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André Stern
Mamma
La mamma è nata nel 1939 a Guelma, in Algeria. Si chiama Michèle ed è la
secondogenita di Simone e François Arella, una coppia brillante. Entrambi
nati nell’Africa del Nord: François a Guelma, e Simone, che di cognome fa
Girard, in Tunisia. Il padre di François aveva lasciato la sua Italia natale per
recarsi in Algeria a costruirsi una vita, oltre che strade e ponti. I suoi
numerosi figli nascono tutti nella grande villa da lui eretta in stile italiano. È
una famiglia di grandi lavoratori, avviano aziende fiorenti, innovano a tutto
spiano e s’intendono a meraviglia con la gente del posto, quelli che, come
loro, sono nati laggiù ma che, a differenza loro, vantano radici più antiche.
François sa fare quasi tutto, è elegante, lavora molto. Quando incontra la
meravigliosa Simone, il colpo di fulmine è reciproco. Si sposano.
I genitori di Simone fanno parte dei primissimi coloni francesi nati
nell’Africa del Nord. Proseguono la vocazione delle rispettive famiglie:
sono agricoltori. Simone è una donna del suo tempo, realizzata, colta,
sensibile alle arti, elegante e riservata. Manda avanti la famiglia con
maestria, saggezza e generosità.
Michèle cresce, con il fratello maggiore Pierre e la sorellina Nicole, nella
grande casa di cui ama anche l’angolo più nascosto. Cullata dal calore
dell’Algeria, nel cuore di una natura esuberante, in mezzo agli aranceti e ai
fichi, all’ombra dei capannoni rosa, beige, larghi e tranquilli, con le loro
sontuose proporzioni, e la luce dell’Africa che vi penetra di lato. Sia a
Guelma sia – altra meraviglia – nella fattoria dei nonni materni, a Sedrata,
fin dalla più tenera età si rende conto di vivere in paradiso. È circondata di
amore e serenità. Passano gli anni. Michèle è triste perché il liceo la
allontana dal suo eden, ma è una ragazza studiosa. Dopo aver superato
l’esame di maturità deve andarsene da lì, lasciare la sua amata terra e
proseguire gli studi di lettere alla Sorbona.
Tuttavia, di fronte alla preoccupante piega degli eventi in Algeria, Michèle
interrompe gli studi e torna dalla sua famiglia. C’è tanta incertezza, la gente
è con le spalle al muro, il corpo docente è privo di effettivi: Michèle
comincia a insegnare in un corso complementare. Poco dopo diventa
maestra di ruolo, ma deve lasciare d’urgenza la sua terra natale assieme alla
famiglia, abbandonare tutto ciò che aveva reso felice la sua infanzia.
È l’ora del ‘rimpatrio’. La famiglia Arella, sradicata, sfaldata, trova rifugio
a Vichy, da uno zio. Nei mesi successivi, per sopravvivere, i genitori di
Michèle vanno a vivere a Camarès, dove, con il figlio, aprono un’azienda
agricola. Poi, da anziani, si ritirano in una casa soleggiata a Lézan, nel
Gard. Michèle, dipendente statale, nubile, riceve l’ordine tassativo di
trasferirsi nella regione parigina dove deve trovare un lavoro di suo
gradimento. Per lei, che in realtà non si sente portata per l’insegnamento, è
particolarmente doloroso ritrovarsi senza alloggio e lontana dalla famiglia.
Ma, in compenso, ha l’opportunità di scegliere un lavoro che la convince:
seguire bambini molto piccoli in una scuola materna di Asnières.
Michèle attraversa un periodo buio, la sua vita è a pezzi, non ha ricevuto
alcuna formazione per quell’incarico che, tuttavia, desidera svolgere.
Riceve un’infinità di consigli, ma si rende conto che non corrispondono per
niente alla realtà dei bambini. Il disegno, soprattutto, la rende infelice: le
viene chiesto di realizzare, con i piccoli, degli esercizi grafici che le
sembrano del tutto assurdi.
Così decide di manifestare il suo grande smarrimento e il desiderio di
capire “cosa sia necessario fare in quel campo” all’ispettrice scolastica, che
la manda a documentarsi in una biblioteca pedagogica. La bibliotecaria è
categorica, c’è un solo autore da leggere sull’argomento: Arno Stern.
Michèle esce da lì con tutti i suoi libri. Stern è una rivelazione, una manna,
un sollievo. Ciò che lei sperava con tutto il cuore lo trova in quelle pagine.
Per un anno legge e rilegge quei libri, che le cambiano completamente la
vita e il metodo di lavoro.
Un giorno, quasi per caso, passa davanti a una galleria in cui scorge
dipinti fatti da bambini. Le basta spingere la porta per capire che è entrata
nell’Académie du jeudi, e che l’uomo di fronte a lei è Arno Stern.
La dinanderie
Avevo manifestato interesse per la lavorazione del metallo. Così i miei
genitori – appassionati di ceramica e di dinanderie – avevano cercato con
discrezione degli atelier, contattato degli artigiani e infine conosciuto Guy.
Guy era un dinandier e, in un primo tempo riluttante all’idea di accogliere
un bambino, si dimostrò poi pronto a iniziarmi alla sua arte senza applicare
metodi scolastici.
La dinanderie, arte di lavorare il metallo battendolo senza saldarlo, è una
tradizione che rischia di estinguersi. I suoi rari rappresentanti devono molto
spesso, come Guy, accontentarsi di dare corsi a pensionati a corto di hobby,
di certo entusiasti e liberi ma senza ambizioni, senza desiderio
d’investimento né di conoscenze oltre a quelle necessarie per la
realizzazione di alcuni oggetti. Guy si addormentava durante i metodici
corsi dell’Adac.[3] Dopo il mio arrivo, la mia freschezza di bambino e la
mia idea adulta di farne un mestiere gli portarono una ventata di rinascita.
Fin dalla prima ora, tra noi si creò un’improvvisa alchimia. Dimenticando i
suoi preconcetti, scongiurò mia madre di riaccompagnarmi la settimana
successiva ad ogni costo. Ravvivato da quel nuovo ruolo di maestro, provò
una gioia immensa nell’offrirmi quel mestiere in tutti i suoi aspetti. E io,
trasformato in spugna, divenni insaziabile. Oltre alle sei ore settimanali di
lezione (dovevo andarci solo il giovedì, ma mi faceva frequentare entrambi
i suoi corsi), leggevo tutto ciò che trovavamo sull’argomento, su cos’era ma
anche su ‘cosa non era’ la dinanderie. Ero un gran purista e scrivevo veri e
propri pamphlet contro gli artisti calderai che si autoproclamavano
dinandiers.
All’epoca, riportavo sempre i miei entusiasmi in un libretto o in un
diario… In questo caso si trattò di un ‘quaderno di riflessioni’ intitolato La
Dinanderie – ou comment sublimer le métal (La dinanderie, o come
sublimare il metallo). Ci avevo messo parecchie ore per redigere i testi e poi
scriverli in bella calligrafia. Avevo realizzato delle illustrazioni in bianco e
nero che poi coloravo con i pennarelli grossi dopo averle fotocopiate in
blocco. Dedicavo parecchie ore alla ricerca di negozi in cui poter fare
queste fotocopie a prezzi vantaggiosi, e poi a rilegare e a colorare quel
libretto che i miei genitori prendevano sul serio quasi quanto me, al punto
da lasciarmelo esporre in vetrina in mezzo a tutti gli altri libri che vendeva
mio padre. Preparai un modulo di sottoscrizione, vendetti un certo numero
di copie, alcune le spedii. Ricordo un aneddoto interessante: spesso, la
mamma mi segnalava che nei miei testi mancavano gli accenti e la
punteggiatura. Restavo visibilmente ermetico di fronte a quelle
osservazioni, che mi lasciavano del tutto indifferente, anche se lei me le
faceva senza insistenza e fiduciosa che sarebbe arrivato il momento in cui
avrei messo accenti e virgole. Un giorno, durante le lunghe estati che
trascorrevamo a Lézan dai miei nonni, il nostro amico apicoltore (che
alcuni anni prima avevo osservato mentre faceva scivolare a mani nude uno
sciame di api selvatiche in un alveare) cominciò a leggere ad alta voce il
mio quaderno di riflessioni sulla dinanderie. Era davvero interessato e, alla
fine della lettura, alla quale assistetti senza perdere una parola, disse: “È
molto bello questo libro, molto interessante. Manca solo qualche accento e
qualche virgola…”. Da quel giorno nei miei scritti non sono più mancati né
accenti né punteggiatura… Era scattato qualcosa.
1 Con questo termine, che significa ‘luogo protetto’, Arno Stern ha battezzato il suo laboratorio di
pittura per bambini, una stanza dove esprimere liberamente la propria personalità attraverso i colori
[n.d.t.].
2 Vocabolo comparso nel quattordicesimo secolo per indicare la lavorazione di utensili di rame e altri
metalli fabbricati nella città di Dinant, in Belgio [n.d.t.].
La danza
La danza ha sempre fatto parte della mia vita. Papà era molto legato a
Jerome Andrews, il capofila della deep dance in Francia. Ballerino di
origine americana, allievo di Mary Wigman, Martha Graham e Joseph
Hubertus Pilates, era tra i personaggi implicitamente presenti nella mia vita.
Veniva spesso a casa nostra, stavo seduto sulle sue ginocchia, divertito dal
suo accento, i suoi modi e il suo profumo. Sapevo che era un ballerino e, in
maniera quasi implicita – a malapena camminavo –, già conoscevo la
danza. Jerome non insegnava ai bambini. Mia zia Nicole faceva lezione con
lui; la mamma ci andava qualche volta e io l’accompagnavo come
spettatore silenzioso, seduto tra i tessuti accanto a Delphine che era abituata
a questa situazione: lei ci veniva spesso, e Jerome, che le voleva tanto bene,
la faceva stare lì e le chiedeva il silenzio assoluto.
Ma danzare, molto liberamente, soli o insieme, nella grande stanza del
nostro appartamento sgomberata per questo scopo, faceva parte dei nostri
giochi ordinari.
Ogni tanto andavamo a vedere uno spettacolo di danza con papà e
mamma.
Un giorno, Jerome chiamò papà per comunicargli che una delle sue
allieve, Carole, avrebbe aperto una scuola di ballo per bambini a Parigi. È
così che abbiamo cominciato con la danza, io e Delphine, e poco tempo
dopo le nostre due sorelline. Da quel primo giorno, che ricordo molto bene,
ho fatto almeno una lezione a settimana. Con Carole, durante l’infanzia; poi
con Jocelyne e, in seguito e per parecchi anni, con Delphine. E adesso con
Éléonore. Alcuni stage con altri ballerini mi hanno aperto orizzonti diversi.
La fotografia
Mi piaceva il lunedì, giorno dedicato alla fotografia.
Fin dalla prima infanzia ho visto papà scattarci delle foto.
Ne ha fatte a migliaia… La fotografia faceva parte della mia vita in modo
naturale, senza averci mai dedicato una particolare attenzione. Mi capitava
di prendere la macchina fotografica di papà e di premere il pulsante di
scatto, tutto sommato senza grandi risultati. Un giorno, avevo forse dieci
anni, ci sono arrivati dei libri grandi e belli, una quindicina di copie:
Prestige de la photographie. Papà e mamma andavano dai loro fornitori più
volte alla settimana. Beneficiavano di condizioni vantaggiose, anche sui
libri scontati. Non cercavano testi particolari; li trovavano lì e acquistavano
quelli che corrispondevano alle loro esigenze: libri belli, ben stampati e ben
rilegati, completi, appassionanti, specializzati, che andavano a fondo nelle
cose; libri tecnici, allettanti anche se a volte incomprensibili per i non
professionisti come noi; mai libri scolastici. Questo incredibile raccolto
avviene tuttora. Non ha mai smesso, nemmeno nei nostri frequenti periodi
di carestia. I libri arrivavano in quantità regolari. Li passavo in rassegna;
alcuni m’interessavano fin dall’inizio, altri no. Ci sono ritornato più tardi.
Oppure no. Ho trovato in essi la risposta alla maggior parte delle domande
che mi sono fatto. Éléonore, mia sorella, attingeva da questa manna a modo
suo, diverso dal mio, poiché i suoi interessi erano altri (oppure sfasati,
anteriori o posteriori, ma a volte anche concomitanti). Le collezioni di
Prestige de la photographie (edizioni Epa) e Time Life photographie fanno
parte di quei libri che mi hanno colpito al primo istante. Ho aperto la prima
pagina del primo volume e ho ripreso fiato solo all’ultima pagina
dell’ultimo volume. C’era tutto in quelle opere meravigliose. La storia della
fotografia, dagli inizi di Niépce fino agli ultimi progressi dell’epoca. Le
biografie di tutti i protagonisti. La storia di tutte le marche, di tutti gli
apparecchi, di tutti i procedimenti. C’erano le spiegazioni complete di tutti i
fenomeni, di tutti i processi, di tutto ciò che avviene, che si fa e che succede
dalla preparazione della pellicola all’asciugatura della stampa finale. Tutte
le tecniche di inquadratura, quelle di laboratorio, le alterazioni, le correzioni
e persino i processi di restauro, dal dagherrotipo al microfilm.
Le tecniche d’illuminazione, di sfondo, di flash, e i relativi calcoli e leggi
ottiche. Visite approfondite negli uffici di studio, fabbricazione ed
esposizione degli obiettivi, interviste ai grandi fotografi e reportage durante
il loro lavoro. Proprio tutto. Mi sono impregnato di ogni parola. Ho dovuto
leggere e rileggere alcuni passaggi tecnici molto complessi. Ma tutti quei
procedimenti sono così logici…
Nel frattempo mi creavo una strategia per raffinare il materiale grezzo dei
libri. Imparavo a imparare utilizzando cose il cui scopo non era per niente
didattico. Di un buon libro si mangia tutto, basta cucinare ogni pezzetto in
modo adeguato. Ho imparato così a trarre da qualunque supporto – che sia
minimamente serio – le informazioni di cui ho bisogno. Questo metodo,
valido solo per me, mi è utile ogni giorno.
Riconoscevo qualsiasi apparecchio con una sola occhiata. La Leica mi
appassionava in modo particolare. Avevo riletto più volte il capitolo
dedicato alla sua storia, avevo divorato ogni linea, ogni data, ogni
immagine. Ero capace di disegnare la mia preferita, la Leica IIIc, a occhi
chiusi, fino all’ultima vite (poiché è proprio dalle viti che si può distinguere
una copia dall’originale!).
Papà e mamma mi portarono al museo della fotografia a Bièvres. Non
scoprii quasi nulla di nuovo, ma potei vedere dal vivo tutti gli apparecchi
che avevo studiato a memoria. Era entusiasmante. Passavo da una vetrina
all’altra, divorandomeli in silenzio. Papà, mamma e Éléonore mi
accompagnavano pazienti, pur provando un interesse limitato per queste
sorprendenti cianfrusaglie (il museo di Bièvres esponeva soprattutto un
inimmaginabile cumulo di apparecchi in vetrine sovraccariche e polverose:
era proprio quello che mi ci voleva!).
Cominciai a fare schizzi, schemi e progetti. Feci dei buchini minuscoli
nelle scatole di accendini e utilizzai del nastro adesivo trasparente come
vetro smerigliato. Poi affinai l’esperimento e misi una lente dietro al buco.
Con due tubi telescopici in cartone, feci il mio primo obiettivo e
sperimentai la focale e la messa a fuoco. Passo dopo passo, applicai tutte le
teorie che avevo divorato. Servendomi di un nastro cartonato con fessura
che scorreva in una scatola perforata, costruii il mio primo otturatore a
ghigliottina. Poi montai tutti questi elementi un po’ disparati e improvvisai
la mia prima macchina fotografica in cartone, Lego e legno… Faticai per
dare a quest’apparecchio un’impermeabilità impeccabile. Di strato in strato,
divenne più grosso. Inserirvi una pellicola diventava un’impresa
complicata, dal momento che bisognava smontare tutto. Inoltre, lo
scorrimento della pellicola non funzionava molto bene, perché la sigillatura
la stringeva troppo.
Ci misi una pellicola vergine e realizzai, alla bell’e meglio, trentasei scatti.
Ma le foto, sviluppate dal fotografo dietro Saint-Sulpice (come mi
sembrava lunga la strada!), risultarono inutilizzabili, una specie di
minestrone grigio e sfocato. Analizzai il problema e riflettei sulle cause del
fallimento. Nessuno intorno a me avrebbe saputo aiutarmi; ed esplorare
tutto questo da solo m’interessava molto più che seguire il parere di uno
specialista. Capii che i miei calcoli si erano rivelati sbagliati a causa di vari
parametri e soprattutto per l’imprecisione dei materiali. Ripartii quindi da
zero, e ridisegnai ogni pezzo del nuovo apparecchio che realizzai in legno.
Contemporaneamente disegnai i progetti di un’invenzione che trovo
pertinente ancora oggi: preoccupato di semplificare il complesso
movimento dello specchio e dell’otturatore di un apparecchio reflex,
immaginai una pellicola speciale che alternava superficie sensibile e
pellicola trasparente. Nella mia Stand directmatic bisognava guardare nel
mirino attraverso la parte trasparente, chiudere l’otturatore, spostare la
pellicola per posizionare la superficie sensibile, aprire l’otturatore,
richiuderlo e risistemare la pellicola… Era abbastanza convincente, ma alla
fine capii che, come per il motore Wankel messo a confronto con il motore
a pistoni e con l’albero a gomiti, alcune semplificazioni provocano più
danni che miglioramenti…
Il mio apparecchio di legno, con l’obiettivo costituito dal tubo nero della
scatola di una pellicola il cui scorrimento era garantito dal cuore di una
bobina smontata, alla fine funzionò quel tanto da permettere di fare alcune
inquadrature riconoscibili.
Soddisfatto, non andai più alla ricerca di altro, poiché per fare delle foto
ebbi il permesso di utilizzare l’apparecchio di papà. Constatando la mia
abilità in questo campo, mi prestò con la massima fiducia la preziosa Pentax
con la quale ha fatto il giro del mondo.
Mentre costruivo il secondo apparecchio, la mamma, senza dirmi niente,
aveva sfogliato il catalogo dell’Adac e si era recata in alcuni atelier per
incontrare i professori di fotografia. Guilaine le piacque, e questa
sensazione fu reciproca.
Un lunedì, dopo la nostra gita settimanale in campagna – durante la quale
feci la mia prima intera pellicola, in bianco e nero, con l’apparecchio di
papà (ricordo ancora quegli scatti davanti alla nostra vecchia Simca) –, mi
lasciarono al corso di fotografia che Guilaine teneva negli scantinati del
Centro André Malraux. Era una giovane donna molto moderna e molto
dinamica. Cambiava la pettinatura tutte le settimane e gli accostamenti dei
colori più stravaganti le stavano a meraviglia. Vera artista, aveva sviluppato
– oltre alla sua arte – un aspetto, uno stile, una calligrafia, un’ortografia del
suo nome e un’arte del saper vivere personali, gioiosi e diretti. Aveva fatto
colpo su quel ragazzino appassionato che aveva preso sotto la sua ala.
Credo che furono proprio la mia costanza e la mia vivacità a farmi
conquistare la sua amicizia che dura ancora oggi.
Ci intendemmo a meraviglia. Come Guy, anche Guilaine non ha mai
cercato di applicare nei miei confronti nessun tipo di metodo scolastico (il
che corrispondeva comunque alla sua etica) e, come lui, non mi ha mai
trattato come un bambino. Lei resta uno dei tre grandi ‘maestri’ della mia
vita.
Il tirocinio con lei si concentrò sul lavoro in laboratorio (in materia tecnica
avevo davvero imparato tutto dall’Encyclopédie Time Life de la
photographie, in cui ogni cosa era spiegata in modo chiaro ma senza
smancerie, con alcune metafore sorprendenti). Per tre anni, mi mise a
disposizione le sue conoscenze, ma non me le impose mai. Spesso, si
accontentava di offrirmi l’infrastruttura necessaria. Di tanto in tanto,
quando me ne stavo troppo a lungo senza uscire, Guilaine – che se ne stava
nella stanza accanto costantemente ricercata dagli altri allievi – passava
dalla camera stagna che portava al laboratorio per dare un’occhiata al mio
lavoro. Adoravo questi momenti. “Volevo vedere come va”, diceva con
voce viva varcando la seconda porta, dopo aver bussato tre volte come
stabilito. Guardava le mie regolazioni, ispezionava le mie stampe nei bagni
o nei contenitori di risciacquo, diceva “molto bene”, faceva un rapido giro
degli altri allievi e se ne andava.
Dopo tre anni, mi sostenne nel progetto di aprire un mio laboratorio,
ritenendo che era diventato inutile continuare a pagare corsi, giacché ormai
non facevo altro che utilizzare i locali.
Nella mia vita, quando prendo una decisione importante si mette sempre
in moto uno strano processo. Il che, fino a oggi, mi ha spesso consentito di
raggiungere i miei obiettivi, lentamente ma inesorabilmente, talvolta a mia
insaputa, come se all’improvviso tutto l’universo cospirasse e mi mettesse
di fronte al fatto compiuto. Questa volta fu il fratello filantropo di un amico
che mi regalò il suo vecchio Rohen, un proiettore meraviglioso. Dopo varie
ricerche, papà mi accompagnò in macchina alla casa madre, sperduta nella
banlieue parigina, per recuperare un pezzo che mi mancava. Il processo si
era innescato… Pensai a come sistemare il nostro guardaroba e trovai
alcune soluzioni che convinsero la mia famiglia. Feci tagliare un’asse e
inventai un modo di collocarla per ottenere una superficie di lavoro ad hoc.
Impiegai delle ore per dipingere tutto e per impermeabilizzare la stanzina.
Feci un giro nei negozi del boulevard Beaumarchais e acquistai, a uno a
uno, gli elementi che mi servivano. Ero molto esigente sulla qualità e i
prezzi; i venditori, vedendo che sapevo quel che volevo e vedendo quel che
volevo, mi prendevano sul serio e, spesso, mi proponevano il materiale un
po’ specializzato, un po’ ‘particolare’, che conservavano nel retrobottega
per gli intenditori. In poco tempo raccolsi tutto il materiale e il mio
laboratorio divenne funzionale. Pur non essendo più iscritto ai corsi,
passavo spesso a trovare Guilaine per mostrarle il risultato del mio lavoro
solitario. Lei dimostrava davvero molto interesse e mi diede ancora tanti
preziosi consigli. Passavo parecchie ore tra quegli odori caratteristici, i
rumori liquidi, i momenti di suspense e di solitudine a cui questo lavoro
offre un terreno propizio. Da allora, alcuni amici fotografi hanno molto
spesso utilizzato le mie attrezzature. Ma devo confessare una cosa:
nonostante le numerose ore magiche passate nella luce inattinica dei
laboratori, nonostante la felicità nel vedere una foto uscire dal nulla… alla
fine il lavoro in laboratorio cominciò a sembrarmi un po’ fastidioso, e solo
grazie alla fotografia digitale riuscii a ritrovare il mio entusiasmo e tutta la
mia creatività.
Nella fotografia digitale, il passaggio al laboratorio è sostituito
dall’informatica, il che mi riporta al centro di uno dei miei settori quotidiani
favoriti, e le conoscenze acquisite grazie a Guilaine acquistano tutto il loro
valore.
Non posso concludere senza parlare di Delphine. Per i suoi vent’anni – ne
avevo quattro di meno – Nicole, mia zia, decise di regalarle una macchina
fotografica. A tal proposito, chiese la mia consulenza e l’accompagnai al
reparto di occasioni della Fnac. Trovai una buona offerta, una Olympus
molto semplice, un classico che mia cugina non ha mai smesso di utilizzare
assieme alla sua Leica. Poco tempo dopo, il giorno del suo compleanno, io
e Delphine facemmo un giro di mezz’ora in autobus. Aveva appena ricevuto
la sua macchina fotografica e ne andavamo entrambi molto fieri…
Appassionata di fotografia (condividevamo alcune letture, visto che l’arrivo
dei libri interessava anche lei), non se ne intendeva ancora molto dal punto
di vista tecnico. Durante quel tragitto di mezz’ora, le spiegai tutto in blocco:
i procedimenti, le regolazioni e le rispettive implicazioni, senza eccezione.
Pensavo così di darle un’idea generale sull’argomento per poi esporre ogni
punto nel dettaglio. Ma ecco che apparve chiaro un concetto: una persona
che non soffre di blocchi si trasforma naturalmente in una spugna quando
incontra informazioni legate – da vicino o da lontano – a ciò che la
appassiona. Tuttora mi stupisce non aver mai dovuto rispiegare nulla a
Delphine: aveva ingoiato quella valanga di nozioni in un colpo solo!
Divenne una fotografa tenera e intrepida, che fa mostre e vende le sue foto.
Ore improvvisate…
Letteratura
Tutto cominciò con la contessa di Ségur. La mamma mi aveva letto ad alta
voce Le memorie di un asino (a casa nostra si legge spesso ad alta voce…).
Dopo di che, lessi l’opera completa, con un certo disordine, aspettando
con impazienza di ricevere quei volumi dalla rilegatura color magenta.
Terminata la prima lettura (leggevo ancora abbastanza lentamente), mi
lanciai in una seconda lettura, cronologica. Ne feci una terza, per leggere
tutti i volumi collegati tra loro. In seguito lessi due biografie della contessa
di Ségur. Poi, sempre rovistando in quel campo, lessi i libri, eccellenti, di
suo figlio.
La lettura, in questa fase, lasciava ancora molto spazio alle altre
occupazioni. Tutto cambiò quando incontrai Balzac. Il ‘metodo’ era simile,
ma leggevo più di sei ore al giorno.
Un mattino – avevo circa quindici anni – papà, sistemando dei libri, aprì
un volumetto antico, beige e odoroso.
Le locomotive
Un giorno, Bertrand, il mio fratellastro maggiore, mi portò al Centro
Pompidou a vedere una mostra sui treni. Fu entusiasmante entrare in
quell’edificio di cui conoscevo solo l’aspetto esterno e constatare che, una
volta varcata la facciata e il suo groviglio di tubi, ci si ritrovava in spazi
espositivi ‘normali’. Era un’esposizione immensa, composta da grandi
circuiti di treni elettrici in miniatura che circolavano attraverso paesaggi
impressionanti, pezzi di locomotive, illustrazioni, ricostruzioni, filmati di
ogni genere.
Ci trascorremmo la giornata, e fu così che nacque la prima delle grandi
passioni della mia infanzia: quella per le locomotive a vapore.
Qualche tempo dopo questa visita, Bertrand e mio padre mi regalarono
degli elementi di un treno elettrico di alta qualità che Bertrand aveva
portato dalla Germania. Il numero di rotaie era limitato e c’erano solo tre
vagoni, ma non aveva molta importanza. Ero impegnato a guardare
l’aspetto e il funzionamento della mia locomotiva con tender, a esaminare
nel dettaglio il movimento delle sue bielle e pistoni che sapevo procedere
all’inverso su quel giocattolo (la rotazione delle ruote attivava il movimento
delle bielle e non viceversa), giacché il nonno, su mia richiesta, mi aveva
spiegato il funzionamento di una locomotiva a vapore. Giocando, imparai
quasi per caso a dominare le polarità della corrente continua; sperimentavo
come far scendere le barriere al passaggio del treno o come arrestarlo una
volta raggiunto il segnale tramite la manipolazione del + e del – e l’apertura
o la chiusura di un circuito.
Imparai il funzionamento di un elettromagnete dopo aver osato smontare
la carrozzeria della mia locomotiva. Desideroso di verificare le conclusioni
che ne traevo senza smontare la mia bella macchina, misi insieme alcune
informazioni prese da mio nonno e da mio zio Jean; poi, dopo aver trovato
un pezzo di metallo ‘bianco’, lo avvolsi con la plastica e infine con il filo di
rame. L’esperimento fallì la prima volta, e capii ben presto perché. Passai
quindi dello smalto sul filo di rame per isolarlo, e lo arrotolai a regola d’arte
attorno al pezzo di metallo: questa volta il mio elettromagnete funzionò alla
perfezione. Con il tempo acquistai una seconda locomotiva, vari segnali,
alcuni scambi telecomandati; ma il mio gioco preferito, oltre a smontare,
pulire e lubrificare le mie macchine, era posare la testa sul pavimento e
veder passare le mie locomotive. Spegnevo spesso la luce, chiudevo le
imposte per creare il buio – appena rischiarato dalla luce verde del mio
semaforo – nel quale si avvicinavano lentamente i tre fari luminosi della
locomotiva; poi, dopo che mi avevano superato (con un rumore che
avvertivo altisonante), guardavo allontanarsi il gagliardetto rosso
dell’ultimo vagone. Ci tenevo, a questo vagone, come pure
all’illuminazione interna delle altre carrozze che installai io stesso per
vivere e rivivere quel momento che mi emozionava in modo particolare.
Costruii parecchie locomotive di carta e poi di cartone, e m’impegnai ad
arrotolare meticolosamente quelli che sarebbero diventati caldaia e tubi.
Oppure ad appiattire alcune punte di una placca di cartone ondulato per
formare le rotaie. In seguito iniziai a rivoltare, martellare e lisciare con cura
alcuni tubetti di dentifricio (in metallo, all’epoca) per poi tagliarli, piegarli e
montarli con pazienza per ottenere una locomotiva ‘tutto metallo’ della
quale andai particolarmente fiero.
Parecchi libri sulle locomotive cominciarono a entrare in casa nostra.
Accompagnai Delphine nella biblioteca Forney, dove consultai
un’incredibile quantità di testi specializzati e fotocopiai innumerevoli
pagine illustrate.
Imparavo le date, i sistemi (ah, i grandi nomi come Compound o Mallet!),
le evoluzioni, la storia (da George Stephenson fino alle prime motrici
elettriche), le linee, gli aneddoti, i grandi cantieri. Seguii le mie locomotive
attraverso la Francia e agli estremi confini del Far West, incontrando – nel
susseguirsi delle pagine appassionanti illustrate da foto d’archivio – grandi
momenti della storia. Le locomotive, che disegnavo e dipingevo a volontà,
mi trasportarono al loro seguito verso numerose opere della grande
letteratura, tra cui l’irrinunciabile La bestia umana di Zola, dove ritrovai,
con le lacrime agli occhi, la ‘mia’ scena dell’avvicinamento dei tre fuochi
bianchi nella notte…
Le automobili
Non so dire di preciso cosa innescò la mia prima ondata di interesse per le
macchine. Forse un catalogo generale Renault, che osservavo pagina per
pagina da piccolissimo. Mi ricordo di un’attività cui mi dedicavo per ore e
ore: al calar della notte salivo sul termosifone e, appollaiato sull’altana,
guardavo dalla finestra del primo piano le auto passare in rue de Grenelle.
Le guardavo arrivare, osservandone la parte anteriore con i fari accesi, poi il
padiglione mentre mi passavano davanti e, infine, mentre si allontanavano,
la coda e le luci posteriori, di cui m’interessavano molto la forma e la
ripartizione. Apprezzavo, per esempio, l’esistenza di uno ‘scomparto’ per
ogni colore e funzione: uno arancione per i lampeggianti, uno rosso per le
luci di posizione, un altro rosso per le luci dei freni, uno bianco per i fari di
retromarcia. Non mi piacevano le ripartizioni in cui le luci di posizione e
quelle dei freni condividevano un unico ‘scomparto’. In particolare, mi
piaceva l’incastro geometrico molto riuscito delle luci posteriori della
Peugeot 504…
Sorprendenti e sincere preoccupazioni d’infanzia! Nessuno si impicciò,
nessuno le commentò, nessuno pensò di interrompermi, di venire a
disturbarmi nel mio osservatorio o di incitarmi a lasciarlo a beneficio di
altre attività ‘più costruttive’… Dall’alto del mio termosifone, solitario e
concentrato, imparai ben presto a differenziare tutte le automobili, a
distinguere non solo le marche e i modelli, ma anche la somiglianza tra i
vari modelli della stessa marca. Imparai, con la semplice osservazione, ciò
che distingue una station wagon da un coupé, una berlina da un cabriolet.
Ben presto seppi riconoscere tutte le macchine. Il mio gioco preferito era
identificarle dal rumore o dalla forma dei loro fari accesi. Molto spesso ero
in grado di individuare in un batter d’occhio la versione (base, lusso, sport)
del modello in questione sulla base di vari dettagli caratteristici (i doppi fari
rotondi per una certa finitura sportiva, i lampeggianti anteriori bianchi per
una Simca modello base, i fari tondi o quadrati secondo il tipo di 2CV…).
La mia macchina preferita divenne la 2CV. Sapevo imitarne il rumore, ne
appresi ogni dettaglio, ogni versione. Le disegnavo a occhi chiusi e mi
divertivo follemente con le sospensioni a elevata oscillazione dei modellini
che mi regalava papà. Collezionavo e analizzavo tutti i cataloghi delle
automobili. Definii una strategia affinché i concessionari accettassero di
dare a un bambino i loro lussuosi depliant. Cominciai a osservare papà
quando guidava. Scrutavo il balletto dei piedi sui pedali, delle mani sul
volante e sul cambio, il gioco delle cause e degli effetti, delle accelerazioni
e del rumore del motore, della frenata e dei cambi di marcia, dei
lampeggianti e del tachimetro…
Mi costruii un volante e un cruscotto di carta, con le stesse funzioni di
quello di papà, che incollai sullo schienale del suo sedile. Così, seduto
dietro di lui, potei imitare tutti i suoi movimenti…
Fu in questo periodo che il nonno m’impartì le prime lezioni di guida,
sulla sua vecchia Ami 6 paziente e indulgente. Avevo circa sei anni.
Lego Technic
A dieci anni, per Natale, ricevetti da Delphine una grande scatola di un tipo
di Lego che non conoscevo, la Lego Technic. Avevo sempre giocato con i
mattoncini semplici della Lego cercando, per le mie costruzioni, le
combinazioni che mi consentissero di tener conto di tre fattori: il mio
desiderio di realismo (difficile da ottenere con mattoncini dalla forma
cubica), di ordine (non assemblare alla rinfusa i mattoncini di colori diversi)
e il numero limitato di mattoncini disponibili (obbligo di fare dei
compromessi per ‘arrivarci’ comunque…).
Del resto, la Lego e i suoi mattoncini base mi dettero, fin dalla più tenera
età, un’idea molto chiara di alcune nozioni matematiche e geometriche. I
mattoncini che consideravo di base, con la forma rettangolare dei mattoni
per muratura, comprendevano due file con quattro bottoncini. Ai miei occhi
era ovvio, dopo una semplice osservazione dell’assemblaggio, che la
larghezza di quei mattoncini corrispondesse alla metà della loro lunghezza,
e che due era la metà di quattro, a sua volta la metà di otto. Sovrapponendo
due dei miei mattoncini base su una sola fila, ottenevo un’altra immagine
dello stesso principio. Un mezzo mattoncino era, ai miei occhi, un
mattoncino quadrato con quattro bottoncini. Mi piacevano molto tutti i
piccoli elementi a due bottoncini, e ancor di più i rari pezzi con un unico
bottoncino. In compenso, i mattoncini a sei bottoni spesso mi davano
fastidio, tranne quando erano in fila per quattro o completati con un pezzo a
due bottoncini oppure in fila per due come basamento per un mattoncino
base.
La scatola che mi aveva regalato Delphine era grande, nera, piena di pezzi
gialli e grigi destinati a costruire un grosso bulldozer. All’inizio, fui un po’
sconcertato dalla quantità e dalla complessità dei pezzi. Parecchi elementi
non erano né geometrici né dotati di bottoncini, alcuni mattoncini dal
formato a me familiare erano forati, c’erano ingranaggi, volanti, assi
cruciformi, chiodini, cremagliere; tanti pezzi che scoprivo per la prima
volta, come pure le loro funzioni. Fu così che imparai a leggere un progetto
di montaggio e a rispettare l’ergonomia e la cronologia degli assemblaggi.
Di pagina in pagina, pezzo dopo pezzo, il mio bulldozer dalle molteplici
funzioni prendeva forma svelandomi sempre più le leggi e i trucchi della
meccanica. Ricordo la straordinaria sensazione che provai: facevo i primi
passi dietro lo specchio, esplorando un mondo che apprezzavo da sempre
ma le cui viscere erano ancora misteriose. All’improvviso, mi veniva tolta
la carrozzeria delle macchine, e mi venivano dati gli schemi e i pezzi che mi
consentivano non solo di osservare il funzionamento degli organi, ma,
straordinario strumento di comprensione, di costruirli io stesso.
In un primo tempo, intimorito dai pezzi e dalle relazioni di causa ed
effetto che non conoscevo ancora, mi accontentavo di seguire
meticolosamente gli schemi di montaggio. Per montare il bulldozer
impiegai un’intera giornata di lavoro, dopo di che m’impegnai a smontarlo
con cura seguendo poi le indicazioni per la costruzione di altre due
macchine, che mi piacquero meno. Quindi ricostruii il bulldozer e mi resi
conto che tutto diventava chiaro.
Quel giorno venne a trovarci un amico dei miei genitori, che non
conoscevo ancora, accompagnato dalla moglie e dalle due figlie,
Emmanuelle e Anne. Diventammo subito amici.
Vivendo in un vero e proprio cosmopolitismo della quotidianità, non
provammo alcuna difficoltà a considerare gli ‘stranieri’, piccoli o grandi,
come potenziali amici. Tuttavia, tra me e Anne – la più giovane delle due
nuove arrivate, di diciotto mesi maggiore di me – s’instaurò un legame
particolare, fin dal primo istante. Ai miei occhi era una ragazza già grande,
molto bella, molto misteriosa. Questo sentimento di affinità – più forte di
quello per le altre innumerevoli amicizie – mi colpiva, poiché fino a quel
momento non l’avevo mai provato se non per i membri della mia famiglia.
Vi posso assicurare che dopo quell’incontro Anne e io non abbiamo mai
più vissuto l’uno senza l’altra; e, nonostante le diverse scelte di vita ci
abbiano fatto incontrare solo occasionalmente, abbiamo altresì avuto modo
di conoscere nel bene e nel male tutte le possibili trasformazioni di una
relazione indistruttibile.
In segno di quest’affinità nascente, affidai ad Anne il mio bulldozer della
Lego (!).
Per la prima volta notai un fenomeno particolare: Anne giocava con le
funzioni di quella macchina, ne faceva salire e scendere la pala, raccoglieva
delle perle di legno ammassandole contro il muro, faceva oscillare la tazza
per scaricarle… e io, nel corso di ogni minima operazione, analizzavo a
fondo tutti i movimenti della meccanica, abbracciando la logica
stranamente oggettiva che li regolava. Anne si trovava nella posizione
dell’utente, io, all’improvviso, in quella dell’ingegnere. Ero giunto a una
svolta: volevo sapere tutto sulla meccanica.
Cercai di applicare i principi della Lego Technic, molto schematici, sugli
elementi visibili delle macchine che mi circondavano… Aprii i cofani e
cominciai a riconoscere i pezzi che sporgevano e, quindi, a visualizzare
mentalmente il loro funzionamento all’interno. Ma molti elementi
restavano enigmatici. Mi servivano ulteriori ‘spiegazioni’, e da una rapida
occhiata al catalogo Lego Technic capii che era lì che avrei trovato pane per
i miei denti: c’era tutto ciò che si adattava idealmente al mio metodo
d’indagine. Per cominciare, mi resi conto che mi mancava un ‘vero’
motore. La Lego ne proponeva uno, elettrico, alimentato da tre pile, che si
adattava ai mattoncini e agli assemblaggi fatti in casa. Guardando le foto
del catalogo, studiai con attenzione i pezzi abbinati al motore e la sua
morfologia. Composi mentalmente i vari assemblaggi realizzabili con quel
materiale. Un giorno, per me fantastico, papà e mamma me lo comprarono.
Quella piccola scatola giungeva come un tesoro preziosissimo. Quell’asse
cruciforme che girava così velocemente segnava il passaggio a una nuova
era, quella in cui i miei giocattoli abbandonavano lo stadio della
simulazione manuale. La scatola conteneva alcuni pezzi e un libretto
d’istruzioni fondamentale che spiegava come calcolare la demoltiplicazione
ottenuta dal diametro delle pulegge o dal numero di denti degli ingranaggi.
Citava il numero di rotazioni al minuto del motore, il che mi spinse a
calcolare la velocità teorica di una macchina molto leggera che costruii a
questo scopo. Dovetti calcolare la distanza percorsa dalla mia ruota in una
rotazione. Fu così che, dopo aver preso informazioni, scoprii il pi greco.
Ma, come san Tommaso, sentii la necessità di verificare il risultato
matematico; avvolsi con precisione la ruota con una strisciolina di carta che
misurai dopo averla srotolata, prima di attribuirne l’esatto pi greco. Dato
che conoscevo quella misura, mi fu facile moltiplicarla per il numero di giri
di ruote al minuto, poi per sessanta per conoscere la velocità in chilometri
orari. Ero davvero molto felice.
La mia sete di ricerca aumentò. Papà e mamma ci stavano molto attenti.
Poco tempo dopo, ricevetti un Fenwick che avevo scoperto essere
‘ragionevolmente’ piccolo (per cui il suo prezzo minimo avrebbe giocato in
mio favore al momento di parlarne ai miei genitori!), ma che mi avrebbe
consentito di capire il funzionamento di uno sterzo a cremagliera… Ah!
Che bello andare alla scoperta di novità! Ah! Che magiche sensazioni si
provano a capire, palpare cose così importanti ai miei occhi!
Qualche mese dopo, puntai a un altro modello: un enorme trattore blu,
sotto il cui cofano giravano un albero a gomiti e dei pistoni quadrati che mi
avrebbero consentito di ‘toccare con mano’ il principio di funzionamento
del motore a scoppio spiegatomi da mio nonno con schemi molto semplici e
chiari. Quel trattore mi ossessionò per parecchie settimane. Andavo a
guardarlo esposto al Bon Marché lì vicino, analizzavo nel dettaglio e per
ore il depliant esplicativo, immagine dopo immagine, di notte, sotto le
lenzuola, visualizzavo l’andirivieni dei pistoni nel loro cilindro a sezione
della Lego. Quando lo ricevetti, per il mio compleanno, provai un senso di
liberazione, una gioia e una completezza indimenticabili. Giocavo per delle
ore, possedevo già un buon numero di pezzi e un’esperienza sufficiente per
costruire da solo i meccanismi ogni volta che volevo mettere in pratica una
conoscenza tecnica acquisita nel corso delle mie ricerche quotidiane. Per
questo, dovevo smontare i miei modellini. Rimettevo con molta cura tutti i
pezzi nella scatola del corrispondente modello, anche se la forma e il colore
erano uguali a quelli di un altro. Ancora oggi, le mie scatole della Lego
Technic sono complete com’erano in origine, con gli scomparti, i coperchi,
le istruzioni di montaggio e, addirittura, i cataloghi pubblicitari
dell’epoca…
Mese dopo mese, la mia collezione di Lego Technic aumentava di pari
passo con le mie conoscenze meccaniche. Tuttavia, non si trattava per nulla
di frenesia da consumismo: io non volevo tutti i Lego Technic, li
desideravo, pochi per volta e modelli ben precisi, poiché mi servivano per
capire, completare o costruire un sistema ben definito. Avevo piena
coscienza del valore di ogni scatola che i miei genitori – sempre al corrente
delle mie ricerche e dei miei desideri – mi compravano una a una, con
intervalli abbastanza lunghi; sapevo che per loro era un sacrificio
economico, e la mia attesa era tanto fiduciosa quanto fruttuosa. Il concetto
di merito e ricompensa era, ovviamente, escluso. Ai miei genitori non
sarebbe mai venuto in mente di sfruttare il mio desiderio della Lego Technic
come mezzo di ricatto per ottenere da me una qualunque obbedienza.
Prima o poi, il giorno tanto atteso arrivava: la mamma mi portava al Bon
Marché con un rituale che non faceva altro che aumentare l’eccitazione e il
valore dell’avvenimento. Ci andavamo il mercoledì pomeriggio e
aspettavamo, talvolta per parecchie ore, l’annuncio della tradizionale
promozione “meno venti per cento al reparto giocattoli, per mezz’ora”…
Le automobili, bis
Da quel momento, il mio interesse per le automobili raddoppiò. Non
m’interessavo più solo alla forma della carrozzeria, dei fari e dell’interno:
mi appassionavo per la loro intimità meccanica.
Quando Delphine mi comprò una copia della rivista L’Auto-Journal dal
giornalaio di Lézan, l’automobile divenne, per parecchi anni,
un’occupazione quasi esclusiva. L’Auto-Journal, a cui mi abbonai qualche
giorno più tardi, si rivelò un’inesauribile miniera d’informazioni. Era il mio
primo abbonamento a una rivista, la mia prudente esplorazione preliminare
degli annessi e connessi di una simile decisione ‘adulta’: compilare un
bollettino, fare un assegno, inviare il tutto, attendere l’arrivo della prima
copia. Imparai tutto a proposito di tecnica, storia, corsa, pilotaggio, affinità,
origini, attualità, termini. E mi accostai, quasi a mia insaputa, al
giornalismo oggettivo.
Tuttavia, L’Auto-Journal non era certo la mia sola lettura sulle automobili.
Innumerevoli libri entrarono in casa a raccontare storie di altrettante
numerose macchine, dal ‘carromatto’ di Cugnot[4] alle più moderne Ferrari,
passando per la Kdf o l’appassionante saga della Blue Bird di Sir Malcolm
Campbell. I libri di Jacques Wolgensinger, che raccontavano le avventure di
Citroën, mi affascinarono ancor prima di incontrarne l’autore e diventare
suo amico. Dato che questo periodo era a cavallo della mia ‘epoca Proust’,
iniziai a scrivere parecchie storie automobilistiche, che però non ebbero
seguito. In compenso, la redazione della GAZette d’échappement, di cui
parlerò più avanti nel dettaglio, non fece altro che rafforzare il mio amore
per tutto ciò che aveva quattro ruote.
In quegli anni produssi un’incredibile quantità di scritti, concetti, giochi e
disegni tecnici legati all’automobile.
Combinando carrozzerie costruite in cartone con telai del Lego Technic,
creavo dei modelli funzionali attorno ai quali inventavo storie, giochi e
lavori di ogni genere, immaginandomi ingegnere, scrivendo dei banchi di
prova che ricalcavano quelli dell’Auto-Journal, improvvisandomi
cacciatore di prototipi, svelando le mie creazioni, alla maniera degli scoop
della stampa automobilistica. Uno di questi modelli, un dragster con la
carrozzeria di una Simca 1100, era riuscito così bene che lo fotografai da
ogni angolazione. Inserii i cliché, con meticolosa attenzione, al centro di un
testo elogiativo dattiloscritto con la massima cura, per ottenere una piccola
brochure di cui andai molto fiero.
4 Veicolo a vapore universalmente riconosciuto come l’invenzione che ha gettato il seme poi
sviluppatosi nell’industria automobilistica oltre un secolo dopo. Consisteva in un veicolo a tre ruote
la cui ossatura era un telaio di legno [n.d.t.].
Tra le varie idee, la più realistica fu la libera consulenza per l’acquisto di
una vettura. Era semplice: tanti acquirenti, poco esperti in materia, si
sentono persi al momento di scegliere una macchina. Troppe marche, troppi
modelli, troppe versioni, troppi optional, troppi venditori, troppi depliant,
troppe soggettività… Creai un modulo molto dettagliato da compilare
durante un colloquio con gli acquirenti. Prendendo spunto da vari criteri
(budget, tipo d’utilizzo, chilometraggio annuale, ambiente, macchina
precedente, numero di posti e di portiere, preferenze personali ecc.), potevo
individuare con totale obiettività il tipo e il modello di automobile più adatti
alle aspettative del cliente. Ho recentemente riguardato questo modulo e il
breve testo di presentazione che avevo scritto all’epoca: sono rimasto
impressionato dalla serietà di quel progetto ancora del tutto valido.
Uno dei punti culminanti della mia passione per le automobili fu una
visita allo stabilimento Renault sull’isola di Seguin. Avevo fatto amicizia
con una famiglia i cui bambini venivano a dipingere nel Closlieu. Il padre
era ingegnere alla Renault e mi propose di farmi visitare la fabbrica. Ci
passammo l’intera giornata, mi fece vedere tutto, accordandomi un
privilegio rarissimo. Mi riempivo di ogni cosa, gli occhi sgranati, senza
fiato: gli uffici, le giacenze, le catene, le presse, le lamiere, la cataforesi, la
vernice, la mensa – dove mangiammo a mezzogiorno –, il montaggio
meccanico, i robot, le ultime operazioni, la corta pista di prova, la terrazza
con vista sul tramonto e sulla Senna… Vedevo dal vivo tutto ciò che avevo
già esaminato nei particolari su carta. Alla fine della giornata, dopo aver
camminato per parecchi chilometri, tornai a casa, esausto, e mi buttai sui
miei quaderni per disegnare e annotare, a memoria, tutto ciò che avevo
immagazzinato.
Divenni una vera e propria enciclopedia automobilistica ambulante.
Divenni il punto di riferimento di tutta la famiglia che mi chiedeva consigli,
e me li chiede ancora. E, dall’alto dei miei quattordici anni, divenni un
autorevole interlocutore per i meccanici. Non sbagliavo mai le diagnosi e,
molto spesso, ho scoperto dei guasti prima che le nostre macchine si
bloccassero. Due vetture specifiche ebbero un ruolo particolare nella mia
vita: la Ferrari 166 MM e la Simca 1100. Riuscii a specializzarmi persino
all’interno di questa estrema specializzazione.
Restai a lungo innamorato della Simca 1100 anche dopo che ci
separammo dalla nostra, ormai agli sgoccioli. A forza di osservarla, ne
conoscevo tutti i dettagli. Non uscivo mai senza un blocchetto su cui
annotavo o disegnavo tutte le caratteristiche particolari dei modelli che
vedevo. Andavo ‘a caccia’ di esemplari insoliti, provando una grande gioia
alla scoperta di una versione particolarmente vecchia o rara, parcheggiata
all’angolo di una strada. Riconoscevo tutti i cruscotti, tutti i volanti, tutte le
barre cromate, sapevo a quale finitura, versione, epoca apparteneva questo o
quel dettaglio, e disegnavo e dipingevo un’infinità di Simca 1100, come
pure altre vetture, in tutte le situazioni immaginabili. Nessuno mi ha mai
distolto da questa insolita preoccupazione e nessuno l’ha mai trovata
sconveniente o esagerata.
Il tempo non era suddiviso in gerarchie e in cronologie chiaramente
definite. Molte cose avvenivano in contemporanea, in tutte le direzioni, in
un intrecciarsi di eventi difficili da isolare. E soprattutto, come per ogni
infanzia, il tempo passava lentamente. Mi rendo conto che il quadro della
mia infanzia – che sto cercando di tracciare qui – copre un periodo di
appena otto anni che, ancor oggi, sento come la prima metà della mia vita.
Ben presto, mi incuriosì l’idea che il tempo e la vita potessero essere un
paesaggio infinito e immobile all’interno del quale noi ci spostavamo. Dire
che il tempo passava mi sembrava un errore, lo stesso che commette il
passeggero di un treno quando dice che il paesaggio scorre al finestrino…
Il tempo per vagare in quel paesaggio non mi mancava. Ad ogni svolta mi
attendeva un nuovo incontro.
La magia
Un giorno passeggiavo tra gli scaffali del Bon Marché, al piano dei
giocattoli. Accompagnavo la mamma e Éléonore. Aspettavamo “l’ora del
venti per cento” per comprare una bambola che mia sorella desiderava da
tanto. Nessuna voglia di acquisti guidava i miei passi, guardavo i giocattoli
esposti con interesse, ma senza il desiderio di possederli. Il mio gusto,
rafforzato dall’attenzione che i nostri genitori avevano per la qualità e
l’aspetto realistico dei nostri giocattoli, mi distoglieva, con fare quasi
critico, dai giocattoli malfatti, grotteschi o caricaturali. Così, mentre
gironzolavo nel reparto giocattoli, in fondo alla corsia vidi un gruppo di
persone di tutte le età assiepato davanti a un tavolo, dove un signore vestito
di nero faceva dei giochi di prestigio. A poco a poco, occupando il posto
delle persone che se ne andavano, mi avvicinai fino a raggiungere la prima
fila, affascinato da quanto stava accadendo.
Sapevo, senza bisogno di alcuna demistificazione, che non si trattava di
‘stregoneria’, sapevo che un prestigiatore (l’etimologia di questo nome non
tardò a diventarmi familiare) si basa sulla prestanza delle dita e sull’abilità a
servirsi del materiale, ed era proprio questa estrema competenza che mi
affascinava. Pur restando molto concentrato, non riuscivo mai a cogliere
l’uomo in fallo per capire il ‘trucco’, e ogni volta mi lasciavo rapire
dall’effetto magico, dall’intensa sorpresa della riuscita del gioco durante
una divertente messa in scena.
A differenza di un altro mago, molto ammirato alcuni anni prima in un
cabaret a Colonia con mio fratello Bertrand, quello del Bon Marché era
accessibile. Tutti i suoi giochi di prestigio erano esposti sul tavolo, in buste
rosse che portavano la scritta “Magicolo” e potevano essere acquistati.
Notai che uno spettatore su tre se ne andava dopo aver comprato una di
quelle buste. Mentre presentava i suoi giochi, l’uomo mi osservava e,
talvolta, mi lanciava un’occhiata. Ero incantato, e lui sapeva che ero attratto
dalla sua abilità e non perché credessi alla magia. Bernard, abituato a offrire
dimostrazioni, era lusingato del mio sguardo rivolto alla sua competenza.
Contrariamente al principio che applicava nel corso della giornata (“Se
volete sapere come funziona, se voi stessi volete provare a fare questi
giochi di grande qualità, comprate i miei Magicolo, per soli cinquanta
franchi!”), durante una pausa Bernard mi rivolse la parola: “Vuoi che te ne
spieghi uno? Vieni a vedere!”. Ci accucciammo dietro al banco e scoprii,
con ammirazione, il trucco dei due giochi di prestigio che avevo scelto. Da
quel giorno, fui conquistato nello spirito dalla prestidigitazione. Lessi vari
libri, realizzai del materiale di fortuna, visitai il museo della Magia, seguii
Bernard nel negozio Paris-Magic, dove si preparavano i Magicolo e
un’infinità di altri giochi di prestigio, dal più semplice al più complesso.
Passavo parecchie ore in quei locali, mescolandomi ai clienti abituali e ai
visitatori di quel piccolo mondo che mi consigliavano, mi guidavano, mi
allenavano, divertiti dalla mia disponibilità e dalla mia crescente abilità.
Feci i miei primi esperimenti di fronte alla mia famiglia, poi in occasione
di pranzi di compleanno e durante le serate a casa di amici. Riuscii così a
guadagnare denaro sufficiente per acquistare parecchi Magicolo.
Perfezionai il mio programma fino a ottenere uno spettacolo di mezz’ora la
cui serietà incantava il pubblico. Grazie al passaparola, a tutt’oggi sono
regolarmente richiesto per spettacoli di prestidigitazione.
Geroglifici
A Parigi fu organizzata una grande mostra sull’antico Egitto. Ci andammo
tutti e quattro. All’epoca, gli oggetti non erano disposti a un’altezza idonea
per un bambino. Interessato da sempre alle civiltà scomparse, visitai la
mostra con i miei ritmi, diversi da quelli di papà e mamma. A un certo
momento, mi ritrovai davanti a una vetrina accanto a un signore piuttosto
anziano, appoggiato al braccio di una donna abbastanza giovane. Fui
colpito dal fatto che leggeva le iscrizioni in geroglifico e le traduceva alla
sua compagna. Ne fui affascinato. Li seguii di vetrina in vetrina. Uscendo
dalla mostra, avevo una sola idea in mente: imparare a leggere i geroglifici.
Mentre i miei genitori cercavano di trovare un professore, la mia prima
fonte fu un vecchio Larousse rosa della mamma. Assorbii febbrilmente tutte
le informazioni che poteva fornirmi, cominciai a ricopiare alcuni segni e a
capirne il principio generale e la storia della loro scoperta da parte di
Champollion. Ispezionai la nostra biblioteca alla ricerca di libri sull’antico
Egitto. Poi passai al vaglio tutti i volumi sull’argomento per isolare le
informazioni specifiche sui geroglifici. Questa indagine, anche se non molto
fruttuosa, mi offrì un fantastico viaggio attraverso l’antico Egitto
trascinandomi, la briglia sul collo e gli occhi spalancati, a conoscerne la
storia, le leggi, l’iconografia, i miti, gli dei, i re, l’architettura, i nomi e le
date.
Raggruppai una certa quantità di materiale, tra cui una sorta di alfabeto;
tutta la mia famiglia, al corrente della mia ricerca, mi aiutava pian piano
raccogliendo brandelli di informazioni che poi mi passavano.
Paragonavo meticolosamente alcune frasi con la loro traduzione, cercando
con pazienza – e talvolta con successo – corrispondenze e correlazioni,
come quando, a forza di tentativi e di riflessioni, decifravo le lettere in
codice che io e Delphine ci scambiavamo alcuni anni prima.
Papà e mamma acquistarono, ovviamente, parecchi libri. Li
accompagnavo spesso dai librai per condividere la ricerca di opere
specifiche. Un giorno, papà mi portò un libro che avevo ordinato, molto
grosso e prezioso: il facsimile della prima pubblicazione di Champollion.
La lettura di quella meravigliosa opera era ardua per me, addirittura
impossibile. Tuttavia m’imposi di leggere e rileggere gli stessi paragrafi,
illustrati da piccoli schizzi, provando un immenso piacere e, a forza di
sviscerarli, ne estrassi sufficiente “sostantifica midolla”[5] da riuscire, un
giorno, a riunire le consonanti del mio nome in un cartiglio disegnato con
tutti i crismi.
Nel frattempo, io e la mamma frequentavamo spesso il Collège de France
come uditori, e seguivamo il corso di egittologia del professor Jean Leclant.
La mamma fu molto felice di trovare questo corso tra le pagine del
programma. Anche se i geroglifici non erano proprio la sua materia, ci fece
molto piacere scoprire Jean Leclant, la sua deliziosa voce e il suo
affascinante sguardo sull’Egitto. Data la mia giovane età, all’inizio suscitai
curiosità in quel pubblico formato principalmente da pensionati, ma poi fui
molto rapidamente benvoluto. Nessuno si chiese come mai mi trovassi lì
quando avrei dovuto essere a scuola. Fui molto rattristato quando il
professor Jean Leclant, avendo raggiunto l’assurdo limite d’età fissato dalla
pubblica amministrazione, dovette cessare le lezioni.
Il mio desiderio di imparare a leggere i geroglifici è tuttora presente e
sempre inappagato. Non ho il minimo dubbio che un giorno ce la farò. E so
anche come…
5 Immagine poetica coniata da Rabelais nel prologo di Gargantua e Pantagruele [n.d.t.].
L’origine dei miei mestieri
Fenoy
Il secondo dei miei più vecchi ricordi risale a quando avevo tre anni.
Con l’orecchio incollato al pavimento, sul quale passavo l’intera giornata
a giocare, percepivo – attraverso lo spesso massetto – i suoni di chitarra che
salivano dalla galleria di mio padre, situata al piano di sotto. Mio cugino
Olivier prendeva lezioni di chitarra. Certe volte, la sua voce e quella del
professore si mischiavano a quei suoni, iniziavano, ricominciavano; più
veloci, più lenti, in alcuni casi a una sola chitarra, in altri a due. Io neanche
mi muovevo, per evitare che il rumore del mio padiglione auricolare contro
il pavimento non coprisse quelle musiche attenuate, lontane e affascinanti.
Seguivo, con la limpida concentrazione dell’infanzia, il lungo concatenarsi
delle logiche melodiche che si srotolavano là sotto.
Nel mio ricordo, non esistono intervalli tra le lezioni: ho l’impressione che
andassero avanti per ore e ore, ogni giorno. In realtà le lezioni erano
settimanali e duravano un’ora.
Un anno dopo, papà e mamma mi regalarono la mia prima chitarra. Era
una tre quarti giapponese, fin troppo grande per me; mi ricordo, come se
fosse ieri, il momento in cui papà me la porse. Ero seduto per terra, davanti
alla parte della nostra sala che fungeva da ingresso. Papà mi dette lo
strumento così com’era, senza custodia, senza fodera. Lo presi subito e ne
feci uscire dei suoni che oggi non ricordo per niente. Papà e mamma mi
guardavano, le testa inclinata, in silenzio. Poi la mamma disse: “La tiene già
come si deve”.
È con quella stessa chitarra – che mi arrivava al mento – che ho iniziato, e
con lo stesso chitarrista, Antonio Fenoy – un vecchio gitano spagnolo che
consumava il suo sigaro alla rovescia, masticandolo! Ex pugile
professionista, fratello di un campione, aveva interrotto la propria carriera il
giorno in cui il suo avversario era rimasto cieco durante un incontro.
Parlava certe volte di un ragazzo di sua conoscenza: Marcel Cerdan.
Rifugiato in Francia con i genitori per sfuggire al regime di Franco, aveva
ripreso a suonare la chitarra non so in che modo. Quel che ricordo è che
accompagnava regolarmente, come secondo chitarrista, La Joselito,
ballerina assai popolare all’epoca. Mi ricordo certe foto che mi mostrava,
sulle quali lo si vedeva accompagnarla al fianco di Pedro Soler.
Da lui ho preso lezioni di chitarra flamenca per una decina d’anni. In
definitiva, è a lui che devo le basi di ciò che ho saputo costruire più tardi.
Mi voleva molto bene, mi chiamava flaquillo (mingherlino) e a volte mi
faceva usare la chitarra di un allievo, ma le sue nozioni chitarristiche in fin
dei conti rudimentali, il suo insegnamento tecnico in certi casi scorretto e la
ridondanza che veniva a crearsi con l’avanzare della sua età, mi fecero
progressivamente perdere ogni motivazione.
Ho avuto un paio di periodi di zelo, e ricordo di aver lavorato su un certo
brano con accanimento, perché stavo iniziando a capire il meccanismo e a
utilizzare un’intavolatura scarabocchiata con impegno per mandare il pezzo
a memoria. La lettura a prima vista della melodia, che va a incastrarsi da
sola e scorre sotto le dita, mi affascinava. Scoprivo con golosità questa
procedura, invece di subirla come una punizione.
Ricordo la sincera sorpresa e il piacere contagioso che provò Fenoy
quando, alla lezione successiva, gli suonai quel brano.
L’altro mio slancio di zelo fu provocato dall’arrivo di una nuova chitarra.
Avevo dieci anni. Da un pezzo Fenoy ci parlava di un negozio in rue du
Château. Diceva che “con cinquecento franchi” potevo trovarci una buona
chitarra (la mia era ormai più che superata). Ricordo di aver pensato che, in
cambio di un semplice rettangolo di carta con sopra scritto “cinquecento”,
avrei potuto ottenere un bello strumento. Il rapporto mi sembrava
sproporzionato, e speravo che anche i miei genitori sarebbero stati colpiti
dall’assurdità della faccenda. Non andò proprio così, perché, all’epoca,
cinquecento franchi erano una grossa somma, soprattutto per le nostre
possibilità.
Un giorno passammo da rue du Château e, incrociando il negozio in
questione, ci facemmo tappa. Mi fecero provare una chitarra, che mi
piacque molto. Ma la cosa finì lì. Era una Contreras e costava 490 franchi,
me lo ricordo con esattezza. Qualche giorno più tardi (a casa nostra amiamo
molto le sorprese…), poiché alla mia chitarra mancava una corda, papà mi
propose di suonare un pezzo per mio nonno François, con il quale era
appena rientrato dalla spesa. Protestai dicendo che la mia chitarra era
inutilizzabile, ma papà insistette sostenendo che un grande chitarrista è
capace di suonare anche con una corda in meno. Punto sul vivo, andai a
prendere la chitarra… e trovai al suo posto la bella e grossa Contreras che
avevo provato qualche giorno prima. Fu uno degli shock più piacevoli della
mia infanzia.
Per tutta una settimana, il mio impegno principale fu suonare quella
chitarra. Ne avevo così voglia che mi capitava l’impulso di andarla a
prendere proprio mentre la stavo suonando… strane sensazioni irrazionali,
che consideravo segni della mia infatuazione.
E poi finì per installarsi definitivamente la routine di quelle lezioni prive
di fascino. Mi ritrovai a prenderle solo per amicizia nei confronti di Fenoy.
Non andavamo avanti. Un giorno lui non si fece vedere; ed eravamo
preoccupati, perché non era mai successo. L’indomani telefonò alla
mamma, spiegandole con voce irriconoscibile che sarebbe stato ricoverato
in ospedale per un problema alla gola. Non ne uscì più e morì pochi giorni
dopo.
Fu così che si chiuse il primo capitolo dedicato alla chitarra, perché da
quell’istante non sfiorai quasi più il mio strumento.
La musica
Da sempre la musica fa parte della mia vita.
Fin da piccolo, coricato nel mio letto e nell’oscurità della camera, udivo la
musica che ascoltavano i miei genitori, tutte le sere. E mi erano familiari
non solo le grandi opere del repertorio classico ma anche il concetto stesso
di composizione musicale. Evidente per gli adulti, ma non
obbligatoriamente per un bambino piccolo. Brahms, Dvořák, Schubert
erano come amici intimi invitati con regolarità. Facevano parte del mio
paesaggio, della mia cerchia naturale. Parlare di loro era normale, come
citare i nonni. Una cosa fatta con il massimo rispetto. Per me era naturale
che certi grandi personaggi – oggi scomparsi, che conoscevo tramite certe
illustrazioni viste sulle copertine dei dischi – avessero composto dei lavori
che venivano ancora suonati e che erano ascoltati dai miei genitori, delle
melodie che io sapevo riconoscere e cantare. Esclusa l’ora settimanale di
lezione con Fenoy (forse il mio primo incontro con quel principio –
diventato poi così naturale – della “lezione una volta alla settimana”) nella
nostra vita di ogni giorno la pratica musicale non aveva spazio.
Papà e mamma, per i quali la musica è indispensabile, non suonano
nessuno strumento. A parte la mia prima chitarra, durante la mia infanzia in
casa nostra sono entrati pochi strumenti musicali: mi ricordo una
piccolissima armonica che la mamma mi aveva regalato dopo averla
ritrovata tra le sue cose. Ne avevo esplorato le potenzialità con interesse e
per qualche giorno era stata il mio oggetto preferito. Poi l’avevo
accantonata. Ricordo anche un fischietto in bosso lavorato, due piccoli
piatti dai cordoncini verdi, una sorta di abete stilizzato in plastica bianca
con otto rami dai quali pendevano otto campanelle da percuotere con una
piccola bacchetta… Ricordo uno xilofono un po’ sfiatato e un’enorme cetra
di legno marrone, che papà accordava in mia presenza con una piccola
chiave. Quest’ultimo punto è interessante, perché deve averlo fatto per
l’unica volta in vita sua. Lo ricordo intonare una nota e girare la chiave fino
a farla coincidere con il suono della corda d’acciaio.
Fu così che quello stesso giorno o l’indomani, mentre eravamo a fare la
spesa, mi spiegò per inciso che i suoni erano suddivisi in una scala della
quale mi cantò le sette note chiamandole do-re-mi-fa-sol-la-si… Non so
come, ma tutto questo mi entrò dentro, tale e quale. Non c’è mai stato
bisogno di spiegarmelo di nuovo, di ripetermi nome, intervallo e
successione delle note; sono diventate da subito una presenza
incancellabile. Suonando un secondo do in ottava posizione, papà mi
consentì all’istante di assimilare il concetto di ottava. Anche in questo caso,
da parte sua non ci fu né desiderio di spiegazione né intento pedagogico,
perché non ne sapeva molto di più di teoria musicale e neanche aveva
l’intenzione di farmene venire voglia: si trattava solo di una semplice
conversazione, dalla quale sono riuscito a estrarre, per mio conto e in
maniera quasi casuale, delle notevoli conoscenze personali.
Nello stesso ordine d’idee, nessuno mi ha mai spiegato come una
composizione classica sia di solito formata da svariati movimenti. Nessuno
mi ha mai spiegato cos’è un movimento. Tutto questo ha semplicemente
fatto parte della quantità di nozioni che definisco implicite, quelle che si
acquisiscono naturalmente con il solo respirare l’aria di casa.
Non abbiamo mai ricevuto strumenti musicali ‘per bambini’, quella
paccottiglia dai colori vivaci appositamente concepita per le loro piccole
dita maldestre, quelle caricature più o meno automatizzate che costringono i
bambini nell’esclusivo ruolo di idioti incapaci di riconoscere e utilizzare
uno strumento vero e proprio.
Andare da mio zio e mia zia, nella loro casa di Étampes, rappresentava per
noi un giorno di festa, perché potevamo suonare il pianoforte che
troneggiava nella camera di mia cugina Valéria. Senza perdere la naturale
delicatezza dei bambini, non abbiamo mai maltrattato quello strumento né
rintronato i vicini con un frastuono tanto assordante quanto caotico.
Anzi: mi ricordo lente esplorazioni sonore, tasto dopo tasto, che mi
permettevano fin da allora di prendere coscienza delle consonanze, delle
dissonanze e della necessità di rispettare certi schemi per giungere
all’armonia. Mi è capitato di usare un magnetofono (apparecchio
affascinante, a quei tempi, e del quale ero orgoglioso di conoscere il
funzionamento) per registrare, con la massima serietà, delle interminabili
improvvisazioni che commentavo imitando il tono degli annunciatori
radiofonici. Nessuno si permetteva di intromettersi in quel gioco, nessuno
vi faceva irruzione, lo disapprovava o lo incoraggiava.
Un giorno, Jacques Greys – l’amico d’infanzia di papà, pianista senza pari
e pedagogo eccezionale – m’invitò a trascorrere qualche giorno da lui a
Montbéliard: uno dei miei primi viaggi senza genitori. Ricordo di aver
guardato con interesse ma senza bramosia la gran quantità di strumenti in
mostra nella sua stanza della musica. Lo ascoltavo e lo guardavo suonare,
osservando soprattutto le implicazioni meccaniche che il movimento delle
sue dita imprimeva ai tasti.
Jacques, che una ventina d’anni dopo sarebbe diventato uno dei miei più
intimi amici, stava portando a termine l’invenzione di una nuova pedagogia
della musica e di una sensazionale notazione musicale, la Musique en clair,
accessibile come un’intavolatura.
Imparare a suonare il pianoforte senza Jacques e con un metodo diverso
dal suo sarebbe stato impraticabile per noi. Montbéliard era troppo lontana
da Parigi, e il progetto rimase in sospeso fin quando due allieve parigine di
Jacques, Monique e Christine, non aprirono uno studio in cui si applicava la
Musique en clair a svariati strumenti. Per qualche settimana, il flauto a
becco, il carillon, il salterio, il triangolo e altri strumenti trovarono posto a
casa nostra. Jacques venne di persona ad animare due laboratori, ai quali
presi parte. Ma quest’attività musicale non occupava, all’epoca, più tempo
di quanto ne dedicassi ai miei altri interessi: il lato episodico di alcuni non
escludeva in nessun caso la massima serietà.
A volte ci recavamo ai concerti. Non ci preparavano prima, così come non
ci venivano date regole di comportamento da osservare una volta entrati in
sala. Papà e mamma ci andavano e, di conseguenza, portavano anche noi
perché era una cosa ovvia. Eravamo molto piccoli. Mi ricordo che
osservavo con particolare attenzione le dita dei musicisti, il gioco degli
archetti, le varie relazioni di causa ed effetto tra il gesto e i suoni; più che
ascoltare la musica, m’interessava a fondo il modo in cui veniva prodotta.
Mai una volta ci siamo comportati male, mai abbiamo disturbato gli altri.
Il silenzio e il rispetto del pubblico, come quello di papà e mamma, davano
il la a un atteggiamento di cui nessuno dubitava. Un bambino che non è
condannato al ruolo definito di bambino occidentale non si libera della sua
sottigliezza primitiva. Una sera ci capitò di udire una vecchia signora,
accanto alla quale eravamo seduti, che borbottava guardandoci con occhio
cupo: “Andiamo bene!”. Éléonore, sua vicina di posto, avrà avuto sì e no
quattro anni. Dopo aver assistito senza aprir bocca alla prima parte del
concerto, quella bambinetta chiese di spostarsi perché la signora si
sventolava con il programma di sala impedendole così di ascoltare la
musica…
Nell’uscire da alcuni concerti, mi capitava di giocare a dare un concerto.
Non si trattava affatto di fare della vera musica quanto di mimare tutto il
cerimoniale legato al recital: l’ennesima nozione implicita nata
dall’osservazione. Per questo gioco mi servivo della chitarra e mettevo in
scena un concerto; oppure costruivo, servendomi di scatole, tubi di cartone
e qualunque materiale m’ispirasse, uno strumento il cui mutismo non aveva
alcuna importanza.
Fino a quindici anni, su per giù, benché la musica facesse parte integrante
della mia vita, non la ascoltavo mai. Udire certe composizioni, saperle
riconoscere, immaginare come fossero eseguite, tutto ciò mi divertiva o mi
colpiva. Ma non provavo una particolare emozione, se non la nostalgia
legata a certe tonalità.
La contemporanea pratica della chitarra assomigliava, a dirla tutta, a un
gioco di destrezza. Saper accordare il mio strumento non mi sembrava più
degno di nota del saper montare le rotaie del mio trenino elettrico.
Avevo pertanto circa quindici anni quando andai a passare un mese da mio
fratello maggiore Bertrand nei pressi di Colonia, in Germania: a quei tempi
divideva una casa con il trio di cui era impresario.
Da qualche giorno ascoltavo, attutita dal pavimento, la musica prodotta
dai tre strumentisti che provavano con regolarità al piano inferiore. Mio
fratello mi trovò seduto sui gradini, mentre cercavo di captare qualcosa di
più attraverso la porta di legno. “Dai”, mi disse, “entra, saranno
contentissimi che tu li ascolti”. Entrai in maniera discreta approfittando di
un attimo di silenzio; i musicisti stavano discutendo. Mi misi a sedere, loro
mi sorrisero e riattaccarono a suonare.
Primo movimento del trio op. 65 di Dvořák.
Fin dalle prime note fui colto dall’emozione, travolto da un’ondata, preso
in un turbine vertiginoso. Fu uno shock, una rivelazione, uno
sconvolgimento. Per la prima volta, la musica mi toccava nel profondo, si
insinuava fino ad arrivarmi al cuore, lo stringeva nella sua mano, quasi mi
soffocava. I gesti dei musicisti non erano più gli attori principali del fatto a
cui assistevo, ma la spiegazione istantanea, la materializzazione dei suoni
che mi sconvolgevano, mi scombussolavano, mi gettavano da una sponda
all’altra delle sensazioni che essi stessi provocavano in me. Era come una
lingua della quale, da sempre, avevo udito i suoni senza decifrarli e che, per
la prima volta, comprendevo in tutto il suo splendore.
Da quel preciso istante, non so se sono stato io a mettermi a divorare la
musica o viceversa.
Tornato a Parigi, mi gettai sulla nostra collezione di dischi (che, fino a
quel momento, era stata ai miei occhi soltanto un mobile pieno zeppo di
centinaia di album, ma che ormai mi sembrava una miniera d’oro). Cercai il
trio op. 65 di Dvořák per poi ascoltarlo più volte, sconvolto dall’averlo
ritrovato, dallo scoprire ogni volta nuove sfumature che m’incantavano e
che – mi ero già reso conto – non bastavano i primi ascolti per svelare.
Avevo un po’ paura di lasciare l’op. 65 di Dvořák, di non ritrovare altrove
quelle emozioni corroboranti. Ma, non volendo ‘consumarlo’,
accompagnato da papà – che trovava in me, con sorpresa e soddisfazione,
un nuovo compagno melomane – ascoltai altri lavori di Dvořák, soprattutto
quelli del periodo americano. E anche lì, in capo a parecchi ascolti, fui
trascinato in un altro mondo, un mondo che mi mandava sottosopra e mi
faceva sbocciare.
La mia consueta procedura era iniziata: ascoltai, un brano dopo l’altro,
tutto quanto Dvořák. E, ovviamente, mi misi a leggere svariate biografie,
studiai la patria che amava tanto, le sue ispirazioni, le sue discendenze, lo
stile, le abitudini, tutte le fotografie disponibili… ascoltai parecchie
interpretazioni di ciascun lavoro e le classificai secondo i miei gusti. Nelle
sue puntate regolari dal nostro venditore di dischi, papà faceva rifornimento
di versioni diverse e di lavori misconosciuti. Ben presto iniziai ad
accompagnarlo e scoprii una nuova occupazione, una fonte di gioia, di
emozione e di sorprese molto particolari: passare in rassegna, uno dopo
l’altro, tutti gli scaffali pieni di dischi, tirare fuori certi album, discuterne
con papà, scambiare opinioni, decidere per questa o quella versione,
riportare con orgoglio una novità… Non ho mai avuto bisogno di imparare
a memoria il numero d’opera o il titolo di ogni singolo lavoro: si sono
inscritti automaticamente dentro di me, proprio come il loro ordine
cronologico e le date. Capii sul posto cosa significa avere un interprete, un
ensemble, un direttore d’orchestra prediletto… preferire le interpretazioni
dell’orchestra del Concertgebouw o del quartetto Alban Berg a tutte le altre,
ma allo stesso tempo scoprire quelle di un’altra formazione: e iniziare a
conoscerle ‘tutte’…
L’interesse per Dvořák mi portò automaticamente a Brahms, che divorai in
maniera identica e parallela. Poi, colpito da uno di quei temi che uditi una
volta s’imprimevano in me, riapparendo a bruciapelo e letteralmente
ossessionandomi per parecchie settimane, iniziai a esplorare Schubert. Tra
me e papà ebbe inizio un gioco, cui ci dedichiamo ancora oggi: accendere la
radio, sentire qualche nota e dire di quale compositore, di quale lavoro si
tratta. A un certo punto fui anche in grado, abbastanza spesso, di distinguere
l’interprete o l’orchestra.
Nel corso dei mesi, mentre leggevo ogni sorta di biografie e svariate storie
della musica, nuovi compositori iniziarono ad appassionarmi e a unirsi agli
altri nei miei ascolti quotidiani: Mendelssohn, Schumann, Franck (scoperto
grazie al suo Quartetto, ascoltato in un meraviglioso film di Percy Adlon il
cui argomento, Proust, non poteva sfuggirmi: ulteriore testimonianza di
come le passioni si intreccino!).[6] Infine feci l’incontro con il miracolo
Beethoven. Nel leggere le biografie su di lui, le sue lettere e i suoi scritti,
capii che egli rappresentava, ai miei occhi, l’assoluto prototipo dell’Artista.
Da quel momento mi convinsi che non c’è mai stato prima – e
probabilmente mai ci sarà – un artista grande come Beethoven, senza
distinzione di categoria, né un’opera umana che abbia consentito al suo
autore di avvicinarsi così tanto al massimo destino dell’Uomo.
Ero pieno di musica, era la mia unica occupazione e la mia unica
preoccupazione, ribolliva dentro di me; le più strane sonorità di certi lavori
di Debussy, Chausson, Brahms si maceravano in me e facevano vibrare
tutte le mie cellule. Il silenzio interiore non esisteva più, né di giorno né di
notte.
Essendo padrone del mio tempo, potevo ascoltare fino a sei ore di musica
al giorno e, contemporaneamente, leggere svariate biografie. A casa nostra
la musica non era considerata come un passatempo ma come un’attività
primordiale, e nessuno cercava di distogliermi da lei.
Un giorno mi metto, da solo e in silenzio, senza parlarne con nessuno, a
studiare teoria musicale. In segreto, spero di poter comporre musica, alla
fine. I tentativi di riprendere la chitarra e utilizzarla per inventare della
musica sono destinati a fallire: i suoni che produco sono brutti, maldestri,
ingenui… e i brani che ancora ricordo sono piatti e non corrispondono
neanche un po’ alla cultura musicale che mi sono costruito nel frattempo.
Come ho fatto spesso, mi servo dei mezzi più disparati e a volte più
scomodi per iniziare la mia esplorazione della teoria musicale. Il famoso e
grosso Larousse rosa della mamma è una prima, preziosa fonte. A forza di
scorticarne le informazioni asciutte e rigorose, rimbalzando da una nozione
all’altra, finisco per ottenere una prima immagine corretta e assai completa.
Un volumetto Assimil, tutto sommato parecchio mal fatto, a forza di venire
esplorato, ripreso, spremuto, mi consente di capire molte cose.
Testardo e appassionato, studio in tutte le maniere, racimolando a destra e
a manca, rivedendo – se necessario – cento volte lo stesso paragrafo… Per
esercitarmi m’invento un gioco, un congegno personalizzato: scrivo i nomi
delle note di tre scale complete su delle piccole schede. Dopo averle
accuratamente mischiate, estraggo una a una e scrivo, su pentagrammi
tracciati con cura, le note corrispondenti. Faccio come se si trattasse di un
gioco di società, a volte in chiave di sol, altre di fa, cercando di essere
sempre più veloce. Funziona, imparo alla svelta. Alcuni scritti di teoria
musicale, dall’approccio molto ostico, mi lasciano di sasso. Ne racimolo
comunque, qua e là, certe informazioni. A quanto pare, la fonte di
apprendimento che per me funziona meglio sta altrove. Per esempio, in
certe frasi catturate al volo e per caso nelle biografie… “Al momento del
suo esame d’ammissione, il giovane César Franck compie l’inaspettata
impresa di suonare il brano obbligatorio trasportandolo, a prima vista, una
terza sopra…”. Questa frase mi spinge a cercare il perché questa
trasposizione sia un’impresa: così facendo, imparo nozioni d’ogni tipo, in
un ordine radicalmente diverso da quello indicato da tutti i programmi
didattici.
Un altro esempio: leggere per caso in una storia della musica che Bach è
l’inventore del temperamento equabile non si limita, per me, a essere un
semplice fatto storico e una data da mettere da parte in vista di una possibile
domanda d’esame; segna invece il punto di partenza di tutta una
cognizione, ovvero quella del funzionamento, dei motivi e dei limiti del
temperamento. Raggiungo, in questo modo, un immenso rispetto per Bach,
un tipo di rapporto che non ha niente a che vedere con il dato quasi
impersonale citato dal libro di storia.
Un pezzo alla volta, viene a comporsi un grosso puzzle, e anche se alcuni
elementi continuano a mancare – o anche interi settori – il quadro generale
è coerente e leggibile in maniera chiara: ne afferro a poco a poco il
panorama.
La mia conoscenza della teoria musicale è, ancora oggi, in piena
costruzione. Vivace, ne guadagna in chiarezza e s’incentra sul mio lavoro.
Se del caso, sa adattarsi agli incontri, alle fissazioni o alle contagiose
passioni per altri musicisti, ma soprattutto agli usi che ne faccio. Con il
passare del tempo ci sono state delle selezioni, e molte cose imparate,
conquistate a fatica sui libri, si sono tranquillamente addormentate chissà
dove dentro di me, pronte di sicuro a tornare in primo piano se mai ne
avessi bisogno.
La chitarra
Un giorno, papà si mette in tutta fretta a registrare lo spezzone di un brano
che stanno passando alla radio. Un chitarrista di flamenco suona una soleá
dai mille colori.
L’ascolto parecchie volte, soggiogato. Scopro due cose nello stesso
istante: che il flamenco, la mia lingua musicale materna, è in grado di
emozionarmi quanto la musica classica di cui sono pieno, e che la chitarra –
il mio strumento – può assumere una dimensione sinfonica. Si tratta di due
elementi che davvero mi mancavano fino a quell’istante, e in maniera
feroce.
La registrazione è incompleta ma, grazie a certe basi culturali ricevute da
Fenoy, mi metto a ‘copiare’ quel brano, un suono dopo l’altro, ascoltando a
ciclo continuo sequenze di cinque o sei note, riavvolgendo e scorticando
cento volte quei pochi centimetri di nastro (la valorosa epoca delle
audiocassette! e avevo una tale paura di vederlo consumarsi e infine
strapparsi, quel nastro!), cantando e cercando la nota successiva, mandando
a memoria uno dopo l’altro i grani sonori di quel rosario esponenziale.
Imparo a memoria l’inizio del brano. Ma mi arrendo dopo il primo
minuto. Non riesco più a suonare ciò che sento e, sebbene questo esercizio
intensivo abbia affinato in maniera considerevole la mia capacità di
analizzare i rapporti di causa ed effetto (dall’orecchio alle dita), non sono
più in grado di captare tutti i suoni della polifonia e non so a quale tecnica
attribuire gli effetti prodotti da quel geniale chitarrista. Inoltre, lo
schiacciamento della mia mano sinistra aggrappata al manico, i muscoli
rattrappiti delle mie dita mal piazzate, la scomodità del gomito incastrato
nel fianco, il mignolo che non utilizzo più da quando avevo iniziato a
studiare… Tutto questo mi provoca crampi, fitte e dolori che
m’impediscono di spingermi oltre.
Stranamente, però, non mi perdo d’animo. Decido di sconfiggere in primo
luogo la mia cattiva abitudine di trascurare il mignolo della sinistra. A
questo scopo m’invento degli esercizi la cui efficacia so essere garantita
dalla pratica quotidiana:
6 Il film è Céleste, del 1981 [n.d.t.].
mi baso su un principio fatto su misura per il mio carattere, scovato in
maniera illuminante in un libro: “Goccia dopo goccia, l’acqua scava la
pietra: un secchio d’acqua di tanto in tanto non produce lo stesso effetto”.
Poco tempo dopo, papà – che è tenace nelle sue ricerche – porta a casa un
disco nuovo di zecca. Grande copertina bianca con l’immagine scontornata
di un chitarrista e, a grandi caratteri, il suo nome: Ramón Montoya. È lui!
Mi bastano le prime note per riconoscere la soleá, il chitarrista, la
registrazione e anche i caratteristici scoppiettii del vecchio settantotto giri,
l’arrivo dei quali ormai conosco a memoria… Scopro il brano per intero e
anche gli altri pezzi del disco, scopro la biografia del chitarrista, inizio a
distinguere le caratteristiche del suo modo di suonare: ma, soprattutto,
esamino accuratamente l’immagine in copertina. La posizione di Montoya è
sorprendente: invece di tenere la chitarra in orizzontale, come faccio io da
sempre, la impugna nella maniera originale del chitarrista di flamenco.
Contrariamente alla mia, la sua posizione libera il gomito sinistro,
consente di tenere la schiena dritta, le spalle allo stesso livello e, soprattutto,
le mani e i polsi in una postura più naturale, molto efficace e altrettanto
rilassata. Mi basta provarla perché una tale posizione mi suggerisca una
serie di nuove possibilità. Non appena ho superato, con coraggio, la
scomodità delle prime ore, la pratica mi conferma ciò che pensavo: si
aprono porte fino a quel momento chiuse, i dolori spariscono, tecniche
inaccessibili diventano ipotizzabili.
Il mio lavoro quotidiano si fa più intenso: da un lato, insisto nell’imparare
nota per nota la soleá di Montoya (gli amici che quell’anno mi hanno
portato in vacanza a Sark ricordano ancora con terrore la mia costanza
nell’ascoltare e ripetere a ciclo continuo la stessa sequenza…) mentre,
dall’altro, ai miei ‘esercizi per il mignolo’ ne aggiungo di nuovi, inventati
con il passar dei giorni e delle difficoltà tecniche incontrate nelle mie
esplorazioni. Non appena m’imbatto in qualcosa che non riesco a fare o che
m’infastidisce, concepisco un esercizio adatto e lo aggiungo ai precedenti
per farlo diventare immancabilmente quotidiano. È così che viene a
formarsi, di giorno in giorno, una serie sempre più accurata, la cui natura ed
esistenza sono per me, al primo colpo, logiche e naturali quanto la
successione degli esercizi di danza. Presto attenzione a sistemare le cose
secondo un ordine di difficoltà crescente, per non usare violenza ai muscoli
e alle articolazioni prima che si siano scaldati. Reso sensibile dalle
innumerevoli ore di danza e dall’atteggiamento che ne è derivato, faccio il
possibile per rispettare la logica fisiologica dei movimenti e degli sforzi,
così da evitare costrizioni deleterie.
Questa serie, nel frattempo pubblicata, costantemente sviluppata e
perfezionata, funge ancora oggi da base inamovibile per il mio lavoro
chitarristico quotidiano.
Quando la soleá di Montoya mi diventa sufficientemente familiare,
comincio a imparare alcuni degli altri brani del disco. Vado sempre avanti
con la stessa procedura, accanita e solitaria, che mi riesce sempre più facile.
La sera, eseguo il brano – nel suo stato attuale – davanti a papà. Provo una
gioia immensa nel sentirmi sotto le dita ciò che amo così tanto ascoltare sui
dischi.
Un altro album mi fornisce una bella raccolta di brani. Il gioco nitido e
posato di Román el Granaíno ne fa un ‘professore’ perfetto. Inizio a
concepire le mie interpretazioni personali, creando un ibrido tra le
consuetudini degli svariati chitarristi che ascolto e mescolandole a ciò che
m’ispirano le mie preferenze individuali… Tempo qualche anno e metto in
piedi anche un repertorio tutto mio.
Al momento, le briciole di creatività che mi offrono le precise strutture del
flamenco mi bastano. Quando mi avventuro sul terreno della pura creazione
musicale, lì c’è il grande vuoto.
La mia tecnica migliora. Scopro che certi brani che ho imparato si
possono suonare in altro modo. Distinguo questo strano principio: un livello
tecnico elevato consente di affrontare le cose tramite percorsi semplici, ai
quali un livello inferiore non consente l’accesso… Lavoro soprattutto a
orecchio ma esamino con attenzione tutte le foto, tutti i documenti che mi
capitano sotto gli occhi. La copertina di un disco mostra un chitarrista con
l’unghia del pollice particolarmente lunga, un’altra fa vedere per puro caso
un movimento che ancora mi manca… Esploro queste strade con curiosità,
sperimento diverse lunghezze d’unghia, adotto certe sfumature e ne scarto
altre. Inizio a frequentare i negozi specializzati, dove però non mi sento a
mio agio. Sono guardato con occhio strano, come l’extraterrestre che in
effetti sono, giovane, venuto dal nulla, senza la raccomandazione di un
qualsivoglia professore. Provo degli strumenti, per il piacere di farlo, ma
nessuno di questi mi ‘parla’ davvero. Ascolto e osservo i chitarristi di
passaggio, li sento stupirsi della lunghezza delle mie unghie, suggerirmi di
ridurla o di utilizzare altre diteggiature; per quanto possa sembrare
incredibile, è raro che accetti i loro consigli. C’è qualcosa in me che sta sul
giusto binario, malgrado io sia appena uscito dall’adolescenza e quei
chitarristi siano in vantaggio su di me di parecchi decenni.
Al momento non penso affatto ai concerti. Suonare per qualcuno che non
sia una persona di famiglia mi provoca inquietudine. Chiaro, nessuno mi
forza, nessuno mi costringe a “mostrare agli ospiti quel che so fare”, la
tortura ben nota a migliaia di ragazzini e ad altrettanti invitati ipocritamente
entusiasti al momento dell’orripilante esibizione di violini o di flauti.
La mia crescita di musicista si sviluppa come la mia infanzia: dentro uno
scrigno di fiducia, priva di ogni precarietà, senza bisogno di dimostrare
niente, senza pressione e senza paura. Un giorno, per la festa organizzata
alla Ménagerie de Verre in onore degli ottant’anni di Jerome Andrews,
Carole torna a Parigi. Durante la serata, ci racconta di essersi trasferita di
nuovo nella capitale con l’intenzione di mettere su una compagnia di ballo.
La sua domanda è chiara: chi è pronto a lavorare con lei fin dal giorno
dopo? Delphine, Émilie (sua sorella minore) e Éléonore si dichiarano subito
disponibili. Per quanto mi riguarda, insisto: non sono più un ballerino ma
un chitarrista. “Benissimo”, risponde Carole senza considerarlo un ostacolo,
“allora portati dietro la chitarra!”. Mi sento un po’ turbato. Alla mia
prudente affermazione di essere ancora allo stadio di elaborazione tecnica,
lei risponde semplicemente: “Lavoreremo tutti assieme sulla tecnica, tu
come chitarrista, noi come ballerine”.
Carole è una visionaria, cosa che io ancora ignoro: anche se un po’
preoccupato, l’indomani mattina prendo il metró con Éléonore per tentare
l’esperienza. Carole conduce con maestria queste sedute di tre ore,
lasciandomi lavorare e osservare cosa fanno le ballerine.
Mi basta poco tempo per sentirmi parte di un tutto. La nostra preparazione
tecnica, il nostro riscaldamento, la nostra serie di esercizi hanno un legame
comune, e quando ‘le ragazze’ si mettono a improvvisare io faccio
altrettanto, in maniera del tutto naturale. La ricerca creativa si fonde fin dai
primi momenti. Con il passare delle settimane, alcune coreografie e le loro
musiche prendono forma: un assolo con Éléonore, un altro con Émilie, un
terzo con Carole.
Io e Carole lavoriamo su questa prima siguiriya, che estraggo dal
repertorio flamenco, con un’intensità tutta particolare. Ogni giorno la
raggiungo in una saletta nella quale proviamo, assieme a Delphine che
prepara un’altra coreografia su una musica diversa. È un lavoro da
formiche: le ore di fatica comune si accumulano, le abitudini, le emozioni
prendono piede. Curiamo ogni dettaglio, io scopro una professione. Preparo
un manifesto con piccole lettere autoadesive, forbici e colla. Mi viene
comprato il mio primo abito di scena, un Kenzo nero che non abbandonerò
più… Negli ultimi giorni di dicembre ha luogo la mia prima esibizione
pubblica. Faccio la conoscenza di un compare del quale ignoravo
l’esistenza: il panico.
Il pubblico è entusiasta. Ciò che aveva l’unica ambizione di essere
mostrato in una e una sola rappresentazione è immediatamente rimesso in
cantiere.
Prepariamo un nuovo spettacolo. Questa volta scrivo io la musica per un
balletto che vede assieme Delphine e Carole (Éléonore e Émilie ne
allestiscono un altro per proprio conto). Operiamo ad ogni livello:
coreografie, musiche, costumi, volantini. Allestisco grandi tendaggi sui
quali dipingo, con effetto trompe-l’oeil, un’aggiunta di parete che serve a
nascondere due aperture piazzate in fondo al palcoscenico della sala
prescelta.
Comincio a inventare della musica dal forte accento di flamenco. Durante
le prove il lavoro, nato da improvvisazioni collettive, si cristallizza, si fissa,
diventa di estrema precisione, padroneggiato in tutti i suoi dettagli. Anche
in questo caso l’accoglienza del pubblico, unita alla fortissima
soddisfazione di concepire e presentare uno spettacolo del genere, ci incita
in maniera del tutto naturale a proseguire le rappresentazioni.
Più vado avanti, più la chitarra Contreras mi sembra mostrare i suoi limiti.
Anche se con prudenza (per non attribuirle delle colpe prima di essere certo
che non si tratti di mie eventuali insufficienze tecniche), decido di
sostituirla. Papà e mamma si mostrano disposti a sostenermi, a patto che
riesca a trovare uno strumento che mi soddisfi di più. Visto che il negozio di
rue du Château non esiste più, inizio a visitare gli altri negozi di Parigi. E i
rivenditori, non appena capiscono che sono pronto a spendere una certa
somma, mi fanno provare strumenti di alto livello. Con mio grande stupore,
nessuno mi pare davvero superiore al mio. Preciso cosa sto cercando, ma i
negozianti mi guardano con aria dubbiosa. E soprattutto tentano di farmi
capire due cose: che tocca a me adattarmi allo strumento (e non il contrario)
e che una chitarra ‘scomoda’ è garanzia di buona riuscita nello studio (“chi
può di più può di meno; se padroneggi uno strumento difficile significa che
lo padroneggi nella sua totalità”).
Malgrado la giovanissima età e la mancanza di conoscenze che mi
consentono oggi di rifiutare in toto questi due cavilli assai diffusi, non mi
lascio smontare e proseguo la mia ricerca. Allargo il cerchio delle mie
esplorazioni. Ma tutti gli strumenti che mi sono proposti mi sembrano
troppo grossi, troppo pesanti, quasi inerti. A guidarmi ho solo il mio
orecchio, ma avverto con chiarezza – anche se in maniera empirica – che le
chitarre dei musicisti, le cui registrazioni ascolto molto spesso, sono più
leggere, più dettagliate, più vive.
Il fatto che nessuna chitarra da me provata corrisponda alle mie aspettative
dovrebbe spingermi a rimaneggiare quella che già possiedo. Non è proprio
il caso, sono mosso da un istinto imperturbabile. La proprietaria di uno dei
negozi finisce per riassumere la situazione a modo suo: “La chitarra che stai
cercando non esiste. Dovresti costruirtela da solo”. Pensa di essere un
tantinello cinica, ma sarà profetica: di sicuro a sua insaputa.
Allora mi decido a pazientare, cercando di tirar fuori il meglio dalla mia
Contreras. Inizio a provare corde di ogni tipo, imparando così come
possano cambiare il volto di una chitarra (nell’uno o nell’altro senso).
Imparo a distinguere ciò che conferisce il miglior suono e la migliore
comodità. Apprendo, soprattutto, a non tenere in conto ciò che dicono i
rivenditori o anche gli altri chitarristi, perché mi sembra evidente di essere
il solo a poter trovare la giusta alchimia tra il mio modo di suonare, il mio
gusto, la mia mano e la mia chitarra…
Un giorno, arrivato con larghissimo anticipo, vado a farmi un giro nel
quartiere circostante il palazzo in cui provavamo io e Carole. Al numero 8
di rue Grégoire-de-Tours, passo davanti a un negozio un po’ scalcinato, una
vera anticaglia, nel quale – sul ciglio di una paccottiglia impenetrabile – si
accalca un po’ di gente. Scorgo parecchie chitarre d’epoca. È questo a
darmi il coraggio di spingere la porta e di insinuarmi in quell’uscio chiuso
un po’ misterioso. Sono gentilmente abbordato, con un tono che lascia
pensare a una mia frequentazione abituale, da un signore imponente, vestito
di un completo tre pezzi color crema, uscito dritto dritto da Proust, uno di
quegli uomini dalla corporatura impressionante, dallo sguardo profondo e
dal sorriso benevolo dei quali, al primo contatto, già si intuisce il lungo e
ricco passato.
Alain Vian, fratello di Boris Vian, esperto di chitarre d’epoca,
appassionato di jazz, sottile musicologo, umorista degno di Guitry, ha visto
passare sotto i suoi occhi quasi tutto ciò che è accaduto in materia di
chitarre e chitarristi. Non ha una reputazione angelica: con me sarà di una
generosità impeccabile. Mi fa provare, durante la mia prima visita, una
vecchia Ramirez della fine del diciannovesimo secolo, una pura meraviglia,
una chitarra da elfo, tesa come un tamburo, leggera come una piuma, sonora
come una cattedrale. In pochi minuti ho la conferma che la mia intuizione
era giusta, che la mia ricerca non era vana, che tutto quel che mi era stato
detto era falso, che le chitarre antiche non sono soltanto leggere e delicate
ma anche comode: e che la chitarra che cerco esiste. Alain Vian sa bene che
non potrò mai acquistare quella Ramirez dal prezzo esorbitante, quindi me
ne lascia approfittare il più possibile. E, ad ogni mia visita, mi fa provare
qualcosa di nuovo: mi tiene da parte strumenti ricevuti per una perizia, mi
racconta storie di chitarre e chitarristi (da Django Reinhardt a Segovia, ha
condiviso la quotidianità con ciascuno di loro) e anche di liutai. Per me e
per la mia fame di chitarra è una miniera inesauribile. Grazie a lui,
incontrato durante una passeggiata imprevista, certi elementi decisivi della
mia personalità di chitarrista vanno al loro posto.
Ogni tanto papà e mamma passano a salutarlo. Vuol molto bene a
Delphine. Un giorno acquisto da lui una piccola chitarra, anch’essa della
fine del diciannovesimo secolo, l’unica alla mia portata. Una sera, mi fa
suonare per i suoi clienti, annunciando loro che un chitarrista così non lo
sentivano da molto tempo. Sono sconvolto, sapendo quali altri ha visto…
Un altro giorno mi regala, con fare di trionfo, un capotasto antico, in ebano,
che sognavo di trovare da anni. Poi m’insegna a cominciare sempre
annusando, dal rosone, l’odore che proviene dalla cassa di una chitarra e ad
analizzarlo come quello di un vino. Una sera seguente mi porge un fascio di
spartiti, di intavolature manoscritte a penna. “Forse sono autografe di
Tárrega”, mi dice. Non ci credo molto, ma le fotocopio e provo un certo
piacere a decifrarle. Sono i miei primi passi nell’universo della chitarra
classica.
Purtroppo il grande e bello Alain Vian muore qualche anno dopo. Non ho
mai avuto l’opportunità, come invece speravo, di acquistare da lui uno
strumento così miracoloso come quella veneranda Ramirez che provai la
prima sera nel suo negozietto.
È all’incirca in quel periodo che uno dei miei allievi,[7] un signore
appassionato di chitarra classica, mi passa una cassetta che ha registrato
apposta per me. Vi ritrovo certi brani (ancora un ‘caso’ fortunato!) presenti
sugli spartiti che mi aveva dato Alain Vian. Scopro, sotto le dita di Narciso
Yepes, come la chitarra classica sappia toccarmi. Ma, per il momento,
rimango un ascoltatore.
Nel 1990 Carole riparte per Venezia. Un po’ abbandonati come orfanelli,
io e Delphine ci facciamo carico dei preparativi per il successivo spettacolo
della compagnia da noi stessi battezzata “Atelier di creazione coreografica e
musicale Carole Catelain”. Senza perdere tempo nel tentativo di valutare la
fattibilità del progetto, affittiamo una sala, allestiamo una rappresentazione,
un programma, svariati balletti… Devo fare ricerche accurate per capire
come prendere contatto con la stampa, come sia possibile ufficializzare un
simile avvenimento. Non avendo mai ricevuto una formazione specifica nel
settore, non seguo le procedure e le gerarchie consuete; la differenza di
approccio finisce per aprirci certe porte presso i nostri interlocutori.
Un po’ per volta, mi familiarizzo con le incombenze amministrative legate
a questa iniziativa. Mi faccio carico, in ordine di apparizione, della
contabilità, delle certificazioni, dei documenti. Papà mi fornisce un sacco di
indicazioni, cerco io le altre, chiamo dei consulenti, leggo istruzioni. La
prima spedizione la facciamo in massa, imparo a gestire un indirizzario. Le
prenotazioni si moltiplicano, scopro la biglietteria. Carole giunge un po’
prima della rappresentazione con le sue coreografie, allestite a Venezia.
Questo nuovo spettacolo è un autentico successo. Carole riparte
definitivamente, ma io e Delphine capiamo che quella è la nostra
professione. Durante i mesi che seguono, fondiamo Accm Fusion (Atelier
di creazione coreografica e musicale Fusion). Scopro ed eseguo, uno per
uno, tutti gli adempimenti ufficiali necessari alla fondazione della
compagnia, a partire dalla redazione degli statuti fino all’apertura di un
conto bancario.
Delphine cerca delle sale, lavora alle scenografie, passa ore intere a
scegliere tessuti e a cucirli. Invitiamo altri artisti, cerchiamo personale
specializzato convertendolo alla nostra causa: un tecnico delle luci si
occupa dell’illuminazione, un fotografo delle immagini; Jeanne Moreau
legge il testo di una giovane scrittrice come prologo a uno dei nostri balletti.
I direttori di scena ci stanno dietro, ci raccomandano ai loro colleghi.
Abbiamo un pubblico fedele, i giornalisti sono affascinati, si aprono le porte
internazionali. Un successo senza fine.
Io e Delphine, dopo un’infanzia trascorsa mano nella mano, ci ritroviamo
uniti in un inebriante e incessante lavoro. Oltre che presi in un vortice che ci
trascina sempre più lontano, sempre più in alto. Io compongo senza sosta;
allestiamo uno spettacolo dopo l’altro, moltiplichiamo le ore e i luoghi delle
prove. A volte, arriviamo al mattino in una grande e scalcinata sala di Porte
Dauphine e ce ne andiamo soltanto al calar della notte dopo intere ore di
lavoro, alla fredda luce di qualche neon. In altre occasioni ci ritroviamo alle
sei del mattino in una saletta a Convention per provare due ore, prima
dell’arrivo di chi l’ha affittata in orari ‘decenti’. Il potenziale di Delphine
diviene affascinante. Viviamo le nostre vite, ciascuno per proprio conto, ma
le ore più creative, più costruttive, più coinvolgenti, più preziose, le
trascorriamo assieme, quasi ogni giorno. A volte, Éléonore ed Émilie
lavorano con noi. In altre occasioni è la mia amica cantante che,
momentaneamente, si unisce a noi. Io e Delphine siamo invitati per delle
rappresentazioni a Nîmes (dove Carole si è finalmente stabilita), a Saint-
Étienne (dove ci recheremo a lavorare ogni anno a dicembre), un po’
dovunque in Francia, poi in Spagna, in Svizzera…
La liuteria
Dopo le prove andiamo spesso al cinema. Durante l’allestimento dello
spettacolo con la mia amica cantante – che trascorreva qualche mese a
Parigi come ragazza alla pari – ci rechiamo a vedere un film appena uscito:
Un cuore in inverno, di Claude Sautet. Ci vado per gli attori, faccio la
conoscenza della liuteria, ne esco con un nuovo senso di appartenenza. In
quel film la liuteria – che è soltanto lo sfondo della vicenda – è trattata con
amore e rispetto, mostrata come l’universo in cui vivono i protagonisti,
senza smancerie, come una cosa naturale. Per me si tratta di una
rivelazione. Rimango per qualche giorno in uno strano stato d’animo, fatto
di emozioni trasmesse non solo dagli attori ma anche dall’atmosfera in cui
si fabbricano gli strumenti. La precisione dei movimenti, la delicatezza
delle operazioni, le conseguenze quasi magiche che può avere un piccolo
gesto, la calma che regola ogni intervento, la gioiosa concentrazione che ne
deriva… Tutto questo mi affascina. Ritrovo delle sensazioni provate con
Alain Vian o durante una lettura, sensazioni che però hanno acquisito un
nuovo significato.
Non ho ancora percepito la mia volontà di diventare liutaio ma, nei giorni
seguenti, tiro fuori un grosso volume, Le grand livre de la guitare, di Mary
Anne e Tom Evans, nel quale ritrovo un intero capitolo dedicato al lavoro
del liutaio José Luis Romanillos. Lo divoro, quel brano, ne analizzo ogni
dettaglio, assorbo ogni fotografia. Poi mi leggo tutto il libro, per scoprire
che vi è documentata, in maniera appassionata e precisa, tutta la storia
cosmopolita del mio strumento.
Passo in rassegna tutti gli scritti che ho a disposizione, ma mi rendo conto
che in questo modo non imparerò più di tanto. Sfoglio il catalogo
dell’Adac, senza trovarvi nulla di soddisfacente. Internet non esiste ancora e
non conosco nessuno in grado di darmi informazioni, avanzo a piccoli passi
ma, stranamente, non ho alcuna fretta.
La mia prima idea è di recarmi, ancora una volta, nei negozi di Parigi.
Inizio da quello gestito dalla signora che mi aveva assicurato che la chitarra
dei miei sogni non poteva esistere, perché so che ogni tanto vi lavora un
liutaio. Quando ci vado, lui non è presente. E quando spiego cosa
m’interessa, vengo accolto senza molto entusiasmo. Per la precisione,
cercano di farmi cambiare idea, spiegandomi che la liuteria è un mestiere
difficile cui, da sempre, è stato necessario dedicarsi in maniera esclusiva.
Non è una bella vita, quindi a che pro? Bisogna saper scegliere: si può
essere o un buon chitarrista o un buon liutaio, non si possono fare entrambe
le cose. Nella liuteria ci si ferisce, ci si spezzano le unghie, i liutai hanno le
mani rovinate… Un sacco di cose che oggi so essere completamente false.
Queste affermazioni non mi scoraggiano per niente: ho imparato, per cose
del genere, a fidarmi solo di ciò che provo in prima persona. In più, le mie
letture e l’esperienza acquisita grazie ad Alain Vian mi rendono molto
sicuro di me.
Vado al Salone della Musica per incontrare gran parte dei fabbricanti
francesi di chitarre. La loro accoglienza è glaciale, le loro argomentazioni
sono ugualmente fallaci. Tuttavia guardo gli attrezzi, racimolo qualche
informazione dispersa nei video che decantano le qualità di questo o quel
prodotto.
Ognuno di questi liutai, che per la maggior parte (ed è una cosa davvero
singolare) sono autodidatti, mi dice: “Se vuoi sul serio diventare un liutaio,
devi iniziare con una formazione professionale di falegnameria (tre anni),
poi migliorare l’apprendistato con una formazione di ebanista (due anni) e
infine iscriverti a una scuola di liuteria per una formazione ‘di violino’ (tre
anni), siccome non esistono scuole per liutai specializzati in chitarra…
Fatto questo, potrai tornare a trovarmi ed entrare da me come
apprendista…”.
Qualche tempo dopo, in vacanza nei Grigioni, in Svizzera, con la mia
amica Franziska, sfoglio le pagine gialle regionali. Ricordo, qualche anno
prima, di aver fatto visita a un giovane fabbricante di chitarre a Coira, la
capitale del cantone. Trovo due nomi, due numeri di telefono. Chiamo ‘per
vedere’… Non c’è nessuno, richiudo l’elenco. Per darmi una mano, la mia
amica chiama un fabbricante di pianoforti di sua conoscenza e gli spiega
cosa sto cercando. Anche in questo caso, lei va a cozzare contro le
spiegazioni più scoraggianti. Il tizio le dice che nessuno vive di quel
mestiere, e che i due liutai di Coira non sono dei professionisti.
Non ho fretta, ma non rinuncio al mio progetto né al modo di realizzarlo.
Non mi accontenterò di un compromesso, si è instaurata una fiducia
profonda: un giorno, a modo mio, raggiungerò i miei obiettivi.
Qualche tempo dopo, io e papà siamo a Coira. Spinto da un amico libraio,
torno verso la bottega del liutaio incontrato anni prima. Ci vado quasi
distrattamente. Apro, senza alcun secondo fine, la porta a vetri (non si varca
mai una soglia del genere dicendo a sé stessi: questo è un momento
decisivo…), piombo in un universo fatto di colori, di odori e di suoni che
corrispondono con esattezza alla mia visione onirica della fabbricazione di
strumenti. L’uomo al lavoro, chino su una chitarra aperta, le mani nella
cassa dello strumento e con un attrezzo lungo e sottile, alza la testa e mi
porge un semplice saluto.
Ho appena fatto la conoscenza di Werner Schär. Dopo qualche cortesia di
circostanza da ambo le parti, gli spiego il motivo della mia visita – come ho
già fatto decine di volte – con tono quasi scherzoso, giacché mi aspetto la
solita risposta.
“…e vorrebbe farmi vedere come costruisce una chitarra?”.
“Sì”.
Resto a bocca aperta.
Nella mia vita, i grandi avvenimenti entrano di solito dalla porta di
servizio, alla chetichella.
Torno a respirare.
“In autunno, dopo le ferie?”.
“D’accordo”.
Stabiliamo ancora qualche dettaglio e me ne vado appena dieci minuti
dopo essere arrivato.
Per le persone a me vicine, tutto sembra ovvio. Non ricontatto Werni nelle
settimane seguenti, ma mi organizzo per assentarmi da Parigi per qualche
tempo. Alla fine delle vacanze estive, non riprendo le mie attività parigine e
apro ufficialmente una parentesi di qualche mese. In settembre mi piazzo
dalla mia amica cantante, Franziska, il mio primo amore da adulto, che
abita a trenta chilometri da Coira. Appena trasferito da lei, richiamo Werni.
Lui tergiversa per qualche giorno, poi mi fissa un primo appuntamento nel
suo atelier. Oggi so che, all’epoca, non si aspettava certo che mettessi in
pratica il progetto accennato in primavera. Mi riceve un pomeriggio e mi
mostra diverse cose, alla maniera di un piccolo giro turistico. Ma questo
sightseeing non aggiunge molto alle mie letture. Lui se ne rende conto. Si
rende conto che non sono un villeggiante venuto a raccogliere cartoline.
All’improvviso, lo vedo tirare fuori un blocco di legno dorato e metterlo su
un banco. Poi cerca la sua preziosa pialla e la sistema lì accanto. E mi dice:
“Ecco del legno, ecco i miei attrezzi: mettiti a costruire una chitarra. Ne sto
costruendo una anch’io, quindi sono in grado di mostrarti tutti i passaggi
necessari: ,
”.
Fantastico Werni! Mi ha appena rivelato la formula grazie alla quale
posso, d’ora in poi, descrivere la mia idea di maestro, quello che vi
accompagna, mano nella mano, sul cammino dell’apprendistato, di pari
passo con la vita, senza precedervi, senza sfinirvi con una metodologia
preconcetta, senza distrarvi dal vostro percorso dando la precedenza alla
vostra forza viva con una serie di esami, senza imporvi dei questionari a
risposta multipla o percorsi a cronometro…
Va detto che non mi ha offerto del legno di qualità scadente e degli attrezzi
di poco valore: mi ha messo in mano, fin da subito, i suoi strumenti
migliori.
Werni non mi ha prescritto nessuna esercitazione preliminare, come prova
o su del materiale di scarto. Non ho dovuto, come certi apprendisti, ‘farmi
la mano’, impratichirmi su lavori di bassa lega, realizzare cinquanta pezzi
identici prima di passare alle faccende serie. Werni mi ha affidato i suoi
utensili senza neanche un corso di teoria. Me ne ha indicato il nome senza
neanche farmi passare la famigerata prova del “ma lo sai cos’è questo?”.
Mi ha fatto vedere un gesto, un’azione, e mi ha passato l’attrezzo.
È rimasto al mio fianco per osservare ciò che avrei fatto. All’occorrenza,
ha corretto o completato il mio lavoro. Tutto qui.
7 Molto presto, ho voluto dare lezioni di chitarra. Dopo aver preparato un bel volantino, inizio a
ricevere qualche allievo. Poi mi reco io da altri, senza minimamente esitare – nel mio zelo – ad
attraversare Parigi in cambio di pochi franchi. A poco a poco metto insieme centinaia di lezioni e
inizio a sviluppare, passo dopo passo, una ‘metodologia’ che definisco fisiologica. È così che
incontro qualche miracolo chitarristico, persone (giovani o adulte) nate per suonare la chitarra, un po’
scoraggiate dall’insegnamento tradizionale e che iniziano a fiorire. Costoro mi rinforzano, ogni
giorno, nella mia convinzione che per suonare della musica bisogna… suonare. E costruire una
tecnica così solida e ortodossa da poterla dimenticare molto in fretta.
Da quel primo giorno di lavoro con Werni imparo a cogliere le diverse
sfumature sonore incontrate tamburellando su diverse tavolette d’abete. A
quei tempi non avevo, com’è ovvio, l’esperienza che oggi mi consente di
‘prevedere’ le fasi che dovrà attraversare il legno durante la sua
metamorfosi, prima di giungere alle caratteristiche sonore dello strumento
finito. Ma, sollecitato da Werni, seguo il mio istinto, il mio gusto e anche i
suggerimenti che gli ispirano i vari legni da lui selezionati.
Dopo di che, m’insegna a utilizzare il piallone per ottenere una giunzione
assolutamente perfetta tra le due tavolette che formeranno il piano
armonico. Si tratta di un lavoro lungo e minuzioso, in cui è coinvolta
l’intera sensibilità del liutaio. Scopro l’esistenza dei trucioli, imparo a
decifrare le informazioni che ci offrono.
Alla fine, Werni mi mostra come utilizzare una pressa per incollare le due
tavolette, sulle quali disegno – che momento magico – la forma della
chitarra! A questo scopo mi servo di calibri: apprendo che derivano
direttamente da quelli del grande Torres, e che Werni ha seguito un corso di
formazione presso il liutaio José Luis Romanillos, lo stesso il cui lavoro ho
analizzato nel libro della coppia Evans! È così che termina una delle
giornate più fruttuose e decisive della mia vita.
Torno da Franziska, posseduto da una gioia, un entusiasmo e
un’‘impazienza’ incontenibili. Le settimane si susseguono con un ritmo
regolare e meraviglioso; prendo il treno quasi ogni giorno, vado a lavorare
con Werni, mi porto il pranzo da casa, sempre lo stesso (e lo consumo tra
gli utensili e i trucioli, nell’atelier silenzioso e profumato), rientro la sera,
stanco, contento e riconoscente. Un po’ alla volta, ottengo la fiducia di
Werni: la nostra amicizia si costruisce man mano che la mia chitarra prende
forma. Lui mi consegna la chiave della bottega, così da consentirmi di
lavorare anche fuori dal suo orario di negozio. E così inizio a ricevere i
clienti che passano quando rimango da solo. Le mie precedenti esperienze e
l’amore incondizionato che provo per tutto quel che viene fatto in questo
negozio mi consentono di essere istantaneamente operativo. Werni ne è
estasiato.
Un pomeriggio in cui sono solo mi azzardo a prendere in mano una
chitarra costruita da Werni, appena arrivata per un controllo. Un’occasione
del genere non si è ancora mai presentata; del suo lavoro conosco soltanto
la chitarra che sta costruendo davanti ai miei occhi. Apro la custodia. Lo
strumento è magnifico, in legno d’ulivo; mi basta sollevarlo per ritrovare il
senso di sostentamento provato con la Ramirez di Alain Vian.
Suono qualche nota e sono colto da una grande emozione. Comodità,
estetica, sonorità, forza, leggerezza: questo strumento mi sconvolge in tutto
e per tutto. Non me l’aspettavo proprio. Avevo già scoperto la competenza
di Werni, ho appena scoperto che è anche un liutaio della tempra di Torres.
Durante le nostre ore di lavoro comune, vedendo che le cose che mi dice
mi ‘parlano’, che le assimilo e le applico con affetto, Werni mi spiega
sempre maggiori sfumature, mi mostra sempre più ‘segreti’. Imparo ad
affilare gli utensili fino a trasformarli in autentici rasoi, a regolare le pialle
con tale precisione che non serve alcuna forza per ottenere dei trucioli
perfetti: garanzia di non violenza nei confronti del legno.
Perché Werni m’insegna a non far mai del male alla materia, a non forzare
mai il legno, a capirlo e ‘sentirlo’ prima di lavorarlo, a osservare la
direzione delle venature per evitare di ‘forzare’. Mi accorgo con entusiasmo
che Werni ricorre alla stessa finezza anche quando suona la chitarra. Si
concentra con tutto sé stesso per produrre dei suoni altrettanto cesellati e
curati dei pezzi di legno che forgia senza impazienza. Capisco che, con ogni
evidenza, mi hanno raccontato delle sciocchezze e che essere un liutaio di
alto livello non impedisce in alcun caso di essere un chitarrista provetto; a
quanto pare, le due attività si completano, si arricchiscono a vicenda,
affinano la nostra coscienza con le loro implicazioni reciproche.
La calma necessaria alla liuteria s’impadronisce di me. I giorni passano
con tanta dolcezza e grande regolarità. Tra settembre e dicembre viene al
mondo la mia prima chitarra. Con lei si realizza la missione che mi ero
prefissato, quella a cui Werni aveva accondisceso. È il momento di mettere
le cose a posto, di tornare a Parigi e inventarmi un futuro, una strada da
prendere con il nuovo mondo che tengo tra le braccia. Lasciare l’atelier,
lasciare questa quotidianità, separarmi da Werni, mi rattrista tantissimo.
Anche lui (che fino a quel momento aveva apprezzato la solitudine della
sua bottega) non sa nascondere una tristezza che mi commuove. Mi
concedo qualche settimana di riflessione. Le giornate parigine riprendono i
loro diritti. Io e Delphine ci rechiamo a Nîmes per uno spettacolo messo su
in pochi giorni. È l’occasione di andare in scena, per la prima volta, con la
chitarra che mi sono costruito.
Le rappresentazioni confermano una sensazione che mi attanaglia dal
giorno della mia partenza da Coira: questa chitarra, per quanto bella, non
corrisponde per niente alle mie aspettative. Al momento non riesco a
immaginare le felici conseguenze di questa certezza: sento che mi opprime,
mi logora.
In gennaio torno da Werni. Analizziamo assieme i motivi della mia
insoddisfazione. Lui è categorico: devo costruire una seconda chitarra. Il
fatto che mi sia impossibile trasferirmi per molto a Coira non gli sembra
insormontabile: mi esorta ad acquistare degli attrezzi e a lavorare a casa mia
dopo essermi sistemato la stanza a questo scopo. Anche lui ha iniziato in
questo modo, sul tavolo della cucina. Vengo trascinato dalla sua sicurezza.
Quello stesso pomeriggio, la decisione è presa: scegliamo del legno tra
quello che ha a disposizione. Trascrivo delle segnature, copio a mano libera
certi schemi. Werni mi regala uno dei suoi preziosi calibri a corsoio.
Tornato a Parigi, batto i negozi di faubourg Saint-Antoine, spesso in
compagnia di papà. Trovo, uno dopo l’altro, tutti gli attrezzi di cui ho
bisogno. Raccolgo qua e là alcune informazioni: mio cugino ebanista
m’indirizza da certi fornitori che mi accolgono con benevolenza e mi danno
qualche consiglio. Questi signori di una certa età sono entusiasti di
conoscere un giovanotto pieno d’ardore e di rispetto, e così fuori moda da
interessarsi sinceramente al loro lavoro.
La mia stanza si riempie di trucioli. Ogni sera devo passare l’aspirapolvere
per non invadere tutta la casa o danneggiare gli apparecchi e i libri riposti
nei miei armadi. Lavoro svariate ore al giorno, in aggiunta alle mie altre
attività. Non ho scordato quasi niente delle procedure, delle azioni e delle
tempistiche applicate da Werni: alcune fatte una sola volta, ma con
passione. E, quando ho un dubbio, consulto le innumerevoli fotografie
scattate nell’atelier di Coira o, in alcuni casi, telefono a Werni. Per potermi
spedire certi documenti, lui acquista un fax…
Faccio enormi progressi. Una sera torno tardi dalle prove e trovo un
biglietto sul piano armonico nel quale ho appena finito il lavoro d’intarsio
del rosone: “Complimenti. L’hai fatto con bellezza e precisione. Papà”. La
mia famiglia segue i miei progressi un passo alla volta, e stringe i denti
quando faccio troppo rumore o troppa polvere. Vedere una chitarra che
nasce nella mia stanza ha qualcosa di magico. Una sera, io e Éléonore
andiamo al cinema a vedere un filmetto delizioso, Mauvais garçon, nel
quale appare un chitarrista e si ascolta Adelita di Tárrega. Questa musica ci
seduce, ci possiede nelle ore che seguono. Mi ricordo di avere lo spartito
nella pila d’intavolature che mi ha regalato Alain Vian. Lo tiro fuori e mi
metto a leggerlo, con grande felicità. Per inciso, ho appena mosso i miei
primi passi nella musica classica per chitarra. Quest’avanzata non si
fermerà più: imparo brani l’uno dopo l’altro. Werni si lascia coinvolgere e
trascrive per me alcuni brani sotto forma d’intavolatura. Riesco a leggere
uno spartito scritto in maniera tradizionale, ma con un’intavolatura mi sento
più libero. La dedizione di Werni mi colpisce.
La costruzione degli elementi della mia chitarra è quasi ultimata. Non ho
dovuto acquistare chissà che attrezzatura: per la piegatura delle fasce e il
montaggio finale porto i pezzi finiti da Werni. In aprile inizio a dare la
vernice, monto le corde e scopro che, questa volta, ho in mano la chitarra
che desideravo… Werni ispeziona la costruzione, la vernice. E mi propone
di diventare suo socio, cosa che accetto con grande emozione.
Ci accordiamo sul mio ritorno a Coira per due mesi, dopo le vacanze
estive. Ma nel frattempo la mia vita cambia completamente. Io e Franziska
ci lasciamo, incontro una ragazza che mi apre nuovi orizzonti, ma che non
vuole esplorarli al mio fianco. Già molto provato da questi avvenimenti,
devo comunicare a Werni, con grande dispiacere, che non ho più una
sistemazione in Svizzera.
Quel che contraddistingue Werni è la sua capacità di prendere subito in
mano le situazioni, quando riguardano la sua tribù. “Nessun problema”,
risponde. “Vieni, ti ospitiamo noi. Ma non rinunciamo al progetto”. Faccio
le valigie e parto.
Werni e la sua famiglia si sono appena trasferiti in una casa dieci
chilometri fuori città. Mi accolgono a braccia e cuore aperti, come il quarto
figlio della famiglia. Ha inizio una vita quotidiana magica. Mi lancio nella
costruzione di una terza e una quarta chitarra. Mi faccio carico di alcune
riparazioni. È Werni a guidarmi là dove manco di pratica. Approfittando
della mia esperienza con il palcoscenico e con i mass media, mi dedico a
suscitare l’interesse della stampa e del pubblico sul lavoro di Werni. Sono
fiero di vedere che questa ‘campagna’ porta qualche frutto. Nell’atelier
lavoriamo quasi sempre in silenzio. Ma la sera, visto che abitiamo sotto lo
stesso tetto, le nostre conversazioni – alle quali si aggiunge Cecilia (sua
moglie) – diventano degli autentici viaggi, sempre più intimi e profondi.
Scopro la saggezza che vive dentro di lui e che per me, a volte, è decisiva.
Oltre a essere il mio maestro, diventa l’amico più vero e prezioso che io
abbia mai avuto. Un autentico esempio, una protezione. E quest’affetto
venuto dal cielo è reciproco, e la gioia che ne deriva rinforza e sostiene
entrambi. Questa favola si è prolungata. Gli anni sono passati, il nostro
legame non si è mai allentato, la nostra collaborazione si è rafforzata,
abbiamo preso – tutti e due – molte nuove decisioni e strade professionali
ma sempre consultandoci a vicenda. Ci telefoniamo quasi tutti i giorni. E se
ci è impossibile comunicare, sappiamo comunque che esistiamo l’uno per
l’altro, incondizionatamente.
Non posso terminare questo capitolo dedicato alla liuteria senza parlare
del mio primo allievo, Jean-Marie. Una sera, durante una delle nostre
conversazioni e preso da uno di quegli attacchi di riconoscenza che spesso
mi sommergono, dico a Werni: “Come farò a ricambiare, un giorno, quel
che mi hai dato?”. La risposta di Werni è chiarissima: “Non puoi rendere
ciò che ti è stato dato, quindi impegnati a trasmetterlo a qualcun altro”.
Consapevole dell’importanza di una tale missione, decido di attendere un
incontro che mi consenta di realizzarla. Un giorno mi chiama un giovanotto.
Raccomandato da un amico comune, mi spiega che gli piacerebbe imparare
allo stesso tempo la chitarra e la liuteria. Come capita a tutti i liutai, è una
richiesta che mi sento fare spesso. Questa volta, però, l’approccio è
piacevole e propongo a Jean-Marie di prendere, almeno in un primo tempo,
lezioni di chitarra, nel corso delle quali affrontiamo regolarmente
l’argomento liuteria.
Lui osserva i miei attrezzi, il mio legno, le mie foto, i miei libri. Un
giorno, senza ‘appuntamento’, decidiamo di recarci al faubourg. Lo
accompagno, lui acquista i suoi primi materiali. Sceglie del legno tra quello
della mia scorta, gli passo alcuni dei miei utensili. Il suo appartamentino si
trasforma in un campo trincerato per un liutaio appassionato. Tempo
qualche mese, mentre tra noi s’instaura un rapporto di fiducia e nasce
un’amicizia, Jean-Marie costruisce la sua prima chitarra mostrando una
capacità innata. Io lo accompagno con il rigore e l’affetto che mi aveva dato
Werni. Jean-Marie avrà la fortuna di lavorare su commissione fin dalla sua
seconda e terza chitarra.
Il teatro
Con la stessa importanza dei concerti, il teatro ha da sempre fatto parte
della mia vita. La descrizione di come ci comportavamo ai concerti si
applica, con ogni evidenza, anche allo spettacolo. Fin dalle prime volte,
affascinato ed entusiasta, mi affanno a osservare e analizzare tutti i modi di
funzionamento e tutti i rituali del teatro, dal balletto delle maschere fino ai
saluti e agli applausi passando per le tre scampanellate, il movimento del
sipario e quello degli attori, le loro entrate e le loro uscite, l’inizio degli atti
eccetera.
Spesso, soprattutto dai miei nonni a Lézan, dove la famiglia si riuniva,
mettevamo su – come tutti i bambini – degli ‘spettacoli teatrali’ cui
invitavamo tutto il parentado.
Un po’ più avanti, dopo aver registrato dalla radio una trasmissione
integrale della deliziosa commedia di Sacha Guitry, La parola di
Cambronne, decidemmo di impararla e recitarla in famiglia. Ascoltai e
riascoltai la commedia fino a riuscire a imitare anche la più piccola
intonazione dello stesso Guitry, di cui avevo scelto la parte.
Andò allo stesso modo per Topaze, di Marcel Pagnol. Papà possedeva una
registrazione fatta negli anni Sessanta. Per parecchi mesi fu il nostro disco
preferito. A forza di ascoltarlo e analizzarlo finimmo per impararlo a
memoria, scena dopo scena, inflessione dopo inflessione.
In seguito mi specializzai nell’imparare gli sketch dei miei umoristi
preferiti e riproporli al pubblico di famiglia. Più tardi ancora, visto che i
nostri amici Zelda e Némo si occupavano di teatro amatoriale con i loro
genitori, io e Éléonore ci ritrovammo regolarmente coinvolti, con grande
piacere, nei loro allestimenti. Preso dal gioco, ho anche scritto per loro un
testo teatrale, Le cheval noir.
Nonostante tutto questo, non ho mai preso in considerazione l’idea di
dedicarmi al teatro come attore.
Qualche anno dopo, ai tempi di quelle famose vacanze con Franziska nei
Grigioni, in cui sfoglio le pagine gialle regionali alla ricerca del numero di
telefono di Werni, la nostra amica Kristine, giovane tedesca con la quale
siamo venuti da Parigi, mi dice che sta allestendo – assieme agli allievi del
suo corso di teatro – un lavoro tratto da Shakespeare. E che stanno anche
cercando un musicista per quello spettacolo.
La proposta mi piace subito. Tornato a Parigi, incontro la piccola
compagnia e il suo regista, Giancarlo. Il contatto funziona. Mi avevano
avvisato che Giancarlo non è sempre un tipo accomodante. Non avverto
niente del genere, sono colpito dalla sua competenza, dalla sua
professionalità, dal suo rigore, che ricorda quello delle professioni sceniche
‘a rischio’ come la danza o il circo. Quando mi chiede di suonare, faccio
appello alle tecniche d’accompagnamento che ho sviluppato per la danza,
aggiungendo l’atteggiamento musicale che m’ispira, lì per lì, la presenza di
interlocutori che parlano.
Giancarlo apprezza. Decidiamo di collaborare su questo progetto. Durante
le ore di prova, osservo Giancarlo con molta attenzione: il mestiere di
regista, che sto scoprendo, inizia ad affascinarmi.
Dopo l’unica rappresentazione di questo lavoro rimango in contatto, più o
meno frequente, con Giancarlo. Ci invitiamo reciprocamente ai nostri
spettacoli, ma non si delinea alcun nuovo progetto.
Da parte sua, Delphine lavora con un amico comune, che dirige una
piccola compagnia e un piccolo teatro parigino proprio nel cuore
dell’edificio abbandonato dei magazzini frigoriferi della Sncf, affittato e
reso vivo da un brulicare di ogni genere di artisti. Ogni tanto andiamo lì a
fare le prove. Delphine cura le coreografie di alcuni spettacoli della
compagnia. Poi mi sento proporre di farne parte e di associarmi a un doppio
progetto. Si crea una perfetta alchimia, io compongo e interpreto la musica
di entrambi gli spettacoli. Per l’appunto, la compagnia viene riorganizzata e
ci propongono di farne parte. Aderiamo con entusiasmo. Non esiste una
vera e propria gerarchia, tutti quanti hanno una grande responsabilità e i
ruoli si dividono (o si scelgono). Poco tempo dopo, si decide di ristrutturare
la sala, di farne un piccolo teatro con tutti i crismi e di organizzare un
festival. La compagnia è tenuta assieme da un grande rigore e dall’amicizia
profonda tra i suoi membri. La nostra Accm Fusion si unisce a essa, i nostri
spettacoli sono creati e presentati in comune. Con l’aiuto di Werni, supero
uno scoglio importante: l’aggiunta di un convertitore digitale alla mia
chitarra. La mia musica assume una nuova dimensione, invento
l’electroclassic®, ne deposito il marchio e stabilisco il codice.[8] Andrò per
sei anni in quel teatro, con Delphine e le nostre due sorelle, quasi ogni
giorno. Proviamo presto, prima degli altri, verso le sette del mattino. E ce
ne andiamo, spesso a notte fonda, chiudendo la sala dopo una giornata di
festival.
Mi accosto a tutti i mestieri del teatro. Perché lì facciamo tutto. La cucina.
La sartoria. L’accoglienza al pubblico. La gestione delle scorte, del
magazzino, delle lampade. L’installazione delle gradinate. Il montaggio
delle luci. Lo smontaggio delle luci. I bozzetti dei volantini. La correzione
dei testi. La costruzione delle scenografie. L’elaborazione dei costumi. La
verniciatura. La regia. La scrittura. La musica. Le coreografie. Le
riparazioni. La spesa. La programmazione. Il casting. La contabilità. Le
prove. L’amministrazione. I manifesti, la biglietteria, i programmi di sala.
Di volta in volta sono musicista, regista, compositore, barista, cassiere,
direttore, correttore, tecnico, telefonista, professore, produttore, maestro
accompagnatore, falegname, designer, interprete, saldatore, elettricista,
ritagliatore di gelatine, sorreggitore di scale a pioli, addetto alle pubbliche
relazioni, preso dal panico, pieno d’allegria…
Per il nostro festival, mi viene l’idea di invitare la compagnia di
Giancarlo. Va tutto bene, e lui diventa uno dei fedelissimi della nostra
struttura.
Un giorno, mentre presenta uno spettacolo con una nidiata di allievi, mi
prende da una parte e mi dice: “André, avresti voglia – su due piedi, perché
il musicista inizialmente previsto ci ha appena lasciato – di comporre la
musica del mio prossimo spettacolo? La prima è fra tre settimane; dopo di
che, ti portiamo al festival di Avignone. Saresti così pazzo da dire di sì?”.
La mia fiducia in Giancarlo è grande quanto il desiderio di lavorare con lui.
Recarmi al festival di Avignone mi rende felice. Raccogliere la sfida di
comporre e organizzare un’ora e mezzo di musica in un intervallo di tempo
così breve mi stuzzica. Accetto.
Nel primo fine settimana di prove, chiedo a Giancarlo e alla sua
compagnia di farmi vedere il lavoro una prima volta, da semplice spettatore.
Il testo di Xavier Durringer mi sorprende e mi colpisce. Alla seconda prova
faccio qualche intervento musicale, sparso qua e là. Alla terza finisco di
comporre la musica. Siamo commossi e felici. Dopo le prime parigine,
partiamo per Avignone.
Andiamo in scena per un mese, tutte le sere. Io sono al settimo cielo:
scoprire Avignone e le sue tradizioni è, nelle mani di Giancarlo, una felicità
costante. L’anno successivo torniamo con due spettacoli e una compagnia
allargata. Non ne sono più soltanto un ospite, sono diventato un membro.
Sotto molti aspetti, l’esperienza acquisita sul campo mi permette ogni
giorno, con la massima naturalezza, di farmi carico di ruoli che escono
dall’ambito dei miei incarichi di partenza.
La responsabilità che mi affida Giancarlo cresce di giorno in giorno. Il
nostro rapporto si trasforma in una sincera amicizia. Io lo considero come il
migliore dei capitani, sono fiero di essere un ufficiale a bordo della sua
nave. Più lo guardo, più sono colpito dalla molteplicità e dall’intensità delle
cose che sa fare. Riesce a estrarre, grazie a un lavoro meticoloso e con
un’empatia silenziosa, il meglio da ciascuno di noi. Dopo il secondo festival
di Avignone ha inizio la gestione degli spettacoli. Bisogna rendere
professionale e organizzata la compagnia. Anche se sono allergico alle
scartoffie, ne divento l’amministratore.
La mia vita quotidiana si divide tra l’Accm Fusion e le altre due
compagnie. Ma, salvo quando non coincida con un periodo di
rappresentazioni, m’impongo di lavorare una settimana al mese con Werni.
Nel corso degli anni, il volto delle compagnie si trasforma: mentre una
sospende temporaneamente l’attività, io esco dall’altra, il ‘mio’ teatro, a
causa di un grosso disaccordo con il suo presidente, lasciandomi alle spalle
sei anni della mia vita.
Ma, assieme a Giancarlo, continuo ad allestire spettacoli in stretta
collaborazione. Non tutto è sempre idilliaco, affrontiamo crisi, incidenti,
annullamenti, slealtà, rischio di fallimento, ma incontriamo anche il
coraggio, l’abnegazione, la riconoscenza, il successo…
Nell’avversità come nella gioia, il legame che ci unisce si rafforza. Oggi
neanche ci viene in mente di allestire degli spettacoli l’uno senza l’altro, né
di passare un giorno senza parlarci. Abbiamo fondato una nuova
compagnia, scelto dei nuovi soci, assunto tutti i ruoli, investito tutti i nostri
mezzi, fatto valere la nostra esperienza e le nostre competenze allo scopo di
creare senza concessioni, di spronare il successo e, soprattutto, di restare
fedeli alla nostra etica.
Il giornalismo, la scrittura
Da sempre ho visto papà scrivere; da sempre i libri hanno fatto parte della
nostra realtà e, tra essi, per me è sempre stato naturale trovarne qualcuno
scritto da lui.
Fin dalla mia più giovane età ho giocato a scrivere. Talvolta al fianco di
papà. Ho creato innumerevoli volumi piegando e riempiendo fogli di carta.
In certi casi li cucivo nel mezzo, con l’aiuto della mamma, per farne ‘veri e
propri’ libri che riempivo di metodici zig zag e, più in seguito, di lettere
sparse. Nessuno mi ha mai spiegato i concetti di copertina, titolo, foglio di
guardia o quarta di copertina: è stata la semplice osservazione a rendermeli
evidenti fin dal principio.
In seguito, ho dedicato un fascicoletto a ciascuno dei miei centri
d’interesse: l’antica Roma, ‘Toco’ il mio robot di Lego (sul quale avevo
inventato tutta una storia), la lavorazione del rame, le automobili, la Leica,
la Simca 1100, il mio dragster, la fotografia e, in pratica, tutte le mie altre
occupazioni, fossero durevoli oppure no. Allo stesso modo, ho scritto
moltissime storie. In generale, dopo la prima stesura, m’impegnavo a
riscriverle in bella calligrafia, o addirittura a macchina. Mi occupavo
dell’impaginazione, del rispetto delle regole tipografiche, di usare la carta
più spessa per la copertina. E provavo sempre un grande piacere a guardare
e riguardare il frutto del mio lavoro. Molto presto, poi, ho scoperto di avere
una particolare inclinazione per il giornalismo. Ho sempre adorato i
giornali, le riviste, le gazzette. A papà arrivavano a casa alcune
pubblicazioni, e io ne analizzavo in maniera sistematica la forma, ancor
prima di saperne decifrare il contenuto.
Appena ho imparato a scrivere, ho concepito e realizzato, senza nessun
aiuto, un bollettino d’informazione familiare, regolarmente spedito ai miei
nonni. Anche in quel caso, prestavo grande attenzione ai ‘fogli stile’,
all’inserimento delle fotografie (solitamente prese con l’automatica del Bon
Marché), all’immutabilità del ‘design’ e delle rubriche. Avevo ingaggiato la
mamma come co-redattrice e Éléonore come illustratrice. È grazie a questa
Information familiale che ho apprezzato per la prima volta il piacere di
‘chiudere’ il numero di una pubblicazione… Qualche anno più tardi,
ispirato da certe letture deliziosamente antiquate, ho fondato il Petit Journal
des enfants, del quale Éléonore era l’unica destinataria.
Lavoravo senza sosta alla ricerca di idee per gli articoli, che scrivevo in un
linguaggio volutamente adatto ‘ai bambini’ e che illustravo a colori, e
consegnavo il giornalino nei tempi previsti. Di tanto in tanto, ci prendevo
molto gusto a ‘modernizzare’ il progetto grafico e ad annunciarlo con lo
strillo ‘nuova versione’ messo di traverso sulla copertina.
Avevo all’incirca quindici anni e la mia passione per le automobili era al
culmine. Némo (di qualche anno più piccolo di me) iniziò a diffondere tra i
suoi conoscenti, i membri della famiglia e i clienti del padre, un giornalino
culturale dal titolo L’Hebdomadaire. Ne divenni subito un lettore. Dopo di
che proposi a Némo di creare un supplemento di una pagina dedicato ai
motori. Lui accettò e io mi misi a redigere questa pagina aggiuntiva che
battezzai GAZette d’échappement. Anche in quel caso prestai la massima
attenzione a creare e perfezionare l’impostazione grafica e le rubriche.
Sviluppai una calligrafia che assomigliava ai caratteri a stampa e definii un
apposito ‘tono’ e uno stile d’illustrazione.
L’avventura mi portò più lontano del previsto. Dalla sua unica pagina
iniziale, la GAZette passò via via a quattro, addirittura a otto pagine. La
redazione degli articoli mi prendeva molto tempo, proprio come la
realizzazione delle illustrazioni. I lettori ponevano domande molto precise
cui m’impegnavo a tutti i costi a rispondere, anche se mi costava lunghe ore
di ricerca. Ma quel che mi prendeva più tempo era l’impaginazione. Da
perfezionista quasi maniacale, passavo ore intere a copiare in bella i miei
articoli, intollerante verso le linee irregolari o inclinate. Poi, una volta
fotocopiato il giornale in bianco e nero, creavo degli stampini per colorare
in serie le mie illustrazioni! (Il che implicava preparare in sequenza le
suddette immagini, alla maniera delle basi per colorare).
La mia GAZette d’échappement divenne un’autentica ossessione. La
vastità dell’impresa, la quantità delle rubriche (tra cui un supplemento, che
mi consentiva di dare libero sfogo a un lato più romantico…), unite al
bisogno di mantenere la periodicità settimanale, mi portarono a dedicare sei
giorni alla settimana a questo incarico (mi concedevo un giorno di riposo il
mercoledì, giorno dell’uscita ufficiale) e a conoscere i miei primi veri
stress.
Da parte sua, anche Némo era sfiancato. Passammo a una scadenza
quindicinale. Poi il giornale si spense lentamente, su un ultimo e solitario
numero della GAZette d’échappement. Di lui mi rimangono un ricordo
commosso e un certo orgoglio.
Qualche tempo dopo ebbe luogo il nostro primo spettacolo. La mia
passione per la musica, dapprima parallela a quella per i motori, passò da
quel momento in primo piano. Per due o tre anni la scrittura si è limitata,
per me, alla stesura quotidiana di qualche riga o di qualche pagina nel mio
diario personale. Dal gennaio 1986 non è passato un solo giorno senza che
affidassi alla carta, in maniera semplice e regolare, gli avvenimenti e le
sensazioni che ho vissuto.
8 Con il termine electroclassic® si indica il genere musicale basato sui seguenti principi: 1)
ibridazione tra la musica classica e l’elettronica; 2) ciascuna nota è suonata dallo strumentista nel
momento in cui si sente; il macchinario interviene sulla conversione dei suoni ma non sulla loro
produzione né sulla loro quantità; 3) le tecniche di studio sono utilizzate all’unico scopo di
ottimizzare la qualità del prodotto o delle incisioni, ma non per sovrapporre tracce registrate
separatamente.
È in conseguenza della mia prima grossa pena d’amore che mi sono
rimesso a scrivere, durante il primo soggiorno presso la famiglia di Werni.
Pensavo semplicemente di ‘romanzare’ gli amori incrociati e tempestosi
appena trascorsi; tempo qualche settimana mi trovai ad assistere, quasi a
mia insaputa, alla nascita di una storia, di un paesaggio, di un universo del
tutto coerenti, seducenti, venuti dal nulla. Mi sentivo il semplice reporter e,
a volte, lo spettatore attonito. Come per la musica che compongo, mi
sentivo (e mi sento sempre) travolto da una ‘cosa’ che utilizza il mio lavoro
come intermediario verso una forma visibile, senza essere del tutto una mia
creazione.
E senza troppo chiedermi quale fosse il seguito, mi misi a ribattere tutto il
mio scritto sul primo computer della nostra azienda, nuova recluta
contemporanea di quell’incredibile periodo. Anche impaginato e
meticolosamente allineato in Times, come sapeva fare quella macchina, il
mio manoscritto si avvicinava ancora alle duecento pagine. Ne rimasi
esterrefatto.
Appena dato l’ultimo ritocco a quel manoscritto, un’idea ancor più
inattesa iniziò ad assediarmi la mente. Mi sedetti davanti al computer e la
buttai giù d’un colpo, scoprendo con sorpresa che un certo stile si faceva
valere. Contrariamente ai miei tentativi adolescenziali, avevo la sensazione
che lo stile in questione, di sicuro influenzato dal mio amore per Proust,
Balzac, Camus eccetera, non si limitasse più alla loro goffa imitazione.
Durante la gestazione di quel secondo manoscritto mi resi conto che il
testo si stava trasformando, in maniera del tutto naturale, nel seguito di
quello precedente. M’impegnai dunque a garantirgli non solo
l’indipendenza ma anche il collegamento, così che fosse possibile leggere le
due vicende sia in maniera separata sia consecutiva.
La breccia della scrittura era ormai riaperta. Ogni giorno scrivevo almeno
una pagina di fax a Werni e alla sua famiglia. Vi narravo, in tedesco, la mia
vita quotidiana e le mie sensazioni: una specie di fratellino pubblico del mio
diario privato, ma dalla forma più curata. Scrissi anche due lunghi articoli
su Werni, destinati alla stampa dei Grigioni, Poi, qualche tempo dopo, curai
anche tutti i testi del suo sito internet. Dovevo essere conciso e accessibile
sempre rispettando le aspettative, le esigenze, i desideri di Werni e Cecilia:
una sfida che mi piacque, proprio come perfezionare al massimo grado il
proprio lavoro.
Scrivere in tedesco occupava una buona parte del tempo lasciato libero
dalla musica, dal teatro e dagli spettacoli. Durante le prove, mi capitava di
mettere a frutto ogni pausa per modellare con il pensiero delle frasi in attesa
o in gestazione.
Una di quelle sere ricevetti una lettera da Guinevere, giovane donna
virtuosa del tedesco, cineasta e autrice. Mi aveva visto in una trasmissione
della tv svizzera e voleva farmi qualche domanda. Fu così che ebbe inizio la
più grande avventura di scrittura bicefala che abbia mai conosciuto. Quel
che era cominciato come uno scambio di corrispondenza si sviluppò in
un’epopea epistolare. Malgrado avessimo entrambi un’intensa vita
professionale ci precipitavamo, al mattino, sui nostri computer per leggere
ciò che aveva scritto l’altro. E a volte la stesura delle risposte, rimuginata
durante la giornata, ci portava fino a notte fonda. Ero (e lo sono ancora)
terribilmente lusingato dal fatto che Guinevere condividesse questa febbre,
questa intimità creativa, questo gioco impetuoso, questo ritmo indiavolato.
Quell’ondata di scrittura terminò nel giorno in cui c’incontrammo di
persona. O fu il contrario?
Gli anni seguenti furono dedicati all’inebriante stesura di due ultimi
volumi e a quella, più prosaica, di svariati brevi articoli e testi in tedesco.
È ancora grazie a Guinevere che mi sono innamorato di una forma
moderna di scrittura in pubblico: il forum su internet. Ho scoperto una sera,
quasi per caso, che i lettori della sua rubrica settimanale commentavano i
suoi scritti su un forum. Le discussioni erano brillanti. Iniziai a osservare i
protagonisti e le abitudini di quel microcosmo, poi vi entrai a mia volta
inventandomi un personaggio assai metaforico – probabilmente un po’
troppo, per il pragmatismo di certi habitué – che si ritagliava con costanza
uno spazio. Provai la stessa impazienza, la stessa febbre, la stessa curiosità
di quando corrispondevo con Guinevere. Salvo il fatto che, questa volta,
l’anonimato era totale e la scrittura pubblica.
Non sono rimasto attivo a lungo su quel forum, ma ho finito per prendere
gusto a questa forma di comunicazione, che ha risvegliato in me l’amore
per il giornalismo. Quasi inconsciamente, giocavo con la vaga idea di
coniugare alcuni dei miei mondi preferiti: informatica, musica, chitarra,
scrittura, giornalismo, internet… Ho potuto ben presto constatare che la
strana procedura a cui mi riferivo prima si era, una volta di più, avviata alla
comparsa di questo nuovo interesse: a mia insaputa, l’intero universo aveva
tramato per elaborare una proposta tangibile. Mi sono imbattuto in un
nuovo forum, in lingua francese, dedicato alla chitarra: ne sono stato subito
felice e vi ho partecipato con entusiasmo.
Oltre al piacere di comunicare in pubblico, di scrivere a proposito del mio
amato strumento, ho scoperto quello di fornire un aiuto reale e
disinteressato alle più svariate categorie di appassionati chitarristi, giunti da
ogni parte del mondo. Per tre mesi mi sono impegnato a rispondere a tutte
le loro domande, a perfezionare a regola d’arte sia la forma sia il contenuto
dei miei contributi, ad affinare un’etica il cui massimo obiettivo fosse la
chiarezza e l’assenza di preconcetti. Ho passato ore intere a riflettere su
ogni singola idea, a limare ogni testo, a preparare, inserire e commentare
illustrazioni assai specifiche.
Giacché questo forum è, per definizione, un luogo cosmopolita (in cui
s’incontrano chitarristi di ogni dove, di ogni età, di ogni livello; in cui si
frequenta ogni tipo di chitarra, quindi ogni sorta di musica), vi ho trovato un
terreno ideale per la mia volontà di colmare il divario assurdo che molti
chitarristi continuano gelosamente a mantenere, scordandosi che la chitarra
è, storicamente, il più ibrido, il più soggetto a evoluzione e il più
diversificato degli strumenti.
Abolire il razzismo tra le varie famiglie della chitarra, abbattere le barriere
tra gli esordienti e i veterani, lanciare dei ponti tra le generazioni, consentire
ai dilettanti e ai professionisti di approfittare gli uni degli altri, far cadere il
velo di certi segreti di Pulcinella… questo è stato il mio impegno. Tre mesi
dopo essere entrato in quella comunità ho ricevuto una lettera di Didier,
redattore capo della rivista associata al forum, in cui mi proponeva di
lavorare nella sua squadra. In modo del tutto inatteso, un sogno d’infanzia
diventava realtà. Ero al settimo cielo. Ho pubblicato qualche articolo, dopo
di che Didier mi ha proposto di aggiungere un corso mensile, cosa che mi
ha permesso di adattare la mia serie di esercizi alle opportunità
multimediali. Il lavoro innescato nel forum ha quindi trovato nella rivista
una continuità del tutto naturale, così come un ritmo preciso e regolare.
Qualche mese più tardi, sono entrato nel comitato di redazione della
rivista. E, quando Didier ne è divenuto direttore, mi ha nominato
caporedattore.
Le tecniche fondatrici
La scrittura
Il primo strumento che afferrai fu una penna. Non appena fui capace di
tenerla in mano, mi misi a disegnare su veri fogli bianchi che mi ritrovavo
davanti e che venivano sostituiti man mano che finivo il disegno. Svolgevo
quest’attività in modo molto serio. Mi sistemavo sulla mia piccola
scrivania, e il rituale era sempre lo stesso. I miei genitori mi stavano
accanto (per maneggiare i fogli, sistemare i disegni finiti ecc.), mi
dedicavano tutta la loro attenzione ma, ovviamente, senza mai commentare
o intervenire. Sentivo la loro presenza, non avevo il minimo bisogno di
attirare la loro attenzione. Terminato il gioco, riponevano la penna e io
passavo ad altro. Papà, del resto, lo spiega: per il bambino, il gioco del
disegnare e del dipingere, purché sia del tutto rispettato, consiste nel
manipolare tutti i giorni le Figure primarie che si presentano a lui e a tutti i
bambini. Si dà il caso che i caratteri dell’alfabeto latino siano tutti affini a
queste Figure primarie. Così il bambino, arrivato a una certa fase della sua
evoluzione, gioca con le rassomiglianze riscontrate tra le Figure primarie e
gli oggetti della sua quotidianità, e quest’affinità tra le lettere dell’alfabeto e
quei segni familiari lo divertono in modo straordinario.
Per me, quel gioco assunse vari aspetti. Mi divertivo a combinare le lettere
e a cercare di determinare il suono che ne risultava. Dato che di solito non
riuscivo a trovare un nesso con un vocabolo noto – e ne avevo ben donde! –
mi rivolsi ai ‘grandi’, che invece producevano i suoni più curiosi… Per
caso, trovai nuovi amici molto divertenti: i digrammi. Peraltro provavo un
grande piacere a riprodurre, lettera per lettera, alcuni titoli di libri o alcune
insegne. Armato di una penna, ricordo di aver passato un bel po’ di tempo a
trascrivere su un foglio il titolo completo di un libro di papà. In seguito,
riuscii a decifrarlo e fui felice di constatare che voleva davvero ‘dire
qualcosa’.
Un terzo gioco consisteva nella scrittura di letterine destinate ai miei
nonni o alla comunicazione quotidiana (lista di commissioni, per esempio, o
un biglietto per papà). Per quest’ultimo gioco, applicavo tre metodi diversi:
chiedevo alla mamma di farmi lo spelling della parola che volevo scrivere;
dettavo la frase alla mamma chiedendole di scrivermela per poterla poi
ricopiare; oppure, un po’ più avanti, scrivevo tutto il messaggio in maniera
fonetica, poi me lo facevo correggere da un ‘grande’ e lo ricopiavo ‘in
bella’ (era molto importante per me che il messaggio fosse perfettamente
corretto prima di inviarlo al destinatario). In tutti e tre i casi, la differenza
tra la fonetica primaria che immaginavo e il modo di scrivere che mi era
indicato mi fece scoprire nuovi concetti: l’ortografia e la grammatica.
Ho dovuto abituarmi un po’ a queste due novità. Mi sono sembrate quasi
empiriche e, in ogni caso, regolate da leggi complesse e misteriose. Il mio
primo modo di assimilarle fu quindi passivo. Tuttavia, quando papà e
mamma rileggevano, su mia richiesta, la brutta copia che volevo ricopiare
in bella, si impegnavano a spiegarmi il come e il perché delle correzioni che
apportavano. Lungi dall’essere temuti come causa prima di castigo, gli
errori facevano da trampolino ad ogni tipo di apprendimento. Poco a poco
acquisivo familiarità e riferimenti. Avevo, certo, le mie preferenze:
l’infinito del primo gruppo, il plurale e le desinenze della terza persona
plurale erano i miei preferiti… Il processo era lento. Quando, dopo qualche
anno, cominciai a leggere con scioltezza, la mia competenza in grammatica
e in ortografia fece un balzo in avanti. Ma acquisii la vera padronanza di
questi strumenti solo molto più tardi, con le lingue straniere. Le regole che
incontravo man mano che le studiavo – soprattutto nel caso del tedesco e
del latino – mi fornirono una base stabile per la conoscenza del francese.
Del resto fu così che si sviluppò il mio amore per la grammatica,
l’ortografia e la sintassi, come pure quello per la tipografia e la
punteggiatura.
Le lingue
L’esistenza di altre lingue è sempre stata naturale per noi, dal momento che
papà parlava in tedesco con i suoi genitori, quando venivano a trovarci o al
telefono.
Capivo solo le poche parole di cui avevo chiesto la traduzione, ma il senso
generale della conversazione mi era abbastanza chiaro, grazie alle
inflessioni, così familiari, della sua voce. A volte, papà ospitava delle
studentesse straniere che ci portavano al parco, a vedere delle mostre ecc.
Era l’occasione di passare un po’ di tempo con persone che parlavano un
altro idioma. A dieci anni mi trovai, per la prima volta, nella situazione di
imparare davvero una lingua. Passai un mese da Bertrand, nella sua casa
vicino a Colonia. Mi portava con lui dappertutto: dal nostro amico vetraio,
alle prove di canto della sua compagna, o a quelle del ‘suo’ trio, al luna
park, alle sue conferenze, da un amico appassionato di treni in miniatura,
nel bar in cui c’era un prestigiatore… lo osservavo mentre si dedicava alle
sue api, imparai a usare la sua mobylette, mi occupavo con passione del
pollaio e delle galline e, la sera, giocavo con i bambini e i ragazzi del paese.
Tra tutti quelli che incontravo e frequentavo nel corso di quelle giornate
ricche e nuove, nessuno parlava francese. Ero immerso nel tedesco, e
Bertrand mi aiutava a imparare, ogni giorno, una parola, una frase, un
concetto nuovo. La particolare costruzione della lingua tedesca non mi
coglieva alla sprovvista: avevo sentito più volte papà tradurre alla mamma,
ad alta voce e parola per parola, scritti e libri in tedesco.
Tornato in Francia, constatai con gioia che alcuni collegamenti
avvenivano da sé e che, pur avendo ritrovato un ambiente francofono, il
tedesco guadagnava terreno nella mia mente.
Alcuni mesi più tardi, trovai tra i libri della mamma un metodo dal titolo
promettente: L’inglese in novanta giorni e novanta lezioni. Affascinato,
decisi di tentare l’avventura. Ma quel metodo non mi diceva proprio nulla.
Chiesi a un amico di darmi una mano, il tentativo fallì. Non c’era alchimia.
Misi le lingue da parte. Alla mamma capitò di interessarsi a un metodo per
imparare il latino. Mi ci misi anch’io. Facemmo alcune lezioni, la mamma
mi spiegò i ‘casi’, un osso duro per i miei undici anni. Alla fine imparai
tutte le forme della rosa e del verbo essere. Le cassette abbinate alle lezioni
mi divertivano più di tutto, imparai qualche canzone popolare in latino. Ma
nemmeno questo metodo, molto scolastico, fece presa su di me. Tornai da
Bertrand tre anni dopo il mio primo soggiorno: il tedesco, che nel frattempo
si era arrugginito, tornò alla ribalta. Lungi dall’averne la padronanza, avevo
comunque una conoscenza rudimentale per comunicare con gli amici del
paese nelle uscite serali. Ma la scoperta della musica, di cui ho parlato in
precedenza, occupò tutto lo spazio.
Di ritorno a Parigi mi dedicai alla musica, e l’apprendimento delle lingue
si assopì nuovamente. Un giorno, un giovane inglese entrò nella galleria di
papà. Proponeva di fare delle traduzioni per pagarsi gli studi. Papà non ne
aveva bisogno, ma gli fece una proposta: “Potrebbe parlare in inglese con i
miei bambini”.
“No, no, no!”, rispose David. “Non sono un professore d’inglese!”.
“Appunto!”, rispose papà. “È proprio per questo…”.
Si trattava di una proposta troppo insolita per David, che si congedò. Ma
ritornò il giorno dopo, dicendo che gli era venuta un’idea e che voleva fare
un tentativo.
All’inizio dei suoi studi si era dedicato al teatro e al mimo. Propose di
utilizzare queste basi per farci esercitare con l’inglese. L’idea funzionò a
meraviglia: lui sceglieva con cura scenette esilaranti o aneddoti legati alle
battute di Winston Churchill, le mettevamo in scena e ridevamo tutti e tre a
crepapelle. La straordinaria mimica, la falsa flemma, il buonumore di David
erano irresistibili, come pure il suo recitare in inglese. Nonostante ridessimo
tanto, questo esercizio ci permetteva di perfezionare la pronuncia, arricchire
il vocabolario e curare la comprensione grammaticale.
Oltre alle due lezioni settimanali dedicate all’inglese facevo anche un’ora
di algebra, che era la materia di David. Ma poco tempo dopo la sua carriera
ebbe una svolta inattesa. Grazie al lavoro che faceva con noi, ritrovò il
gusto dei suoi primi amori: motivato dal nostro entusiasmo, tirò fuori tutti i
suoi sketch e constatò che il mestiere di attore sicuramente gli si addiceva.
Prese coraggio e si presentò a un casting televisivo. Cominciò con il sedersi
accanto alla sua sedia provocando l’ilarità generale. Fu scelto all’istante e
da quel momento si lanciò nella carriera di attore che, ben presto, non gli
lasciò più tempo per noi…
Misi di nuovo da parte l’apprendimento delle lingue. Fino a quando non
incontrai il metodo Assimil. Era un libro vecchio, una delle primissime
edizioni dell’Inglese senza fatica, esclusivamente redatto dal suo inventore,
M. Chérel padre, e accompagnato da tre cassette (di una volta).
Fu un colpo di fulmine. Il metodo, senza costrizioni (non c’è niente da
imparare a memoria) e basato sull’assimilazione quotidiana, era fatto
apposta per me. Lo seguii alla lettera: leggevo la mia lezione quotidiana,
visualizzavo senza fatica la pronuncia fonetica e l’accento tonico, ascoltavo
le corrispondenti registrazioni, ammiravo la finezza del lavoro di M. Chérel,
leggevo tutte le note e incontravo, oltre agli aspetti linguistici, numerosi
dettagli della cultura britannica e americana. E progredivo a passi da
gigante. Mi sembrava un miracolo poter capire le parole delle canzoni,
leggere le istruzioni per l’uso, seguire i film in versione originale…
Dato che l’obbligo richiesto da questo metodo (seguire una lezione al
giorno, senza eccezioni) corrispondeva perfettamente alle mie esigenze,
divorai il primo volume in pochi mesi. Il secondo volume arrivò come un
dono dal cielo, così come il terzo e ultimo modulo, costituito da storie
inglesi e americane. Un soggiorno nelle isole del Canale, con Zelda, Némo
e i loro genitori, mi permise ben presto di constatare ‘sul campo’ quanto
l’inglese si fosse radicato in me e quanto le lingue mi appassionassero.
Alcuni mesi più tardi, papà mi regalò il metodo Assimil per il tedesco.
Conoscendo le mie preferenze, l’aveva cercato e trovato nella vecchia
versione. Questa lingua, cui mi ero accostato più volte e che praticavo da
sempre, mi apparve in tutto lo splendore della sua struttura. I frammenti
sparsi di ciò che avevo imparato fino a quel momento, mossi da un’ondata,
si mettevano in ordine sotto i miei occhi, si riunivano come pezzi di un
grande puzzle e, con un’evidenza sorprendente, trovavano posto in mezzo
alla moltitudine delle nuove conoscenze, raccolte con entusiasmo giorno
per giorno, pagina dopo pagina.
Ero insaziabile. Invece di una lezione quotidiana, ne facevo cinque o sei.
Nessuno m’interrompeva, nessun’altra materia ‘obbligatoria’ veniva a
ostacolare questa priorità, dedicavo la metà delle mie giornate al tedesco e,
di sera, leggevo a papà ciò che avevo appreso durante la giornata,
perfezionando con lui pronuncia e comprensione.
Sentivo dei legami genetici con il tedesco. Papà, che assieme a me
ritrovava la sua cultura germanica (l’aveva tenuta nascosta alla fine della
guerra), condivideva il mio entusiasmo e mi faceva scoprire i tesori della
poesia tedesca. Ero affascinato dal gioco concesso dalle innumerevoli
regole di questa lingua.
Tre mesi dopo avevo terminato il metodo. A quel punto cominciò la vera e
propria collaborazione con papà. Da allora lo accompagnai ogni anno nelle
sue tournée estive di conferenze e stage. Due mesi in giro in vari paesi, ma
soprattutto in Svizzera, Austria e Germania, paesi di lingua tedesca. Gli
facevo da assistente, mi occupavo della tecnica, ero completamente
immerso nel suo mestiere, nelle sue scoperte, nel suo modo virtuoso di
parlarne, di farle conoscere. Scoprivo, in tutta la sua vastità, in tutte le sue
implicazioni, l’importanza dell’opera di mio padre, l’inestinguibile
coraggio, la lealtà scientifica, l’incredibile obiettività che regolano il suo
lavoro – e ne provai un’ammirazione profonda e serena.
E parlavamo in tedesco ventiquattr’ore su ventiquattro. Tra noi (fin dal
simbolico passaggio della frontiera) e con la gente che ci circondava.
Prudente all’inizio, fui veramente sorpreso e rapidamente conquistato dalla
facilità che avevo per questa lingua. Provai una strana felicità nel rendermi
conto che pensavo e sognavo in tedesco. Cominciai a leggere alcuni libri
che mio padre mi consigliava. Non incontravo difficoltà particolari, e mi
accontentavo di cercare sul dizionario le parole che mi sfuggivano. Lessi
altri libri, i grandi classici tedeschi, scoprii Rilke, Goethe, Borchert,
Matthias Claudius e tanti altri! E i miei favoriti: Heinrich Heine e Hugo
Hartung, di cui ho letto quasi tutto.
Il tedesco, la mia lingua paterna, non ha perso niente, oggi, della portata
strutturale che ha nella mia vita. Alcuni anni dopo, sono ovviamente ricorso
al metodo Assimil per imparare il latino e poi lo spagnolo. Non mi è stato
possibile praticare il latino, ma lo spagnolo è stato molto importante durante
le mie tournée con Delphine, in mezzo alla nostra sfavillante coorte.
L’apprendimento di altre lingue resta uno dei miei obiettivi. E ho appena
scoperto che Assimil propone, da poco, un metodo per imparare i
geroglifici…
La cultura ‘generale’
L’arte – il suo progredire, la sua cronologia, le sue genealogie, le sue
derivazioni, i suoi movimenti, le sue epoche, i suoi protagonisti, le sue
opere caratteristiche – è stata il mio principale filo conduttore attraverso la
Storia.
Ben presto, ho saputo collegare gli artisti di mio interesse con la loro
epoca, oppure inserire un’epoca in rapporto alla sua attualità artistica.
Ancora oggi, le biografie dei ‘miei’ artisti mi servono come punto di
riferimento per collocare una data nella storia.
Del resto, la letteratura e la pittura, con le quali ho sempre convissuto,
traboccano di riferimenti storici. Utilizzando questi trampolini, passando da
una domanda all’altra, da un aneddoto all’altro, ho assimilato, nei minimi
dettagli, pezzi interi di storia. Senza mai aprire un libro didattico
sull’argomento. Ovviamente, quando ci si interessa ad alcuni temi in modo
così approfondito, si incontrano e si combinano automaticamente gli
avvenimenti storici che li circondano, li accompagnano, li caratterizzano, li
causano, oppure che ne derivano.
Citerò qui solo alcuni esempi: fin da piccoli, papà e mamma ci portavano
regolarmente a visitare i musei e rimanevo a bocca aperta davanti alle tele
dei grandi maestri che rappresentavano la vecchia Parigi, le sue case sui
ponti, le sue fortificazioni, i suoi ingorghi… Senza che questi fossero mai
l’argomento di una qualunque lezione, osservavo nei particolari le carrozze,
i costumi, gli addobbi dell’epoca, m’impregnavo delle mimiche e degli
atteggiamenti attribuiti ad ogni corporazione, ad ogni statuto; esploravo gli
interni raffinati, le botteghe in chiaroscuro, i soldati e i cannoni. Fui
particolarmente colpito dal ratto delle sabine, dall’incoronazione di
Napoleone, dai grandi temi della mitologia, dalla notte di san Bartolomeo,
Giovanna d’Arco, il Minotauro, il Centauro, i martiri cristiani, le scene di
battaglia, le nature morte, il caravaggismo, la schiavitù… In altre sale
scoprii le icone, le ceramiche greche, le sculture etrusche, i gioielli egiziani,
i fossili e l’archeologia, l’architettura del Medioevo, l’iconografia del
Rinascimento, l’arte africana, la Gioconda, Guernica… prima di imparare a
leggere, avevo imparato a distinguere il romanico dal gotico; Ravaillac mi
era familiare quanto Danton o Maria Antonietta; Hitler faceva parte dei
miei riferimenti come Long Lance, il pizzo di Chantilly, le fibbie delle
scarpe e i cammei.
I viaggi furono un’altra fonte di scoperte e di significativi apprendimenti. I
castelli di Francia e di Navarra (tra cui, certo, quelli della Loira), le
cattedrali, le chiese, le città fortificate, che visitavo regolarmente,
introdussero nella mia vita, nel modo più naturale possibile, delle nozioni
tanto diverse quali la cucina medievale, le armature, le carrozze, i paioli, le
tappezzerie, le feritoie, le travi decorate, i grandi camini, le piccole
piastrelle, le vetrate, le sciabole e le spade, il ferro battuto, i clavicembali, il
barocco, il rococò, i passaggi segreti, gli sbalzi, i graticci, le piccionaie, i
fossati, i ponti levatoi, le scuderie, gli speroni, gli attizzatoi, i paravento, le
pergamene, i letti a baldacchino, le biblioteche, le dorature, gli scaloni
d’onore, i lampadari di cristallo, il pizzo di Alençon, gli inginocchiatoi, i
calvari, i tabernacoli, gli altari, le reliquie nelle teche, le Madonne con
Bambino, le crinoline, i tavolini rotondi, i divani lui e lei, le psiche, le
astanterie, i giardini alla francese, gli smoccolatoi, le serrature lavorate, i
bustini, le carrozze, i cupidi, le alcove, i ventagli, le fucine ecc.
Bayeux e la sua tappezzeria mi tormentarono per molto tempo. Arrivai
perfino a realizzare una tappezzeria epica, cucendo testa a testa alcune
strisce di tessuto bianco sulle quali ricamai per bene tutta una storia,
inventata ispirandomi a fatti realmente avvenuti. I mosaici e l’arte del vetro,
scoperti a Venezia, mi affascinarono tanto quanto l’architettura della città
dei dogi e tra il Campanile di San Marco, la sirena di Copenaghen, il
Manneken-Pis, la galleria Vittorio Emanuele, l’appartamento di Anna Frank
o le marionette di Salisburgo, non saprei dire cosa abbia segnato di più la
mia infanzia. Un viaggio in Normandia mi diede la possibilità di incontrare
‘materialmente’ la Seconda guerra mondiale, già resa molto familiare da
una trasmissione di Henri Amouroux (L’histoire a quarante ans) e da tutto
ciò che papà ci raccontava ogni giorno. Questo interesse fu rafforzato, un
po’ più tardi, da numerose mostre, conferenze e proiezioni di film storici,
alcuni dei quali alla Cinématèque, dove Delphine mi portava regolarmente.
Abbiamo fatto dei viaggi per andare sulle tracce dei ‘nostri’ grandi
uomini: Dvořák a Praga, Van Gogh ad Amsterdam, Georges Sand a Nohant,
Brahms a Thun, Mozart a Salisburgo, Rilke a Raron, Giovanna d’Arco a
Reims ecc.
Come ho già detto più volte, a casa nostra arrivava un gran numero di libri
monografici, che approfondivano gli argomenti più vari. Alcuni
stimolavano problemi o un apprendimento in corso, altri erano,
semplicemente, dei bei testi, o avevano buone probabilità, un giorno, di
motivare, sostenere o nutrire un interesse particolare.
Consultare quei libri mi fu naturale prima ancora di imparare a leggere. La
mamma me ne leggeva alcuni (sull’antica Roma o su Giovanna d’Arco, per
esempio), mentre io divoravo tutte le illustrazioni di altri, soprattutto quelli
sugli animali. Quei libri imparziali, che non erano rivolti a un pubblico di
bambini, fornivano tutti i tipi d’informazione. A volte mi scontravo con
argomenti duri come il pasto dei predatori, la schiavitù, la Rivoluzione, le
maree nere, Hiroshima, Auschwitz: ma queste tematiche realiste, che nel
mio ambiente nessuno cercava di censurare o edulcorare, mi colpivano, mi
preoccupavano, ma non mi traumatizzavano affatto. Non appena imparai a
leggere, quei libri mi diedero accesso a mondi straordinari, a conoscenze
allo stesso tempo universali e del tutto singolari.
L’Atlante del corpo umano e altri libri di anatomia – nei quali incontravo
universi sorprendenti come quello degli organi, dei virus e dei microbi –
ebbero un’importanza particolare nella mia scoperta del mondo, come pure
un’incredibile collezione sui tesori della geografia (dai bayou della
Louisiana alla Great Rift Valley, passando dal lago Natron), redatta e
illustrata da esploratori appassionati. Mi venne la febbre mentre divoravo il
libro Molécule la merveilleuse e scoprivo la meccanica quantistica, le
differenza tra gas, liquidi, solidi e plasma, il funzionamento del sapone, la
composizione dell’acqua, dell’aria ecc. Quanto entusiasmo nello scorrere
appassionanti pagine di libri sugli argomenti più svariati: la meteorologia, la
“storia antica d’invenzioni moderne”, la costruzione delle cattedrali,
l’invenzione dei telai Jacquard, la vita dei gorilla delle montagne, i passage
di Parigi, la vita notturna degli animali, l’architettura al tempo dei faraoni,
la fabbricazione di dolci e profumi, Alessandro il Grande, i fratelli Lumière,
la cucina ayurvedica, i templi indiani o la vita e l’opera di d’Alembert
(incontrato attraverso gli strumenti, mi offrirà un motto fondamentale:
“Saper attendere e dubitare”)!
Ricordo il mio stupore nello scoprire la spiegazione di fenomeni così
familiari come l’effetto Doppler (come tutti i bambini, anch’io imitavo il
rumore del motore di una macchina che si avvicinava e poi si allontanava) o
nell’incontrare, con nostalgia, l’epoca in cui i filosofi erano allo stesso
tempo artisti, scienziati, storici e politici. Feci la conoscenza di Copernico e
di Newton studiando l’astronomia, di Archimede durante lo studio della
meccanica, di Darwin tra le pagine di un libro sugli animali preistorici.
L’informatica
Non posso terminare questo giro d’orizzonte, per forza frammentario, senza
parlare della mia inclinazione per l’informatica. Molto presto, ho imparato
l’uso del basic, con mio zio Jean. Andavo a trovarlo, alcune sere, sul
lavoro. M’insegnava a programmare un enorme dinosauro le cui capacità,
ridicole ai giorni nostri, ci sembravano straordinarie. La logica quasi
meccanica, secondo cui quella macchina gestiva le cause e gli effetti, mi
piaceva molto. Con il passare degli anni, ho continuato a seguire il lavoro di
Jean e il vertiginoso progresso dell’informatica, ma, per quanto mi riguarda,
ne limitavo l’uso al trattamento del testo per i volantini dell’Accm Fusion.
E poi, un giorno, ho deciso di far entrare il primo computer in casa nostra.
Da allora non ho smesso di approfondire, a piccole dosi, le mie conoscenze
informatiche, spinto da un lato dalla necessità di risolvere un numero
sempre maggiore di problemi e, dall’altro, dalla curiosità e interesse per la
cosa.
Il mio entusiasmo crescente contagiò Werni. Diventammo esploratori
inseparabili, e ci addentrammo, con sempre maggior coraggio, nelle viscere
materiali e logiche delle nostre macchine, sostenendoci reciprocamente e
talvolta spronandoci. Fu Werni a regalarmi il primo portatile, aprendomi
così la porta di un mondo che sarebbe diventato la mia quotidianità.
Quando internet cominciò a svilupparsi, facemmo parte di coloro che
intuirono l’importanza di avere visibilità in rete. Si trattava di un settore del
tutto nuovo e nessuno, nel mio ambiente, sembrava volermi aiutare. Quello
che sapevo d’informatica mi diede il coraggio di lanciarmi nell’avventura.
Partendo da un semplice articolo ritagliato da una rivista specializzata, mi
aprii la strada in quella giungla sconosciuta che esplorai in modo tanto
solitario quanto valorizzante, a volte con la sensazione di mettere tutta la
mia materia grigia a disposizione di una comprensione che si realizzava a
mia insaputa. Alcune settimane più tardi i primi siti di papà, di Werni e del
nostro amico Jacques erano operativi.
Poco dopo, presi la decisione di trasferire tutto il lavoro di papà sui nostri
computer. Éléonore si formò al mio fianco, sul campo, e l’azienda familiare
da quel giorno assunse un nuovo aspetto, caratterizzato dal parco
informatico in sviluppo di cui bisognava garantire la gestione.
L’informatica, ormai quasi innata nelle generazioni più giovani, è un settore
molto complesso in cui l’apprendimento autodidatta è una cosa di ordinaria
amministrazione, e nessuno si stupisce. A maggior ragione, lo stesso
dovrebbe valere per tutti gli altri settori…
Il ‘rapporto qualità-prezzo’…
A cosa ti è servito non essere andato a scuola?
Si tratta di una domanda frequente, tipicamente ‘da giornalista’, e che
sottolinea con chiarezza l’ennesimo atteggiamento che ci è sconosciuto: non
quantifichiamo, non soppesiamo, non vogliamo trarre profitto e soprattutto
non paragoniamo gli elementi che compongono la nostra vita. Non li
classifichiamo in due colonne distinte, sotto la voce ‘vantaggi’ da un lato e
‘inconvenienti’ dall’altro.
Sono davvero sconvolto da quest’abitudine miope e materialista, che
consiste sempre nel voler trovare i ‘vantaggi’ di una scelta per calcolare la
sua redditività rispetto a un’altra. Le scelte di vita si fanno forse in funzione
del loro rapporto con i vantaggi/svantaggi?
Quest’atteggiamento, che incita ad accettare alcuni inconvenienti se
‘compensati’ da un maggior numero di vantaggi, non tiene conto del fatto
che la nozione stessa di vantaggio non è universale.
Ognuno ha, nel drive-in ideologico, la possibilità di fare la sua scelta tra
alcuni pacchetti standard che contengono un menu equilibrato, composto da
inconvenienti selezionati e dal loro, per così dire, equivalente in vantaggi.
Se ne esce soddisfatti e convinti che l’offerta del negozio sia “tutto ciò che
mi piace”. Non siamo cresciuti in questo modo. Mi è quindi impossibile
rispondere a questa domanda e quantificare ciò che la non scolarizzazione
mi ha dato, poiché non cerco mai di paragonarmi agli altri.
Le scelte / l’emarginazione
I tuoi genitori ti hanno lasciato scegliere?
I miei genitori hanno fatto delle scelte. Non in funzione delle convenzioni
ma delle loro convinzioni. E va bene così. Ne andava della loro
responsabilità.
Tutti i genitori fanno delle scelte per i loro figli. Quella dei nomi, per
esempio. O quella di non piazzarsi su un campo minato.
E va bene così. Tutte queste scelte compongono i colori, gli odori, i gusti
specifici della casa del bambino, quelle cose che, molto più della geografia,
costituiscono le sue origini, la sua casa e la sua intimità, i suoi ricordi
d’infanzia e le sue preferenze di adulto.
I miei genitori hanno fatto queste scelte liberamente, e siccome non le
calibravano secondo un ordine prestabilito, non sarebbero rimasti scioccati
dal fatto che, al momento giusto, ne avremmo esercitate delle altre,
anch’esse personali.
Sta di fatto che non ho mai desiderato andare a scuola, nemmeno ‘per
vedere’. Perché? Perché ero felice, perché non mi mancava nulla, perché mi
sentivo immerso nella vita, nella società così com’era, e perché tra i gusti,
gli odori, i colori e le scelte che costituivano la mia famiglia, c’era quello –
del tutto naturale a casa nostra – di non andare a scuola.
E poi c’erano gli altri bambini, che dovevano sempre interrompere i giochi
con noi per andare a fare i compiti, o che non appena venivano a sapere che
non andavo a scuola, urlavano sistematicamente: “Che fortuna!”.
Ben presto quel fatto mi fornì gli elementi di un’opinione personale e mi
fece capire che quella posizione era invidiabile. E, indirettamente, darà una
chiara risposta a un’altra domanda che mi fanno spesso: “Non ti sentivi
emarginato dagli altri bambini?”.
La media
Hai la sensazione di saperne di più o di meno rispetto a chi è scolarizzato?
Non hai mai sentito il bisogno di sapere a che punto sei rispetto alla
media? Non pensi di avere delle lacune?[13]
Ciò che ho detto prima con riferimento ai vantaggi e agli svantaggi è del
tutto applicabile a questo caso. Non mi paragono mai agli altri.
Le mie conoscenze, in continua evoluzione, si basano sui miei incontri,
sulle mie preferenze e sull’esercizio delle mie funzioni. Non vado dunque a
caccia di lacune per il piacere di scovarne qualcuna. All’occorrenza, anche
queste sono evidenziate dai miei incontri, dalle mie preferenze e
dall’esercizio delle mie funzioni. Si trovano fuori dal campo delle mie
azioni e dei miei attuali interessi, oppure al centro delle necessità
immediate. E sono quindi colmate senza difficoltà. Non sono delle bestie
nere, ma spazi d’investigazione rivelati.
Le mie conoscenze corrispondono esattamente, e senza lacune, a ciò di cui
ho bisogno nella mia quotidianità.
Come potrei paragonare questo alle specificità degli altri?
Come potrei definire la mia posizione nella sacrosanta ‘media’, quando
invece apprezzo la diversità degli individui?
E poi… cos’è la media?
La media permette di stabilire (e quantificare) un compromesso tra le
lacune e le cose imparate a memoria.[14]
Sono stati ingannati coloro ai quali è stato fatto credere che fosse
sufficiente ‘avere la media’. Per esempio, un 16/20 nello scritto, cui
vengono tolti due punti per un’ortografia scadente, consente di passare un
esame ‘alla grande’. Ma questo principio, valido per la scuola, non lo è
nella realtà della vita professionale.
A chi ha vissuto l’ortografia, la grammatica, la matematica, le lingue
straniere eccetera come un insuccesso, ho voglia di dire: non si tratta del
vostro fiasco ma di quello del sistema che era tenuto a istruirvi. Ve l’aveva
promesso, in cambio del rispetto delle sue regole.
Non si tratta forse del fallimento di una missione? Come credere in
un’istituzione che non riesce ad assicurare le basi di ciò di cui si vanta e di
cui rivendica l’esclusiva?
Eppure… stranamente non è mai l’istituzione in sé che si rimette in
discussione, ma, di preferenza, il bambino recalcitrante a cui si attribuisce
volentieri il marchio di somaro, dando così origine al suo status, al suo
atteggiamento e ai suoi complessi per il resto dei suoi giorni.
Non è condizionata solo la posizione del bambino ma anche quella di tutto
l’ambiente. I risultati scolastici e i diplomi sono come le uniformi o i
galloni: danno un contegno omologato a chi li indossa (o che ne è privato) e
condizionano l’atteggiamento (rispettoso, collegiale, condiscendente o
sprezzante) di tutti gli altri.
Essere nella media significa anche essere nella norma; a forza di
conoscere solo questa, si prende l’abitudine di restarci, di sentirsi al sicuro.
Essere nella norma garantisce un posto nella società.
Non ho mai disprezzato chi crede nella norma, ma non ho mai cercato di
assomigliargli. L’onnipresenza di queste persone non influenza il corso del
mio progredire, e nuotare controcorrente non mi fa paura. Se lo faccio è per
convinzione, con uno scopo preciso e non per principio.
Quando mi sono presentato al servizio militare, ho vissuto una situazione
particolare che mi ha molto divertito: dovevo indicare il mio livello di studi.
Sul modulo che doveva compilare la recluta incaricata di interrogarmi
c’erano cinque voci: “studi superiori”, “studi secondari”, “studi elementari”,
“scuola materna”, “analfabeta”. Non rientravo in nessuna di queste.
“Ma insomma”, si disperava il soldato davanti al mio rifiuto di fargli
spuntare la voce analfabeta, “se non ha fatto le superiori, né le medie, né le
elementari, né la materna, non può essere altro che analfabeta!”.
“No”, insistei, “non sono analfabeta: so leggere e so scrivere: ha visto
anche lei che ho compilato il modulo”.
“Mio caro signore”, mi rispose il ragazzo, “le credo, ma… cosa posso
farci, non ho mica una casella per lei!”.
Questo libro volge alla fine. Come ho detto all’inizio, si tratta di una
testimonianza e non di un metodo né di un ricettario, né di una guida
all’anticonformismo né di un’autobiografia.
Ciò che ho vissuto e che ho appreso, il modo in cui l’ho portato avanti, i
momenti in cui si è manifestato, è un percorso del tutto personale. Sarebbe
davvero assurdo cercare di generalizzarlo o applicarlo ad altri. Sarebbe
anche errato credere che questo libro racconti la storia di una persona
eccezionale, di un individuo superdotato. Qualunque bambino messo nella
mia stessa situazione vivrà, a suo modo, un’evoluzione ricca, molteplice e
singolare come lo è stata quella che ho vissuto io.
È quanto spero di offrire ai miei figli.
Entusiasmatevi! (prefazione alla sesta edizione tedesca)
Dalla prima edizione di questo libro sono accadute varie cose. È nato mio
figlio, ho fatto incontri significativi, ho intrecciato splendide amicizie, ho
avuto la possibilità di fare collegamenti fruttuosi. Ho girato molto con le
mie conferenze e i miei libri e ho avuto occasione di parlare con tantissime
persone, che mi hanno comunicato la loro voglia di novità, di maggiore
libertà, di incoraggiamento e di ispirazione.
Nella nostra società si lascia credere alla maggior parte delle persone che
chiunque non vada a scuola sia destinato a crescere come un selvaggio
analfabeta, senza lavoro e senza amici. Da tempo ho preso a cuore
l’impegno di spiegare che non è così e di contribuire al superamento di
questi pregiudizi e queste paure. Sapere che esiste la possibilità (all’inizio
molti potrebbero giudicarla assurda) di una vita senza scuola può
contribuire a considerare importante e valida la via che si è presa, anche se
non dovesse rientrare in ciò che la società ritiene normale.
Le persone che hanno ascoltato la mia storia non possono più comportarsi
come se non l’avessero sentita. Indipendentemente da quanto abbia fatto
breccia in loro il nuovo messaggio, ora sanno che la scuola non è l’unica via
che porta alla cultura e al successo. E sono contento quando mi scrivono di
aver letto questo libro e poi di aver consapevolmente deciso di iscrivere il
loro figlio a una scuola pubblica, perché queste persone hanno preso una
decisione vera. Hanno almeno considerato due possibilità e hanno scelto
quella più adatta alle loro esigenze.
Qualche tempo fa si è legata al mio proposito iniziale una scoperta che mi
ha aperto gli occhi. Durante una conferenza del neurologo Gerald Hüther ho
sentito parlare del ruolo centrale che per il cervello ha l’entusiasmo: “Un
bambino piccolo prova una sensazione di entusiasmo da venti a cinquanta
volte al giorno. E ogni volta vengono attivati nel cervello i centri
emozionali. I neuroni che vi si trovano hanno lunghe appendici che
raggiungono tutte le altre zone del cervello. Nei punti terminali di queste
appendici si forma un cocktail di trasmettitori neuroplastici. Questi
trasmettitori inducono gruppi di neuroni a entrare in azione e ad aumentare
la produzione di certe proteine utilizzate per far crescere nuove appendici,
per creare nuovi contatti e per rafforzare e stabilizzare tutti quei
collegamenti che si attivano per la soluzione di un problema o il
superamento di una nuova sfida. Questo è il motivo per cui miglioriamo
così facilmente in tutto ciò che facciamo con entusiasmo. Ogni piccola
tempesta di entusiasmo porta in un certo senso il cervello a secernere un
doping fatto in casa. Così si producono le sostanze utilizzate per tutti i
processi di crescita e ristrutturazione delle reti neuronali. È semplice: il
cervello si sviluppa nella misura in cui è usato con entusiasmo”.
(www.gerald-huether.de).
Come cresce un bambino in condizioni che la ricerca sul cervello
considera auspicabili? Non possiamo concepire il futuro dell’istruzione
senza dare risposta a questa domanda. E la mia storia fornisce delle risposte
durature.
Infatti ho avuto la rara fortuna (e questo non è un merito personale, ma
qualcosa che mi è capitato!) di vivere in condizioni come quelle descritte.
Non sono mai andato a scuola.
Ho avuto la possibilità di studiare tedesco per sei ore al giorno
indisturbato, proprio mentre mi stavo sviluppando; nessuno mi ha detto,
passati quarantacinque minuti, che il tempo era finito e che da quel
momento dovevo studiare matematica o biologia.
Non ho mai dovuto domandarmi in quale materia andavo male per
decidere dove dovevo esercitarmi, ma potevo fare l’esatto contrario:
esercitarmi dove l’entusiasmo mi aveva reso più bravo, per migliorare
ulteriormente. E ancora oggi non ho timore di possibili lacune, perché nel
frattempo ho capito: ciò che non impari oggi, lo imparerai domani.
Ho sempre vissuto confidando che ogni attività interrotta potesse essere
ripresa là dove era stata sospesa senza che la saldatura fosse visibile. Non
ero obbligato a rinviare il più possibile il momento di andare a letto per
poter giocare ancora un po’, perché sapevo che il giorno dopo avrei potuto
continuare a giocare e non avrei dovuto andare da nessuna parte.
Non mi è mai interessato fare confronti tra l’ampiezza del sapere altrui e
quella del mio; mi interessa invece, da parecchio tempo, capire a quali
risultati possono arrivare, uniti insieme, il mio sapere e quello degli altri.
Collaborazione invece di concorrenza. Collegare esperienze e impegni
diversi per raggiungere insieme obiettivi più elevati.
E io sono un ragazzo normalissimo. Qualunque ragazzo potrebbe vivere la
mia stessa esperienza. Non gli serve un ambiente appositamente
predisposto, gli serve entusiasmo. Gli servono libertà, fiducia, rispetto e
tempo. Non di più ma neppure di meno. Tutte cose a portata di mano, di cui
possono disporre anche genitori senza mezzi e i cosiddetti “ceti non
istruiti”. Il resto ce lo mette il ragazzo. Ed è un vantaggio per tutta la
famiglia.
L’incontro con Gerald Hüther mi ha dato ragioni in più per arricchire,
confortato da un parere scientifico, il panorama dell’istruzione con le
esperienze della mia infanzia e per dare, come rappresentante dei ragazzi, di
solito ignorati, e a fianco di operatori del settore orientati all’innovazione,
un contributo non dogmatico al dibattito sul futuro dell’apprendimento.
Oltre al mio lavoro con istituti pedagogici e università, il “Dialogo sul
futuro” avviato dalla cancelliera tedesca mi ha dato un’altra interessante
opportunità. Ho presentato la proposta “Invitare, incoraggiare e ispirare
all’entusiasmo e alla competenza sulla base di una pratica vissuta”, che
nella fase di votazione ha ottenuto il quarto posto nella categoria “Come
vogliamo apprendere?”. Purtroppo alla fine sono stati invitati al dialogo
solo i concorrenti della categoria, più popolare, “Come vogliamo vivere
insieme?”, poiché le dieci proposte con il maggior numero di voti
provenivano tutte da questa categoria ‘peso massimo’, sicché il tema ‘peso
mosca’ “Come vogliamo apprendere?” in ultima analisi è scomparso sotto
la tavola. Certo c’era da chiedersi perché mai sono state create tre finestre
tematiche, ma resta il fatto che la mia proposta sulla materia “Futuro
dell’apprendimento” è arrivata al quarto posto.
Nel frattempo il Partito pirata, il cui responsabile per l’istruzione Nicolay,
nello stesso periodo, mi ha invitato a tenere una conferenza con uno spazio
destinato alle domande, ha incluso nel suo programma l’abolizione
dell’obbligo scolastico in favore di un obbligo di formazione. E altri
esponenti politici hanno seguito con attenzione i miei sforzi.
Un colloquio con il regista Erwin Wagenhofer mi ha poi dato una ragione
aggiuntiva per raccontare la mia storia. È stato lui a farmi notare che per
molte persone può funzionare come un appello. Se alle numerose vittime
dell’attuale sistema educativo, alle generazioni segnate da fallimenti
scolastici, che per mancanza di diplomi credono di non avere alcuna chance
di realizzare qualcosa nella vita, si mostra che si può benissimo avere
successo senza qualificazioni ufficiali, passa la paura e torna la speranza.
Infatti l’entusiasmo vissuto ha un effetto collaterale: la competenza. E la
competenza ha a sua volta un effetto collaterale decisivo: la buona riuscita.
Che sollievo sapere che ci si può liberare dell’onnipresente pressione per il
successo a favore di una forma personale di entusiasmo accessibile a tutti!
La primavera dell’educazione è cominciata.
Entusiasmatevi!
André Stern
(gennaio 2013)
L’autore
André Stern è nato nel 1971. Figlio dell’educatore e ricercatore Arno Stern,
è cresciuto seguendo gli innovativi metodi di apprendimento creativo
teorizzati dal padre: la sua esperienza è raccontata in molte conferenze e
workshop e nei suoi libri.
Sposato e padre di un bambino, è musicista, compositore, liutaio, relatore
di conferenze, giornalista e autore. È stato nominato direttore dell’iniziativa
“Männer für morgen” (Uomini per domani) dal professor Gerald Hüther,
ricercatore di neurobiologia avanzata. È promotore del movimento
“ecologia dell’educazione” e direttore dell’istituto Arno Stern (laboratorio
di osservazione e preservazione delle inclinazioni naturali del bambino). È
uno dei protagonisti del film Alphabet, del regista austriaco Erwin
Wagenhoder, e coautore dell’omonimo libro (Ecowin Verlag, 2013).
Non sono mai andato a scuola, pubblicato con successo in Francia, è
giunto alla sesta edizione in Germania, dove ha ottenuto uno straordinario
consenso di pubblico e l’attenzione dei media. È stato tradotto anche in
Spagna.