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Igloo 54

André Stern

Non sono mai andato a scuola


Storia di un’infanzia felice

Traduzione di Marina Karam


Non sono mai andato a scuola
***
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Colophon
L’autore
Titolo originale: …Et je ne suis jamais allé à l’école. Histoire d’une enfance heureuse
Copyright © André Stern, 2009
© ZS Verlag Zabert Sandmann GmbH, 2009
Traduzione dal francese di Marina Karam
Per la prefazione alla 6a edizione tedesca, © André Stern, 2013
© ZS Verlag Zabert Sandmann GmbH, 2013
Traduzione dal tedesco di Andrea Bianchi
L’autore desidera ringraziare Irene Maeder per la preziosa collaborazione.
© 2014 Nutrimenti srl
Prima edizione maggio 2014
www.nutrimenti.net
via Marco Aurelio, 44 – 00184 Roma
Art director: Ada Carpi
ISBN 978-88-6594-307-6
ISBN 978-88-6594-308-3 (ePub)
ISBN 978-88-6594-309-0 (MobiPocket)
A Delphine
Fin da piccolo, stanco delle eterne domande che mi facevano i negozianti
stupiti di vedermi ‘in libertà’ nelle ore in cui i bambini avrebbero dovuto
essere a scuola, avevo predisposto una frasetta standard, destinata a
presentarmi una volta per tutte:
“Buongiorno, mi chiamo André, sono un bambino, non mangio caramelle
e non vado a scuola!”.
Le ultime parole provocavano, di solito, una certa emozione. Capita
ancora oggi.
Questo libro racconta la mia storia, quella di un bambino che non è mai
andato a scuola e dell’adulto che, liberamente, è diventato. Non si tratta di
un metodo né di un ricettario, né di una guida all’anticonformismo, né di
un’autobiografia: è solo una testimonianza.
Ciò che vuole dimostrare, per l’appunto, è la molteplicità e l’individualità
degli interessi e delle vie di apprendimento generate dalla non
scolarizzazione. Offre inoltre l’opportunità di verificare in concreto se
davvero sciagure d’ogni genere si abbattano su chi non va a scuola e se, a
dar retta alle previsioni, costui diventi un selvaggio analfabeta, indolente,
asociale e isolato.
Prima…

…di parlarvi della mia infanzia, vi devo raccontare da dove vengo.


Papà
Mio padre, Arno Stern, è nato nel 1924 a Kassel, in Germania. Figlio di
Isidor e Martha Stern, discendente di una famiglia di industriali tedeschi,
trascorrerà molto felicemente i primi nove anni di vita. Isidor Stern,
arruolatosi volontario a diciannove anni – al posto del fratello maggiore, già
capofamiglia –, combatte per la Germania durante la Prima guerra
mondiale, da cui torna ferito. Uomo determinato, generoso e di grande fede,
a guerra finita mette su famiglia e vi si dedica senza tregua, nonostante gli
anni bui dell’inflazione e della crisi economica.
Mio padre ci ha sempre reso partecipi dei suoi ricordi, molto precisi: la
sua infanzia, i giochi con la madre, la loro collezione di cactus, il papà che
usciva al mattino con una valigetta di banconote per pagare una giornata di
stipendio ai suoi operai.
Qualche anno fa ho partecipato all’emozionante viaggio nel corso del
quale papà ha ritrovato, quasi immutato, l’appartamento della sua infanzia,
in uno dei rari quartieri di Kassel risparmiati dai bombardamenti della
Seconda guerra mondiale.
Negli anni Trenta mio nonno, informato dalle sue numerose conoscenze,
osserva con preoccupazione la piega degli eventi. Nel 1933, dopo aver
ascoltato il discorso di insediamento di Adolf Hitler, prende una decisione
immediata: lasciare il paese con la sua famiglia.
Ha combattuto per la patria, la sua famiglia è tedesca dalla notte dei tempi,
il suo eroismo militare dovrebbe metterlo al sicuro: ma la sua decisione è
irremovibile. Nel massimo segreto, fa preparare una vettura.
Il piccolo Arno sta giocando nel cortile di casa con la sua macchina a
pedali rossa. All’improvviso la mamma lo chiama: “Arno, vieni, presto!”.
Lui le chiede di dargli il tempo di parcheggiare l’automobilina, ma Martha
insiste perché la lasci dove sta e vada subito da lei. Non era più nel cortile,
quella macchinina, quando ci siamo ritornati sessantasette anni dopo.
Un lungo viaggio verso la Francia, l’abbandono di ogni proprietà, uno
sradicamento totale, una vita da apolidi, una misera sistemazione a
Mulhouse. Poi un’altra, a Montbéliard. Isidor lava pavimenti, Martha
diventa ricamatrice, Arno va a scuola. Ha quattro anni più dei suoi
compagni di classe, perché non parla francese. I bambini lo picchiano e lo
trattano da “sporco crucco”, ma uno di loro, il piccolo Jacques Greys, è
sedotto dal nuovo arrivato. In poco tempo Arno si integra, va benissimo a
scuola, diventa il primo della classe, fianco a fianco di colui che diventerà il
suo amico per la vita, Jacques.
Con grandi sacrifici, suo padre ricostruisce un’esistenza, mentre Martha
mette assieme tutta la sua abilità per dare alla loro situazione precaria una
parvenza di famiglia. Nel giugno 1940, di fronte all’avanzata delle truppe
naziste, mio padre e mia nonna lasciano Montbéliard, mentre mio nonno –
che si è arruolato volontario nell’esercito francese come ausiliario – cerca di
raggiungerli a piedi. Dopo molteplici peripezie spesso drammatiche, la
famigliola si riunisce a Valence, in zona libera. Il tentativo di ricostruzione
dura solo un anno: i nazisti si avvicinano, bisogna fuggire di nuovo.
Stavolta è la Svizzera ad accoglierli. Grazie a un passatore, e all’istinto di
mio nonno, quest’impresa incerta andrà a buon fine. La mia famiglia
trascorrerà il resto della guerra nei campi di lavoro per profughi. Mio padre
e mio nonno saranno internati da una parte, mia nonna da un’altra. Le
condizioni di vita sono miserande, il lavoro è duro, ma la sopravvivenza è
assicurata. È nelle baracche del campo che il giovane Arno scopre la
musica, che diventa il suo nutrimento essenziale.
Dopo la liberazione, la famiglia Stern ritorna a Montbéliard. La Francia è
a pezzi, ognuno cerca di ricomporli. Mio nonno tenta, ancora una volta, di
ricostruire un’esistenza partendo da zero.
Assieme a sua moglie si mette a confezionare spalline. Poco tempo dopo,
nasce l’azienda Aux trois étoiles. Arno, la terza stella, ne è il
rappresentante. Si occupa dell’avviamento dei negozi, si reca spesso a
Parigi, accumula ordini. Le spalline si vendono bene, l’azienda spicca il
volo e assume operai.
Quando meno se l’aspettava, il giovane Arno si vede proporre un impiego
in un orfanotrofio della banlieue parigina. Lo accetta. Gli è affidata la
missione di tenere occupati dei bambini i cui genitori sono morti durante la
deportazione. Non conosce questo mestiere (né nessun altro) ma può
inventarselo di sana pianta con i mezzi disponibili, che non sono molti.
Trova del materiale da disegno e lo propone ai bambini, che ne rimangono
affascinati. Ne arrivano a fiotti, sono sempre più appassionati: una vera e
propria marea. Bisogna affrontare la situazione, e il giovane Arno si dedica
anima e corpo allo sviluppo del luogo e della funzione che gli compete.
Dopo la chiusura dell’orfanotrofio decide di aprire un atelier a Parigi.
Anche lì il successo è immediato.
Nel 1948, dal suo primo matrimonio, nasce Bertrand. Poco tempo dopo,
Arno sposta il suo atelier, chiamato L’Académie du jeudi, nel quartiere di
Saint-Germain-des-Prés. La sua notorietà aumenta, pubblica i primi libri, i
suoi atelier sono al completo, la stampa è entusiasta.
A metà degli anni Sessanta compie, da solo e con i propri mezzi, otto
avventurosi viaggi nei paesi più lontani del mondo, alla ricerca di
popolazioni in luoghi di difficile accesso (foresta vergine, Ande, deserto
ecc.) – e quindi ancora del tutto incontaminate dall’occidentalizzazione e
dalla scolarizzazione – per insegnare loro a disegnare e a dipingere. Ne
riporta la spettacolare conferma dell’universalità di ciò che ha scoperto.
Un giorno, una giovane determinata spinge la porta dell’Académie du
jeudi. Si chiama Michèle.

Mamma
La mamma è nata nel 1939 a Guelma, in Algeria. Si chiama Michèle ed è la
secondogenita di Simone e François Arella, una coppia brillante. Entrambi
nati nell’Africa del Nord: François a Guelma, e Simone, che di cognome fa
Girard, in Tunisia. Il padre di François aveva lasciato la sua Italia natale per
recarsi in Algeria a costruirsi una vita, oltre che strade e ponti. I suoi
numerosi figli nascono tutti nella grande villa da lui eretta in stile italiano. È
una famiglia di grandi lavoratori, avviano aziende fiorenti, innovano a tutto
spiano e s’intendono a meraviglia con la gente del posto, quelli che, come
loro, sono nati laggiù ma che, a differenza loro, vantano radici più antiche.
François sa fare quasi tutto, è elegante, lavora molto. Quando incontra la
meravigliosa Simone, il colpo di fulmine è reciproco. Si sposano.
I genitori di Simone fanno parte dei primissimi coloni francesi nati
nell’Africa del Nord. Proseguono la vocazione delle rispettive famiglie:
sono agricoltori. Simone è una donna del suo tempo, realizzata, colta,
sensibile alle arti, elegante e riservata. Manda avanti la famiglia con
maestria, saggezza e generosità.
Michèle cresce, con il fratello maggiore Pierre e la sorellina Nicole, nella
grande casa di cui ama anche l’angolo più nascosto. Cullata dal calore
dell’Algeria, nel cuore di una natura esuberante, in mezzo agli aranceti e ai
fichi, all’ombra dei capannoni rosa, beige, larghi e tranquilli, con le loro
sontuose proporzioni, e la luce dell’Africa che vi penetra di lato. Sia a
Guelma sia – altra meraviglia – nella fattoria dei nonni materni, a Sedrata,
fin dalla più tenera età si rende conto di vivere in paradiso. È circondata di
amore e serenità. Passano gli anni. Michèle è triste perché il liceo la
allontana dal suo eden, ma è una ragazza studiosa. Dopo aver superato
l’esame di maturità deve andarsene da lì, lasciare la sua amata terra e
proseguire gli studi di lettere alla Sorbona.
Tuttavia, di fronte alla preoccupante piega degli eventi in Algeria, Michèle
interrompe gli studi e torna dalla sua famiglia. C’è tanta incertezza, la gente
è con le spalle al muro, il corpo docente è privo di effettivi: Michèle
comincia a insegnare in un corso complementare. Poco dopo diventa
maestra di ruolo, ma deve lasciare d’urgenza la sua terra natale assieme alla
famiglia, abbandonare tutto ciò che aveva reso felice la sua infanzia.
È l’ora del ‘rimpatrio’. La famiglia Arella, sradicata, sfaldata, trova rifugio
a Vichy, da uno zio. Nei mesi successivi, per sopravvivere, i genitori di
Michèle vanno a vivere a Camarès, dove, con il figlio, aprono un’azienda
agricola. Poi, da anziani, si ritirano in una casa soleggiata a Lézan, nel
Gard. Michèle, dipendente statale, nubile, riceve l’ordine tassativo di
trasferirsi nella regione parigina dove deve trovare un lavoro di suo
gradimento. Per lei, che in realtà non si sente portata per l’insegnamento, è
particolarmente doloroso ritrovarsi senza alloggio e lontana dalla famiglia.
Ma, in compenso, ha l’opportunità di scegliere un lavoro che la convince:
seguire bambini molto piccoli in una scuola materna di Asnières.
Michèle attraversa un periodo buio, la sua vita è a pezzi, non ha ricevuto
alcuna formazione per quell’incarico che, tuttavia, desidera svolgere.
Riceve un’infinità di consigli, ma si rende conto che non corrispondono per
niente alla realtà dei bambini. Il disegno, soprattutto, la rende infelice: le
viene chiesto di realizzare, con i piccoli, degli esercizi grafici che le
sembrano del tutto assurdi.
Così decide di manifestare il suo grande smarrimento e il desiderio di
capire “cosa sia necessario fare in quel campo” all’ispettrice scolastica, che
la manda a documentarsi in una biblioteca pedagogica. La bibliotecaria è
categorica, c’è un solo autore da leggere sull’argomento: Arno Stern.
Michèle esce da lì con tutti i suoi libri. Stern è una rivelazione, una manna,
un sollievo. Ciò che lei sperava con tutto il cuore lo trova in quelle pagine.
Per un anno legge e rilegge quei libri, che le cambiano completamente la
vita e il metodo di lavoro.
Un giorno, quasi per caso, passa davanti a una galleria in cui scorge
dipinti fatti da bambini. Le basta spingere la porta per capire che è entrata
nell’Académie du jeudi, e che l’uomo di fronte a lei è Arno Stern.

Mamma, papà, Delphine e Éléonore


Arno e Michèle si sposano nel febbraio 1971. Io nasco nell’aprile dello
stesso anno. Quando apro gli occhi, il mio mondo è composto da tre
personaggi principali: mamma, papà e Delphine, mia cugina, più grande di
me di quattro anni, la figlia di Nicole. Cresceremo mano nella mano, quasi
come gemelli. Tuttavia, la mia costellazione raggiunge la perfezione solo
dopo la nascita di mia sorella Éléonore, nel 1976.
Durante…

…la mia infanzia, tutto andava da sé e regnava l’allegria.


Settimane tipo

Ricordo la quotidianità, fatta di incontri e di giochi, come un fluido


prospero, che non metteva alla prova. Ecco spiegata la mia chiave di volta:
ero un bambino felice e pieno di entusiasmo. Apprendimento e gioco sono,
per me, sinonimi. Ero un bambino felice, e impiegavo il tempo in modo
tranquillo ed estetico.
Le mie ‘settimane tipo’ – composte, oltre alle ricche ore improvvisate, da
numerose attività settimanali o strutturate – erano piene, eppure prive di
stress, concorrenza, corsa alla prestazione e lotta per il bel voto.
Verso i dodici, tredici anni le mie settimane erano particolarmente piene.
Erano scandite dalle attività organizzate a cui mi dedicavo. Fin dalla prima
infanzia, una volta alla settimana dipingevo nel Closlieu[1] con mio papà. Di
solito al mercoledì. Aspettavo con ansia il giovedì e il venerdì, giornate
dedicate alla dinanderie,[2] la lavorazione del rame.

La dinanderie
Avevo manifestato interesse per la lavorazione del metallo. Così i miei
genitori – appassionati di ceramica e di dinanderie – avevano cercato con
discrezione degli atelier, contattato degli artigiani e infine conosciuto Guy.
Guy era un dinandier e, in un primo tempo riluttante all’idea di accogliere
un bambino, si dimostrò poi pronto a iniziarmi alla sua arte senza applicare
metodi scolastici.
La dinanderie, arte di lavorare il metallo battendolo senza saldarlo, è una
tradizione che rischia di estinguersi. I suoi rari rappresentanti devono molto
spesso, come Guy, accontentarsi di dare corsi a pensionati a corto di hobby,
di certo entusiasti e liberi ma senza ambizioni, senza desiderio
d’investimento né di conoscenze oltre a quelle necessarie per la
realizzazione di alcuni oggetti. Guy si addormentava durante i metodici
corsi dell’Adac.[3] Dopo il mio arrivo, la mia freschezza di bambino e la
mia idea adulta di farne un mestiere gli portarono una ventata di rinascita.
Fin dalla prima ora, tra noi si creò un’improvvisa alchimia. Dimenticando i
suoi preconcetti, scongiurò mia madre di riaccompagnarmi la settimana
successiva ad ogni costo. Ravvivato da quel nuovo ruolo di maestro, provò
una gioia immensa nell’offrirmi quel mestiere in tutti i suoi aspetti. E io,
trasformato in spugna, divenni insaziabile. Oltre alle sei ore settimanali di
lezione (dovevo andarci solo il giovedì, ma mi faceva frequentare entrambi
i suoi corsi), leggevo tutto ciò che trovavamo sull’argomento, su cos’era ma
anche su ‘cosa non era’ la dinanderie. Ero un gran purista e scrivevo veri e
propri pamphlet contro gli artisti calderai che si autoproclamavano
dinandiers.
All’epoca, riportavo sempre i miei entusiasmi in un libretto o in un
diario… In questo caso si trattò di un ‘quaderno di riflessioni’ intitolato La
Dinanderie – ou comment sublimer le métal (La dinanderie, o come
sublimare il metallo). Ci avevo messo parecchie ore per redigere i testi e poi
scriverli in bella calligrafia. Avevo realizzato delle illustrazioni in bianco e
nero che poi coloravo con i pennarelli grossi dopo averle fotocopiate in
blocco. Dedicavo parecchie ore alla ricerca di negozi in cui poter fare
queste fotocopie a prezzi vantaggiosi, e poi a rilegare e a colorare quel
libretto che i miei genitori prendevano sul serio quasi quanto me, al punto
da lasciarmelo esporre in vetrina in mezzo a tutti gli altri libri che vendeva
mio padre. Preparai un modulo di sottoscrizione, vendetti un certo numero
di copie, alcune le spedii. Ricordo un aneddoto interessante: spesso, la
mamma mi segnalava che nei miei testi mancavano gli accenti e la
punteggiatura. Restavo visibilmente ermetico di fronte a quelle
osservazioni, che mi lasciavano del tutto indifferente, anche se lei me le
faceva senza insistenza e fiduciosa che sarebbe arrivato il momento in cui
avrei messo accenti e virgole. Un giorno, durante le lunghe estati che
trascorrevamo a Lézan dai miei nonni, il nostro amico apicoltore (che
alcuni anni prima avevo osservato mentre faceva scivolare a mani nude uno
sciame di api selvatiche in un alveare) cominciò a leggere ad alta voce il
mio quaderno di riflessioni sulla dinanderie. Era davvero interessato e, alla
fine della lettura, alla quale assistetti senza perdere una parola, disse: “È
molto bello questo libro, molto interessante. Manca solo qualche accento e
qualche virgola…”. Da quel giorno nei miei scritti non sono più mancati né
accenti né punteggiatura… Era scattato qualcosa.
1 Con questo termine, che significa ‘luogo protetto’, Arno Stern ha battezzato il suo laboratorio di
pittura per bambini, una stanza dove esprimere liberamente la propria personalità attraverso i colori
[n.d.t.].

2 Vocabolo comparso nel quattordicesimo secolo per indicare la lavorazione di utensili di rame e altri
metalli fabbricati nella città di Dinant, in Belgio [n.d.t.].

3 Association pour le développement de l’animation culturelle (associazione per lo sviluppo


dell’animazione culturale), sovvenzionata dalla città di Parigi, una delle grandi idee parigine alla
quale devo molto, come vedremo in seguito.
Mi vedevo dinandier. Avevamo acquistato degli utensili – Guy si era
occupato della qualità – e non poca materia prima. Era tutto costoso, ma
rinunciammo ad altro. Ricordo la mia felicità – di bambino e di adulto – il
giorno in cui io e papà andammo a prendere i miei martelli, appena lucidati.
Il venditore si accorse della mia competenza dal modo in cui li controllavo.
Non mi trattò mai da bambino.
Durante una gita fuori città m’imbattei in ciò che tutti avrebbero
considerato un semplice pezzo di ferraglia. Riconobbi subito un’incudine di
vecchio stampo, particolare e rara, un ‘tasso’. Il proprietario dei locali,
senza esitare, mi lasciò prendere quel pezzo di ferro arrugginito. Attribuii a
quella scoperta l’importanza che si meritava e mi misi subito a levigare e a
trattare contro la ruggine quell’utensile di grande bellezza. Ero felice di
averlo salvato.
Ho sempre avuto molta familiarità con gli utensili, che mi sono sempre
piaciuti. Fin da piccolissimo, osservavo papà mentre costruiva dei mobili,
semplici ed efficaci, con assi, viti, colla, chiodi e strumenti vari. Osservavo
come segava, visualizzavo, esaltato da un microscopio interiore, il lavoro
fatto nel legno da ogni dente dello strumento, e capivo senza fatica l’origine
della segatura. Guardavo i chiodi conficcarsi sotto i colpi del martello,
osservavo la coerenza geometrica delle superfici assemblate prendere forma
e, senza alcuna spiegazione, ne assorbivo l’evidenza. Allo stesso modo la
logica e la cronologia secondo la quale papà montava i vari elementi
s’imponevano su di me. Queste esperienze non mi hanno mai abbandonato.
Papà mi regalò una cassetta degli attrezzi. Utensili di legno, certo, ma
giocattoli belli, funzionali e molto simili a quelli veri; non caricature
sproporzionate, in plastica dai colori violenti, con orecchie da pagliaccio e
un naso di mucca. Giocavo per ore intere con quelli che chiamavo i miei
‘mutensili’, analizzavo a lungo le leggi che regolavano il funzionamento di
un martello, questa massa che, grazie alla sua velocità, raggiunge un peso
tale da conficcare un chiodo…
Più tardi, da mio nonno, scoprii la meccanica e la sua utensileria specifica.
Non ricordo più la prima volta che ho utilizzato un cacciavite, una pinza o
una chiave, ma so che ho cominciato molto presto, con grande interesse,
scoprendo con entusiasmo il concetto di riparazione che, ancora oggi,
occupa un posto molto importante nella mia vita. All’inizio riparavo
biciclette. Il parafango, per cominciare, poi i freni e in seguito il cambio. A
poco a poco cominciai a fare esplorazioni e riflessioni meccaniche sempre
più complesse. Riparavo una sveglia, poi un’altra, poi un registratore.
Basandomi sulle precedenti esperienze, cominciai a smontare, poi a
rimontare macchine sempre più sofisticate. Adoravo la lenta ricerca tramite
la quale ci si addentra nelle viscere di un apparecchio; e poi l’esplorazione
prudente che consente di coglierne la logica di funzionamento e, pertanto,
di individuare il guasto, il pezzo difettoso e l’operazione necessaria per
realizzare la riparazione (che a volte richiede molta inventiva, quando si
tratta di sostituire un pezzo introvabile).
In seguito la dinanderie, certo, come pure la ceramica e molti altri
materiali, mi offrirono un contatto diretto e molto forte con gli attrezzi
dell’artigiano. Proprio per questo motivo non ebbi la minima difficoltà a
costruire lampade in pasta di vetro dopo aver passato qualche giorno nel
laboratorio di un amico mastro vetraio. Lui stesso, notando la facilità che
avevo nel maneggiare utensili e materiali – senza porsi le domande che tutti
farebbero a un bambino di dodici anni – mi offrì la possibilità di utilizzare
subito i suoi strumenti per costruire quello che volevo. Dopo un periodo di
osservazione, disegnai una lampada, un patchwork in pasta di vetro,
d’ispirazione liberty, che costruii con felicità, inebriato dall’odore delle
saldatrici e dal rumore del vetro tagliato, prima di concepire e costruire
diversi altri oggetti (lampade, specchi, vasi).
Fin da subito ho imparato a rispettare e a preservare gli utensili. Le
persone che mi hanno affidato il loro materiale non se ne sono mai dovute
pentire.
Nel suo laboratorio, Guy sorrideva e si lasciava trascinare dal gioco,
sempre di più. M’insegnava senza esitazione a manipolare un cannello
dall’enorme fiamma (bisogna arroventare il rame tra una passata e l’altra, a
suon di martellate) e a immergere il pezzo nell’acqua con l’aiuto di una
semplice pinza. Adoravo il rumore, l’odore del rame incandescente che
penetrava nel liquido. Guy m’insegnava a mescolare l’acido cloridrico
all’acqua e a regolare l’altro cannello, quello dal miscuglio pericoloso. Non
si chiese mai se quelle responsabilità fossero adatte alla mia età. Non smise
mai di considerarmi per quello che ero: un allievo appassionato con una
forza e una competenza sempre maggiori.

Un giorno dovette assentarsi un momento. Ricordo la sua frase, buttata lì,


sulle scale, quasi una consacrazione che mi fece battere il cuore: “Esco un
attimo; se avete bisogno, chiedete ad André!”.
Nell’arte della dinanderie, uno degli scopi principali – e quindi una delle
maggiori difficoltà – consiste nel saper calcolare con estrema precisione il
diametro della matrice di rame (chiamato ‘flano’) per poi martellarlo con
attenzione in modo tale che il suo spessore non muti. Pertanto, anche
quando si realizza un pezzo complesso (per esempio un vaso ovoidale), il
suo spessore non solo è lo stesso dal piede al collo, ma è addirittura identico
a quello del flano.
Il calcolo geometrico che consente di determinare con esattezza la misura
del flano (non bisogna avere né poca né troppa materia) tiene conto di una
marea di parametri. È in questo modo, il più naturale possibile, che ho
acquisito parecchie conoscenze sia in geometria sia in chimica applicata.
Imparai a lavorare altri metalli trattati in modo diverso rispetto al rame.
Realizzavo rivestimenti in latta per alimenti per oggetti in rame, il che
richiede un’estrema precisione e una buona padronanza delle differenze di
reazione alla martellatura, affinché i due pezzi si incastrino perfettamente.
Ma Guy dovette affrontare problemi personali. Tre anni dopo, alla
riapertura dei corsi, non si presentò. Fu uno shock. Il ragazzo che sostituiva
Guy dava lezioni ai confini del tredicesimo arrondissement, in un buio
sottoscala di una delle torri della Chinatown parigina. Il tragitto era noioso,
ma la mia passione immutata. Avevo quattordici anni e il nuovo professore
era un po’ scettico. Nonostante tutta la buona volontà e il desiderio di
tenermi nel suo atelier, non m’insegnò granché. In origine calderaio,
saldatore emerito, utilizzava procedimenti che non corrispondevano alle
mie convinzioni di dinandier. Per qualche tempo mi arenai. Dopo aver
realizzato un pezzo particolarmente difficile (un vaso a forma di otto),
decisi a mia volta di non riprendere i corsi l’anno successivo, ma di lavorare
da solo finché non si fosse presentata l’occasione di aprire un atelier.
Questo progetto, sostituito poi da altri, non si è concretizzato. Ma ho ancora
i miei utensili e il mio rame. Sono certo che potrei ricominciare in
qualunque momento.
Ogni martedì un amico inglese mi dava lezioni di algebra. Mio zio,
informatico, mi riceveva il mercoledì sera e anche lui m’insegnava l’algebra
oltre all’informatica, materia in cui ero ai primi passi. Il venerdì seguivo,
con la mamma e Éléonore, i corsi di tessitura con le dita (e varie altre forme
di tessili annodati) in un altro atelier dell’Adac. Il martedì sera, frequentavo
con le mie due cugine i corsi di ceramica del nostro amico Philippe.
Ritrovavo con gioia un mondo a me familiare, anche se terre e smalti erano
materiali completamente diversi dal metallo.
Con mia cugina Delphine andavo a lezione di danza due volte alla
settimana. Frequentavamo anche i corsi di kalaripayat – arte marziale e
medica del Kerala, basata sull’osservazione degli animali – tenuti da un
giovane keralese incontrato al centro culturale dove le nostre sorelle
seguivano tutti i giorni uno stage di bharata natyam.

La danza
La danza ha sempre fatto parte della mia vita. Papà era molto legato a
Jerome Andrews, il capofila della deep dance in Francia. Ballerino di
origine americana, allievo di Mary Wigman, Martha Graham e Joseph
Hubertus Pilates, era tra i personaggi implicitamente presenti nella mia vita.
Veniva spesso a casa nostra, stavo seduto sulle sue ginocchia, divertito dal
suo accento, i suoi modi e il suo profumo. Sapevo che era un ballerino e, in
maniera quasi implicita – a malapena camminavo –, già conoscevo la
danza. Jerome non insegnava ai bambini. Mia zia Nicole faceva lezione con
lui; la mamma ci andava qualche volta e io l’accompagnavo come
spettatore silenzioso, seduto tra i tessuti accanto a Delphine che era abituata
a questa situazione: lei ci veniva spesso, e Jerome, che le voleva tanto bene,
la faceva stare lì e le chiedeva il silenzio assoluto.
Ma danzare, molto liberamente, soli o insieme, nella grande stanza del
nostro appartamento sgomberata per questo scopo, faceva parte dei nostri
giochi ordinari.
Ogni tanto andavamo a vedere uno spettacolo di danza con papà e
mamma.
Un giorno, Jerome chiamò papà per comunicargli che una delle sue
allieve, Carole, avrebbe aperto una scuola di ballo per bambini a Parigi. È
così che abbiamo cominciato con la danza, io e Delphine, e poco tempo
dopo le nostre due sorelline. Da quel primo giorno, che ricordo molto bene,
ho fatto almeno una lezione a settimana. Con Carole, durante l’infanzia; poi
con Jocelyne e, in seguito e per parecchi anni, con Delphine. E adesso con
Éléonore. Alcuni stage con altri ballerini mi hanno aperto orizzonti diversi.

La fotografia
Mi piaceva il lunedì, giorno dedicato alla fotografia.
Fin dalla prima infanzia ho visto papà scattarci delle foto.
Ne ha fatte a migliaia… La fotografia faceva parte della mia vita in modo
naturale, senza averci mai dedicato una particolare attenzione. Mi capitava
di prendere la macchina fotografica di papà e di premere il pulsante di
scatto, tutto sommato senza grandi risultati. Un giorno, avevo forse dieci
anni, ci sono arrivati dei libri grandi e belli, una quindicina di copie:
Prestige de la photographie. Papà e mamma andavano dai loro fornitori più
volte alla settimana. Beneficiavano di condizioni vantaggiose, anche sui
libri scontati. Non cercavano testi particolari; li trovavano lì e acquistavano
quelli che corrispondevano alle loro esigenze: libri belli, ben stampati e ben
rilegati, completi, appassionanti, specializzati, che andavano a fondo nelle
cose; libri tecnici, allettanti anche se a volte incomprensibili per i non
professionisti come noi; mai libri scolastici. Questo incredibile raccolto
avviene tuttora. Non ha mai smesso, nemmeno nei nostri frequenti periodi
di carestia. I libri arrivavano in quantità regolari. Li passavo in rassegna;
alcuni m’interessavano fin dall’inizio, altri no. Ci sono ritornato più tardi.
Oppure no. Ho trovato in essi la risposta alla maggior parte delle domande
che mi sono fatto. Éléonore, mia sorella, attingeva da questa manna a modo
suo, diverso dal mio, poiché i suoi interessi erano altri (oppure sfasati,
anteriori o posteriori, ma a volte anche concomitanti). Le collezioni di
Prestige de la photographie (edizioni Epa) e Time Life photographie fanno
parte di quei libri che mi hanno colpito al primo istante. Ho aperto la prima
pagina del primo volume e ho ripreso fiato solo all’ultima pagina
dell’ultimo volume. C’era tutto in quelle opere meravigliose. La storia della
fotografia, dagli inizi di Niépce fino agli ultimi progressi dell’epoca. Le
biografie di tutti i protagonisti. La storia di tutte le marche, di tutti gli
apparecchi, di tutti i procedimenti. C’erano le spiegazioni complete di tutti i
fenomeni, di tutti i processi, di tutto ciò che avviene, che si fa e che succede
dalla preparazione della pellicola all’asciugatura della stampa finale. Tutte
le tecniche di inquadratura, quelle di laboratorio, le alterazioni, le correzioni
e persino i processi di restauro, dal dagherrotipo al microfilm.
Le tecniche d’illuminazione, di sfondo, di flash, e i relativi calcoli e leggi
ottiche. Visite approfondite negli uffici di studio, fabbricazione ed
esposizione degli obiettivi, interviste ai grandi fotografi e reportage durante
il loro lavoro. Proprio tutto. Mi sono impregnato di ogni parola. Ho dovuto
leggere e rileggere alcuni passaggi tecnici molto complessi. Ma tutti quei
procedimenti sono così logici…
Nel frattempo mi creavo una strategia per raffinare il materiale grezzo dei
libri. Imparavo a imparare utilizzando cose il cui scopo non era per niente
didattico. Di un buon libro si mangia tutto, basta cucinare ogni pezzetto in
modo adeguato. Ho imparato così a trarre da qualunque supporto – che sia
minimamente serio – le informazioni di cui ho bisogno. Questo metodo,
valido solo per me, mi è utile ogni giorno.
Riconoscevo qualsiasi apparecchio con una sola occhiata. La Leica mi
appassionava in modo particolare. Avevo riletto più volte il capitolo
dedicato alla sua storia, avevo divorato ogni linea, ogni data, ogni
immagine. Ero capace di disegnare la mia preferita, la Leica IIIc, a occhi
chiusi, fino all’ultima vite (poiché è proprio dalle viti che si può distinguere
una copia dall’originale!).
Papà e mamma mi portarono al museo della fotografia a Bièvres. Non
scoprii quasi nulla di nuovo, ma potei vedere dal vivo tutti gli apparecchi
che avevo studiato a memoria. Era entusiasmante. Passavo da una vetrina
all’altra, divorandomeli in silenzio. Papà, mamma e Éléonore mi
accompagnavano pazienti, pur provando un interesse limitato per queste
sorprendenti cianfrusaglie (il museo di Bièvres esponeva soprattutto un
inimmaginabile cumulo di apparecchi in vetrine sovraccariche e polverose:
era proprio quello che mi ci voleva!).
Cominciai a fare schizzi, schemi e progetti. Feci dei buchini minuscoli
nelle scatole di accendini e utilizzai del nastro adesivo trasparente come
vetro smerigliato. Poi affinai l’esperimento e misi una lente dietro al buco.
Con due tubi telescopici in cartone, feci il mio primo obiettivo e
sperimentai la focale e la messa a fuoco. Passo dopo passo, applicai tutte le
teorie che avevo divorato. Servendomi di un nastro cartonato con fessura
che scorreva in una scatola perforata, costruii il mio primo otturatore a
ghigliottina. Poi montai tutti questi elementi un po’ disparati e improvvisai
la mia prima macchina fotografica in cartone, Lego e legno… Faticai per
dare a quest’apparecchio un’impermeabilità impeccabile. Di strato in strato,
divenne più grosso. Inserirvi una pellicola diventava un’impresa
complicata, dal momento che bisognava smontare tutto. Inoltre, lo
scorrimento della pellicola non funzionava molto bene, perché la sigillatura
la stringeva troppo.
Ci misi una pellicola vergine e realizzai, alla bell’e meglio, trentasei scatti.
Ma le foto, sviluppate dal fotografo dietro Saint-Sulpice (come mi
sembrava lunga la strada!), risultarono inutilizzabili, una specie di
minestrone grigio e sfocato. Analizzai il problema e riflettei sulle cause del
fallimento. Nessuno intorno a me avrebbe saputo aiutarmi; ed esplorare
tutto questo da solo m’interessava molto più che seguire il parere di uno
specialista. Capii che i miei calcoli si erano rivelati sbagliati a causa di vari
parametri e soprattutto per l’imprecisione dei materiali. Ripartii quindi da
zero, e ridisegnai ogni pezzo del nuovo apparecchio che realizzai in legno.
Contemporaneamente disegnai i progetti di un’invenzione che trovo
pertinente ancora oggi: preoccupato di semplificare il complesso
movimento dello specchio e dell’otturatore di un apparecchio reflex,
immaginai una pellicola speciale che alternava superficie sensibile e
pellicola trasparente. Nella mia Stand directmatic bisognava guardare nel
mirino attraverso la parte trasparente, chiudere l’otturatore, spostare la
pellicola per posizionare la superficie sensibile, aprire l’otturatore,
richiuderlo e risistemare la pellicola… Era abbastanza convincente, ma alla
fine capii che, come per il motore Wankel messo a confronto con il motore
a pistoni e con l’albero a gomiti, alcune semplificazioni provocano più
danni che miglioramenti…
Il mio apparecchio di legno, con l’obiettivo costituito dal tubo nero della
scatola di una pellicola il cui scorrimento era garantito dal cuore di una
bobina smontata, alla fine funzionò quel tanto da permettere di fare alcune
inquadrature riconoscibili.
Soddisfatto, non andai più alla ricerca di altro, poiché per fare delle foto
ebbi il permesso di utilizzare l’apparecchio di papà. Constatando la mia
abilità in questo campo, mi prestò con la massima fiducia la preziosa Pentax
con la quale ha fatto il giro del mondo.
Mentre costruivo il secondo apparecchio, la mamma, senza dirmi niente,
aveva sfogliato il catalogo dell’Adac e si era recata in alcuni atelier per
incontrare i professori di fotografia. Guilaine le piacque, e questa
sensazione fu reciproca.
Un lunedì, dopo la nostra gita settimanale in campagna – durante la quale
feci la mia prima intera pellicola, in bianco e nero, con l’apparecchio di
papà (ricordo ancora quegli scatti davanti alla nostra vecchia Simca) –, mi
lasciarono al corso di fotografia che Guilaine teneva negli scantinati del
Centro André Malraux. Era una giovane donna molto moderna e molto
dinamica. Cambiava la pettinatura tutte le settimane e gli accostamenti dei
colori più stravaganti le stavano a meraviglia. Vera artista, aveva sviluppato
– oltre alla sua arte – un aspetto, uno stile, una calligrafia, un’ortografia del
suo nome e un’arte del saper vivere personali, gioiosi e diretti. Aveva fatto
colpo su quel ragazzino appassionato che aveva preso sotto la sua ala.
Credo che furono proprio la mia costanza e la mia vivacità a farmi
conquistare la sua amicizia che dura ancora oggi.
Ci intendemmo a meraviglia. Come Guy, anche Guilaine non ha mai
cercato di applicare nei miei confronti nessun tipo di metodo scolastico (il
che corrispondeva comunque alla sua etica) e, come lui, non mi ha mai
trattato come un bambino. Lei resta uno dei tre grandi ‘maestri’ della mia
vita.
Il tirocinio con lei si concentrò sul lavoro in laboratorio (in materia tecnica
avevo davvero imparato tutto dall’Encyclopédie Time Life de la
photographie, in cui ogni cosa era spiegata in modo chiaro ma senza
smancerie, con alcune metafore sorprendenti). Per tre anni, mi mise a
disposizione le sue conoscenze, ma non me le impose mai. Spesso, si
accontentava di offrirmi l’infrastruttura necessaria. Di tanto in tanto,
quando me ne stavo troppo a lungo senza uscire, Guilaine – che se ne stava
nella stanza accanto costantemente ricercata dagli altri allievi – passava
dalla camera stagna che portava al laboratorio per dare un’occhiata al mio
lavoro. Adoravo questi momenti. “Volevo vedere come va”, diceva con
voce viva varcando la seconda porta, dopo aver bussato tre volte come
stabilito. Guardava le mie regolazioni, ispezionava le mie stampe nei bagni
o nei contenitori di risciacquo, diceva “molto bene”, faceva un rapido giro
degli altri allievi e se ne andava.
Dopo tre anni, mi sostenne nel progetto di aprire un mio laboratorio,
ritenendo che era diventato inutile continuare a pagare corsi, giacché ormai
non facevo altro che utilizzare i locali.
Nella mia vita, quando prendo una decisione importante si mette sempre
in moto uno strano processo. Il che, fino a oggi, mi ha spesso consentito di
raggiungere i miei obiettivi, lentamente ma inesorabilmente, talvolta a mia
insaputa, come se all’improvviso tutto l’universo cospirasse e mi mettesse
di fronte al fatto compiuto. Questa volta fu il fratello filantropo di un amico
che mi regalò il suo vecchio Rohen, un proiettore meraviglioso. Dopo varie
ricerche, papà mi accompagnò in macchina alla casa madre, sperduta nella
banlieue parigina, per recuperare un pezzo che mi mancava. Il processo si
era innescato… Pensai a come sistemare il nostro guardaroba e trovai
alcune soluzioni che convinsero la mia famiglia. Feci tagliare un’asse e
inventai un modo di collocarla per ottenere una superficie di lavoro ad hoc.
Impiegai delle ore per dipingere tutto e per impermeabilizzare la stanzina.
Feci un giro nei negozi del boulevard Beaumarchais e acquistai, a uno a
uno, gli elementi che mi servivano. Ero molto esigente sulla qualità e i
prezzi; i venditori, vedendo che sapevo quel che volevo e vedendo quel che
volevo, mi prendevano sul serio e, spesso, mi proponevano il materiale un
po’ specializzato, un po’ ‘particolare’, che conservavano nel retrobottega
per gli intenditori. In poco tempo raccolsi tutto il materiale e il mio
laboratorio divenne funzionale. Pur non essendo più iscritto ai corsi,
passavo spesso a trovare Guilaine per mostrarle il risultato del mio lavoro
solitario. Lei dimostrava davvero molto interesse e mi diede ancora tanti
preziosi consigli. Passavo parecchie ore tra quegli odori caratteristici, i
rumori liquidi, i momenti di suspense e di solitudine a cui questo lavoro
offre un terreno propizio. Da allora, alcuni amici fotografi hanno molto
spesso utilizzato le mie attrezzature. Ma devo confessare una cosa:
nonostante le numerose ore magiche passate nella luce inattinica dei
laboratori, nonostante la felicità nel vedere una foto uscire dal nulla… alla
fine il lavoro in laboratorio cominciò a sembrarmi un po’ fastidioso, e solo
grazie alla fotografia digitale riuscii a ritrovare il mio entusiasmo e tutta la
mia creatività.
Nella fotografia digitale, il passaggio al laboratorio è sostituito
dall’informatica, il che mi riporta al centro di uno dei miei settori quotidiani
favoriti, e le conoscenze acquisite grazie a Guilaine acquistano tutto il loro
valore.
Non posso concludere senza parlare di Delphine. Per i suoi vent’anni – ne
avevo quattro di meno – Nicole, mia zia, decise di regalarle una macchina
fotografica. A tal proposito, chiese la mia consulenza e l’accompagnai al
reparto di occasioni della Fnac. Trovai una buona offerta, una Olympus
molto semplice, un classico che mia cugina non ha mai smesso di utilizzare
assieme alla sua Leica. Poco tempo dopo, il giorno del suo compleanno, io
e Delphine facemmo un giro di mezz’ora in autobus. Aveva appena ricevuto
la sua macchina fotografica e ne andavamo entrambi molto fieri…
Appassionata di fotografia (condividevamo alcune letture, visto che l’arrivo
dei libri interessava anche lei), non se ne intendeva ancora molto dal punto
di vista tecnico. Durante quel tragitto di mezz’ora, le spiegai tutto in blocco:
i procedimenti, le regolazioni e le rispettive implicazioni, senza eccezione.
Pensavo così di darle un’idea generale sull’argomento per poi esporre ogni
punto nel dettaglio. Ma ecco che apparve chiaro un concetto: una persona
che non soffre di blocchi si trasforma naturalmente in una spugna quando
incontra informazioni legate – da vicino o da lontano – a ciò che la
appassiona. Tuttora mi stupisce non aver mai dovuto rispiegare nulla a
Delphine: aveva ingoiato quella valanga di nozioni in un colpo solo!
Divenne una fotografa tenera e intrepida, che fa mostre e vende le sue foto.
Ore improvvisate…

Oltre a queste attività, rigorosamente legate alla struttura settimanale,


c’erano tutte le altre ore: quelle ‘improvvisate’.
Queste ore erano riempite di una tale quantità e varietà di occupazioni da
rendere assolutamente impossibile elencarle in modo esauriente. Inoltre,
alcuni processi di apprendimento sono interni e restano invisibili, sia agli
occhi della persona in questione sia a quelli di coloro che la circondano. Lo
scopo, qui, è apprezzarne l’intensità e la diversità.
Molte di queste occupazioni e preoccupazioni esistevano
contemporaneamente e in simbiosi: si sostenevano, si alimentavano, si
arricchivano, si stimolavano e, a volte, si generavano a vicenda. Altre erano
strettamente legate agli impegni della ‘struttura settimanale’ o ne erano una
conseguenza. Alcune di esse passavano in primo piano e diventavano quasi
esclusive per un periodo che poteva durare qualche giorno o parecchi mesi,
addirittura molti anni.
Nei mesi in cui mi dedicavo alla letteratura, divorando un libro dopo
l’altro, è evidente che mi restava poco tempo per altre occupazioni.
Immancabilmente leggevo l’opera completa di un certo autore, come pure
molte delle sue biografie, prima di passare a un altro.

Letteratura
Tutto cominciò con la contessa di Ségur. La mamma mi aveva letto ad alta
voce Le memorie di un asino (a casa nostra si legge spesso ad alta voce…).
Dopo di che, lessi l’opera completa, con un certo disordine, aspettando
con impazienza di ricevere quei volumi dalla rilegatura color magenta.
Terminata la prima lettura (leggevo ancora abbastanza lentamente), mi
lanciai in una seconda lettura, cronologica. Ne feci una terza, per leggere
tutti i volumi collegati tra loro. In seguito lessi due biografie della contessa
di Ségur. Poi, sempre rovistando in quel campo, lessi i libri, eccellenti, di
suo figlio.
La lettura, in questa fase, lasciava ancora molto spazio alle altre
occupazioni. Tutto cambiò quando incontrai Balzac. Il ‘metodo’ era simile,
ma leggevo più di sei ore al giorno.
Un mattino – avevo circa quindici anni – papà, sistemando dei libri, aprì
un volumetto antico, beige e odoroso.

Questo incontro lo toccò visibilmente: aveva ritrovato un vecchio amico.


Mi lesse la prima frase: “Per molto tempo, mi son coricato presto la sera”.
Proust entrò per sempre nella mia vita. Incontrai un universo e, soprattutto,
uno sguardo per molti versi simili ai miei, che scoprivo fortuitamente.
Proust, esplorando sentimenti e situazioni, mi spiegava ciò che io stesso
facevo da qualche tempo. Non mi mostrava come fare, mi lasciava scoprire
il mio mondo. Non m’insegnava la geografia della terra che aveva
conquistato, m’insegnava ad affrontare, scoprire, rispettare e amare i miei
continenti. Niente di tutto ciò che io sono oggi sarebbe stato possibile senza
quella sorta di approvazione data, all’epoca, da Proust.
Come tutte le mie passioni, quella per Proust mi occupò completamente e
invase tutti i campi. Curavo il mio taglio di capelli e mi lasciavo crescere i
giovani baffi per assomigliare a lui. Avevo letto parecchie delle sue
biografie e lettere, mi ero impregnato di ogni sua foto; ne avevo studiato le
pose, l’abbigliamento e la firma al punto da riuscire a riprodurli fedelmente.
Non solo mi feci fotografare nella sua famosa posa, ma non esitavo a
circolare per le strade della Parigi di oggi con vestito nero, camicia bianca e
lavallière. Avevo collezionato qualche bastone antico e non uscivo mai
senza! Vivevo completamente la mia passione e nessuno obiettava.
Nella scrittura, mi esercitavo con lo ‘stile Proust’. Mi allenavo con frasi
lunghe e con parole difficili che nessuno capisce ma che esistono… Ne
cercavo persino nei dizionari… Il tutto dava origine a un gergo
incomprensibile, che a un certo punto abbandonai con molta naturalezza.
Fui in seguito occupato, in maniera meno esclusiva, da un altro autore,
Camus, il cui stile non aveva niente a che fare con quello di Proust.
Seguirono poi Hugo Hartung (in tedesco) e Richard Bach.
Non farò qui la lista completa di tutti gli altri autori che ho affrontato
senza tuttavia leggerne l’intera opera o biografia. Citerò in breve solo le
raccolte divorate in ordine sparso e la mia inclinazione, un tempo esclusiva,
per i racconti di tutte le epoche e di tutte le origini. M’interessa soprattutto
descrivere la tranquillità e l’intensità con le quali ho potuto leggere. Non mi
accontentavo, come uno scolaro, di dare una scorsa ad alcuni estratti di ogni
autore prima di essere catapultato verso il successivo, di leggere alcune
opere obbligatorie e imparare alcuni fatti e date rilevanti.
La mia vita era impregnata di un autore, di un argomento. Non solo
spolverizzata. Leggevo. Talvolta cominciavo al risveglio, con
un’interruzione nelle ore dei pasti, per poi continuare di notte, nel mio letto,
con la pila tascabile!
Nessuna pianificazione, nessun programma, nessuna opinione, nessun
intervento interrompeva la mia lettura, turbava la mia concentrazione,
sviava il mio slancio o disperdeva i miei progressi.
Torniamo alle ‘ore improvvisate’
È capitato spesso che mi sia trovato, all’improvviso, a scoprire un campo
affrontato per caso nel corso di una ricerca in origine diversa. Come nel
caso dell’algebra, quando cercavo di calcolare il numero di ingranaggi
necessari per la mia costruzione.
In quella quotidianità così aperta, capitavano spesso proposte impreviste:
un amico o un membro della famiglia ci proponeva di andare con lui a
vedere una mostra; mio zio si organizzava per portarmi al Salone del
modellismo; Delphine si era procurata due biglietti per farmi scoprire uno
spettacolo di cui non sapevo nulla… Grazie al margine d’improvvisazione
che caratterizzava la nostra struttura, nella maggior parte dei casi potevamo
accettare queste proposte su due piedi. Quante occasioni di incontri e grandi
momenti mi sono stati offerti!
Capitava anche molto spesso che, pescando tra i nuovi arrivi librari,
facessi una scoperta improvvisa e, per un attimo, dovessi mettere da parte le
mie preoccupazioni del momento per dedicarmi a quel nuovo argomento.
Ricordo, in particolare, un libro sulla navetta spaziale americana e un altro
sulla conquista del monte Everest. Certo, la navetta spaziale – collegandosi
al mio interesse ininterrotto per le tecnologie di punta e l’astronomia – non
rappresentava in sé una vera e propria sorpresa; ma il monte Everest
spuntava dal nulla e non ebbe ripercussioni. Lessi parecchie opere
sull’argomento e per qualche tempo mi specializzai; oggi non ho scordato
niente e il mio amore resta intatto, ma quell’interesse, come molti altri, resta
un isolotto autonomo in mezzo al mio percorso.
Altra improvvisata: un giorno – avevo circa sei anni – papà mi annunciò
che mi avrebbe portato al planetario. Non sapevo cosa mi aspettasse, e papà
mantenne di proposito il mistero perché la sorpresa fosse più bella. Ricordo
il nostro arrivo al Palais de la Découverte, l’attesa davanti alla grande porta
e l’entrata sotto quella cupola che mi sembrava immensa. Ero di gran lunga
il più giovane della sala. Nel corso della presentazione non riuscii a capire
tutti i commenti, poiché ero affascinato da due cose: da un lato, dalla
scoperta delle leggi e delle ragioni del cielo, dalla sua immensità, dalla sua
estrema semplicità e dalla sua complessità sovrumana, che contemplavo a
modo mio come uno spettacolo, senza concentrarmi sulle spiegazioni.
Dall’altro, dallo strano apparecchio che si muoveva al centro del planetario,
da cui non staccavo gli occhi analizzando ogni minima azione.
Evidentemente papà, al contrario di tutti i genitori zelanti che ho visto poi
accompagnare la prole in un posto del genere, non cercava di mistificarmi,
di farmi credere in chissà quale magia o quale fosse la parte di “vero cielo
che hanno messo in scatola perché tu possa capire tutto, guarda!”. Non
trovava neppure poco utile o inopportuno che io dedicassi gran parte della
mia attenzione alla tecnica, che si presumeva non fosse interessante per un
bambino se non per “mettergli la testa fra le stelle”. Ne uscii immerso per
sempre nell’astronomia ed esperto del funzionamento di un planetario nei
minimi particolari.
Una sera assistemmo tutti e quattro a uno spettacolo di musiche e danze
mongole alla Maison des Cultures du Monde, che frequentavamo
regolarmente e che ci ha dato modo di incontrare varie forme di cultura.
Alla fine della serata, ci annunciarono che il giorno dopo i cantanti
avrebbero offerto uno stage di canto armonico. Io e Éléonore ci iscrivemmo
spontaneamente. Non abbiamo praticato il canto armonico né prima né
dopo quello stage, ma a tutt’oggi non abbiamo dimenticato niente.
Un giorno, lo zio Pierre mi portò al Salone dell’agricoltura. Non so dire se
diedi la preferenza agli animali, alle immense macchine agricole oppure al
pranzo al ristorante… Ma qualche tempo dopo, Pierre, che all’epoca era
agricoltore, mi portò nella sua fattoria, nella stagione della mietitura. Il
primo giorno lo osservai. Lo guardavo scivolare, all’alba, sotto l’enorme
mietitrebbia, con una grossa siringa in mano per lubrificare le parti
meccaniche prima di iniziare la giornata nei campi; lo guardavo manovrare
i trattori, preparare gli aratri, pulire i rimorchi. E poi salii con lui nella
cabina, e mi spiegò tutti i suoi gesti, tutte le funzioni, tutte le manette, tutti i
pulsanti, tutte le leve. Guardavo, soggiogato, la macchina che inghiottiva le
file di mais per poi rigettarne i chicchi, in un grande getto biondo nel
rimorchio di un trattore che procedeva alla stessa velocità. Fin dal secondo
giorno, Pierre mi mise al volante, un enorme volante molto sottile, molto
duro. Mi restò vicino, pronto a intervenire, come aveva fatto con i suoi figli.
Poi m’insegnò a controllare l’altezza dell’assale in funzione delle
irregolarità del terreno, a “sollevare tutto” quando si fa inversione alla fine
del campo, a adattare la velocità, comandata da una leva, alla densità delle
file. Ero affascinato dal peso e dalla potenza di quell’attrezzo giallo che
tenevo tra le mie mani di bambino. L’inversione a U in fondo al campo era
per me una manovra complessa, poiché bisognava disinnestare la frizione,
inserire la retromarcia, manovrare il volante, gestire le parti sollevate. Era
soprattutto arduo cambiare marcia, poiché dovevo alzarmi e appoggiarmi
con tutto il peso del mio piccolo corpo per spingere a fondo il pedale. Il
terzo giorno Pierre, completamente rassicurato dalla mia concentrazione e
abilità, scese dalla mietitrebbia e me l’affidò per andare a prendere a sua
volta un trattore e un rimorchio, che portò alla mia altezza perché potessi
rovesciarvi il grano che avevo raccolto ‘da solo’.

Le locomotive
Un giorno, Bertrand, il mio fratellastro maggiore, mi portò al Centro
Pompidou a vedere una mostra sui treni. Fu entusiasmante entrare in
quell’edificio di cui conoscevo solo l’aspetto esterno e constatare che, una
volta varcata la facciata e il suo groviglio di tubi, ci si ritrovava in spazi
espositivi ‘normali’. Era un’esposizione immensa, composta da grandi
circuiti di treni elettrici in miniatura che circolavano attraverso paesaggi
impressionanti, pezzi di locomotive, illustrazioni, ricostruzioni, filmati di
ogni genere.
Ci trascorremmo la giornata, e fu così che nacque la prima delle grandi
passioni della mia infanzia: quella per le locomotive a vapore.
Qualche tempo dopo questa visita, Bertrand e mio padre mi regalarono
degli elementi di un treno elettrico di alta qualità che Bertrand aveva
portato dalla Germania. Il numero di rotaie era limitato e c’erano solo tre
vagoni, ma non aveva molta importanza. Ero impegnato a guardare
l’aspetto e il funzionamento della mia locomotiva con tender, a esaminare
nel dettaglio il movimento delle sue bielle e pistoni che sapevo procedere
all’inverso su quel giocattolo (la rotazione delle ruote attivava il movimento
delle bielle e non viceversa), giacché il nonno, su mia richiesta, mi aveva
spiegato il funzionamento di una locomotiva a vapore. Giocando, imparai
quasi per caso a dominare le polarità della corrente continua; sperimentavo
come far scendere le barriere al passaggio del treno o come arrestarlo una
volta raggiunto il segnale tramite la manipolazione del + e del – e l’apertura
o la chiusura di un circuito.
Imparai il funzionamento di un elettromagnete dopo aver osato smontare
la carrozzeria della mia locomotiva. Desideroso di verificare le conclusioni
che ne traevo senza smontare la mia bella macchina, misi insieme alcune
informazioni prese da mio nonno e da mio zio Jean; poi, dopo aver trovato
un pezzo di metallo ‘bianco’, lo avvolsi con la plastica e infine con il filo di
rame. L’esperimento fallì la prima volta, e capii ben presto perché. Passai
quindi dello smalto sul filo di rame per isolarlo, e lo arrotolai a regola d’arte
attorno al pezzo di metallo: questa volta il mio elettromagnete funzionò alla
perfezione. Con il tempo acquistai una seconda locomotiva, vari segnali,
alcuni scambi telecomandati; ma il mio gioco preferito, oltre a smontare,
pulire e lubrificare le mie macchine, era posare la testa sul pavimento e
veder passare le mie locomotive. Spegnevo spesso la luce, chiudevo le
imposte per creare il buio – appena rischiarato dalla luce verde del mio
semaforo – nel quale si avvicinavano lentamente i tre fari luminosi della
locomotiva; poi, dopo che mi avevano superato (con un rumore che
avvertivo altisonante), guardavo allontanarsi il gagliardetto rosso
dell’ultimo vagone. Ci tenevo, a questo vagone, come pure
all’illuminazione interna delle altre carrozze che installai io stesso per
vivere e rivivere quel momento che mi emozionava in modo particolare.
Costruii parecchie locomotive di carta e poi di cartone, e m’impegnai ad
arrotolare meticolosamente quelli che sarebbero diventati caldaia e tubi.
Oppure ad appiattire alcune punte di una placca di cartone ondulato per
formare le rotaie. In seguito iniziai a rivoltare, martellare e lisciare con cura
alcuni tubetti di dentifricio (in metallo, all’epoca) per poi tagliarli, piegarli e
montarli con pazienza per ottenere una locomotiva ‘tutto metallo’ della
quale andai particolarmente fiero.
Parecchi libri sulle locomotive cominciarono a entrare in casa nostra.
Accompagnai Delphine nella biblioteca Forney, dove consultai
un’incredibile quantità di testi specializzati e fotocopiai innumerevoli
pagine illustrate.
Imparavo le date, i sistemi (ah, i grandi nomi come Compound o Mallet!),
le evoluzioni, la storia (da George Stephenson fino alle prime motrici
elettriche), le linee, gli aneddoti, i grandi cantieri. Seguii le mie locomotive
attraverso la Francia e agli estremi confini del Far West, incontrando – nel
susseguirsi delle pagine appassionanti illustrate da foto d’archivio – grandi
momenti della storia. Le locomotive, che disegnavo e dipingevo a volontà,
mi trasportarono al loro seguito verso numerose opere della grande
letteratura, tra cui l’irrinunciabile La bestia umana di Zola, dove ritrovai,
con le lacrime agli occhi, la ‘mia’ scena dell’avvicinamento dei tre fuochi
bianchi nella notte…

Le automobili
Non so dire di preciso cosa innescò la mia prima ondata di interesse per le
macchine. Forse un catalogo generale Renault, che osservavo pagina per
pagina da piccolissimo. Mi ricordo di un’attività cui mi dedicavo per ore e
ore: al calar della notte salivo sul termosifone e, appollaiato sull’altana,
guardavo dalla finestra del primo piano le auto passare in rue de Grenelle.
Le guardavo arrivare, osservandone la parte anteriore con i fari accesi, poi il
padiglione mentre mi passavano davanti e, infine, mentre si allontanavano,
la coda e le luci posteriori, di cui m’interessavano molto la forma e la
ripartizione. Apprezzavo, per esempio, l’esistenza di uno ‘scomparto’ per
ogni colore e funzione: uno arancione per i lampeggianti, uno rosso per le
luci di posizione, un altro rosso per le luci dei freni, uno bianco per i fari di
retromarcia. Non mi piacevano le ripartizioni in cui le luci di posizione e
quelle dei freni condividevano un unico ‘scomparto’. In particolare, mi
piaceva l’incastro geometrico molto riuscito delle luci posteriori della
Peugeot 504…
Sorprendenti e sincere preoccupazioni d’infanzia! Nessuno si impicciò,
nessuno le commentò, nessuno pensò di interrompermi, di venire a
disturbarmi nel mio osservatorio o di incitarmi a lasciarlo a beneficio di
altre attività ‘più costruttive’… Dall’alto del mio termosifone, solitario e
concentrato, imparai ben presto a differenziare tutte le automobili, a
distinguere non solo le marche e i modelli, ma anche la somiglianza tra i
vari modelli della stessa marca. Imparai, con la semplice osservazione, ciò
che distingue una station wagon da un coupé, una berlina da un cabriolet.
Ben presto seppi riconoscere tutte le macchine. Il mio gioco preferito era
identificarle dal rumore o dalla forma dei loro fari accesi. Molto spesso ero
in grado di individuare in un batter d’occhio la versione (base, lusso, sport)
del modello in questione sulla base di vari dettagli caratteristici (i doppi fari
rotondi per una certa finitura sportiva, i lampeggianti anteriori bianchi per
una Simca modello base, i fari tondi o quadrati secondo il tipo di 2CV…).
La mia macchina preferita divenne la 2CV. Sapevo imitarne il rumore, ne
appresi ogni dettaglio, ogni versione. Le disegnavo a occhi chiusi e mi
divertivo follemente con le sospensioni a elevata oscillazione dei modellini
che mi regalava papà. Collezionavo e analizzavo tutti i cataloghi delle
automobili. Definii una strategia affinché i concessionari accettassero di
dare a un bambino i loro lussuosi depliant. Cominciai a osservare papà
quando guidava. Scrutavo il balletto dei piedi sui pedali, delle mani sul
volante e sul cambio, il gioco delle cause e degli effetti, delle accelerazioni
e del rumore del motore, della frenata e dei cambi di marcia, dei
lampeggianti e del tachimetro…
Mi costruii un volante e un cruscotto di carta, con le stesse funzioni di
quello di papà, che incollai sullo schienale del suo sedile. Così, seduto
dietro di lui, potei imitare tutti i suoi movimenti…
Fu in questo periodo che il nonno m’impartì le prime lezioni di guida,
sulla sua vecchia Ami 6 paziente e indulgente. Avevo circa sei anni.

Lego Technic
A dieci anni, per Natale, ricevetti da Delphine una grande scatola di un tipo
di Lego che non conoscevo, la Lego Technic. Avevo sempre giocato con i
mattoncini semplici della Lego cercando, per le mie costruzioni, le
combinazioni che mi consentissero di tener conto di tre fattori: il mio
desiderio di realismo (difficile da ottenere con mattoncini dalla forma
cubica), di ordine (non assemblare alla rinfusa i mattoncini di colori diversi)
e il numero limitato di mattoncini disponibili (obbligo di fare dei
compromessi per ‘arrivarci’ comunque…).
Del resto, la Lego e i suoi mattoncini base mi dettero, fin dalla più tenera
età, un’idea molto chiara di alcune nozioni matematiche e geometriche. I
mattoncini che consideravo di base, con la forma rettangolare dei mattoni
per muratura, comprendevano due file con quattro bottoncini. Ai miei occhi
era ovvio, dopo una semplice osservazione dell’assemblaggio, che la
larghezza di quei mattoncini corrispondesse alla metà della loro lunghezza,
e che due era la metà di quattro, a sua volta la metà di otto. Sovrapponendo
due dei miei mattoncini base su una sola fila, ottenevo un’altra immagine
dello stesso principio. Un mezzo mattoncino era, ai miei occhi, un
mattoncino quadrato con quattro bottoncini. Mi piacevano molto tutti i
piccoli elementi a due bottoncini, e ancor di più i rari pezzi con un unico
bottoncino. In compenso, i mattoncini a sei bottoni spesso mi davano
fastidio, tranne quando erano in fila per quattro o completati con un pezzo a
due bottoncini oppure in fila per due come basamento per un mattoncino
base.
La scatola che mi aveva regalato Delphine era grande, nera, piena di pezzi
gialli e grigi destinati a costruire un grosso bulldozer. All’inizio, fui un po’
sconcertato dalla quantità e dalla complessità dei pezzi. Parecchi elementi
non erano né geometrici né dotati di bottoncini, alcuni mattoncini dal
formato a me familiare erano forati, c’erano ingranaggi, volanti, assi
cruciformi, chiodini, cremagliere; tanti pezzi che scoprivo per la prima
volta, come pure le loro funzioni. Fu così che imparai a leggere un progetto
di montaggio e a rispettare l’ergonomia e la cronologia degli assemblaggi.
Di pagina in pagina, pezzo dopo pezzo, il mio bulldozer dalle molteplici
funzioni prendeva forma svelandomi sempre più le leggi e i trucchi della
meccanica. Ricordo la straordinaria sensazione che provai: facevo i primi
passi dietro lo specchio, esplorando un mondo che apprezzavo da sempre
ma le cui viscere erano ancora misteriose. All’improvviso, mi veniva tolta
la carrozzeria delle macchine, e mi venivano dati gli schemi e i pezzi che mi
consentivano non solo di osservare il funzionamento degli organi, ma,
straordinario strumento di comprensione, di costruirli io stesso.
In un primo tempo, intimorito dai pezzi e dalle relazioni di causa ed
effetto che non conoscevo ancora, mi accontentavo di seguire
meticolosamente gli schemi di montaggio. Per montare il bulldozer
impiegai un’intera giornata di lavoro, dopo di che m’impegnai a smontarlo
con cura seguendo poi le indicazioni per la costruzione di altre due
macchine, che mi piacquero meno. Quindi ricostruii il bulldozer e mi resi
conto che tutto diventava chiaro.
Quel giorno venne a trovarci un amico dei miei genitori, che non
conoscevo ancora, accompagnato dalla moglie e dalle due figlie,
Emmanuelle e Anne. Diventammo subito amici.
Vivendo in un vero e proprio cosmopolitismo della quotidianità, non
provammo alcuna difficoltà a considerare gli ‘stranieri’, piccoli o grandi,
come potenziali amici. Tuttavia, tra me e Anne – la più giovane delle due
nuove arrivate, di diciotto mesi maggiore di me – s’instaurò un legame
particolare, fin dal primo istante. Ai miei occhi era una ragazza già grande,
molto bella, molto misteriosa. Questo sentimento di affinità – più forte di
quello per le altre innumerevoli amicizie – mi colpiva, poiché fino a quel
momento non l’avevo mai provato se non per i membri della mia famiglia.
Vi posso assicurare che dopo quell’incontro Anne e io non abbiamo mai
più vissuto l’uno senza l’altra; e, nonostante le diverse scelte di vita ci
abbiano fatto incontrare solo occasionalmente, abbiamo altresì avuto modo
di conoscere nel bene e nel male tutte le possibili trasformazioni di una
relazione indistruttibile.
In segno di quest’affinità nascente, affidai ad Anne il mio bulldozer della
Lego (!).
Per la prima volta notai un fenomeno particolare: Anne giocava con le
funzioni di quella macchina, ne faceva salire e scendere la pala, raccoglieva
delle perle di legno ammassandole contro il muro, faceva oscillare la tazza
per scaricarle… e io, nel corso di ogni minima operazione, analizzavo a
fondo tutti i movimenti della meccanica, abbracciando la logica
stranamente oggettiva che li regolava. Anne si trovava nella posizione
dell’utente, io, all’improvviso, in quella dell’ingegnere. Ero giunto a una
svolta: volevo sapere tutto sulla meccanica.
Cercai di applicare i principi della Lego Technic, molto schematici, sugli
elementi visibili delle macchine che mi circondavano… Aprii i cofani e
cominciai a riconoscere i pezzi che sporgevano e, quindi, a visualizzare
mentalmente il loro funzionamento all’interno. Ma molti elementi
restavano enigmatici. Mi servivano ulteriori ‘spiegazioni’, e da una rapida
occhiata al catalogo Lego Technic capii che era lì che avrei trovato pane per
i miei denti: c’era tutto ciò che si adattava idealmente al mio metodo
d’indagine. Per cominciare, mi resi conto che mi mancava un ‘vero’
motore. La Lego ne proponeva uno, elettrico, alimentato da tre pile, che si
adattava ai mattoncini e agli assemblaggi fatti in casa. Guardando le foto
del catalogo, studiai con attenzione i pezzi abbinati al motore e la sua
morfologia. Composi mentalmente i vari assemblaggi realizzabili con quel
materiale. Un giorno, per me fantastico, papà e mamma me lo comprarono.
Quella piccola scatola giungeva come un tesoro preziosissimo. Quell’asse
cruciforme che girava così velocemente segnava il passaggio a una nuova
era, quella in cui i miei giocattoli abbandonavano lo stadio della
simulazione manuale. La scatola conteneva alcuni pezzi e un libretto
d’istruzioni fondamentale che spiegava come calcolare la demoltiplicazione
ottenuta dal diametro delle pulegge o dal numero di denti degli ingranaggi.
Citava il numero di rotazioni al minuto del motore, il che mi spinse a
calcolare la velocità teorica di una macchina molto leggera che costruii a
questo scopo. Dovetti calcolare la distanza percorsa dalla mia ruota in una
rotazione. Fu così che, dopo aver preso informazioni, scoprii il pi greco.
Ma, come san Tommaso, sentii la necessità di verificare il risultato
matematico; avvolsi con precisione la ruota con una strisciolina di carta che
misurai dopo averla srotolata, prima di attribuirne l’esatto pi greco. Dato
che conoscevo quella misura, mi fu facile moltiplicarla per il numero di giri
di ruote al minuto, poi per sessanta per conoscere la velocità in chilometri
orari. Ero davvero molto felice.
La mia sete di ricerca aumentò. Papà e mamma ci stavano molto attenti.
Poco tempo dopo, ricevetti un Fenwick che avevo scoperto essere
‘ragionevolmente’ piccolo (per cui il suo prezzo minimo avrebbe giocato in
mio favore al momento di parlarne ai miei genitori!), ma che mi avrebbe
consentito di capire il funzionamento di uno sterzo a cremagliera… Ah!
Che bello andare alla scoperta di novità! Ah! Che magiche sensazioni si
provano a capire, palpare cose così importanti ai miei occhi!
Qualche mese dopo, puntai a un altro modello: un enorme trattore blu,
sotto il cui cofano giravano un albero a gomiti e dei pistoni quadrati che mi
avrebbero consentito di ‘toccare con mano’ il principio di funzionamento
del motore a scoppio spiegatomi da mio nonno con schemi molto semplici e
chiari. Quel trattore mi ossessionò per parecchie settimane. Andavo a
guardarlo esposto al Bon Marché lì vicino, analizzavo nel dettaglio e per
ore il depliant esplicativo, immagine dopo immagine, di notte, sotto le
lenzuola, visualizzavo l’andirivieni dei pistoni nel loro cilindro a sezione
della Lego. Quando lo ricevetti, per il mio compleanno, provai un senso di
liberazione, una gioia e una completezza indimenticabili. Giocavo per delle
ore, possedevo già un buon numero di pezzi e un’esperienza sufficiente per
costruire da solo i meccanismi ogni volta che volevo mettere in pratica una
conoscenza tecnica acquisita nel corso delle mie ricerche quotidiane. Per
questo, dovevo smontare i miei modellini. Rimettevo con molta cura tutti i
pezzi nella scatola del corrispondente modello, anche se la forma e il colore
erano uguali a quelli di un altro. Ancora oggi, le mie scatole della Lego
Technic sono complete com’erano in origine, con gli scomparti, i coperchi,
le istruzioni di montaggio e, addirittura, i cataloghi pubblicitari
dell’epoca…
Mese dopo mese, la mia collezione di Lego Technic aumentava di pari
passo con le mie conoscenze meccaniche. Tuttavia, non si trattava per nulla
di frenesia da consumismo: io non volevo tutti i Lego Technic, li
desideravo, pochi per volta e modelli ben precisi, poiché mi servivano per
capire, completare o costruire un sistema ben definito. Avevo piena
coscienza del valore di ogni scatola che i miei genitori – sempre al corrente
delle mie ricerche e dei miei desideri – mi compravano una a una, con
intervalli abbastanza lunghi; sapevo che per loro era un sacrificio
economico, e la mia attesa era tanto fiduciosa quanto fruttuosa. Il concetto
di merito e ricompensa era, ovviamente, escluso. Ai miei genitori non
sarebbe mai venuto in mente di sfruttare il mio desiderio della Lego Technic
come mezzo di ricatto per ottenere da me una qualunque obbedienza.
Prima o poi, il giorno tanto atteso arrivava: la mamma mi portava al Bon
Marché con un rituale che non faceva altro che aumentare l’eccitazione e il
valore dell’avvenimento. Ci andavamo il mercoledì pomeriggio e
aspettavamo, talvolta per parecchie ore, l’annuncio della tradizionale
promozione “meno venti per cento al reparto giocattoli, per mezz’ora”…

Le automobili, bis
Da quel momento, il mio interesse per le automobili raddoppiò. Non
m’interessavo più solo alla forma della carrozzeria, dei fari e dell’interno:
mi appassionavo per la loro intimità meccanica.
Quando Delphine mi comprò una copia della rivista L’Auto-Journal dal
giornalaio di Lézan, l’automobile divenne, per parecchi anni,
un’occupazione quasi esclusiva. L’Auto-Journal, a cui mi abbonai qualche
giorno più tardi, si rivelò un’inesauribile miniera d’informazioni. Era il mio
primo abbonamento a una rivista, la mia prudente esplorazione preliminare
degli annessi e connessi di una simile decisione ‘adulta’: compilare un
bollettino, fare un assegno, inviare il tutto, attendere l’arrivo della prima
copia. Imparai tutto a proposito di tecnica, storia, corsa, pilotaggio, affinità,
origini, attualità, termini. E mi accostai, quasi a mia insaputa, al
giornalismo oggettivo.
Tuttavia, L’Auto-Journal non era certo la mia sola lettura sulle automobili.
Innumerevoli libri entrarono in casa a raccontare storie di altrettante
numerose macchine, dal ‘carromatto’ di Cugnot[4] alle più moderne Ferrari,
passando per la Kdf o l’appassionante saga della Blue Bird di Sir Malcolm
Campbell. I libri di Jacques Wolgensinger, che raccontavano le avventure di
Citroën, mi affascinarono ancor prima di incontrarne l’autore e diventare
suo amico. Dato che questo periodo era a cavallo della mia ‘epoca Proust’,
iniziai a scrivere parecchie storie automobilistiche, che però non ebbero
seguito. In compenso, la redazione della GAZette d’échappement, di cui
parlerò più avanti nel dettaglio, non fece altro che rafforzare il mio amore
per tutto ciò che aveva quattro ruote.
In quegli anni produssi un’incredibile quantità di scritti, concetti, giochi e
disegni tecnici legati all’automobile.
Combinando carrozzerie costruite in cartone con telai del Lego Technic,
creavo dei modelli funzionali attorno ai quali inventavo storie, giochi e
lavori di ogni genere, immaginandomi ingegnere, scrivendo dei banchi di
prova che ricalcavano quelli dell’Auto-Journal, improvvisandomi
cacciatore di prototipi, svelando le mie creazioni, alla maniera degli scoop
della stampa automobilistica. Uno di questi modelli, un dragster con la
carrozzeria di una Simca 1100, era riuscito così bene che lo fotografai da
ogni angolazione. Inserii i cliché, con meticolosa attenzione, al centro di un
testo elogiativo dattiloscritto con la massima cura, per ottenere una piccola
brochure di cui andai molto fiero.
4 Veicolo a vapore universalmente riconosciuto come l’invenzione che ha gettato il seme poi
sviluppatosi nell’industria automobilistica oltre un secolo dopo. Consisteva in un veicolo a tre ruote
la cui ossatura era un telaio di legno [n.d.t.].
Tra le varie idee, la più realistica fu la libera consulenza per l’acquisto di
una vettura. Era semplice: tanti acquirenti, poco esperti in materia, si
sentono persi al momento di scegliere una macchina. Troppe marche, troppi
modelli, troppe versioni, troppi optional, troppi venditori, troppi depliant,
troppe soggettività… Creai un modulo molto dettagliato da compilare
durante un colloquio con gli acquirenti. Prendendo spunto da vari criteri
(budget, tipo d’utilizzo, chilometraggio annuale, ambiente, macchina
precedente, numero di posti e di portiere, preferenze personali ecc.), potevo
individuare con totale obiettività il tipo e il modello di automobile più adatti
alle aspettative del cliente. Ho recentemente riguardato questo modulo e il
breve testo di presentazione che avevo scritto all’epoca: sono rimasto
impressionato dalla serietà di quel progetto ancora del tutto valido.
Uno dei punti culminanti della mia passione per le automobili fu una
visita allo stabilimento Renault sull’isola di Seguin. Avevo fatto amicizia
con una famiglia i cui bambini venivano a dipingere nel Closlieu. Il padre
era ingegnere alla Renault e mi propose di farmi visitare la fabbrica. Ci
passammo l’intera giornata, mi fece vedere tutto, accordandomi un
privilegio rarissimo. Mi riempivo di ogni cosa, gli occhi sgranati, senza
fiato: gli uffici, le giacenze, le catene, le presse, le lamiere, la cataforesi, la
vernice, la mensa – dove mangiammo a mezzogiorno –, il montaggio
meccanico, i robot, le ultime operazioni, la corta pista di prova, la terrazza
con vista sul tramonto e sulla Senna… Vedevo dal vivo tutto ciò che avevo
già esaminato nei particolari su carta. Alla fine della giornata, dopo aver
camminato per parecchi chilometri, tornai a casa, esausto, e mi buttai sui
miei quaderni per disegnare e annotare, a memoria, tutto ciò che avevo
immagazzinato.
Divenni una vera e propria enciclopedia automobilistica ambulante.
Divenni il punto di riferimento di tutta la famiglia che mi chiedeva consigli,
e me li chiede ancora. E, dall’alto dei miei quattordici anni, divenni un
autorevole interlocutore per i meccanici. Non sbagliavo mai le diagnosi e,
molto spesso, ho scoperto dei guasti prima che le nostre macchine si
bloccassero. Due vetture specifiche ebbero un ruolo particolare nella mia
vita: la Ferrari 166 MM e la Simca 1100. Riuscii a specializzarmi persino
all’interno di questa estrema specializzazione.
Restai a lungo innamorato della Simca 1100 anche dopo che ci
separammo dalla nostra, ormai agli sgoccioli. A forza di osservarla, ne
conoscevo tutti i dettagli. Non uscivo mai senza un blocchetto su cui
annotavo o disegnavo tutte le caratteristiche particolari dei modelli che
vedevo. Andavo ‘a caccia’ di esemplari insoliti, provando una grande gioia
alla scoperta di una versione particolarmente vecchia o rara, parcheggiata
all’angolo di una strada. Riconoscevo tutti i cruscotti, tutti i volanti, tutte le
barre cromate, sapevo a quale finitura, versione, epoca apparteneva questo o
quel dettaglio, e disegnavo e dipingevo un’infinità di Simca 1100, come
pure altre vetture, in tutte le situazioni immaginabili. Nessuno mi ha mai
distolto da questa insolita preoccupazione e nessuno l’ha mai trovata
sconveniente o esagerata.
Il tempo non era suddiviso in gerarchie e in cronologie chiaramente
definite. Molte cose avvenivano in contemporanea, in tutte le direzioni, in
un intrecciarsi di eventi difficili da isolare. E soprattutto, come per ogni
infanzia, il tempo passava lentamente. Mi rendo conto che il quadro della
mia infanzia – che sto cercando di tracciare qui – copre un periodo di
appena otto anni che, ancor oggi, sento come la prima metà della mia vita.
Ben presto, mi incuriosì l’idea che il tempo e la vita potessero essere un
paesaggio infinito e immobile all’interno del quale noi ci spostavamo. Dire
che il tempo passava mi sembrava un errore, lo stesso che commette il
passeggero di un treno quando dice che il paesaggio scorre al finestrino…
Il tempo per vagare in quel paesaggio non mi mancava. Ad ogni svolta mi
attendeva un nuovo incontro.

La magia
Un giorno passeggiavo tra gli scaffali del Bon Marché, al piano dei
giocattoli. Accompagnavo la mamma e Éléonore. Aspettavamo “l’ora del
venti per cento” per comprare una bambola che mia sorella desiderava da
tanto. Nessuna voglia di acquisti guidava i miei passi, guardavo i giocattoli
esposti con interesse, ma senza il desiderio di possederli. Il mio gusto,
rafforzato dall’attenzione che i nostri genitori avevano per la qualità e
l’aspetto realistico dei nostri giocattoli, mi distoglieva, con fare quasi
critico, dai giocattoli malfatti, grotteschi o caricaturali. Così, mentre
gironzolavo nel reparto giocattoli, in fondo alla corsia vidi un gruppo di
persone di tutte le età assiepato davanti a un tavolo, dove un signore vestito
di nero faceva dei giochi di prestigio. A poco a poco, occupando il posto
delle persone che se ne andavano, mi avvicinai fino a raggiungere la prima
fila, affascinato da quanto stava accadendo.
Sapevo, senza bisogno di alcuna demistificazione, che non si trattava di
‘stregoneria’, sapevo che un prestigiatore (l’etimologia di questo nome non
tardò a diventarmi familiare) si basa sulla prestanza delle dita e sull’abilità a
servirsi del materiale, ed era proprio questa estrema competenza che mi
affascinava. Pur restando molto concentrato, non riuscivo mai a cogliere
l’uomo in fallo per capire il ‘trucco’, e ogni volta mi lasciavo rapire
dall’effetto magico, dall’intensa sorpresa della riuscita del gioco durante
una divertente messa in scena.
A differenza di un altro mago, molto ammirato alcuni anni prima in un
cabaret a Colonia con mio fratello Bertrand, quello del Bon Marché era
accessibile. Tutti i suoi giochi di prestigio erano esposti sul tavolo, in buste
rosse che portavano la scritta “Magicolo” e potevano essere acquistati.
Notai che uno spettatore su tre se ne andava dopo aver comprato una di
quelle buste. Mentre presentava i suoi giochi, l’uomo mi osservava e,
talvolta, mi lanciava un’occhiata. Ero incantato, e lui sapeva che ero attratto
dalla sua abilità e non perché credessi alla magia. Bernard, abituato a offrire
dimostrazioni, era lusingato del mio sguardo rivolto alla sua competenza.
Contrariamente al principio che applicava nel corso della giornata (“Se
volete sapere come funziona, se voi stessi volete provare a fare questi
giochi di grande qualità, comprate i miei Magicolo, per soli cinquanta
franchi!”), durante una pausa Bernard mi rivolse la parola: “Vuoi che te ne
spieghi uno? Vieni a vedere!”. Ci accucciammo dietro al banco e scoprii,
con ammirazione, il trucco dei due giochi di prestigio che avevo scelto. Da
quel giorno, fui conquistato nello spirito dalla prestidigitazione. Lessi vari
libri, realizzai del materiale di fortuna, visitai il museo della Magia, seguii
Bernard nel negozio Paris-Magic, dove si preparavano i Magicolo e
un’infinità di altri giochi di prestigio, dal più semplice al più complesso.
Passavo parecchie ore in quei locali, mescolandomi ai clienti abituali e ai
visitatori di quel piccolo mondo che mi consigliavano, mi guidavano, mi
allenavano, divertiti dalla mia disponibilità e dalla mia crescente abilità.
Feci i miei primi esperimenti di fronte alla mia famiglia, poi in occasione
di pranzi di compleanno e durante le serate a casa di amici. Riuscii così a
guadagnare denaro sufficiente per acquistare parecchi Magicolo.
Perfezionai il mio programma fino a ottenere uno spettacolo di mezz’ora la
cui serietà incantava il pubblico. Grazie al passaparola, a tutt’oggi sono
regolarmente richiesto per spettacoli di prestidigitazione.

Geroglifici
A Parigi fu organizzata una grande mostra sull’antico Egitto. Ci andammo
tutti e quattro. All’epoca, gli oggetti non erano disposti a un’altezza idonea
per un bambino. Interessato da sempre alle civiltà scomparse, visitai la
mostra con i miei ritmi, diversi da quelli di papà e mamma. A un certo
momento, mi ritrovai davanti a una vetrina accanto a un signore piuttosto
anziano, appoggiato al braccio di una donna abbastanza giovane. Fui
colpito dal fatto che leggeva le iscrizioni in geroglifico e le traduceva alla
sua compagna. Ne fui affascinato. Li seguii di vetrina in vetrina. Uscendo
dalla mostra, avevo una sola idea in mente: imparare a leggere i geroglifici.
Mentre i miei genitori cercavano di trovare un professore, la mia prima
fonte fu un vecchio Larousse rosa della mamma. Assorbii febbrilmente tutte
le informazioni che poteva fornirmi, cominciai a ricopiare alcuni segni e a
capirne il principio generale e la storia della loro scoperta da parte di
Champollion. Ispezionai la nostra biblioteca alla ricerca di libri sull’antico
Egitto. Poi passai al vaglio tutti i volumi sull’argomento per isolare le
informazioni specifiche sui geroglifici. Questa indagine, anche se non molto
fruttuosa, mi offrì un fantastico viaggio attraverso l’antico Egitto
trascinandomi, la briglia sul collo e gli occhi spalancati, a conoscerne la
storia, le leggi, l’iconografia, i miti, gli dei, i re, l’architettura, i nomi e le
date.
Raggruppai una certa quantità di materiale, tra cui una sorta di alfabeto;
tutta la mia famiglia, al corrente della mia ricerca, mi aiutava pian piano
raccogliendo brandelli di informazioni che poi mi passavano.
Paragonavo meticolosamente alcune frasi con la loro traduzione, cercando
con pazienza – e talvolta con successo – corrispondenze e correlazioni,
come quando, a forza di tentativi e di riflessioni, decifravo le lettere in
codice che io e Delphine ci scambiavamo alcuni anni prima.
Papà e mamma acquistarono, ovviamente, parecchi libri. Li
accompagnavo spesso dai librai per condividere la ricerca di opere
specifiche. Un giorno, papà mi portò un libro che avevo ordinato, molto
grosso e prezioso: il facsimile della prima pubblicazione di Champollion.
La lettura di quella meravigliosa opera era ardua per me, addirittura
impossibile. Tuttavia m’imposi di leggere e rileggere gli stessi paragrafi,
illustrati da piccoli schizzi, provando un immenso piacere e, a forza di
sviscerarli, ne estrassi sufficiente “sostantifica midolla”[5] da riuscire, un
giorno, a riunire le consonanti del mio nome in un cartiglio disegnato con
tutti i crismi.
Nel frattempo, io e la mamma frequentavamo spesso il Collège de France
come uditori, e seguivamo il corso di egittologia del professor Jean Leclant.
La mamma fu molto felice di trovare questo corso tra le pagine del
programma. Anche se i geroglifici non erano proprio la sua materia, ci fece
molto piacere scoprire Jean Leclant, la sua deliziosa voce e il suo
affascinante sguardo sull’Egitto. Data la mia giovane età, all’inizio suscitai
curiosità in quel pubblico formato principalmente da pensionati, ma poi fui
molto rapidamente benvoluto. Nessuno si chiese come mai mi trovassi lì
quando avrei dovuto essere a scuola. Fui molto rattristato quando il
professor Jean Leclant, avendo raggiunto l’assurdo limite d’età fissato dalla
pubblica amministrazione, dovette cessare le lezioni.
Il mio desiderio di imparare a leggere i geroglifici è tuttora presente e
sempre inappagato. Non ho il minimo dubbio che un giorno ce la farò. E so
anche come…
5 Immagine poetica coniata da Rabelais nel prologo di Gargantua e Pantagruele [n.d.t.].
L’origine dei miei mestieri

Fenoy
Il secondo dei miei più vecchi ricordi risale a quando avevo tre anni.
Con l’orecchio incollato al pavimento, sul quale passavo l’intera giornata
a giocare, percepivo – attraverso lo spesso massetto – i suoni di chitarra che
salivano dalla galleria di mio padre, situata al piano di sotto. Mio cugino
Olivier prendeva lezioni di chitarra. Certe volte, la sua voce e quella del
professore si mischiavano a quei suoni, iniziavano, ricominciavano; più
veloci, più lenti, in alcuni casi a una sola chitarra, in altri a due. Io neanche
mi muovevo, per evitare che il rumore del mio padiglione auricolare contro
il pavimento non coprisse quelle musiche attenuate, lontane e affascinanti.
Seguivo, con la limpida concentrazione dell’infanzia, il lungo concatenarsi
delle logiche melodiche che si srotolavano là sotto.
Nel mio ricordo, non esistono intervalli tra le lezioni: ho l’impressione che
andassero avanti per ore e ore, ogni giorno. In realtà le lezioni erano
settimanali e duravano un’ora.
Un anno dopo, papà e mamma mi regalarono la mia prima chitarra. Era
una tre quarti giapponese, fin troppo grande per me; mi ricordo, come se
fosse ieri, il momento in cui papà me la porse. Ero seduto per terra, davanti
alla parte della nostra sala che fungeva da ingresso. Papà mi dette lo
strumento così com’era, senza custodia, senza fodera. Lo presi subito e ne
feci uscire dei suoni che oggi non ricordo per niente. Papà e mamma mi
guardavano, le testa inclinata, in silenzio. Poi la mamma disse: “La tiene già
come si deve”.
È con quella stessa chitarra – che mi arrivava al mento – che ho iniziato, e
con lo stesso chitarrista, Antonio Fenoy – un vecchio gitano spagnolo che
consumava il suo sigaro alla rovescia, masticandolo! Ex pugile
professionista, fratello di un campione, aveva interrotto la propria carriera il
giorno in cui il suo avversario era rimasto cieco durante un incontro.
Parlava certe volte di un ragazzo di sua conoscenza: Marcel Cerdan.
Rifugiato in Francia con i genitori per sfuggire al regime di Franco, aveva
ripreso a suonare la chitarra non so in che modo. Quel che ricordo è che
accompagnava regolarmente, come secondo chitarrista, La Joselito,
ballerina assai popolare all’epoca. Mi ricordo certe foto che mi mostrava,
sulle quali lo si vedeva accompagnarla al fianco di Pedro Soler.
Da lui ho preso lezioni di chitarra flamenca per una decina d’anni. In
definitiva, è a lui che devo le basi di ciò che ho saputo costruire più tardi.
Mi voleva molto bene, mi chiamava flaquillo (mingherlino) e a volte mi
faceva usare la chitarra di un allievo, ma le sue nozioni chitarristiche in fin
dei conti rudimentali, il suo insegnamento tecnico in certi casi scorretto e la
ridondanza che veniva a crearsi con l’avanzare della sua età, mi fecero
progressivamente perdere ogni motivazione.
Ho avuto un paio di periodi di zelo, e ricordo di aver lavorato su un certo
brano con accanimento, perché stavo iniziando a capire il meccanismo e a
utilizzare un’intavolatura scarabocchiata con impegno per mandare il pezzo
a memoria. La lettura a prima vista della melodia, che va a incastrarsi da
sola e scorre sotto le dita, mi affascinava. Scoprivo con golosità questa
procedura, invece di subirla come una punizione.
Ricordo la sincera sorpresa e il piacere contagioso che provò Fenoy
quando, alla lezione successiva, gli suonai quel brano.
L’altro mio slancio di zelo fu provocato dall’arrivo di una nuova chitarra.
Avevo dieci anni. Da un pezzo Fenoy ci parlava di un negozio in rue du
Château. Diceva che “con cinquecento franchi” potevo trovarci una buona
chitarra (la mia era ormai più che superata). Ricordo di aver pensato che, in
cambio di un semplice rettangolo di carta con sopra scritto “cinquecento”,
avrei potuto ottenere un bello strumento. Il rapporto mi sembrava
sproporzionato, e speravo che anche i miei genitori sarebbero stati colpiti
dall’assurdità della faccenda. Non andò proprio così, perché, all’epoca,
cinquecento franchi erano una grossa somma, soprattutto per le nostre
possibilità.
Un giorno passammo da rue du Château e, incrociando il negozio in
questione, ci facemmo tappa. Mi fecero provare una chitarra, che mi
piacque molto. Ma la cosa finì lì. Era una Contreras e costava 490 franchi,
me lo ricordo con esattezza. Qualche giorno più tardi (a casa nostra amiamo
molto le sorprese…), poiché alla mia chitarra mancava una corda, papà mi
propose di suonare un pezzo per mio nonno François, con il quale era
appena rientrato dalla spesa. Protestai dicendo che la mia chitarra era
inutilizzabile, ma papà insistette sostenendo che un grande chitarrista è
capace di suonare anche con una corda in meno. Punto sul vivo, andai a
prendere la chitarra… e trovai al suo posto la bella e grossa Contreras che
avevo provato qualche giorno prima. Fu uno degli shock più piacevoli della
mia infanzia.
Per tutta una settimana, il mio impegno principale fu suonare quella
chitarra. Ne avevo così voglia che mi capitava l’impulso di andarla a
prendere proprio mentre la stavo suonando… strane sensazioni irrazionali,
che consideravo segni della mia infatuazione.
E poi finì per installarsi definitivamente la routine di quelle lezioni prive
di fascino. Mi ritrovai a prenderle solo per amicizia nei confronti di Fenoy.
Non andavamo avanti. Un giorno lui non si fece vedere; ed eravamo
preoccupati, perché non era mai successo. L’indomani telefonò alla
mamma, spiegandole con voce irriconoscibile che sarebbe stato ricoverato
in ospedale per un problema alla gola. Non ne uscì più e morì pochi giorni
dopo.
Fu così che si chiuse il primo capitolo dedicato alla chitarra, perché da
quell’istante non sfiorai quasi più il mio strumento.

La musica
Da sempre la musica fa parte della mia vita.
Fin da piccolo, coricato nel mio letto e nell’oscurità della camera, udivo la
musica che ascoltavano i miei genitori, tutte le sere. E mi erano familiari
non solo le grandi opere del repertorio classico ma anche il concetto stesso
di composizione musicale. Evidente per gli adulti, ma non
obbligatoriamente per un bambino piccolo. Brahms, Dvořák, Schubert
erano come amici intimi invitati con regolarità. Facevano parte del mio
paesaggio, della mia cerchia naturale. Parlare di loro era normale, come
citare i nonni. Una cosa fatta con il massimo rispetto. Per me era naturale
che certi grandi personaggi – oggi scomparsi, che conoscevo tramite certe
illustrazioni viste sulle copertine dei dischi – avessero composto dei lavori
che venivano ancora suonati e che erano ascoltati dai miei genitori, delle
melodie che io sapevo riconoscere e cantare. Esclusa l’ora settimanale di
lezione con Fenoy (forse il mio primo incontro con quel principio –
diventato poi così naturale – della “lezione una volta alla settimana”) nella
nostra vita di ogni giorno la pratica musicale non aveva spazio.
Papà e mamma, per i quali la musica è indispensabile, non suonano
nessuno strumento. A parte la mia prima chitarra, durante la mia infanzia in
casa nostra sono entrati pochi strumenti musicali: mi ricordo una
piccolissima armonica che la mamma mi aveva regalato dopo averla
ritrovata tra le sue cose. Ne avevo esplorato le potenzialità con interesse e
per qualche giorno era stata il mio oggetto preferito. Poi l’avevo
accantonata. Ricordo anche un fischietto in bosso lavorato, due piccoli
piatti dai cordoncini verdi, una sorta di abete stilizzato in plastica bianca
con otto rami dai quali pendevano otto campanelle da percuotere con una
piccola bacchetta… Ricordo uno xilofono un po’ sfiatato e un’enorme cetra
di legno marrone, che papà accordava in mia presenza con una piccola
chiave. Quest’ultimo punto è interessante, perché deve averlo fatto per
l’unica volta in vita sua. Lo ricordo intonare una nota e girare la chiave fino
a farla coincidere con il suono della corda d’acciaio.
Fu così che quello stesso giorno o l’indomani, mentre eravamo a fare la
spesa, mi spiegò per inciso che i suoni erano suddivisi in una scala della
quale mi cantò le sette note chiamandole do-re-mi-fa-sol-la-si… Non so
come, ma tutto questo mi entrò dentro, tale e quale. Non c’è mai stato
bisogno di spiegarmelo di nuovo, di ripetermi nome, intervallo e
successione delle note; sono diventate da subito una presenza
incancellabile. Suonando un secondo do in ottava posizione, papà mi
consentì all’istante di assimilare il concetto di ottava. Anche in questo caso,
da parte sua non ci fu né desiderio di spiegazione né intento pedagogico,
perché non ne sapeva molto di più di teoria musicale e neanche aveva
l’intenzione di farmene venire voglia: si trattava solo di una semplice
conversazione, dalla quale sono riuscito a estrarre, per mio conto e in
maniera quasi casuale, delle notevoli conoscenze personali.
Nello stesso ordine d’idee, nessuno mi ha mai spiegato come una
composizione classica sia di solito formata da svariati movimenti. Nessuno
mi ha mai spiegato cos’è un movimento. Tutto questo ha semplicemente
fatto parte della quantità di nozioni che definisco implicite, quelle che si
acquisiscono naturalmente con il solo respirare l’aria di casa.
Non abbiamo mai ricevuto strumenti musicali ‘per bambini’, quella
paccottiglia dai colori vivaci appositamente concepita per le loro piccole
dita maldestre, quelle caricature più o meno automatizzate che costringono i
bambini nell’esclusivo ruolo di idioti incapaci di riconoscere e utilizzare
uno strumento vero e proprio.
Andare da mio zio e mia zia, nella loro casa di Étampes, rappresentava per
noi un giorno di festa, perché potevamo suonare il pianoforte che
troneggiava nella camera di mia cugina Valéria. Senza perdere la naturale
delicatezza dei bambini, non abbiamo mai maltrattato quello strumento né
rintronato i vicini con un frastuono tanto assordante quanto caotico.
Anzi: mi ricordo lente esplorazioni sonore, tasto dopo tasto, che mi
permettevano fin da allora di prendere coscienza delle consonanze, delle
dissonanze e della necessità di rispettare certi schemi per giungere
all’armonia. Mi è capitato di usare un magnetofono (apparecchio
affascinante, a quei tempi, e del quale ero orgoglioso di conoscere il
funzionamento) per registrare, con la massima serietà, delle interminabili
improvvisazioni che commentavo imitando il tono degli annunciatori
radiofonici. Nessuno si permetteva di intromettersi in quel gioco, nessuno
vi faceva irruzione, lo disapprovava o lo incoraggiava.
Un giorno, Jacques Greys – l’amico d’infanzia di papà, pianista senza pari
e pedagogo eccezionale – m’invitò a trascorrere qualche giorno da lui a
Montbéliard: uno dei miei primi viaggi senza genitori. Ricordo di aver
guardato con interesse ma senza bramosia la gran quantità di strumenti in
mostra nella sua stanza della musica. Lo ascoltavo e lo guardavo suonare,
osservando soprattutto le implicazioni meccaniche che il movimento delle
sue dita imprimeva ai tasti.
Jacques, che una ventina d’anni dopo sarebbe diventato uno dei miei più
intimi amici, stava portando a termine l’invenzione di una nuova pedagogia
della musica e di una sensazionale notazione musicale, la Musique en clair,
accessibile come un’intavolatura.
Imparare a suonare il pianoforte senza Jacques e con un metodo diverso
dal suo sarebbe stato impraticabile per noi. Montbéliard era troppo lontana
da Parigi, e il progetto rimase in sospeso fin quando due allieve parigine di
Jacques, Monique e Christine, non aprirono uno studio in cui si applicava la
Musique en clair a svariati strumenti. Per qualche settimana, il flauto a
becco, il carillon, il salterio, il triangolo e altri strumenti trovarono posto a
casa nostra. Jacques venne di persona ad animare due laboratori, ai quali
presi parte. Ma quest’attività musicale non occupava, all’epoca, più tempo
di quanto ne dedicassi ai miei altri interessi: il lato episodico di alcuni non
escludeva in nessun caso la massima serietà.
A volte ci recavamo ai concerti. Non ci preparavano prima, così come non
ci venivano date regole di comportamento da osservare una volta entrati in
sala. Papà e mamma ci andavano e, di conseguenza, portavano anche noi
perché era una cosa ovvia. Eravamo molto piccoli. Mi ricordo che
osservavo con particolare attenzione le dita dei musicisti, il gioco degli
archetti, le varie relazioni di causa ed effetto tra il gesto e i suoni; più che
ascoltare la musica, m’interessava a fondo il modo in cui veniva prodotta.
Mai una volta ci siamo comportati male, mai abbiamo disturbato gli altri.
Il silenzio e il rispetto del pubblico, come quello di papà e mamma, davano
il la a un atteggiamento di cui nessuno dubitava. Un bambino che non è
condannato al ruolo definito di bambino occidentale non si libera della sua
sottigliezza primitiva. Una sera ci capitò di udire una vecchia signora,
accanto alla quale eravamo seduti, che borbottava guardandoci con occhio
cupo: “Andiamo bene!”. Éléonore, sua vicina di posto, avrà avuto sì e no
quattro anni. Dopo aver assistito senza aprir bocca alla prima parte del
concerto, quella bambinetta chiese di spostarsi perché la signora si
sventolava con il programma di sala impedendole così di ascoltare la
musica…
Nell’uscire da alcuni concerti, mi capitava di giocare a dare un concerto.
Non si trattava affatto di fare della vera musica quanto di mimare tutto il
cerimoniale legato al recital: l’ennesima nozione implicita nata
dall’osservazione. Per questo gioco mi servivo della chitarra e mettevo in
scena un concerto; oppure costruivo, servendomi di scatole, tubi di cartone
e qualunque materiale m’ispirasse, uno strumento il cui mutismo non aveva
alcuna importanza.
Fino a quindici anni, su per giù, benché la musica facesse parte integrante
della mia vita, non la ascoltavo mai. Udire certe composizioni, saperle
riconoscere, immaginare come fossero eseguite, tutto ciò mi divertiva o mi
colpiva. Ma non provavo una particolare emozione, se non la nostalgia
legata a certe tonalità.
La contemporanea pratica della chitarra assomigliava, a dirla tutta, a un
gioco di destrezza. Saper accordare il mio strumento non mi sembrava più
degno di nota del saper montare le rotaie del mio trenino elettrico.
Avevo pertanto circa quindici anni quando andai a passare un mese da mio
fratello maggiore Bertrand nei pressi di Colonia, in Germania: a quei tempi
divideva una casa con il trio di cui era impresario.
Da qualche giorno ascoltavo, attutita dal pavimento, la musica prodotta
dai tre strumentisti che provavano con regolarità al piano inferiore. Mio
fratello mi trovò seduto sui gradini, mentre cercavo di captare qualcosa di
più attraverso la porta di legno. “Dai”, mi disse, “entra, saranno
contentissimi che tu li ascolti”. Entrai in maniera discreta approfittando di
un attimo di silenzio; i musicisti stavano discutendo. Mi misi a sedere, loro
mi sorrisero e riattaccarono a suonare.
Primo movimento del trio op. 65 di Dvořák.
Fin dalle prime note fui colto dall’emozione, travolto da un’ondata, preso
in un turbine vertiginoso. Fu uno shock, una rivelazione, uno
sconvolgimento. Per la prima volta, la musica mi toccava nel profondo, si
insinuava fino ad arrivarmi al cuore, lo stringeva nella sua mano, quasi mi
soffocava. I gesti dei musicisti non erano più gli attori principali del fatto a
cui assistevo, ma la spiegazione istantanea, la materializzazione dei suoni
che mi sconvolgevano, mi scombussolavano, mi gettavano da una sponda
all’altra delle sensazioni che essi stessi provocavano in me. Era come una
lingua della quale, da sempre, avevo udito i suoni senza decifrarli e che, per
la prima volta, comprendevo in tutto il suo splendore.
Da quel preciso istante, non so se sono stato io a mettermi a divorare la
musica o viceversa.
Tornato a Parigi, mi gettai sulla nostra collezione di dischi (che, fino a
quel momento, era stata ai miei occhi soltanto un mobile pieno zeppo di
centinaia di album, ma che ormai mi sembrava una miniera d’oro). Cercai il
trio op. 65 di Dvořák per poi ascoltarlo più volte, sconvolto dall’averlo
ritrovato, dallo scoprire ogni volta nuove sfumature che m’incantavano e
che – mi ero già reso conto – non bastavano i primi ascolti per svelare.
Avevo un po’ paura di lasciare l’op. 65 di Dvořák, di non ritrovare altrove
quelle emozioni corroboranti. Ma, non volendo ‘consumarlo’,
accompagnato da papà – che trovava in me, con sorpresa e soddisfazione,
un nuovo compagno melomane – ascoltai altri lavori di Dvořák, soprattutto
quelli del periodo americano. E anche lì, in capo a parecchi ascolti, fui
trascinato in un altro mondo, un mondo che mi mandava sottosopra e mi
faceva sbocciare.
La mia consueta procedura era iniziata: ascoltai, un brano dopo l’altro,
tutto quanto Dvořák. E, ovviamente, mi misi a leggere svariate biografie,
studiai la patria che amava tanto, le sue ispirazioni, le sue discendenze, lo
stile, le abitudini, tutte le fotografie disponibili… ascoltai parecchie
interpretazioni di ciascun lavoro e le classificai secondo i miei gusti. Nelle
sue puntate regolari dal nostro venditore di dischi, papà faceva rifornimento
di versioni diverse e di lavori misconosciuti. Ben presto iniziai ad
accompagnarlo e scoprii una nuova occupazione, una fonte di gioia, di
emozione e di sorprese molto particolari: passare in rassegna, uno dopo
l’altro, tutti gli scaffali pieni di dischi, tirare fuori certi album, discuterne
con papà, scambiare opinioni, decidere per questa o quella versione,
riportare con orgoglio una novità… Non ho mai avuto bisogno di imparare
a memoria il numero d’opera o il titolo di ogni singolo lavoro: si sono
inscritti automaticamente dentro di me, proprio come il loro ordine
cronologico e le date. Capii sul posto cosa significa avere un interprete, un
ensemble, un direttore d’orchestra prediletto… preferire le interpretazioni
dell’orchestra del Concertgebouw o del quartetto Alban Berg a tutte le altre,
ma allo stesso tempo scoprire quelle di un’altra formazione: e iniziare a
conoscerle ‘tutte’…
L’interesse per Dvořák mi portò automaticamente a Brahms, che divorai in
maniera identica e parallela. Poi, colpito da uno di quei temi che uditi una
volta s’imprimevano in me, riapparendo a bruciapelo e letteralmente
ossessionandomi per parecchie settimane, iniziai a esplorare Schubert. Tra
me e papà ebbe inizio un gioco, cui ci dedichiamo ancora oggi: accendere la
radio, sentire qualche nota e dire di quale compositore, di quale lavoro si
tratta. A un certo punto fui anche in grado, abbastanza spesso, di distinguere
l’interprete o l’orchestra.
Nel corso dei mesi, mentre leggevo ogni sorta di biografie e svariate storie
della musica, nuovi compositori iniziarono ad appassionarmi e a unirsi agli
altri nei miei ascolti quotidiani: Mendelssohn, Schumann, Franck (scoperto
grazie al suo Quartetto, ascoltato in un meraviglioso film di Percy Adlon il
cui argomento, Proust, non poteva sfuggirmi: ulteriore testimonianza di
come le passioni si intreccino!).[6] Infine feci l’incontro con il miracolo
Beethoven. Nel leggere le biografie su di lui, le sue lettere e i suoi scritti,
capii che egli rappresentava, ai miei occhi, l’assoluto prototipo dell’Artista.
Da quel momento mi convinsi che non c’è mai stato prima – e
probabilmente mai ci sarà – un artista grande come Beethoven, senza
distinzione di categoria, né un’opera umana che abbia consentito al suo
autore di avvicinarsi così tanto al massimo destino dell’Uomo.
Ero pieno di musica, era la mia unica occupazione e la mia unica
preoccupazione, ribolliva dentro di me; le più strane sonorità di certi lavori
di Debussy, Chausson, Brahms si maceravano in me e facevano vibrare
tutte le mie cellule. Il silenzio interiore non esisteva più, né di giorno né di
notte.
Essendo padrone del mio tempo, potevo ascoltare fino a sei ore di musica
al giorno e, contemporaneamente, leggere svariate biografie. A casa nostra
la musica non era considerata come un passatempo ma come un’attività
primordiale, e nessuno cercava di distogliermi da lei.
Un giorno mi metto, da solo e in silenzio, senza parlarne con nessuno, a
studiare teoria musicale. In segreto, spero di poter comporre musica, alla
fine. I tentativi di riprendere la chitarra e utilizzarla per inventare della
musica sono destinati a fallire: i suoni che produco sono brutti, maldestri,
ingenui… e i brani che ancora ricordo sono piatti e non corrispondono
neanche un po’ alla cultura musicale che mi sono costruito nel frattempo.
Come ho fatto spesso, mi servo dei mezzi più disparati e a volte più
scomodi per iniziare la mia esplorazione della teoria musicale. Il famoso e
grosso Larousse rosa della mamma è una prima, preziosa fonte. A forza di
scorticarne le informazioni asciutte e rigorose, rimbalzando da una nozione
all’altra, finisco per ottenere una prima immagine corretta e assai completa.
Un volumetto Assimil, tutto sommato parecchio mal fatto, a forza di venire
esplorato, ripreso, spremuto, mi consente di capire molte cose.
Testardo e appassionato, studio in tutte le maniere, racimolando a destra e
a manca, rivedendo – se necessario – cento volte lo stesso paragrafo… Per
esercitarmi m’invento un gioco, un congegno personalizzato: scrivo i nomi
delle note di tre scale complete su delle piccole schede. Dopo averle
accuratamente mischiate, estraggo una a una e scrivo, su pentagrammi
tracciati con cura, le note corrispondenti. Faccio come se si trattasse di un
gioco di società, a volte in chiave di sol, altre di fa, cercando di essere
sempre più veloce. Funziona, imparo alla svelta. Alcuni scritti di teoria
musicale, dall’approccio molto ostico, mi lasciano di sasso. Ne racimolo
comunque, qua e là, certe informazioni. A quanto pare, la fonte di
apprendimento che per me funziona meglio sta altrove. Per esempio, in
certe frasi catturate al volo e per caso nelle biografie… “Al momento del
suo esame d’ammissione, il giovane César Franck compie l’inaspettata
impresa di suonare il brano obbligatorio trasportandolo, a prima vista, una
terza sopra…”. Questa frase mi spinge a cercare il perché questa
trasposizione sia un’impresa: così facendo, imparo nozioni d’ogni tipo, in
un ordine radicalmente diverso da quello indicato da tutti i programmi
didattici.
Un altro esempio: leggere per caso in una storia della musica che Bach è
l’inventore del temperamento equabile non si limita, per me, a essere un
semplice fatto storico e una data da mettere da parte in vista di una possibile
domanda d’esame; segna invece il punto di partenza di tutta una
cognizione, ovvero quella del funzionamento, dei motivi e dei limiti del
temperamento. Raggiungo, in questo modo, un immenso rispetto per Bach,
un tipo di rapporto che non ha niente a che vedere con il dato quasi
impersonale citato dal libro di storia.
Un pezzo alla volta, viene a comporsi un grosso puzzle, e anche se alcuni
elementi continuano a mancare – o anche interi settori – il quadro generale
è coerente e leggibile in maniera chiara: ne afferro a poco a poco il
panorama.
La mia conoscenza della teoria musicale è, ancora oggi, in piena
costruzione. Vivace, ne guadagna in chiarezza e s’incentra sul mio lavoro.
Se del caso, sa adattarsi agli incontri, alle fissazioni o alle contagiose
passioni per altri musicisti, ma soprattutto agli usi che ne faccio. Con il
passare del tempo ci sono state delle selezioni, e molte cose imparate,
conquistate a fatica sui libri, si sono tranquillamente addormentate chissà
dove dentro di me, pronte di sicuro a tornare in primo piano se mai ne
avessi bisogno.

La chitarra
Un giorno, papà si mette in tutta fretta a registrare lo spezzone di un brano
che stanno passando alla radio. Un chitarrista di flamenco suona una soleá
dai mille colori.
L’ascolto parecchie volte, soggiogato. Scopro due cose nello stesso
istante: che il flamenco, la mia lingua musicale materna, è in grado di
emozionarmi quanto la musica classica di cui sono pieno, e che la chitarra –
il mio strumento – può assumere una dimensione sinfonica. Si tratta di due
elementi che davvero mi mancavano fino a quell’istante, e in maniera
feroce.
La registrazione è incompleta ma, grazie a certe basi culturali ricevute da
Fenoy, mi metto a ‘copiare’ quel brano, un suono dopo l’altro, ascoltando a
ciclo continuo sequenze di cinque o sei note, riavvolgendo e scorticando
cento volte quei pochi centimetri di nastro (la valorosa epoca delle
audiocassette! e avevo una tale paura di vederlo consumarsi e infine
strapparsi, quel nastro!), cantando e cercando la nota successiva, mandando
a memoria uno dopo l’altro i grani sonori di quel rosario esponenziale.
Imparo a memoria l’inizio del brano. Ma mi arrendo dopo il primo
minuto. Non riesco più a suonare ciò che sento e, sebbene questo esercizio
intensivo abbia affinato in maniera considerevole la mia capacità di
analizzare i rapporti di causa ed effetto (dall’orecchio alle dita), non sono
più in grado di captare tutti i suoni della polifonia e non so a quale tecnica
attribuire gli effetti prodotti da quel geniale chitarrista. Inoltre, lo
schiacciamento della mia mano sinistra aggrappata al manico, i muscoli
rattrappiti delle mie dita mal piazzate, la scomodità del gomito incastrato
nel fianco, il mignolo che non utilizzo più da quando avevo iniziato a
studiare… Tutto questo mi provoca crampi, fitte e dolori che
m’impediscono di spingermi oltre.
Stranamente, però, non mi perdo d’animo. Decido di sconfiggere in primo
luogo la mia cattiva abitudine di trascurare il mignolo della sinistra. A
questo scopo m’invento degli esercizi la cui efficacia so essere garantita
dalla pratica quotidiana:
6 Il film è Céleste, del 1981 [n.d.t.].
mi baso su un principio fatto su misura per il mio carattere, scovato in
maniera illuminante in un libro: “Goccia dopo goccia, l’acqua scava la
pietra: un secchio d’acqua di tanto in tanto non produce lo stesso effetto”.
Poco tempo dopo, papà – che è tenace nelle sue ricerche – porta a casa un
disco nuovo di zecca. Grande copertina bianca con l’immagine scontornata
di un chitarrista e, a grandi caratteri, il suo nome: Ramón Montoya. È lui!
Mi bastano le prime note per riconoscere la soleá, il chitarrista, la
registrazione e anche i caratteristici scoppiettii del vecchio settantotto giri,
l’arrivo dei quali ormai conosco a memoria… Scopro il brano per intero e
anche gli altri pezzi del disco, scopro la biografia del chitarrista, inizio a
distinguere le caratteristiche del suo modo di suonare: ma, soprattutto,
esamino accuratamente l’immagine in copertina. La posizione di Montoya è
sorprendente: invece di tenere la chitarra in orizzontale, come faccio io da
sempre, la impugna nella maniera originale del chitarrista di flamenco.
Contrariamente alla mia, la sua posizione libera il gomito sinistro,
consente di tenere la schiena dritta, le spalle allo stesso livello e, soprattutto,
le mani e i polsi in una postura più naturale, molto efficace e altrettanto
rilassata. Mi basta provarla perché una tale posizione mi suggerisca una
serie di nuove possibilità. Non appena ho superato, con coraggio, la
scomodità delle prime ore, la pratica mi conferma ciò che pensavo: si
aprono porte fino a quel momento chiuse, i dolori spariscono, tecniche
inaccessibili diventano ipotizzabili.
Il mio lavoro quotidiano si fa più intenso: da un lato, insisto nell’imparare
nota per nota la soleá di Montoya (gli amici che quell’anno mi hanno
portato in vacanza a Sark ricordano ancora con terrore la mia costanza
nell’ascoltare e ripetere a ciclo continuo la stessa sequenza…) mentre,
dall’altro, ai miei ‘esercizi per il mignolo’ ne aggiungo di nuovi, inventati
con il passar dei giorni e delle difficoltà tecniche incontrate nelle mie
esplorazioni. Non appena m’imbatto in qualcosa che non riesco a fare o che
m’infastidisce, concepisco un esercizio adatto e lo aggiungo ai precedenti
per farlo diventare immancabilmente quotidiano. È così che viene a
formarsi, di giorno in giorno, una serie sempre più accurata, la cui natura ed
esistenza sono per me, al primo colpo, logiche e naturali quanto la
successione degli esercizi di danza. Presto attenzione a sistemare le cose
secondo un ordine di difficoltà crescente, per non usare violenza ai muscoli
e alle articolazioni prima che si siano scaldati. Reso sensibile dalle
innumerevoli ore di danza e dall’atteggiamento che ne è derivato, faccio il
possibile per rispettare la logica fisiologica dei movimenti e degli sforzi,
così da evitare costrizioni deleterie.
Questa serie, nel frattempo pubblicata, costantemente sviluppata e
perfezionata, funge ancora oggi da base inamovibile per il mio lavoro
chitarristico quotidiano.
Quando la soleá di Montoya mi diventa sufficientemente familiare,
comincio a imparare alcuni degli altri brani del disco. Vado sempre avanti
con la stessa procedura, accanita e solitaria, che mi riesce sempre più facile.
La sera, eseguo il brano – nel suo stato attuale – davanti a papà. Provo una
gioia immensa nel sentirmi sotto le dita ciò che amo così tanto ascoltare sui
dischi.
Un altro album mi fornisce una bella raccolta di brani. Il gioco nitido e
posato di Román el Granaíno ne fa un ‘professore’ perfetto. Inizio a
concepire le mie interpretazioni personali, creando un ibrido tra le
consuetudini degli svariati chitarristi che ascolto e mescolandole a ciò che
m’ispirano le mie preferenze individuali… Tempo qualche anno e metto in
piedi anche un repertorio tutto mio.
Al momento, le briciole di creatività che mi offrono le precise strutture del
flamenco mi bastano. Quando mi avventuro sul terreno della pura creazione
musicale, lì c’è il grande vuoto.
La mia tecnica migliora. Scopro che certi brani che ho imparato si
possono suonare in altro modo. Distinguo questo strano principio: un livello
tecnico elevato consente di affrontare le cose tramite percorsi semplici, ai
quali un livello inferiore non consente l’accesso… Lavoro soprattutto a
orecchio ma esamino con attenzione tutte le foto, tutti i documenti che mi
capitano sotto gli occhi. La copertina di un disco mostra un chitarrista con
l’unghia del pollice particolarmente lunga, un’altra fa vedere per puro caso
un movimento che ancora mi manca… Esploro queste strade con curiosità,
sperimento diverse lunghezze d’unghia, adotto certe sfumature e ne scarto
altre. Inizio a frequentare i negozi specializzati, dove però non mi sento a
mio agio. Sono guardato con occhio strano, come l’extraterrestre che in
effetti sono, giovane, venuto dal nulla, senza la raccomandazione di un
qualsivoglia professore. Provo degli strumenti, per il piacere di farlo, ma
nessuno di questi mi ‘parla’ davvero. Ascolto e osservo i chitarristi di
passaggio, li sento stupirsi della lunghezza delle mie unghie, suggerirmi di
ridurla o di utilizzare altre diteggiature; per quanto possa sembrare
incredibile, è raro che accetti i loro consigli. C’è qualcosa in me che sta sul
giusto binario, malgrado io sia appena uscito dall’adolescenza e quei
chitarristi siano in vantaggio su di me di parecchi decenni.
Al momento non penso affatto ai concerti. Suonare per qualcuno che non
sia una persona di famiglia mi provoca inquietudine. Chiaro, nessuno mi
forza, nessuno mi costringe a “mostrare agli ospiti quel che so fare”, la
tortura ben nota a migliaia di ragazzini e ad altrettanti invitati ipocritamente
entusiasti al momento dell’orripilante esibizione di violini o di flauti.
La mia crescita di musicista si sviluppa come la mia infanzia: dentro uno
scrigno di fiducia, priva di ogni precarietà, senza bisogno di dimostrare
niente, senza pressione e senza paura. Un giorno, per la festa organizzata
alla Ménagerie de Verre in onore degli ottant’anni di Jerome Andrews,
Carole torna a Parigi. Durante la serata, ci racconta di essersi trasferita di
nuovo nella capitale con l’intenzione di mettere su una compagnia di ballo.
La sua domanda è chiara: chi è pronto a lavorare con lei fin dal giorno
dopo? Delphine, Émilie (sua sorella minore) e Éléonore si dichiarano subito
disponibili. Per quanto mi riguarda, insisto: non sono più un ballerino ma
un chitarrista. “Benissimo”, risponde Carole senza considerarlo un ostacolo,
“allora portati dietro la chitarra!”. Mi sento un po’ turbato. Alla mia
prudente affermazione di essere ancora allo stadio di elaborazione tecnica,
lei risponde semplicemente: “Lavoreremo tutti assieme sulla tecnica, tu
come chitarrista, noi come ballerine”.
Carole è una visionaria, cosa che io ancora ignoro: anche se un po’
preoccupato, l’indomani mattina prendo il metró con Éléonore per tentare
l’esperienza. Carole conduce con maestria queste sedute di tre ore,
lasciandomi lavorare e osservare cosa fanno le ballerine.
Mi basta poco tempo per sentirmi parte di un tutto. La nostra preparazione
tecnica, il nostro riscaldamento, la nostra serie di esercizi hanno un legame
comune, e quando ‘le ragazze’ si mettono a improvvisare io faccio
altrettanto, in maniera del tutto naturale. La ricerca creativa si fonde fin dai
primi momenti. Con il passare delle settimane, alcune coreografie e le loro
musiche prendono forma: un assolo con Éléonore, un altro con Émilie, un
terzo con Carole.
Io e Carole lavoriamo su questa prima siguiriya, che estraggo dal
repertorio flamenco, con un’intensità tutta particolare. Ogni giorno la
raggiungo in una saletta nella quale proviamo, assieme a Delphine che
prepara un’altra coreografia su una musica diversa. È un lavoro da
formiche: le ore di fatica comune si accumulano, le abitudini, le emozioni
prendono piede. Curiamo ogni dettaglio, io scopro una professione. Preparo
un manifesto con piccole lettere autoadesive, forbici e colla. Mi viene
comprato il mio primo abito di scena, un Kenzo nero che non abbandonerò
più… Negli ultimi giorni di dicembre ha luogo la mia prima esibizione
pubblica. Faccio la conoscenza di un compare del quale ignoravo
l’esistenza: il panico.
Il pubblico è entusiasta. Ciò che aveva l’unica ambizione di essere
mostrato in una e una sola rappresentazione è immediatamente rimesso in
cantiere.
Prepariamo un nuovo spettacolo. Questa volta scrivo io la musica per un
balletto che vede assieme Delphine e Carole (Éléonore e Émilie ne
allestiscono un altro per proprio conto). Operiamo ad ogni livello:
coreografie, musiche, costumi, volantini. Allestisco grandi tendaggi sui
quali dipingo, con effetto trompe-l’oeil, un’aggiunta di parete che serve a
nascondere due aperture piazzate in fondo al palcoscenico della sala
prescelta.
Comincio a inventare della musica dal forte accento di flamenco. Durante
le prove il lavoro, nato da improvvisazioni collettive, si cristallizza, si fissa,
diventa di estrema precisione, padroneggiato in tutti i suoi dettagli. Anche
in questo caso l’accoglienza del pubblico, unita alla fortissima
soddisfazione di concepire e presentare uno spettacolo del genere, ci incita
in maniera del tutto naturale a proseguire le rappresentazioni.
Più vado avanti, più la chitarra Contreras mi sembra mostrare i suoi limiti.
Anche se con prudenza (per non attribuirle delle colpe prima di essere certo
che non si tratti di mie eventuali insufficienze tecniche), decido di
sostituirla. Papà e mamma si mostrano disposti a sostenermi, a patto che
riesca a trovare uno strumento che mi soddisfi di più. Visto che il negozio di
rue du Château non esiste più, inizio a visitare gli altri negozi di Parigi. E i
rivenditori, non appena capiscono che sono pronto a spendere una certa
somma, mi fanno provare strumenti di alto livello. Con mio grande stupore,
nessuno mi pare davvero superiore al mio. Preciso cosa sto cercando, ma i
negozianti mi guardano con aria dubbiosa. E soprattutto tentano di farmi
capire due cose: che tocca a me adattarmi allo strumento (e non il contrario)
e che una chitarra ‘scomoda’ è garanzia di buona riuscita nello studio (“chi
può di più può di meno; se padroneggi uno strumento difficile significa che
lo padroneggi nella sua totalità”).
Malgrado la giovanissima età e la mancanza di conoscenze che mi
consentono oggi di rifiutare in toto questi due cavilli assai diffusi, non mi
lascio smontare e proseguo la mia ricerca. Allargo il cerchio delle mie
esplorazioni. Ma tutti gli strumenti che mi sono proposti mi sembrano
troppo grossi, troppo pesanti, quasi inerti. A guidarmi ho solo il mio
orecchio, ma avverto con chiarezza – anche se in maniera empirica – che le
chitarre dei musicisti, le cui registrazioni ascolto molto spesso, sono più
leggere, più dettagliate, più vive.
Il fatto che nessuna chitarra da me provata corrisponda alle mie aspettative
dovrebbe spingermi a rimaneggiare quella che già possiedo. Non è proprio
il caso, sono mosso da un istinto imperturbabile. La proprietaria di uno dei
negozi finisce per riassumere la situazione a modo suo: “La chitarra che stai
cercando non esiste. Dovresti costruirtela da solo”. Pensa di essere un
tantinello cinica, ma sarà profetica: di sicuro a sua insaputa.
Allora mi decido a pazientare, cercando di tirar fuori il meglio dalla mia
Contreras. Inizio a provare corde di ogni tipo, imparando così come
possano cambiare il volto di una chitarra (nell’uno o nell’altro senso).
Imparo a distinguere ciò che conferisce il miglior suono e la migliore
comodità. Apprendo, soprattutto, a non tenere in conto ciò che dicono i
rivenditori o anche gli altri chitarristi, perché mi sembra evidente di essere
il solo a poter trovare la giusta alchimia tra il mio modo di suonare, il mio
gusto, la mia mano e la mia chitarra…
Un giorno, arrivato con larghissimo anticipo, vado a farmi un giro nel
quartiere circostante il palazzo in cui provavamo io e Carole. Al numero 8
di rue Grégoire-de-Tours, passo davanti a un negozio un po’ scalcinato, una
vera anticaglia, nel quale – sul ciglio di una paccottiglia impenetrabile – si
accalca un po’ di gente. Scorgo parecchie chitarre d’epoca. È questo a
darmi il coraggio di spingere la porta e di insinuarmi in quell’uscio chiuso
un po’ misterioso. Sono gentilmente abbordato, con un tono che lascia
pensare a una mia frequentazione abituale, da un signore imponente, vestito
di un completo tre pezzi color crema, uscito dritto dritto da Proust, uno di
quegli uomini dalla corporatura impressionante, dallo sguardo profondo e
dal sorriso benevolo dei quali, al primo contatto, già si intuisce il lungo e
ricco passato.
Alain Vian, fratello di Boris Vian, esperto di chitarre d’epoca,
appassionato di jazz, sottile musicologo, umorista degno di Guitry, ha visto
passare sotto i suoi occhi quasi tutto ciò che è accaduto in materia di
chitarre e chitarristi. Non ha una reputazione angelica: con me sarà di una
generosità impeccabile. Mi fa provare, durante la mia prima visita, una
vecchia Ramirez della fine del diciannovesimo secolo, una pura meraviglia,
una chitarra da elfo, tesa come un tamburo, leggera come una piuma, sonora
come una cattedrale. In pochi minuti ho la conferma che la mia intuizione
era giusta, che la mia ricerca non era vana, che tutto quel che mi era stato
detto era falso, che le chitarre antiche non sono soltanto leggere e delicate
ma anche comode: e che la chitarra che cerco esiste. Alain Vian sa bene che
non potrò mai acquistare quella Ramirez dal prezzo esorbitante, quindi me
ne lascia approfittare il più possibile. E, ad ogni mia visita, mi fa provare
qualcosa di nuovo: mi tiene da parte strumenti ricevuti per una perizia, mi
racconta storie di chitarre e chitarristi (da Django Reinhardt a Segovia, ha
condiviso la quotidianità con ciascuno di loro) e anche di liutai. Per me e
per la mia fame di chitarra è una miniera inesauribile. Grazie a lui,
incontrato durante una passeggiata imprevista, certi elementi decisivi della
mia personalità di chitarrista vanno al loro posto.
Ogni tanto papà e mamma passano a salutarlo. Vuol molto bene a
Delphine. Un giorno acquisto da lui una piccola chitarra, anch’essa della
fine del diciannovesimo secolo, l’unica alla mia portata. Una sera, mi fa
suonare per i suoi clienti, annunciando loro che un chitarrista così non lo
sentivano da molto tempo. Sono sconvolto, sapendo quali altri ha visto…
Un altro giorno mi regala, con fare di trionfo, un capotasto antico, in ebano,
che sognavo di trovare da anni. Poi m’insegna a cominciare sempre
annusando, dal rosone, l’odore che proviene dalla cassa di una chitarra e ad
analizzarlo come quello di un vino. Una sera seguente mi porge un fascio di
spartiti, di intavolature manoscritte a penna. “Forse sono autografe di
Tárrega”, mi dice. Non ci credo molto, ma le fotocopio e provo un certo
piacere a decifrarle. Sono i miei primi passi nell’universo della chitarra
classica.
Purtroppo il grande e bello Alain Vian muore qualche anno dopo. Non ho
mai avuto l’opportunità, come invece speravo, di acquistare da lui uno
strumento così miracoloso come quella veneranda Ramirez che provai la
prima sera nel suo negozietto.
È all’incirca in quel periodo che uno dei miei allievi,[7] un signore
appassionato di chitarra classica, mi passa una cassetta che ha registrato
apposta per me. Vi ritrovo certi brani (ancora un ‘caso’ fortunato!) presenti
sugli spartiti che mi aveva dato Alain Vian. Scopro, sotto le dita di Narciso
Yepes, come la chitarra classica sappia toccarmi. Ma, per il momento,
rimango un ascoltatore.
Nel 1990 Carole riparte per Venezia. Un po’ abbandonati come orfanelli,
io e Delphine ci facciamo carico dei preparativi per il successivo spettacolo
della compagnia da noi stessi battezzata “Atelier di creazione coreografica e
musicale Carole Catelain”. Senza perdere tempo nel tentativo di valutare la
fattibilità del progetto, affittiamo una sala, allestiamo una rappresentazione,
un programma, svariati balletti… Devo fare ricerche accurate per capire
come prendere contatto con la stampa, come sia possibile ufficializzare un
simile avvenimento. Non avendo mai ricevuto una formazione specifica nel
settore, non seguo le procedure e le gerarchie consuete; la differenza di
approccio finisce per aprirci certe porte presso i nostri interlocutori.
Un po’ per volta, mi familiarizzo con le incombenze amministrative legate
a questa iniziativa. Mi faccio carico, in ordine di apparizione, della
contabilità, delle certificazioni, dei documenti. Papà mi fornisce un sacco di
indicazioni, cerco io le altre, chiamo dei consulenti, leggo istruzioni. La
prima spedizione la facciamo in massa, imparo a gestire un indirizzario. Le
prenotazioni si moltiplicano, scopro la biglietteria. Carole giunge un po’
prima della rappresentazione con le sue coreografie, allestite a Venezia.
Questo nuovo spettacolo è un autentico successo. Carole riparte
definitivamente, ma io e Delphine capiamo che quella è la nostra
professione. Durante i mesi che seguono, fondiamo Accm Fusion (Atelier
di creazione coreografica e musicale Fusion). Scopro ed eseguo, uno per
uno, tutti gli adempimenti ufficiali necessari alla fondazione della
compagnia, a partire dalla redazione degli statuti fino all’apertura di un
conto bancario.
Delphine cerca delle sale, lavora alle scenografie, passa ore intere a
scegliere tessuti e a cucirli. Invitiamo altri artisti, cerchiamo personale
specializzato convertendolo alla nostra causa: un tecnico delle luci si
occupa dell’illuminazione, un fotografo delle immagini; Jeanne Moreau
legge il testo di una giovane scrittrice come prologo a uno dei nostri balletti.
I direttori di scena ci stanno dietro, ci raccomandano ai loro colleghi.
Abbiamo un pubblico fedele, i giornalisti sono affascinati, si aprono le porte
internazionali. Un successo senza fine.
Io e Delphine, dopo un’infanzia trascorsa mano nella mano, ci ritroviamo
uniti in un inebriante e incessante lavoro. Oltre che presi in un vortice che ci
trascina sempre più lontano, sempre più in alto. Io compongo senza sosta;
allestiamo uno spettacolo dopo l’altro, moltiplichiamo le ore e i luoghi delle
prove. A volte, arriviamo al mattino in una grande e scalcinata sala di Porte
Dauphine e ce ne andiamo soltanto al calar della notte dopo intere ore di
lavoro, alla fredda luce di qualche neon. In altre occasioni ci ritroviamo alle
sei del mattino in una saletta a Convention per provare due ore, prima
dell’arrivo di chi l’ha affittata in orari ‘decenti’. Il potenziale di Delphine
diviene affascinante. Viviamo le nostre vite, ciascuno per proprio conto, ma
le ore più creative, più costruttive, più coinvolgenti, più preziose, le
trascorriamo assieme, quasi ogni giorno. A volte, Éléonore ed Émilie
lavorano con noi. In altre occasioni è la mia amica cantante che,
momentaneamente, si unisce a noi. Io e Delphine siamo invitati per delle
rappresentazioni a Nîmes (dove Carole si è finalmente stabilita), a Saint-
Étienne (dove ci recheremo a lavorare ogni anno a dicembre), un po’
dovunque in Francia, poi in Spagna, in Svizzera…

La liuteria
Dopo le prove andiamo spesso al cinema. Durante l’allestimento dello
spettacolo con la mia amica cantante – che trascorreva qualche mese a
Parigi come ragazza alla pari – ci rechiamo a vedere un film appena uscito:
Un cuore in inverno, di Claude Sautet. Ci vado per gli attori, faccio la
conoscenza della liuteria, ne esco con un nuovo senso di appartenenza. In
quel film la liuteria – che è soltanto lo sfondo della vicenda – è trattata con
amore e rispetto, mostrata come l’universo in cui vivono i protagonisti,
senza smancerie, come una cosa naturale. Per me si tratta di una
rivelazione. Rimango per qualche giorno in uno strano stato d’animo, fatto
di emozioni trasmesse non solo dagli attori ma anche dall’atmosfera in cui
si fabbricano gli strumenti. La precisione dei movimenti, la delicatezza
delle operazioni, le conseguenze quasi magiche che può avere un piccolo
gesto, la calma che regola ogni intervento, la gioiosa concentrazione che ne
deriva… Tutto questo mi affascina. Ritrovo delle sensazioni provate con
Alain Vian o durante una lettura, sensazioni che però hanno acquisito un
nuovo significato.
Non ho ancora percepito la mia volontà di diventare liutaio ma, nei giorni
seguenti, tiro fuori un grosso volume, Le grand livre de la guitare, di Mary
Anne e Tom Evans, nel quale ritrovo un intero capitolo dedicato al lavoro
del liutaio José Luis Romanillos. Lo divoro, quel brano, ne analizzo ogni
dettaglio, assorbo ogni fotografia. Poi mi leggo tutto il libro, per scoprire
che vi è documentata, in maniera appassionata e precisa, tutta la storia
cosmopolita del mio strumento.
Passo in rassegna tutti gli scritti che ho a disposizione, ma mi rendo conto
che in questo modo non imparerò più di tanto. Sfoglio il catalogo
dell’Adac, senza trovarvi nulla di soddisfacente. Internet non esiste ancora e
non conosco nessuno in grado di darmi informazioni, avanzo a piccoli passi
ma, stranamente, non ho alcuna fretta.
La mia prima idea è di recarmi, ancora una volta, nei negozi di Parigi.
Inizio da quello gestito dalla signora che mi aveva assicurato che la chitarra
dei miei sogni non poteva esistere, perché so che ogni tanto vi lavora un
liutaio. Quando ci vado, lui non è presente. E quando spiego cosa
m’interessa, vengo accolto senza molto entusiasmo. Per la precisione,
cercano di farmi cambiare idea, spiegandomi che la liuteria è un mestiere
difficile cui, da sempre, è stato necessario dedicarsi in maniera esclusiva.
Non è una bella vita, quindi a che pro? Bisogna saper scegliere: si può
essere o un buon chitarrista o un buon liutaio, non si possono fare entrambe
le cose. Nella liuteria ci si ferisce, ci si spezzano le unghie, i liutai hanno le
mani rovinate… Un sacco di cose che oggi so essere completamente false.
Queste affermazioni non mi scoraggiano per niente: ho imparato, per cose
del genere, a fidarmi solo di ciò che provo in prima persona. In più, le mie
letture e l’esperienza acquisita grazie ad Alain Vian mi rendono molto
sicuro di me.
Vado al Salone della Musica per incontrare gran parte dei fabbricanti
francesi di chitarre. La loro accoglienza è glaciale, le loro argomentazioni
sono ugualmente fallaci. Tuttavia guardo gli attrezzi, racimolo qualche
informazione dispersa nei video che decantano le qualità di questo o quel
prodotto.
Ognuno di questi liutai, che per la maggior parte (ed è una cosa davvero
singolare) sono autodidatti, mi dice: “Se vuoi sul serio diventare un liutaio,
devi iniziare con una formazione professionale di falegnameria (tre anni),
poi migliorare l’apprendistato con una formazione di ebanista (due anni) e
infine iscriverti a una scuola di liuteria per una formazione ‘di violino’ (tre
anni), siccome non esistono scuole per liutai specializzati in chitarra…
Fatto questo, potrai tornare a trovarmi ed entrare da me come
apprendista…”.
Qualche tempo dopo, in vacanza nei Grigioni, in Svizzera, con la mia
amica Franziska, sfoglio le pagine gialle regionali. Ricordo, qualche anno
prima, di aver fatto visita a un giovane fabbricante di chitarre a Coira, la
capitale del cantone. Trovo due nomi, due numeri di telefono. Chiamo ‘per
vedere’… Non c’è nessuno, richiudo l’elenco. Per darmi una mano, la mia
amica chiama un fabbricante di pianoforti di sua conoscenza e gli spiega
cosa sto cercando. Anche in questo caso, lei va a cozzare contro le
spiegazioni più scoraggianti. Il tizio le dice che nessuno vive di quel
mestiere, e che i due liutai di Coira non sono dei professionisti.
Non ho fretta, ma non rinuncio al mio progetto né al modo di realizzarlo.
Non mi accontenterò di un compromesso, si è instaurata una fiducia
profonda: un giorno, a modo mio, raggiungerò i miei obiettivi.
Qualche tempo dopo, io e papà siamo a Coira. Spinto da un amico libraio,
torno verso la bottega del liutaio incontrato anni prima. Ci vado quasi
distrattamente. Apro, senza alcun secondo fine, la porta a vetri (non si varca
mai una soglia del genere dicendo a sé stessi: questo è un momento
decisivo…), piombo in un universo fatto di colori, di odori e di suoni che
corrispondono con esattezza alla mia visione onirica della fabbricazione di
strumenti. L’uomo al lavoro, chino su una chitarra aperta, le mani nella
cassa dello strumento e con un attrezzo lungo e sottile, alza la testa e mi
porge un semplice saluto.
Ho appena fatto la conoscenza di Werner Schär. Dopo qualche cortesia di
circostanza da ambo le parti, gli spiego il motivo della mia visita – come ho
già fatto decine di volte – con tono quasi scherzoso, giacché mi aspetto la
solita risposta.
“…e vorrebbe farmi vedere come costruisce una chitarra?”.
“Sì”.
Resto a bocca aperta.
Nella mia vita, i grandi avvenimenti entrano di solito dalla porta di
servizio, alla chetichella.
Torno a respirare.
“In autunno, dopo le ferie?”.
“D’accordo”.
Stabiliamo ancora qualche dettaglio e me ne vado appena dieci minuti
dopo essere arrivato.
Per le persone a me vicine, tutto sembra ovvio. Non ricontatto Werni nelle
settimane seguenti, ma mi organizzo per assentarmi da Parigi per qualche
tempo. Alla fine delle vacanze estive, non riprendo le mie attività parigine e
apro ufficialmente una parentesi di qualche mese. In settembre mi piazzo
dalla mia amica cantante, Franziska, il mio primo amore da adulto, che
abita a trenta chilometri da Coira. Appena trasferito da lei, richiamo Werni.
Lui tergiversa per qualche giorno, poi mi fissa un primo appuntamento nel
suo atelier. Oggi so che, all’epoca, non si aspettava certo che mettessi in
pratica il progetto accennato in primavera. Mi riceve un pomeriggio e mi
mostra diverse cose, alla maniera di un piccolo giro turistico. Ma questo
sightseeing non aggiunge molto alle mie letture. Lui se ne rende conto. Si
rende conto che non sono un villeggiante venuto a raccogliere cartoline.
All’improvviso, lo vedo tirare fuori un blocco di legno dorato e metterlo su
un banco. Poi cerca la sua preziosa pialla e la sistema lì accanto. E mi dice:
“Ecco del legno, ecco i miei attrezzi: mettiti a costruire una chitarra. Ne sto
costruendo una anch’io, quindi sono in grado di mostrarti tutti i passaggi
necessari: ,
”.
Fantastico Werni! Mi ha appena rivelato la formula grazie alla quale
posso, d’ora in poi, descrivere la mia idea di maestro, quello che vi
accompagna, mano nella mano, sul cammino dell’apprendistato, di pari
passo con la vita, senza precedervi, senza sfinirvi con una metodologia
preconcetta, senza distrarvi dal vostro percorso dando la precedenza alla
vostra forza viva con una serie di esami, senza imporvi dei questionari a
risposta multipla o percorsi a cronometro…
Va detto che non mi ha offerto del legno di qualità scadente e degli attrezzi
di poco valore: mi ha messo in mano, fin da subito, i suoi strumenti
migliori.
Werni non mi ha prescritto nessuna esercitazione preliminare, come prova
o su del materiale di scarto. Non ho dovuto, come certi apprendisti, ‘farmi
la mano’, impratichirmi su lavori di bassa lega, realizzare cinquanta pezzi
identici prima di passare alle faccende serie. Werni mi ha affidato i suoi
utensili senza neanche un corso di teoria. Me ne ha indicato il nome senza
neanche farmi passare la famigerata prova del “ma lo sai cos’è questo?”.
Mi ha fatto vedere un gesto, un’azione, e mi ha passato l’attrezzo.
È rimasto al mio fianco per osservare ciò che avrei fatto. All’occorrenza,
ha corretto o completato il mio lavoro. Tutto qui.

7 Molto presto, ho voluto dare lezioni di chitarra. Dopo aver preparato un bel volantino, inizio a
ricevere qualche allievo. Poi mi reco io da altri, senza minimamente esitare – nel mio zelo – ad
attraversare Parigi in cambio di pochi franchi. A poco a poco metto insieme centinaia di lezioni e
inizio a sviluppare, passo dopo passo, una ‘metodologia’ che definisco fisiologica. È così che
incontro qualche miracolo chitarristico, persone (giovani o adulte) nate per suonare la chitarra, un po’
scoraggiate dall’insegnamento tradizionale e che iniziano a fiorire. Costoro mi rinforzano, ogni
giorno, nella mia convinzione che per suonare della musica bisogna… suonare. E costruire una
tecnica così solida e ortodossa da poterla dimenticare molto in fretta.
Da quel primo giorno di lavoro con Werni imparo a cogliere le diverse
sfumature sonore incontrate tamburellando su diverse tavolette d’abete. A
quei tempi non avevo, com’è ovvio, l’esperienza che oggi mi consente di
‘prevedere’ le fasi che dovrà attraversare il legno durante la sua
metamorfosi, prima di giungere alle caratteristiche sonore dello strumento
finito. Ma, sollecitato da Werni, seguo il mio istinto, il mio gusto e anche i
suggerimenti che gli ispirano i vari legni da lui selezionati.
Dopo di che, m’insegna a utilizzare il piallone per ottenere una giunzione
assolutamente perfetta tra le due tavolette che formeranno il piano
armonico. Si tratta di un lavoro lungo e minuzioso, in cui è coinvolta
l’intera sensibilità del liutaio. Scopro l’esistenza dei trucioli, imparo a
decifrare le informazioni che ci offrono.
Alla fine, Werni mi mostra come utilizzare una pressa per incollare le due
tavolette, sulle quali disegno – che momento magico – la forma della
chitarra! A questo scopo mi servo di calibri: apprendo che derivano
direttamente da quelli del grande Torres, e che Werni ha seguito un corso di
formazione presso il liutaio José Luis Romanillos, lo stesso il cui lavoro ho
analizzato nel libro della coppia Evans! È così che termina una delle
giornate più fruttuose e decisive della mia vita.
Torno da Franziska, posseduto da una gioia, un entusiasmo e
un’‘impazienza’ incontenibili. Le settimane si susseguono con un ritmo
regolare e meraviglioso; prendo il treno quasi ogni giorno, vado a lavorare
con Werni, mi porto il pranzo da casa, sempre lo stesso (e lo consumo tra
gli utensili e i trucioli, nell’atelier silenzioso e profumato), rientro la sera,
stanco, contento e riconoscente. Un po’ alla volta, ottengo la fiducia di
Werni: la nostra amicizia si costruisce man mano che la mia chitarra prende
forma. Lui mi consegna la chiave della bottega, così da consentirmi di
lavorare anche fuori dal suo orario di negozio. E così inizio a ricevere i
clienti che passano quando rimango da solo. Le mie precedenti esperienze e
l’amore incondizionato che provo per tutto quel che viene fatto in questo
negozio mi consentono di essere istantaneamente operativo. Werni ne è
estasiato.
Un pomeriggio in cui sono solo mi azzardo a prendere in mano una
chitarra costruita da Werni, appena arrivata per un controllo. Un’occasione
del genere non si è ancora mai presentata; del suo lavoro conosco soltanto
la chitarra che sta costruendo davanti ai miei occhi. Apro la custodia. Lo
strumento è magnifico, in legno d’ulivo; mi basta sollevarlo per ritrovare il
senso di sostentamento provato con la Ramirez di Alain Vian.
Suono qualche nota e sono colto da una grande emozione. Comodità,
estetica, sonorità, forza, leggerezza: questo strumento mi sconvolge in tutto
e per tutto. Non me l’aspettavo proprio. Avevo già scoperto la competenza
di Werni, ho appena scoperto che è anche un liutaio della tempra di Torres.
Durante le nostre ore di lavoro comune, vedendo che le cose che mi dice
mi ‘parlano’, che le assimilo e le applico con affetto, Werni mi spiega
sempre maggiori sfumature, mi mostra sempre più ‘segreti’. Imparo ad
affilare gli utensili fino a trasformarli in autentici rasoi, a regolare le pialle
con tale precisione che non serve alcuna forza per ottenere dei trucioli
perfetti: garanzia di non violenza nei confronti del legno.
Perché Werni m’insegna a non far mai del male alla materia, a non forzare
mai il legno, a capirlo e ‘sentirlo’ prima di lavorarlo, a osservare la
direzione delle venature per evitare di ‘forzare’. Mi accorgo con entusiasmo
che Werni ricorre alla stessa finezza anche quando suona la chitarra. Si
concentra con tutto sé stesso per produrre dei suoni altrettanto cesellati e
curati dei pezzi di legno che forgia senza impazienza. Capisco che, con ogni
evidenza, mi hanno raccontato delle sciocchezze e che essere un liutaio di
alto livello non impedisce in alcun caso di essere un chitarrista provetto; a
quanto pare, le due attività si completano, si arricchiscono a vicenda,
affinano la nostra coscienza con le loro implicazioni reciproche.
La calma necessaria alla liuteria s’impadronisce di me. I giorni passano
con tanta dolcezza e grande regolarità. Tra settembre e dicembre viene al
mondo la mia prima chitarra. Con lei si realizza la missione che mi ero
prefissato, quella a cui Werni aveva accondisceso. È il momento di mettere
le cose a posto, di tornare a Parigi e inventarmi un futuro, una strada da
prendere con il nuovo mondo che tengo tra le braccia. Lasciare l’atelier,
lasciare questa quotidianità, separarmi da Werni, mi rattrista tantissimo.
Anche lui (che fino a quel momento aveva apprezzato la solitudine della
sua bottega) non sa nascondere una tristezza che mi commuove. Mi
concedo qualche settimana di riflessione. Le giornate parigine riprendono i
loro diritti. Io e Delphine ci rechiamo a Nîmes per uno spettacolo messo su
in pochi giorni. È l’occasione di andare in scena, per la prima volta, con la
chitarra che mi sono costruito.
Le rappresentazioni confermano una sensazione che mi attanaglia dal
giorno della mia partenza da Coira: questa chitarra, per quanto bella, non
corrisponde per niente alle mie aspettative. Al momento non riesco a
immaginare le felici conseguenze di questa certezza: sento che mi opprime,
mi logora.
In gennaio torno da Werni. Analizziamo assieme i motivi della mia
insoddisfazione. Lui è categorico: devo costruire una seconda chitarra. Il
fatto che mi sia impossibile trasferirmi per molto a Coira non gli sembra
insormontabile: mi esorta ad acquistare degli attrezzi e a lavorare a casa mia
dopo essermi sistemato la stanza a questo scopo. Anche lui ha iniziato in
questo modo, sul tavolo della cucina. Vengo trascinato dalla sua sicurezza.
Quello stesso pomeriggio, la decisione è presa: scegliamo del legno tra
quello che ha a disposizione. Trascrivo delle segnature, copio a mano libera
certi schemi. Werni mi regala uno dei suoi preziosi calibri a corsoio.
Tornato a Parigi, batto i negozi di faubourg Saint-Antoine, spesso in
compagnia di papà. Trovo, uno dopo l’altro, tutti gli attrezzi di cui ho
bisogno. Raccolgo qua e là alcune informazioni: mio cugino ebanista
m’indirizza da certi fornitori che mi accolgono con benevolenza e mi danno
qualche consiglio. Questi signori di una certa età sono entusiasti di
conoscere un giovanotto pieno d’ardore e di rispetto, e così fuori moda da
interessarsi sinceramente al loro lavoro.
La mia stanza si riempie di trucioli. Ogni sera devo passare l’aspirapolvere
per non invadere tutta la casa o danneggiare gli apparecchi e i libri riposti
nei miei armadi. Lavoro svariate ore al giorno, in aggiunta alle mie altre
attività. Non ho scordato quasi niente delle procedure, delle azioni e delle
tempistiche applicate da Werni: alcune fatte una sola volta, ma con
passione. E, quando ho un dubbio, consulto le innumerevoli fotografie
scattate nell’atelier di Coira o, in alcuni casi, telefono a Werni. Per potermi
spedire certi documenti, lui acquista un fax…
Faccio enormi progressi. Una sera torno tardi dalle prove e trovo un
biglietto sul piano armonico nel quale ho appena finito il lavoro d’intarsio
del rosone: “Complimenti. L’hai fatto con bellezza e precisione. Papà”. La
mia famiglia segue i miei progressi un passo alla volta, e stringe i denti
quando faccio troppo rumore o troppa polvere. Vedere una chitarra che
nasce nella mia stanza ha qualcosa di magico. Una sera, io e Éléonore
andiamo al cinema a vedere un filmetto delizioso, Mauvais garçon, nel
quale appare un chitarrista e si ascolta Adelita di Tárrega. Questa musica ci
seduce, ci possiede nelle ore che seguono. Mi ricordo di avere lo spartito
nella pila d’intavolature che mi ha regalato Alain Vian. Lo tiro fuori e mi
metto a leggerlo, con grande felicità. Per inciso, ho appena mosso i miei
primi passi nella musica classica per chitarra. Quest’avanzata non si
fermerà più: imparo brani l’uno dopo l’altro. Werni si lascia coinvolgere e
trascrive per me alcuni brani sotto forma d’intavolatura. Riesco a leggere
uno spartito scritto in maniera tradizionale, ma con un’intavolatura mi sento
più libero. La dedizione di Werni mi colpisce.
La costruzione degli elementi della mia chitarra è quasi ultimata. Non ho
dovuto acquistare chissà che attrezzatura: per la piegatura delle fasce e il
montaggio finale porto i pezzi finiti da Werni. In aprile inizio a dare la
vernice, monto le corde e scopro che, questa volta, ho in mano la chitarra
che desideravo… Werni ispeziona la costruzione, la vernice. E mi propone
di diventare suo socio, cosa che accetto con grande emozione.
Ci accordiamo sul mio ritorno a Coira per due mesi, dopo le vacanze
estive. Ma nel frattempo la mia vita cambia completamente. Io e Franziska
ci lasciamo, incontro una ragazza che mi apre nuovi orizzonti, ma che non
vuole esplorarli al mio fianco. Già molto provato da questi avvenimenti,
devo comunicare a Werni, con grande dispiacere, che non ho più una
sistemazione in Svizzera.
Quel che contraddistingue Werni è la sua capacità di prendere subito in
mano le situazioni, quando riguardano la sua tribù. “Nessun problema”,
risponde. “Vieni, ti ospitiamo noi. Ma non rinunciamo al progetto”. Faccio
le valigie e parto.
Werni e la sua famiglia si sono appena trasferiti in una casa dieci
chilometri fuori città. Mi accolgono a braccia e cuore aperti, come il quarto
figlio della famiglia. Ha inizio una vita quotidiana magica. Mi lancio nella
costruzione di una terza e una quarta chitarra. Mi faccio carico di alcune
riparazioni. È Werni a guidarmi là dove manco di pratica. Approfittando
della mia esperienza con il palcoscenico e con i mass media, mi dedico a
suscitare l’interesse della stampa e del pubblico sul lavoro di Werni. Sono
fiero di vedere che questa ‘campagna’ porta qualche frutto. Nell’atelier
lavoriamo quasi sempre in silenzio. Ma la sera, visto che abitiamo sotto lo
stesso tetto, le nostre conversazioni – alle quali si aggiunge Cecilia (sua
moglie) – diventano degli autentici viaggi, sempre più intimi e profondi.
Scopro la saggezza che vive dentro di lui e che per me, a volte, è decisiva.
Oltre a essere il mio maestro, diventa l’amico più vero e prezioso che io
abbia mai avuto. Un autentico esempio, una protezione. E quest’affetto
venuto dal cielo è reciproco, e la gioia che ne deriva rinforza e sostiene
entrambi. Questa favola si è prolungata. Gli anni sono passati, il nostro
legame non si è mai allentato, la nostra collaborazione si è rafforzata,
abbiamo preso – tutti e due – molte nuove decisioni e strade professionali
ma sempre consultandoci a vicenda. Ci telefoniamo quasi tutti i giorni. E se
ci è impossibile comunicare, sappiamo comunque che esistiamo l’uno per
l’altro, incondizionatamente.
Non posso terminare questo capitolo dedicato alla liuteria senza parlare
del mio primo allievo, Jean-Marie. Una sera, durante una delle nostre
conversazioni e preso da uno di quegli attacchi di riconoscenza che spesso
mi sommergono, dico a Werni: “Come farò a ricambiare, un giorno, quel
che mi hai dato?”. La risposta di Werni è chiarissima: “Non puoi rendere
ciò che ti è stato dato, quindi impegnati a trasmetterlo a qualcun altro”.
Consapevole dell’importanza di una tale missione, decido di attendere un
incontro che mi consenta di realizzarla. Un giorno mi chiama un giovanotto.
Raccomandato da un amico comune, mi spiega che gli piacerebbe imparare
allo stesso tempo la chitarra e la liuteria. Come capita a tutti i liutai, è una
richiesta che mi sento fare spesso. Questa volta, però, l’approccio è
piacevole e propongo a Jean-Marie di prendere, almeno in un primo tempo,
lezioni di chitarra, nel corso delle quali affrontiamo regolarmente
l’argomento liuteria.
Lui osserva i miei attrezzi, il mio legno, le mie foto, i miei libri. Un
giorno, senza ‘appuntamento’, decidiamo di recarci al faubourg. Lo
accompagno, lui acquista i suoi primi materiali. Sceglie del legno tra quello
della mia scorta, gli passo alcuni dei miei utensili. Il suo appartamentino si
trasforma in un campo trincerato per un liutaio appassionato. Tempo
qualche mese, mentre tra noi s’instaura un rapporto di fiducia e nasce
un’amicizia, Jean-Marie costruisce la sua prima chitarra mostrando una
capacità innata. Io lo accompagno con il rigore e l’affetto che mi aveva dato
Werni. Jean-Marie avrà la fortuna di lavorare su commissione fin dalla sua
seconda e terza chitarra.

Il teatro
Con la stessa importanza dei concerti, il teatro ha da sempre fatto parte
della mia vita. La descrizione di come ci comportavamo ai concerti si
applica, con ogni evidenza, anche allo spettacolo. Fin dalle prime volte,
affascinato ed entusiasta, mi affanno a osservare e analizzare tutti i modi di
funzionamento e tutti i rituali del teatro, dal balletto delle maschere fino ai
saluti e agli applausi passando per le tre scampanellate, il movimento del
sipario e quello degli attori, le loro entrate e le loro uscite, l’inizio degli atti
eccetera.
Spesso, soprattutto dai miei nonni a Lézan, dove la famiglia si riuniva,
mettevamo su – come tutti i bambini – degli ‘spettacoli teatrali’ cui
invitavamo tutto il parentado.
Un po’ più avanti, dopo aver registrato dalla radio una trasmissione
integrale della deliziosa commedia di Sacha Guitry, La parola di
Cambronne, decidemmo di impararla e recitarla in famiglia. Ascoltai e
riascoltai la commedia fino a riuscire a imitare anche la più piccola
intonazione dello stesso Guitry, di cui avevo scelto la parte.
Andò allo stesso modo per Topaze, di Marcel Pagnol. Papà possedeva una
registrazione fatta negli anni Sessanta. Per parecchi mesi fu il nostro disco
preferito. A forza di ascoltarlo e analizzarlo finimmo per impararlo a
memoria, scena dopo scena, inflessione dopo inflessione.
In seguito mi specializzai nell’imparare gli sketch dei miei umoristi
preferiti e riproporli al pubblico di famiglia. Più tardi ancora, visto che i
nostri amici Zelda e Némo si occupavano di teatro amatoriale con i loro
genitori, io e Éléonore ci ritrovammo regolarmente coinvolti, con grande
piacere, nei loro allestimenti. Preso dal gioco, ho anche scritto per loro un
testo teatrale, Le cheval noir.
Nonostante tutto questo, non ho mai preso in considerazione l’idea di
dedicarmi al teatro come attore.
Qualche anno dopo, ai tempi di quelle famose vacanze con Franziska nei
Grigioni, in cui sfoglio le pagine gialle regionali alla ricerca del numero di
telefono di Werni, la nostra amica Kristine, giovane tedesca con la quale
siamo venuti da Parigi, mi dice che sta allestendo – assieme agli allievi del
suo corso di teatro – un lavoro tratto da Shakespeare. E che stanno anche
cercando un musicista per quello spettacolo.
La proposta mi piace subito. Tornato a Parigi, incontro la piccola
compagnia e il suo regista, Giancarlo. Il contatto funziona. Mi avevano
avvisato che Giancarlo non è sempre un tipo accomodante. Non avverto
niente del genere, sono colpito dalla sua competenza, dalla sua
professionalità, dal suo rigore, che ricorda quello delle professioni sceniche
‘a rischio’ come la danza o il circo. Quando mi chiede di suonare, faccio
appello alle tecniche d’accompagnamento che ho sviluppato per la danza,
aggiungendo l’atteggiamento musicale che m’ispira, lì per lì, la presenza di
interlocutori che parlano.
Giancarlo apprezza. Decidiamo di collaborare su questo progetto. Durante
le ore di prova, osservo Giancarlo con molta attenzione: il mestiere di
regista, che sto scoprendo, inizia ad affascinarmi.
Dopo l’unica rappresentazione di questo lavoro rimango in contatto, più o
meno frequente, con Giancarlo. Ci invitiamo reciprocamente ai nostri
spettacoli, ma non si delinea alcun nuovo progetto.
Da parte sua, Delphine lavora con un amico comune, che dirige una
piccola compagnia e un piccolo teatro parigino proprio nel cuore
dell’edificio abbandonato dei magazzini frigoriferi della Sncf, affittato e
reso vivo da un brulicare di ogni genere di artisti. Ogni tanto andiamo lì a
fare le prove. Delphine cura le coreografie di alcuni spettacoli della
compagnia. Poi mi sento proporre di farne parte e di associarmi a un doppio
progetto. Si crea una perfetta alchimia, io compongo e interpreto la musica
di entrambi gli spettacoli. Per l’appunto, la compagnia viene riorganizzata e
ci propongono di farne parte. Aderiamo con entusiasmo. Non esiste una
vera e propria gerarchia, tutti quanti hanno una grande responsabilità e i
ruoli si dividono (o si scelgono). Poco tempo dopo, si decide di ristrutturare
la sala, di farne un piccolo teatro con tutti i crismi e di organizzare un
festival. La compagnia è tenuta assieme da un grande rigore e dall’amicizia
profonda tra i suoi membri. La nostra Accm Fusion si unisce a essa, i nostri
spettacoli sono creati e presentati in comune. Con l’aiuto di Werni, supero
uno scoglio importante: l’aggiunta di un convertitore digitale alla mia
chitarra. La mia musica assume una nuova dimensione, invento
l’electroclassic®, ne deposito il marchio e stabilisco il codice.[8] Andrò per
sei anni in quel teatro, con Delphine e le nostre due sorelle, quasi ogni
giorno. Proviamo presto, prima degli altri, verso le sette del mattino. E ce
ne andiamo, spesso a notte fonda, chiudendo la sala dopo una giornata di
festival.
Mi accosto a tutti i mestieri del teatro. Perché lì facciamo tutto. La cucina.
La sartoria. L’accoglienza al pubblico. La gestione delle scorte, del
magazzino, delle lampade. L’installazione delle gradinate. Il montaggio
delle luci. Lo smontaggio delle luci. I bozzetti dei volantini. La correzione
dei testi. La costruzione delle scenografie. L’elaborazione dei costumi. La
verniciatura. La regia. La scrittura. La musica. Le coreografie. Le
riparazioni. La spesa. La programmazione. Il casting. La contabilità. Le
prove. L’amministrazione. I manifesti, la biglietteria, i programmi di sala.
Di volta in volta sono musicista, regista, compositore, barista, cassiere,
direttore, correttore, tecnico, telefonista, professore, produttore, maestro
accompagnatore, falegname, designer, interprete, saldatore, elettricista,
ritagliatore di gelatine, sorreggitore di scale a pioli, addetto alle pubbliche
relazioni, preso dal panico, pieno d’allegria…
Per il nostro festival, mi viene l’idea di invitare la compagnia di
Giancarlo. Va tutto bene, e lui diventa uno dei fedelissimi della nostra
struttura.
Un giorno, mentre presenta uno spettacolo con una nidiata di allievi, mi
prende da una parte e mi dice: “André, avresti voglia – su due piedi, perché
il musicista inizialmente previsto ci ha appena lasciato – di comporre la
musica del mio prossimo spettacolo? La prima è fra tre settimane; dopo di
che, ti portiamo al festival di Avignone. Saresti così pazzo da dire di sì?”.
La mia fiducia in Giancarlo è grande quanto il desiderio di lavorare con lui.
Recarmi al festival di Avignone mi rende felice. Raccogliere la sfida di
comporre e organizzare un’ora e mezzo di musica in un intervallo di tempo
così breve mi stuzzica. Accetto.
Nel primo fine settimana di prove, chiedo a Giancarlo e alla sua
compagnia di farmi vedere il lavoro una prima volta, da semplice spettatore.
Il testo di Xavier Durringer mi sorprende e mi colpisce. Alla seconda prova
faccio qualche intervento musicale, sparso qua e là. Alla terza finisco di
comporre la musica. Siamo commossi e felici. Dopo le prime parigine,
partiamo per Avignone.
Andiamo in scena per un mese, tutte le sere. Io sono al settimo cielo:
scoprire Avignone e le sue tradizioni è, nelle mani di Giancarlo, una felicità
costante. L’anno successivo torniamo con due spettacoli e una compagnia
allargata. Non ne sono più soltanto un ospite, sono diventato un membro.
Sotto molti aspetti, l’esperienza acquisita sul campo mi permette ogni
giorno, con la massima naturalezza, di farmi carico di ruoli che escono
dall’ambito dei miei incarichi di partenza.
La responsabilità che mi affida Giancarlo cresce di giorno in giorno. Il
nostro rapporto si trasforma in una sincera amicizia. Io lo considero come il
migliore dei capitani, sono fiero di essere un ufficiale a bordo della sua
nave. Più lo guardo, più sono colpito dalla molteplicità e dall’intensità delle
cose che sa fare. Riesce a estrarre, grazie a un lavoro meticoloso e con
un’empatia silenziosa, il meglio da ciascuno di noi. Dopo il secondo festival
di Avignone ha inizio la gestione degli spettacoli. Bisogna rendere
professionale e organizzata la compagnia. Anche se sono allergico alle
scartoffie, ne divento l’amministratore.
La mia vita quotidiana si divide tra l’Accm Fusion e le altre due
compagnie. Ma, salvo quando non coincida con un periodo di
rappresentazioni, m’impongo di lavorare una settimana al mese con Werni.
Nel corso degli anni, il volto delle compagnie si trasforma: mentre una
sospende temporaneamente l’attività, io esco dall’altra, il ‘mio’ teatro, a
causa di un grosso disaccordo con il suo presidente, lasciandomi alle spalle
sei anni della mia vita.
Ma, assieme a Giancarlo, continuo ad allestire spettacoli in stretta
collaborazione. Non tutto è sempre idilliaco, affrontiamo crisi, incidenti,
annullamenti, slealtà, rischio di fallimento, ma incontriamo anche il
coraggio, l’abnegazione, la riconoscenza, il successo…
Nell’avversità come nella gioia, il legame che ci unisce si rafforza. Oggi
neanche ci viene in mente di allestire degli spettacoli l’uno senza l’altro, né
di passare un giorno senza parlarci. Abbiamo fondato una nuova
compagnia, scelto dei nuovi soci, assunto tutti i ruoli, investito tutti i nostri
mezzi, fatto valere la nostra esperienza e le nostre competenze allo scopo di
creare senza concessioni, di spronare il successo e, soprattutto, di restare
fedeli alla nostra etica.

Il giornalismo, la scrittura
Da sempre ho visto papà scrivere; da sempre i libri hanno fatto parte della
nostra realtà e, tra essi, per me è sempre stato naturale trovarne qualcuno
scritto da lui.
Fin dalla mia più giovane età ho giocato a scrivere. Talvolta al fianco di
papà. Ho creato innumerevoli volumi piegando e riempiendo fogli di carta.
In certi casi li cucivo nel mezzo, con l’aiuto della mamma, per farne ‘veri e
propri’ libri che riempivo di metodici zig zag e, più in seguito, di lettere
sparse. Nessuno mi ha mai spiegato i concetti di copertina, titolo, foglio di
guardia o quarta di copertina: è stata la semplice osservazione a rendermeli
evidenti fin dal principio.
In seguito, ho dedicato un fascicoletto a ciascuno dei miei centri
d’interesse: l’antica Roma, ‘Toco’ il mio robot di Lego (sul quale avevo
inventato tutta una storia), la lavorazione del rame, le automobili, la Leica,
la Simca 1100, il mio dragster, la fotografia e, in pratica, tutte le mie altre
occupazioni, fossero durevoli oppure no. Allo stesso modo, ho scritto
moltissime storie. In generale, dopo la prima stesura, m’impegnavo a
riscriverle in bella calligrafia, o addirittura a macchina. Mi occupavo
dell’impaginazione, del rispetto delle regole tipografiche, di usare la carta
più spessa per la copertina. E provavo sempre un grande piacere a guardare
e riguardare il frutto del mio lavoro. Molto presto, poi, ho scoperto di avere
una particolare inclinazione per il giornalismo. Ho sempre adorato i
giornali, le riviste, le gazzette. A papà arrivavano a casa alcune
pubblicazioni, e io ne analizzavo in maniera sistematica la forma, ancor
prima di saperne decifrare il contenuto.
Appena ho imparato a scrivere, ho concepito e realizzato, senza nessun
aiuto, un bollettino d’informazione familiare, regolarmente spedito ai miei
nonni. Anche in quel caso, prestavo grande attenzione ai ‘fogli stile’,
all’inserimento delle fotografie (solitamente prese con l’automatica del Bon
Marché), all’immutabilità del ‘design’ e delle rubriche. Avevo ingaggiato la
mamma come co-redattrice e Éléonore come illustratrice. È grazie a questa
Information familiale che ho apprezzato per la prima volta il piacere di
‘chiudere’ il numero di una pubblicazione… Qualche anno più tardi,
ispirato da certe letture deliziosamente antiquate, ho fondato il Petit Journal
des enfants, del quale Éléonore era l’unica destinataria.
Lavoravo senza sosta alla ricerca di idee per gli articoli, che scrivevo in un
linguaggio volutamente adatto ‘ai bambini’ e che illustravo a colori, e
consegnavo il giornalino nei tempi previsti. Di tanto in tanto, ci prendevo
molto gusto a ‘modernizzare’ il progetto grafico e ad annunciarlo con lo
strillo ‘nuova versione’ messo di traverso sulla copertina.
Avevo all’incirca quindici anni e la mia passione per le automobili era al
culmine. Némo (di qualche anno più piccolo di me) iniziò a diffondere tra i
suoi conoscenti, i membri della famiglia e i clienti del padre, un giornalino
culturale dal titolo L’Hebdomadaire. Ne divenni subito un lettore. Dopo di
che proposi a Némo di creare un supplemento di una pagina dedicato ai
motori. Lui accettò e io mi misi a redigere questa pagina aggiuntiva che
battezzai GAZette d’échappement. Anche in quel caso prestai la massima
attenzione a creare e perfezionare l’impostazione grafica e le rubriche.
Sviluppai una calligrafia che assomigliava ai caratteri a stampa e definii un
apposito ‘tono’ e uno stile d’illustrazione.

L’avventura mi portò più lontano del previsto. Dalla sua unica pagina
iniziale, la GAZette passò via via a quattro, addirittura a otto pagine. La
redazione degli articoli mi prendeva molto tempo, proprio come la
realizzazione delle illustrazioni. I lettori ponevano domande molto precise
cui m’impegnavo a tutti i costi a rispondere, anche se mi costava lunghe ore
di ricerca. Ma quel che mi prendeva più tempo era l’impaginazione. Da
perfezionista quasi maniacale, passavo ore intere a copiare in bella i miei
articoli, intollerante verso le linee irregolari o inclinate. Poi, una volta
fotocopiato il giornale in bianco e nero, creavo degli stampini per colorare
in serie le mie illustrazioni! (Il che implicava preparare in sequenza le
suddette immagini, alla maniera delle basi per colorare).
La mia GAZette d’échappement divenne un’autentica ossessione. La
vastità dell’impresa, la quantità delle rubriche (tra cui un supplemento, che
mi consentiva di dare libero sfogo a un lato più romantico…), unite al
bisogno di mantenere la periodicità settimanale, mi portarono a dedicare sei
giorni alla settimana a questo incarico (mi concedevo un giorno di riposo il
mercoledì, giorno dell’uscita ufficiale) e a conoscere i miei primi veri
stress.
Da parte sua, anche Némo era sfiancato. Passammo a una scadenza
quindicinale. Poi il giornale si spense lentamente, su un ultimo e solitario
numero della GAZette d’échappement. Di lui mi rimangono un ricordo
commosso e un certo orgoglio.
Qualche tempo dopo ebbe luogo il nostro primo spettacolo. La mia
passione per la musica, dapprima parallela a quella per i motori, passò da
quel momento in primo piano. Per due o tre anni la scrittura si è limitata,
per me, alla stesura quotidiana di qualche riga o di qualche pagina nel mio
diario personale. Dal gennaio 1986 non è passato un solo giorno senza che
affidassi alla carta, in maniera semplice e regolare, gli avvenimenti e le
sensazioni che ho vissuto.
8 Con il termine electroclassic® si indica il genere musicale basato sui seguenti principi: 1)
ibridazione tra la musica classica e l’elettronica; 2) ciascuna nota è suonata dallo strumentista nel
momento in cui si sente; il macchinario interviene sulla conversione dei suoni ma non sulla loro
produzione né sulla loro quantità; 3) le tecniche di studio sono utilizzate all’unico scopo di
ottimizzare la qualità del prodotto o delle incisioni, ma non per sovrapporre tracce registrate
separatamente.
È in conseguenza della mia prima grossa pena d’amore che mi sono
rimesso a scrivere, durante il primo soggiorno presso la famiglia di Werni.
Pensavo semplicemente di ‘romanzare’ gli amori incrociati e tempestosi
appena trascorsi; tempo qualche settimana mi trovai ad assistere, quasi a
mia insaputa, alla nascita di una storia, di un paesaggio, di un universo del
tutto coerenti, seducenti, venuti dal nulla. Mi sentivo il semplice reporter e,
a volte, lo spettatore attonito. Come per la musica che compongo, mi
sentivo (e mi sento sempre) travolto da una ‘cosa’ che utilizza il mio lavoro
come intermediario verso una forma visibile, senza essere del tutto una mia
creazione.
E senza troppo chiedermi quale fosse il seguito, mi misi a ribattere tutto il
mio scritto sul primo computer della nostra azienda, nuova recluta
contemporanea di quell’incredibile periodo. Anche impaginato e
meticolosamente allineato in Times, come sapeva fare quella macchina, il
mio manoscritto si avvicinava ancora alle duecento pagine. Ne rimasi
esterrefatto.
Appena dato l’ultimo ritocco a quel manoscritto, un’idea ancor più
inattesa iniziò ad assediarmi la mente. Mi sedetti davanti al computer e la
buttai giù d’un colpo, scoprendo con sorpresa che un certo stile si faceva
valere. Contrariamente ai miei tentativi adolescenziali, avevo la sensazione
che lo stile in questione, di sicuro influenzato dal mio amore per Proust,
Balzac, Camus eccetera, non si limitasse più alla loro goffa imitazione.
Durante la gestazione di quel secondo manoscritto mi resi conto che il
testo si stava trasformando, in maniera del tutto naturale, nel seguito di
quello precedente. M’impegnai dunque a garantirgli non solo
l’indipendenza ma anche il collegamento, così che fosse possibile leggere le
due vicende sia in maniera separata sia consecutiva.
La breccia della scrittura era ormai riaperta. Ogni giorno scrivevo almeno
una pagina di fax a Werni e alla sua famiglia. Vi narravo, in tedesco, la mia
vita quotidiana e le mie sensazioni: una specie di fratellino pubblico del mio
diario privato, ma dalla forma più curata. Scrissi anche due lunghi articoli
su Werni, destinati alla stampa dei Grigioni, Poi, qualche tempo dopo, curai
anche tutti i testi del suo sito internet. Dovevo essere conciso e accessibile
sempre rispettando le aspettative, le esigenze, i desideri di Werni e Cecilia:
una sfida che mi piacque, proprio come perfezionare al massimo grado il
proprio lavoro.
Scrivere in tedesco occupava una buona parte del tempo lasciato libero
dalla musica, dal teatro e dagli spettacoli. Durante le prove, mi capitava di
mettere a frutto ogni pausa per modellare con il pensiero delle frasi in attesa
o in gestazione.
Una di quelle sere ricevetti una lettera da Guinevere, giovane donna
virtuosa del tedesco, cineasta e autrice. Mi aveva visto in una trasmissione
della tv svizzera e voleva farmi qualche domanda. Fu così che ebbe inizio la
più grande avventura di scrittura bicefala che abbia mai conosciuto. Quel
che era cominciato come uno scambio di corrispondenza si sviluppò in
un’epopea epistolare. Malgrado avessimo entrambi un’intensa vita
professionale ci precipitavamo, al mattino, sui nostri computer per leggere
ciò che aveva scritto l’altro. E a volte la stesura delle risposte, rimuginata
durante la giornata, ci portava fino a notte fonda. Ero (e lo sono ancora)
terribilmente lusingato dal fatto che Guinevere condividesse questa febbre,
questa intimità creativa, questo gioco impetuoso, questo ritmo indiavolato.
Quell’ondata di scrittura terminò nel giorno in cui c’incontrammo di
persona. O fu il contrario?
Gli anni seguenti furono dedicati all’inebriante stesura di due ultimi
volumi e a quella, più prosaica, di svariati brevi articoli e testi in tedesco.
È ancora grazie a Guinevere che mi sono innamorato di una forma
moderna di scrittura in pubblico: il forum su internet. Ho scoperto una sera,
quasi per caso, che i lettori della sua rubrica settimanale commentavano i
suoi scritti su un forum. Le discussioni erano brillanti. Iniziai a osservare i
protagonisti e le abitudini di quel microcosmo, poi vi entrai a mia volta
inventandomi un personaggio assai metaforico – probabilmente un po’
troppo, per il pragmatismo di certi habitué – che si ritagliava con costanza
uno spazio. Provai la stessa impazienza, la stessa febbre, la stessa curiosità
di quando corrispondevo con Guinevere. Salvo il fatto che, questa volta,
l’anonimato era totale e la scrittura pubblica.
Non sono rimasto attivo a lungo su quel forum, ma ho finito per prendere
gusto a questa forma di comunicazione, che ha risvegliato in me l’amore
per il giornalismo. Quasi inconsciamente, giocavo con la vaga idea di
coniugare alcuni dei miei mondi preferiti: informatica, musica, chitarra,
scrittura, giornalismo, internet… Ho potuto ben presto constatare che la
strana procedura a cui mi riferivo prima si era, una volta di più, avviata alla
comparsa di questo nuovo interesse: a mia insaputa, l’intero universo aveva
tramato per elaborare una proposta tangibile. Mi sono imbattuto in un
nuovo forum, in lingua francese, dedicato alla chitarra: ne sono stato subito
felice e vi ho partecipato con entusiasmo.
Oltre al piacere di comunicare in pubblico, di scrivere a proposito del mio
amato strumento, ho scoperto quello di fornire un aiuto reale e
disinteressato alle più svariate categorie di appassionati chitarristi, giunti da
ogni parte del mondo. Per tre mesi mi sono impegnato a rispondere a tutte
le loro domande, a perfezionare a regola d’arte sia la forma sia il contenuto
dei miei contributi, ad affinare un’etica il cui massimo obiettivo fosse la
chiarezza e l’assenza di preconcetti. Ho passato ore intere a riflettere su
ogni singola idea, a limare ogni testo, a preparare, inserire e commentare
illustrazioni assai specifiche.
Giacché questo forum è, per definizione, un luogo cosmopolita (in cui
s’incontrano chitarristi di ogni dove, di ogni età, di ogni livello; in cui si
frequenta ogni tipo di chitarra, quindi ogni sorta di musica), vi ho trovato un
terreno ideale per la mia volontà di colmare il divario assurdo che molti
chitarristi continuano gelosamente a mantenere, scordandosi che la chitarra
è, storicamente, il più ibrido, il più soggetto a evoluzione e il più
diversificato degli strumenti.
Abolire il razzismo tra le varie famiglie della chitarra, abbattere le barriere
tra gli esordienti e i veterani, lanciare dei ponti tra le generazioni, consentire
ai dilettanti e ai professionisti di approfittare gli uni degli altri, far cadere il
velo di certi segreti di Pulcinella… questo è stato il mio impegno. Tre mesi
dopo essere entrato in quella comunità ho ricevuto una lettera di Didier,
redattore capo della rivista associata al forum, in cui mi proponeva di
lavorare nella sua squadra. In modo del tutto inatteso, un sogno d’infanzia
diventava realtà. Ero al settimo cielo. Ho pubblicato qualche articolo, dopo
di che Didier mi ha proposto di aggiungere un corso mensile, cosa che mi
ha permesso di adattare la mia serie di esercizi alle opportunità
multimediali. Il lavoro innescato nel forum ha quindi trovato nella rivista
una continuità del tutto naturale, così come un ritmo preciso e regolare.
Qualche mese più tardi, sono entrato nel comitato di redazione della
rivista. E, quando Didier ne è divenuto direttore, mi ha nominato
caporedattore.
Le tecniche fondatrici

Lettura, scrittura e matematica sono, senza il minimo dubbio, le tecniche


fondatrici della cultura occidentale.
Senza lo strumento della lettura, per esempio, non avrei mai potuto
consolidare gli apprendimenti autonomi che hanno fatto di me la persona
che sono oggi. Ma proprio queste tre tecniche di base, vista la loro
onnipresenza, possono essere acquisite nel modo più naturale possibile,
senza alcuna necessità d’intervento esterno. Abbiamo tutti imparato la
nostra lingua materna a modo nostro e con il nostro ritmo. Così come
abbiamo imparato a camminare o a usare consapevolmente le mimiche e le
gestualità della nostra cultura. Senza metodo, senza organizzazione esterna;
attraverso la semplice osservazione, l’ascolto attento, l’autentica imitazione
del mondo circostante. È noto anche che se domani vi abbandonassero in
mezzo a una tribù che si esprime in una lingua sconosciuta, capireste e
parlereste quell’idioma in pochi mesi, anche senza scrittura, senza scuola e
senza lezione numero uno… Non c’è dunque da stupirsi che abbiate
appreso la vostra lingua materna in maniera implicita, a modo vostro, con il
vostro ritmo, nel cuore della vostra famiglia. Cosa c’è di strano che io abbia
imparato a leggere e a scrivere allo stesso modo? Molti genitori sostengono,
ogni giorno, che il loro bambino sapesse leggere prima di andare a scuola e
senza che loro gliel’avessero insegnato. Sorprende che nessuno di loro,
facendo questa constatazione – prova che sono lungi dall’essere un caso
isolato – abbia immaginato che le cose, alla fine, sarebbero potute andare in
quel modo in tutti gli altri campi se si fosse lasciato al bambino la libertà di
fare le sue scoperte e i suoi incontri collegati tra loro.
Perché continuiamo a ritenere che la facoltà di imparare da autodidatti sia
limitata al camminare, al parlare e al leggere?
Primi passi verso la lettura
Verso i tre anni, guardando intensamente una pagina scritta, esclamai: “Oh!
Ci sono delle uova e dei portauova!”. Papà e mamma, incuriositi, si
avvicinarono. Mostravo loro con il dito la combinazione dei caratteri ‘C’ e
‘O’![9]
Ecco: i primi segni di scrittura che ho incontrato erano la C e la O. Sono
forse l’unico sulla terra ad avere iniziato in questo modo, e vi sembrerà di
certo aberrante imporre a tutti i bambini del pianeta un metodo che cominci
per C e O… ma allora… che ne è di quelli che iniziano per A e B? Se
descrivo qui come ho acquisito queste tecniche fondatrici, è perché voglio
sottolineare che ci sono tanti modi di insegnare quanti sono gli individui.
Per quanto naturale fosse, il mio modo non si può affatto generalizzare. Non
più di un qualsiasi altro metodo. Poco dopo constatai la presenza di uova
senza portauova e di portauova senza uova. Poi quella di uova con una coda
(Q) e di code senza uova (I) ecc. Volli sapere di cosa si trattava. E me lo
spiegarono senza fioriture. Capendo il ruolo di quei segni, volli conoscere il
nome di ciascuno di essi come pure il suono corrispondente (“Come fa?”,
chiedevo…).
Il mio primo gioco fu di individuarli. In tal modo, notai che c’erano dei
gruppi di lettere e mi spiegarono, in modo sempre sobrio, di cosa si
trattasse. Così, già a tre anni, sapevo decifrare le parole. Divenne addirittura
la mia occupazione preferita. Ne incontravo dappertutto e m’impegnavo a
interpretarle: “llll… lllliiii… lllliiiibbbb… lllliiiibbbbrrrr…
lllliiiibbbbrrrrooo… libro!”.
Papà e mamma acconsentivano con un cenno del capo. Nessuno
commentava, nessuno applaudiva, nessuno emetteva dei “bravo” entusiasti.
Nessuno, poi, suggeriva un altro ritmo, un’altra parola, un altro modo. E
nessuno si allarmò per l’apparente rallentamento del mio livello di lettura
per parecchi anni. Cinque anni, sei anni, otto anni… altri si sarebbero
strappati i capelli, si sarebbero chiesti: “Ma André saprà leggere un
giorno?”, se ne sarebbero fatti un problema, una patologia, un’ossessione.
Papà e mamma avevano piena fiducia. Per togliersi ogni dubbio, a loro
bastava assistere al fiorire delle mie giornate come una cornucopia e
osservare la mia irrefrenabile forza di apprendimento in tutti i campi di mio
interesse.
Inoltre non volevano rischiare di calpestare, per ignoranza, un processo
invisibile. Hanno fatto bene! Verso gli otto anni – ricordo come se fosse ieri
– aprii il volumetto La storia dei coniglietti Flopsy di Beatrix Potter e lo
lessi scorrevolmente. Ad alta voce. Senza fasi intermedie. La mamma me
l’aveva letto mille volte, non andavo alla cieca. Eppure, io stesso ero
sconcertato per la facilità con la quale ‘sentivo’ le parole man mano che le
incontravo. Non le decifravo più, ne vedevo il suono. Presi un altro suo
libro, Sophie Canétang. Non lo conoscevo certo a memoria. Ma anche in
quel caso la lettura scorreva da sola. La maturazione era avvenuta al riparo,
dentro di me, in silenzio.
Quel nuovo strumento mi affascinava. Mi misi alla prova su altri libri,
presi a caso.
Il primo ‘vero’ libro che lessi, qualche giorno più tardi, fu Un condannato
a morte è fuggito di André Devigny. La storia, che papà mi aveva
brevemente raccontato alcuni anni prima, mi affascinava al punto che
confezionai, come l’autore, delle corde con tessuto e filo di ferro. Dubito
che questa storia faccia parte delle prime letture solitamente consigliate…
Poi affrontai Memorie di un asino della contessa di Ségur. Il seguito lo
conoscete già.

Prime nozioni di matematica


Se è vero che la matematica avanzata richiede un apprendimento specifico,
la sensazione matematica, invece, viene da sola. Per quanto mi riguarda,
come ho già detto in precedenza, tutte le nozioni di addizione, di
moltiplicazione e di divisione mi sono diventate familiari in seguito alla
manipolazione e alla combinazione dei bottoni sui mattoncini della Lego.
Tuttavia, avevo affrontato il calcolo molto tempo prima, in un modo del
tutto personale; i fatti riferiti dai miei genitori – non ne ho il minimo ricordo
– sono molto caratteristici. Seduto a tavola, intorno ai quattro anni, mi ero
guardato le mani e avevo detto: “5 è la metà di 10”. Dopo aver chiuso i
pollici, avevo proseguito con l’osservazione: “4 è la metà di 8”. Avevo
continuato a ripiegare le dita, in modo simmetrico, fino a terminare la
scomposizione: “3 è la metà di 6… 2 è la metà di 4… 1 è la metà di 2”. È
particolarmente interessante notare che ho iniziato a fare i calcoli partendo
dalla divisione. La scuola offre un unico primo approccio: l’addizione,
imposta a milioni di bambini, ciascuno potenzialmente detentore di una
logica diversa.
Per alcuni anni ho raccolto qua e là, per caso e nel modo più strano, una
grande quantità di strumenti matematici di base: una frase, udita durante
una conversazione (“5x5 = 25”), osservazioni personali (il numero 80
contiene davvero quattro 20, come dice il nome;[10] siccome il 20 per cento
di 100 è 20, di conseguenza 10 lo è di 50 e 1 di 5; restano sempre 2 uova
nella scatola da 6 quando la mamma ne cucina 4…), situazioni della
quotidianità (la moneta resa dai commercianti, uno dei miei grandi centri
d’interesse!), piccoli trucchi forniti dalle persone intorno a me (per
moltiplicare per 8 o 9 prendere il 10 e fare una sottrazione …) ecc.
Con gli anni, ho sentito la necessità di avere la padronanza di alcune
nozioni matematiche. Vedevo spesso la mamma fare le somme su un pezzo
di carta. Quando glielo chiesi, mi spiegò come procedeva. Il gioco mi
piacque tantissimo e per qualche tempo sommai tutto ciò che era possibile.
Per esempio i prezzi degli articoli quando facevamo la spesa, a costo di
ritardare un po’ il passaggio in cassa…
La mamma mi mostrò anche come faceva le sottrazioni e le
moltiplicazioni. Ma quei giochi, per i quali non trovavo nessuna
applicazione pratica nella mia quotidianità, non mi piacquero e li lasciai da
parte. Più tardi assimilai sul campo i calcoli geometrici necessari per la
lavorazione del rame, e poi le operazioni matematiche che permettevano di
conoscere certe leggi di ottica per la fotografia. Il mio interesse per
l’algebra, comparso un po’ più tardi, era affine al mio gioco incessante con
la meccanica, gli strumenti e l’informatica. I miei due professori già citati,
mio zio e un amico inglese, si erano subito resi conto che bevevo come una
spugna gli esempi collegati a situazioni e utilità della mia vita quotidiana.

La scrittura
Il primo strumento che afferrai fu una penna. Non appena fui capace di
tenerla in mano, mi misi a disegnare su veri fogli bianchi che mi ritrovavo
davanti e che venivano sostituiti man mano che finivo il disegno. Svolgevo
quest’attività in modo molto serio. Mi sistemavo sulla mia piccola
scrivania, e il rituale era sempre lo stesso. I miei genitori mi stavano
accanto (per maneggiare i fogli, sistemare i disegni finiti ecc.), mi
dedicavano tutta la loro attenzione ma, ovviamente, senza mai commentare
o intervenire. Sentivo la loro presenza, non avevo il minimo bisogno di
attirare la loro attenzione. Terminato il gioco, riponevano la penna e io
passavo ad altro. Papà, del resto, lo spiega: per il bambino, il gioco del
disegnare e del dipingere, purché sia del tutto rispettato, consiste nel
manipolare tutti i giorni le Figure primarie che si presentano a lui e a tutti i
bambini. Si dà il caso che i caratteri dell’alfabeto latino siano tutti affini a
queste Figure primarie. Così il bambino, arrivato a una certa fase della sua
evoluzione, gioca con le rassomiglianze riscontrate tra le Figure primarie e
gli oggetti della sua quotidianità, e quest’affinità tra le lettere dell’alfabeto e
quei segni familiari lo divertono in modo straordinario.
Per me, quel gioco assunse vari aspetti. Mi divertivo a combinare le lettere
e a cercare di determinare il suono che ne risultava. Dato che di solito non
riuscivo a trovare un nesso con un vocabolo noto – e ne avevo ben donde! –
mi rivolsi ai ‘grandi’, che invece producevano i suoni più curiosi… Per
caso, trovai nuovi amici molto divertenti: i digrammi. Peraltro provavo un
grande piacere a riprodurre, lettera per lettera, alcuni titoli di libri o alcune
insegne. Armato di una penna, ricordo di aver passato un bel po’ di tempo a
trascrivere su un foglio il titolo completo di un libro di papà. In seguito,
riuscii a decifrarlo e fui felice di constatare che voleva davvero ‘dire
qualcosa’.
Un terzo gioco consisteva nella scrittura di letterine destinate ai miei
nonni o alla comunicazione quotidiana (lista di commissioni, per esempio, o
un biglietto per papà). Per quest’ultimo gioco, applicavo tre metodi diversi:
chiedevo alla mamma di farmi lo spelling della parola che volevo scrivere;
dettavo la frase alla mamma chiedendole di scrivermela per poterla poi
ricopiare; oppure, un po’ più avanti, scrivevo tutto il messaggio in maniera
fonetica, poi me lo facevo correggere da un ‘grande’ e lo ricopiavo ‘in
bella’ (era molto importante per me che il messaggio fosse perfettamente
corretto prima di inviarlo al destinatario). In tutti e tre i casi, la differenza
tra la fonetica primaria che immaginavo e il modo di scrivere che mi era
indicato mi fece scoprire nuovi concetti: l’ortografia e la grammatica.
Ho dovuto abituarmi un po’ a queste due novità. Mi sono sembrate quasi
empiriche e, in ogni caso, regolate da leggi complesse e misteriose. Il mio
primo modo di assimilarle fu quindi passivo. Tuttavia, quando papà e
mamma rileggevano, su mia richiesta, la brutta copia che volevo ricopiare
in bella, si impegnavano a spiegarmi il come e il perché delle correzioni che
apportavano. Lungi dall’essere temuti come causa prima di castigo, gli
errori facevano da trampolino ad ogni tipo di apprendimento. Poco a poco
acquisivo familiarità e riferimenti. Avevo, certo, le mie preferenze:
l’infinito del primo gruppo, il plurale e le desinenze della terza persona
plurale erano i miei preferiti… Il processo era lento. Quando, dopo qualche
anno, cominciai a leggere con scioltezza, la mia competenza in grammatica
e in ortografia fece un balzo in avanti. Ma acquisii la vera padronanza di
questi strumenti solo molto più tardi, con le lingue straniere. Le regole che
incontravo man mano che le studiavo – soprattutto nel caso del tedesco e
del latino – mi fornirono una base stabile per la conoscenza del francese.
Del resto fu così che si sviluppò il mio amore per la grammatica,
l’ortografia e la sintassi, come pure quello per la tipografia e la
punteggiatura.

Le lingue
L’esistenza di altre lingue è sempre stata naturale per noi, dal momento che
papà parlava in tedesco con i suoi genitori, quando venivano a trovarci o al
telefono.
Capivo solo le poche parole di cui avevo chiesto la traduzione, ma il senso
generale della conversazione mi era abbastanza chiaro, grazie alle
inflessioni, così familiari, della sua voce. A volte, papà ospitava delle
studentesse straniere che ci portavano al parco, a vedere delle mostre ecc.
Era l’occasione di passare un po’ di tempo con persone che parlavano un
altro idioma. A dieci anni mi trovai, per la prima volta, nella situazione di
imparare davvero una lingua. Passai un mese da Bertrand, nella sua casa
vicino a Colonia. Mi portava con lui dappertutto: dal nostro amico vetraio,
alle prove di canto della sua compagna, o a quelle del ‘suo’ trio, al luna
park, alle sue conferenze, da un amico appassionato di treni in miniatura,
nel bar in cui c’era un prestigiatore… lo osservavo mentre si dedicava alle
sue api, imparai a usare la sua mobylette, mi occupavo con passione del
pollaio e delle galline e, la sera, giocavo con i bambini e i ragazzi del paese.
Tra tutti quelli che incontravo e frequentavo nel corso di quelle giornate
ricche e nuove, nessuno parlava francese. Ero immerso nel tedesco, e
Bertrand mi aiutava a imparare, ogni giorno, una parola, una frase, un
concetto nuovo. La particolare costruzione della lingua tedesca non mi
coglieva alla sprovvista: avevo sentito più volte papà tradurre alla mamma,
ad alta voce e parola per parola, scritti e libri in tedesco.
Tornato in Francia, constatai con gioia che alcuni collegamenti
avvenivano da sé e che, pur avendo ritrovato un ambiente francofono, il
tedesco guadagnava terreno nella mia mente.
Alcuni mesi più tardi, trovai tra i libri della mamma un metodo dal titolo
promettente: L’inglese in novanta giorni e novanta lezioni. Affascinato,
decisi di tentare l’avventura. Ma quel metodo non mi diceva proprio nulla.
Chiesi a un amico di darmi una mano, il tentativo fallì. Non c’era alchimia.
Misi le lingue da parte. Alla mamma capitò di interessarsi a un metodo per
imparare il latino. Mi ci misi anch’io. Facemmo alcune lezioni, la mamma
mi spiegò i ‘casi’, un osso duro per i miei undici anni. Alla fine imparai
tutte le forme della rosa e del verbo essere. Le cassette abbinate alle lezioni
mi divertivano più di tutto, imparai qualche canzone popolare in latino. Ma
nemmeno questo metodo, molto scolastico, fece presa su di me. Tornai da
Bertrand tre anni dopo il mio primo soggiorno: il tedesco, che nel frattempo
si era arrugginito, tornò alla ribalta. Lungi dall’averne la padronanza, avevo
comunque una conoscenza rudimentale per comunicare con gli amici del
paese nelle uscite serali. Ma la scoperta della musica, di cui ho parlato in
precedenza, occupò tutto lo spazio.
Di ritorno a Parigi mi dedicai alla musica, e l’apprendimento delle lingue
si assopì nuovamente. Un giorno, un giovane inglese entrò nella galleria di
papà. Proponeva di fare delle traduzioni per pagarsi gli studi. Papà non ne
aveva bisogno, ma gli fece una proposta: “Potrebbe parlare in inglese con i
miei bambini”.
“No, no, no!”, rispose David. “Non sono un professore d’inglese!”.
“Appunto!”, rispose papà. “È proprio per questo…”.
Si trattava di una proposta troppo insolita per David, che si congedò. Ma
ritornò il giorno dopo, dicendo che gli era venuta un’idea e che voleva fare
un tentativo.
All’inizio dei suoi studi si era dedicato al teatro e al mimo. Propose di
utilizzare queste basi per farci esercitare con l’inglese. L’idea funzionò a
meraviglia: lui sceglieva con cura scenette esilaranti o aneddoti legati alle
battute di Winston Churchill, le mettevamo in scena e ridevamo tutti e tre a
crepapelle. La straordinaria mimica, la falsa flemma, il buonumore di David
erano irresistibili, come pure il suo recitare in inglese. Nonostante ridessimo
tanto, questo esercizio ci permetteva di perfezionare la pronuncia, arricchire
il vocabolario e curare la comprensione grammaticale.
Oltre alle due lezioni settimanali dedicate all’inglese facevo anche un’ora
di algebra, che era la materia di David. Ma poco tempo dopo la sua carriera
ebbe una svolta inattesa. Grazie al lavoro che faceva con noi, ritrovò il
gusto dei suoi primi amori: motivato dal nostro entusiasmo, tirò fuori tutti i
suoi sketch e constatò che il mestiere di attore sicuramente gli si addiceva.
Prese coraggio e si presentò a un casting televisivo. Cominciò con il sedersi
accanto alla sua sedia provocando l’ilarità generale. Fu scelto all’istante e
da quel momento si lanciò nella carriera di attore che, ben presto, non gli
lasciò più tempo per noi…
Misi di nuovo da parte l’apprendimento delle lingue. Fino a quando non
incontrai il metodo Assimil. Era un libro vecchio, una delle primissime
edizioni dell’Inglese senza fatica, esclusivamente redatto dal suo inventore,
M. Chérel padre, e accompagnato da tre cassette (di una volta).
Fu un colpo di fulmine. Il metodo, senza costrizioni (non c’è niente da
imparare a memoria) e basato sull’assimilazione quotidiana, era fatto
apposta per me. Lo seguii alla lettera: leggevo la mia lezione quotidiana,
visualizzavo senza fatica la pronuncia fonetica e l’accento tonico, ascoltavo
le corrispondenti registrazioni, ammiravo la finezza del lavoro di M. Chérel,
leggevo tutte le note e incontravo, oltre agli aspetti linguistici, numerosi
dettagli della cultura britannica e americana. E progredivo a passi da
gigante. Mi sembrava un miracolo poter capire le parole delle canzoni,
leggere le istruzioni per l’uso, seguire i film in versione originale…
Dato che l’obbligo richiesto da questo metodo (seguire una lezione al
giorno, senza eccezioni) corrispondeva perfettamente alle mie esigenze,
divorai il primo volume in pochi mesi. Il secondo volume arrivò come un
dono dal cielo, così come il terzo e ultimo modulo, costituito da storie
inglesi e americane. Un soggiorno nelle isole del Canale, con Zelda, Némo
e i loro genitori, mi permise ben presto di constatare ‘sul campo’ quanto
l’inglese si fosse radicato in me e quanto le lingue mi appassionassero.
Alcuni mesi più tardi, papà mi regalò il metodo Assimil per il tedesco.
Conoscendo le mie preferenze, l’aveva cercato e trovato nella vecchia
versione. Questa lingua, cui mi ero accostato più volte e che praticavo da
sempre, mi apparve in tutto lo splendore della sua struttura. I frammenti
sparsi di ciò che avevo imparato fino a quel momento, mossi da un’ondata,
si mettevano in ordine sotto i miei occhi, si riunivano come pezzi di un
grande puzzle e, con un’evidenza sorprendente, trovavano posto in mezzo
alla moltitudine delle nuove conoscenze, raccolte con entusiasmo giorno
per giorno, pagina dopo pagina.
Ero insaziabile. Invece di una lezione quotidiana, ne facevo cinque o sei.
Nessuno m’interrompeva, nessun’altra materia ‘obbligatoria’ veniva a
ostacolare questa priorità, dedicavo la metà delle mie giornate al tedesco e,
di sera, leggevo a papà ciò che avevo appreso durante la giornata,
perfezionando con lui pronuncia e comprensione.
Sentivo dei legami genetici con il tedesco. Papà, che assieme a me
ritrovava la sua cultura germanica (l’aveva tenuta nascosta alla fine della
guerra), condivideva il mio entusiasmo e mi faceva scoprire i tesori della
poesia tedesca. Ero affascinato dal gioco concesso dalle innumerevoli
regole di questa lingua.
Tre mesi dopo avevo terminato il metodo. A quel punto cominciò la vera e
propria collaborazione con papà. Da allora lo accompagnai ogni anno nelle
sue tournée estive di conferenze e stage. Due mesi in giro in vari paesi, ma
soprattutto in Svizzera, Austria e Germania, paesi di lingua tedesca. Gli
facevo da assistente, mi occupavo della tecnica, ero completamente
immerso nel suo mestiere, nelle sue scoperte, nel suo modo virtuoso di
parlarne, di farle conoscere. Scoprivo, in tutta la sua vastità, in tutte le sue
implicazioni, l’importanza dell’opera di mio padre, l’inestinguibile
coraggio, la lealtà scientifica, l’incredibile obiettività che regolano il suo
lavoro – e ne provai un’ammirazione profonda e serena.
E parlavamo in tedesco ventiquattr’ore su ventiquattro. Tra noi (fin dal
simbolico passaggio della frontiera) e con la gente che ci circondava.
Prudente all’inizio, fui veramente sorpreso e rapidamente conquistato dalla
facilità che avevo per questa lingua. Provai una strana felicità nel rendermi
conto che pensavo e sognavo in tedesco. Cominciai a leggere alcuni libri
che mio padre mi consigliava. Non incontravo difficoltà particolari, e mi
accontentavo di cercare sul dizionario le parole che mi sfuggivano. Lessi
altri libri, i grandi classici tedeschi, scoprii Rilke, Goethe, Borchert,
Matthias Claudius e tanti altri! E i miei favoriti: Heinrich Heine e Hugo
Hartung, di cui ho letto quasi tutto.
Il tedesco, la mia lingua paterna, non ha perso niente, oggi, della portata
strutturale che ha nella mia vita. Alcuni anni dopo, sono ovviamente ricorso
al metodo Assimil per imparare il latino e poi lo spagnolo. Non mi è stato
possibile praticare il latino, ma lo spagnolo è stato molto importante durante
le mie tournée con Delphine, in mezzo alla nostra sfavillante coorte.
L’apprendimento di altre lingue resta uno dei miei obiettivi. E ho appena
scoperto che Assimil propone, da poco, un metodo per imparare i
geroglifici…

La cultura ‘generale’
L’arte – il suo progredire, la sua cronologia, le sue genealogie, le sue
derivazioni, i suoi movimenti, le sue epoche, i suoi protagonisti, le sue
opere caratteristiche – è stata il mio principale filo conduttore attraverso la
Storia.
Ben presto, ho saputo collegare gli artisti di mio interesse con la loro
epoca, oppure inserire un’epoca in rapporto alla sua attualità artistica.
Ancora oggi, le biografie dei ‘miei’ artisti mi servono come punto di
riferimento per collocare una data nella storia.
Del resto, la letteratura e la pittura, con le quali ho sempre convissuto,
traboccano di riferimenti storici. Utilizzando questi trampolini, passando da
una domanda all’altra, da un aneddoto all’altro, ho assimilato, nei minimi
dettagli, pezzi interi di storia. Senza mai aprire un libro didattico
sull’argomento. Ovviamente, quando ci si interessa ad alcuni temi in modo
così approfondito, si incontrano e si combinano automaticamente gli
avvenimenti storici che li circondano, li accompagnano, li caratterizzano, li
causano, oppure che ne derivano.
Citerò qui solo alcuni esempi: fin da piccoli, papà e mamma ci portavano
regolarmente a visitare i musei e rimanevo a bocca aperta davanti alle tele
dei grandi maestri che rappresentavano la vecchia Parigi, le sue case sui
ponti, le sue fortificazioni, i suoi ingorghi… Senza che questi fossero mai
l’argomento di una qualunque lezione, osservavo nei particolari le carrozze,
i costumi, gli addobbi dell’epoca, m’impregnavo delle mimiche e degli
atteggiamenti attribuiti ad ogni corporazione, ad ogni statuto; esploravo gli
interni raffinati, le botteghe in chiaroscuro, i soldati e i cannoni. Fui
particolarmente colpito dal ratto delle sabine, dall’incoronazione di
Napoleone, dai grandi temi della mitologia, dalla notte di san Bartolomeo,
Giovanna d’Arco, il Minotauro, il Centauro, i martiri cristiani, le scene di
battaglia, le nature morte, il caravaggismo, la schiavitù… In altre sale
scoprii le icone, le ceramiche greche, le sculture etrusche, i gioielli egiziani,
i fossili e l’archeologia, l’architettura del Medioevo, l’iconografia del
Rinascimento, l’arte africana, la Gioconda, Guernica… prima di imparare a
leggere, avevo imparato a distinguere il romanico dal gotico; Ravaillac mi
era familiare quanto Danton o Maria Antonietta; Hitler faceva parte dei
miei riferimenti come Long Lance, il pizzo di Chantilly, le fibbie delle
scarpe e i cammei.
I viaggi furono un’altra fonte di scoperte e di significativi apprendimenti. I
castelli di Francia e di Navarra (tra cui, certo, quelli della Loira), le
cattedrali, le chiese, le città fortificate, che visitavo regolarmente,
introdussero nella mia vita, nel modo più naturale possibile, delle nozioni
tanto diverse quali la cucina medievale, le armature, le carrozze, i paioli, le
tappezzerie, le feritoie, le travi decorate, i grandi camini, le piccole
piastrelle, le vetrate, le sciabole e le spade, il ferro battuto, i clavicembali, il
barocco, il rococò, i passaggi segreti, gli sbalzi, i graticci, le piccionaie, i
fossati, i ponti levatoi, le scuderie, gli speroni, gli attizzatoi, i paravento, le
pergamene, i letti a baldacchino, le biblioteche, le dorature, gli scaloni
d’onore, i lampadari di cristallo, il pizzo di Alençon, gli inginocchiatoi, i
calvari, i tabernacoli, gli altari, le reliquie nelle teche, le Madonne con
Bambino, le crinoline, i tavolini rotondi, i divani lui e lei, le psiche, le
astanterie, i giardini alla francese, gli smoccolatoi, le serrature lavorate, i
bustini, le carrozze, i cupidi, le alcove, i ventagli, le fucine ecc.
Bayeux e la sua tappezzeria mi tormentarono per molto tempo. Arrivai
perfino a realizzare una tappezzeria epica, cucendo testa a testa alcune
strisce di tessuto bianco sulle quali ricamai per bene tutta una storia,
inventata ispirandomi a fatti realmente avvenuti. I mosaici e l’arte del vetro,
scoperti a Venezia, mi affascinarono tanto quanto l’architettura della città
dei dogi e tra il Campanile di San Marco, la sirena di Copenaghen, il
Manneken-Pis, la galleria Vittorio Emanuele, l’appartamento di Anna Frank
o le marionette di Salisburgo, non saprei dire cosa abbia segnato di più la
mia infanzia. Un viaggio in Normandia mi diede la possibilità di incontrare
‘materialmente’ la Seconda guerra mondiale, già resa molto familiare da
una trasmissione di Henri Amouroux (L’histoire a quarante ans) e da tutto
ciò che papà ci raccontava ogni giorno. Questo interesse fu rafforzato, un
po’ più tardi, da numerose mostre, conferenze e proiezioni di film storici,
alcuni dei quali alla Cinématèque, dove Delphine mi portava regolarmente.
Abbiamo fatto dei viaggi per andare sulle tracce dei ‘nostri’ grandi
uomini: Dvořák a Praga, Van Gogh ad Amsterdam, Georges Sand a Nohant,
Brahms a Thun, Mozart a Salisburgo, Rilke a Raron, Giovanna d’Arco a
Reims ecc.
Come ho già detto più volte, a casa nostra arrivava un gran numero di libri
monografici, che approfondivano gli argomenti più vari. Alcuni
stimolavano problemi o un apprendimento in corso, altri erano,
semplicemente, dei bei testi, o avevano buone probabilità, un giorno, di
motivare, sostenere o nutrire un interesse particolare.
Consultare quei libri mi fu naturale prima ancora di imparare a leggere. La
mamma me ne leggeva alcuni (sull’antica Roma o su Giovanna d’Arco, per
esempio), mentre io divoravo tutte le illustrazioni di altri, soprattutto quelli
sugli animali. Quei libri imparziali, che non erano rivolti a un pubblico di
bambini, fornivano tutti i tipi d’informazione. A volte mi scontravo con
argomenti duri come il pasto dei predatori, la schiavitù, la Rivoluzione, le
maree nere, Hiroshima, Auschwitz: ma queste tematiche realiste, che nel
mio ambiente nessuno cercava di censurare o edulcorare, mi colpivano, mi
preoccupavano, ma non mi traumatizzavano affatto. Non appena imparai a
leggere, quei libri mi diedero accesso a mondi straordinari, a conoscenze
allo stesso tempo universali e del tutto singolari.
L’Atlante del corpo umano e altri libri di anatomia – nei quali incontravo
universi sorprendenti come quello degli organi, dei virus e dei microbi –
ebbero un’importanza particolare nella mia scoperta del mondo, come pure
un’incredibile collezione sui tesori della geografia (dai bayou della
Louisiana alla Great Rift Valley, passando dal lago Natron), redatta e
illustrata da esploratori appassionati. Mi venne la febbre mentre divoravo il
libro Molécule la merveilleuse e scoprivo la meccanica quantistica, le
differenza tra gas, liquidi, solidi e plasma, il funzionamento del sapone, la
composizione dell’acqua, dell’aria ecc. Quanto entusiasmo nello scorrere
appassionanti pagine di libri sugli argomenti più svariati: la meteorologia, la
“storia antica d’invenzioni moderne”, la costruzione delle cattedrali,
l’invenzione dei telai Jacquard, la vita dei gorilla delle montagne, i passage
di Parigi, la vita notturna degli animali, l’architettura al tempo dei faraoni,
la fabbricazione di dolci e profumi, Alessandro il Grande, i fratelli Lumière,
la cucina ayurvedica, i templi indiani o la vita e l’opera di d’Alembert
(incontrato attraverso gli strumenti, mi offrirà un motto fondamentale:
“Saper attendere e dubitare”)!
Ricordo il mio stupore nello scoprire la spiegazione di fenomeni così
familiari come l’effetto Doppler (come tutti i bambini, anch’io imitavo il
rumore del motore di una macchina che si avvicinava e poi si allontanava) o
nell’incontrare, con nostalgia, l’epoca in cui i filosofi erano allo stesso
tempo artisti, scienziati, storici e politici. Feci la conoscenza di Copernico e
di Newton studiando l’astronomia, di Archimede durante lo studio della
meccanica, di Darwin tra le pagine di un libro sugli animali preistorici.

L’informatica
Non posso terminare questo giro d’orizzonte, per forza frammentario, senza
parlare della mia inclinazione per l’informatica. Molto presto, ho imparato
l’uso del basic, con mio zio Jean. Andavo a trovarlo, alcune sere, sul
lavoro. M’insegnava a programmare un enorme dinosauro le cui capacità,
ridicole ai giorni nostri, ci sembravano straordinarie. La logica quasi
meccanica, secondo cui quella macchina gestiva le cause e gli effetti, mi
piaceva molto. Con il passare degli anni, ho continuato a seguire il lavoro di
Jean e il vertiginoso progresso dell’informatica, ma, per quanto mi riguarda,
ne limitavo l’uso al trattamento del testo per i volantini dell’Accm Fusion.
E poi, un giorno, ho deciso di far entrare il primo computer in casa nostra.
Da allora non ho smesso di approfondire, a piccole dosi, le mie conoscenze
informatiche, spinto da un lato dalla necessità di risolvere un numero
sempre maggiore di problemi e, dall’altro, dalla curiosità e interesse per la
cosa.
Il mio entusiasmo crescente contagiò Werni. Diventammo esploratori
inseparabili, e ci addentrammo, con sempre maggior coraggio, nelle viscere
materiali e logiche delle nostre macchine, sostenendoci reciprocamente e
talvolta spronandoci. Fu Werni a regalarmi il primo portatile, aprendomi
così la porta di un mondo che sarebbe diventato la mia quotidianità.
Quando internet cominciò a svilupparsi, facemmo parte di coloro che
intuirono l’importanza di avere visibilità in rete. Si trattava di un settore del
tutto nuovo e nessuno, nel mio ambiente, sembrava volermi aiutare. Quello
che sapevo d’informatica mi diede il coraggio di lanciarmi nell’avventura.
Partendo da un semplice articolo ritagliato da una rivista specializzata, mi
aprii la strada in quella giungla sconosciuta che esplorai in modo tanto
solitario quanto valorizzante, a volte con la sensazione di mettere tutta la
mia materia grigia a disposizione di una comprensione che si realizzava a
mia insaputa. Alcune settimane più tardi i primi siti di papà, di Werni e del
nostro amico Jacques erano operativi.
Poco dopo, presi la decisione di trasferire tutto il lavoro di papà sui nostri
computer. Éléonore si formò al mio fianco, sul campo, e l’azienda familiare
da quel giorno assunse un nuovo aspetto, caratterizzato dal parco
informatico in sviluppo di cui bisognava garantire la gestione.
L’informatica, ormai quasi innata nelle generazioni più giovani, è un settore
molto complesso in cui l’apprendimento autodidatta è una cosa di ordinaria
amministrazione, e nessuno si stupisce. A maggior ragione, lo stesso
dovrebbe valere per tutti gli altri settori…

E, per concludere, l’infinito


Alcune personalità hanno colorato la mia vita per sempre. Ricordo con
precisione le inflessioni e l’accento tipico di Haroun Tazieff. La mamma lo
ascoltava alla radio, in una serie di trasmissioni dedicate ai vulcani nel
mondo. Innanzitutto mi piaceva la sua voce. Non capivo tutto, ma il suo
modo amorevole e vivo di raccontare i vulcani mi permetteva di
visualizzarli, di farne i personaggi di un racconto epico che il vulcanologo
ci rivelava pazientemente. È quindi grazie alla radio che i vulcani fecero,
per un periodo, irruzione nella mia giovane vita.
Al termine della serie di trasmissioni, ci rimasi un po’ male. Poco tempo
dopo, arrivarono a casa dei libri con illustrazioni spettacolari. Vingt-cinq
ans sur les volcans du globe di Haroun Tazieff. Conobbi il suo volto. Passai
in rivista tutte le illustrazioni. Su mia richiesta, la mamma mi lesse le
didascalie sotto le immagini, poi alcuni passaggi del testo, finché non li
imparai a memoria. Quando venivano Delphine o Nicole, chiedevo a loro di
leggermeli. Per la prima volta, notavo che la voce di un autore poteva
trasparire dietro a quella della persona che legge.
Le fotografie di mucchi di zolfo fresco e fumante mi affascinarono molto
più di quelle dei torrenti di lava. I paesaggi desolati dopo l’eruzione mi
emozionavano più a lungo delle volute di fumo rosa, ma gli omini argentati,
vestiti come dei cosmonauti, al riparo dietro le tute d’amianto, che si
avvicinavano decisi al cratere in eruzione, rimanevano per me l’aspetto più
toccante.
Haroun Tazieff era regolarmente trasmesso alla radio o alla televisione.
Credo di non aver perso nessuna delle sue trasmissioni.
Altro personaggio importante che scelse la radio per entrare da noi:
Hubert Reeves. Anche lui aveva una voce e un accento molto caratteristici.
Raccontava le stelle, e io decollavo. Fatto curioso, nessuno dei fenomeni
che descriveva mi era completamente estraneo, anche se non capivo tutto.
Ascoltavo e memorizzavo i nomi meravigliosi dei protagonisti esotici che il
mio nuovo amico presentava: supernova, galassia, nebulosa, universo,
spazio intersiderale, campo magnetico, anni luce, Nettuno, Urano… Da
allora l’astronomia fa parte della mia vita, è una delle principali finalità del
mio pensiero.
Come sempre, alcuni bellissimi libri su quest’argomento trovarono posto
sul nostro tavolo. Li scorsi tutti, avido soprattutto d’immagini, nelle quali
m’immergevo all’infinito. Nessuno aveva fissato un’età minima per
interessarsi all’argomento e nemmeno una data di scadenza.
Più tardi, cominciai a leggerli e rileggerli per assimilare tutti i fenomeni
esposti. Anche qui il ruolo dell’uomo, dell’astronomo, e soprattutto
dell’astronauta, è stato sempre fondamentale ai miei occhi. Senza
dimenticare quello delle macchine: razzi, navette, satelliti, stazioni orbitali,
moduli lunari ecc., così coraggiosamente umani nella solitudine astrale.
A casa di un amico, che possedeva un telescopio, ebbi l’occasione di
vedere la Luna da vicino e gli anelli di Saturno: fu uno shock emotivo.
Qualche tempo dopo, in occasione di una cena con i miei genitori, feci la
conoscenza di Hubert Reeves in persona. Ma questo incontro dal vivo non
mi diede nessuna emozione, perché quel grand’uomo non era certo
interessato a conversare con un bambino così piccolo.
Tuttavia, grazie alle innumerevoli letture, ai film e alle assidue visite al
Palais de la Découverte, mi sono costruito un territorio alleato nell’ambito
dell’astronomia, una postazione avanzata dalla quale contemplo, ancora
oggi, la magnificenza dell’universo, felice e onorato di conoscere una parte
delle leggi che lo regolano. Gli eroi introdotti da Hubert Reeves sono
diventati miei amici.
Non si finisce mai di imparare. Una conoscenza viva, acquisita
liberamente, non si spegne così come non si congela. Non ho dimenticato
niente di ciò che ho imparato con tanta veemenza.
Non ho mai avuto bisogno di uno ‘stage di aggiornamento’ perché, non
potendo rifugiarmi dietro una qualifica ufficiale, non ho mai smesso di
rinnovare e di affinare sul campo le mie competenze.
Sono felice di aver conosciuto alcuni settori solo dopo aver raggiunto la
maturità necessaria per comprenderli – e amarli davvero – in tutta la loro
dimensione. Per esempio, gli studi del fisico e cosmologo Stephen
Hawking, incontrato quando mi stavo avvicinando alla trentina, furono
un’illuminazione. I suoi scritti, che esaminavo nel dettaglio, mi permisero
non solo di acquisire un’infinità di conoscenze in materie per me
fondamentali, ma anche di compiere un grande passo avanti. Non saprei
dire esattamente perché, ma la mia vita è cambiata dopo aver letto Dal Big
Bang ai buchi neri. Breve storia del tempo.
9 In francese le lettere O e C sono anche le iniziali dei termini ‘uovo’ (oeuf) e ‘portauovo’ (coquetier)
[n.d.t.].

10 Il francese quatre-vingts (ottanta) significa letteralmente ‘quattro venti’ [n.d.t.].


Dopo…

…avervi raccontato la mia infanzia e il mio divenire, mi resta ancora da


condividere con voi alcune riflessioni.
Attorno ai venticinque anni ho cominciato a riflettere sulla mia infanzia.
Perché mi hanno chiesto di raccontarla e perché ho accettato di rispondere a
tutte le domande che questa testimonianza avrebbe suscitato. Mi hanno
invitato a parlare con futuri maestri, a partecipare a convegni. Mi hanno
invitato alla televisione, in Francia e all’estero. Mi hanno intervistato,
hanno fatto dei servizi su di me, mi hanno fatto prendere parte a delle
trasmissioni. Mi hanno invitato sul set di uno di quei famosi talk show che
puntano, per così dire, allo scontro verbale, in cui hanno cercato di mettermi
a confronto con i ferventi difensori della scuola laica e repubblicana, e mi
hanno dato istruzioni mentre mi sistemavano il trucco durante la pubblicità,
come a un pugile tra due round.
Mi hanno chiesto di fare conferenze in Francia, in Svizzera, in Spagna, in
Germania, in Austria, in India, che hanno suscitato grande interesse
innescando così la mia profonda riflessione su quei problemi che si
ripresentavano ogni volta.
Fin dall’inizio, ho cercato di limitare queste conferenze alla semplice
testimonianza. Criticare la scuola non è affar mio, né la mia missione. Tutto
desidero tranne essere il nemico numero uno della scuola. A differenza di
essa e di coloro che la fanno, non ho niente da difendere, niente da vendere:
non sono né l’emissario di una causa da vincere contro di voi, né il
rappresentante di un metodo di cui dovrei vantare i meriti. Ciò che ho
vissuto può essere applicato solo a me; il mio modo di imparare non si può
generalizzare né formalizzare.
È ancora molto difficile, ai nostri giorni, rimettere in questione la scuola,
istituzione che fa parte, nel più-o-meno-inconscio-collettivo, dei diritti
fondamentali del Bambino – poiché, stranamente, esiste questa differenza
tra i diritti dell’Uomo e quelli del Bambino!
Eppure, ciò che ho vissuto mi dà una visione molto diversa. Rivolgo alla
scuola uno sguardo esterno, neutro, poiché quel che succede al suo interno
non mi riguarda, né tanto meno ciò che essa può diventare. Non sono né
giudice né parte in causa. Del resto è buffo che talvolta mi ‘rimproverino’ di
non conoscere la scuola “poiché non ci sei mai andato” quando invece, in
altri settori, agli esperti viene giustamente richiesto di essere indipendenti,
obiettivi ed esterni.
Come spiegare ai membri di una società che l’evidente mancanza
d’informazione sugli argomenti sensibili non offre loro i mezzi di una libera
scelta, senza dare l’impressione di militare per una causa qualunque? Il
marketing consente, per miracolo, di dare alla gente l’impressione di aver
liberamente scelto l’unica possibilità disponibile. Henry Ford diceva:
“Potete scegliere la vostra modello T in tutti i colori, purché sia nera!”.
Eppure è proprio ciò che avviene oggi per quanto riguarda, per esempio,
l’argomento che ci interessa: l’istruzione.
Proponiamo davvero ai giovani genitori una scelta più ampia rispetto a
quella tra ‘scuola pubblica’ e ‘scuola privata’? Non viene forse coltivata la
convinzione che le uniche alternative alla scolarizzazione siano
l’analfabetismo e la disoccupazione? I giornalisti più seguiti dal pubblico
fingono di amare la controversia, ma la generano solo se il risultato sembra
avvantaggiare l’ordine costituito. Il che permette loro di terminare sempre –
come la famosa presentatrice del talk show citato prima – con questa frase:
“C’è del buono e del cattivo da entrambe le parti”, né pro né contro, anzi,
dormite pure, brava gente, va tutto bene…
Le domande…

La competenza sociale / gli altri bambini


La primissima domanda che mi sento porre è sempre questa:
Non hai sentito la dolorosa mancanza del contatto con gli altri bambini?
D’ora in poi so che questa domanda comporta un’aggiunta, un sottotesto
che seguirà immediatamente, sotto forma di argomento: “L’istruzione non è
l’unico ruolo della scuola: è soprattutto il luogo in cui s’impara a vivere in
società, in cui si acquisisce la competenza sociale indispensabile alla vita
quotidiana con gli altri”.
Lasciatemi rispondere con una domanda: perché quindi considerare
fondamentale il contatto con altri bambini? Non è forse più importante il
contatto con altre persone? Il fatto di considerare i bambini come parte di
una categoria distinta da quella degli adulti porta a separarli da essi. Si crea
così un divario, i cui confini sono tenuti a bada con cura. Ai bambini non
resta che avvicinarsi a questo confine a piccole tappe, come in un
videogioco in cui l’accesso ad altri luoghi o a certi strumenti è permesso
soltanto dopo il passaggio al livello successivo. Rispettare le regole del
gioco, evitare i trabocchetti, imparare a riconoscerli da lontano, conoscere i
piccoli trucchi, dare le risposte giuste al momento giusto: tutto questo
consente di guadagnare dei punti, di non perdere i bonus disponibili, di non
dover ‘ripetere’ un livello e di arrivare puntuali alla prova finale.
Come possiamo davvero credere che i bambini socializzino tra loro solo
se frequentano i loro coetanei, chiusi in una classe a tenuta stagna,
condividendo ogni giorno uno stesso programma stabilito nelle alte sfere?
Come possiamo ammettere che la data di nascita e la situazione geografica
dei bambini siano gli unici criteri secondo cui raggrupparli?
Ho vissuto in un contatto e in una condivisione permanente con gli altri:
alcuni più giovani, altri più vecchi. L’arricchimento reciproco derivava
proprio da questa diversità, da questo cosmopolitismo. C’era sempre
qualcosa da imparare da qualcuno, così come c’era sempre qualcosa da
portare a qualcuno. Ho potuto scegliermi gli amici, così come loro mi
hanno scelto. Sono le nostre vite e le nostre strade, i nostri interessi e le
nostre competenze che ci hanno portato a incontrarci, e non la data e il
luogo scritti sulle nostre carte d’identità. Le nostre amicizie si sono formate
giorno dopo giorno. E quando alcune si sono rotte, non si sono trasformate
in guerra fredda a causa di una frequentazione quotidiana, inevitabile in una
classe.

Le ‘motivazioni’ dei miei genitori


Per quale motivo i tuoi genitori hanno deciso di non mandare i figli a
scuola?
Questo libro mi offre il privilegio di cedere la parola ai miei genitori. Sono
molto onorato che entrambi abbiano accettato di scrivere una risposta a
questa domanda. Vi riporto questi due brani inediti, cominciando con quello
di papà.
Quanti genitori mi hanno detto: “Prima di andare a scuola, i miei bambini
disegnavano tanto”. “E poi?”. “Ah, be’, poi basta! Del resto, non avevano
né tempo, né voglia!”.
E lo dicono più con rassegnazione che con rimpianto, considerandolo un
fatto normale. L’inizio della scuola segna il confine tra l’infanzia e la
condizione di studente.
Io che faccio dipingere i bambini – non per sviluppare doni artistici, ma
perché si liberino da ogni condizionamento e scoprano le loro enormi
capacità – sono particolarmente colpito quando vengo a sapere che un
gioco, vitale per il bambino, viene sacrificato, e che i suoi genitori non ne
siano dispiaciuti né sconvolti più di tanto.
Non lo rimprovero, soprattutto a chi ha avuto l’accortezza di affidarmi i
suoi bambini affinché essi, nel Gioco del dipingere, risveglino poco a poco
tutte queste attitudini soffocate e si rigenerino.
Sapendo tutto questo, sapendo che il bambino non ha bisogno che gli
adulti gli insegnino a disegnare e che, se lo fanno, gli rovinano il gioco,
non avrei esposto i miei bambini a un simile trattamento.
Quel che traccia il bambino, nel luogo protettivo creato per il Gioco del
dipingere, non è la stessa cosa dei disegni occasionali fatti per raccogliere
sorrisi e lodi. È una manifestazione che rivela la dimensione della
personalità, la potenza del suo slancio vitale.
No, non era il caso di sacrificarlo ad aridi apprendimenti.
I miei bambini hanno dipinto molto. Il gioco con la traccia era
un’abitudine. Hanno dipinto nel Closlieu, in mezzo agli altri – scolari alla
ricerca di spontaneità, persone adulte desiderose di superare i loro
pregiudizi sterilizzanti – condividendo con loro momenti ricchi di piacere.
Hanno disegnato in ogni circostanza, con matite, penne e altri strumenti.
Hanno ballato, vissuto nel mondo dei suoni. Hanno fatto incontri. Ogni
giorno era pieno di scoperte. Sono cresciuti. Hanno sviluppato delle abilità,
poiché i loro genitori non hanno mai dubitato delle loro capacità e hanno
conservato la loro originalità.
Non ci siamo mai posti la domanda se il nostro modo di vivere con i nostri
bambini fosse corretto o se stessimo sbagliando a non fare come tutti gli
altri. Quante ricchezze per ciascuno di noi! Mancava il tempo per rifletterci
sopra. Sapevamo che la vita è un miracolo che non bisogna interrogare.
Non abbiamo né dubitato né creduto che fosse difficile vivere come
avevamo deciso di fare.
È più semplice non accollarsi il peso dei bambini nella propria vita e
scaricarlo sulla scuola. Il risultato è terrificante: rumore, violenza,
instabilità, disgusto, mancanza di cultura… una vita senza strutture. E i
genitori abbassano le braccia, con la sola giustificazione di aver fatto come
tutti gli altri.
…come quasi tutti gli altri. André e Éléonore, i nostri figli, non sono né
violenti né disperati. Non hanno conti da regolare con nessuno. Per
affermare la loro personalità non devono eliminare alcun concorrente. I
veri creatori non si misurano con gli altri.
Per i nostri figli ogni momento della vita è creativo, sia quando erano
piccoli, sia più di trent’anni dopo. Il mondo è vasto e pieno di promesse.
Arno Stern, febbraio 2008
Ed ecco il brano della mamma:
Ero maestra alla scuola materna.
Non obbedivo all’Istituzione che impone di applicare le raccomandazioni
venute dall’alto della scala gerarchica; non sottoponevo i miei bambini alle
regole della scuola che tentano di farli entrare nel modello di un
programma chiaramente enunciato: quello del consumo forzato.
Resta un solo termine: materna. Per me, essere ‘materna’ non è più una
funzione, ma uno stato; uno stato di fusione, cioè di comprensione profonda
della realtà propria dell’Infanzia.
In un breve periodo di totale inesperienza, avevo tentato di applicare le
consegne pedagogiche in vigore: il tema della vita, ossessionante, e gli
esercizi grafici che preparano i bambini alla scrittura, per non parlare dei
principali artifici impiegati allo scopo di unire il gruppo, di occuparlo, di
renderlo docile invece che fecondo. Ma i bambini – era evidente – si
annoiavano tanto quanto io mi sentivo a disagio. Mi sentivo separata dalla
realtà di ciascuno di loro, inopportuna e inutile.
Trovai il rimedio grazie ai libri di Arno Stern.
I bisogni profondi e le capacità del bambino coincidono alla perfezione.
Per raggiungere questa evidenza bisogna solo lasciare che accada ciò che
nessuno aveva accettato di prendere in considerazione prima di lui: “la
Traccia spontanea”.
Arno Stern l’ha riconosciuta, ne ha esplorato tutti gli aspetti, ne ha
spiegato il senso e il valore inestimabile. Nasce nella Memoria organica di
ciascuno, evolve da sé e come ogni processo naturale, se non si ostacola,
assicura uno sviluppo armonioso dell’essere globale.
Questo rispetto di una facoltà vitale, unificatrice, porta l’adulto a
guardare il bambino in un altro modo, a mettersi al servizio del genio
proprio del bambino (dal latino genialis: relativo alla nascita).
Il bambino conserva a lungo “il genio del feto”. Il feto si costruisce nella
perfezione senza il nostro aiuto. Permettere al bambino di conservare
quella dinamica naturale che c’è in lui, senza ostacolarla in modo sciocco,
è il solo ruolo possibile dell’adulto.
L’educatore, come lo vedo io, consente a ciascuno di impegnarsi nella
propria costruzione, di far valere le sue imprevedibili e immense risorse
personali.
Oggi, ci si preoccupa del crollo della biodiversità animale e vegetale,
risultato della corsa al profitto che devasta il pianeta; ma io, più di
trent’anni fa, mi preoccupavo del ruolo della scuola che operava
inconsciamente per il livellamento e l’uniformità delle persone, già fin
dalla materna.
Se la stessa prodigiosa forza vitale sta dentro tutti, ognuno è comunque
diverso, e bisogna offrire a ciascuno l’occasione di esercitare la sua
particolarità.
Così spariscono i programmi di apprendimento, i suggerimenti inutili, ma
anche i fallimenti che bloccano le energie.
Resta da creare l’irreprensibile organizzazione materiale, da instaurare le
regole serie che preservano la vera libertà. Allora il desiderio di agire
secondo le proprie necessità si manifesta per poi insediarsi in ciascuno,
diventa un’abitudine nella quale la sicurezza, le capacità, le forze,
l’audacia del bambino aumentano senza alcun limite.
Nella mia classe, ogni giorno, all’ultima ora della mattina, i miei bambini
disegnavano con una forte concentrazione, oserei dire con un gran
raccoglimento: rito immutabile e molto proficuo.
Tutti i pomeriggi dipingevano, ritagliavano o modellavano, in laboratori
rigorosamente organizzati, con la stessa serietà e la stessa infatuazione.
Non posso esporre tutto qui, ma solo evocare l’asse principale della mia
pratica per darne un’idea/visuale concreta.
Anno dopo anno si scatenava lo stesso entusiasmo, la stessa ondata di
forze vive, provocando stupore. La scuola aveva persino preso l’abitudine
di affidarmi i casi difficili. I timidi si aprivano, gli agitati si calmavano, gli
impauriti si rilassavano.
Le inesauribili energie si riunivano e legavano il gruppo.
A tal proposito, posso aggiungere un aneddoto amaro ma così indicativo!
I bambini della mia classe, l’anno successivo, andavano alla grande
section,[11] con quell’omogeneità incantata che faceva piacere alla maestra
la quale, tuttavia, aggiungeva: “Ma allora devo aspettare fino a Natale per
costituire i miei tre gruppi”. Sì, la prassi era di dividere la classe in
eccellenti, medi… e gli altri, per… perché poi? Lascio a voi trovare la
risposta: io non la possiedo. Alla maestra servivano quindi tre mesi per
interrompere lo slancio e la voglia di agire – cioè di imparare – di quei
bambini di cinque anni.
La scuola, nella sua rigidità strutturale, spreca la preziosa energia
iniziale. “Il momento dell’infanzia” è il capitale, naturale ma insostituibile,
sul quale si basa la vita di ciascuno: abbiamo il diritto di ignorarlo
all’infinito?
Dopo la nascita di André ho lasciato la scuola per rispondere a una
responsabilità più urgente: prendermi cura del “momento dell’infanzia”
del bambino che avevamo chiamato alla vita.
Ho amato con passione questo mestiere che avevo dovuto reinventare, ho
fatto la scelta personale di lasciarlo per non privarmi di una funzione
ancora più sacra ai miei occhi: quella di genitore.
Va da sé che all’orizzonte non ci sarebbe stata la scuola. Sapevamo qual
era la nostra destinazione, sapevamo che né la scuola ufficiale né la scuola
a casa sono necessarie.
Il seguito è nel libro di André…
Michèle Stern, febbraio 2008

L’indipendenza / la crisi adolescenziale


Quindi non hai vissuto la necessaria conquista dell’indipendenza dai tuoi
genitori, non hai attraversato il sano conflitto al momento di ‘tagliare il
cordone ombelicale’? Come tutti, avrai conosciuto anche tu la crisi
adolescenziale, no?
Tutti? Chi mai ha deciso che questo principio sia universale?
Per quanto mi riguarda, dimenticate questi concetti!
Vi sembrerà strano, ma alcune nozioni mi sono del tutto sconosciute e, in
tutta sincerità, non fanno parte del mio repertorio di riferimenti.
Per esempio, la bella distribuzione del tempo in categorie ben precise e
distinte, facilmente identificabili: lavoro / tempo libero, lavoro / vacanze,
vita professionale / vita privata, apprendimento / svago… ci è del tutto
estranea.
Allo stesso modo, il passaggio da un periodo all’altro (infanzia /
adolescenza / età adulta) non è stato né frammentato né ‘visibile’.
Questa progressione nella continuità, senza appuntamenti, a un ritmo
sostenuto ma individuale, è inerente ad ogni processo naturale.
Al contrario, l’articolazione occidentale delle età attorno a punti cardine
ben definiti – d’altronde non esistenti in natura – è una questione di
condizionamento, tanto artificiale quanto comoda, orchestrata molto presto
dall’abitudine di far coincidere l’età anagrafica con quella scolare.
Non ho conosciuto nessuna delle crisi che ai nostri giorni ci si aspetta da
un bambino che cresce. Bisogna dire che nessuno, nel mio ambiente, le ha
mai considerate necessarie o auspicabili. Nessuno si aspettava che avessi il
complesso di Edipo e nessuno si è preoccupato che non lo avessi per nulla.
Non ho dovuto ‘conquistare la mia indipendenza’ perché l’ho sempre
avuta!
Il che mi ricorda una bella frase del mio amico Schimun: quando un uomo
si lamenta con lui del fatto che, dopo il divorzio, la sua ex moglie gli abbia
“preso tutto”, Schimun risponde: “Quindi non le avevi dato niente, visto che
deve prenderti tutto?”.
Chi dà ‘tutto’ di sé non può in nessun caso vedersene privato, poiché ha
dato tutto. Lo stesso vale per quanto riguarda l’indipendenza.
E non si tratta di una semplice massima!

Il ‘passaggio’ alla vita attiva…


Com’è avvenuto il tuo passaggio alla vita attiva? Quando si è verificato?
Non ti sei trovato colto alla sprovvista quando sei entrato nella vita
professionale, non ti mancava l’esperienza del lavoro, degli altri, degli
orari fissi ecc.?
La mia risposta alla domanda precedente vale anche in questo caso: non ho
conosciuto queste differenze e questi passaggi, semplicemente perché sono
sempre stato immerso nella ‘vita attiva’, la mia e quella degli altri; non
nella capsula più o meno trasparente di colui che viene preparato ‘per il suo
bene’, ma nel bagno immenso, multicolore, inatteso, in eruzione,
integralmente cosmopolita, della pura e semplice realtà. In questa grande
tinozza, l’incontro (addirittura il confronto) con gli altri non è un argomento
teorico, sradicato e semplificato, spiegato a grandi linee secondo un calco
fornito per partito preso, bensì un elemento naturale come gli altri, con il
quale non si mercanteggia più che con gli orari.
Non ho conosciuto la fine degli studi e la necessità del passaggio alla vita
professionale. Non ho dovuto varcare la soglia, talvolta dolorosa, che separa
il sapere teorico – acquisito sui banchi di scuola – dalla sua messa in pratica
sul campo: il campo, io, non l’ho mai abbandonato.
È strano che, anche qui, ci si ‘preoccupi’ per me; non sono gli ‘altri’ a
ritrovarsi, un bel giorno, nel bel mezzo della vita reale, senza transizione,
mentre fino ad allora avevano conosciuto solo un mondo parallelo, asettico,
un programma quasi immateriale, lo status di scolaro?[12]
Come avete letto nelle pagine precedenti, una sera mi sono ritrovato su un
palco a suonare la chitarra come ogni giorno, ma quella volta in pubblico.
Ovviamente mi ero preparato a quell’evento, non con il desiderio di
superare un esame, bensì di fornire una prestazione più accurata possibile.
Quella sera, particolare ma profondamente naturale, si prese da sola il posto
tra una causa e un effetto, senza che all’epoca avessi avvertito che segnava
un ‘passaggio alla vita professionale’. Si tratta di una constatazione che
posso fare, a posteriori, riguardo a un fatto diventato per inciso notevole.
Un apprendimento vivo si radica profondamente nel quotidiano; non
conosce tariffe per studenti o versioni ‘pro’, non ha data di attivazione o di
scadenza, è utilizzabile da subito; la sua metodologia non conosce né
gerarchia né cronologia. Non passa in secondo piano durante la pausa
pranzo o quando è ora di andare al cinema; si affina, si allarga, si definisce
sul campo; fin dall’inizio, fa parte dei nostri giorni e delle nostre notti. Lo
spirito resta sempre attento, sempre sul chi va là, trovando di che alimentare
l’apprendimento nel corso della vita, in ogni pagina di libro, in ogni scena
di film, incontrando delle analogie, costruendo metafore e concordanze per
affermarsi (“è così”, dicono i bambini…), trasformando, con alcune
sfumature di atteggiamento, i gesti più insignificanti in esercizi mirati,
gettando sempre ponti tra i vari apprendimenti in corso, servendosi di alcuni
per andare verso altri, risollevandosi, tessendo una tela dalla trama sempre
più solida, più chiara, più personale.

Il ‘rapporto qualità-prezzo’…
A cosa ti è servito non essere andato a scuola?
Si tratta di una domanda frequente, tipicamente ‘da giornalista’, e che
sottolinea con chiarezza l’ennesimo atteggiamento che ci è sconosciuto: non
quantifichiamo, non soppesiamo, non vogliamo trarre profitto e soprattutto
non paragoniamo gli elementi che compongono la nostra vita. Non li
classifichiamo in due colonne distinte, sotto la voce ‘vantaggi’ da un lato e
‘inconvenienti’ dall’altro.
Sono davvero sconvolto da quest’abitudine miope e materialista, che
consiste sempre nel voler trovare i ‘vantaggi’ di una scelta per calcolare la
sua redditività rispetto a un’altra. Le scelte di vita si fanno forse in funzione
del loro rapporto con i vantaggi/svantaggi?
Quest’atteggiamento, che incita ad accettare alcuni inconvenienti se
‘compensati’ da un maggior numero di vantaggi, non tiene conto del fatto
che la nozione stessa di vantaggio non è universale.
Ognuno ha, nel drive-in ideologico, la possibilità di fare la sua scelta tra
alcuni pacchetti standard che contengono un menu equilibrato, composto da
inconvenienti selezionati e dal loro, per così dire, equivalente in vantaggi.
Se ne esce soddisfatti e convinti che l’offerta del negozio sia “tutto ciò che
mi piace”. Non siamo cresciuti in questo modo. Mi è quindi impossibile
rispondere a questa domanda e quantificare ciò che la non scolarizzazione
mi ha dato, poiché non cerco mai di paragonarmi agli altri.

‘Il pro e il contro’ / i diplomi


Quali sono i punti che ti hanno fatto rimpiangere la non scolarizzazione?
Questa domanda segue quasi in maniera sistematica quella di prima, sua
gemella.
Sebbene la mia risposta precedente esponga a grandi linee ciò che provo,
ci sono alcuni punti che vorrei precisare riguardo agli ‘inconvenienti’.
Con gli anni ho imparato a discernere quel che, nella maggior parte dei
casi, giustifica questa domanda. Oltre al ben noto desiderio di soppesare i
pro e i contro, c’è qui la necessità di sentirmi parlare degli ostacoli contro i
quali avrei potuto urtare strada facendo.
Tanto per cominciare, ci tengo a sottolineare una cosa: non mi sento mai
in una posizione di inferiorità rispetto ai ‘vantaggi’ altrui, così come non mi
sento investito, grazie ai miei ‘vantaggi’, di una qualunque superiorità
rispetto a coloro che non li hanno.
Non ho incontrato ostacoli. Per quanto possa tornare indietro con i ricordi,
non trovo la minima traccia di un avvenimento negativo che avrebbe potuto
trovare origine nella mia non scolarizzazione.
Non ho avuto nessuna difficoltà a ‘inserirmi nella società’. Anzi, non ho
affatto sentito la necessità di ‘inserirmi’, poiché non ne sono mai stato
tenuto fuori. Non sono forse gli studenti coltivati fuori suolo che, un bel
giorno, vengono innestati nella società?
Malgrado tutte le previsioni, essere privo di un diploma non mi ha mai
ostacolato. Nessuno dei mestieri o dei posti a cui ho aspirato mi è stato
rifiutato. E per un semplice motivo: la mia competenza nei settori in oggetto
mi ha sempre preceduto così da aprirmi le porte. Questa è la chiave
principale, nascosta ma decisiva, della vera vita professionale. Una di quelle
chiavi che gli esperti conoscono e che non contesteranno mai: La
competenza prevale in modo infallibile sulla qualifica.
Ma ecco: anche se la maggior parte dei benpensanti l’abbia constatato più
volte, a titolo personale, ciascuno dichiara con convinzione che “senza
diploma, non esiste via di scampo”.
Eppure la storia trabocca di esempi famosi. Come nel caso di cuochi
abbastanza sicuri di sé da dire “mi assuma” per poi diventare miliardari…
Ma quale imprenditore, davanti a un problema grave, rifiuterebbe di
assumere una persona la cui competenza è in grado di risolvere una
situazione di stallo, con il pretesto della mancanza di una qualifica
professionale?
A tutt’oggi non ho ancora mai inviato curriculum, non ho ancora aspirato
a nessun posto. Ho sempre occupato in breve tempo posti di responsabilità
in tutte le strutture di cui ho fatto parte. Non per arrivismo e neanche per
ambizione. Solo perché la mia attitudine, il tempo da me dedicato, il mio
sincero impegno, l’ardore e, soprattutto, dimostrata, mi ci
hanno portato in modo naturale. Non ho mai deviato dalla mia strada,
concesso qualcosa, adulato un superiore, lisciato nessuno per ‘mettermi in
mostra’.
Non avendo mai dovuto, nella mia infanzia, mostrarmi zelante per
ottenere un bel voto, non ho mai fatto appello a un tale atteggiamento nella
mia vita professionale: non ho mai assolto un compito con lo scopo di farmi
notare, ma per semplice e naturale amore del lavoro ben fatto. Lavoro ben
fatto? Pleonasmo davvero inutile per chi ama quel che sta facendo.
Didier ha letto i miei scritti sul forum della rivista di cui era direttore. Ha
visto la loro popolarità, la mia competenza e la mia passione per i due
settori a cui, appunto, era interessato: la chitarra e la scrittura. Mi ha
proposto di lavorare con lui. Nulla di più semplice!

Il sogno dei genitori…


E se tu fossi voluto diventare medico, avvocato, ingegnere o architetto?
Altra classica domanda… C’è da credere che se l’ambizione di ogni
genitore si realizzasse, il nostro pianeta sarebbe pieno di medici, avvocati,
ingegneri e architetti…
Il fatto che questi quattro mestieri siano sistematicamente citati rende
evidente due gravi aspetti:
1) Le quattro professioni suddette sono messe su un piedistallo. Il che
provoca, in modo implicito e irrimediabile, il discredito più o meno
accentuato delle altre attività.
2) Le persone che esercitano altre attività si sentono, anch’esse in modo
irrimediabile, in posizione d’inferiorità rispetto a medici, avvocati,
ingegneri e architetti… “Non aver avuto molto successo negli studi” o “aver
svolto studi meno buoni” o “fatto una scuola meno buona”, ai nostri giorni
è considerato un handicap.
Handicap dal quale la maggior parte delle persone rimane segnata a vita.
“Ah! Mio fratello ha fatto studi migliori dei miei”…
Quando sono stato invitato a un famoso talk show in tv (che peraltro ha
avuto un tale successo da spingere i produttori a chiederci – caso unico
nella storia di questa trasmissione – di registrare subito una seconda parte,
da mandare in onda il giorno dopo…), ho vissuto una delle dimostrazioni
più divertenti di questo stato d’animo. Come tutte le trasmissioni dal vivo,
la nostra non era trasmessa in diretta. Mentre ci preparavano, un corifeo
(assolutamente ufficiale) ‘scaldava’ la sala. Quel personaggio, con tanto di
cuffie e apparecchiature, accuratamente sistemato fuori campo, spiegava al
pubblico ‘vario ma selezionato’ di essere il loro direttore d’orchestra:
“Tenetemi sempre d’occhio: se alzo i pollici, è il momento di applaudire. Se
li abbasso, gridate, protestate, fischiate…!”.
Ebbene, mentre durante la trasmissione spiegavo di essere liutaio,
quell’uomo, dopo un rapido sguardo verso i suoi superiori, abbassò i pollici,
innescando un’ondata entusiasta e popolare di “buuuuh”, malgrado l’aura
quasi mistica che di solito avvolge questo mestiere.
…E nel frattempo, le immense multinazionali dell’informatica, per
‘scrivere’ i software che commercializzano, fanno appello non a ingegneri
diplomati, ma a giovanissimi script kiddies non ancora maggiorenni, così in
gamba che i tecnici, presenti per legittimare l’azienda, confessano di “non
stare al passo con quel che succede”. A questi giovani sono offerti ponti
d’oro, e il fatto che non abbiano alcun diploma o formazione o qualifica
non ha la minima importanza. Che cosa pensare di una società che forma
più architetti che muratori?
Se avessi voluto diventare medico… lo sarei diventato.
Avrei potuto seguire (almeno) due strade:
1) Gli studi accademici. Chiunque può, in ogni momento, lanciarsi nel
piano di studi tradizionale: maturità da privatista e via di seguito. Conosco
persone non scolarizzate che hanno seguito questa procedura. Con successo,
evidentemente, poiché si tratta di una decisione presa da adulti, motivata da
un forte interesse, assunta con piena cognizione di causa ed estrema lucidità
riguardo al percorso scelto.
2) La scelta di una medicina non accademica. Penso che avrei scelto
questa strada alternativa. Avrei seguito una formazione seria, per il tempo
necessario. E anche in questo campo, come negli altri, non avrei trascorso
gli anni di apprendimento ad accumulare conoscenze senza riflettere sul
loro contenuto, non mi sarei mai accontentato di un’etichetta per accordare
la mia fiducia a un sapere, avrei analizzato ogni proposta nei minimi
particolari per rispondere di ogni scelta. E, anche in quel caso, avrei
raggiunto una competenza tale da prevalere su ogni qualifica, così da
assicurarmi la fedeltà e la soddisfazione dei pazienti che mi avrebbero
scelto ‘perché sono io’, e non per i miei titoli. E credo che anche qui sarei
stato capace di rimettermi in gioco, di esplorare nuove vie, di impedire alla
mia mente di fossilizzarsi nelle sue esperienze acquisite.

Da non mettere nelle mani di tutti?


Le tre domande seguenti sono riunite sotto la stessa bandiera.
La frase che meglio simbolizza quest’argomento è quella del
rappresentante del Ministero dell’Istruzione che era stato invitato assieme a
me a un talk show, in Svizzera, per ‘confrontarci’. Alla fine di una dura
lotta – che avevo portato avanti da solo fin dall’inizio della trasmissione e
dalla quale lui non usciva certo vincitore (non per un mio merito personale
ma semplicemente perché, contrariamente a lui, non avevo nulla da
difendere e niente da vendere) – quel tizio provò a sferrarmi il ‘colpo di
grazia’, quello che gli avrebbe dato maggiori possibilità per la vittoria
popolare:
“La tua testimonianza è una sorprendente storia individuale, e in questo
campo incontreremo sempre altri casi analoghi ed eccezionali. Ma non
dimentichiamoci che tutto questo è riservato ai privilegiati e ai benestanti:
la scuola ha il dovere di occuparsi degli altri!”.
Oh, signore… Non vede che sta portando l’acqua al mio mulino? Non
vede che difendo la causa di una moltitudine di storie individuali? Non
capisce di proporre, con il pretesto dell’uguaglianza delle opportunità,
un’omologazione passiva? Non si accorge di essere arrogante nei confronti
di tutti gli altri, quelli che lei presenta come altrettanti sfavoriti bisognosi di
essere guidati e collocati?
Fare della mia esperienza un’eccezione, servirla come un’avventura
pericolosa, riduce considerevolmente il rischio che i telespettatori ci
riflettano su.
Molti di quelli che ascoltano la mia testimonianza si rifugiano subito
dietro la convinzione che quella ‘cosa’ è per loro inaccessibile o,
quantomeno, lo è per la massa, come se fosse quella a segnare la loro
strada.
Non tutti i bambini sono capaci di imparare come te, alcuni vanno spinti; e
soprattutto, non tutti i genitori sono capaci di fare ciò che hanno fatto i
tuoi: i tuoi genitori sono persone colte e intelligenti!
Ho notato che un bambino si limita alle nozioni di base quando ‘viene
organizzato’ secondo un sistema in cui il voto medio è ciò che conta.
Diciamo allora che è necessario ‘motivare’ il bambino: basterebbe invece
lasciarlo giocare.
Ci impegniamo a stimolare il suo interesse per le materie da lui trascurate,
quando basterebbe lasciarlo dedicarsi a quelle che gli interessano. E, alla
fine, è per ‘il suo bene’ che facciamo appello al peggiore dei ricatti e dei
patteggiamenti possibili, a quel principio secondo il quale si addestrano gli
animali: punizione per un brutto voto, ricompensa per uno bello.
Guardate un bimbo molto piccolo. Guardategli gli occhi che divorano il
mondo. Credete che abbia bisogno di essere ‘spinto’?
Quando non dorme, la sua sopravvivenza dipende da una sola attività:
l’assorbimento. Il bambino assorbe liquido e alimenti per nutrire il suo
corpo in costruzione; sensazioni, immagini e casualità per alimentare il suo
spirito in divenire. Nei primi mesi, di solito è lasciato in pace. Incontra e
ricorda le cose secondo un processo, una cronologia e un punto di vista che
gli sono propri – o indotti dall’ambiente che, anch’esso, è specifico alla sua
storia. Nessuno decide al suo posto che è il momento di fare questo o
quell’incontro, nessuno si preoccupa di imporre un programma e un
calendario a questa tela tridimensionale che si tesse contemporaneamente
da tutte le estremità.
Poco tempo dopo, il bambino comincia a riprodurre, a modo suo, le azioni
che osserva. Il gioco ha inizio. Diventa il principale vettore di
apprendimento, permette l’instancabile ripetizione attraverso la quale le
cose si affinano e si sistemano.
È così che il bimbo piccolo impara a camminare. È così che impara a
parlare la sua lingua materna. Pronuncia le sue prime parole, gioca con i
suoi suoni preferiti che non hanno niente in comune con quelli di un altro.
Inoltre, nessuno impone un metodo unificato di apprendimento della lingua
materna.
Bene! Ogni bambino potrebbe, allo stesso modo, incontrare e assimilare
tutto il resto (un ‘resto’ che sarebbe, ovviamente, individuale e libero da
ogni verifica) se non venisse scavalcato in pieno volo per imporgli una
metodologia e un ritmo tanto strani quanto arbitrari.
In che modo la cultura o il ‘livello intellettuale’ dei genitori potrebbero
essere decisivi per un bambino di cui si rispettano le necessità e gli slanci,
che incontra il mondo al suo ritmo, che impara le cose in base ai suoi
interessi, che non è disturbato nella veracità e nell’autonomia delle sue
priorità (siano esse durevoli o effimere), che si muove, senza essere frenato,
verso ciò che lo attira? Occupato a creare la sua vita, è evidente che non si
aggrappa alla cultura dei suoi genitori: se ne crea una personale.
Ciò che rende i miei genitori eccezionali, è la scelta che hanno fatto e
l’atteggiamento che ne è derivato. Ma questa scelta è alla portata di
qualunque persona ben informata e davvero convinta. Le qualità richieste
sono: amore, convinzione, costanza, apertura mentale, rispetto e fiducia.
Non ho conoscenze sufficienti per educare il mio bambino.
Questo timore si basa su un errore fondamentale: credere che i genitori di
un bambino non scolarizzato sostituiscano i maestri, si siedano a un tavolo
con lui e gli facciano lezione.
Questo tipo di situazione si chiama ‘scolarizzazione a domicilio’. Oppure
‘scuola a casa’. Non è per nulla ciò che ho sperimentato io. Il bambino non
si aggrappa al sapere dei suoi genitori. Se ne crea uno su misura. Inutile
cercare di offrire una vasta scelta di possibilità di apprendimento, non sarà
mai completa. La scelta degli ingredienti che compongono un tale
assortimento deriva dalla soggettività di chi lo stabilisce. Ma, soprattutto,
ogni bambino libero andrà a raccogliere gli elementi dei suoi apprendimenti
laddove lo porteranno i suoi passi, il suo istinto e le sue ricerche, rendendo
del tutto superflua qualunque organizzazione preliminare.
Oltretutto non è necessario sentirsi pronti a rispondere a tutte le domande
che potrebbe porre il bambino: vi sorprenderanno – ammesso che ne faccia!
– e vi consentiranno molte scoperte e ricerche comuni.
Sta di fatto che la vostra cultura e le risposte che già conoscete fanno parte
del bagaglio domestico a cui il bambino attinge in modo implicito e
silenzioso, così come lo alimenta con le sue ricerche personali.
Ma servono soldi per fare una cosa del genere!
Sbagliato…
Amore, convincimento, costanza, apertura mentale, rispetto e fiducia non
si comprano. Il resto è una questione di priorità e d’inventiva. Noi non
siamo mai stati una famiglia agiata. La nostra priorità era stare assieme.
Non mettevamo la sicurezza economica su un altare, premessa di qualsiasi
sviluppo, ma rendevamo la nostra casa un luogo di quiete. Ci
accontentavamo di poco, ma non rinunciavamo alle cose autentiche. E le
nostre priorità potevano sembrare strane… Non avevamo la televisione, né
la necessità di cambiarla; usavamo la nostra Simca fino all’estremo senza
l’ambizione di sostituirla; non dovevamo pagare costose vacanze o uscite
dispendiose per riunirci o per riposarci da ciò che non ci stancava per
niente; non sentivamo la necessità di indossare vestiti all’ultima moda. In
compenso, non rinunciavamo mai ad acquistare libri o dischi, e non
facevamo alcun compromesso sulla qualità del cibo.
Papà e mamma non avevano bisogno di ricoprirci di enormi regali per
dimostrarci il loro amore. Non eravamo sensibili alla quantità dei giocattoli,
bensì alla loro qualità; e, autonomi anche in questo campo, non lasciavamo
che il marketing e le ultime invenzioni dei fabbricanti influenzassero i
nostri desideri. Contrariamente a quanto capita sempre più spesso ai giorni
nostri, Natale o i compleanni non rappresentavano il momento
dell’indigestione e delle spese, ma erano un’occasione di raccoglimento e di
creatività. I nostri genitori non si sono mai serviti della ‘lista di Babbo
Natale’, riservata ai genitori a corto d’idee, di disponibilità e di tempo e
che, a forza di non frequentare i propri figli, ne ignorano le inclinazioni, le
preoccupazioni e i desideri, come pure il modo di sorprenderli. Scoprivamo
con incanto ciò che i nostri genitori avevano scelto e preparato, mentre,
oggigiorno, molti bambini moderni sono delusi di non ricevere tutto ciò che
hanno chiesto. Del resto, ed è davvero sintomatico, i bambini moderni
dicono: “Mi compri?” e non più “Mi regali?”…
Consumare merci di consolazione è costoso.
Essere felici, liberi e uniti è molto economico.

Alcune false idee…


1) Siccome non andavi a scuola, restavi chiuso in casa tutto il giorno con i
tuoi genitori?
Che curiosa associazione d’idee: perché il fatto di non andare a scuola
implicherebbe il dover restare a casa? Non esiste quindi un’alternativa tra
andare a scuola o restare a casa?
Altra inadeguata associazione d’idee: perché il fatto di non andare a
scuola dovrebbe avere come conseguenza il restare chiusi in casa con i
propri genitori? Anche in questo caso esistono solo due possibilità: soltanto
i maestri o soltanto i genitori?
Non sarà necessario spiegare – a voi che dall’inizio di questo libro avete
potuto osservare la mia infanzia – l’incredibile diversità di luoghi e persone
di cui erano fatte le mie giornate. Credo che i bambini che restano chiusi
per la maggior parte del tempo nello stesso posto con le stesse persone…
vadano cercati altrove…
2) Quindi, non facevi altro che giocare? Non imparavi?
Non mi stancherò mai di ripetere quanto un tale contrasto sia assurdo e,
soprattutto, inadatto nel mio caso.
Il gioco è l’essenziale strumento di apprendimento per tutti i piccoli,
compresi quelli degli animali. Per me, apprendimento e gioco non possono
esistere uno senza l’altro. Bisognava essere ciechi per inventare e
comunicare questo antagonismo tra l’apprendimento, attività considerata
seria e prioritaria, e il gioco, attività svalutata al punto da farla diventare
una ricreazione quasi spregevole! (Chi non ha sentito dire, almeno una volta
nella sua vita: “Quando avrai finito di divertirti, comincerai a imparare,
eh?”).
Il fatto più grave è che questi concetti s’imprimono molto presto nella
mente del bambino! Il gioco, appannaggio dei piccoli, riceve lo stretto
necessario. E gli stessi adulti che circondano di attenzioni un bambino che
sta facendo i compiti si stupiscono che, a casa nostra, nessuno mi avrebbe
disturbato o interrotto mentre giocavo.
A tal proposito, ci tengo a sottolineare l’estrema serenità che ci veniva
offerta: dato che non dovevamo raggranellare le ore di gioco, non
temevamo di interromperle, per esempio per dormire o per mangiare.
Sapevamo che avremmo ripreso a giocare subito dopo mangiato, o la
mattina dopo, senza perdere il filo.
Questo sentimento di sicurezza era accompagnato da una grande fiducia. I
nostri genitori non cercavano di illuderci né tanto meno di mistificarci. Non
dicevano stupidaggini, non fingevano, non venivano a patti; il famoso “se
fai questo, avrai quello” non esisteva nella nostra famiglia. I nostri genitori
non erano mai degli avversari, non erano mai arbitrari o intrusivi; ci
fidavamo sempre di loro, non temevamo mai i loro interventi. Quando uno
dei due diceva “no”, sapevamo che era per una buona ragione, anche se
questa forse ci sfuggiva. L’obbedienza, questa brutta parola molto
apprezzata, non era un atto di sottomissione, ma una conseguenza naturale
della nostra grandissima fiducia nei nostri genitori.
3) Non voglio rinunciare alla carriera per occuparmi dell’educazione dei
miei figli.
Né la mamma né il papà si sono ‘occupati’ della nostra educazione; in
compenso, né l’uno né l’altro avrebbero rinunciato ad assistere alla nostra
infanzia, così come nessuno dei due avrebbe rinunciato a farne parte. Le
loro carriere hanno subito modificazioni ma non sono mai state interrotte;
poiché, come ho detto prima, non conoscevamo divergenze tra lavoro e
tempo libero, tra vita privata e vita professionale, tra sviluppo personale e
vita familiare, tra bambino e adulto, tra uomo e donna. Il nostro arrivo ha
avviato la costruzione di una nuova costellazione, di una nuova vita; alla
quale, senza nulla togliere, si sono aggiunte le nostre.
Fin dal nostro concepimento, e contrariamente a quanto concesso dalla
pianificazione della società contemporanea, i nostri genitori non hanno mai
progettato di fare la stessa vita di prima. Oggi, la società lascia nel dubbio i
suoi membri riguardo alle loro competenze; li rassicura mettendo a loro
disposizione un assortimento di dispositivi già verificati che consentano di
affidare ogni posto di responsabilità a istituzioni superiori. Il camice bianco
di queste istituzioni garantisce la loro valutazione, che a sua volta
incoraggia a rifiutare tutto quel che è innato e istintivo nel fare figli; e
questo rifiuto porta ad affidarsi, con sollievo, a quelli che sanno, meglio dei
genitori stessi, in che modo portare avanti una gravidanza ordinata, un parto
sicuro e un’educazione efficace…

Le scelte / l’emarginazione
I tuoi genitori ti hanno lasciato scegliere?
I miei genitori hanno fatto delle scelte. Non in funzione delle convenzioni
ma delle loro convinzioni. E va bene così. Ne andava della loro
responsabilità.
Tutti i genitori fanno delle scelte per i loro figli. Quella dei nomi, per
esempio. O quella di non piazzarsi su un campo minato.
E va bene così. Tutte queste scelte compongono i colori, gli odori, i gusti
specifici della casa del bambino, quelle cose che, molto più della geografia,
costituiscono le sue origini, la sua casa e la sua intimità, i suoi ricordi
d’infanzia e le sue preferenze di adulto.
I miei genitori hanno fatto queste scelte liberamente, e siccome non le
calibravano secondo un ordine prestabilito, non sarebbero rimasti scioccati
dal fatto che, al momento giusto, ne avremmo esercitate delle altre,
anch’esse personali.
Sta di fatto che non ho mai desiderato andare a scuola, nemmeno ‘per
vedere’. Perché? Perché ero felice, perché non mi mancava nulla, perché mi
sentivo immerso nella vita, nella società così com’era, e perché tra i gusti,
gli odori, i colori e le scelte che costituivano la mia famiglia, c’era quello –
del tutto naturale a casa nostra – di non andare a scuola.
E poi c’erano gli altri bambini, che dovevano sempre interrompere i giochi
con noi per andare a fare i compiti, o che non appena venivano a sapere che
non andavo a scuola, urlavano sistematicamente: “Che fortuna!”.
Ben presto quel fatto mi fornì gli elementi di un’opinione personale e mi
fece capire che quella posizione era invidiabile. E, indirettamente, darà una
chiara risposta a un’altra domanda che mi fanno spesso: “Non ti sentivi
emarginato dagli altri bambini?”.

La media
Hai la sensazione di saperne di più o di meno rispetto a chi è scolarizzato?
Non hai mai sentito il bisogno di sapere a che punto sei rispetto alla
media? Non pensi di avere delle lacune?[13]
Ciò che ho detto prima con riferimento ai vantaggi e agli svantaggi è del
tutto applicabile a questo caso. Non mi paragono mai agli altri.
Le mie conoscenze, in continua evoluzione, si basano sui miei incontri,
sulle mie preferenze e sull’esercizio delle mie funzioni. Non vado dunque a
caccia di lacune per il piacere di scovarne qualcuna. All’occorrenza, anche
queste sono evidenziate dai miei incontri, dalle mie preferenze e
dall’esercizio delle mie funzioni. Si trovano fuori dal campo delle mie
azioni e dei miei attuali interessi, oppure al centro delle necessità
immediate. E sono quindi colmate senza difficoltà. Non sono delle bestie
nere, ma spazi d’investigazione rivelati.
Le mie conoscenze corrispondono esattamente, e senza lacune, a ciò di cui
ho bisogno nella mia quotidianità.
Come potrei paragonare questo alle specificità degli altri?
Come potrei definire la mia posizione nella sacrosanta ‘media’, quando
invece apprezzo la diversità degli individui?
E poi… cos’è la media?
La media permette di stabilire (e quantificare) un compromesso tra le
lacune e le cose imparate a memoria.[14]
Sono stati ingannati coloro ai quali è stato fatto credere che fosse
sufficiente ‘avere la media’. Per esempio, un 16/20 nello scritto, cui
vengono tolti due punti per un’ortografia scadente, consente di passare un
esame ‘alla grande’. Ma questo principio, valido per la scuola, non lo è
nella realtà della vita professionale.
A chi ha vissuto l’ortografia, la grammatica, la matematica, le lingue
straniere eccetera come un insuccesso, ho voglia di dire: non si tratta del
vostro fiasco ma di quello del sistema che era tenuto a istruirvi. Ve l’aveva
promesso, in cambio del rispetto delle sue regole.
Non si tratta forse del fallimento di una missione? Come credere in
un’istituzione che non riesce ad assicurare le basi di ciò di cui si vanta e di
cui rivendica l’esclusiva?
Eppure… stranamente non è mai l’istituzione in sé che si rimette in
discussione, ma, di preferenza, il bambino recalcitrante a cui si attribuisce
volentieri il marchio di somaro, dando così origine al suo status, al suo
atteggiamento e ai suoi complessi per il resto dei suoi giorni.
Non è condizionata solo la posizione del bambino ma anche quella di tutto
l’ambiente. I risultati scolastici e i diplomi sono come le uniformi o i
galloni: danno un contegno omologato a chi li indossa (o che ne è privato) e
condizionano l’atteggiamento (rispettoso, collegiale, condiscendente o
sprezzante) di tutti gli altri.
Essere nella media significa anche essere nella norma; a forza di
conoscere solo questa, si prende l’abitudine di restarci, di sentirsi al sicuro.
Essere nella norma garantisce un posto nella società.
Non ho mai disprezzato chi crede nella norma, ma non ho mai cercato di
assomigliargli. L’onnipresenza di queste persone non influenza il corso del
mio progredire, e nuotare controcorrente non mi fa paura. Se lo faccio è per
convinzione, con uno scopo preciso e non per principio.
Quando mi sono presentato al servizio militare, ho vissuto una situazione
particolare che mi ha molto divertito: dovevo indicare il mio livello di studi.
Sul modulo che doveva compilare la recluta incaricata di interrogarmi
c’erano cinque voci: “studi superiori”, “studi secondari”, “studi elementari”,
“scuola materna”, “analfabeta”. Non rientravo in nessuna di queste.
“Ma insomma”, si disperava il soldato davanti al mio rifiuto di fargli
spuntare la voce analfabeta, “se non ha fatto le superiori, né le medie, né le
elementari, né la materna, non può essere altro che analfabeta!”.
“No”, insistei, “non sono analfabeta: so leggere e so scrivere: ha visto
anche lei che ho compilato il modulo”.
“Mio caro signore”, mi rispose il ragazzo, “le credo, ma… cosa posso
farci, non ho mica una casella per lei!”.

Da generalizzare con urgenza?


Sei quindi per l’abolizione della scuola? Ma cosa succederebbe allora ai
bambini i cui genitori sono costretti a lavorare per vivere, o sono
alcolizzati, drogati, delinquenti?
Devo, ancora una volta, sottolineare che non difendo nessuna causa, che
non ho, sinceramente, nulla da ‘vendere’, nessuna soluzione universale da
proporre. Anzi, credo soltanto alle soluzioni individuali! Ma perché queste
siano davvero possibili e legittime, è necessario che ciascuno possieda
l’insieme delle informazioni che gli consentano di agire e scegliere in tutta
libertà. È l’unico scopo della mia testimonianza.
Non oppongo la non scolarizzazione alla scolarizzazione, non le considero
come partiti opposti che si affrontano in un combattimento a punti. Non
propongo di sostituire il dogma e il programma della scolarizzazione con
quelli della non scolarizzazione!
Non lotto in alcun caso per l’abolizione della scuola. Credo, in effetti, che
sarebbe catastrofico abolirla, allo stato attuale delle cose. Penso
effettivamente che ci siano molti genitori che non potrebbero, non
vorrebbero o non saprebbero in alcun caso accettare questa nuova
condizione: penso, infatti, che la situazione attuale di parecchie persone
renderebbe irreale, addirittura pericolosa, la non scolarizzazione dei loro
figli.
Ma perché non tenere conto di tutti quelli che ne hanno la possibilità e
forse il desiderio, ma che la ignorano? È a loro che la mia testimonianza
offre – spero – l’ispirazione per un pensiero nuovo. Rispettare le proprie
convinzioni, fare in piena coscienza scelte personali, onorare la propria
originalità, essere l’artefice del proprio futuro: tutto questo, molto più
dell’indottrinamento delle masse, contribuisce al progresso del mondo e alla
comparsa di nuovi paradigmi.
Come ricordare, nell’ora del suffragio universale, che maggioranza non è
sinonimo di adeguatezza senza indurre a pensare di aver fatto un
abbonamento allo status di pecora nera?
Come osare, senza passare da miscredente, dubitare di ciò che costituisce
la fierezza di tutta una società? Come non dare l’impressione di vedere il
mondo alla rovescia quando si è sconvolti da quel che alla maggioranza
sembra normale? Come non sembrare sovversivo quando si trova
terribilmente arrogante e irrispettoso l’atteggiamento che consiste nel voler
applicare (per forza, se necessario) a tutti gli umani l’interpretazione
occidentale dei diritti dell’Uomo?
Quando vi parlano del lavoro dei volontari che si dedicano, anima e corpo,
alla costruzione di ospedali e allo sviluppo dell’agricoltura locale “per
creare un’economia sostenibile”, alla creazione di scuole “così da
scolarizzare i bambini in condizioni quasi normali”, è davvero difficile
rispondere che non vi fidate di quegli ospedali che applicano una medicina
occidentale a scapito della medicina tradizionale, che pensate che
l’agricoltura intensiva finirà per rovinare la terra dell’Africa, che secondo
voi l’economia venduta come un ideale alle popolazioni indigene finirà per
snaturarle irrimediabilmente e che la scolarizzazione di queste genti, lungi
dal farne dei felici consumatori, rafforzerà la loro dipendenza ai canoni
occidentali… Ah! Quanto è delicato dire che sentiamo tali canoni come dei
predatori che completano l’abdicazione di quei popoli in quanto individui, e
che percepiamo questa iniziativa non come lodevole e ammirevole ma
come l’origine stessa delle sfortune di cui sono vittime, spesso ‘volontarie’
grazie al marketing appena citato… In un’epoca in cui ci si mette la
coscienza a posto condannando le colonie, non è contraddittorio praticare
spudoratamente la colonizzazione dell’intero pianeta attraverso i paradigmi
occidentali? Non è scioccante che sempre la stessa mancanza
d’informazione renda ciechi quelli che portano avanti un’azione umanitaria
sincera?
Viviamo nell’epoca del fast food ideologico, delle formule di vita ‘chiavi
in mano’, dei forfait ‘studi-mestiere-pensione’ con assicurazione inclusa e
dipendenze prefabbricate in confezioni assortite; della libertà su catalogo e
della democrazia con effetto trompe-l’oeil.
Fuorviati dai pregiudizi e dai luoghi comuni che gli sono stati venduti
come idee ben precise, con lo spirito ingombro di convinzioni prefabbricate
e acquistate a scatola chiusa dai venditori ambulanti inviati dalla società
industrializzata, legittimati dalla farandola unificata che gli è stata servita
come una porzione di cultura generale, i membri della società democratica
benpensante, saldi sul loro antirazzismo standardizzato, trovano naturale il
disprezzo bon ton con il quale incontrano e calpestano la vita e le
convinzioni di persone diverse, cui applicano discretamente, con aria
d’intesa e complice, l’etichetta di ‘paria’.
Non sono un fricchettone, non appartengo a nessun movimento, a nessuna
parrocchia, a nessuna associazione. Questo sorprende anche coloro che si
qualificano ‘alternativi’. E ne sono felice. Poiché nessuno di loro, anche tra
i più audaci, parla mai di alternativa alla scolarizzazione. Al più parlano di
riformare il sistema.
11 In Francia è chiamato così l’ultimo anno della scuola materna [n.d.t.].

12 Estratto di un’intervista di Laure de Charette a Valérie Pécresse, ministro dell’Insegnamento


superiore e della Ricerca, Vingt minutes, edizione del 12 dicembre 2007: “Secondo un recente
sondaggio Ifop per Acteurs publics-Le Monde, il 59 per cento dei francesi sostiene che l’università
prepara male all’integrazione nella vita attiva. Non dovrebbe invece avvicinarsi tassativamente al
mondo del lavoro? In effetti, è essenziale che la nuova laurea renda lo studente autonomo e lo metta a
confronto con le realtà della vita. Per questo, il laureando dovrà fare uno stage di almeno un mese,
obbligatorio, all’interno di un’azienda, di un’amministrazione o di un’associazione. Saranno creati
uffici di aiuto per l’inserimento professionale e le aziende potranno venire nei campus a proporre
degli stage. Il compenso per lo stage dipenderà dai negoziati in corso”.

13 La scolarizzazione è forse una garanzia contro le lacune?

14 Una “perequazione dei valori”, secondo Wikipedia.


Coda

Questo libro volge alla fine. Come ho detto all’inizio, si tratta di una
testimonianza e non di un metodo né di un ricettario, né di una guida
all’anticonformismo né di un’autobiografia.
Ciò che ho vissuto e che ho appreso, il modo in cui l’ho portato avanti, i
momenti in cui si è manifestato, è un percorso del tutto personale. Sarebbe
davvero assurdo cercare di generalizzarlo o applicarlo ad altri. Sarebbe
anche errato credere che questo libro racconti la storia di una persona
eccezionale, di un individuo superdotato. Qualunque bambino messo nella
mia stessa situazione vivrà, a suo modo, un’evoluzione ricca, molteplice e
singolare come lo è stata quella che ho vissuto io.
È quanto spero di offrire ai miei figli.
Entusiasmatevi! (prefazione alla sesta edizione tedesca)

Dalla prima edizione di questo libro sono accadute varie cose. È nato mio
figlio, ho fatto incontri significativi, ho intrecciato splendide amicizie, ho
avuto la possibilità di fare collegamenti fruttuosi. Ho girato molto con le
mie conferenze e i miei libri e ho avuto occasione di parlare con tantissime
persone, che mi hanno comunicato la loro voglia di novità, di maggiore
libertà, di incoraggiamento e di ispirazione.
Nella nostra società si lascia credere alla maggior parte delle persone che
chiunque non vada a scuola sia destinato a crescere come un selvaggio
analfabeta, senza lavoro e senza amici. Da tempo ho preso a cuore
l’impegno di spiegare che non è così e di contribuire al superamento di
questi pregiudizi e queste paure. Sapere che esiste la possibilità (all’inizio
molti potrebbero giudicarla assurda) di una vita senza scuola può
contribuire a considerare importante e valida la via che si è presa, anche se
non dovesse rientrare in ciò che la società ritiene normale.
Le persone che hanno ascoltato la mia storia non possono più comportarsi
come se non l’avessero sentita. Indipendentemente da quanto abbia fatto
breccia in loro il nuovo messaggio, ora sanno che la scuola non è l’unica via
che porta alla cultura e al successo. E sono contento quando mi scrivono di
aver letto questo libro e poi di aver consapevolmente deciso di iscrivere il
loro figlio a una scuola pubblica, perché queste persone hanno preso una
decisione vera. Hanno almeno considerato due possibilità e hanno scelto
quella più adatta alle loro esigenze.
Qualche tempo fa si è legata al mio proposito iniziale una scoperta che mi
ha aperto gli occhi. Durante una conferenza del neurologo Gerald Hüther ho
sentito parlare del ruolo centrale che per il cervello ha l’entusiasmo: “Un
bambino piccolo prova una sensazione di entusiasmo da venti a cinquanta
volte al giorno. E ogni volta vengono attivati nel cervello i centri
emozionali. I neuroni che vi si trovano hanno lunghe appendici che
raggiungono tutte le altre zone del cervello. Nei punti terminali di queste
appendici si forma un cocktail di trasmettitori neuroplastici. Questi
trasmettitori inducono gruppi di neuroni a entrare in azione e ad aumentare
la produzione di certe proteine utilizzate per far crescere nuove appendici,
per creare nuovi contatti e per rafforzare e stabilizzare tutti quei
collegamenti che si attivano per la soluzione di un problema o il
superamento di una nuova sfida. Questo è il motivo per cui miglioriamo
così facilmente in tutto ciò che facciamo con entusiasmo. Ogni piccola
tempesta di entusiasmo porta in un certo senso il cervello a secernere un
doping fatto in casa. Così si producono le sostanze utilizzate per tutti i
processi di crescita e ristrutturazione delle reti neuronali. È semplice: il
cervello si sviluppa nella misura in cui è usato con entusiasmo”.
(www.gerald-huether.de).
Come cresce un bambino in condizioni che la ricerca sul cervello
considera auspicabili? Non possiamo concepire il futuro dell’istruzione
senza dare risposta a questa domanda. E la mia storia fornisce delle risposte
durature.
Infatti ho avuto la rara fortuna (e questo non è un merito personale, ma
qualcosa che mi è capitato!) di vivere in condizioni come quelle descritte.
Non sono mai andato a scuola.
Ho avuto la possibilità di studiare tedesco per sei ore al giorno
indisturbato, proprio mentre mi stavo sviluppando; nessuno mi ha detto,
passati quarantacinque minuti, che il tempo era finito e che da quel
momento dovevo studiare matematica o biologia.
Non ho mai dovuto domandarmi in quale materia andavo male per
decidere dove dovevo esercitarmi, ma potevo fare l’esatto contrario:
esercitarmi dove l’entusiasmo mi aveva reso più bravo, per migliorare
ulteriormente. E ancora oggi non ho timore di possibili lacune, perché nel
frattempo ho capito: ciò che non impari oggi, lo imparerai domani.
Ho sempre vissuto confidando che ogni attività interrotta potesse essere
ripresa là dove era stata sospesa senza che la saldatura fosse visibile. Non
ero obbligato a rinviare il più possibile il momento di andare a letto per
poter giocare ancora un po’, perché sapevo che il giorno dopo avrei potuto
continuare a giocare e non avrei dovuto andare da nessuna parte.
Non mi è mai interessato fare confronti tra l’ampiezza del sapere altrui e
quella del mio; mi interessa invece, da parecchio tempo, capire a quali
risultati possono arrivare, uniti insieme, il mio sapere e quello degli altri.
Collaborazione invece di concorrenza. Collegare esperienze e impegni
diversi per raggiungere insieme obiettivi più elevati.
E io sono un ragazzo normalissimo. Qualunque ragazzo potrebbe vivere la
mia stessa esperienza. Non gli serve un ambiente appositamente
predisposto, gli serve entusiasmo. Gli servono libertà, fiducia, rispetto e
tempo. Non di più ma neppure di meno. Tutte cose a portata di mano, di cui
possono disporre anche genitori senza mezzi e i cosiddetti “ceti non
istruiti”. Il resto ce lo mette il ragazzo. Ed è un vantaggio per tutta la
famiglia.
L’incontro con Gerald Hüther mi ha dato ragioni in più per arricchire,
confortato da un parere scientifico, il panorama dell’istruzione con le
esperienze della mia infanzia e per dare, come rappresentante dei ragazzi, di
solito ignorati, e a fianco di operatori del settore orientati all’innovazione,
un contributo non dogmatico al dibattito sul futuro dell’apprendimento.
Oltre al mio lavoro con istituti pedagogici e università, il “Dialogo sul
futuro” avviato dalla cancelliera tedesca mi ha dato un’altra interessante
opportunità. Ho presentato la proposta “Invitare, incoraggiare e ispirare
all’entusiasmo e alla competenza sulla base di una pratica vissuta”, che
nella fase di votazione ha ottenuto il quarto posto nella categoria “Come
vogliamo apprendere?”. Purtroppo alla fine sono stati invitati al dialogo
solo i concorrenti della categoria, più popolare, “Come vogliamo vivere
insieme?”, poiché le dieci proposte con il maggior numero di voti
provenivano tutte da questa categoria ‘peso massimo’, sicché il tema ‘peso
mosca’ “Come vogliamo apprendere?” in ultima analisi è scomparso sotto
la tavola. Certo c’era da chiedersi perché mai sono state create tre finestre
tematiche, ma resta il fatto che la mia proposta sulla materia “Futuro
dell’apprendimento” è arrivata al quarto posto.
Nel frattempo il Partito pirata, il cui responsabile per l’istruzione Nicolay,
nello stesso periodo, mi ha invitato a tenere una conferenza con uno spazio
destinato alle domande, ha incluso nel suo programma l’abolizione
dell’obbligo scolastico in favore di un obbligo di formazione. E altri
esponenti politici hanno seguito con attenzione i miei sforzi.
Un colloquio con il regista Erwin Wagenhofer mi ha poi dato una ragione
aggiuntiva per raccontare la mia storia. È stato lui a farmi notare che per
molte persone può funzionare come un appello. Se alle numerose vittime
dell’attuale sistema educativo, alle generazioni segnate da fallimenti
scolastici, che per mancanza di diplomi credono di non avere alcuna chance
di realizzare qualcosa nella vita, si mostra che si può benissimo avere
successo senza qualificazioni ufficiali, passa la paura e torna la speranza.
Infatti l’entusiasmo vissuto ha un effetto collaterale: la competenza. E la
competenza ha a sua volta un effetto collaterale decisivo: la buona riuscita.
Che sollievo sapere che ci si può liberare dell’onnipresente pressione per il
successo a favore di una forma personale di entusiasmo accessibile a tutti!
La primavera dell’educazione è cominciata.
Entusiasmatevi!
André Stern
(gennaio 2013)
L’autore

André Stern è nato nel 1971. Figlio dell’educatore e ricercatore Arno Stern,
è cresciuto seguendo gli innovativi metodi di apprendimento creativo
teorizzati dal padre: la sua esperienza è raccontata in molte conferenze e
workshop e nei suoi libri.
Sposato e padre di un bambino, è musicista, compositore, liutaio, relatore
di conferenze, giornalista e autore. È stato nominato direttore dell’iniziativa
“Männer für morgen” (Uomini per domani) dal professor Gerald Hüther,
ricercatore di neurobiologia avanzata. È promotore del movimento
“ecologia dell’educazione” e direttore dell’istituto Arno Stern (laboratorio
di osservazione e preservazione delle inclinazioni naturali del bambino). È
uno dei protagonisti del film Alphabet, del regista austriaco Erwin
Wagenhoder, e coautore dell’omonimo libro (Ecowin Verlag, 2013).
Non sono mai andato a scuola, pubblicato con successo in Francia, è
giunto alla sesta edizione in Germania, dove ha ottenuto uno straordinario
consenso di pubblico e l’attenzione dei media. È stato tradotto anche in
Spagna.

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