaduto s'inganna
sulla vera realtà degli oggetti e dei piaceri sensibili cui si attacca
che può farsi prendere dal timore; se ne conoscesse invece la natu-
ra vera, la loro perdita lo lascerebbe indifferente.

La terapeutica spirituale del timore-passione si rivela un mezzo


efficace per curare anche quelle sue forme derivate che sono le fo-
bie e l'angoscia.
Questa terapeutica passa attraverso l'aggiustamento, da parte
del malato ma con l'aiuto del terapeuta, della propria gerarchia dei
valori, attraverso la crescita della fede e della speranza in Dio e
fortificando la fiducia nella Provvidenza.
Dal timore e dagli stati che si possono a esso collegare, come la
paura, l'inquietudine, l'ansietà, l'angoscia, la disperazione, fonda-
mentalmente legati com' essi sono a un attaccamento ai beni sensi-
bili, l'uomo non può essere guarito se non distaccandosi da questo
mondo, se non rimettendo tutta la sua ansia nelle mani di Dio, nel-
la ferma speranza che, nella Sua Provvidenza, egli provvederà a tut-
ti i suoi bisogni. È quanto insegna il Cristo stesso: «Non inquietate-
vi, dunque, e non dite: cosa mangeremo? cosa berremo? di cosa ci

172
vestiremo? Perché tutte queste cose le cercano i pagani. Il vostro
Padre celeste sa che ne avete bisogno. Cercate anzitutto il Regno e
la giustizia di Dio e tutte queste cose vi saranno date in· sovrappiù.
Non inquietatevi dunque per l'indomani>> (Matteo 6,28-34).
La prima radice del timore, l'abbiamo visto, è la mancanza di fe-
de: dunque il timore verrà espulso dal cuore dell'uomo in propor-
zione alla sua fede in Dio. Chi crede fermamente in Dio e nella sua
Provvidenza è certo di ricevere da Lui in ogni circostanza aiuto e
protezione, e allora non ha più da temere né circostanze né avver-
sari né la morte stessa (dr. Salmi 3,25-26; 22,4; 26,1.3; Lettera agli
Ebrei 13 ,5-6).
Non è comunque la fede in sé che libera l'uomo dal timore,
bensì Dio, il quale, in risposta a tale fede, gli accorda il Suo aiuto e
il Suo soccorso.
Quest'aiuto - con fede che Dio può darglielo, con speranza che
glielo darà - l'uomo deve chiederlo con la preghiera. Dobbiamo
qui osservare che è la «preghiera del cuore>>5 il rimedio più effica-
ce contro il timore e tutte le passioni a esso legate (inquietudine,
paura, ansietà, angoscia). Essa infatti unisce l'uomo a Dio in modo
permanente e lo fa costantemente beneficiare del Suo soccorso;
mai più nessuna causa di timore potrà allora coglierlo di sorpresa.
La scomparsa del timore e degli atteggiamenti patologici che a es-
so sono legati proviene dalla permanente presenza della forza divi-
na nell'uomo grazie alla preghiera, anch'essa permanente.
La terapeutica del timore suppone correlativamente la rinuncia
dell'uomo alla sua volontà propria e un atteggiamento d'umiltà. Il
timore infatti è legato all'orgoglio, e l'uomo va soggetto a questa
passione nella misura in cui ripone tutta la sua fiducia nelle pro-
prie forze. Per poter vincere il suo orgoglio con la forza di Dio
stesso, per ricevere questa forza e conservarla, l'uomo deve rinun-
ciare a se stesso, riconoscere la propria impotenza; altrimenti l' e~
nergia divina non potrà trovare spazio in lui.
Ed è anche attraverso l'amore che l'uomo può vincere il timore,
dato che il primo esclude il secondo, come dice l'apostolo san
Giovanni: «Non c'è timore nell'amore; al contrario, l'amore per-
fetto scaccia il timore» (Prima lettera 4,17-18). Qui è detto dell'a-
more del prossimo: chi ama il fratello, nulla teme da lui. Ma più

5 Su questa particolarissima forma di preghiera, d'uso corrente nella Chiesa ortodossa, si


veda Terapia delle malattie spirituali, cit., p. 367s.

173
fondamentalmente ancora, quest'insegnamento vale per l'amore di
Dio, che esclude tutte le forme di timore mondano e soprattutto la
paura della morte, che dei timori mondani è spesso l'origine. Nel-
l'amore di Dio l'uomo riceve «la forza della fiducia» (cfr. ibid.
4,17), vittoriosa su ogni timore; è unito a Colui cui tutte le cose so-
no sottoposte e niente può fargli danno. In forza dell'amore, l'uo-
mo vive ormai nell'intimità di Dio, lontano da tutte le ·cose di que-
sto mondo - esterne o interiori - che possono provocare timore e
gode di beni spirituali che nessuno può rapirgli.
In parallelo, il malato deve lavorare, con l'aiuto del suo terapeu-
ta, a convertire il suo timore-passione in timore virtuoso.
In effetti, già abbiamo visto che esiste anche un timore virtuoso,
che Dio ha dato all'uomo come un mezzo di salvezza e che per que-
sto i Padri chiamano anche «timore salvifico», «salvifica ansietà>> e
con altre espressioni di questò genere. Questo timore costituisce ciò
che la tradizione ascetica chiama appunto il <<timore di Dio».
Il "timore-virtù e il timore-passione hanno radice nella medesima
tendenza naturale dell'uomo a temere. Il timore-passione corri-
sponde di fatto a una deviazione contro natura - una perversione
patologica - di quel timore-virtù che è naturale e normale nell'uo-
mo; nel timore-passione il timore si concentra su questo mondo,
invece di concentrarsi sulla relazione con Dio, come la sua natura
stessa voleva.
La terapeutica del timore patologico deve dunque avvenire par-
tendo da una conversione, da una svolta verso Dio di quella ten-
denza che è alla sua base..
E siccome si fondano sulla medesima tendenza, le due forme
di timore si escludono a vicenda. Mentre il timore-passione
escludeva il timore di Dio, questi, una volta che l'uomo l'avrà
fatto proprio, escluderà quello. E a mano a mano che crescerà
nell'uomo, il timore di Dio ridurrà il timore-passione, prendendo
il suo posto. Per questo, il Siracide può gridare quella che è una
sua costatazione: «Chi teme Dio non ha paura di nulla, non te-
me ... » (Siracide 34,14).
Per quanto poi riguarda le condizioni per giungere al timore di
Dio (che è, fondamentalmente, ricordiamolo, il timore di venire
separati da Dio), rimandiamo allo studio che a quest'argomento
abbiamo già dedicato6.

6 Terapia delle malattie spirituali, cit., p. 627s.

174
3. Assolutizzazione del relativo

L'assolutizzazione del relativo è una componente essenziale del-


la maggior parte delle malattie psichiche. Il suo ruolo patogeno è
stato messo in evidenza, su un piano psicologico, dagli psicanalisti
Igor Caruso7 e Wilfried Daim8, che fanno entrambi riferimento,
nella loro concezione della psicopatologia, a valori religiosi d'ispi-
razione cristiana. Ma purtroppo questi autori si sono poi limitati a
considerazioni di carattere molto generale, senza saper trarre, da
questa giusta intuizione, tutte le sue conseguenze sul piano tera-
peuti~o .
. Già altrove abbiamo fatto vedere come nell'uomo il processo
del peccato consista nell'ignorare Dio e stornare le proprie facoltà
conoscitive, la propria facoltà di desiderio e tutta la propria poten-
za d'amore - ma anche tutte le altre facoltà - verso il suo io, consi-
derato indipendentemente da Dio, e verso le cose di questo mon-
do, non più considerate nel rapporto che esse hanno con Dio ma
nelle loro sole apparenze sensibili, in vista di godere di esse9. Ed è
così che l'ignoranza e trascuratezza di Dio fa nascere l'amore egoi-
stico di sé (o philautia), e questo a sua volta tutte le passioni, che
sono altrettante forme d'attaccamento. a sé e al mondo. Perdendo
il senso dell'Assoluto, l'uomo ha fatto di sé un idolo, deificandosi
senza Dio e al di fuori di Lui, e in più si è fatto degli idoli con le
cose limitate di questo mondo. Questo processo di "idolificazio-
ne" è stato descritto molto bene dai Padri, in particolare sant' Ata-
nasio d'Alessandria e san Massimo il Confessore.

7 Igor Caruso, Psychanalyse et synthèse personnelle, Paris, 1959, in particolare p. 57-73.


8 Wilfried Daim, Transvaluation de la psychanalyse. I.:homme et l'Absolu, Paris, 1956, in
particolare p. 134-149. Scrive quest'autore: <Oe l'Assoluto non viene preso come assoluto, ma
come relativo, e se, al contrario, qualcosa di relativo viene preso per assoluto, nell'uomo na-
sce un conflitto di fondo. Il relativo eretto ad assoluto non è Dio, ma un idolo. Questi nasce
dalla deificazione d'un relativo e va di pari passo con una detronizzazione di Dio, dato che,
rispetto all'idolo, Dio è stato privato del suo carattere divino e, di conseguenza, reso relativo.
Una volta reso Dio relativo ed elevato l'idolo ad assoluto, sopravviene un conflitto con la
realtà, per forza accompagnato da funeste conseguenze. [. ..] Se una porzione del mondo vie-
ne cavata fuori dalla realtà ed elevata al rango d'idolo, cioè elevata ad assoluto, avvengono
una sfigurazione e uno sfasamento d'ottica, che mettono in gioco sia le cose che l'individuo
stesso. Nei loro reciproci rapporti, l'uomo e il mondo sono fuori asse, l'ordine stabilito è di-
strutto. In tal modo, l'idolo stesso è mostruosamente sopravvalutato e nella stessa misura Dio
sottovaiutato. Conoscenze sfasate generano anche attività sfasate. Queste non sono più con-
formi alla loro natura, non sono più adeguate alla situazione e ncin centrano più i loro oggetti.
Ne risulta un conflitto con la realtà, conflitto che costituisce la ragione vera della nevrosi e_
forse anche della psicosi» (p. 135-136).
9 Si veda Terapia delle malattie spirituali, cit., p.A7-124.

175
Se attentamente analizziamo tutte le malattie psichiche, costatia-
mo infatti che tutte quante spingono ali' estremo, sebbene ciascuna
relativamente a un solo oggetto particolare, questo processo di as-
solutizzazione del relativo o di idolificazione d'un oggetto limitato.
Qui di seguito mostreremo il carattere patogeno di quest'ipertro-
fia dell'io che s'incontra in molte nevrosi (in particolare nella nevro-
si isterica) e in molte psicosi (in particolare la psicosi paranoica).
Quanto ali' assolutizzazione di oggetti, di situazioni o rappresen-
tazioni particolari, essa si trova al centro delle nevrosi fobiche e
della nevrosi ossessiva.
Si trova anche, in certo modo, nelle psicosi, dato che ogni deli-
rio è un'interpretazione generale della realtà alla luce d'un suo
aspetto assai limitato.
La terapeutica di quest'assolutizzazione e idolificazione passa -
come assai bene hanno visto Igor Caruso e Wtlfried Daim - attra-
verso un ripristino della gerarchia dei valori. E perciò la terapeutica
spirituale consisterà in un rovesciamento di prospettiva, in una con-
versione delle facoltà conoscitive, delle potenze desiderante [concu-
piscibile] e aggressiva [irascibile] e di tutte le altre facoltà nella dire-
zione di Dio, che deve tornare a essere il centro assoluto di riferi-
mento. Solamente per questa via gli oggetti assolutizzati e idolificati
potranno ritrovare quel posto e valore relativi che loro tocca.
Questo rovesciamento di prospettiva, questo ripristino della ge-
rarchia dei valori non può fondarsi che su un rafforzamento nel
malato della sua fede in Dio e, correlativamente, in un indeboli-
mento delle sue forme d'attaccamento al mondo, cioè delle sue
passioni. Dunque non si tratta d'un processo puramente intellet-
tuale, ma piuttosto d'un processo asceticolO globale.
Quest'integrazione della terapeutica nella vita ascetica la rende-
rà più efficace per i deliri, che, nelle psicosi, sono alla base dell'i-
dolificazione e si dimostrano inaccessibili a un discorso puramente
razionale.

4. Pseudo-rituali
La presenza di pseudo-rituali s'incontra in varie malattie psichi-
che, ma un posto centrale essi occupano nella nevrosi ossessiva.

10 Nel senso ampio che qui diamo a questa parola.

176
Freud ha notato l'analogia che esiste fra i rituali nevrotici e i ri-
tuali religiosi; è peraltro anche ciò che l'ha indotto a vedere nella
religione un fenomeno nevroticoll. Al contrario, noi riteniamo che
i rituali nevrotici siano delle contraffazioni patologiche e dei surro-
gati di rituali religiosi autentici e sani. Ciò non per forza equivale a
dire che il malato sia stato un tempo in possesso in modo conscio
di quei rituali e successivamente li abbia pervertiti. In genere il ri-
tualismo (che, in forme svariate e gradi diversi, troviamo presente
in tutti gli uomini) ha come base la religiosità inconscia dell'uomo,
costitutiva di quello che abbiamo chiamato l'inconscio <<teòfilo». I
rituali nevrotici, che sono forme acute e aberranti di ritualismo,
possono allora fondarsi sull'intuizione - inconscia - che un rituale
potrebbe essere efficace per risolvere una certa sofferenza, e quin-
di provenire da un maldestro tentativo d'inventarsene uno, non
avendone a disposizione.
Freud ha sottolineato come i rituali che compaiono nella nevro-
si siano dei mezzi per scongiurare l'angoscia. In realtà, bisogna ri-
salire ancora più indietro dell'angoscia, fino a ciò che la provoca,
cioè un inconfessato sentimento di vergogna o un senso di colpa,
giustificato oppure no che sia. Molti di questi rituali sono infatti
dei rituali di purificazione o di espiazione che assumono una for-
ma simbolica; appaiono come delle deviazioni e deformazioni di
rituali penitenziali autentici, di cui hanno in qualche modo preso il
posto.
Il ruolo del terapeuta è fondamentalmente quello di scoprire a
quale colpa o pseudo-colpa sia legato quel sentimento di vergogna
o quel senso di colpa. Insomma, è anzitutto d'aiutare il malato a
prenderne coscienza, e ciò già da solo può ridurre la patologia; ma
se la psicanalisi si limita a far arrivare a una «coscientizzazione>> e
una verbalizzazione, senza pronunciarsi sulla qualità morale di ciò
che fonda quel sentimento, la terapeutica spirituale può invece
spingersi oltre e aiutare il malato a trovare una soluzione alla sua
patologia12, sia nella penitenza e nel perdono sacramentali, quan-
do si tratti di vera colpa, sia nell'aggiustamento del giudizio sull' at-

11 Cfr. Totem et tabou, trad. fr., Paris, p. 46; <<Actions compulsionnelles et exercices reli-
gieux», in Psychose, névrose et perversion, Paris, 1973, p. 133-142: «Sulla base di queste. con-
cordanze e analogie, potremmo arrischiarci a concepire la nevrosi ossessiva come il momento
patologico della formazione religiosa, a vedere nella nevrosi una religiosità individuale e la re-
ligione come una nevrosi ossessiva>> (dr. trad. it. in Opere, cit.)
u Dobbiamo ricordare che nella Chiesa ortodossa si fanno molte preghiere per chiedere a
Dio il perdono dei peccati coscienti e di quelli inconsci.

177
to, sul pensiero o sul sentimento considerati colpevoli, quando
non si tratti di vera colpa.
Ma la conversione del rituale da pseudo-rituale patologico a ri-
tuale autentico e sano può costituire, parallelamente, una terapeu-
tica preziosa. Il terapeuta può aiutare il malato a trasformare a po-
co a poco le parole o formule che egli va ripetendo in modo com-
pulsivo in parole e formule di preghiera, unendole eventualmente
a un atteggiamento di penitenza per la colpa che uno sente. Que-
st'atteggiamento di penitenza possiede dell'efficacia nei riguardi
non soltanto d'una colpa cosciente, ma anche d'una colpa incon-
scia. In modo analogo, può aiutare il malato a trasformare a poco
a poco i suoi atti compulsivi in gesti di preghiera (segni di croce,
invocazioni... ). Si tratta, per dirla in altre parole, di convertire l' at-
teggiamento patologico in atteggiamento normale, di dare una
svolta agli pseudo-rituali, per restituire a essi la forma di rituali au-
tentici ed efficaci di cui i primi non erano che la deviazione e la ca-
ricatura patologica e impotente.
Il fatto che gli pseudo-rituali s'impongano spesso in maniera
brusca e siano incoercibili non costituisce un vero ostacolo a que~
sta terapeutica. Ma bisogna, in un primo tempo, insegnare al mala-
to a far seguire a uno pseudo-rituale che a lui si è imposto un ri-
tuale autentico; bisogna poi anche insegnargli a captare l'arrivo
dello pseudo-rituale, per bloccarlo prima che si manifesti, sosti-
tuendogli un rituale vero. Si tratta d'una disciplina mentale e di
un'abitudine che uno deve procurarsi a poco a poco:

Sotto questa voce dobbiamo comprendere anche quelle che


vengono chiamate le turbe ossessive compulsive (TOC) e che da
qualche anno paiono particolarmente diffuse; anche a loro riguar-
do dobbiamo spendere qualche parola. Questo tipo di turbe è pre-
sente in particolare nella cosiddetta sindrome di G-illes de la Tou-
rette, assumendo a volte la forma di gesti e parole oscene (coprofa-
gìa e coprolalìa) o magari di bestemmia.
Oggi perlopiù si ammette che la sindrome di Gilles de la Tou-
rette ha un'origine organica, dato che si manifesta anzitutto con
una disordinata agitazione nervosa. Ci si può tuttavia chiedere
perché mai queste turbe, quando sono ben impiantate, assumano
proprio la forma di gesti e parole oscene oppure blasfeme e non
già di gesti o parole banali. C'è un'evidente implicazione morale e
spirituale.

178
Da un punto di vista spirituale, si può essere tentati di vederci
l'effetto d'un qualche intervento demoniaco, portando a riprova
che bestemmie e parole oscene sono abituali nei fenomeni di pos-
sessione; ma su questo punto bisognerà essere molto cauti.
Pare infatti che nella maggioranza dei casi si abbia sì da fare con
una perdita di controllo morale, ma insieme a una perdita di con-
trollo fisico e psichico .
. Una rieducazione è tuttavia possibile, e i procedimenti che abbia-
mo già indicato a proposito dei rituali presenti nelle nevrosi ossessive
possono parecchie volte applicarsi anche a questi casi con successo.
Possiamo qui ampiamente ispirarci alla terapeutica spirituale
delle bestemmie, che sono manifestazioni assai comuni in certi sta-
di della vita spirituale e che, senza integrarsi con un qualche sinto-
mo psicologicamente patologico, si possono nondimeno assimilare
a certe manifestazioni compulsive indesiderabili, che sono, per chi
ne è vittima, mo'tivo di sofferenza e angoscia.

5. Aggressività perversa

L'aggressività - che può assumere la forma di un'aggressività


contro se stessi oppure contro gli altri - è una componente di nu-
merose malattie psichiche. ·
L'aggressività contro se stessi può arrivare ad assumere anche
forme estremamente gravi, come l'automutilazione e il suicidio. È
spesso legata a una volontà d'autopunizione, e deriva allora da due
atteggiamenti patogeni che abbiamo già visto in questo capitolo,
cioè il falso senso di colpa e la svalutazione di sé.
L'aggressività contro gli altri è poco legata al comportament() ef-
fettivo degli altri e deriva essenzialmente da una deficienza dell'i-
dea che uno si fa di sé quando si relaziona con gli altri e corrispon-
de ora a una auto-sopravvalutazione e ora a una svalutazione pato-
logica dell'io e a un bisogno di proteggersi dagli altri mettendo
una certa distanza fra sé ed essi.
Nella loro analisi dell'aggressività patologica, i Padri - raggrup-
pandone tutte le forme nella passione che essi chiamano «collera>>
(orghé) - costatano che essa nasce nell'uomo quando è afflitto perché
non può ottenere un piacere che cerca, ma anche e principalmente
quando si trova oppure sente o teme di venirsi a trovare in una situa-
zione che lo priva d'un piacere di cui godeva, quando insomma <<l'a-

179
more egoistico di sé (:philautfa) si trova mortificato dalla sofferen-
Za>>B. L'aggressività si rivolge allora contro chi è oppure sembra la
causa della sua frustrazione o è magari sul punto di diventarlo.
Siccome il piacere è legato al desiderio, è il desiderio dei beni
sensibili e l'attaccamento a essi ciò che secondo i Padri costituisce
il fondamento primario dell'aggressività patologica.
L'amore per le cose sensibili e i piaceri a esse legati si manifesta
in maniere diverse a seconda delle passioni. Nella concezione asce-
tica classica, ci sono tre grandi categorie di passioni, o tre generi
principali d'attaccamento dell'uomo alla realtà sensibile, che pos-
sono fargli da pretesto per la sua aggressività, quando si ritrovi pri-
vato del piacere che la realtà sensibile gli procura oppure sotto mi-
naccia di perderlo o, ancora, impedito di raggiungerlo: l'attacca-
mento al cibo (passione della voracità, o gola, la gastrimarghfa dei
Padri); l'attaccamento al denaro, alle ricchezze e, più in generale,
agli oggetti materiali (passione dell'avarizia o amore per il denaro,
la philargyrfa dei Padri, e la cupidigia, o pleonexfa); l'attaccamento
a sé (passioni della vanagloria, o kenodoxfa, e dell'orgoglio).
Fra queste radici, o fonti, la vanagloria (kenodoxfa) e l'orgoglio
costituiscono le più fondamentali. È quando l'uomo si sente ferito
nel suo amor proprio (amore egoistico di sé, o philautfa), quando
si sente umiliato, offeso, non preso in considerazione (soprattutto
quando ha una buona immagine di sé e si aspetta che gli venga ri-
flessa anche dagli altri) che si lascia andare alle varie forme d' ag-
gressività. È dunque evidente come quella che appare la causa
esterna e la motivazione addotta per l'aggressività, in realtà non sia
poi che il catalizzatore di un'aggressività la quale proviene invece
direttamente dal soggetto stesso, cioè dal suo orgoglio di fondo.
Una prova a contrario è che l'umile resta pacifico e dolce anche
quando viene violentemente aggredito. Nella collera, nel rancore,
nel desiderio di vendetta e nelle varie forme d'aggressività l'uomo
non cerca che di ripristinare, in faccia a chi l'ha offeso e umiliato
ma nello stesso tempo anche di fronte a sé, l'immagine di sé cui si
era attaccato e che sente sminuita.
Il distacco dal proprio io decaduto e la conquista dell'umiltà ap-
paiono quindi delle terapeutiche spirituali fondamentali dell' ag-
gressività patologica.
Ma la terapeutica dell'aggressività suppone anche un lavoro di

13 Massimo il Confessore, Questioni a Talassio, Prologo.

180
conversione dell'attività (o energia) della potenza aggressiva o ira-
scibile (thym6s) da cui proviene.
Dobbiamo ricordare, a questo riguardo, che la potenza irascibi-
le venne da Dio data all'uomo alla creazione, e che essa fa parte
della natura stessa dell'uomo. Nel disegno del Creatore, la sua fun-
zione era di aiutare l'uomo a lottare contro le tentazioni del Tenta-
tore ed evitare il peccato e il male; tali erano alle origini la sua fina-
lità naturale e il suo uso normale. Dopo il peccato ancestrale, con-
servava ancora quella funzione, ma in più doveva aiutare l'uomo a
lottare anche contro le disposizioni al male insediatesi in lui, cioè
le passioni, e a condurre <<il buon combattimento», cioè quello de-
stinato a dargli la purezza interiore, a fargli praticare le virtù e arri-
vare all'unione con Dio. Ma peccando, l'uomo distolse la sua po-
tenza irascibile da quelle finalità e, invece di utilizzarla per lottare
contro il Maligno e contro le varie forme del male che sono in lui,
la rivolse contro il prossimo. Addirittura, a volte, invece d'utiliz-
zarla a combattere e mortificare ll suo io decaduto, la utilizzò a
combattere e distruggere il suo io vero e spirituale. In entrambi i
casi, egli ha fatto di questa potenza un uso contro natura. È que-
st'uso contro natura della potenza irascibile che dà vita ali' aggres-
sività patologica, nelle varie forme che di essa conosciamo.
La terapeutica dell'aggressività consiste dunque, fondamental-
mente, nel distogliere l'attività della potenza irascibile dalle per-
verse direzioni che ha preso, dalle sue false finalità - si tratti del
prossimo o dell'io vero (quello definito dall'immagine e somiglian-
za di Dio) -, per lanciarla di nuovo contro le tentazioni, i cattivi
pensieri, le passioni e tutte le forme del male che l'uomo ha in sé,
o anche contro l'io decaduto (quello costituitosi al momento della
separazione da Dio, nel ripiegamento su sé e nell'attaccamento a
questo mondo con le passioni).
Questa conversione della potenza irascibile è uno dei. principi
base della vita ascetica e non può trovare la sua validità e il suo
senso se non nel quadro globale di questa.

6. Perversi orientamenti del desiderio

Molte malattie psichiche presentano, in primo piano fra i loro


sintomi, una patologia del desiderio; a tal punto che si arrivò a
considerare le nevrosi come «malattie del desiderio».

181
Può trattarsi d'un indebolimento oppure, al èontrario, d'una
esaltazione o esasperazione e perfino perversione del desiderio.
Non per niente Freud eJung hanno messo la libido - di cui hanno
a ogni buon conto delle concezioni diverse - al cehtro del loro
modo di concepire la patologia psichica. Nell'antropologia dei Pa-
dri greci, la potenza desiderante (epithymfa, epithymetzk6n, epithy-
metikè djnamis) è, insieme con la ragione (l6gos) e la potenza ira-
scibile (thym6s), una delle tre principali facoltà umane. È dal suo
cattivo orientamento che proviene, come ho già fatto vedere in un
altro libro14, una gran parte della patologia spirituale. Ma a me pa-
re che da questo cattivo orientamento del desiderio derivi pure
una gran parte della patologia psichica.
Ricordiamoci che, secondo l'antropologia cristiana elaborata dai
Padri, l'uomo venne creato per unirsi a Dio. La.facoltà desiderante
venne posta nella sua natura perché potesse desiderare Dio, tende-
. re a Lui ed elevarsi fino a Lui e unirsi con-Lui. Tale è per l'uomo
l'uso normale di questa facoltà, uso conforme alla sua natura e che
contribuisce a dargli la sanità.
A ogni desiderio è legato un piacere; dal naturale orientamen-
to del suo desiderio verso Dio, l'uomo riceve un godimento spiri·
tuale. Questo «piacere· (hedoné) divino e beato» costituisce per
l'uomo la gioia più alta ~ che il Cristo chiama «la gioia perfetta»
(Giovanni 15,11) -, una gioia che l'uomo non riuscirebbe a rag-
giungere in nessun altro modo, dato che ogni oggetto fuori di Dio,
essendo finito, non potrebbe che recargli un godimento parziale e
limitato.
Tracciando la storia spirituale dell'uomo, i Padri osservano che
nel suo stato originale - che ai loro occhi ne costituisce lo stato
normale - egli dedicava a Dio tutta la sua potenza d'amore e-sol-
tanto da Lui ricavava ogni piacere, ogni gioia, ogni felicità. Sicura-
mente poteva trarre godimento anche dalle realtà sensibili (dr. Ge-
nesi 2,16), ma doveva goderne spiritualmente, cioè in Dio, attra-
verso le loro <<ragioni» spirituali, o per dirla in altre parole, in linea
con i loro l6goi.
Con il peccato l'uomo deviò da questo compito, che non soltan-
to univa lui a Dio ma doveva permettergli, attraverso sé, d'unire a
Lui anche tutta la creazione. Perverù insomma la propria natura.
In particolare, si mise a dare considerazione anche alle creature e a

14 Terapia delle malattie spirituali, eit., p. 63s.

182
desiderarle e volerne godere in se stesse e per sé soltanto, egoisti-
camente, cioè fuori di Dio.
Cessando così di desiderare e amare Dio, l'uomo cominciò ad
amare d'amore «carnale» se stesso (è ciò che i Padri chiamano phi-
lautia, cioè amore egoistico di sé) e la realtà sensibile, ricavando
ormai da se stesso e dalla realtà sensibile - tramite principalmente
i suoi sensi, quindi il suo corpo - ogni gioia e piacere.
Questa deviazione del desiderio innato di Dio, questo stravolgi-
mento della potenza desiderante dell'uomo che lo distoglie da
Dio, verso cui era orientato per natura, per volgerlo - «contro na-
tura» (parà physin) o «contro ragione» (parà l6gon) ~verso la real-
tà sensibile considerata in se stessa, costituisce una perversione,
una «snaturazione» o malattia di questa facoltà, che fa ammalare
anche tutta la natura dell'uomo decaduto.
Le molteplici forme di desiderio con cui, in varie maniere, l'uo-
mo decaduto cerca d'arrivare al piacere sensibile - cui dedica or-
mai tutta la sua esistenza -, ma anche i mezzi cui ricorre psicologi-
camente e fisicamente per allontanare il dolore, sia fisico sia psi-
chico, che inevitabilmente a quel piacere inerisce, costituiscono
appunto le passioni, che sono altrettante malattie spirituali.

I desideri spirituali; che convergono nel desiderio di Dio, e i de-


sideri sensibili, «carnali>>, non costituiscono, come si potrebbe sul-
le prime credere, due specie di desiderio di diversa radice: nel suo
essere, l'uomo ha infatti una sola potenza desiderante (epithymia,
epithymetik6n, epithymetikè dynamis).
Nell'uomo che possiamo definire normale (Adamo prima del
suo peccato; il santo, l'uomo restaurato nel Cristo), questa facoltà
desiderante si trova, in linea con la sua natura, tutta orientata ver-
so Dio, «oggetto» naturale e normale del desiderio umano.
I desideri sensibili che compaiono nell'uomo decaduto e pecca-
tore, nella loro natura profonda, non sono nient'altro che quel me-
desimo desiderio che, stornato dal suo fine divino normale, si è
orientato contro natura e indirizzato verso la realtà sensibile, spar-
tendosi nella molteplicità di questa.
Ed è così che tutti i desideri dell'uomo decaduto appaiono co-
stituiti e sostanziati dalla decadenza e dal nuovo orientamento pa-
tologico del desiderio naturale e originario di Dio, dal suo stravol-
gimento contro natura, dalla sua perversione; i desideri dell'uomo
decaduto sono dei surrogati.

183
Il fatto è che, se orienta il suo desiderio verso un certo campo,
automaticamente l'uomo lo distoglie dall'altro. Così che, quanto
più desidera e ama gli oggetti sensibili, tanto meno desidera e ama
Dio. Di contro, chi desidera e ama Dio veramente non può deside-
rare nessun oggetto sensibile né avere dei desideri passionali, dato
che per Lui solo e per le realtà spirituali egli riserva tutta la poten-
za del suo desiderio.
La ragione del fatto che il desiderio, stornato da uno dei due
campi (spirituale oppure sensibile/carnale) verso cui era orientato,
si ritrovi per forza orientato verso il campo opposto è che l'uomo
non può smettere di desiderare, e dunque, se distoglie il suo desi-
derio dall'oggetto che fin lì I' occupava, immediatamente sente il
bisogno di dargliene un altro.
Distogliendo il suo desiderio da Dio, che è il suo fine proprio,
naturale, normale, per orientarlo verso se stesso e gli oggetti sensi-
bili e goderne fuori di Dio, l'uomo ne muta indebitamente l'uso,
non lo dirige più in maniera conforme alla sua natura, agisce con-
tro natura, in maniera - alla lettera - insensata.
Il desiderio «stravolto» fa vivere l'uomo in un mondo capovol-
to, in cui i valori sono sottosopra, in cui le cose hanno perso il loro
ordine autentico e le loro proporzioni vere. Tant'è che, perdendo
il senso del vero Dio, l'uomo finisce - nel nuovo orientamento del
suo desiderio e nella scoperta di nuove gioie - con l'assolutizzare i
desideri e piaceri sensibili e, attraverso essi, i loro oggetti, che met-
te quindi al posto di Dio. Ed è così che l'uomo si fa delle realtà
sensibili una moltitudine di falsi dèi, una massa di idoli. Anche qui
dunque ritroviamo quel processo patologico e patogeno d' <<idolifi-
cazione>> che già in altra occasione abbiamo incontrato.
Nelle sue relazioni con le creature, l'uomo non ha più Dio in vi-
sta, ma il suo proprio piacere, e per norma non ha più che i propri
desideri sensibili. Non vede e non tratta più gli esseri in linea con
le loro <<ragioni spirituali» (l6goi), ma secondo l'intensità con cui li
desidera; ed è dall'intensità del piacere che può ricavarne che egli
ne stabilisce l'importanza e ne misura il valore. E così il mondo di-
venta per l'uomo una proiezione fantasmatica dei suoi desideri e le
creature dei mezzi per soddisfare le sue passioni, degli strumenti
per il suo godimento sensibile. Le relazioni dell'uomo con tutti gli
esseri della creazione e anche con i suoi simili si ritrovano in tal
modo completamente pervertite, dato che, perdendo ai suoi occhi
il loro valore spirituale, si ritrovano tutti quanti ridotti a oggetti di

184
godimento dati in pastura alle sue molteplici passioni. In tal modo,
anche i rapporti fra gli uomini diventano sostanzialmente rapporti
fra oggetti in balìa dei capricci dei desideri e dei piaceri sensibili.
E mosso dal suo desiderio pervertito, l'uomo continua sempre a
sbagliarsi nell'individuare e cercare il suo bene, e anche il bene in
generale. Nello stato decaduto, è il piacere a diventare il criterio
del bene. Così che l'uomo può stabilire che per lui è bene e quindi
darsi a cercare ciò che a lui piace, per la sola ragione che gli piace,
anche quando gli fosse oggettivamente nocivo; mentre invece ri-
fugge come un male ciò che per lui è oggettivamente il bene, per la
sola ragione che sul piano della sua sensibilità gli causa del fasti-
dio. Insomma, bene e male vengono ormai stabiliti in maniera sog-
gettiva, sulla base del desiderio sensibile e in funzione del piacere
che si cerca, e l'uomo continua a far confusione fra ciò che gli ap-
pare un bene dal punto di vista del suo desiderio decaduto e il be-
ne reale e vero.
Dominato da quest'illusione, l'uomo si muove in un modo d' ap-
parenze, non vedendo e non prendendo più in considerazione
nient'altro che la realtà sensibile, l'unica che il suo desiderio deca-
duto gli fa vedere, e crede che fuori di essa non esista nessun bene.
Questa riduzione della realtà a una sua sola- parte e la falsa visione
che ne deriva si può considerare come uno stato-di delirio, impian-
tatosi insieme alla decadenza del desiderio; tant'è che l'uomo, de-
siderando gli esseri in base alla loro apparenza sensibile e fuori di
Dio, e pretendendo di goderne in se stessi, desidera e gioisce d'un
fantasma, si attacca a qualcosa che non ha un'esistenza reale.
Avendo stornato la sua potenza desiderante da Dio per rivolger-
la alle realtà sensibili, per trovare lì un piacere più accessibile e im-
mediato, l'uomo vede la sua speranza di godimento profondamen-
te delusa. Dunque, anche il dolore appare inevitabilmente legato
all'esperienza del piacere sensibile.
Né è soltanto del dolore fisico che allora l'uomo fa l'esperienza,
ma anche e soprattutto della sofferenza morale e psichica, che
prende la forma della tristezza e, nelle sue forme estreme, della de-
pressione.
La tristezza che l'uomo prova viene dal fatto che l'oggetto del
suo desiderio e il piacere che ne ottiene non sono commisurati alla
natura della facoltà desiderante e alla gioia cui essa è destinata.
Abbiamo visto infatti che il desiderio dell'uomo fu creato in vista
di Dio. Sulla stessa linea, anche questo l'abbiamo già visto, l'uomo

185
aveva per natura una capacità di gioia commisurata ai beni divini
che gli erano promessi. Avendo egli distolto la sua potenza di desi-
derio da Dio per orientarla invece sugli oggetti sensibili, a quella
facoltà egli non presenta più che oggetti finiti, parziali, limitati, re-
lativi. Continuando egli, tuttavia, a desiderare l'infinito e l'assoluto
- dato che per la caduta la sua facoltà desiderante non ha cambia-
to natura ma soltanto orientamento e resta a misura del suo ogget-
to divino originale e normale-, inevitabilmente è destinato all'in-
soddisfazione. Nessuna realtà di. questo mondo, necessariamente
finita, è all'altezza di corrispondere al desiderio d'infinito che c'è
in lui. Al desiderio di godimento infinito che continua a sussistere
nell'uomo - in quanto appartiene alla sua stessa natura -, non si
offrono più che piaceri limitati e fuggitivi, che appena consumati
lasciano in lui un vuoto doloroso. Possiamo, a questo proposito,-
anche citare le parole del Cristo alla Samaritana: «Chi beve di que-
st'acqua avrà ancora sete» (Giovanni 4,13).
Deluso dalla soddisfazione di ciascuno dei suoi desideri sensibi-
li, ma continuando a sentire nel profondo di sé una mancanza,
un'inadeguatezza fra la realtà raggiunta e le sue aspirazioni di fon-
do (che egli intuisce, indovina, ma senza conoscerne ilsenso vero),
l'uomo decaduto si mette a correre da un oggetto ali' altro, esauri-
sce le varie sfere di questo mondo una dopo I' altra, ma senza tro-
vare mai un termine definitivo alla sua ricerca. Così vive in uno
stato di frustrazione permanente, di ontologica insoddisfazione
perpetua. Anche se ogni tanto, per un momento, la soddisfazione
di questo o quel desiderio gli dà l'illusione d'aver trovato quel che
cercava, l'oggetto desiderato che prendeva per un assoluto fa pre-
sto a rivelargli tutti i suoi limiti e il suo carattere relativo; vien pre-
sto a galla tutto il vuoto che lo separa dall'assoluto vero. Nel suo
cuore, la tristezza si fa allora più intensa, espressione della sua in-
quietudine dinanzi al vuoto che sente, manifestazione della fru-
strazione profonda che prova.
In gradi diversi, questo processo lo vivono tutti gli uomini; ma è
presente in maniera acuta in varie malattie psichiche, quando certi
elementi di esse diventano esasperati: assolutizzazione del deside-
rio particolare o del suo oggetto, fissazione su certe forme di pia-
cere, sentimento di frustrazione legato all'insoddisfazione. Que-
st'ultimo fattore è presente in modo speciale nelle depressioni.
La terapeutica spirituale è ali' altezza d'avere un ruolo di rilievo
nella guarigione quando aiuta il malato a prendere coscienza della

186
relatività del suo desiderio e del piacere cui egli si attacca. Più fon-
damentalmente ancora, deve aiutare il malato a prendere coscien-
za, da una parte, del carattere «perverso» del suo desiderio e del
suo stato decaduto e, dall'altra, del senso originale e vero del desi-
derio, senso che corrisponde alla sua natura profonda e continua a
sussistere in quello che abbiamo chiamato l'inconscio «teòfilo».
Deve poi anche aiutarlo a convertire il suo desiderio, a reindiriz-
zarlo, riorientarlo verso ciò che san Gregorio di Nissa chiama <<il
fine divino».
Ma anche in questo caso il processo di conversione deve intec
grarsi in un'ascesi globale che si proponga di tenere a bada le pas-
sioni, che sono altrettante forme d'orientamento patologico del
desiderio, e a mettere in azione le virtù, che sono altrettante forme
d'attaccamento a Dio sulla base del desiderio nuovamente orienta-
to verso Lui.

7. Sopravvalutazione dell'io

Un certo numero di malattie psichiche comporta, fra le altre


cause, una sopravvalutazione dell'io. Questo stato spirituale pato-
geno ha un grande ruolo in particolare nella nevrosi isterica e nella
psicosi paranoica, ma lo si ritrova anche nella schizofrenia e in al-
tre malattie psichiche.
Può vertere su taluni aspetti dell'io· e anche procedere di pari
passo con un sentimento di svalutazione che la persona ha per altri
aspetti dell'io, oppure, ancora, essere la «compensazione» d'un
sentimento, più profondo, di svalutazione dell'io.
Ma di quèsto sentimento di svalutazione dell'io parleremo nella
sezione seguente.
Alla base della sopravvalutazione dell'io, troviamo tre malattie
spirituali: l'amore egoistico di sé (o philautfa), la vanagloria (o ke-
nodoxfa) e l'orgoglio.
1. L'amore egoistico di sé (philautfa) possiamo considerarlo la
madre di tutte le passioni, .cioè la radice di tutte le altre malattie
spirituali15.
C'è tuttavia una forma di amore di sé (philautfa) che è virtuosa,
che fa parte dello stato spirituale normale dell'uomo, raccomanda-

15 Vedi Terapia delle malattie spirituali, cit., p. 145s.

187
ta anche dal Cristo nel primo comandamento (<<i\merai il prossi-
mo tuo come te stesso»: Matteo 19,19; 22,39; Luca 10,27) e consi-
stente nell'amarsi in quanto creatura a immagine di Dio e chiama-
ta ad attuare la somiglianza con Lui, dunque ad amarsi in Dio e ad
amare in sé Dio.
L'amore di sé-passione è una perversione di quest'amore di sé
virtuoso e consiste, al contrario, nell'amor proprio - nel suo senso
primario e non edulcorato della parola -, cioè in un amore egoisti-
co di sé, in quanto amore dell'io decaduto, amore distolto da Dio
e rivolto al mondo, considerato nelle sue apparenze sensibili, un
amore che da quel momento fa vivere una vita carnale e non più
spirituale.

2. La vanagloria (kenodoxia), detta anche «vanità», consiste,


nella sua forma comune, nel mostrarsi fiero e glorificarsi dei beni
che uno possiede o crede di possedere, nel desiderare di essere in
vista, considerato, ammirato, stimato, onorato e lodato dagli altri
uomini.
Ma la caratteristica comune ai beni di cui il vanitoso si mostra
fiero è quella di essere beni terreni, «carnali»; sono una conside-
razione e una gloria umane che il vanitoso si aspetta dal loro
possesso.
Il vanitoso è colui che si glorifica e desidera l'ammirazione d'al-
tri per doni che la natura gli ha conèesso, come la bellezza (reale o
presunta) del suo corpo o della sua voce, ma anche per la sua an-
datura, la sua prestanza e tutto ciò che contribuisce a dargli una
bella apparenza. Può anche gloriarsi e aspettarsi considerazione
per la sua abilità manuale o il suo saper fare in questo o quel cam-
po. La vanagloria porta chi ne è malato a innalzarsi e farsi ammira-
re per la sua posizione sociale, le ricchezze e i beni materiali che si
è procurato, o anche per il suo potere.
A un livello più sottile - perché non riguarda, come il preceden-
te, il campo dell'apparenza e della materialità, sebbene sia quasi
altrettanto diffuso -, è vanagloria mostrarsi fiero delle proprie
qualità intellettuali, morali o spirituali e cercare per questo l'atten-
zione, l'ammirazione e le lodi degli altri.
Come da tutte le passioni, anche dalla vanagloria l'uomo ricava
un certo tipo di piacere, che lo fa attaccare fortemente a essa, e per
ottenerlo egli è pronto a fare di tutto, finanche, paradossalmente, a
soffrire di tutto. È a causa di questo piacere, spesso ben potente,

188
che l'uomo ravviva il suo amore egoistico di sé, che si concede alla
vanagloria.
Il carattere patologico della vanagloria, come di tutte le altre
passioni, discende essenzialmente dal fatto di essere la perversione
d'un· atteggiamento naturale e normale, di essere la deviazione di
quest'atteggiamento dal suo esercizio «secondo natura», conforme
alla sua finalità essenziale, verso un esercizio «contro natura>>. Dio,
infatti, infuse nella natura dell'uomo la tendenza alla gloria: ma è
la gloria divina che l'uomo è destinato a ottenere, attraverso la sua
unione con Dio, e non già quella gloria umana che appunto la pas-
sione ricerca e che, sulla scia di san Paolo, la Tradizione chiama
«gloria secondo la .carne» (Seconda lettera ai Corinzi 11,18). La di-
stinzione fra queste due forme di gloria - quella che vieO.e da Dio
e quella che viene dagli uomini - si trova in molti testi che parlano
di vanagloria. La troviamo esplicitata nel vangelo di Giovanni
(12,43 ); san Paolo vi si riferisce in modo implicito quando dice di
gloriarsi in Gesù Cristo, insieme mettendo in guardia dal pericolo
che uno correrebbe gloriandosi fuori di Dio (Filippesi 3 ,3; Calati
6,14). La gloria che l'uomo riceve da Dio partecipando alla Sua
gloria nell'unione con il Cristo è la sola che <<merita veramente
questo nome»16. È la sola gloria reale, vera, assoluta, eterna. È
d'altronde la sola che sia in linea con la finalità della natura umana
e a misura della grandezza che Dio volle conferire all'uomo.
Essendosi con il peccato allontanato da Dio, con ciò stesso l'uo-
mo ha smesso di tendere verso quella gloria cui la sua natura lo de-
stina. Ma siccome per natura continua a desiderare la gloria, è al-
lora nel mondo sensibile, verso il quale si è rivolto, che egli cerca
di soddisfare questa tendenza che c'è in lui. Ed è dunque nella glo-
ria mondana - «secondo la carne» - che trova dei surrogati della
gloria celeste e spirituale che ha perso di vista. È così che la ricerca
della gloria mondana diventa il modo con cui l'uomo miserevol-
mente compensa in sé l'assenza della gloria celeste. È dunque evi-
dente che la vanagloria consiste in uria perversione, in uno stravol-
gimento patologico della tendenza naturale dell'uomo alla glorifi-
cazione e in un comportamento patologico di sostituzione provo-
cato da una frustrazione ontologica.
Che anche questa volta si tratti d'una medesima tendenza orien-
tata in due sensi opposti - e non già di due essenze diverse che po-

!6 Origene, La preghiera (cfr. trad. it. presso Mondadori, Milano).

189
trebbero coesistere indipendentemente l'una dall'altra - risalta
con chiarezza da molteplici affermazioni dei Padri, quando dicono
che la ricerca della gloria celeste e la vanagloria sono antagonisti-
che fra loro e si escludono a vicenda, sì che lo sviluppo dell'una si
traduce in un indebolimento dell'altra.
La vanagloria fa finire l'uomo nell'illusione e nel delirio: è ·uno
dei suoi effetti patologici .fondamentali, che ben giustifica perché
mai i Padri tanto spesso la chiamino una «follia>>. Delirio o follia
che può assumere gradi diversi, da forme banali a forme gravi (ar-
rivando fino all'identificazione con una seconda personalità), at-
traverso tutta una serie di forme <<medie» (come la mitomanìa).
Da un punto di vista spirituale, la vanagloria rivela che l'uomo
manca di fede in Dio, come fa capire questo rimpro:vero del Cri-
sto: «Come potete credere, voi che ricavate la vostra gloria gli uni
dagli altri e non cercate la gloria che viene da Dio solo?» (Giovan-
ni 5,44). Al contrario di quest'atteggiamento di fede in Dio, la va-
nagloria esprime un attaccamento al mondo: la persona che ne è
malata si mette ad aver fede negli uomini, da cui si aspetta atten-
zione, stima, ammirazione, lodi, e in tutto ciò che può far nascere
in essi simili atteggiamenti nei suoi riguardi. Per questo, i Padri
chiamano la vanagloria un'idolatria.
All'origine della vanagloria c'è l'ignoranza. Il vanaglorioso, o va-
nitoso, ignora infatti il valore vero sia delle cose da cui ricava glo-
ria sia della gloria in sé. Attribuisce a quelle cose una realtà e
un'importanza che non hanno veramente. Si comporta come se
avessero un valore assoluto e durat_uro, mentre sono eminente-
mente fragili, provvisorie. Ignora che soltanto la gloria divina è
perfetta ed eterna, e che i motivi spirituali di glorificazione in Dio
sono i soli a essere autenticamente reali. I.: etimologia della parola
greca kenodoxfa ne esprime molto bene il carattere vano, futile,
fragile, fugace, superficiale (ken6s significa infatti, alla lettera,
«vuoto», «senza fondamento»), che è anche la caratteristica del
mondo, la cui figura passa (Prima lettera ai Corinzi 7 ,31), quel
mondo da cui essa invece trae ciò che l'alimenta e che i Padri, sul-
la scia del profeta Isaia, paragonano al fiore dell'erba (Isaia 40,6-7)
o anche al sogno, che non dura e non ha consistenza.
Diventa chiaro allora che la vanagloria (kenodoxia) include una
visione delirante della realtà, dato che, da essa dominato, l'uomo
smette d'attribuire realtà, valore e importanza a ciò che ne ha per
conferire invece tutte queste qualità a ciò che non le possiede; il

190
suo spirito sbaglia e non giudica correttamente le cose. Una siffat-
ta delirante concezione della realtà, per effetto appunto della va-
nagloria, è molto spesso presente nella realtà più quotidiana e in
forme sovente ben grossolane e rozze.
Anche nella sua forma più «sottile», consistente nell'esaltare ai
propri occhi e agli occhi degli altri le proprie qualità intellettuali,
morali e spirituali, l'uomo dà prova d'una conoscenza altrettanto
delirante, soprattutto per quanto riguarda la conoscenza di se stes-
so. Pressato da essa, infatti, l'uomo si attribuisce qualità e virtù che
non possiede e non vede più i difetti e le passioni che invece ha ve-
ramente dentro di sé. Ma s'illude anche quando si gloria delle qua-
lità e delle virtù che possiede realmente. Infatti, considera se stesso
come la loro fonte e il loro proprietario, quando in realtà esse sono
un dono di Dio e appartengono fondamentalmente a Lui soltanto.
La vanagloria destina chi ne è colpito a ogni sorta di mali. Coloro
che fanno le cose per averne gloria dagli uomini hanno già ricevuto
la loro ricompensa, dice il Cristo (Matteo 6,2), che li mette in guar-
dia: «Guai a voi, quando tutti diranno bene di voi» (Luca 6,26).
Questa passione distrugge la pace interiore, mettendo in molte
maniere I' anima in agitazione.
Anzitutto rende l'uomo sempre preoccupato d'avere I' ammira-
zione e le lodi che desidera. Gli riempie insomma l'anima d'un
tormento costante e lo fa finire in un'agitazione spesso febbrile e
ansiosa. E quest'ansia s'ingigantisce, se non riesce a soddisfarsi.
Per questo, spesso accade che il vanitoso non soltanto non riceva
dagli altri quell'attenzione e ammirazione che dà per scontate, ma
vada piuttosto incontro al risultato opposto. Invece delle attese lo-
di, non suscita, al meglio, che indifferenza; nel caso peggiore, si at-
tira odio, provoca invidie e gelosie, fa nascere critiche e sarcasmi,
specialmente poi quando la sua vanità si manifesta nelle sue parole
o traspare dai suoi atteggiamenti. Ebbene, una tale situazione non
può provocare in chi la vive se non angoscia e tristezza, dato che
· egli si ritrova privato, per un verso, del piacere che la sua passione
si aspettava e, per l'altro, a dover anche tener testa all'aggressività
di chi ha intorno; inoltre, soffre per la perdita di relazioni armo-
niose con il suo ambiente e dovrà tanto più darsi da fare per in-
ventarsi, fra difficoltà sempre maggiori, altri modi di valorizzarsi
da sostituire a quelli che hanno fallito.
Dominato dalla vanagloria, l'uomo perde la sua autonomia e si
aliena non soltanto dandosi alla passione stessa, ma a tutto ciò di

191
cui la passione ha bisogno per nutrirsi. Come ogni altra passione,
essa sottomette l'uomo ai suoi desideri carnali specifici e al piacere
che le è legato; in più, lo rende dipendente dal modo di vedere e
dalla considerazione degli altri e schiavo di tutti quelli cui cerca di
piacere, dato che se ne aspetta le lodi.
Un altro dannoso e tremendo effetto della vanagloria è far finire
l'uomo in un mondo di fantasmi. Infatti, sotto la sua ispirazione
l'uomo s'immagina d'aver ogni sorta di qualità, virtù, meriti, beni
ecc., si figura in situazioni o stati che diano considerazione e lodi.
La prima conseguenza patologica di tutto ciò è di far staccare l'uo-
mo dalla realtà che vive, di distoglierne l'attenzione da ciò che ha
_attorno, di rallentare la sua attività nei suoi compiti più essenziali e
paralizzare il suo dinamismo vitale, fino a far finire la sua anima in
uno stato di torpore. Questo processo di fantasmazione può essere
all'origine, se coltivato e fatto sviluppare, d' accessi di delirio e per-
fino di allucinazioni.

3. L'orgoglio (hyperephania) è di due forme: l'una si manifesta


maggiormente nei rapporti dell'uomo con i suoi simili; I' altra ri-
guarda di più la relazione dell'uomo con Dio.
a. La prima forma d'orgoglio si ha quando uno si crede superio-
re agli altri uomini, o perlomeno a questo o quello, ma anche
quando va alla ricerca della superiorità, se pensa di non possederla
di già. In tutti i casi, l'orgoglio sta nell'innalzarsi, vuoi per nessun
motivo particolare, vuoi per le proprie qualità fisiche, intellettuali
o spirituali, reali o immaginate, per il rango sociale, le ricchezze, il
potere ecc. Mentre s'innalza, I' orgoglioso si stima e si ammira da
sé, si congratula e si loda intimamente. Questi atteggiamenti sono
presenti anche nella vanagloria, ma nella passione della vanagloria
l'uomo si aspetta che siano gli altri a lodarlo, mentre nell'orgoglio
le lodi se le fa da sé; anche se poi i due atteggiamenti sono in verità
presenti sia nell'una che nell'altra passione.
Mentre innalza se stesso, correlativamente I'orgoglioso abbassa ·
il prossimo. Lo guarda dall'alto, lo disprezza e si spinge fino a non
prestargli più nessuna attenzione, come se fosse niente; questi at-
teggiamenti costituiscono un altro fondamentale lineamento di
questa prima forma d'orgoglio.
L'orgoglio spinge l'uomo a misurarsi con il suo prossimo e, pri-
ma ancora d'affermare la propria superiorità su esso, ad affermare
ciò che lo distingue, a credersene fondamentalmente diverso. L' ar-

192
chètipo di quest'atteggiamento lo troviamo nel Vangelo, nell' esem-
pio di quel fariseo che dice: «lo non sono come gli atri uomj.ni
[. .. ],non sono neppure come questo pubblicano» (Luca 18,11).
Per orgoglio, l'uomo sente il bisogno di paragonarsi, di stabilire
delle gerarchie, prima d'arrivare alla conclusione della propria su-
periorità, assoluta o relativa, in questo o quel campo, o perfino in
tutti i campi che riesce a immaginarsi. Per questo, in particolare è
portato a giudicare in modo sfavorevole il suo prossimo e a criti-
carne quasi sistematicamente il modo di pensare e vivere.
Questa forma d'orgoglio si esprime in un certo numero di com-
portamenti che contribuiscono anche essi a definirla.
L'orgoglioso «fa sfoggio di ciò che possiede e si sforza d' appa-
rire più grande di quanto sia in realtà»17. Per questo suo modo di
fare, come per altri, si mostra arrogante, infatuato e soddisfatto
di sé, pieno di certezze e di fiducia in se stesso. A ciò spesso si
aggiunge la pretesa di sapere tutto e la certezza quasi costante
d'aver ragione; di qui provengono la sua mania di giustificarsi e
lo spirito di contraddizione (aspetti entrambi caratteristici di
questa passione), ma anche la voglia d'insegnare e di comandare.
L'orgoglio rende chi ne è affetto cieco sui suoi difetti, l'induce a
respingere a priori qualsiasi critica e ogni rimprovero o sgridata,
e gli rende intollerabile di ricevere comandi e di doversi sotto-
mettere agli altri.
Questa passione si rivela anche in una certa aggressività: a volte
è l'ironia a farla trasparire, altre volte la mordacità delle risposte
alle domande che gli vengono fatte, il silenzio in certe circostanze,
un'animosità generale, il desiderio d'oltraggiare il prossimo e la fa-
cilità con cui arriva a farlo. L'aggressività si manifesta regolarmen-
te, in risposta alle minime critiche che gli altri possano fargli.
b. Mentre la prima forma d'orgoglio fa innalzare l'uomo sopra i
suoi simili, la seconda forma l'innalza davanti a Dio, l'erge contro
di Lui. In questo caso l'orgoglio si manifesta in una negazione o
un rifiuto di Dio, che possono a volte assumere la forma di un' a-
perta rivolta, ma il più delle volte si manifestano in maniere ben
meno estreme, come <<Un rifiuto dell'aiuto divino e la presuntuosa
fiducia nelle sole proprie forze» 18. L'orgoglioso rifiuta di conside-
rare che è Dio lautore della sua natura, il principio e il fine del

17 Basilio di Cesarea, Regole brevi, 55.


18 Giovanni Climaco, La scala santa (cfr. trad. it. presso Città Nuova, Roma).

193
suo essere e anche la fonte di tutte le sue qualità e di tutti i beni
che possiede, per attribuire invece tutto a se stesso.
Se questa seconda forma d'orgoglio minaccia soprattutto le per-
sone spirituali, sbaglieremmo a pensare che risparmi gli altri uomi-
ni. Se in questi ultimi è meno appariscente, è perché permea tutto
il loro essere e in concreto consiste nel loro ben salvaguardato sta-
to di continua separazione da Dio. Vivere fuori di Dio, condurre
un'esistenza totalmente autonoma, indipendente da Lui e affer-
marsi come il solo principio e il solo fine della propria esistenza è
una manifestazione di quest'orgoglio di fondo. Ogni uomo, nella
misura in cui vive fuori di Dio, Lo ignora o Lo dimentica anche
per poco tempo; implicitamente Lo nega e si mette al Suo posto,
dando così la prova dell'orgoglio che l'impregna. Possiamo dire
che l'uomo si rivela orgoglioso, in questa o quella misura, per il
tempo che si tiene in uno stato di relativa separazione da Dio.
Queste due forme d'orgoglio, pur essendo molto diverse fra lo-
ro, non sono nondimeno fra loro separate e indipendenti. Sono
come le due facce dell'orgoglio, e nell'uomo decaduto sono sem-
pre presenti insieme, sebbene in questo o quel caso una delle due
forme sembri prevalere sull'altra.
Se è vero che la prima forma d'orgoglio mette l'uomo contro i
suoi simili, mentre la seconda lo mette contro Dio, in realtà ciascu-
na delle due forme lo mette insieme contro Dio e contro il prossi-
mo, essendo evidente chel'atteggiamento dell'uomo verso gli altri
uomini è in fondo correlato al suo atteggiamento verso Dio, e in-
versamente. È chiaro, d'altronde, che la prima forma d'orgoglio ha
la sua origine e il suo fondamento nella seconda. Infatti, se l'uomo
si eleva e si stima o ammira se stesso, è perché non riconosce che
le qualità, le virtù e tutti i beni che può possedere e crede di posse-
dere per merito proprio, in realtà gli vengono da Dio. Quando
sminuisce gli altri, in parte è per la stessa ragione: disprezzare gli
altri perché non avrebbero saputo fare bene, per esempio, è come
attribuire le buone azioni alle forze umane, invece di mettere tutto
in rapporto con Dio. Inoltre, credersi superiore agli altri, cercare
di superarli, mettersi in vetta o ritenersi in ogni circostanza il cen-
tro di tutto, attribuirsi tutte le qualità e virtù o almeno questa o
quella in grado eminente, equivale, per l'orgoglioso, ad autodei.:6.-
carsi, a fare di sé un piccolo dio e così prendere il posto del solo
vero Dio, che è l'assoluto vero, il culmine e il centro, il principio e
la fine, il senso e il valore d'ogni cosa, la fonte e il fondamento d' o-

194
gni bene, d'ogni qualità o virtù, il principio d'ogni perfezione. È
perché fa di se stesso un assoluto che l'orgoglioso non ammette ri-
vali, non tollera paragoni che siano a suo svantaggio, teme tutto
ciò che può contraddire la grande stima che ha di sé. È anche per
questo e per ben consolidare, agli occhi suoi e degli altri, la supe-
riorità che si attribuisce che l'orgoglioso spietatamente e sistematic
camente critica il suo prossimo, lo disprezza e lo sminuisce. È ver-
so tutto ciò che ai suoi occhi par rimettere in causa questa sua su-
periorità che egli si mostra acido e aggressivo, volendo a ogni co-
sto proteggere e salvaguardare la favorevole immagine che ha e
vuol dare di sé.
Se disprezza il suo prossimo e lo sminuisce, è poi anche perché
nega Dio, mettendosi al suo posto, e con ciò stesso nega l'immagi-
ne di Dio nei suoi simili, quell'immagine che d'ognuno di essi fa
un figlio di Dio in potenza e a ognuno di essi conferisce, per parte-
cipazione, la dignità e la superiorità di Dio stesso. È perché smette
di venerare il suo prossimo come una persona a immagine di Dio -
e dunque di venerare in lui Dio stesso - che egli è portato a non
prestarle nessuna attenzione, a non fare nessun caso di essa, come
fosse niente. È perché l'orgoglioso ha fede nelle proprie forze, in-
vece di riporre la sua fiducia nella grazia divina e riconoscere che
senza di essa niente gli riesce - al contrario, egli afferma la propria
assoluta autonomia, rifiutandosi di vedere in Dio il suo principio e
il suo fine - che egli si mostra pieno d'arroganza e di sufficienza.
Dato che sostituisce e oppone la volontà propria a quella di Dio e
fa di quella un assoluto, si può allora capire che voglia comandare
e, di contro, si rifiuti d'obbedire o di sottomettersi a chicchessia.
È poi anche perché non riconosce nel Cristo l' archètipo della
sua natura, ma se stesso prende come norma e punto di riferimen-
to di tutto, che egli tutto misura su se stesso, pretende di tutto giu-
dicare e tutto sapere, si crede saggio, vuol avere ragione, ha la pre-
tesa d'insegnare e non tollera di venire contraddetto. Per dire tut-
to in una volta, è insomma perché è vuoto di Dio che l'orgoglioso
è pieno di sé.
Agli occhi dei Padri, l'orgoglio è una malattia ben grave, perfino
una forma di follia.
Da che discende il carattere patologico dell'orgoglio? Come p~r
la vanagloria, o vanità, in esso possiamo vedere I' effetto della per-
versione d'una tendenza che è fondamentale nella natura umana.
L'uomo fu creato da Dio per elevarsi nella direzione di Lui e alla

195
fine unirsi a Lui nella pienezza dell'amore e della conoscenza.
Quest'elevazione di sé verso Dio, l'uomo era destinato a compierla
in Dio, realizzando la somiglianza di Dio in forza delle virtù messe
in germe nella sua natura e progressivamente appropriandosi la
grazia data dallo Spirito Santo. È nella sinergia fra i suoi sforzi e la
grazia divina- detto con altre parole: in collaborazione o coopera-
zione con Dio - che l'uomo era destinato a elevarsi. Quest'eleva-
zione di sé doveva avvenire in unione con il suo simile. Ma l'uomo
ha pervertito questa tendenza della sua natura,· auto-elevandosi,
auto-deificandosi, volendo diventare, secondo la promessa del Ser-
pente, «come un dio», da sé e senza Dio, con le sole proprie forze
e senza la grazia di Dio. Affermandosi e innalzandosi da sé senza
Dio, l'uomo si è affermato e innalzato contro Dio; inoltre, invece
d'affermarsi e innalzarsi verso Dio in comunione con il suo simile,
si è affermato e innalzato anche contro di lui, così dividendo e fra-
zionando l'unica natura umana.
Ma ali' origine dell'orgoglio possiamo vedere ancora un'altra
perversione in relazione con la precedente. Il normale atteggia-
mento dell'uomo quando fa o scopre in sé qualche bene sarebbe
di metterlo in relazione con Dio, farne riferimento a Lui, vederci
un Suo dono e ringraziarne il Donatore, che è principio e fine di
quel bene,· come d'ogni bene, peraltro. Il Cristo stesso ci dà l' e-
sempio di quest'atteggiamento - normale atteggiamento - quan-
do dice, a un tale che lo chiama <<maestro buono»: <<Perché mi
chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo» (Marco 10,17-
18). L'orgoglioso perverte anche quest'atteggiamento: egli attri-
buisce a sé il bene, se ne fa suo principio e suo fine e per esso rin-
grazia se stesso.
Ma il carattere patologico dell'orgoglio ha ancora altre cause.
Alla base di tutte le forme di questa passione, fanno osservare i Pa-
dri, c'è un'~gnoranza. Che evidentemente è, in primo luogo, l'igno-
ranza di Dio. <<Principio dell'orgoglio è allontanarsi dal Signore»,
leggiamo nel Siracide (10,12). Quest'allontanamento, questa tra-
scuratezza primaria, quest'ignoranza di Dio genera nell'orgoglioso
una percezione delirante della realtà.
È perciò e anzitutto una conoscenza delirante di sé che questa
passione dà all'uomo. L'orgoglioso, infatti, s'innalza, afferma la sua
superiorità, crede di essere qualcosa o qualcuno e di possedere
questa o quella qualità per le sole sue forze, mentre in realtà fuori
di Dio l'uomo «è soltanto terra>> e non possiede che «beni» emi-

196
nentemente fragili, provvisori, destinati a sparire, fondamental-
mente irreali.
Questo delirio dell'orgoglioso_ rispetto alla conoscenza che ha di
sé si mostra poi con tutta evidenza quando si attribuisce delle qua-
lità che in realtà non possiede, quando è agli occhi di tutti eviden-
te una gran bella distanza fra ciò che di sé egli pensa e la realtà.
Ma anche quando s'innalza per le qualità che realmente possie-
de, l'uomo continua a delirare se le attribuisce a sé, mentre gli pro-
vengono da Dio e non le possiede se non per partecipazione alle
perfezioni di Lui: «Cos'hai, si chiede san Paolo, che tu non abbia
ricevuto? e se l'hai ricevuto, perché te ne vanti come se non l' aves-
si ricevuto?» (Prima lettera ai Corinzi 4,7). Quando fa qualcosa di
buono, l'uomo in certo qual modo non è che un intermediario, e
non avrebbe .per questo motivo d'innalzarsi. Né è vero soltanto
per le buone azioni che può magari compiere, ma anche d'ogni
disposizione buona, d'ogni qualità e virtù che può avere; giacché,
l'abbiamo già fatto vedere, esse gli sono state date dal suo Creato-
re e soltanto in forza della grazia divina possono svilupparsi. Attri-
buendole a sé, l'orgoglioso aggrava il suo delirio, dato che implici-,
tamente si prende di fatto per Dio.
Nell'uomo, la vera conoscenza di sé consiste nel sapere che da
sé, fuori di Dio, è niente. L'orgoglioso, invece, che pensa - in tutti
quei modi che abbiamo descritto - di essere qualcosa da sé e per
questo s'innalza, dà prova della più totale ignoranza di sé. Sotto
quest'aspetto, perfino possiamo dire che l'orgoglioso delira, o in
ogni caso, come dice san Paolo, s'inganna: «Colui che crede di es-
sere qualcosa, mentre è niente, inganna se stesso» (Calati 6,3). Ma
non sapendo ciò che lui è e percependo in maniera delirante la
propria realtà, l'orgoglioso. non potrà non avere una falsa cono-
scenza anche degli altri esseri.
L'orgoglioso, anzitutto, misconosce e disprezza il prossimo. Già
abbiamo avuto modo di dire che, se l'orgoglioso sminuisce il pros-
simo e lo disprezza, è perché ne ignora o trascura la grandezza e
dignità di creatura a immagine di Dio e non lo riconosce come suo
fratello nel Cristo. Per ciò stesso, i suoi rapporti con il prossimo si
ritrovano a essere stravolti sotto più d'un aspetto.
In particolare, invece d'innalzare in Dio il fratello, egli innalza
se stesso sopra di lui, lo riduce a niente di più che a un ìnezzo del-
la propria glorificazione o a uno specchio destinato a riflettergli
non già l'immagine di Dio bensì la propria immagine, quella pedo-

197
meno che egli ha di sé e si aspetta che gli altri gli rimandino. Poi,
invece di vivere in Dio l'altro come un prossimo, invece di consi-
derarlo in Lui come un simile e un fratello, l'orgoglioso cerca di
distinguersene, d'affermare la propria singolarità e superiorità, in
un modo di relazione che assume la forma di un'opposizione. È
vero, ogni uomo è unico, è una persona distinta da tutte le altre,
ha un modo tutto suo di realizzare la natura umana e di manifesta-
re l'immagine divina ed è chiamato a sviluppare dei carismi propri;
per questo, ci sono differenze fra gli uomini, per cui certuni mani-
festano più qualità e più doni d'altri. E tuttavia, tutte queste diffe-
renze trovano in Dio la loro unità di fondo (Prima lettera ai Corin-
zi 12,4-6.11). In un quadro di rapporti sani, l'unicità d'ogni perso-
na deve affermarsi, in faccia a quella degli altri, non già sotto la
forma di un'opposizione, ma piuttosto d'una complementarità, in
vista dell'utilità comune (ibidem, 12,7), nell'unità della comunità
umana, il cui archètipo è la Chiesa, corpo del Cristo. Lì ogni mem-
bro ha la sua funzione, la sua utilità, la sua importanza e non può
pretendere di fare a meno degli altri (ibidem, 12,21). Nessuno è
disprezzabile e di minor valore o dignità; anzi, proprio quelli che
hanno meno qualità o doni son quelli da onorare maggiormente
(ibidem, 12,22-25). L'orgoglioso, invece d'usare i suoi carìsmi per
aiutare i membri del corpo che ne sono meno fomiti ed entrare
così con essi in una relazione unitiva di complementarità vissuta in
Dio, con sentimenti d'umiltà e fraternità, stravolge i suoi doni da
questa loro normale finalità per usarli egoisticamente nell'afferma-
zione della propria singolarità, in opposizione al suo prossimo, nel
mettersi in vetta d'una gerarchia in cui gli altri sono ridotti a gradi-
ni di scarso conto. Le differenze, o perfino disuguaglianze, invece
di venire abolite in Dio nell'unità del corpo, vengono al contrario
ben rimarcate. Il prossimo diventa un rivale. Qui l'orgoglio si rive-
la separatore e divisore, profondamente sovvertitore delle relazioni
fra gli uomini e, di conseguenza, radice di mali innumerevoli.
Reso dall'orgoglio incapace di volgersi verso Dio e d'aprirsi con
verità al prossimo, l'uomo si ripiega su se stesso, si chiude nel pic-
colo universo del suo io che egli esalta. In tutte le sue reazioni,
l'orgoglioso resta prigioniero di se stesso. Qui l'orgoglio si rivela
come una negazione della carità, una distruzione dunque di tutti
gli armoniosi rapporti che essa permette d'avere: con Dio e, in
Dio, con sé e con il prossimo. La capacità d'amare che Dio ha da-
to all'uomo perché l'uomo s'unisca a Lui, l'orgoglioso la perverte

198
stravolgendola dalla sua finalità normale per indirizzarla su se stes-
so. L'orgoglioso ama il suo io e nient'altro che il suo io. Qui l' orgo-
glio, ben vediamo, fa un tutt'uno con l'amore egoistico di sé (o
philautia).
Per l'anima, l'orgoglio è anche una continua fonte di sofferen-
za. L'orgoglioso può soffrire per la distanza che corre fra ciò che
crede di essere o vuol essere e ciò che invece intuisce di essere in
realtà. Può anche soffrire perché vede minacciate o smentite la
buona immagine che ha o vuol dare di sé oppure la superiorità
che pretende d'avere sugli altri. Si mostra poi anche perpetua-
mente insoddisfatto dell'innalzamento che va ricercando, dato
che mai potrà raggiungere la vetta e quindi la sua pretesa non po-
trà mai aver fine.
Così l'orgoglio distrugge la pace interiore e fa finire l'uomo in
uno stato di turbamento permanente. E tanto più perché quasi
sempre ottiene dai suoi simili un effetto opposto a quello che si
aspettava: invece di considerazione, il più delle volte non ricava
che disprezzo e sarcasmi.
Il timore dell'orgoglioso di vedere contestata e sminuita la buo-
na immagine che ha di sé può inoltre renderlo diffidente e suscet-
tibile, può portarlo a una sensibilità pruriginosa e così far nascere
e sviluppare in lui il sentimento di essere perseguitato e sconvolge-
re anche in quest'altro modo i suoi rapporti con il prossimo; la ra-
gione è che la sua suscettibilità lo spinge, per reazione, a mostrarsi
sempre più aggressivo verso quelli che lo criticano o che egli sup-
pone lo facciano.
Tutti questi aspetti sono chiaramente presenti nella psicosi par:;i-
noica, ma sono evidenti anche nel carattere paranoico che dell'or-
goglio è buon terreno.
L'orgoglio non è soltanto una frequente radice di conflitti con
gli altri, ma è anche la causa che li alimenta e impedisce di riar-
monizzare le relazioni così stravolte. Quand'anche non impedisca
a chi ne è malato d'ammettere con se stesso i propri torti, l'orgo-
glio nondimeno lo trattiene dall'ammetterli pubblicamente e chie-
dere perdono a chi è stato leso. Ed è un atteggiamento che si ri-
scontra peraltro nei confronti sia di Dio che del prossimo: l' orgo-
glio, sottolineano i Padri, porta l'uomo a non vedere i suoi pecca-
ti, a passarci sopra e a continuare quindi a coltivarli, perpetuando
così lo stato di separazione da Dio. Di contro, l'orgoglioso non
dimentica le offese che ha ricevuto dagli altri e nutre in cuor suo

199
un rancore che impregna la sua anima d'un turbamento doloroso
e malevolo.

La terapeutica dell'orgoglio (o philautia, in quanto amore egoisti-


co di sé, nella terminologia dei Padri) consiste essenzialmente nel
convertirlo in carità, che è amore autentico di sé, del prossimo e di
Dio, tre amori profondamente legati fra loro, anzi mutuamente
implicati l'uno nell'altro. Già in uri altro libro ho esaminato le con-
dizioni per arrivare alla carità, in queste sue tre forme, e rimando
perciò a esso19. La forma meno nota di carità è forse quella che
uno esercita verso se stesso e che san Massimo il Confessore chia-
ma <<la bella philautia»; ne parleremo nella sezione seguente, dove
sarà più direttamente implicata.
Per quanto concerne la terapeutica della vanagloria (o kenodo-
xia), siccome essa è ricerca di gloria umana, mondana, terrena,
l'uomo che vuole vincerla deve anzitutto ammettere la vanità d'u-
na siffatta gloria, in particolare prendendo coscienza dell'inconsi-
stenza dei suoi fondamenti e del niente dei fini che essa persegue.
Siccome la vanità è ricerca di considerazione, fama, onore, glo-
ria, si deve rinunciare a tutto ciò che può esserne fonte od occasio-
ne. Essendo la vanagloria un desiderio di essere notati, chi vuole
combatterla deve evitare tutto ciò che nelle sue parole, nei suoi ge-
sti e comportamenti può farlo distinguere in n:iodo speciale; al
contrario, chi vuole liberarsene deve far di tutto per diventare o
restare sconosciuto.
Chi vuole vincere la vanagloria non soltanto deve nascondere
agli altri uomini - da cui si aspetta ammirazione e lode - le sue
eventuali qualità (intellettuali, morali o spirituali), ma non deve
neanche nascondere le sue colpe.
Per dire tutto in breve - e siamo a un rimedio fondamentale
contro la vanagloria -, l'uomo deve accettare il disprezzo e l'umi-
liazione. Quest'accettazione ha per l'uomo una funzione liberato-
ria~ lo guarisce dalla vanagloria proprio perché essa, al contrario,
va cercando gloria mondana, ammirazione o addirittura stima da-
gli altri.
Ma la vanagloria è anche una passione per cui l'uomo stima,
ammira e onora se stesso e si glorifica ai propri occhi. Per combat-
terla a questo livello, l'uomo deve anzitutto dimenticare e non far

19 Si veda Terapia delle malattie spirituali, cit., p. 693s.

200
caso egli stesso alle proprie eventuali qualità e nascondere ai pro-
pri stessi occhi ciò che di buono ha in sé e il bene che ha fatto.
Come già abbiamo fatto notare, la gloria che viene dagli uomini
e quella che viene da Dio sono fra loro antagonistiche e si esclu-
dono a vicenda. Se dunque l'uomo deve rinunciàre a ogni gloria
umana, è per avere accesso alla gloria divina cui lo destina la sua
natura. Fino a quando, invece, resta attaccato alla gloria terrena,
non può affatto gustare quella celeste. Per questo, umiliarsi è la
via obbligata, la condizione indispensabile per partecipare alla
gloria divina. L'uomo, l'abbiamo visto, tende per sua natura alla
gloria; ma è la gloria che viene da Dio quella che gli si confà vera-
mente. E allora deve esclusivamente glorificarsi in Dio, confor-
mandosi alla parola dell'Apostolo - «Noi ci gloriamo nel Cristo, e
non riponiamo la nostra fiducia nella carne» (Filippesi 3 ,3) - e
dando fiducia alla promessa di Dio: «Glorificherò quelli che mi
glorificano» (Primo libro dei Re 2,30). Insomma, alla ricerca della
«gloria secondo la carne» (Seconda lettera ai Corinzi 11,18) il va-
naglorioso deve sostituire la ricerca della «gloria che viene da Dio
solo» (Giovanni 5 ,44).
Quanto più l'uomo tenderà alla gloria divina, tanto più si disin-
teresserà della gloria che viene dagli uomini. Per questo, l'amore
di Dio e della Sua gloria appare come un modo per liberare l'ani-
ma dalla vanagloria.
_ Dobbiamo poi anche sottolineare, a tal fine, il ruolo essenziale
della preghiera, che aiuta l'uomo a staccarsi da questo mondo:_
oggetto della vanagloria - per attaccarsi a Dio e Lui glorificare,
riconoscendo che a Lui solo «spetta ogni gloria, onore e adora-
zione».
La terapeutica dell'orgoglio propriamente detto presenta un
certo numero di punti in comune con quella della vanagloria.
Siccome nelle sue linee generali l'orgoglio consiste in un innal-
zarsi sugli altri e di fronte a Dio, l'uomo non potrà guarirne se non
sforzandosi in ogni circostanza di evitare d'innalzarsi, ma al con-
trario distruggendo l'abituale disposizione della passione con una
progressivà disabitudine dell'atteggiamento che la caratterizza; ciò
implica una costante vigilanza interiore.
In questo lavoro, l'uomo sarà aiutato dalla meditazione sulla va-
nità e il nulla che sono le cose su cui, nella sua passione, egli fonda
la propria superiorità: instabilità di tutte le cose umane, fugacità
delle ricchezze, del potere, debolezza e fragilità dell'uomo stesso,

201
soggetto in questo mondo alla malattia, all'invecchlamento e alla
morte, e che senza Dio non è che «terra e cenere, ombra e fumo>>20.
L'orgoglio, l'abbiamo visto, si esprime in atteggiamenti svariati:
eccessiva fiducia in sé, autosoddisfazione, arroganza, sicurezza,
pretesa di sapere, fiducia nel proprio giudizio, certezza d'aver
sempre ragione, manìa di giustificarsi, spirito di contraddizione,
voglia d'insegnare, di comandare, rifiuto di sottomettersi. È dun-
que sforzandosi d'avere dei comportamenti contrari che su questo
piano l'uomo potrà combattere lorgoglio: odio per la volontà pro-
pria, diffidenza per il proprio giudizio, rinuncia all'autogiustifica-
zione, biasimi contro se _stesso, rifiuto di contraddire, d'insegnare
e comandare, atteggiamenti che uno sicuramente assumerà nel
quadro dell'obbedienza al proprio padre spirituale.
Per evitare la prima forma d'orgoglio, che è di considerarsi su-
periore agli altri, o perlomeno ad altri, e disprezzarli, l'uomo dovrà
impegnarsi anzitutto a scoprire in essi ciò in cui sono superiori a
lui, rifiutarsi di vedere i loro difetti e valorizzare invece le loro
qualità. È soprattutto in questo senso che san Massimo dice: «La
carità distrugge l'orgoglio>>21. Ma l'orgoglioso dovrà addirittura ar-
rivare (pur senza finire in una qualche svalutazione patologica di
sé) a considerarsi inferiore a tutti. _
Anche il ricordo dei suòi peccati contribuirà a togliergli il senti-
mento della propria superiorità, rivelandogli tutta la sua miseria
spirituale. E tanto più il suo orgoglio diminuirà, quanto più incen-
tiverà un sentimento di contrizione.
Anche accettare delle umiliazioni, in forme diverse, aiuterà a
guarire da questa passione.
Nella misura in cui l'orgoglio consiste nell'immaginarsi una pro-
pria superiorità per le qualità naturali che uno possiede (di qua-
lunque genere esse siano), il rimedio sta nel riconoscere che ogni
bene viene da Dio. Verrà opportuno, sotto quest'aspetto, meditare
questa parola dell'Apostolo: «Cosa ti distingue? Cos'hai che non
abbia tu ricevuto? e se l'hai ricevuto, perché te ne glorifichl, come
se non l'avessi ricevuto?» (Prima lettera ai Corinzi 4,7).
La preghlera, soprattutto poi se è permanente, costituisce un ri-
medio fondamentale contro l'orgoglio, in quanto l'uomo, quando

20 Cfr. Giovanni Crisostomo, Omelie sugli A1ti, XXX, 3; Omelie sulla seconda lettera ai
Tessalonicesi, I, 2; Omelie su Ozia, rv, 4; Commento a san Giovanni, XXXIII, 3 [dr. anche
Vanità, educazione dei bambin~ matrimonio, Città Nuova, Roma].
21 Centurie sulla carità, N, 61 (cfr. trad. it. cit.).

202
prega, chiede laiuto, il soccorso e la protezione di Dio e, di conse-
guenza, non può non avere coscienza che quel che ottiene in ri-
sposta alla sua preghiera viene da Dio come un dono e non può
perciò attribuirlo alle proprie forze né ai propri meriti. Anche la
preghiera di ringraziamento aiuta a vincere la passione, in quanto,
attraverso essa, se la pratica con cuore ferito e contrito e non alla
maniera del fariseo, l'uomo riconosce immediatamente Dio e non
se stesso come principio e fine dei beni che possiede, e allora non
se ne riterrà che l'indegno depositario. Ma beninteso, il ruolo della
preghiera è anche di chiedere l'aiuto di Dio per la guarigione pro-
prio dalla passione dell'orgoglio, la quale, assai-più delle altre pas-
siorii, può sfuggire totalmente all'attività terapeutica degli uomini.
La maggior parte dei mezzi per guarire la vanagloria e l'orgoglio
che abbiamo qui presentato sono anche dei mezzi per giungere al-
l'umiltà (tapeinophrosyne), che poi veramente costituisce il princi-
pale rimedio per la vanagloria e l'orgoglio, in quanto è la virtù che
è loro opposta e destinata a sostituirli.
Questa virtù - e i mezzi per averla - è già stata descritta in un
altro libro22 • Rimando perciò a quella esposizione, qui solamente
ribadendo che l'umiltà svolge un ruolo essenziale nella guarigione
delle malattie spirituali dell'uomo e, di conseguenza, anche delle
malattie psichiche che vi sono collegate.

8. Svalutazione patologica dell'io

La svalutazione patologica di sé s'incontra in molte malattie psi-


chiche. Ha un ruolo primario nella depressione e nella malincoriia.
Né va trascurato che anche molti problemi di relazione presenti
nella maggior parte delle nevrosi vi hanno dei legami.
Molti Padri spiegano che la svalutazione patologica di sé ha la
sua fonte, in modo ben paradossale, nell'amore egoistico di sé (o
philautia). Siccome l'uomo non ha una vera realtà se non in Dio (in
quanto è a immagine di Dio e destinato in forza della sua natura al-
la somiglianza di Lui), amandosi, nell'amore egoistico di sé, indi~
pendentemente da Dio, non può amarsi in modo autentico, perché
in tal caso ama in sé uno che non è lui, un io che non è il suo io, e
così, in certo qual modo, indirettamente odia ciò ch'è in realtà.

22 Terapia delle malattie spirituali, cit., p. 658s.

203
Come san Massimo il Confessore ha sottolineato, l'amore egoi-
stico di sé deriva dall'ignoranza di Dio e dall'ignoranza di sé. Co-
me dire che l'amore egoistico di sé è legato a una rappresentazione
falsata, fantastica, illusoria e ingannevole che l'uomo ha di sé. E
molto spesso è proprio dinanzi.a questa falsa rappresentazione del
suo io che l'uomo si sente svalutato.
Sarà dunque recuperando la conoscenza di ciò che egli è vera-
mente, prendendo coscienza della relazione profonda e intima del
suo essere con Dio; sua origine e suo fine - relazione che, labbia-
mo visto, è già presente nella sua natura stessa, ma di primo acchi-
to è per lui inconscia-, che l'uomo può recuperare una giusta va-
lutazione di sé. ·
E tuttavia, da sola questa presa di coscienza non è sufficiente. È
nella conversione dell'amore di sé-passione in amore di sé-virtù
che l'uomo può recuperare l'amore autentico del suo io vero, la
cui deficienza o mancanza costituisce appunto quella che chiamia-
mo la svalutazione di sé.
L'amore di sé-virtù, che san Massimo il Confessore chiama «il
bell'amore di sé» (<<la bella philautia»), è una forma della carità.
In effetti, se primariamente la carità è amore di Dio e in secondo
luogo amore del prossimo, è amore del prossimo «come se stes-
so», come insegna il Cristo: <<Amerai il prossimo tuo come te stes-
so» (Matteo 22,39; Marco 12,31; Luca 10,27). Dunque, la carità in-
clude l'amore di sé. Anche in seno al cristianesimo, troppo spesso
lo si dimentica, o non si vuol vederlo, per timore di confondere
quest'amore spirituale con l'amore egoistico di sé. Dobbiamo per-
ciò ricordare che quest'amore di sé-virtù non ha niente da vedere
con quell'amore egoistico di sé che è la madre di tutte le passioni.
Ne è anzi l'antìtesi. Perché, se l'amore di sé-passione consiste nel-
1' amarsi secondo la carne e per se stessi, narcisisticamente, fuori
di Dio, al contrario l' «amore spirituale di sé» consiste nell'amarsi
spiritualmente, in Dio e in vista di Dio, nell'amarsi per quello che
uno è in questo momento nel suo profondo, cioè una persona
creata a immagine di Dio, e per quello che si è chiamati a diventa-
re, cioè una persona a somiglianza di Lui, figlio di Dio per ado-
zione e,dio per grazia. Consiste dunque nell'amarsi a causa dell'a-
more totale e indefettibile che Dio ha per la persona che uno è,
unica e insostituibile, d'un valore ai Suoi occhi assoluto, inaliena-
bile ed eterno.
Ed è così che I' amore spirituale di sé, o amore di sé virtuoso, si

204
rivela una conseguenza del primo comandamento, che è amare
Dio, dato che amarsi spiritualmente è amarsi in Dio e in vista di
. Lui.
Amore di Dio e amore di sé virtuoso s1implicano peraltro a vi-
cenda: amarsi nella propria realtà spirituale d'immagine di Dio e
di persona che Dio ama porta ad amare Dio.· Di riscontro, come
dice sant' Antonio il Grande, «chi ama Dio ama anche se stesso>>23.
Mentre l'amore di sé-passione è attaccamento dell'uomo alla
propria Individualità, a un io ripiegato su se stesso, opaco e che
esclude Dio, al contrario l'amore di sé-virtù è apertura piena a
Dio, totale trasparenza alle Sue energie. Mentre nella prima forma
d'amore di sé l'uomo, di fatto e senza rendersene conto, è «amante
di sé contro sé>>, come si esprime san Massimo il Confessore, nel-
1' amore di sé-virtù egli si ama con verità, nella sua realtà più pro-
fonda e più essenziale, realtà che ha in Dio il suo fondamento, il
suo principio e il suo fine. Mentre l'amore di sé-passione aliena
l'uomo, l'amore di sé-virtù gli fa - in Dio - ritrovare se stesso, nel-
la sua realtà spirituale autentica.
Mentre l'amore di sé-passione porta l'uomo, attraverso un atteg-
giamento e un comportamento egoistici, a delle relazioni stravolte
con il prossimo, che possono arrivare fino all'odio, lamore di sé-
virtù è una delle chiavi dell'amore del prossimo, come fa capire
l'appena ricordato comandamento del Cristo: «Amerai il prossimo
tuo come te stesso». È soltanto nella misura in cui l'uomo si ama
con verità, per quello che è fondamentalmente, in Dio e in vista di
Lui, che può amare il suo fratello spiritualmente, senza che que-
st'amore sia intaccato da alcun elemento passionale o carnale, che
può amarlo nella sua natura vera di persona creata anche essa a
immagine di Dio e anche essa chiamata a somigliarGli, che può
dunque amarlo come uno che condivide la medesima natura e co~
me un altro figlio per adozione del medesimo Padre, come un fra-
tello nel Cristo. Per questo, sant' Antonio il Grande scrive: «Chi sa
amarsi ama anche gli altri>>24. Reciprocamente, l'amore spirituale
di sé presuppone l'amore del prossimo: per amare con verità se
stesso, bisogna amare il proprio fratello, sottolinea san Giovanni
Crisostomc25.

23 Lettere, rv, 9 (cfr. trad. it. citata). Cfr. anche Nicola Cabasilas, La vita in Cristo, VII, 66.
24 Lettere, IV, 7.
25 Omelie sulla seconda lettera a Timoteo, VII, 1.

205
9. Relazione patologica con il corpo

Varie malattie psièhiche si accompagnano a una relazione pato-


logica con il corpo.
Può trattarsi di un'erotizzazione del corpo o dell'utilizzaiione
del proprio corpo come mezzo per attirare l'attenzione e l'affetto,
come nella nevrosi isterica. Può anche trattarsi d'una detestazione
e d'un rifiuto del corpo, come nell'anoressia (in cui però la perso-
na può anche sfruttare il proprio corpo per attirare attenzione e
affetto). Può poi ancora trattarsi d'una cattiva integrazione del
corpo nella persona, per cui il corpo può venir visto, nei casi estre-
mi, come un oggetto esterno ed estraneo, come nella schizofrenìa.
A tutto questo potremmo aggiungere varie turbe della relazione
con il corpo che, pur senza integrarsi in ben precise malattie psichi-
che, hanno nondimeno un carattere patologico. Nella società mo-
derna queste turbe si sono fortemente sviluppate e si esprimono nel
ricorso ad attività e trattamenti vari il tui scopo è di conformare il
corpo a un ideale di giovinezza e di bellezza. Spesso nel loro retro-
terra c'è la paura dell'esclusione; della vecchiaia e della morte.
Si tratti di erotizzazione del corpo oppure di detestazione o rifiu-
to di esso, alla base di tutti questi atteggiamenti troviamo un attac-
camento e.ccessivo e patologico al corpo, attaccamento che provie-
ne, spiritualmente, dalla passione dell'amore egoistico di sé (o phi-
lautia). Sostenere una cosa del genere potrebbe sembrare parados-
sale per il caso del corpo detestato, o addirittura rifiutato; eppure,
il rigetto del corpo è ancora un indizio dell'importanza che la per-
sona gli attribuisce, benché sia un'importanza falsamente valutata,
dato che in tal caso il corpo si vede· attribuire un valore negativo.
È attraverso la presa di coscienza che il corpo è una dimensione
della persona e a questo titolo non soltanto merita rispetto, ma de-
ve anche essere oggetto di quell'amore spirituale autentico che la
persona deve a se stessa in tutta la propria integralità, che l'uomo
può guarire dalle sue relazioni d'attaccamento, sia positive che ne-
gative, al proprio corpo. Anche in questo caso l'amore di sé-pas-
sione deve convertirsi in amore di sé-virtù.
Se l'uomo si ama veramente nella sua realtà spirituale - in Dio -,
allora non può più trattare il proprio corpo come uno strumento
d'attrazione (nel caso dell'erotizzazione), dunque come un ogget-
to, né detestarlo o rifiutarlo come cosa vile o a lui estranea.
L'ascesi corporale (il digiuno in primo luogo, poi le veglie e il la-

206
voro faticoso) può aiutare l'uon;io a mantenere il suo spirito nei
confini del corpo e a reintegrare in sé il proprio corpo. Anche
quelle forme di preghiera che si accompagnano a gesti del corpo
(segni di croce, prostrazioni) o implicano una partecipazione per-
manente del corpo e una sua stretta unione con l'anima e lo spirito
(come la preghiera del corpo) possono aiutare l'uomo a recuperare
la fondamentale unità che esiste fra la sua anima e il suo corpo e il
senso del valore del corpo, mediante il ruolo spirituale che esso è
chiamato a svolgere in stretta collaborazione con l'anima e con lo
spirito.
È bene nello stesso tempo ridare al malato una giusta conoscenza
del valore positivo che il cristianesimo riconosce al corpo. Perché -
purtroppo - certe forme devianti di spiritualità, soprattutto in Oc-
cidente, hanno sviluppato un disprezzo e un rifiuto del corpo che,
consciamente o inconsciamente, ispirano o confermano l'atteggia-
mento negativo che alcune persone hanno verso il proprio corpo.
Dobbiamo infatti ricordare che il cristianesimo è la religione
dell'Incarnazione, è la religione che crede che il Figlio di Dio, di-
ventando uomo, prese un corpo e non soltanto un'anima e uno
spirito, al fine non soltanto di salvare il corpo insieme all'anima,
ma di deificarli e così renderli, nella persona, indissociabilmente
partecipi dei beni divini promessi ai fedeli. Il fatto che alla comu-
nione i fedeli ricevano nel loro corpo il corpo stesso del Cristo è
l'espressione più concreta e alta di questa verità della fede cristia-
na. La comunione eucaristica, oltre a tutte le virtù spirituali che
implica, può così contribuire a dare all'uomo anche il senso del va-
lore sacro del proprio corpo, diventato tabernacolo del Verbo in-
carnato e, come dice san Paolo, tempio dello Spirito Santo26.

10. Perturbazioni nella relazione con gli altri

Le perturbazioni nella relazione con gli altri sono un sintomo


comune alla maggior parte delle nevrosi e, per ragioni diverse, alla
maggior parte delle psicosi.

26 Sul posto del corpo nel cristianesimo e nella spiritualità ortodossa si vedano i nostri stu-
di: Ceci est mon corps. Le sens chrétien du corps selon les Pères de l'Église, Genève, 1966; «Ce
corps qui nous est cher», in Le chrétien devant la maladie, la souffeance et la mort, Paris, 2002,
p. 23-29; «Le corps dans la spiritualité orthodoxe», in P. Wells (a cura di), Le corps et le chri-
stianisme, Cléon d'Andran et Aix-en-Provence, 2003, p. 23-37.

207
Esse possono consistere in «difficoltà relazionali» e assumere la
forma di inibizioni (fuga dagli altri, difficoltà a stabilire contatti e a
entrare in relazione con essi) o di rapporti conflittuali (in cui l' ag-
gressività è presente in forme diverse).
Possono pure assumere la forma di una familiarità eccessiva, in
cui sono aboliti il rispetto dell'altro e il pudore di fronte a lui.
Possono assumere anche la forma di rapporti artificiali e «tea-
tralizzati>> (quando la persona si nasconde dietro un ruolo o un
personaggio, quando ricorre a un linguaggio formale come a una
barriera fra sé e gli altri) che ostacolano la formazione di relazioni
interpersonali. Nella nevrosi isterica, questa teatralizzazione si ac-
compagna a un' erotizzaziohe degli atteggiamenti e del linguaggio.
Questa terza forma di perturbazione è ben prossima alla prima,
in quanto rivela anche essa, a suo modo; delle difficoltà relazionali.
Queste perturbazioni sul piano psicologico nelle relazioni con
gli altri hanno un fondamento spirituale. Hanno radice nel con-
giunto intervento di più fattori: in primo luogo, una cattiva imma-
gine che la persona ha di sé e un cattivo modo d'accettarsi; in se-
condo luogo, una cattiva immagine che essa ha dell'altro. Questi
due fattori sono legati a un terzo, cioè le varie passioni che falsano
la relazione con sé e con l'altro.
Il primo fattore deriva da una cattiva conoscenza di sé e da un
cattivo atteggiamento verso di sé. È per questo che tanto la so-
pravvalutazione quanto la svalutazione di sé - che abbiamo già
analizzato - svolgono un ruolo determinante come fonte di pertur-
bazione dei rapporti con l'altro. In entrambi i casi, il rimedio fon-
damentale è la terapeutica dell'amore egoistico di sé, che è la fonte
comune di entrambi gli atteggiamenti. L'umiltà appare quindi il ri-
medio principale della sopravvalutazione di sé; mentre l'amore di
se-virtù - l'amore autentico di sé nella sua dimensione spirituale -
appare come il rimedio principale della svalutazione di sé. L'umiltà
svolge comunque un ruolo terapeutico anche nel caso della svalu-
tazione di sé, in quanto aiuta la persona ad accettare ciò che d'in-
sufficiente o di mediocre essa scopre nella propria personalità e
cerca di nascondere agli altri evitandoli oppure assumendo un
ruolo o ergendo altre barriere fra sé e gli altri.
Il secondo fa,ttore ha da fare con una cattiva conoscenza dell'al-
tro e un deleterio atteggiamento che la persona assume nei suoi
confronti. Quando non viene visto nella sua realtà spirituale pro-
fonda di creatura a immagine di Dio e di persona destinata a rea-

208
lizzare la somiglianza con Lui - di persona destinata alla salvezza e
alla deificazione -, l'altro viene considerato soltanto più nella di-
mensione superficiale (perché dissociata dalla realtà spiri:tUale pro-
fonda) delle sue apparenze fisiche e psicologiche.
Il terzo fattore di perturbazione con l'altro è costituito dalle va-
rie passioni.
Sotto la pressione delle passioni dell'orgoglio e della vanagloria,
ma anche.del timore, spesse volte l'altro viene visto come un riva'-
le, un avversario o addirittura un nemico, reale o potenziale, di cui
è bene diffidare, da cui si devono prendere le distanze o che maga-
ri si deve preventivamente attaccare, per meglio proteggersi. An-
che in questo caso la terapeutica passa attraverso l'umiltà (che per-
mette di guarire dall'orgoglio e dalla vanagloria), ma anche attra-
verso la fiducia in Dio (che fa evitare il timore), e prima di tutto at-
traverso la carità, che sviluppa a priori un atteggiamento positivo
verso l'altro, riconosciuto nel suo valore spirituale essenziale, ma
anche accettato nella sua differenza e scusato nelle sue debolezze.
Che l'amore contribuisce a bandire il timore lo dice anche san
Paolo.
Anche l'aggressività patologica (che l'ascetica clàssica chiama la
passione della «collera>>) costituisce, nella sua forma originale o
derivata, un serio fattore di perturbazione delle relazioni con I' al-
tro, e quindi anche la sua terapeutica costituirà un elemento essen-
ziale della terapeutica spirituale da attuare per guarire le turbe re-
lazionali. Ma di questo si è già detto e non ci torniamo.
Come Freud ha sottolineato (forse in modo eccessivo), anche i
fattori sessuali hanno un grande ruolo nelle perturbazioni delle re-
lazioni con l'altro. Tra i fattori spirituali che costituiscono una fon-
te di perturbazione dei rapporti con l'altro dobbiamo quindi citare
anche la passione della lussuria (porneia), che secondo i Padri in-
globa tutte le forme di passioni sessuali.
Dobbiamo anzitutto ricordare che il vero amore, fondato spiri-
tualmente, è apertura all'altro e libero dono di sé. Ognuna delle
due persone che esso unisce si dà all'altra e la riceve in cambio. In
questa comunione, ognuna delle due persone si arricchisce e ma-
tura in tutta l'estensione del suo essere e fino all'infinità divina,
nella misura in cui, come dev'essere, I' amore è alimentato dalla
grazia e trova la stia finalità nel Regno. La lussuria; al contrario, è
un atteggiamento d'amore egoistico di sé: fa ripiegare in se stesso
chi ne è vittima e lo chiude totalmente all'altro; impedisce ogni

209
scambio, dato che, sotto il suo influsso, chi è malato di questa pas-
sione non ha in vista che il proprio interesse, all'altro non dà nien-
te e vuole unicamente ricevere da lui, in più riducendo ciò che
vuol riceverne a quello soltanto che è in linea con il suo desiderio
passionale. Ciò che poi ottiene, lo considera più un risultato del
proprio desiderio che un dono dell'altro: chi è malato di questa
passione si dà da sé l'altro, è lui che si dà l'altro; per lui, l'altro non
. è che un semplice intermediario fra sé e sé. Cosìla lussuria impri-
giona l'uomo nel suo io decaduto; anzi, con maggior precisione
ancora e in modo ancora più riduttivo, l'imprigiona nel mondo li-
mitato e chiuso della sua sessualità carnale, dei suoi istinti e dei
suoi fantasmi, e lo chiude totalmente ai mondi infiniti dell'amore e
dello spirito.
La lussuria è spesso il desiderio e il godimento d'una raffigura-
zione immaginaria dell'altro. Questi non esiste come persona o
prossimo, ma puramente come oggetto fantasmatico, concepito
mediante una proiezione dei desideri del lussurioso. Un siffatto
modo di vedere l'altro non può non avere un contraccolpo anche
sul modo del lussurioso di considerare, nella realtà, gli esseri con-
creti che corrispondono alla sua passione: inevitabilmente avverrà
una sovrapposizione dell'immaginario sul reale, culminando in
una modificazione di questo alla luce di quello.
Ma nella realtà concreta, il modo di vedere l'altro non è falsato
solamente da un immaginario formatosi in precedenza. Quando la
passione si sfoga in una relazione con una persona concreta e pre-
sente, essa «riduce» la persona. Nella lussuria, l'altro non viene in-
contrato come una persona, non viene visto nella sua dimensione
spirituale, nella sua realtà fondamentale di creatura a immagine di
Dio: al contrario, si ritrova ridotto a ciò che, nella sua apparenza
esterna, è in grado di soddisfare il desiderio di godimento del lus-
surioso; per costui, diventa un semplice strumento di piacere, un
oggetto.
In taluni casi può perfino accadere che gli venga negata ogni in-
teriorità, insieme a tutta la dimensione del suo essere che trascen-
de la sfera sessuale, la dimensione in particolare della coscienza,
dell'affettività superiore e della volontà. Il lussurioso, inoltre, pas-
sa sopra alla libertà dell'altro, in quanto ha in vista soltanto la sod-
disfazione del proprio desiderio, soddisfazione che il più delle vol-
te gli si presenta come una necessità assoluta e gli fa del tutto tra-
scurare il desiderio dell'altro. Di conseguenza, l'altro non viene

210
più considerato né rispettato nella sua alterità e neppure nell'uni-
cità della sua realtà personale, alterità e unicità che non possono
rivelarsi se non nell'espressione della sua libertà e nella manifesta-
zione delle sfere superiori del suo essere: infatti, ridotti dalla lussu-
ria alla dimensione generica e animale d'una sessualità carnale, gli
esseri umani diventano per il lussurioso praticamente intercambia-
bili, proprio come degli oggetti.
È chiaro, di qui, che sotto l'effetto della lussuria l'uomo vede il
prossimo come il prossimo non è, e non già com' esso è. In altre
parole, il lussurioso si dà una visione delirante di quelli che la sua
passione gli fa incontrare. Da quel momento, tutti i suoi rapporti
con essi si ritrovano completamente pervertiti.
· Già altrove abbiamo dettagliatamente mostrata27 come la tera-
peutica della lussuria si attui conquistando le virtù della continen-
za (enkrdteia), cioè la capacità di dominare e reprimere i desideri e
le pulsioni sessuali incompatibili con le esigenze dell'etica spiritua-
le, e della castità (sophrosynf), che consiste in un atteggiamento di
distacco e purezza interiore nei riguardi della sessualità, peraltro
ricondotta alla sua sola cornice legittima, secondo l'etica cristiana,
che è quella dell'amore coniugale.
Qui è opportuno che in modo particolare insistiamo sul fatto
che la terapeutica della lussuria - dopo una «coscientizzazione»
sia dei perversi orientamenti· che il desiderio può darsi nello stato
decaduto dell'uomo, sia di ciò verso cui tende nella sua realtà spi-
rituale profonda - consiste fondamentalmente in una conversione
del desiderio, di tal fatta che l'amore spirituale prenda il posto del-
1'amore carnale (cioè passionale), secondo la celebre osservazione
di san Giovanni Climaco: «È casto chi bandisce l' éros sensuale con
l' éros divino e spegne il fuoco terreno con il fuoco celeste>>28.
La castità (virtù opposta alla passione della lussuria) aiuta non
soltanto a liberare la sessualità da tutte le sue forme perverse e ad
attribuirle il suo vero posto nella yita della coppia, riportandola
nel contesto spirituale che le spetta, ma anche a de-sessualizzare i
rapporti umani, ad eliminare cioè tutti i fattori d'ordine sessuale
che psicologicamente si frappongono fra sé e gli altri e falsano la
relazione, fattori a livello sia del desiderio o del timore, sia dell' at-
trazione o della repulsione.

27 Terapia delle malattie spirituali, cit., p. 546s.


28 La scala santa, X'V, 2.
11. La tristezza e l'accidia (o «noia»)

La tristezza e l'accidia sono due passioni o malattie spirituali


che l'ascetica classica ha ampiamente analizzato e di cui ha accura-
tamente elaborato la terapeutica spirituale. Quella che oggi viene
chiamata la depressione deriva in gran misura da queste due ma-
lattie spirituali, e quindi in molti casi si potrebbe adottare per essa
una terapeutica spirituale:

A. La tristezza (lype) si manifesta come uno stato dell'anima fat-


to, al di là di ciò che la parola potrebbe di primo acchito far sup-
porre, di scoraggiamento, astenìa, pesantezza e dolori fisici, abbat-
timento, senso d'abbandono, oppressione, depressione, il tutto poi
il più delle volte accompagnato anche da ansietà e perfino ango-
scia.
Questo stato può avere un gran numero di cause, ma è sempre
costituito da una reazione patologica della facoltà irascibile
(thym6s) e/o della facoltà desiderante (epithymia, epithymetik6n,
epithymetikè dynamis); mostrandosi, nel primo caso, come una
conseguenza della collera (orghé') e, nel secondo, come la conse-
guenza d'una frustrazione dei desideri.
Può però venire suscitato nell'anima anche da una diretta attivi-
tà dei demoni; o magari anche nascere senza nessun apparente
motivo.
Ma esaminiamo più in dettaglio queste varie eziologie.
1) I Padri hanno ben notato che in genere la tristezza è costitui-
ta dalla mancata soddisfazione d'un desiderio carnale, oppure dal-
la delusione d'una speranza. Essendo il piacere legato al desiderio,
con Evagrio Pontico possiamo dire che <<la tristezza è la frustrazio-
ne d'un piacere presente o atteso».
In quanto risultato della frustrazione d'un desiderio carnale (nel
senso ampio della parola, come opposto a «spirituale>>'.) e del pia-
cere a esso legato, la tristezza rivela dunque un attaccamento di
chi ne è colpito ai beni sensibili, ai valori di questo mondo.
Per questo, vediamo che.la tristezza è spesso provocata dalla per-
dita d'un bene sensibile o da un qualunque inconveniente subìto su
questo medesimo piano.
La tristezza può anche essere provocata dall'invidia non soddi-
sfatta per qualche bene materiale, intellettuale, morale o spirituale
posseduto da un altro.

212
Può anche avere come causa una delusione nella brama di ono-
ri, e dunque essere legata, in questo caso, alla vanagloria.
Dobbiamo tuttavia far ancora osservare che la tristezza può an-
che non essere provocata dalla frustrazione d'un desiderio partico-
lare per un oggetto ben determinato: al contrario, può anche deri-
vare da un'insoddisfazione generica, da un sentimento di frustra-
zione globale nei riguardi dell'intera esistenza e che rivela come i
desideri profondi e fondamentali della persona (di cui non sempre
essa conosce chiaramente il significato vero) non siano adeguata-
mente corrisposti. Ciò in genere avviene quando si ha da fare con
quel tipo di cause che provocano, sul piano psicologico, quella che
comunemente vien detta «depressione».
2) I Padri fanno poi anche notare, in secondo luogo, che latri-
stezza può derivare dalla collera, in particolare dalla vendetta non
soddisfatta. Se a volte la tristezza può sì provenire dal sentimento
che la collera fu eccessiva o sproporzionata rispetto a ciò che la
causò, spesso invece essa deriva piuttosto dall'impressione che la
collera non sia stata adeguatamente intensa, in quanto chi si lasciò
andare alla collera non avrebbe manifestato con sufficiente vigore
quel che sentiva dentro oppure non avrebbe provocato in quello o
quelli cui era indirizzata la reazione che si aspettava.
La tristezza può anche essere provocata da un'offesa.
In tutti questi casi, tale passione rivela un attaccamento a sé ed è
legata alle passioni della vanagloria e dell'orgoglio, come peraltro vi
è connessa anche la collera, quando provenga da questa passione.
Manifesta.una reazione dell'io frustrato nell'affermazione di sé e an-
zi ridotto a meno di quanto si stimava. Il rancore - spesso la tristez-
za nasce anche di qui - è peraltro il rigurgito dell'orgoglio ferito, e la
collera, radice della medesima passione, esprime di frequente una
volontà di riaffermare, risollevare, rendere nuovamente forte il pro-
prio io agli occhi propri e degli altri. In tutti questi casi, la tristezza
appare quindi come l'espressione del sentimento di fallimento o
d'impotenza che l'io prova nel suo tentativo di autoriabilitazione.
3) Può anche accadere che la causa della tristezza resti scono-
sciuta e la tristezza paia quindi immotivata. Scrive san Giovanni
Cassiano: <<Può accadere che ci sentiamo pieni, dentro di noi, di
un'angoscia improvvisa e immotivata; ci sentiamo prostrati da una
tristezza cui non riusciamo a dare nessuna motivazione». In questo
caso, il confine fra questo tipo di tristezza e la passione dell'accidia
che esamineremo fra breve diventa ben tenue.

213
4) I Padri scrivono che .anche i demoni hanno il· loro bel ruolo
nella nascita, nello sviluppo e nella perpetuazione di tutte le forme
di tristezza. L'irruzione di questo sentimento nell'anima è peraltro
uno degli effetti più immediati dell'attività diabolica. D'altro can-
to, possiamo anche dire che ogni stato di tristezza presente nell' a-
- nima è il segno, in ogni circostanza, di un'attività demoniaca, atti-
vità che può comunque essere di varia intensità.
Ma anche quando siano degli avvenimenti esterni a suscitare e
provocare la tristezza, bisogna comunque ben rimarcare che non
ne sono essi, in realtà, la vera fonte: gli avvenimenti esterni ne sono
soltanto l'occasione, e non già la causa, che invece sta unicamente
nell'anima stessa dell'uomo, più precisamente nell'atteggiamento
che egli adotta sia verso gli avvenimenti esterni sia verso se stesso.
E anche quando sono i demoni a suscitare o mantenere degli
stati di tristezza, non possono farlo se non perché già trovan9 nel-
1'anima un terreno favorevole e hanno dalla loro una qualche par-
tecipazione (più o meno cosciente) della volontà dell'uomo. Spes-
so la tristezza preesiste all'intervento demoniaco, e i demoni si li-
mitano ad approfittare della situazione per farla sviluppare.

La passione della tristezza può anche assumere la forma estrema


della disperazione (ap6gnosis). È una delle sue manifestazioni par-
ticolarmente gravi.

Secondo i Padri, è il diavolo ad avere un ruolo particolarmente


rilevante nella nascita della disperazione, potendo egli provocare
nell'anima, attraverso questo stato, delle conseguenze catastrofi-
che. Infatti, in questo suo stato l'uomo fondamentalmente dispera
di Dio e, di conseguenza, si allontana da Lui. Con ciò stesso, lascia
libero il campo all'attività demoniaca e si destina alla morte spiri-
tuale. Anche san Paolo scrive che <<la tristezza del mondo produce
la morte>> (Seconda lettera ai Corinzi7,l0).
Causa di morte spirituale, la disperazione può portare l'uomo fi-
no a dare la morte al proprio corpo; spingendolo a non aspettarsi
più niente dalla vita, essa imprime nella sua anima delle idee di
suicidio e l'induce ad attuarle.

Gli effetti patologici della tristezza sono di grande rilievo e tre-


mendi.
Oltre a generare quasi inevitabilmente la disperazione, con tutte

214
le sue gravi conseguenze, questa passione, se uno lascia che si svi-
luppi, produce sin dalle sue prime manifestazioni degli atteggia-
menti passionali come lacidità, la cattiveria, il rancore, lamarezza,
il desiderio di vendetta, l'impazienza. Per questo, provoca gravi
turbe nelle relazioni dell'uomo con il suo prossimo.
Come tutte le altre passioni, inonda lanima d'oscurità, accecan-
do l'intelligenza e ottundendo fortemente la sua facoltà del discer-
nimento. Produce inoltre in tutto l'uomo uno stato di astenìa e di
tiepidezza, lo rende pusillanime e ne paralizza lattività.

B. ~accidia (akedia) è ben prossima alla tristezza, al punto che la


tradizione ascetica di cui san Gregorio il Grande è lispiratore in
Occidente riunisce le due passioni in una sola. La tradizione orien-
tale, tuttavia, le mantiene - giustamente - distinte.
. È ben difficile tradurre la parola greca akedia, trasposta in latino
con acédia, con una sola parola che ne esprima tutto il senso; le pa-
role <<pigrizia» o «noia>> con cui viene spesso tradotta manifestano
infatti soltanto l'uno o laltro aspetto della complessa realtà cui la
parola greca akedfa allude.
~accidia corrisponde sicuramente a uno stato di pigrizia e a
uno stato di noia, ma anche di disgusto, avversione, fiacchezza, in-
sieme ad abbattimento, scoraggiamento, languore, torpore, noncu-
ranza, assopimento, sonnolenza, pesantezza - del corpo e dell'ani-
ma -, tanto che l'accidia può realmente far addormentare l'uomo
anche quando in realtà non sia stanco.
Nell'accidia c'è dell'insoddisfazione vaga e generica. Quando
l'uomo è dominato da questa passione non ha più gusto per nien-
te, trova ogni cosa insulsa e insipida, non si aspetta più niente da
niente e da nessuno. Come i precedenti, anche questo sintomo è,
sul piano psichico, caratteristico della depressione.
Un altro caratteristico aspetto dell'accidia - ma ben legato ai
precedenti, in quanto inconsciamente cerca di compensarli - è che
la persona che ne è colpita diventa psichicamente e fisicamente in-
stabile. Le sue facoltà diventano incostanti: il suo spirito, incapace
di stabilità, si mette a correre da un oggetto all'altro. Soprattutto
poi quando uno è solo, non sopporta più di stare a lungo nel posto
in cui si trova: la passione lo spinge ad andarsene di lì, a spostarsi,
a correre in uno o più altri luoghi. A volte si mette a vagolare e va-
gabondare. Guardando le cose da un punto di vista globale, po-
tremmo dire che cerca a ogni costo dei contatti con gli altri. Con-

215
tatti che non gli sono comunque oggettivamente indispensabili;
ma trascinato dalla passione, ne sente il bisogno e trova tutti i
«buoni» pretesti per giustificarli. Avvìa e poi mantiene anche rela-
zioni spesso futili, che alimenta con discorsi vacui, in cui general-
mente dà prova d'una vana curiosità.
Può accadere che laccidia ispiri a chi rte è colpito un'avversione
intensa e permanente per il luogo in cui risiede, gli presenti dei mo-
tivi per esserne scontento, lo porti a credere che altrove starebbe
meglio. La persona è allora indotta a desiderare altri luoghi, in cui
potrà più facilmente trovare ciò di cui ha bisogno. L'accidia può
anche indurla ad abbandonare le sue attività - in particolare il suo
lavoro, di cui la rende insoddisfatta ~ e cercarne altre, facendole
credere che saranno più interessanti e la renderanno più felice ...
Dobbiamo comunque notare che in certi casi l'accidia non ge-
nera nessuno di questi fattori compensativi, ma al contrario va di
pari passo con un totale ripiegamento su se stessi, in quanto allora
prendono il sopravvento l'avversione per ogni spostamento e il ri-
fiuto d'ogni contatto con lesterno, insieme a certi fattori d'inerzia
e d'inappetenza.
Comunque sia, tutti questi stati collegati con l'accidia si accom-
pagnano a inquietudine e ansietà, che sono, oltre al disgusto, ca-
ratteri fondamentali di questa passione. .
Ciò che essenzialmente differenzia laccidia dalla tristezza è che
niente di preciso la motiva, e che <<lo spirito è turbato senza ragio-
ne», come dice san Giovanni Cassiano. Ma che non abbia motivi
non significa che non abbia una causa. Secondo i Padri, qui è pre-
ponderante leziologia demoniaca, la quale tuttavia presuppone,
per poter agire, un terreno favorevole. Essere attaccato al piacere
ed essere dominato dalla tristezza ne costituisce uno particolar-
mente adatto.
Il principale effetto patologico dell'accidia è un oscuramento
generale dell'anima (un fattore che abbiamo già incontrato nella
tristezza): essa rende lo spirito oscuro, acceca e copre di tenebre
tutta quanta lanima. L'intelligenza perde allora ogni capacità di
discernimento e di conoscenza oggettivi della realtà.
I Padri costatano ancora che laccidia - «un rilassamento dell' a-
nima>>, <<un lasciarsi andare dello spirito» - genera il vuoto nell' a-
nima, induce l'uomo a una negligenza generalizzata e lo rende vi-
gliacco. Se unita alla tristezza, l'aggrava, e allora tanto più facil-
mente può portare alla disperazione.

216
Altra sua notoria conseguenza è di rendere irritabile chi ne è
colpito.

La terapeutica spirituale della tristezza varia a seconda delle sue


differenti cause.
1) La prima possibile causa della tristezza è la frustrazione d'un
piacere presente o atteso e dunque, più fondamentalmente, la per-
dita d'un bene sensibile, la frustrazione d'un desiderio o la delu-
sione di un'aspettativa carnali. Nel caso d'una eziologia di questo
tipo; la terapeutica della tristezza implica essenzialmente la rinun-
cia ai desideri e ai piaceri «carnali>> e, correlativamente, il distacco
da tutti i «beni» sensibili, spingendosi fino al loro disprezzo. Sic-
come ogni passione ha per fondamento un desiderio carnale in
cerca del piacere sensibile, vien da sé che la terapeutica della tri-
stezza va unita alla terapeutica delle altre passioni.
L'uomo sottomesso alla carne è avido non solamente di beni
materiali, ma anche di onori e di gloria umani; analizzando la pas-
sione della tristezza, abbiamo sottolineato lo stretto legame che es-
sa ha con la vanagloria, dato che la delusione nella ricerca di onori
e gloria in questo mondo è una causa frequente di tristezza, sia per
quelli che già ne possiedono ma ne desiderano di più grandi anco-
ra sia per quelli che aspirano a uscire dall'anonimato. In questo ca-
so, la terapeutica della tristezza deve far arrivare al disprezzo della
gloria e degli onori di questo mondo o, meglio ancora, a una totale
indifferenza nei loro riguardi, sia che uno già ne possieda sia che
non ne possieda.
2) Una seconda causa essenziale della tristezza è la collera, sia
essa causa o conseguenza di un'offesa subìta, che ben di frequente
assume allora la forma del rancore.
Comunque sia, è anzitutto bene perdonare chi ha offeso, lasciar
cadere ogni rancore nei suoi confronti e, al contrario, mostrargli
benevolenza e carità.
Invece d'accusare l'offensore, chi è stato offeso deve accusare se
stesso, sia che si riconosca degno dell'offesa - a motivo del suo sta-
to di peccato - sia che riconosca d'averla provocata con qualche
parola, atteggiamento o gesto sconveniente nei confronti dell'altro.
3) Abbiamo poi visto che, oltre alle forme di tristezza di cui è
possibile determinare con precisione la causa, esiste anche una tri-
stezza «immotivata>>, quella che può insediarsi nell'anima senza
un'apparente ragione. In questo caso non è possibile pensare a un

217
rimedio specifico, e allora sarà una terapeutica di carattere generi-
co che bisognerà adottare, la medesima peraltro che completa le
terapeutiche già descritte per le varie forme di tristezza analizzate
in l?recedenza.
E poi importante che l'uomo in preda alla tristezza non si chiu-
da in sé - favorirebbe lo sviluppo della malattia - ma, al contrario,
voglia veramente tirarsi fuori da quello stato e manifesti i suoi pen-
sieri a uomini spirituali esperti e si consigli con essi. Così potrà ve-
nire liberato da questi pensieri e sentire parole di consolazione,
che saranno per lui un aiuto insostituibile.
Dobbiamo infine sottolineare anche il ruolo della preghiera, che
secondo i Padri costituisce, in tutte le sue forme, il principale ri-
medio alla tristezza, qualunque ne sia l'origine. Se la salmodia si ri-
vela, secondo l'esperienza degli Antichi, un modo di preghiera
particolarmente efficace contro quella tristezza che viene diretta-
mente dai demoni, la «preghiera del cuore», praticata con vigilan-
za e attenzione, appare invece il rimedio per eccellenza di tutte le
forme di tristezza. .

Per quanto concerne l'accidia, abbiamo visto che la sua partico-


larità è d'attaccarsi a tutte le facoltà dell'anima e di ridar fiamma a
quasi tutte le passioni. Per questa sua particolarità, l'accidia ha bi-
sogno d'una terapeutica spirituale multiforme.
Questa speciale terapeutica presuppone anzitutto che la malat-
tia sia portata alla luce e riçonosciuta come tale; perché, se la ca-
ratteristica di questa passione è di essere immotivata, di conse-
guenza è spesso anche inconscia e incomprensibile; tanto più che
uno dei suoi principali effetti, l'abbiamo visto, è d'accecare lo spi-
rito e rendere oscura tutta l'anima. Per questo, san Giovanni Cas-
siano scrive che chi vuole combatterla in modo congruo «deve af-
frettarsi a tirare questa passione fuori dal segreto della sua anima>>.
Quando l'accidia si manifesta nella forma d'una tendenza all' as-
sopimento, è bene resisterle, sforzandosi di non cedere alla fiac-
chezza o al sonno. In tutti i casi, osserva san Giovanni Cassiano,
<<l'esperienza dimostra che la tentazione dell'accidia non si evita
fuggendo, ma bisogna averne la meglio resistendole».
E tuttavia, la resistenza alla passione non dà mai frutti immedia-
ti. Quasi sempre, la vittoria sull'accidia suppone una battaglia lun-
ga e assidua. Anche la terapeutica pretende allora che ci si armi
prima di tutto di pazienza e perseveranza. Anzi, proprio la virtù

218
della pazienza si rivela uno dei principali rimedi contro questa
passione.
Anche la speranza si rivela un altro fondamentale rimedio da
unire alla pazienza. La speranza su cui puntare non è soltanto
quella di venìre prima o poi liberati dalla passione e di trovare ri-
poso, ma anche quella dei beni futuri che, scrive san Giovanni Cli-
maco, costituisce il «giudizio» su questa passione e <<l'annienta
completamente».

Un terzo essenziale rimedio è il pentimento, il dolore (pénthos)


e la contrizione (katdnyxis)29.
Anche il timore di Dio30 costituisce un potente antl.doto contro
questa passione: <<niente è altrettanto efficace», arriva perfino a di-
re san Giovanni Climaco.
Fra i rimedi prescritti dai Padri, dobbiamo poi anche citare il la-
voro faticoso (soprattutto san Giovanni Cassiano gli dedica lunghi
passi e ne vanta i benefici). In effetti, esso può aiutare l'uomo a
evitare la noia, l'instabilità, il torpore e la sonnolenza che in parte
costituiscono questa passione. Può anche contribuire a formare o
conservare quell'assiduità o continuità di presenza, di sforzo e at-
tenzione che la vita spirituale richiede e l'accidia cerca invece di
spezzare. Soprattutto si oppone dìrettamente ali' ozio, che è una
delle forme principali che l'accidia può assumere ed è del resto già
di per sé fonte di mali innumerevoli.
Ma il rimedio più fondamentale contro l'accidia è poi la preghie-
ra; perché l'uomo non può venire totalmente liberato da questa
passione se non dalla grazia di Dio, e questa l'uomo non può rice-
verla se non con la preghiera. Senza questo rimedio ultimo, tutti gli
altri hanno soltanto un'efficacia parziale; è dalla preghiera, al con-
trario, che tutti gli altri rimedi traggono la loro forza. Per questo, la
battaglia contro questa passione, la resistenza che uno le oppone, la
pazienza di cui uno dà prova, la speranza che manifesta, il dolore e
le lacrime, la memoria della morte, il lavoro manuale vanno accom-
pagnati dalla preghiera, che tutte queste cose radica in Dio e fa sì
che non siano più dei mezzi semplicemente umani.

Se la tristezza e l'accidia sono spesso legate agli stati depressivi,

29 Su queste disposizioni spirituali, si veda Terapia delle malattie spirituali, cit., p. 332s.
30 Sul senso di questa disposizione spirituale, si veda ibidem, p. 627s.

219
non dobbiamo tuttavia concluderne che questi stati derivino esclu-
sivamente e riduttivamente da queste due passioni. Perché, per un
verso, gli stati depressivi possono anche avere da fare con fattori
estranei alle passioni della tristezza e dell'accidia, e, per I'altro, la
depressione può anche avere cause corporali o somatiche.
Uno degli altri fattori spirituali che intervengono nelle depres-
sioni è per esempio quello del senso che l'uomo dà alla sua esisten-
za. Nel campo della psicoterapia, è stata in modo particolare la
corrente chiamata «psicanalisi esistenziale» a ricordarlo.
Un altro rilevante fattore è la natura dell'attaccamento che l'uo-
mo ha verso se stesso, verso gli altri e le realtà di questo mondo.
Un terzo fattore è la natura della relazione dell'uomo con gli altri.
Un quarto fattore è il valore che l'uomo pensa d'avere ai propri
occhi e agli occhi degli altri.
Un quinto fattore è legato alla coscienza che l'uomo ha del suo
stato di colpa.
Su questi vari punti, l'analisi dei Padri può aiutarci ad appro-
fondire la nostra comprensione, mentre il modo di vita spirituale
che essi propongono può recarci un certo numero di soluzioni ca-
paci di far giungere, se non proprio alla guarigione, almeno al mi-
glioramento d'un certo numero di stati depressivi, oppure di pre-
venirli.
Infatti, in una vita cristiana autentica l'uomo può conoscere e
vivere il senso vero della sua vita, un senso che non è illusorio, che
non può ingannarlo né deluderlo né portarlo alla morte, essendo-
gli stato dato da Colui che è il Logos (in altre parole, la ragion di
essere, nel duplice senso di principio e di fine, d'ogni cosa), da Co-
lui che disse: «Io sono la Via, la Verità, la Vita» (Giovanni 14,6).
La vita spirituale aiuta l'uomo, attraverso la lotta contro le pas-
sioni, anche a liberarsi da tutti gli attaccamenti falsi, illusori e pa-
togeni sia a sé che agli altri o alle cose di questo mondo; attraverso
poi la pratica delle virtù l'aiuta a sostituire tutti questi attaccamen-
ti con l'amore di Dio, di sé e del prossimo in Dio e delle realtà spi-
rituali, tutte cose che non possono deluderlo né venirgli strappate.
Con lamore, appunto, e con le altre virtù che esso implica e a
esso sono legate, l'uomo può avviare relazioni sane con gli altri, re-
lazioni libere dall'ansietà, da sentimenti d'insicurezza o d' aggressi-
vità.
Nell'amore e nella preghiera, l'uomo può raggiungere la certez-
za che Dio l'ama - qualunque sia la sua situazione o il suo stato -,

220
che agli occhi di Dio egli è insostituibile e ha un valore assoluto e
che il valore che egli ha agli occhi di Dio è più importante di quel-
lo che può avere agli occhi degli altri e ai suoi propri.
L'umiltà e la penitenza l'aiutano a trovare e attribuirsi il posto e
la responsabilità che gli toccano, a evitare ogni sopravvalutazione
di sé ma anche ogni falso senso di colpa.
Quanto poi al sacramento della confessione, esso gli permette
d'ottenere il perdono di Dio e gli dà la certezza di essere purificato
dai suoi peccati, di ritrovare la pace interiore e di poter di nuovo
partire.
Infine, dobbiamo ancora citare il ruolo positivo della fede e del-
la speranza, che gli pennettono di non finire nella tremenda dispe-
razione che porta alla morte e, anche nelle situazioni più difficili,
di restare attaccato alla vita che il Creatore gli ha dato, di conti-
nuare ad avere fiducia in Dio e aspettare la salvezza che il Cristo,
accettando di soffrire Egli stesso personalmente nella carne, è ve-
nuto a portare a tutti gli uomini senza eccezione.
Queste poche considerazioni, fra le tante possibili, fanno ben
vedere come la soluzione degli stati depressivi che implicano cause
spirituali non stia soltanto nella guarigione dalla tristezza o dall' ac-
cidia, ma in una terapeutica spirituale globale, una terapeutica che
richiede la lotta contro tutte le passioni (che sono tutte legate fra
loro) e, correlativamente, implica la pratica di tutte le virtù. Una
volta di più, costatiamo che la guarigione di questa o quella malat-
tia psichica legata a questa o quella malattia spirituale non può es-
sere frutto d'una terapeutica parziale e a bocconi, ma dipende dal-
l'insieme della vita «asceticà>>, la quale poi, a propria volta, è indis-
sociabile dalla vita ecclesiale.

12. Falsa rappresentazione della realtà

Tutte le malattie psichiche hanno alla loro origine una falsa rap-
presentazione della realtà, si tratti di sé, degli altri o del mondo
circostante.
Questa falsa rappresentazione della realtà ha le sue forme estre-
me nei delìri, che sono presenti nelle psicosi. In queste forme della
malattia, spesso sono delle cause organiche ad avere un ruolo de-
terminante (al medesimo titolo per esempio dei delìri che accom-
pagnano la febbre oppure l'assunzione d'alcol e droghe); queste

221
malattie devono quindi essere oggetto d'una terapia medica. E tut-
tavia, il contenuto di questi delìri - come dei sogni - dipende in
gran parte dalla visione del mondo che la persona si è data, dai
suoi desideri, dai suoi timori e dal suo stato affettivo. Uno dei pro-
blemi che il terapeuta incontra è che i delìri hanno una forza e
presa tali sul malato da renderli nella maggior parte dei casi resi-
stenti a ogni aggiustamento per via di riflessioni o discorsi raziona-
li. La terapeutica medica costituisce allora un coadiuvante non so-
lamente utile ma indispensabile: riducendone la forza, può rende-
re il malato accessibile al discorso del terapeuta e a una correlativa
riflessione personale che lo porti a poco a poco a riaggiustare la
sua visione del mondo e la sua rappresentazione della realtà.
Sono ben pochi gli psicoterapeuti che hanno preso in considera-
zione, come fattore costitutivo d'un gran numero di malattie psichi-
che, questa falsa rappresentazione della realtà (da intendere come
falsa Weltanschauung, cioè falsa visione del mondo e dell'esistenza)
e hanno pensato che il riaggiustamento di questa rappresentazione
dovesse costituire un elemento importante della terapeutica.
Si stacca da essi Viktor Frankl e la sua logoterapia, il quale inve-
ce mette il problema del senso (l6gos) dell'esistenza al centro del
suo modo di considerare le malattie psichiche e della loro terapeu-
tica. E tuttavia, anche la concezione di Frankl, sebbene egli giusta-
·mente ritenga che la relazione dell'uomo con Dio è determinante
per il senso - corretto oppure no - che l'uomo dà alla sua esisten-
za e per gli effetti - positivi o negativi - che ne derivano a riguardo
della sua sanità mentale, resta troppo generica; per la ragione che
egli non si rifà a nessuna ben precisa antropologia religiosa.
Già altrove ho fatto vedere che, in una cornice di cristianesimo, i
Padri hanno invece descritto con precisione le cause e gli effetti del-
la .eatologia della conoscenza, insieme alla maniera di rimediarvi3 1.
E una patologia assai complessa. Per un verso, è l'ignoranza di
Dio a rivelarsi come la fonte di tutti i mali, in particolare di tutte le
passioni - a cominciare dall'amore egoistico di sé -. Per altro ver-
so, sono le passioni a contribuire in gran parte a falsare la cono-
scenza dell'uomo; ed è soltanto nella terapeutica delle passioni,
destinata a sfoeiare.nell'apatheia, o impassibilità32, che l'uomo può
ritrovare una conoscenza perfettamente corretta.

>1 Teràpia delle malattie spirituali, cit., p, 47s e 723s.


32 Sul senso cristiano di questa nozione, ibidem, p, 677s,

222
Questi due aspetti li ritroviamo anche nella patologia psichica:
per un verso, alla base d'un certo numero di turbe psichiche c'è
una falsa rappresentazione della realtà; per altro verso, tuttavia, è
la stessa patologia clinica a falsare la conoscenza della persona. E
se il lavoro terapeutico dovrà consistere nell'agire sulla rappresen-
tazione della realtà presente nel malato, non potrà tuttavia trattarsi
d'un processo puramente intellettuale, ma quel lavoro dovrà ap-
paiarsi a un intervento sulle varie turbe che possono influenzare la
conoscenza.
Significa che, nella misura in cui la patologia mentale si può col-
legare a una patologia spirituale, la terapeutica da attivare dovrà
consistere nell'aiutare il malato a recuperare una corretta cono-
scenza della realtà, ricentrando in Dio la sua rappresentazione del
mondo. Ciò permetterà una riduzione della maggior parte dei fat-
tori patogeni già analizzati - falso senso di colpa, falso timore e fal-
sa inquietudine, assolutizzazione del relativo, aggressività perversa,
cattivi orientamenti del desiderio, sopravvalutazione e svalutazione
patologiche dell'io, perturbazioni nella relazione con gli altri -,
che sono tutti atteggiamenti strettamente connessi con una falsa
conoscenza del loro oggetto.
Ma non è meno vero che una riduzione delle malattie spirituali
che sono alla base delle turbe mentali permetterà una rettificazio-
ne della falsa conoscenza e l'accesso a una conoscenza non deli-
rante.

13. Mancanza d'amore

Tutte le osservazioni fin qui fatte potrebbero farei credere che la


terapeutica di certe malattie mentali legate a malattie spirituali si
riduca a una terapeutica delle malattie spirituali da cui sarebbe
colpito chi è malato psichicamente. Ebbene, non si deve dimenti-
care - labbiamo detto nel capitolo primo - che il malato di malat-
tie psichiche lo è il più delle volte per malattie spirituali di questo
o quel membro del suo ambiente di cui ha subìto, a causa della sua
fragilità (soprattutto nel periodo dell'infanzia), gli effetti negativi.
Una frequente causa di turbe psichiche è la mancanza d'amore
di cui una persona è stata vittima da parte dei suoi prossimi, in
particolare i genitori.
La terapeutica spirituale (tanto meno poi le psicoterapie) non

223
può - è impossibile - restituire alla persona malata l'amore di cui è
stata privata, soprattutto se la carenza è di vecchia data. Il disim-
pegno affettivo dello psicoterapeuta - che, l'abbiamo già visto, in
genere fa parte delle condizioni di esercizio della sua professione -
esclude ogni manifestazione personale d'amore. Ma la_ stessa cosa
non vale per il terapeuta spirituale, il quale, se è un padre spiritua-
le, può manifestare al suo paziente - che è allora un suo figlio spi-
rituale - amore paterno, che se pur si colloca sul piano d'una pa-
ternità simbolica d'un ordine diverso dalla paternità biologica,
non ha tuttavia meno forza. L'amore spirituale· che questa relazio-
ne mette in gioco, in un'affettività purificata e trasfigurata, sia da
parte del «padre» che del <<figlio» spirituali, possiede una potenza
riparatoria e ricostruttiva superiore a tutte le forme d'amore psico-
logico; ho di persona conosciuto dei casi in cui non soltanto la
guarigione spirituale, ma anch~ la guarigione di malattie psichiche
gravi fu il frutto di relazioni di questo tipo.
L'amore d'un vero padre spirituale per il suo figlio spirituale è li-
bero da ogni passione, e dunque da ogni egoismo, da ogni possessi-
vità e da ogni spirito di dominazione. Per questo, è un amore libe-
ratore, che non blocca l'uomo in una relazione chiusa, ma ha per
effetto d'aprirlo alla relazione con gli altri e, soprattutto, con Dio.
L'amore del padre spirituale per il suo figlio spirituale vuol essere
tutt'insieme un'espressione e un simbolo dell'amore infinitamente
più grande e infinitamente più profondo che Dio ha per lui, e alla
fine dovrà sempre scomparire davanti a quest'altro amore.
Pur esigendo -un perfetto rispetto per i genitori (cfr. Matteo
15,4-5; Marco 7,10; 10,19; Luca 10,20), il cristianesimo relativizza
la relazione con essi rispetto alla relazione con Dio (cfr. Matteo
10,37; 19,29; Marco 10,29; Luca 14,26). Il Cristo afferma: «Chi
ama suo padre e sua madre più di me non è degno di me. Chi ama
suo figlio o sua figlia· più di me non è degno di me» (Matteo
10,37); e più radicalmente ancora: «Se qualcuno viene a me e non
odia suo padre, sua madre, [, ..]non può essere mio discepolo»
(Luca 14,26). Ciò non giustifica affatto l'assenza d'amore, ma dà
più valore e peso all'amore per Dio che all'amore per i parenti.
«Chiunque avrà lasciato [.. .] padre, madre [. .. ] a causa di me rice-
verà il centuplo» (Matteo 19,19; dr. Marco 10,29-30).
L'amore di Dio, di cui l'amore del padre spirituale può essere il
rivelatore e il mediatore, è capace di colmare tutte le deficienze af-
fettive dell'uomo, comprese le più antiche e profonde, per poco

224
che l'uomo si ponga nelle condizioni di credere a quest'amore e di
contraccambiarlo.
L'uomo può guarire da molte turbe causate da carenze affettive
e recuperare il senso del proprio valore se ha la certezza - provata
nella fede e poi nell'esperienza interiore - che Dio gli si dedica -
come a ogni altra persona, e qualunque sia il suo stato di degnità o
indegnità - con amore assoluto, totale, incondizionato, senza riser-
ve, eterno, con un amore che, perché divino, è infinitamente più
vasto e.profondo di qualsiasi amore umano.
Per diventare adulto spiritualmente, l'uomo deve elevarsi pas-
sando attraverso la gerarchia di tutti i gradi della paternità. e della
filiazione: biologica, spiritual-umana, spiritual-divina. Al contrario
di quanto sostiene Freud, non è Dio a essere un sostituto del padre
biologico, a un certo punto del suo sviluppo e per far fronte a un
sentimento d'abbandono o di spoliazione (Hil/losigkeit), ma è piut-
tosto il padre biologico a essere un sostituto del padre spirituale, e
poi il padre spirituale a essere un sostituto del Padre divino, fino a
quando l'uomo avrà appreso, attraverso tutte queste tappe, a trova-
re il suo vero Padre, quello della sua vera natura e della sua vita
eterna, non già a scopo di rassicurarsi; ma per dare piena soddisfa-
zione al suo bisogno di essere amato e al suo bisogno d'amare, con
quella gratuità dell'amore autentico che Dio ci ha insegnato «aman-
doci per primo» (cfr. Prima lettera di Giovanni 4,10).

14. Pseudo-amore

Un'altra causa spirituale delle malattie psichiche che ha la sua


fonte nei parenti prossimi del malato (il padre e/o la madre), causa
di cui il malato non ha responsabilità alcuna ma di cui subisce gli
effetti patogeni, è quello che possiamo chiamare «pseudo-amore».
Non si tratta, come in precedenza, di un'assenza d'amore, ma di
un «amore» opprimente, soffocante, perché non rispetta la libertà
della persona su cui s'indirizza, ma «per il suo bene» vuole impor-
le la volontà di chi «ama>>.
Una forma d'amore di questo tipo è stata tirata in causa per
esempio nell'autismo e nella schizofrenìa33, con un'accentuazione
forse esagerata e che ha colpevolizzato in maniera sistematica e

33 In particolare da Bruno Bettelheim.

225
spesso ingiusta i genitori34. E tuttavia, spesso se ne può osservare
la presenza come fonte di varie psicosi e nevrosi. Come abbiamo
già fatto notare, molte malattie psichiche derivano da una carenza
affettiva, e anche questo pseudo-amore è da mettere tra le fonti di
carenza affettiva, dato che priva chi ne è oggetto d'un amore vero,
sostituendosi a esso.
In realtà, lo pseudo-amore è una forma d'una malattia spirihiale
di cui abbiamo già parlato a lungo, cioè l' a:inore egoistico di sé (la
philautia). In effetti, chi ama con questa forma d'amore non ama
l'altro per se stesso, rispettando pienamentè la sua differenza e la
sua liHertà, ma lo ama per sé, cioè alla luce della propria volontà e
dei propri desideri, senza far nessun conto dell'altro. Ma compor-
tandosi in questa maniera, egli soffoca l'altro, gli impedisce di es-
sere se stesso e d'agire di sua iniziativa; in qualche modo, trasfor-
ma l'altro in un oggetto. Così la malattia diventa ora un rifugio
(una «fortezza>>, per riprendere l'espressione di Bruno Bettelheim)
e ora una forma selvaggia di espressione di sé per vie devianti.
La terapeutica spirituale deve allora essere duplice. Per un verso
e nella misura del possibile, deve rivolgersi ali' ambiente della per-
sona, un ambiente che dovrà imparare a distinguere fra vero e fal-
so amore e imparare quindi ad amare veramente (si tratta, in con-
creto, d'apprendimento della carità, che è amore disinteressato
dell'altro per se stesso). Per altro verso, deve rivolgersi al malato
aiutandolo a riscoprire quell'amore che gli manca. Le considera-
zioni svolte nella sezione precedente potrebbero valere anche in
questo caso.

34 Tanto più che è probabile che l'autismo e la schizofrenìa abbiano, in un certo numero
di casi, delle cause organiche.

226
XI

1L RICORSO ALLA TERAPEUTICA SPIRITUALE


ESCLUDE JL RICORSO ALLA PSICOTERAPIA?

A conclusione di tutto e alla luce delle riflessioni fatte, vorrem-


mo ora fornire qualche elemento di risposta al problema di sapere
se la terapeutica spirituale e la psicoterapia si escludano a vicenda,
oppure se, al contrario, siano esse complementari.
Dobbiamo prima di tutto tenere ben presente che questi due ti-
pi d'intervento non hanno il medesimo oggetto né si propongono
il medesimo fine: la terapeutica spirituale vuole curare e guarire le
malattie spirituali; le psicoterapie vogliono curare e guarire le ma-
lattie psichiche.
E tuttavia, il problema dei reciproci rapporti continua lo stesso
a porsi, nella misura precisamente in cui - l'abbiamo fatto vedere
- la vita psichica è ampiamente collegata con la vita spirituale e un
gran numero di malattie psichiche è legato a malattie spirituali, e
ciò fa sì che la guarigione delle prime dipenda dalla guarigione
delle seconde.
Un padre spirituale vero, esperto, dotato di discernimento e ca-
rismatico è per principio in grado di curare con efficacia malattie
psichiche che hanno la loro origine in malattie spirituali curando
queste ultime.
Qualche altra osservazione dobbiamo nondimeno ancora farla.
1. La terapeutica delle malattie spirituali si propone di far per-
venire l'uomo alla sua sanità spirituale e alla salvezza!, e non può
quindi venire utilizzata come un semplice mezzo per trattare ma-
lattie psichiche.
2. La terapeutica delle malattie spirituali non si esaurisce nella
relazione con il padre spirituale, ma s'integra in tutto un contesto
di vita ascetica (nel senso ampio della parola) ed ecclesiale.

1 Sulle relazioni fra sanità spirituale e salvezza, si veda il nostro libro Le chrétien devant la
maladie, la sou/france et la mort, Paris, 2002, c. 15, «Salut et guérison>>, p. 249-278.

227
3. Quest'ultima osservazione implica poi ancora che, nel quadro
della vita spirituale, il malato debba collaborare alla propria guari-
gione, conducendo una vita ascetica ed ecclesiale e sforzandosi
d'applicare i consigli del suo padre spirituale.

La realtà delle cose induce comunque a fare qualche riserva su


questi principi, a proposito più precisamente del ruolo che la tera-
peutica spirituale e il padre spirituale possono avere nel trattamen-
to delle malattie psichiche.
1. I padri spirituali dotati di discernimento e carismatici - che
abbiano cioè tutte le qualità che abbiamo descritto nelle pagine
precedenti - sono ai giorni nostri molto rari. Ritenerli gli unici in
grado di curare le malattie psichiche equivarrebbe a ridurre le
possibilità effettive di cura e di guarigione.
2. Siccome la terapeutica spirituale suppone come sua condizio-
ne n:rinima la fede e, in più, l'attiva partecipazione del paziente alla
cura - il paziente infatti deve condurre un modo di vita spirituale
adeguato....:., questo trattamento non è applicabile, immediatamen-
te e de facto
a) ai malati non cristiani,
b) ai malati con turbe psichiche tanto gravi da impedir loro il
controllo dei propri comportamenti.
A mio avviso, queste riserve legittimano quindi il ricorso a psi-
coterapeuti (ricorso ugualmente legittimo, è evidente, per le turbe,
meno numerose, d'origine puramente psichica).
Ma anche il ricorso alla psicoterapia richiede, dal nostro punto
di vista, precise condizioni ed è caratterizzato da alcune limita-
zioni.
1. Va escluso il ricorso a quelle psicoterapie che abbiano fonda-
menti antropologici ed etici incompatibili con l'antropologia e l' e-
tica cristiane, a motivo dei loro contraccolpi negativi sul piano spi-
rituale.
2. È non soltanto auspicabile, ma anche necessario, che gli psi-
coterapeuti riconoscano l'implicazione di fattori spirituali nell'ori-
gine d'un gran numero di malattie psichiche.
3. La presa d'atto di quest'implicazione deve poi nutrire e orien-
tare la loro pratica, anche verso malati non cristiani o non credenti.
Gli psicoterapeuti hanno nondimeno il dovere di rispettare in
modo assoluto la libertà del malato.
Ma hanno anche il dovere di non nascondere al malato la di-

228
mensione spirituale delle loro turbe, quando capissero che quella
dimensione è in grado di spiegarle e può contribuire a guarirle.
4. Con malati cristiani, lo psicoterapeuta non deve trasformarsi
in terapeuta spirituale né confondere il suo ruolo con quello del
padre spirituale. Ma fino a un certo punto, può ispirarsi ai princìpi
della terapeutica spirituale e in ogni caso esercitare la sua profes-
sione in conformità con essi.
Deve essere in grado d'indirizzare a un padre spirituale qualifi-
cato quei malati il cui stato può essere migliorato dalla terapeutica
spirituale e che sono disposti a impegnarvisi.

229
INDICE

Premessa pag. 5
Fonti » 9

I. MALATTIE PSICHICHE E MALATTIE SPIRITIJALI » 11


1. Le malattie psichiche sono distinte dalle malattie
spirituali, né più né meno che le malattie spirituali
sono distinte da quelle psichiche » 11
2. Un certo numero di malattie psichiche
è direttamente collegato a malattie spirituali,
né più né meno che un certo numero di malattie
psichiche è collegato a malattie corporàli » 12
3. Malattia e colpa » 16
4. La terapeutica spirituale non va assimilata
a una terapeutica psichica » 17

II. I GRANDI PRINCÌPI


DELL'ANTROPOLOGIA CRISTIANA » 19

III. IL PROBLEMA DELLA COMPATIBILITÀ


DEI FONDAMENTI ANTROPOLOGICI:
L'ESEMPIO DELLA PSICANALISI FREUDIANA » 29
1. Introduzione » 29
2. Elementi di analogia » 31
3. Differenze » 33
4. Conclusione » 41

N. IL PROBLEMA DELLA COMPATIBILITÀ


DEI FONDAMENTI TEOLOGICI ED ETICI:
L'ESEMPIO DELLA PSICOLOGIA
ANALITICA DI JUNG » 43

231
1. Introduzione pag. 43
2. Punti di convergenza » 44
3. Punti di divergenza » 46
a. Il relativismo religioso di]ung » 47
b. Lo psicologismo di Jung » 54
c. La teologia junghiana » 62
1) Dalla Trinità alla Quaternità » 62
2) L'unione del bene e del male in Dio » 65
3) Il Cristo » 67,
4) Lo Spirito Santo » 70
d. I:antropologia junghiana » 70
1) L'immagine di Dio » 70
2) Il Sé » 72
3) L'ombra » 74
e. I:etica junghiana » 75
1) Relatività della morale » 75
2) Relatività del bene e del male » 75
3) Positività del male » 76
4) L'integrazione del male come condizione
della buona salute e dell'accesso alla pienezza » 77
f La teoria degli archètipi » 79
g. Conseguenze sulla psicoterapia » 81
1) La.diagnosi fondamentale delle turbe
psichiche: il conflitto interno » 81
2) Il principio di base della terapeutica:
la riconciliazione » 81
3) Attuazione della terapeutica: l'apertura
controllata all'inconscio collettivo » 83
4) La fiducia nella natura e nell'inconscio » 84
5) L'assenza d'una precisa concezione
della malattia e della salute » 85
h. Riserve supplementari sulla teoria junghiana » 87
1) La confusione fra divino e umano, naturale
e soprannaturale, spirituale e psichico » 88
2) L'assenza di relazione con un Dio trascendente » 89
3) L'assenza di relazione con un Dio personale » 90
4) Il ruolo secondario della relazione con l'altro » 90
5) Il rifiuto dell'ascesi cristiana » 91
6) I rischi d'illusione » 92

232
V UNA DIVERSA CONCEZIONE
DELL'INCONSCIO: L'INCONSCIO SPIRIWALE pag. 93
L La nozione d'inconscio spirituale » ·. 93
2. Le due dimensioni fondamentali
dell'inconscio spirituale » 96

VI. L'INCONSCIO «TEÒFILO» » 99


1. Il <<l6gos» della natura » 99
2. L'immagine divina nell'uomo » 108
3. La tendenza della natura al suo compimento
nel Cristo, ovvero <<l'anima per natura cristiana>> » 114
4. La grazia » 117
5. La rimozione dell'inconscio «teòfilo» » 119

VII. L'INCONSCIO <<DEÌF'UGO» » 125

VIII. L'INCONSCIO SPIRIWALE


E LA TERAPEUTICA » 135
1. L'inconscio spirituale e la patologia » 135
2. L'inconscio spirituale e la terapeutica » 137

IX. DUE PRATICHE TERAPEUTICHE CRISTIANE:


LA CONFESSIONE E LA MANJFESTAZIONE
DEI PENSIERI » 141
1. La, confessione » 141
2. La manifestazione dei pensieri, o direzione spirituale » 148
3. Analogie e differenze dalla psicanalisi » 155
a. Analogie » 155
b. Differenze » 157
4. Conclusione » 165

X. LE RADICI SPIRIWALI
DELLE MALATTIE PSICHICHE » 167
1. Falso senso di colpa » 167
2. Falso timore e falsa inquietudine » 169
3. Assolutizzazione del relativo » 175
4. Pseudo-rituali » 176
5. Aggressività perversa » 179
6. Perversi orientamenti del desiderio » 181
7. Sopravvalutazione dell'io » 187

233
8. Svalutazione patologica dell'io pag. 203
9. Relazione patologica con il corpo » 206
10. Perturbazioni nella relazione con gli altri » 207
11. La tristezza e l'accidia (o «noia>>) » 212
12. Falsa rappresentazione della realtà » 221
13. Mancanza d'amore » 223
14. Pseudo-amore » 225

XI. lL RICORSO ALLA TERAPEUTICA


SPIRITUALE ESCLUDE lL RICORSO
ALLA PSICbTERAPIA? » 227

234

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