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La risposta della fede alla domanda di senso. Il contributo dell'esperienza


religiosa alla maturità umana in chiave analitico-esistenziale.

Research · December 2015


DOI: 10.13140/RG.2.1.4873.3525

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Valentina Bongi
Università Pontificia Salesiana
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UNIVERSITÀ PONTIFICIA SALESIANA
Facoltà di Scienze dell’Educazione
Curricolo di Psicologia dell’educazione e dello sviluppo

Tesi di Baccalaureato

La risposta della fede alla domanda di senso.


Il contributo dell’esperienza religiosa alla maturità umana in
chiave analitico-esistenziale.

Della studentessa: Valentina BONGI

Diretto dal professore: Domenico BELLANTONI

Roma, 2013-2014

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INTRODUZIONE
Tutto questo lavoro sarà come un viaggio su una strada a due corsie. Sono corsie
diverse che però hanno la stessa meta finale: il benessere integrale dell’uomo.
L’intento è quello di dimostrare che psicologia e spiritualità possono lavorare insieme,
collaborare per il benessere dell’uomo, pur mantenendo ognuna la propria identità scientifica.
Per fare questo verrà affrontata la questione da un punto di vista storico, psicologico e
spirituale mantenendo sempre presente, sebbene distinte, le due visioni. Il focus della tesi sarà
psicologico, quindi nel secondo capitolo verrà privilegiata la presentazione di un approccio ‒
la visione di Viktor Frankl e dell’Analisi Esistenziale ‒, grazie al quale “leggere” il contributo
dell’esperienza di fede al cammino di maturità umana, mentre nel primo e nel terzo capitolo
cercherò di mantenere una visione aperta di collaborazione tra psicologia e vita spirituale.
Obiettivo ultimo è individuare delle linee guida capaci di favorire tale integrazione in
vista di percorsi di promozione della maturità umana.
A livello personale, la scelta di questo tema per la tesi di baccalaureato è mossa da un
profondo desiderio di integrare nella mia vita l’aspetto psicologico con quello spirituale,
convinta che tutto ciò sia possibile, essendo l’uomo unità e fatto per vivere nell’unità.
In particolare, nel primo capitolo si inizierà con una necessaria chiarificazione circa i
termini e le definizioni che verranno utilizzate successivamente. In seguito, si procederà
facendo un accurato excursus storico sulla relazione tra psicologia e spiritualità. Tale excursus
sarà bidirezionale ossia terrà presente sia del punto di vista della psicologia nei confronti della
vita spirituale, sia del cammino di crescita della Chiesa nel riconoscimento dell’importanza
degli strumenti che la psicologia le può offrire. Si arriverà quindi a definire bene il panorama
e la situazione attuale.
Nel secondo capitolo ci soffermeremo sull’analisi della visione e della proposta di
Viktor Frankl, come possibile punto d’incontro tra la vita psichica e spirituale.
Infine, nel terzo capitolo cercheremo di individuare alcune attenzioni capaci di
concretizzare ulteriormente questa collaborazione, anche in base all’apporto di alcuni studiosi
contemporanei considerati nei capitoli precedenti, soprattutto nell’ottica della ricerca di senso.
La metodologia utilizzata in questo elaborato è di tipo analitico-descrittivo. L’intento,
infatti, è quello di portare avanti una tesi di tipo compilativa, finalizzata a sostenere e

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commentare il tema scelto.
La tesi si svilupperà primariamente attraverso lo studio di alcuni testi presi
maggiormente nella biblioteca dell’università e consultando anche informazioni diffuse
attraverso alcuni significativi siti web su internet. Nell’individuazione della bibliografia, nei
limiti delle mie possibilità di ricerca, porrò attenzione particolare alla letteratura più recente,
comprendendo articoli di riviste ed anche qualche contributo in lingua inglese.

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CAPITOLO 1

PSICOLOGIA E SPIRITUALITÀ: UNA RELAZIONE DIFFICILE?

Come abbiamo detto nell’introduzione, iniziamo questo viaggio con lo sguardo aperto
a entrambe le corsie della nostra autostrada.
Innanzitutto la prima cosa sarà una necessaria chiarificazione circa i termini e le
definizioni che verranno utilizzate. In seguito si passerà ad un accurato excursus storico sulla
relazione tra psicologia e spiritualità. Tale excursus sarà bidirezionale ossia terrà presente sia
del punto di vista della psicologia nei confronti della vita spirituale, sia del cammino di
crescita che la Chiesa ha fatto nel riconoscimento dell’importanza degli strumenti che la
psicologia può offrire allo sviluppo della maturità della persona. Obiettivo essenziale di
questo capitolo è quello di definire bene il panorama e la situazione attuali.

1.1 L’importanza di alcune definizioni e chiarimenti

Innanzitutto, come detto, vale la pena soffermarci per chiarire cosa intendiamo con i
diversi termini che utilizzeremo in questo lavoro, per specificarne il significato con il quale
saranno presi in esame.

1.1.1 Chiarificazione dei termini dell’ambito psicologico

Partiamo allora dall’ambito psicologico: per psicologia intendiamo quella «scienza


positiva, di carattere empirico, fondata sullo studio delle costanti e delle variabili psicologiche
dell’origine e della strutturazione degli atteggiamenti e delle scelte esistenziali della persona –
e quindi anche dell’atteggiamento religioso –, considerati come condotte osservabili,
quantificabili, tipificabili secondo le categorie e i modelli teorici propri delle scienze
empiriche» (Fizzotti, 2008, p. 15). In altre parole, stiamo parlando di quella scienza che

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osserva e spiega le condotte delle persone, comprese quelle relative all’esperienza religiosa.
Proprio rispetto a questo, c’è un ramo della psicologia che si interessa dell’atteggiamento
religioso in modo specifico: la psicologia della religione. Essa, infatti, prende «in
considerazione comportamenti e atteggiamenti che la persona o il gruppo qualificano come
religiosi, perché collegati con la fede in un essere soprannaturale oppure con una visione della
vita che non esclude la dimensione del sacro, e cerca di comprenderne i fattori motivazionali»
(Fizzotti e Salustri, 2001, p. 9).
All’interno della psicologia, d’altra parte, ci sono diversi orientamenti. Quello
privilegiato in questo lavoro è quello della Logoterapia e Analisi Esistenziale. Per definire
questo approccio con le parole del suo stesso fondatore, «Logoterapia e analisi esistenziale
sono le due facce di una stessa teoria. La logoterapia, infatti, è un metodo di trattamento
psicoterapeutico, mentre l’analisi esistenziale rappresenta una direzione antropologica di
ricerca» (Frankl, 2001, p. 60). Il compito dell’Analisi Esistenziale è quello di assumere
l’esistenza nella psicoterapia. L’esistenza viene considerata come realtà unica, irripetibile e
originale (Frankl, 1998, p. 29). Viene quindi scelta qui una visione idiografica della persona,
che punta a valorizzarne la sua singolarità e a considerarla nella sua totalità ed integrità. Essa
guarda alla persona “normale” considerata nella sua complessità bio-psico-spirituale. Come?
Concretamente attraverso la logoterapia, ossia quella «psicoterapia che parte dallo spirituale»
(Frankl, 1990a, p. 25), che tende a favorire nella persona la scoperta del senso nella propria
vita: una persona che non solo è libera DA i condizionamenti della vita e della società ma è,
anche e soprattutto, libera PER scegliere un valore o un compito a cui rivolgersi, un senso
della vita, appunto (ibidem, p. 59).
Per capire meglio la distinzione tra analisi esistenziale e logoterapia è possibile fare
riferimento all’applicazione in campo clinico: possiamo dire che nell’approccio clinico
analitico-esistenziale ci sono due fasi. Una prima fase che è quella propriamente terapeutica e
che può essere svolta dalla logoterapia, appunto, o anche, a seconda e in riferimento alla
problematica che s’intende trattare, con un qualsiasi altro modello psicoterapeutico che si
ritenga efficace ed efficiente.
La seconda fase, invece è quella propria dell’analisi esistenziale, che si occupa del ri-
orientamento esistenziale della persona. Qui si lavora sulla libertà PER, in vista della

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definizione, da parte della persona, della direzione fondamentale per la sua vita. Non ci si
limita a risolvere o togliere dei sintomi, ma ci si impegna a che la persona arrivi ad avere
consapevolezza di una propria meta esistenziale e di un progetto di vita (Bellantoni, 2011, pp.
119-120).
Dunque, possiamo sintetizzare dicendo che la Logoterapia è una terapia a partire dallo
spirituale mentre l’Analisi Esistenziale è un’analisi rivolta allo spirituale (Frankl, 1998, p. 29).

1.1.2 Chiarificazione dei termini dell’ambito della vita spirituale

Passiamo ora sull’altra corsia dell’ autostrada, ossia sul versante spirituale.
Con il termine spiritualità, vorremo prendere in analisi due aspetti: il primo è il livello
spirituale, tipico della persona umana. Prendendo spunto dal pensiero di V.E. Frankl,
intendiamo per “spirituale” quella capacità della persona umana di essere libera e
responsabile, capace di scegliere che atteggiamento assumere in ogni situazione. Secondo
Frank, tale capacità si colloca in un’apertura alla sfera trascendente (Frankl e Lapide, 2006, p.
81).
Poi, parlando di spiritualità in senso stretto, in questa sede, intenderemo riferirci alla
spiritualità religiosa, alla vita spirituale, ossia alla «vita cristiana secondo lo Spirito»
(Zavalloni, 1999, p. 1303).
Durante il lavoro, spiritualità in senso stretto ed esperienza religiosa verranno usati
come sinonimi.
In questo senso, distinguiamo la spiritualità dalla religione, ossia di quel sistema di
regole, o meglio, di simboli (Frankl, 1990a, p. 138) che guidano la vita spirituale all’interno di
una certa confessione, ma parleremo di vita spirituale. Per dirla con le parole di Erich Fromm,
la religione sarebbe «ogni sistema di pensiero e d’azione condiviso da un gruppo, in cui
l’individuo trovi orientamento e insieme un oggetto di devozione» (Fromm, 1978, p. 25).
Con il termine fede, infine, consideriamo qualcosa di intimo che vive o diventa vivo
solo con l’esperienza personale di ogni persona: «La fede nell’esperienza cristiana, è il frutto
e la manifestazione non semplicemente di una conoscenza; non è la deduzione di un

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ragionamento e di un’analisi; non è il risultato di un calcolo intellettuale, ma allo stesso tempo
non è neanche semplicemente un’emozione religiosa che può essere presente per un momento
e poi sparire per il momento successivo. La fede è essenzialmente un incontro, l’incontro
reale tra ciò che è più profondo in una persona ‒ quella sete che così distintamente è una parte
di lei ‒ con ciò verso cui questa sete è diretta, anche se non ne siamo coscienti» (Schmemann,
2012, p. 29).
A livello psicologico invece, la fede può essere vista come «un sistema di convinzioni e
di motivazioni» (Fizzotti e Salustri, 2001, p. 10). Frankl, nel suo dialogo col teologo ebraico
Pinchas Lapide, dice della fede: «Non ritengo che la fede sia un pensiero, un atto mentale, a
cui è stata tolta la realtà dell’oggetto pensato, ma al contrario che la fede sia un pensiero al
quale è stata aggiunta l’esistenzialità di chi lo pensa. […] L’atto di fede è dunque un atto
esistenziale. […] Non è partendo da una legge puramente logica – perché non può essere così
– che l’essere umano prende questa decisione, ma lo fa dal profondo del suo essere (Frankl e
Lapide, 2006, pp.49-50).

1.1.3 Psicologismo e spiritualismo: entrambi contro la verità della persona

Un’altra distinzione e precisazione che occorre fare riguarda la differenza tra psicologia
e psicologismo e tra spiritualità e spiritualismo. Infatti spesso si creano dei problemi proprio
perché questi termini vengono confusi.
A questo propostito, Frankl critica ogni forma di riduzionismo, ad ogni livello, sia esso
fisico, psichico o spirituale. In particolare, lo psicologismo è un riduzionismo, a livello
psicologico, nel quale l’uomo viene visto solo come apparato psichico, ignorando lo
spirituale. Lo stesso rischio si ha se ci si ferma a considerare solo il livello spirituale. Si
parlerà qui di spiritualismo che fa l’errore opposto allo psicologismo ossia quello di escludere
psiche e corpo dall’uomo (Frankl, 1998, pp. 18-19).
Come esprime molto bene un famoso teologo e mosaicista contemporaneo, «sempre,
quando un aspetto viene tolto dall’insieme, se una parte prevale sul tutto, si compie
un’ingiustizia. Anche una visione religiosa nella quale Dio è escluso dalla vita materiale e

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corporea può dar ragione all’ingiustizia» (Rupnik, 1996, p. 21). In tal senso, questo rischio di
assolutizzazione ci può essere tanto in una spiritualità di tipo gnostico, dove viene ignorata la
realtà psicologica, tanto all’estremo opposto, nella reazione psicologista, dove la vita
spirituale diventa impossibile se non come conseguenza di un cammino psicologico. La
reazione sana e positiva sarebbe invece quella dell’apertura dell’Io ad un Dio personale.
Un’apertura reale della persona ad un trascendente che ne coinvolga tutto la vita (ibidem, pp.
26-27).

1.2 Excursus storico sulla relazione tra psicologia e spiritualità

Dopo questo iniziale chiarimento terminologico, passiamo ad un breve excursus storico


per evidenziare come il rapporto tra psicologia e spiritualità sia stato un po’ travagliato nel
corso del tempo, sia dal punto di vista della psicologia che dal punto di vista della spiritualità
e, in particolare, della Chiesa.
La prima premessa fondamentale è quella di specificare che, attualmente, da parte
della psicologia, «l’atteggiamento religioso non è più guardato con sospetto o con
indifferenza, ma è preso come oggetto di studio rigoroso e degno di massimo rispetto»
(Fizzotti, 2008, p. 11).
Dall’altra parte, attualmente anche la Chiesa non vede più con diffidenza le scienze
umane, anzi, cammina alla ricerca di una collaborazione con esse.
Non sempre, però, è stato così: il rapporto tra psicologia e spiritualità è stato, in effetti,
un po’ difficile.

1.2.1 Excursus storico: focus psicologico

A livello di storia della psicologia, negli anni a cavallo dell’inizio ‘900, Freud (1856-
1939) (Fizzotti e Salustri, 2001, pp. 31-33) arrivò a paragonare la religione ad una “nevrosi
ossessiva”, interpretandola come il tentativo, da parte dell’uomo, di ridurre la tensione tra Es,

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Io e Super-Io, nella messa in atto di un processo di rimozione che però, alla fine, genererebbe
angoscia. Per ridurre questa angoscia, il soggetto utilizzerebbe una serie di cerimoniali, di
rituali, da cui l’analogia tra religione e ossessione.
Il padre della psicoanalisi analizza il comportamento religioso su due livelli: a livello
individuale o ontogenetico, lo legge alla luce del complesso edipico e lo vede quindi come
culto a un Padre e come frutto di un complesso edipico non risolto. Dio, quindi, secondo
Freud, sarebbe una configurazione della figura paterna e il rapporto con Dio una proiezione
della relazione padre-figlio. Pertanto, la religione rappresenterebbe una pura illusione,
destinata a scomparire con la piena maturazione intellettiva dell’umanità (Fizzotti, 2008, p.
30).
C’è poi il livello della specie, comune a tutti, il livello filogenetico. Freud ipotizza che,
all’inizio della storia dell’umanità, ci sia stato un parricidio ad opera dei figli, per aver accesso
alle donne. Soggiogati poi dal senso di colpa, avrebbero istituito dei totem in memoria del
padre attorno ai quali si sarebbe sviluppata tutta l’attività religiosa. L’insieme di regole e
obblighi alla quale l’uomo primordiale si sottometteva per rispetto al totem diventano una
specie di religiosità, che Freud chiama appunto totemica. Per evitare poi che questo parricidio
si ripeta vengono istituiti dei tabù, delle regole sacre per proteggere la specie maschile (Freud,
1977, pp. 148-150).
Già Alfred Adler (1870-1937) (Fizzotti e Salustri, 2001, pp. 63-65), allievo e
contemporaneo di Freud, si distanzia da questa idea radicale di Freud; Adler (1990), infatti,
pensa che la nozione di Dio riassuma l’aspirazione dell’uomo alla perfezione (p. 203).
Assunto base della sua teoria è infatti quello che l’uomo tenta in tutti i modi di superare il
personale senso d’inferiorità (Fizzotti, 2008, pp. 34-38), in tal senso, Adler ha una visione
darwinista dell’esistenza: secondo lui, il processo vitale fondamentale è quello della vittoria
sulle difficoltà in funzione dell’adattamento (Fizzotti e Salustri, 2001, p. 69). D’altra parte,
Adler nota come per molti la tematica religiosa diventi un rifugio e un alibi per il proprio
egocentrismo. È come se costoro si costruissero una religiosità solo di facciata, senza
cambiare il loro comportamento, “funzionalizzando” Dio e mettendolo alle loro dipendenze,
in prospettiva essenzialmente egocentrica (Adler, 1994, p. 200). Scrive infatti Adler che
queste persone trattano «Dio come un qualunque essere umano, (si rivolgono) a Lui

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piangendo e lamentandosi senza impegnarsi per risolvere loro i problemi» (ibidem).
L’altro importante allievo di Freud, Carl G. Jung (1875-1961) (Fizzotti e Salustri, 2001,
pp. 75-76), inizialmente aderisce completamente alla teoria freudiana rispetto alla visione
della religione e dell’esperienza religiosa: Dio come simbolo proiettato a causa della
repressione sessuale infantile rispetto al complesso edipico e la religione come
compensazione proiettata. Successivamente, però, egli si stacca da Freud. Una delle cause del
distacco è che per Jung, a differenza di Freud, l’uomo vive sia di cause che di scopi: l’uomo
non è solo spinto da impulsi ma anche motivato da scopi da raggiungere. Egli infatti considera
l’uomo non come frutto esclusivamente di determinismi biologici e di legami infantili, ma
come il prodotto, la sintesi di quanto l’intera umanità ha vissuto. In tal senso, la religione, i
miti, i riti acquisiscono un ruolo diverso, di trasmissione di esperienze passate (Fizzotti, 2008,
p. 39). Tutto ciò costituisce quel che Jung chiama inconscio collettivo, i cui contenuti
sarebbero gli archetipi e tra questi ci sarebbe Dio: simbolo di un’esperienza sensibile per la
quale l’uomo ha bisogno di avere un accadimento psichico (Jung, 1980, pp. 3-5). Con Jung si
verifica quindi un passaggio importante poiché, a differenza che in Freud, Dio non è più la
proiezione di un’esperienza paterna ma «il rapporto col padre terreno può assumere un
significato religioso proprio perché esiste una disposizione ereditaria, una struttura universale
della paternità divina» (Fizzotti, 2008, pp. 39-44). Infatti, «Jung adotta un approccio molto
più aperto, sostenendo che nell’universo c’è più di quanto non ammetta il materialismo
scientifico […] e che a idee così antiche e persistenti come quella di Dio deve essere concesso
un grado di “verità psicologica” in quanto realtà psichica empiricamente evidente» (Palmer,
2000, p. 122). Sempre Palmer afferma che, a differenza di Freud che considera la religione
come sintomo di nevrosi, Jung ritiene che ad essere sintomatica è invece la sua assenza
(ibidem).
Proseguendo in questo excursus, incontriamo William James (1842- 1910) (Fizzotti e
Salustri, 2001, pp. 129-130), psicologo e filosofo americano. Questo autore, in linea con tutta
la sua metodologia e il suo pensiero, anche rispetto all’esperienza religiosa crede che la verità
non vada scoperta mediante argomentazioni logiche o teoretiche ma attraverso l’osservazione
accurata e appassionata dei dati di esperienza (ibidem, p. 131). «Per comprendere
l’importanza psicologica della religione il ricercatore non deve partire dalle proprie categorie

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culturali, usandole come modelli in cui collocare, classificare e valutare le diverse esperienze
umane, ma deve attenersi alle esperienze che incontra e che gli vengono descritte, facendole
parlare di se stesse in modo da consentire loro di lasciare emergere i valori vissuti» (Fizzotti,
2008, p. 45 ).
Il pensiero di James rispetto alla religione ruota intorno a tre aspetti:
1. La religione è un fatto intensamente personale: per questo esistono tanti tipi
religiosi, perché siamo tutti diversi (James, 1998, p. 415);
2. Si focalizza maggiormente sul carattere emotivo dell’esperienza religiosa, anziché
su quello intellettuale, perché sostiene che all’interno delle religioni i pensieri
possono essere tanti ma i sentimenti e la condotta sono quasi sempre gli stessi a
prescindere dalle diverse religioni (ibidem, p. 430);
3. James, prendendo spunto da Francis W. Newman, individua due categorie di
esperienze religiose: i “nati una sola volta” e i “due volte nati”. I primi sarebbero
quelli che hanno avuto un’educazione religiosa fin da piccoli e che quindi non
hanno avuto un percorso religioso travagliato. I secondi invece sono coloro che
hanno vissuto un lungo e travagliato itinerario (ibidem, pp. 85-89).
In definitiva, la religione, secondo James, è funzionale ai bisogni importanti della
persona. Inoltre, questo autore, lascia la porta aperta a un “di più” (Fizzotti, 2008, p. 49).
Un altro autore che si occupa e preoccupa di approfondire l’analisi dell’atteggiamento
religioso è Erich Fromm (1900-1980) (Fizzotti e Salustri, 2001, pp. 153-154), psicologo e
sociologo tedesco, del quale abbiamo già avuto modo di riportare la definizione di religione.
Solitamente è classificato tra i neo-freudiani (Fizzotti e Salustri, 2001, p. 154) come colui che
rilegge la psicanalisi in chiave sociale (Caprara e Gennaro, 1999, p. 252). Egli osserva una
serie di dicotomie presenti all’interno dell’uomo e che provocano in lui una profonda
scissione causata dalla contrapposizione tra la sua natura e le leggi naturali immutabili,
l’autoconsapevolezza della ragione e dell’immaginazione. Questa scissione si osserva in
diverse dicotomie esistenziali come vita-morte, solitudine-relazione, ecc.. Tali dicotomie sono
insolubili, quindi per evitare la malattia, l’individuo ricorre a un certo quadro di orientamento
e a un oggetto di devozione. In questa prospettiva, pertanto, nessuno è privo del bisogno
religioso. Dice Fromm (1978) «In senso lato, non c’è uomo che non abbia bisogni religiosi;

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ma in pratica tali bisogni si manifestano nei modi più disparati» (p. 28). Quindi il problema
per Fromm non è tanto quello di chiedersi se l’uomo sia o meno religioso, ma il riconoscere la
sua religione (ibidem). Rendendosi conto però della difficoltà di andare ad analizzare tutte le
religioni del mondo, si limiterà a studiare se una religione favorisce o no lo sviluppo
dell’uomo. Distingue quindi due tipi di religioni: quella “umanistica” e quella “autoritaria”
(ibidem, p. 35). Per esplicitare il significato di ”religione autoritaria”, parte dal Dizionario di
Oxford, il quale la considera la religione come «il riconoscimento da parte dell’uomo di un
potere superiore e invisibile da cui dipende il suo destino e che ha diritto a essere obbedito,
riverito e adorato» (ibidem); si obbedisce dunque non per scopi morali o per amore ma perché
la divinità ha in mano il destino dell’uomo. Questo tipo di religione, secondo Fromm, porta ad
una perdita d’indipendenza e di integrità morale e alla creazione di un’immagine di Dio
dispotico e terribile. Chi tende a vivere così la religione è colui che ha tendenze masochiste,
chi vive un profondo senso di colpa o chi ha proiettato un Super-Io tirannico (Fizzotti, 2008,
pp. 51-53).
Nella “religione umanistica”, invece il centro è l’uomo con le sue possibilità, si punta al
suo sviluppo sia della ragione che dell’amore verso se stesso. La virtù chiave è la capacità di
autorealizzarsi, la fede è una convinzione sicura che si basa sulle proprie esperienze,
funzionale all’autorealizzazione e non all’obbedienza. Il centro della religione viene ad essere
«l’esperienza della propria unità con il Tutto» (Fromm, 1978, p. 37).
In quest’ultima prospettiva, il clima che regna è quello della gioia, della creatività,
dell’amore per la vita. Secondo Fromm, tra le religioni umanistiche ci sarebbero, per esempio,
il buddismo, il taoismo e anche gli insegnamenti di Gesù (ibidem).
Passiamo ora ad analizzare alcuni autori che vengono fatti rientrare all’interno della
cosiddetta psicologia umanistica. Il fondatore di questo nuovo orientamento, nel 1962 al
Brooklyn College, è lo psicologo americano Abraham Maslow (Caprara e Gennaro, 1999, p.
289). Questa nuova corrente viene definita “terza forza”, in contrapposizione alla psicoanalisi
ortodossa e al comportamentismo. La critica di Maslow (1908-1970) a queste due correnti è
quella di escludere dallo studio della personalità umana elementi di ordine superiore come per
esempio l’altruismo, la bellezza, la verità… (ibidem, pp. 199-200). Egli gerarchizza i diversi
valori e bisogni umani e introduce il concetto di “esperienze di vertice”, momenti di estasi in

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cui l’essere umano si sente una cosa sola con l’universo che portano apertura, creatività,
spontaneità, unificando inoltre il vissuto della persona. Queste esperienze portano la persona
al culmine di ogni sua potenzialità. Non sono eventi per cui l’uomo deve sforzarsi: vengono
da sé. (Maslow, 1971, pp. 109-113). Queste esperienze particolari non capitano sempre
all’interno di un contesto religioso, ma sono il centro della religione (Fizzotti e Salustri, 2001,
p. 202). Maslow (1964) afferma che il vero inizio, il centro intrinseco, l’essenza, il nucleo
essenziale di ogni religione conosciuta è stata l’illuminazione privata, solitaria, personale, la
rivelazione o l’estasi di un profeta o di un veggente (p. 19). Egli, inoltre, è convinto che i
sistemi religiosi condividano uno stesso nucleo, mentre le variazioni sarebbero per lo più
dovute a fattori etnocentrici. In tal senso, l’autore rivolge forti rimproveri ai responsabili delle
diverse religioni che spesso si concentrano più a promuovere le proprie istituzioni a discapito
delle esperienze di vertice: crede che le persone abbiamo bisogno di un gruppo sociale per
rispondere ai loro bisogni fondamentali e, a volte, le istituzioni non favorirebbero questi
momenti di estasi (Fizzotti e Salustri, 2001, p. 203).
Un altro autore, molto significativo riguardo al fenomeno religioso, è certamente
Gordon W. Allport (1897- 1967) (ibidem, 181-182). Per capire la sua posizione, bisogna
ricordare che egli considera la persona come una combinazione individuale di fattori che sono
in continua trasformazione. Allport cerca di integrare sia l’aspetto ambientale che l’aspetto
endopsichico della persona, vedendola come un essere che si trasforma, che diviene (ibidem,
pp. 182-183). All’interno di questo processo di divenire della persona, Allport assegna un
posto significativo alla religione. Formella (2009) inserisce questo autore tra coloro che
ritengono che «il valore religioso e spirituale sia il più completo e integrativo dei valori in
quanto orienta e fornisce una soluzione al dilemma esistenziale» (p. 32) In questa prospettiva,
si capisce allora che la religione, o meglio, il sentimento religioso varia da soggetto a soggetto
perché riflette l’individualità concettuale ed emotiva della persona. Specifichiamo che
parliamo di sentimento religioso perché «psicologicamente, la religione appartiene all’ordine
dei sentimenti» (Fizzotti, 2008, p. 58). Come la vita, anche la religione è in continuo divenire
e, a volte, il sentimento religioso funziona con qualche inconsistenza.
Anche Allport, distingue, così come Fromm, in base a una diversa maturità religiosa,
due tipologie: una “religione estrinseca” e una “religione intrinseca”. La “religione estrinseca”

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viene “usata” per far fronte a bisogni infantili e crescere nello status sociale. Scrive Allport
(1972), «per molti la religione è un’abitudine monotona o un paludamento tribale da mettere
per cerimonie di circostanza, per comodità familiare o per sollievo personale. È qualche cosa
da usare ma non da vivere» (p. 267). La “religione intrinseca”, invece, è quella che viene
vissuta in profondità, quella integrale, che abbraccia tutta la persona sia a livello esperienziale
sia ciò che lo trascende e che ha una forza unificante per tutta la vita di una persona. In ogni
confessione, ci sono persone che vivono la religione in modo estrinseco ed intrinseco (ibidem,
p. 269-271).
Analizzeremo ora la corrente esistenziale, contemporanea a quella umanistica. In
generale possiamo dire che, secondo il modello esistenziale, l’atteggiamento religioso viene
interpretato come una delle strade attraverso le quali è possibile giungere alla realizzazione
del compito unico ed originale della propria esistenza (Fizzotti, 2013, p. 10).
L’autore che prenderemo in considerazione per questo indirizzo è Viktor Frankl (1905-
1997) (Fizzotti e Salustri, 2001, pp. 219-221), psicologo e psichiatra viennese, che
approfondiremo maggiormente nel capitolo successivo e del cui approccio, in questo
paragrafo, tratteggeremo solo gli elementi essenziali.
La prima caratteristica da considerare è la visione antropologica cui questo autore fa
riferimento e che vede l’uomo come un unità psico-fisico-spirituale nella quale è proprio la
dimensione spirituale a rendere l’uomo tale (Frankl, 1990a, p. 30). La persona umana, in tale
ottica, è fondamentalmente libera e responsabile, conservando sempre la possibilità di
scegliere con quale atteggiamento far fronte ai condizionamenti o alle varie situazioni, anche
quelle ineliminabili (ibidem, p. 59). La vita viene vista come un compito che l’individuo si
impegna a portare a termine.
Frankl individua, accanto all’inconscio pulsionale individuato da Freud, un “inconscio
spirituale” o trascendente, il luogo dove l’uomo può prendere le scelte esistenziali e che porta
con sé una religiosità inconscia: «Tale religiosità inconscia consente di scorgere il Tu
trascendente dietro l’io immanente, da cui risulta che l’inconscio spirituale si schiude come
inconscio trascendente. Questo è il motivo per cui Frankl indica “ questo Dio come Dio
inconscio”» (Fizzotti, 2008, p. 71).
Frankl ha spesso accettato, nei suoi libri, di affrontare questioni di natura religiosa,

16
discutendole sempre con cautela. Allo stesso tempo, però, «il suo modello psicologico
riconosce l’autenticità della religiosità e della fede dell’uomo e nega la pretesa di volerle
spiegare solo ed esclusivamente dal punto di vista psicologico» (Batthyany e Fizzotti, 2006, p.
7).
Continuando il nostro excursus, consideriamo la tesi di Roberto Assagioli (1888- 1974)
(Fizzotti e Salustri, 2001, pp. 253-254) che, nella sua Psicosintesi, cerca di unificare i vari
aspetti della personalità della persona, riconoscendo la possibilità di una sintesi armonica tra
aspetto fisico, emotivo, mentale e spirituale. Il punto di partenza di questo orientamento è la
visione dell’uomo come essere in relazione con gli altri e con il tutto. Fondamentale è il
concetto di sintesi inteso come risultato creativo di una relazione tra due o più parti. A livello
evolutivo, l’individuo opera più sintesi: la prima è chiamata “psicosintesi personale” e
consiste nell’unificazione e trasformazione di tutti gli elementi della personalità
dell’individuo attorno alla sua vera identità, il suo Io. La seconda è, invece, la “psicosintesi
transpersonale o spirituale” nella quale si tenta l’integrazione della personalità (Io) con gli
aspetti superiori della psiche (Sé). Rispetto al pensiero di Assagioli nei confronti del
fenomeno religioso, bisogna considerare che egli, in quanto ebreo, parte dalla convinzione che
l’uomo sia fatto ad immagine e somiglianza di Dio. La psicosintesi, in sostanza, così come
Frankl, si apre alla dimensione spirituale, pur non schierandosi a favore di nessuna
confessione. Il suo obiettivo è quello di aiutare la persona a vivere al meglio, anche la sua
religione (Fizzotti, 2008, pp. 71-75).
Da questo primo rapido excursus, possiamo vedere come la religione e l’esperienza
religiosa siano state oggetto d’interesse e di studio di tutte le più grosse correnti psicologiche
del ‘900. Notiamo anche che, dei vari autori trattati, l’unico che assuma una posizione
negativa rispetto alla religione e all’esperienza religiosa sia Freud; e anche su questo aspetto,
tra l’altro, non tutti gli autori, soprattutto psicoanalisti credenti, sono unanimi.

1.2.2 Excursus storico: focus spirituale

Dopo aver preso in considerazione il pensiero di alcuni tra i più significativi psicologi

17
del ‘900 nei confronti dell’atteggiamento religioso, vediamo ora come la Chiesa, del XX
secolo, si è posta nei confronti della psicologia e delle scienze umane.
Una prima reazione della Chiesa verso la psicologia è stata di sfiducia. Nel clima di
crescita faticosa della psicologia, anche rispetto alla visione di vita spirituale e dell’esperienza
religiosa, è facile capire e comprendere questa reazione. «Si temeva il naturalismo
psicologico, che, per il modo ego-centrico di programmare il cammino spirituale, chiuso nella
realizzazione del proprio io, poteva contaminare l’esercizio della preghiera, le motivazioni
dell’agire cristiano e la realizzazione personale cristocentrica. Si ricordavano pure le
deficienze della psicologia iniziale focalizzata sui livelli istintuali inferiori e troppo
suggestionata dal “pansessualismo”» (Goya, 2000, p. 22). Questo ha però portato a rischiare
uno «spiritualismo idealista, filosofico, giurista, moralista» (Rupnik, 2013, p. 15).
L’errore di base che ha portato alla contrapposizione tra psiche e vita spirituale
probabilmente sta nella diversa visione di uomo. Ci sono diversi modelli antropologici da cui
partono i diversi orientamenti psicologici. La critica dunque non è estendibile alla psicologia
in generale, ma rispetto ad una corrente psicologica specifica, ossia quella strettamente
psicanalitica e alla sua visione dell’uomo come frutto pansessualista e determinato dalle forze
pulsionali interiori. A tal proposito, Pio XII, in tre importanti discorsi, mise in luce le
differenze tra l’antropologia cristiana e quella sottointesa dalla psicoanalisi (Pavesi, 2009, p.
14) Il primo discorso che prendiamo in considerazione è quello del 14 settembre 1952, rivolto
ai partecipanti al Primo Congresso Internazionale di Istopatologia del Sistema Nervoso, nel
quale il Papa attacca duramente la teoria sessuale freudiana, promuovendo uno stile di purità
tipico del cristiano che «proibisce all’uomo d’immergersi così completamente nel mondo
delle rappresentazioni e delle tendenze sessuali. L’interesse medico e psicoterapeutico del
paziente trova qui un limite morale». (Pio XII, 1952, n. 14). Sempre in quell’anno, lo stesso
Papa, scrisse addirittura una dichiarazione sul Bollettino del Clero romano che qualificava
come peccato mortale ogni pratica di psicoanalisi (cfr. Ancona, 2006, p. 23).
Nel 1953, ancora Pio XII, in un discorso ai partecipanti al V Congresso Internazionale
di Psicoterapia e di Psicologia Clinica, indica l’atteggiamento fondamentale dello psicologo
e psicoterapeuta cristiano (Pio XII, 1953). La prima cosa che il Pontefice sottolinea è la
modalità con cui va considerato l’uomo cioè come: unità e totalità psichica (n. 3). Sarebbe un

18
distaccarsi dalla realtà affidare il compito determinante del tutto a un fattore particolare, per
esempio, ad uno dei dinamismi psichici elementari; l’uomo, pertanto, come unità strutturata in
sé stessa, è un tutto ordinato dove la legge, stabilita dallo scopo finale, coordina l’attività delle
parti; come unità sociale e infine come unità trascendente, vale a dire che tende verso Dio
(ibidem). È quindi facile capire come questa visione di uomo sia nettamente diversa da quella
proposta da Freud.
In seguito, Papa Giovanni XXIII ebbe forse meno occasioni del predecessore per
richiamare l’attenzione sui pericoli di alcuni trattamenti clinici ma, quando lo fece, lo fece con
la stessa fermezza. Nel 1960, in occasione del Sinodo Romano, fece inserire un articolo per
mettere in guardia nei confronti di un abbandono della persona in mano degli psicoanalisti.
Nel 1961, il “Papa buono” fece emettere un Monitum dall’allora Sant’Uffizio per smentire
l’opinione in base alla quale fosse necessaria la psicanalisi per ricevere l’ordine sacro o per
l’esame attitudinale per i candidati al sacerdozio e vietò ai religiosi di predicare la psicanalisi
e ai seminaristi di ricorrervi (SCSO, 1961, p. 571).
Anche Paolo VI criticò la psicanalisi diverse volte, soprattutto rimproverandola d’essere
una “psicologia dal basso”, visto che l’uomo può raggiungere le sublimi vette mediante
l’ascesi.
Ciò nonostante, il Concilio Vaticano II, che si svolse tra il 1962 e 1965 sotto la guida
prima di Giovanni XXIII e poi di Paolo VI, iniziò a cercare una collaborazione con la
psicologia e le scienze umane in generale. Non soffermandosi più sulla mera psicoanalisi ma
aprendo il focus a tutta la psicologia, la Chiesa riconosce il contributo che la psicologia può
dare all’uomo (Zavalloni, 1999, pp. 1299-1300). Infatti, a questo riguardo, il documento
“Gaudium et spes” scrive: «Nella cura pastorale si conoscano sufficientemente e si faccia uso
non soltanto dei principi della teologia, ma anche delle scoperte delle scienze profane, in
primo luogo della psicologia e della sociologia, cosicché i fedeli siano condotti a una più pura
e più matura vita di fede» (n. 62).
Giovanni Paolo II, nei suoi scritti e nelle sue udienze, mostra di avere molto a cuore il
tema della sessualità e del corpo e tenta un approccio al tema in modo globale e integrale. È
proprio il Papa polacco, nelle sue catechesi sull’amore umano che tiene dal 1979 al 1984, a
coniare il termine “teologia del corpo”, considerando il corpo come un tema particolare

19
dell’antropologia teologica (Barrajon, 2012, p. 9). Queste riflessioni del Pontefice resero
inevitabile un confronto con le idee e le direttive psicanalitiche (Marchesini, 2009, p. 27).
Nell’udienza generale del 29 ottobre del 1980, Papa Wojtyla, commentando il brano di
Mt 5, 27-28 (“non commettere adulterio”), esprime chiaramente il suo pensiero, affermando
di non voler in alcun modo condannare il corpo o la sessualità, invitando piuttosto a «vincere
[…] la concupiscenza della carne» (Giovanni Paolo II, 1980, p. 151) per salvaguardare la
dignità umana. Egli afferma che Freud, assieme ad altri pensatori quali Marx e Nietsche, sia
un maestro del sospetto e, insieme agli altri due, cerchi di giudicare e accusare il cuore
dell’uomo. Nell’ermeneutica freudiana, in particolare, il giudizio e l’accusa del cuore umano
corrispondono alla concupiscenza della carne. Giovanni Paolo II però sostiene che non
possiamo fermarci a questo poiché se ci fermiamo solo alla triplice concupiscenza (della
carne, degli occhi e la superbia della vita), quel cuore è in stato di continuo sospetto. Ma le
parole di Cristo in Matteo 5 non permettono di fermarci qui in quanto sono parole non di
accusa per il cuore ma di richiamo, di ri-chiamata all’amore, perché siamo nell’ottica della
redenzione. Chiamato nella verità della sua umanità e quindi anche nella verità della sua
mascolinità o femminilità. In questo senso quindi, il significato del corpo rappresenta la
riscoperta del significato dell’esistenza, della vita. È chiaro come dunque, in questa ottica,
rappresenti il contrario, l’antitesi della libido freudiana (Giovanni Paolo II, 1980).
Negli ultimi anni, il Magistero si sta interpellando attivamente per cercare una via
autentica di collaborazione con la psicologia. Il 29 giugno 2008 la Congregazione per
l'Educazione Cattolica ha pubblicato il documento Orientamenti per l'utilizzo delle
competenze psicologiche nell'ammissione e nella formazione dei candidati al sacerdozio.
Scopo del documento è quello di proporre un quadro normativo più chiaro, da una parte, per
evitare abusi nei confronti dei candidati, dall’altra, offrire lo spazio per un contributo
veramente efficace nella formazione (Bresciani, 2010, p. 61). Convinzione di base è quella
che «senza un'opportuna formazione umana l’intera formazione sacerdotale sarebbe priva del
suo necessario fondamento» (Giovanni Paolo II, 1992, n. 43). Il documento distingue due
momenti di possibile intervento delle competenze psicologiche: prima dell'ingresso in
seminario o nelle case di formazione ‒ un buon discernimento, infatti, parte prima dell'entrata
in formazione ‒ e/o durante il periodo formativo, per ovviare al sorgere di crisi inaspettate o

20
di ostacoli/resistenze non previsti che bloccano o rendono difficoltoso il cammino formativo
(CEC, 2008, nn. 8-9).

1.2.3 Verso una mutua collaborazione

Da questo rapido excursus bidirezionale, possiamo provare a dare una prima risposta
alla domanda contenuta nel titolo dato al capitolo “spiritualità e psicologia: una relazione
difficile?”. Possiamo dire che, soprattutto agli inizi del ‘900, la relazione sia stata
particolarmente difficile, di giudizio reciproco e di scontro. Successivamente però, da
entrambe le parti, c’è stata un’apertura nel cercare di cogliere la ricchezza che ciascuna
disciplina poteva apportare all’altra. Attualmente, alla luce di quanto scritto e anche dei
numerosi convegni che vengono fatti sul tema (cfr., ad esempio, González Silva, 2013),
possiamo vedere come il panorama sia favorevole e il clima sia quello di collaborazione
autentica che ha come scopo il benessere dell’uomo.
Di problemi e di estremismi ce ne sono ancora, dovuti alla non consapevolezza che
ogni ambito può apportare qualcosa all’altro, cadendo nella presunzione che solo una delle
due parti possegga tutta la verità.

1.3 Rilievi conclusivi

Per concludere, proponiamo un’immagine che rende bene l’idea della prospettiva che
viene privilegiata in questo lavoro.
Immaginiamo di osservare una sedia la cui parte destra è verde e la parte sinistra è
blu. Chi guarda verso la parte destra della sedia, sosterrà che la sedia è verde, mentre chi la
guarda verso la sua parte sinistra sosterrà che la sedia è blu. Solo collaborando si può arrivare
un po’ più vicini alla “verità” di quella sedia, ossia vedere che una parte è verde e una blu. Da
questo esempio, cogliamo quindi che sono importanti due aspetti. Il primo è che ognuno dei
due focus deve mantenere definiti i suoi confini, senza perdersi nelle competenze dell’altro. Il

21
secondo aspetto importante è quello di partire dalla stessa visione dell’oggetto in questione,
nel nostro caso dell’uomo.
Ed è così, quindi, che ben si spiega la scelta dell’autore di riferimento, Viktor Frankl,
che verrà approfondito nel seguente capitolo. Egli, infatti, da una parte propone una visione
antropologica completa ed integrale, senza escludere niente (Frankl, 1990a, p. 30), ma
dall’altra ha chiarissimi i limiti della prospettiva psicologica, per cui in nessun momento
pretende di spiegare la religione o l’esperienza religiosa limitandosi ai soli fattori psicologici
(Fizzotti in Frankl e Lapide, 2006, p. 7).

22
CAPITOLO 2

PSICOLOGIA E SPIRITUALITÀ: LA VISIONE DI VIKTOR E. FRANKL

«Fede e scienza sono due percorsi diversi


all’interno della medesima ricerca della verità,
una ricerca che, passo dopo passo, ci spinge si, in avanti,
ma non raggiungerà mai, qui sulla terra, la sua meta»
(Frankl e Lapide, 2006, p. 15)

Con la consapevolezza che ogni visione da sola è limitata e avendo fisse in testa le
parole di Frankl, che non arriveremo su questa terra alla piena verità, ci soffermiamo ora sulla
presentazione dell’approccio di Viktor E. Frankl.
La visione di Frankl si caratterizza per un atteggiamento nuovo: come abbiamo visto,
nel passato e a volte anche in alcune correnti psicologiche attuali, la religiosità dell’essere
umano viene vista «solo come espressione di processi psichici, come conflitti infantili non
superati, come ricerca istintiva di protezione, come valvola di sfogo della paura di morire,
come ricerca ambiziosa dell’autostima» (Batthyany e Fizzotti, 2006, p. 7). Ed è proprio qui
che sta la novità in Frankl: da una parte egli rispetta la persona e le sue credenze ma dall’altra
egli non si preoccupa tanto di salvaguardare la religione come tale da riduzionismi
psicologici, quanto di mettere in guardia la psicologia dal superare nel metodo, nella forma e
nel contenuto i limiti del proprio potenziale esplicativo. Spiegare la religione e la fede
esclusivamente in prospettiva intrapsichica sarebbe infatti riduttivo (ibidem).
Con questa premessa come cornice, il primo passo sarà quello di soffermarci sulla
visione antropologica di Frankl, contestualizzando il suo pensiero, esponendo l’ontologia
frankliana e richiamando alcuni concetti fondamentali dell’analisi esistenziale. Ci si
concentrerà poi sull’analisi del concetto di inconscio spirituale e della relazione concreta tra la
psicologia e la spiritualità nell’ottica analitico-esistenziale.

23
2.1. Quale visione di uomo: L’ontologia frankliana

Caratteristica e novità in Frankl, almeno per quel che concerne l’ambito psicologico, è
la sua visione antropologica. Per capire meglio la visione ontologica sottesa a tutto il suo
pensiero, passiamo ora ad una rapida esposizione dei principali cenni biografici e di qualche
elemento della cornice filosofica-psicologica all’interno della quale la teoria frankliana si
pone.

2.1.1. Viktor Frankl: cenni biografici e contestualizzazione del suo pensiero

Viktor Emil Frankl nasce a Vienna il 26 marzo 1905 da Elsa e Gabriel Frankl. Durante
gli anni del liceo, Viktor inizia una corrispondenza epistolare con Sigmund Freud grazie alla
quale aumenta il suo interesse per la psicologia. Però Frankl non aderisce completamente alla
visione freudiana ma piuttosto prende spunto dalla psicologia individuale di Adler, che lo
inviterà a tenere una seria di conferenze nel 1926 a Düsseldorf; in seguito, tuttavia, sarà
radiato dalla società adleriana per contrasti ideologici. Fin da giovane è forte il suo interesse
per i giovani. Infatti, nel 1927 fonda la rivista “Der Mensch in Alltag”, nella quale conduce
una tenace battaglia a favore di una fondazione di consulenza per giovani bisognosi di aiuto
psichico e morale.
Nel 1930 si laurea in medicina e nel 1936 ottiene la specializzazione in neurologia e
psichiatria. Nel 1941 sposa Tilly Grosser (Frankl, 2012, p. 91), ma già nel 1942 arriva il
momento temuto: egli infatti, avendo rifiutato il visto americano, venne chiuso nei lager
nazisti, in quanto ebreo: da quel momento, fino alla sua liberazione nel 1945, Viktor Emil
Frankl diventò il numero 119.104 (Fizzotti, 1974, pp. 7-8). Ed è proprio questa esperienza che
darà poi la vita a una delle sue opere più famose: nel 1946, appena ritornato a Vienna, Uno
psicologo nei lager. Quest’opera raccoglie la «descrizione di un’esperienza vissuta, più che di
un resoconto. Vogliamo occuparci […] dei Lager visti dall’interno […] a come si è
rispecchiata la vita quotidiana nell’anima del prigioniero medio, rinchiuso in un campo di
concentramento» (Frankl, 2011, p. 25). Theresienstadt, Kaufering, Turkheim ed Auschwitz
furono le tappe del numero 119.104. Ciò che vive all’interno dei campi di concentramento è

24
fondamentale, anche per la conferma delle sue ipotesi rispetto alla logoterapia. Egli infatti
scopre proprio nei lager l’importanza dell’avere un compito, un ideale, una ragione per cui
vivere: solo coloro che avevano un compito da realizzare nella vita trovavano la forza per
andare avanti. Nel 1945, finalmente, finisce il periodo di prigionia e, purtroppo, scopre della
morte, durante la prigionia, dei genitori, del fratello e anche della moglie. Si trattava, dunque,
di ricominciare la vita da solo.
In questa fase, lo aiuta a risollevarsi il riprendere il lavoro come neurologo (Fizzotti,
1974, pp. 8-10) e, soprattutto, nel 1947 il matrimonio con Eleonore Katharina Schwindt con
la quale ebbe una figlia, Gabriella. Successivamente insegnerà sia all’Università di Vienna
che negli Stati Uniti, ricevendo anche da Università sparse in tutto il mondo ben 29 lauree
honoris causa (Frankl, 2012, p. 131). Nel 1997 muore a Vienna (Fizzotti e Salustri, 2001, p.
221).
Tutte le teorie psicologiche implicano una qualche filosofia alla base ma poche lo
esprimono con la chiarezza con la quale lo fa l’Analisi Esistenziale, soprattutto a livello
antropologico. Frankl si ispira direttamente alle intuizioni di Max Scheler, soprattutto per
quanto riguarda la sua visione dell’uomo. La logoterapia, infatti, risulta un’applicazione
pratica dei concetti di Scheler alla psicoterapia. Per Scheler, la coscienza umana è
originariamente ed intenzionalmente orientata a valori eterni e disposti secondo una gerarchia
oggettiva. Nella gerarchia scheleriana dei valori troviamo al primo posto i valori sensibili,
ossia quei valori che rientrano nel continuum gradevole-sgradevole. Ci sono poi i valori vitali,
che comprendono i sentimenti corporei e quei sentimenti legati al corpo, come il coraggio o la
generosità. Al terzo posto troviamo i valori spirituali, ossia quei sentimenti legati all’anima (o
all’Io). Sono per esempio il vero e il falso, il bello e il brutto, il giusto o l’ingiusto. Per
Scheler, quindi, la persona è un’unità bio-psico-spirituale, dove tutte le parti sono importanti:
lo spirito da solo è impotente: deve penetrare il livello fisico e dominarlo secondo la gerarchia
dei valori .
Come uomo del suo tempo, Frankl viene influenzato anche dall’esistenzialismo che si
afferma dopo la prima guerra mondiale in Europa. Il tema centrale di questa nuova corrente è
quello dell’analisi dell’esistenza, quest’ultima intesa come modo specifico di essere
dell’uomo. In primo luogo, prendiamo allora in considerazione la figura di Karl Jasper,

25
psichiatra e filosofo, che, con le sue intuizioni, si stacca dalla modalità tradizionale del suo
tempo, nella lettura delle malattie mentali e anche rispetto al metodo clinico da seguire
(Bellantoni, 2011, pp. 46-51). Per Jasper, «il filosofare si configura come un trascendere verso
l’altro» (cit. in Bellantoni, 2011, p. 52). Egli individua tre poli in cui l’uomo può trascendersi:
queste modalità sono connesse tra loro ma sono orientate in tre direzioni diverse. Il primo
polo del trascendere si riferisce al mondo, ossia quella totalità di oggetti della quale fa parte
anche l’uomo. Ma per quanto l’uomo estenda il suo orizzonte, secondo Jaspers, non può mai
oltrepassarlo. Da qui nascerebbe la crisi della scienza moderna, che non è riuscita a dare quel
che all’inizio sembrava promettere, cioè una visione globale del mondo, sulla quale fondare i
valori in maniera stabile e universale. In questa situazione di “scacco”, il mondo viene a
trovarsi frantumato in una miriade di prospettive e ogni pretesa di comprenderlo globalmente
si scontra continuamente con i nuovi limiti sopraggiunti. Ma, proprio avvertendo questo
scacco, l’uomo arriva a concepirsi come esistenza in rapporto alla trascendenza (secondo
polo) e quindi a cercare il proprio orientamento al di là del mondo così come esso è di volta in
volta dato. L’uomo però non può comprendersi da solo: solo nella comunicazione con l’altro,
il singolo è realmente sicuro della sua identità. Si pone, a questo punto, il problema della
libertà e delle situazioni limite. Di fronte a queste situazioni-limite affiora l’angoscia, la
vertigine della libertà di fronte alle scelte, il momento critico in cui si è consapevoli di poter
essere annullati. L’uomo può rimanere paralizzato davanti ad essa o superarla, abbandonando
l’esserci tramite il suicidio, oppure scappando dalle situazioni-limite. Ma il vero modo di
sopportare l’angoscia consiste nel raggiungere la decisione di essere sé. Dalle situazioni-limiti
scaturisce la domanda per l’uomo “perché l’esistenza è così?”. Si arriverebbe, quindi, ad un
approfondimento nella ricerca dell’essere. In questo modo si costituisce il terzo impulso del
filosofare come trascendimento, connesso agli altri due dell’orientazione nel mondo e della
chiarificazione dell’esistenza: la metafisica. Nella metafisica si pone la domanda centrale
della filosofia: che cos’è l’essere? L’essere che io posso conoscere è sempre un essere
determinato, non è mai la totalità dell’essere o l’assoluto (ibidem, pp. 50-58).
Anche Martin Heidegger è fondamentale per il pensiero di Frankl. Il filosofo, infatti,
cerca di trovare una risposta al dilemma sul significato dell’Essere. Egli sostiene l’importanza
per l’uomo non solo di essere ma di capire cosa significa essere. È chiaro come quindi dalle

26
intuizioni di Heidegger, Frankl abbia inteso il concetto di significato. Inoltre da Heidegger,
Frankl prende la modalità di leggere l’uomo come un essere responsabile (Onah, 2000, pp.
60-67).
Frankl si lascia ispirare anche dalle riflessioni di Martin Buber, prima di tutto rispetto
alla relazionalità dell’essere umano: L’Io e il Tu non vivono staccati. Secondo Buber, chi non
ha mai “incontrato” un Tu non è pienamente un essere umano: solo aprendomi ad un Tu
divento veramente Io (Bellantoni, 2011a, pp. 62-65). E anche Frankl crede in questa
relazionalità dell’uomo: un Io che diventa tale solamente mediante un Tu. E non crede solo
nella relazionalità dell’uomo ma anche nella sua amabilità: Frankl vede l’amore come un
decidersi per l’altro, uno scegliere l’altro che ho scorto nella sua unicità. E questa scelta per
essere una scelta d’amore, non è una scelta che parte solo dall’istinto. Scrive a questo
proposito Frankl (1990a): «Nell’amore l’Io non è spinto da un Es. Nell’amore un Io si decide
per un Tu» (p. 42). In secondo luogo, anche Buber, come Frankl, crede nella religiosità
dell’uomo tanto da definirlo homo religious (cit. in Frankl, 1990a, p. 65).
Abbiamo quindi visto rapidamente a livello filosofico, a livello psicologico e anche da
quali esperienze significative della sua vita, Frankl prenda spunto per la sua teoria.

2.1.2. La persona integrale: le tre dimensioni dell’individuo integrale

Ci concentriamo ora nell’esposizione dell’ontologia frankliana ossia la visione


antropologica di Frankl.
Riprendendo Max Scheler, Frankl rappresenta l’uomo su tre livelli, o meglio come unità
dei tre livelli, bio-psico-spirituale. Questa ottica tridimensionale per la comprensione
dell’uomo prende appunto il nome di “ontologia dimensionale”. Ed è proprio il terzo livello
che caratterizza l’uomo come essere che può decidere, orientato verso la ricerca del suo
compito nella vita (Bellantoni, 2011, p. 122). Frankl (1990a) ricorda che l’essere umano è un
essere sempre rivolto verso un nucleo centrale, il nucleo di se stesso e, riprendendo Scheler,
afferma che questo nucleo è composto dagli atti spirituali e solo attorno a questi atti si
raggruppa lo psicofisico. Quindi possiamo dire che la persona È spirituale e HA uno

27
psicofisico. In conclusione, è la persona spirituale a fondare l’unità e la totalità dell’essenza
dell’uomo (pp. 29-30). Infatti Frankl sottolinea che «non si è mai sottolineato a sufficienza
che è proprio questa triplice totalità a costituire l’ intero uomo. […] Fino a quando si parla
solo di corpo e psiche, eo ipso non si può parlare di totalità» (ibidem, p. 30). Questo concetto
lo ribadisce spesso nei suoi testi: «Perché si possa parlare di totalità, è necessario aggiungere
la dimensione spirituale: solo la persona spirituale crea l’unità nell’uomo» (Frankl, 1998, p.
22). Questo però non vuol dire che Frankl assolutizzi la dimensione spirituale; egli infatti non
nega nessuna parte dell’uomo, neanche il suo essere animale. A questo proposito, usa
un’immagine molto significativa e riassuntiva: «L’uomo condivide con l’animale la
dimensione biologica e quella psicologica. Anche se il suo ‘essere animale’ viene superato
dimensionalmente dal suo ‘essere uomo’, tuttavia non cessa di essere animale. Anche a un
aereo resta sempre la possibilità di circolare come un’automobile nell’aeroporto, in un luogo
piano. Tuttavia, esso adempierà la sua reale funzione allorché s’innalzerà nell’aria, in uno
spazio tridimensionale. L’uomo è un animale: però è infinitamente più di un animale, e questo
grazie a una dimensione tutta sua, la dimensione della libertà» (Frankl, 2005b, p. 23).
Per non perdere mai di vista anche l’altra corsia della nostra autostrada, questa visione
antropologica si collega bene con la visione tricotomica della persona di San Paolo ripresa poi
da Sant’Ireneo. Dicevano i Padri che l’uomo è l’unità dello Spirito, anima e corpo. La
struttura tricotomica si può schematizzare in tre cerchi concentrici. Nel cerchio interno ci
sarebbe lo Spirito, nel secondo l’anima e infine in quello esterno il corpo. «La vita spirituale
ha origine nell’azione dello Spirito Santo che agisce dal di dentro della persona umana e si
manifesta all’esterno, nel vissuto, nell’agire e nella mentalità del cristiano. L’inabitazione
dello Spirito Santo nella persona umana è la partecipazione dell’Amore di Dio Padre
all’uomo. Questa partecipazione è atto costitutivo dell’uomo» (Rupnik, 1996, pp. 39-40).1
Ritornando a Frankl, la sua visione antropologica si concretizza nelle due leggi dell’ontologia
dimensionale. Nell’enunciare le due leggi, Frankl fa riferimento all’ontologia del filoso
tedesco Nicolai Hartmann e, come abbiamo già detto, alla visione antropologica di Scheler
(Bellantoni, 2011, p. 103).

1
C’è da fare una precisazione: i Padri della Chiesa e il teologo Rupnik quando parlano di Spirito intendono lo
Spirito con la maiuscola, lo Spirito Santo mentre abbiamo già visto cosa Frankl intendi per spirito. Vedremo poi,
nel terzo capitolo, come questo possa essere motivo di dissensi con la teologia.

28
Fig. 1 Fig. 2 (da Frankl, 2005b, pp. 55-56)

La prima legge dice che un solo e identico fenomeno, se non viene proiettato nelle sue
dimensioni ma in altre inferiori, da origine a figure diverse (cfr. figura 1). La seconda, invece,
afferma che fenomeni differenti, se proiettati su di un’unica dimensione, possono apparire
come equivalenti (cfr. figura 2) (Frankl, 1977a, pp. 33-35).
Come vediamo dalla seconda immagine, basta che prendiamo delle figure
tridimensionali come una sfera, un cono e un cilindro e le proiettiamo dall’alto su un piano a
due dimensioni: così facendo avremmo solamente una visione bidimensionale di questi
oggetti e vedremmo quindi la forma di tre cerchi perfettamente identici. Se invece li
proiettiamo su un piano a tre dimensioni, ogni figura sarà perfettamente riconoscibile nella
sua reale natura e nessuna perderà la sua identità.
Lo stesso succede con la spiritualità e con la religiosità dell’uomo: quando viene
proiettata, psicologicamente, nel piano dello psichismo umano, perde la sua vera identità:
«Binet presenta Gesù con la diagnosi “paranoia con crisi giovanile a carattere ebefrenico”»
(Frankl, 1998, p. 37). Ritenendo che questo concetto sia molto importante nel pensiero
dell’autore, riportiamo un ulteriore esempio tratto da uno scritto di Frankl (1977a), dove egli
prende in analisi la storia della Santa Giovanna d’Arco. Così scrive: «Non vi è dubbio che, dal
punto di vista psichiatrico, la santa sarebbe dovuta essere diagnosticata come un caso di
schizofrenia; e finché ci limitiamo al quadro psichiatrico di riferimento, Giovanna d’Arco è
“nient’altro” che una schizofrenica. Quel che essa sia al di là della schizofrenia non è
percettibile entro la dimensione psichiatrica. Non appena però ci inoltriamo nella dimensione
noetica e osserviamo la sua rilevanza teologica e storica, notiamo come Giovanna d’Arco sia

29
più di una schizofrenica. Il fatto che a livello psichiatrico ella sia diagnosticata come
schizofrenica, non toglie nulla al suo significato in altre dimensioni. E viceversa. Anche se
prendiamo per dimostrato che ella sia una santa, ciò non cambierebbe il fatto che sia anche
una schizofrenica» (p. 39).
Con questo Frankl non vuol dire che lo psichiatra deve riconoscere la santità della
donna o meno. Deve solamente attenersi alla sua parte e ammettere che può non essere tutto
qui, lasciare la porta aperta a un di più (ibidem).

2.1.3 Concetti fondamentali dell’Analisi Esistenziale

Possiamo dire che i punti fondamentali dell’approccio frankliano, oltre a quelli già
descritti in precedenza come la sua ontologia, il suo rifiuto verso i riduzionismi (vedi primo
capitolo), siano tre (Fizzotti e Salustri, 2001, p. 222):
1) L’uomo per Frankl è fondamentalmente libero e responsabile. Infatti per Frankl sono
tre sostanzialmente gli elementi che costituiscono l’esistenza dell’uomo come tale: la
spiritualità, la libertà e la responsabilità. E questi tre elementi sono sempre presenti
nell’uomo, anche nel malato di psicosi (Frankl, 1978a, p. 67). Rispetto a cosa Frankl intenda
per spiritualità ne abbiamo ampiamente parlato nel paragrafo precedente. Mentre, per quanto
riguarda la libertà, Frankl considera l’uomo come essere sempre libero di scegliere. Non nega
l’effetto dei condizionamenti esterni ma riserva all’essere umano la libertà di scegliere come
comportarsi rispetto ad essi. Infatti, Frankl distingue due tipi di libertà: la libertà “da” e la
libertà “per” (Frankl, 1990a, pp. 59-60). L’uomo è libero dai determinismi, ossia niente è
deterministico per lui (Frankl, 1998, pp. 17-19). E lo scopo, il fine ultimo di questa libertà, il
“per cosa” essere libero, è per essere responsabile (Frankl, 1990a, pp. 59-60). E questo
concetto di responsabilità ha senso solo se c’è un qualcuno verso cui essere responsabili. Deve
quindi esserci qualcosa che va oltre all’uomo stesso. Possiamo essere responsabili dinanzi
all’umanità, alla società, alla propria coscienza o anche di fronte a Dio. Questa scelta
comunque spetta alla libertà del singolo (Frankl, 1974, pp. 197-199).
2) Per Frankl, l’uomo non è guidato primariamente dalla motivazione di soddisfare un

30
suo piacere. Questo possiamo coglierlo molto bene quando Frankl (1998) afferma che
«L’uomo non è spinto dall’istinto, ma è attirato dai valori. […] I valori mi attirano, non mi
spingono. Per la loro realizzazione mi decido con libertà e responsabilità» (pp. 40-41).
L’uomo «è piuttosto è guidato da una volontà di senso che si manifesta in una continua
tensione tra la realtà esistenziale in cui si trova a vivere e il mondo dei valori che gli si
presenta come appello e come sfida» (Fizzotti e Salustri, 2001, p. 222). L’intera esistenza
viene quindi vista come compito unico e originale. Unico e originale perché unica è la
persona che sta vivendo quella situazione e unica e originale è la situazione che non si ripeterà
più (Frankl e Lapide, 2006, p. 71). Frankl sostiene che il vero problema esistenziale oggi è
quello di non trovare il significato per la propria vita (Frankl, 1990b, p. 25), e tale senso di
inutilità della vita porta l’uomo ad avere delle ricadute nevrotiche. In tal senso, egli sostiene il
principio dell’autotrascendenza, ossia l’avere uno scopo oltre me stesso verso il quale
indirizzare la mia vita. La mancanza di questo scopo porta un senso di vuoto esistenziale
(Frankl, 1978a, p. 16). E questo è un aspetto della dimensione spirituale dell’uomo, che
permette di individuare quella particolare nevrosi che Frankl chiama nevrosi noogena, ossia
una nevrosi riconducibile al vuoto esistenziale e richiede una terapia che parta dallo spirito e
che vada verso lo spirito (ibidem, pp.141.151).
Accanto all’autotrascendeza, in Frankl, troviamo anche il concetto di
autodistanziamento. La prima pone l’accento sul fatto che l’esistenza umana sia sempre
orientata verso qualcosa o qualcuno, mentre la seconda, l’autodistanziamento, intende invece
quella capacità prettamente umana per la quale l’uomo può decidere che posizione prendere
verso di se, verso le situazioni e in generale di fronte ai condizionamenti. La persona è quindi
libera di scegliere che atteggiamento adottare, anche rispetto al proprio carattere. Ed è proprio
questa possibilità a rendere un atteggiamento veramente umano, implcando l’apertura ad una
dimensione più alta dell’uomo rispetto a quella solamente biologica o psicologica: la
dimensione noetica (o spirituale, intesa in senso laico). Questa capacità permette all’uomo di
prendere la giusta distanza anche dalle situazioni limite, facendo leva sulla forza di resistenza
dello spirito (Frankl, 1977a, pp. 28-29). Ed è proprio questa precisazione che ci introduce al
prossimo elemento chiave nella teorizzazione di Frankl.
3) La centralità della ricerca di senso. Prima di approfondire questo concetto, è

31
fondamentale chiarire la differenza tra senso e significato. Il senso è ciò che spesso manca alle
persone: un qualcosa per cui vivere (Frankl, 2005a, p. 172). Il senso è quindi per Frankl
l’orientamento fondamentale che si dà alla vita, e non può essere dato: deve essere trovato
(Frankl, 2007, p. 26). Ed è proprio questo senso che illumina gli eventi che capitano ed è alla
luce di questo senso che acquistano significato. Il significato viene quindi rivolto ai valori del
singolo evento e in base ai valori che si hanno, si danno i significati a quegli eventi (Frankl,
1977a, pp. 62-63). Capiamo quindi come senso e significato vadano strettamente insieme e
come siano veramente centrali nel pensiero di Frankl, che arriva ad affermare che «ricercare il
senso vuol dire esistere» (Frankl, 1998, p. 75). E inoltre egli è fermamente convinto che
nonostante tutto, la vita dell’uomo conservi sempre un suo senso, in qualsiasi circostanza e
con qualsiasi condizionamento (Frankl, 2007, p. 28).
Traspare quindi di nuovo anche qui come l’uomo, in Frankl, sia un essere in ricerca di
un motivo per essere felice (e non del piacere in sé) (ibidem, p. 17). «In pratica, l’esigenza
profonda e radicale insita nella persona viva non è la volontà di potenza, né la volontà di
piacere, ma la volontà di significato. […] Per quanto concerne l’autorealizzazione oserei
affermare che la persona è in grado di realizzarsi solo nella misura in cui adempie un
significato» (ibidem, pp. 18-19).

2.2. La visione di V. Frankl nei confronti dell’esperienza religiosa

Prima di affrontare il tema della religiosità in Frankl, vanno fatte alcune premesse. La
prima è che Frankl ha spesso affrontato questioni di natura religiosa, però sempre
considerando la religione come un oggetto e non come una posizione personale (Batthyany e
Fizzotti, 2006, p. 7). Egli comunque sottolinea che «la religione per la logoterapia può anche
essere “soltanto” un oggetto, e non una posizione in cui attestarsi, ma questo oggetto le sta
comunque molto a cuore, e per una ragione molto semplice. In relazione alla logoterapia, il
logos significa “spirito” e, in ulteriore accezione, “senso”» ( Frankl e Lapide, 2006, p. 81).
Questo non toglie che egli ammetta un di più verso cui l’uomo può essere

32
responsabile, non solo rispetto alla società o alla comunità ma anche di fronte a Dio (Frankl,
1974, pp. 197-199).

2.2.1 Una religiosità inconscia: l’inconscio spirituale

Contestualizzando Frankl dentro la cornice della sua visione antropologico-filosofico,


si evince come, all’interno della spiritualità dell’uomo, sia presente una religiosità inconscia.
In tal senso, egli evidenzia come non ci sia solo un inconscio impulsivo ma anche uno
spirituale. Questa visione dell’inconscio nasce dalla necessità di includere anche lo spirituale,
per Frankl elemento costitutivo dell’esistenza umana, nell’ambito dell’inconscio. Questa
nuova lettura dell’inconscio è una novità se pensiamo alla visione di Freud, per esempio, che
vedeva l’inconscio come un serbatoio di impulsività repressa (Frankl, 1990a, pp. 25-26).
Il confine tra inconscio spirituale e quello impulsivo non può essere tracciato in modo
netto. Egli intreccia le tre dimensioni dell’essere umano con i tre gradini proposti da Freud di
conscio, preconscio, inconscio. Per capire meglio vediamo la figura 3 (ibidem, p. 31).
Il livello della profondità (il rettangolo per capirci) è rappresentato dalla divisione in
gradini mentre a livello concentrico troviamo le tre dimensioni dell’uomo secondo Frankl. In
questa prospettiva, capiamo quindi che anche la dimensione spirituale diventa di rilevanza
psicologica (e terapeutica) (ibidem, pp. 28-31).

Fig. 3 (da Frankl, 1990a, p. 31)

33
Oltre al concetto fin qui illustrato di inconscio spirituale o di spiritualità inconscia e
riprendendo i concetti chiave dell’analisi esistenziale ‒ come la visione di uomo come
essenzialmente libero e responsabile ‒, andiamo ora ad analizzare la visione frankliana circa
una “religiosità inconscia dell’uomo”. Frankl, parlando di spiritualità inconscia parla «di una
relazione inconscia con Dio, una relazione con la trascendenza che risulta immanente
all’uomo, pure se ancora troppo spesso latente» (ibidem, p. 72). L’autore parla di un Io
spirituale in relazione ad un Tu trascendente. In questo senso parla di Dio inconscio
intendendo che talvolta a noi, la relazione con la trascendenza risulta inconscia (non tanto che
sia Dio ad essere inconscio) (ibidem, pp. 72-73). Utilizzando questo termine, specifica che
bisogna stare attenti a tre fraintendimenti: questa formula non va interpretata in senso
panteistico. Con l’espressione di “inconscio spirituale” intendiamo dire che l’inconscio
contiene in se qualcosa di anche spirituale e non è che l’ES è qualcosa di divino. Un altro
possibile fraintendimento può avvenire in senso occultistico: il fatto che ci sia un sapere
inconscio su Dio, non significa che l’inconscio sia onnisciente o capace di conoscere più
dell’Io stesso. Infine, l’ultimo errore sarebbe quello di considerare l’inconscio come qualcosa
di impersonale, come fece per esempio Jung ponendo la religiosità inconscia tra il bagaglio
ereditato dagli archetipi, ossia mettendolo tra le caratteristiche dell’Es e togliendo quindi ogni
competenza dell’Io a questo riguardo: «secondo Jung l’Es in me è religioso ma “Io” non sono
credente» (ibidem, p. 76). Non stiamo qui parlando di una religiosità impulsiva ma di una
religiosità con carattere decisionale.
In ultima analisi, Frankl definisce la religione come «realizzazione di una “volontà di
significato ultimo”. Dicendo questo si collega all’affermazione di Einstein quando dice che
essere religiosi vuol dire aver trovato la risposta alla domanda: qual è il senso della vita?
(ibidem, p. 144).

2.2.2. Scopo del cammino psicologico e di quello religioso

Ma come si mette in relazione tutto questo con la maturità psicologica e con i percorsi

34
legati al benessere esistenziale in chiave analitico-esistenziale? Vediamo la posizione di
Frankl rispetto a questo quesito.
«La religione si presenta come un fenomeno nell’uomo, e perciò anche nel paziente.
[…] Per principio, la logoterapia considera l’esistenza religiosa e quella non religiosa come
due fenomeni coesistenti. Essa cioè si pone in atteggiamento neutrale nei loro confronti»
(Frankl, 1978b, p. 95) Inoltre, la riconosce nell’ottica della ricerca del significato. La
logoterapia, si occupa della volontà in un significato ultimo, ossia in un sovra-significato. La
fede religiosa, ultimamente, è fede in un significato superiore, un atto di fiducia nel sovra-
significato. Infatti, l’esistenza umana si proietta sempre più in là di se stessa per conseguire il
compimento di un significato. In logoterapia si parla quindi di “volontà di significato” e, in
questo senso, la fede nel significato costituisce una categoria trascendentale. E’ interessante
notare come l’essere umano sia sempre rivolto verso un significato anche se lo conosce poco.
Anche il suicida crede in un significato, che non è evidentemente quello della vita ma quello
della morte, altrimenti non sceglierebbe questa soluzione. In punto di morte, quella speranza
che la persona trova nel profondo di sé, è una speranza in una ulteriore realizzazione. A
questa speranza l’uomo, pur senza sogni, crede naturalmente. Ovviamente questo in una
visione dottrinale che non riduce Dio a un “dover credere” o “dover amare” che sono di per se
richieste impossibili. La strada sarebbe quella di riscoprire una religione personale, nella
quale ognuno scoprirà le parole più intime, più personali e più originali per rivolgersi a Dio
(Frankl,1990a, pp. 95-97).
Frankl specifica che il terapeuta non è interessato a problemi religiosi in quanto
terapeuta, in forza cioè della sua professione, ma nel caso venissero a galla certe questioni,
egli è obbligato alla tolleranza assoluta. A livello personale, invece, in quanto uomo e
credente, egli è altamente interessato alla religiosità altrui, ovviamente il tutto rispettando il
paziente e solo quando la religiosità emergesse in modo spontaneo. Questo sarà più facile nel
caso in cui il terapeuta sia religioso e quindi abbia fede non solo nel suo Dio ma anche nel
“Dio inconscio” del suo paziente, come in un Dio non ancora divenuto conscio al malato. In
ogni caso, la religiosità per Frankl è autentica solo se è esistenziale, ossia se è una decisione
dell’uomo e se è una manifestazione spontanea, ossia che la persona non prenda la decisione
perché spinta da altro: ad un’autentica religiosità l’uomo non si lascia spingere né dall’ES né

35
dal terapeuta (ibidem, pp. 83-84).
Sempre rispetto all’autenticità dell’esperienza religiosa, Frankl afferma che «la fede in
Dio o è incondizionata o non è fede. Se è incondizionata, resterà salda anche se sei milioni di
persone sono state vittime dell’olocausto; se non è incondizionata, allora […] crollerà dinanzi
a un solo bambino innocente che muore. Infatti non possiamo contrattare con Dio; non
possiamo dire: per quanto mi riguarda tengo salda la mia fede in te fino a seimila o a un
milione di vittime dell’olocausto; ma da un milione in avanti non c’è niente da fare: mi
dispiace, ma non posso più credere in te» (ibidem, pp. 142-143).
Un altro aspetto che Frankl sottolinea è che bisogna nettamente separare la funzione
del terapeuta dalla missione del sacerdote. Come la logoterapia non vuole sostituire la
psicoterapia ma solo completarla, allo stesso modo la cura medica dell’anima non vuole in
alcun modo sostituire la direzione spirituale. Sono due sfere autonome: se la religione è
efficace nel campo psicoterapeutico, la sua intenzione primaria non è affatto psicoterapeutica.
Essa può agire nel campo della salute psichica ma il suo scopo non è in alcun modo la
guarigione psichica, bensì la salvezza dell’anima (ibidem, pp. 83-86).
Frankl specifica a questo punto il rapporto che c’è tra la logoterapia e la religione.
Questo rapporto viene definito in funzione degli scopi di ognuna delle due: lo scopo della
religione è la salvezza dell’anima mentre quello della psicoterapia è il benessere psicologico.
Capiamo bene che i due obiettivi non si pongono sullo stesso livello, né hanno lo stesso
valore (Frankl, 1978b, pp. 95-96). Egli afferma inoltre che «la religione dà all’uomo molto di
più della psicoterapia e nello stesso tempo gli chiede anche molto di più. […] Ogni
contaminazione di queste due sfere, che negli effetti possono sovrapporsi, mentre
nell’intenzione sono del tutto separate, è da rifiutare per principio» (Frankl, 1990a, p. 87).
Dice Frankl che «l’uomo religioso si introduce in una dimensione più alta, cioè più
comprensiva, più ampia di quella della sola psicoterapia. Tuttavia il passaggio in tale
dimensione superiore non avviene nella conoscenza, bensì nella fede» (Frankl, 1978b, pp. 95-
96). Il sacerdote che lotta per la salvezza dell’anima di un suo fedele, non mira a preservarlo
dalla tensione emotiva, ma punta a salvarlo e questo certamente gli provocherà una certa
tensione interiore dato che il motivo primario del suo intervento non è psicoigienico: «La
religione è ben di più che un semplice mezzo per evitare di ammalarsi di ulcera

36
psicosomatica» (Frankl, 1990a, pp. 89-90).
Questo non esclude che i risultati ottenuti dalla religione abbiano degli effetti positivi
nella vita psichica di una persona (sempre per “effectum” e non per “intentionem”). Lo stesso
può accadere con la psicoterapia: pazienti che in un trattamento psicoterapeutico possono
ritrovare le fonti di una fede originaria, inconscia, rimossa. E’ importante precisare,
comunque, che il livello della guarigione psichica è di carattere del tutto diverso da quello
della salvezza dell’anima.
Come è da proteggere la libertà dell’uomo, va protetta anche la libertà della scienza di
poter arrivare a risultati di ricerca non concordanti con le verità della fede. Chi cerca di unire
la psicoterapia alla teologia, schiavizzandola completamente, non solo la deruba di dignità di
scienza autonoma ma le toglie anche il valore di utilità che può avere per la religione (Frankl,
1990a, pp. 87-88).
Riassumendo il pensiero di Frankl, potremmo dire che per lui «la religiosità è
espressione della ricerca di senso e, come tale, è anch’essa irriducibile e non indagabile»
(Batthyany e Fizzotti, 2006, p. 8). Individua nell’uomo un inconscio spirituale, una tensione a
volte inconscia di relazionarsi con Dio, motivato appunto da queste domande esistenziali, da
questa ricerca di senso (cfr. Frankl, 1990b, pp. 25-35 e Crea, 2014, p.113).

2.2.3. Ricerca di Dio e domanda di senso: il dialogo tra Lapide e Frankl

Durante il lavoro, abbiamo più volte accennato, e accenneremo ancora, al dialogo tra
Frankl e Lapide, un’opera sui generis di Frankl, sia per la forma colloquiale che per
l’impostazione tematica, ossia su un dialogo tenutosi nel 1984 con il teologo ebreo Pinchas
Lapide i quali nastri registrati sono stati riscoperti e sbobinati solo 20 anni dopo, ossia nel
2004 (Batthyany e Fizzotti, 2006, pp. 5-6). Vediamo quindi di soffermarci brevemente su
questo dialogo, proprio per la extra-ordinarietà dell’opera, la spontaneità e la genuinità del
dialogo tra i due. Inoltre , in questa condivisione tra i due, vengono toccati, in modo
riassuntivo, tutti i punti fondamentali del pensiero di Frankl rispetto alla dimensione religiosa.
Procederemo quindi riportando alcune parti particolarmente significative ai fini di questo

37
lavoro. Ciò a cominciare con quanto riportato sulla copertina del testo:

Un intenso discorso interdisciplinare sulla guarigione e la salvezza, tra


psicoterapia e teologia, scienza e fede, percorsi spesso in contrasto, qui riavvicinati
all’interno di un medesimo, forte, desiderio di ricerca della verità. Un dialogare
prezioso sulla sofferenza e la colpa, ma anche sull’amore e il senso della vita, per
comprendere i limiti del proprio sapere e aprirsi alla vera tolleranza (Frankl e
Lapide, 2006, p. 4a di copertina).

Va detto che in quest’opera, proprio per l’intimità e la spontaneità della circostanza, a


volte Frankl non parla più come psichiatra o come neurologo ma come persona privata che si
interroga sul senso della vita. L’opera, infatti, getta uno sguardo profondo anche sulla fede
personale di Frankl, all’interno del dialogo tra due cari amici (Fizzotti, 2011, p. 38). 2
Una novità, che finora non abbiamo visto nel pensiero di Frankl e che lui espone qui, è
la definizione di Dio. Chi è Dio per Viktor Frankl? Infatti, ad un certo punto Lapide chiede a
Frankl che cosa intenda lui quando dice “Dio”e Frankl risponde che a 15 anni diede una
“definizione operazionale” di Dio: «Dio è il partner dei nostri più intimi soliloqui» (ibidem,
pp. 30-31). Da questa affermazione appare che per Frankl Dio è Qualcuno con il quale
mettersi in dialogo, ma qualcuno di cui ci si può fidare perché partner dei “più intimi
soliloqui”. Più avanti afferma che se Dio esiste, non si arrabbierà se qualcuno lo scambia con
il proprio sé e lo chiama con un altro nome. Che «l’ateo affermerà che è ridicolo, che se è un
soliloquio, vuol dire che sto parlando con me stesso. Lo psicanalista affermerà che stiamo
dialogando con il nostro Super-Io. Un altro sosterrà che stiamo parlando con la nostra
coscienza. E l’essere umano religioso dice semplicemente: “Io questo lo chiamo Dio”» (p.
53). In conclusione, in quest’opera cogliamo come per Frankl l’esperienza religiosa vada colta
in ottica relazionale: un Io che interpella un Tu che nel concreto il credente chiama Dio (cfr.
pp. 73-74). Infatti, citando Jaspers, Frankl afferma che «l’essere umano non deve a se stesso
la propria esistenza; egli è un dono della trascendenza» (p. 85).

2
Un altro documento che può illuminarci sulla fede personale di Frankl, è rappresentato da una lettera, datata
15 ottobre 1946 e diretta al parroco di Kahlenbergerdorf, nella quale Frankl racconta al parroco di una sua
paziente cattolica morta nel 1941, gli chiede di celebrare una Messa di suffragio per la ragazza e si offre di
prendersi cura della tomba e di procurare una piccola croce di legno sopra. Ora, Frankl era ebreo e un tale
atteggiamento conferma «la sua straordinaria apertura all’esperienza religiosa nel rispetto delle singole
appartenenze» (Fizzotti, 2011, pp. 38-39).

38
2.3. Rilievi conclusivi

Dopo aver esposto gli elementi storico-biografici della vita dell’autore preso come
riferimento di questo lavoro, siamo passati ad esplicitare la sua visione antropologica, o
ontologica, sottolineando quando sia fondamentale la dimensione spirituale nella visione di
uomo di Frankl. Abbiamo poi rapidamente presentato alcuni elementi generali che
caratterizzano l’Analisi Esistenziale per approfondire poi la sua visione dell’esperienza
religiosa ed il concetto di l’inconscio spirituale, per arrivare alla fine a vedere in concreto
come sia possibile mettere in relazione la logoterapia e l’esperienza religiosa. Infine, abbiamo
proposto uno squarcio dell’opera Ricerca di Dio e domanda di senso, evidenziane alcuni
passaggi particolarmente significativi riguardo allo sviluppo del tema di tesi.
Riassumendo il tutto, grazie alle parole di Fizzotti (2013), possiamo dire che «Frankl
riconosce alla religione il ruolo legittimo che può assumere nella vita del singolo, le concede
il significato che le spetta come espressione della ricerca di senso e la tiene il più lontano
possibile dalla terapia applicata, nel pieno rispetto dell’indispensabile riserbo teorico del
medico e del terapeuta» (p. 29). Assumendo un atteggiamento neutrale, egli riconosce ciò che
può motivare l’uomo religioso, senza fare una diagnosi psicologica delle sue convinzioni e
desideri.
Se la ricerca di senso basti per essere espressione di religiosità dell’uomo, non spetta a
noi dirlo: trovare questa risposta è compito della teologia. «Ciò che noi psichiatri possiamo –
e dobbiamo – fare, è unicamente il tenere vivo il dialogo tra religione e psichiatria nello
spirito di reciproca tolleranza» (Frankl, 1990a, p. 144).
Questa frase sembra sintetizzare quanto detto in questo capitolo e ci introduce al terzo
capitolo, in cui cercheremo una modalità concreta di autentica collaborazione tra vita
spirituale e psicologia.

39
CAPITOLO 3

PSICOLOGIA E SPIRITUALITÀ IN RELAZIONE AL BENESSERE DELLA


PERSONA: È POSSIBILE UNA COLLABORAZIONE?

«Ciascuno dei due occhi vede le cose diversamente dall’altro.


Ma proprio grazie a questa diversità
si guadagna una dimensione completamente diversa,
vale a dire la dimensione dello spazio:
la visione spaziale è possibile soltanto grazie alla divergenza».
(Frankl e Lapide, 2006, p. 61)

Tutto quanto è stato detto finora, è funzionale a questo punto, centro del nostro lavoro:
come possono collaborare psicologia e vita spirituale per il benessere della persona?
Come dice Rupnik (1996), «Bisogna cercare la via nella quale la psicologia e la vita
spirituale non si combattano né si confondano, ma si integrino» (p. 28). Ed io oserei
aggiungere, “collaborino”. Per raggiungere tale scopo, quello della collaborazione armonica
tra psicologia e vita spirituale, ci sono due presupposti fondamentali: è necessario partire da
una concezione integrale della personalità ed è importante mantenere ben chiari e distinti i
due punti di vista, psicologico e spirituale. Parafrasando la frase sopracitata di Rupnik, non è
perdendo la loro identità e fondendosi che psicologia e spiritualità possono aiutare l’uomo ma
ognuna apportando ciò che può offrire nella sua specificità e unicità. Si cerca insieme la
verità, guardando allo stesso oggetto da angolazioni diverse, per averne una visione più vicina
e integrale. Il distinguere, quindi, non vuol dire dividere ma unire ancora di più rimanendo
però saldi nella propria identità.
L’obiettivo che si pone quindi questo capitolo è quello di proporre una modalità di
collaborazione tra psicologia e vita spirituale alla luce di quanto detto finora.
In tal senso, nella prima parte del capitolo, considereremo la questione della maturità
umana in un’ottica interpersonale. Ci sposteremo poi, dalla relazione con gli altri alla maturità

40
nella relazione con l’Altro, per proporre infine delle testimonianze concrete di vita.
Nella seconda parte, invece, verrà descritto come l’esperienza religiosa può svolgere
una funzione d’integrazione per la vita e verrà fatta una proposta di formazione integrale.
Infine, nella terza e ultima parte, saranno presentate delle piste di dialogo e
collaborazione tra psicologia e vita spirituale, secondo alcuni autori attuali che si occupano e
preoccupano del dialogo tra queste.

3.1. L’apporto della fede alla maturità umana alla luce di una prospettiva interpersonale

Cercheremo qui di vedere come il cammino di maturazione umana e quello di


maturazione spirituale siano fortemente intrecciati nella vita di una persona, in vista di una
sua formazione o maturazione integrale (Crea, 2005, p. 11). In letteratura non c’è una
definizione univoca del termine maturità. Infatti, i diversi autori propongono differenti
definizioni in base alle aree della persona che vengono privilegiate dalla loro visione
antropologica (Formella, 2009, p. 14). Abbiamo già visto, ad esempio, come per Frankl la
persona sia un’unità bio-psico-spirituale (Frankl, 1990a, p. 30) e quindi, per una maturazione
integrale, si debbano prendere in considerazione tutte e tre le dimensioni dell’essere umano.
In questa prima parte del capitolo, in particolare, la sfera spirituale verrà considerata dapprima
in funzione dell’apertura agli altri e poi dell’apertura all’Altro (Frankl, 1974, pp. 72.197-199),
verificando, quindi, in alcune testimonianze concrete, come sia spiegabile, alla luce
dell’analisi esistenziale, questo collegamento tra maturità umana e maturità spirituale.

3.1.1. Il processo di maturazione nella relazione con gli altri

Nella visione analitico-esistenziale, la maturità viene vista in funzione della scoperta del
senso della propria vita, così come anche l’educazione (Frankl, 1990a, pp. 108-109), e
l’atteggiamento religioso viene interpretato come una delle strade attraverso le quali è
possibile giungere alla realizzazione del compito unico ed originale della propria esistenza
(Fizzotti, 2013a, p. 10).

41
A questo punto, è bene fare una precisazione: non possiamo fare affermazioni generali
sulla religiosità della persone e quindi parliamo qui di esperienza religiosa matura nel senso di
quell’esperienza che deve essere esistenziale, in cui l’uomo non è spinto ma si decide per essa
(Frankl, 1990a, p. 84). Se l’esperienza è matura, diventa un’esperienza di ricerca in grado di
unificare e totalizzare tutti gli altri aspetti dell’esistenza della persona (Fizzotti, 2013b, p. 48).
A questo riguardo, abbiamo visto nel capitolo precedente quanto per Frankl sia
importante il concetto di autotrascendenza e come l’uomo, nell’ottica frankliana, possa
realizzarsi davvero solo se concentrato al di fuori di sé e ciò anche nella relazione con gli altri
(Frankl, 1977b, pp. 52-54). Amore è quando ci mettiamo davanti all’unicità degli altri e
rimaniamo in questo incontro. Infatti, «nell’amore l’Io non viene spinto da un Es. Nell’amore
un Io si decide per un Tu» (Frankl, 1990a, p. 42). E’ chiaro come, in Frankl, la relazionalità
sia importante per lo sviluppo di una maturità autentica nell’uomo. In realtà, ciò appare
evidente anche in altri autori e correnti, che evidenziano come l’uomo sia essenzialmente un
essere relazionale. Per esempio, Allport (1969) definisce la personalità matura come quella
che ha un senso dell’io ampiamente esteso, che è in grado di porsi in relazioni intime (e non)
con gli altri, che si accetta e che gode di una buona sicurezza emotiva, che agisce secondo
un’oggettiva percezione della realtà esterna, che è capace di autoggettivazione, di
comprensione di sé e senso dell’umorismo ed infine che vive secondo una concezione
unificatrice della sua vita (p. 262). Tra questi diversi aspetti, qui ci soffermeremo soprattutto
sull’aspetto della dimensione relazionale.
In tal senso, come abbiamo visto, Allport parla di io esteso. In effetti, il senso dell’io,
che si costituisce poco a poco durante l’infanzia, si estende poi negli anni a venire grazie alla
relazione con gli altri (ibidem, pp. 241-243), per cui, Allport, sempre in riferimento alla
personalità matura, parla di “cordiale rapporto con gli altri” (ibidem, p. 243). Il termine
cordialità viene qui preso in considerazione secondo due accezioni: da una parte, in virtù
dell’estensione dell’io, la persona matura sa vivere l’intimità nelle relazioni, dall’altra viene
vista come compassione, ossia come quell’attitudine generale di rispetto, di apprezzamento e
di tolleranza verso la comune condizione umana.
Viceversa, la persona immatura è colei per la quale sono importanti solo lei e le cose
sue, che desidera essere amato molto più di quando essa non desideri dare il suo amore

42
(ibidem, pp. 243-245).
In tal senso, Crea (2005) afferma che «la relazione diventa la chiave di interpretazione
della propria storia di maturazione e di crescita, perché è il luogo dove il modellamento
intrapsichico si coniuga con il modellamento interpersonale o, per dirla più semplicemente,
dove il cambiamento e la maturazione di sé vanno di pari passo con il cambiamento e la
maturazione dei rapporti con gli altri» (p. 111).
Molti autori sono concordi nell’affermare che la persona umana si può sviluppare
autenticamente solo nell’incontro con l’altro: John Bowlby, Lorna Benjamin, Eric Berne,
Wilford R.D Fairbain, Donald W. Winnicott, solo per citarne alcuni.
Bowlby, per esempio, concentra i suoi studi sulla relazione che viene ad instaurarsi nei
primi anni di vita con la madre. Egli infatti teorizza l’attaccamento come una predisposizione
biologica del piccolo verso la persona che si prende cura di lui. Il legame con la madre non è
quindi visto come nell’approccio psicanalitico classico, che lo concepisce solo come mezzo
per soddisfare delle pulsioni, ma Bowlby lo legge come bisogno primario di cura, di contatto
e di conforto (Camaioni e Di Blasio, 2002, pp. 221-223).
Lorna Benjamin, invece, afferma che ogni bambino ha come bisogno fondamentale la
vicinanza psichica: ossia, tanto è fondamentale per il bambino instaurare una relazione con la
madre, così forte è il suo bisogno di essere visto e di stare vicino alla madre, che pur di starci
accanto adegua i pattern relazionali a tal punto che possono anche diventare modalità
disfunzionali (Benjamin, 1997, p.192).
Sempre a questo riguardo, Berne sostiene che il bambino nasce con un
equipaggiamento innato ma che poi per svilupparsi ha necessariamente bisogno della
relazione con la madre (Crea, 2005, p. 117). Anche Fairbain, pur quasi contemporaneo a
Freud ma facendo riferimento a una visione antropologica totalmente diversa, evidenzia che il
bambino, fin dalla nascita, ha innate capacità relazionali (Lis, Stella e Zavattini, 1999, pp.
182-183). Anche lui sottolinea quanto sia importante il legame relazionale, tanto che è meglio
che ci sia un’esperienza dolorosa che non ci sia affatto esperienza di legame (ibidem, pp. 190-
191). Più o meno sulla stessa linea si colloca anche Winnicott che, inoltre, introduce il
concetto di “oggetto transizionale”: è così importante mantenere il legame con la madre, che il
bambino, tra i 4 e i 12 mesi, può investire affettivamente un oggetto e renderlo così ponte tra

43
lui e la madre affinché, in assenza della madre, lui possa comunque avvicinarsi a questo
affetto (ibidem, pp. 199-201).
Abbiamo quindi visto, notando anche una certa concordanza su questo aspetto nella
letteratura, che, per la maturazione e sviluppo integrale, la persona ha bisogno di instaurare
delle relazioni. In altre parole, potremmo dire che non esiste maturità se non in una
prospettiva interpersonale e relazionale: l’altro è un orizzonte per la maturazione di se stessi.
(Crea, 2005, pp. 113-114).
Vediamo ora come quest’ottica relazionale possa essere adottata anche per quanto
riguarda l’Altro con la A maiuscola.

3.1.2. Il processo di maturazione nella relazione con l’Altro

Quando Crea (2005) afferma che «la relazione diventa la chiave di interpretazione
della propria storia di maturazione» (p. 111), continua poi dicendo che «se la relazione è
l’opzione preferenziale per la crescita, essa è anche il sentiero che il cristiano percorre per
incontrarsi con Dio» (ibidem).
Innanzitutto, è necessario sperimentare che, come qualsiasi relazione umana, anche la
relazione con Dio può essere matura o immatura. In tal senso, abbiamo visto, nel primo
capitolo, come quasi tutti gli autori, ad eccezione di Freud che tende a vedere l’esperienza
religiosa come una manifestazione nevrotica, propongano un loro criterio per definire e
differenziare l’esperienza religiosa matura da quella immatura.
Ad esempio, Adler nota come ci siano persone che funzionalizzano Dio e la relazione
con lui, usandolo come rifugio e alibi, mentre ce ne sono altre che lo vedono come ideale
umano di perfezione da raggiungere e fattore di socializzazione (Adler, 1994, p. 200). James
individua i “nati una sola volta” e i “due volte nati” (James, 1998, pp. 85-89). Fromm invece
definisce “autoritaria” l’esperienza religiosa immatura e “umanistica” quella matura (Fromm,
1978, p. 35), mentre Allport parla rispettivamente di religiosità “estrinseca” ed “intrinseca”
(Allport, 1969, pp. 256-258).
In particolare, a questo punto, vale la pena spendere due parole in più rispetto alla

44
visione di Allport. Questo autore, tra i criteri che definiscono una personalità matura (ibidem,
pp. 241-257), evidenzia quello di una concezione unificatrice della vita, un valore che orienta
e da senso, per dirla secondo il linguaggio frankliano, a tutte le esperienze. Ebbene, tra questi
valori, capaci di svolgere tale funzione, Allport considera quello religioso e spirituale come il
più unificante e, in tal senso, cita Spranger che definisce l’uomo religioso come «colui la cui
struttura mentale è permanentemente diretta alla creazione dell’esperienza di valore più alto e
soddisfacente in assoluto» (cit. in Allport, 1969, p. 255).
Questa visione, per certi versi, accomuna anche quella di Frankl che, come abbiamo già
detto più volte, considera matura l’esperienza religiosa solo se è esistenziale e se alla base c’è
una decisione libera e responsabile (Frankl, 1990a, p. 84). Infine, per Assagioli, l’esperienza
religiosa matura è quell’esperienza che favorisce una psicosintesi trans personale, ove vi è una
sintesi armonica di tutti gli aspetti della personalità umana (fisico, emotivo, mentale e
spirituale), sia consci che inconsci (Assagioli, 1973, p. 27-33 cfr. Fizzotti, 2008, pp. 71-75).
Dopo questo necessario chiarimento, specifichiamo che, in questa sede, parleremo di
esperienza religiosa matura e di come essa possa contribuire alla maturazione umana.
D’altra parte è anche importante specificare che non serve essere perfettamente maturi
per mettersi in relazione con Dio: Egli si mette in relazione con noi anche se abbiamo un “Io
labile” (Crea, 2005, pp. 114-115). Frankl, nelle sue opere, riporta più volte un esempio
significativo, in cui parlando di una sua paziente affetta da schizofrenia infantile, evidenzia
come Dio è così grande che può umiliarsi e farsi così piccolo da riuscire ad entrare anche
nell’anima più inetta (in Frankl e Lapide, 2006, pp. 44-45). Quindi il parallelismo tra maturità
umana e maturità spirituale non viene fatto come condizione fondamentale per poter avere
una relazione con l’Altissimo. Per Lui l’immaturità umana non è un limite, ma ciò che si
vuole evidenziare in questa tesi è che la relazione con Dio può rappresentare anche
un’opportunità di crescita ed integrazione umana.
Infatti, un’autentica relazione con Dio spinge la persona a porsi in un autentico dialogo
con gli altri (Crea, 2005, p. 116). In tal senso, lo stesso Gesù dice che non possiamo amare
Dio che non vediamo se non amiamo il fratello che ci sta accanto (IGv 4,19-20).
In un’ottica cattolica, quando parliamo di maturazione integrale parliamo sempre nella
duplice ottica di maturazione umana e cristiana. Da una parte, quindi, questa visione

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comprende la capacità di sviluppare la potenzialità della persona in modo armonico e
integrato, dall’altra, tale maturità non esclude le aspirazioni spirituali dell’individuo ma anzi,
al contrario, lo accompagna al punto d’incontro con il Totalmente Altro. In altre parole,
l’immaturità umana è un “limite” (nel senso che può creare sofferenza) per l’uomo, non per
Dio. In tal senso, Frankl sottoscrive queste parole di Millar, docente all’Università di
Aberdeen: «Vi è certo qualcosa di sbagliato nell’idea che l’integrità debba essere equiparata
alla sanità mentale, che un individuo agli occhi di Dio non è completo se non possiede un
certificato di buona salute rilasciato da uno psichiatra. Che dire del bambino idiota o dello
schizofrenico isolato o del paziente affetto da demenza senile? … Dovrà necessariamente
esserci un senso in cui queste creature di Dio raggiungeranno una loro completezza, benché
clinicamente non vi sia alcuna speranza in una loro guarigione» (cit. in Frankl, 1977b, p. 149).
D’altra parte, abbiamo già specificato che il processo di maturazione cristiana non si
identifica necessariamente con quello di maturazione umana, ma lo esige necessariamente,
perché per sua natura suppone la collaborazione libera e responsabile dell’uomo (Crea, 2005,
p. 30).
A partire da queste considerazioni, riprendiamo Frankl, per il quale, se l’uomo mira solo
alla realizzazione di sé, rischia di perdere di vista gli orizzonti più ampi ai quali è chiamato.
Quindi l’autotrascendenza, intesa come capacità di apertura verso l’altro o verso l’Altro,
permette alla persona di uscire da sé per realizzare la vera natura del suo essere. In questo
caso, ciò che da senso alle diverse esperienze della vita non è solo qualcosa o qualcuno ma
Qualcuno (Crea, 2014, pp. 99-100).
Per Frankl la religiosità ha un carattere decisionale (Frankl, 1990a, p. 84), il decidersi
di aprirsi ad una relazione personale con il Tu di Dio (Crea, 2014, p. 112). Inoltre, sempre
Frankl parla di una religiosità inconscia, di una relazione inconscia con Dio, con la
trascendenza che, anche se immanente all’uomo, troppo spesso rimane latente (Frankl, 1990a,
p. 72). Ebbene, «questa religiosità inconscia dispone la persona all’incontro con il Totalmente
Altro e richiama la verità noetica della sua realtà esistenziale» (Crea, 2014, p. 112).
Quindi, rispondendo al come l’esperienza religiosa matura possa contribuire alla
maturazione umana, possiamo affermare che, secondo una prospettiva analitico-esistenziale,
un’esperienza religiosa matura rimanda a un autentico incontro esistenziale con il Totalmente

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Altro, rivestendo un ruolo integrante o unificatore, per dirlo con parole di Allport. In termini
frankliani, questo Qualcuno può essere colui che illumina il senso della mia esistenza (cfr.
Frankl, 1974, p. 198) e, quindi, mi porta a compiere il compito unico ed esistenziale della mia
vita, obiettivo fondamentale del processo di maturazione (cfr. Frankl, 1990a, pp. 108-109).

3.1.3. Testimonianze di vita concrete: V.E. Frankl e N.Van Thuan

Abbiamo detto che l’approccio privilegiato da Frankl è un approccio fenomenologico,


ossia tende a cogliere la realtà per come si manifesta, piuttosto che interpretarla, estrapolando
da essa le sue ipotesi. In tal senso, si pone come metodologia descrittiva di ciò che appare
(Bellantoni, 2011, p. 319). Pertanto, a questo punto, proveremo a trovare un riscontro, di
quanto fin qui affermato, in due testimoniante di vita.
In effetti, le testimonianze prese in considerazione potevano essere molteplici e, solo per
motivi di opportunità, ci limiteremo all’esperienza nel lager di Viktor Emil Frankl, autore
preso come riferimento di tutto il lavoro, e l’esperienza di prigionia del cardinale François-
Xavier Nguyen Van Thuan.
Avendo già avuto modo di presentare, nel secondo capitolo, alcuni cenni biografici
riguardo la vita di Frankl, in questa sede, ci focalizzeremo solo sulla sua esperienza nei campi
di concentramento, mentre dedicheremo maggiore spazio ad alcuni dati biografici relativi
cardinal Van Thuan, per poi procedere ad alcuni collegamenti tra queste due straordinarie
figure.
François-Xavier Nguyen Van Thuan nasce il 17 aprile 1928 nel Vietnam centrale, in un
clima complicato di guerre politiche tra francesi, vietnamiti e mandarini, che poi diventarono
anche pretesto di massacro contro i cristiani (Ngueyen Van Chau, 2004, pp. 13-19). Nel 1941
‒ siamo nei primi anni della seconda guerra mondiale ‒, all’età di tredici anni, entrò nel
seminario minore di An Ninh (ibidem, pp. 49-51). La seconda guerra mondiale provò molto il
Vietnam, incrinando ancora di più i rapporti con il Giappone (ibidem, p. 89) e conducendo il
Paese, alla fine della guerra, a cadere nelle mani di un gruppo di comunisti (ibidem, p. 105).
Da questo momento varie esperienze di morti tragiche e ingiuste di familiari segnarono

47
la vita del giovane Thuan (ibidem, pp. 107-109). Nel 1947 passa al seminario maggiore e nel
1953 diventa finalmente sacerdote, iniziando il suo servizio in una parrocchia a 160 km dalla
sua, dove ebbe modo di esperienza diretta del clima terribile della guerra (ibidem, pp. 127-
129).
Nel 1956 si trasferisce a Roma, per studiare alla Pontificia Università Urbaniana, e vi
rimane tre anni quando, nel 1959, appena discussa la sua tesi dottorale sull’organizzazione dei
cappellani militari nel mondo (ibidem, pp. 165-172), è costretto a tornare di corsa in Vietnam
perché una zia sta morendo di cancro. Al suo Paese gli viene affidato l’incarico di insegnante
al seminario minore (ibidem, pp. 178-179). Nel 1967, Thuan viene nominato vescovo di Nha
Trang (ibidem, p. 212) e rivolge la attenzione a formare il maggior numero possibile di
uomini al sacerdozio, come misura preventiva spirituale alla propaganda comunista (ibidem,
p. 222).
Nel 1971 viene nominato presidente del COREV (una commissione di Cooperazione
per la Ricostruzione del Vietnam) (ibidem, pp. 231-233) e, dopo qualche anno, nel 1975,
proprio mentre anche il Vietnam del Sud cade nelle mani dei comunisti, viene nominato
arcivescovo di Saigon (ibidem, pp. 237-240). Il 15 agosto 1975, viene arrestato e costretto
agli arresti domiciliari in una parrocchia non lontana da Nha Trang, sua prima diocesi da
vescovo (ibidem, pp. 243-251).
Sarà proprio in questo periodo di arresti domiciliari che scriverà, in modo clandestino,
la sua opera “il cammino della speranza”, una serie di lettere, meditazioni, preghiere ed
ispirazioni, raccolte e rese disponibili per i fedeli (ibidem, p. 253). La pubblicazione del libro
suscitò la reazione del regime, per cui l’arcivescovo fu trasferito in carcere, in una piccola
cella, in isolamento totale (ibidem, p. 259).
In isolamento, Thuan vive in condizioni disumane, senza contatto con nessuno,
sottoposto a torture e a sporadici interrogatori. Dopo un anno, viene spostato insieme ad altri
prigionieri, nel Vietnam del Nord, e sottoposto ai lavori forzati. Qui riesce a procurarsi, di
contrabbando, un po’ di vino e dei pezzetti di pane per celebrare la S. Messa (ibidem, pp. 260-
273). Nel 1977, viene trasferito in un ex-campo di prigionia per soldati americani,
rimanendovi per un anno, e quindi, per altri quattro anni, in una ex-canonica.
In quest’ultima sede, inizia ad avere contatti con le persone, a convertire ex-spie

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comuniste e anche le guardie (ibidem, pp. 279-291). Per questo motivo, dal 1982 e per i
successivi sei anni, torna in cella d’isolamento e spostato continuamente da un posto all’altro
(ibidem, pp. 293-295).
Liberato il 21 novembre 1988 (ibidem, p. 301) e successivamente ordinato cardinale,
muore a Roma il 16 settembre 2002 (ibidem, p. 11).
Vediamo ora le somiglianze tra Van Thuan e Frankl e come, nelle loro vite, sia possibile
trovare traccia di ciò di cui abbiamo parlato finora.
Frankl, invece, viene rinchiuso nei lager nazisti dal 1942 al 1945 (Fizzotti, 1974, pp. 7-
8), divenendo da quel giorno il numero 119.104 (Frankl, 2011, p. 29). Questa esperienza
marcherà Frankl per sempre e sarà anche fondamentale per lo sviluppo della sua logoterapia.
Nei lager, Frankl è testimone di vari esempi di altruismo e solidarietà, attribuibili
soprattutto a una profonda fede religiosa, in cui egli trova conferma della sua teorizzazione
antropologica e del rapporto, a volte inconscio, dell’uomo con Dio (Fizzotti, 1998, p. 9).
Infatti, è lo stesso Frankl (2011) ad affermare che gli unici due interessi che sopravvivono nei
lager sono l’interesse politico e quello religioso, quest’ultimo il più intimo è profondo che si
possa immaginare (pp. 68-69).
In tale esperienza, Frankl scopre il senso più grande della sua vita: l’amore. Grazie alla
contemplazione dell’amore per la moglie riesce ad alzare lo sguardo (ibidem, pp.74-76), ad
andare avanti ed essere uomo nonostante venga trattato come bestia (ibidem, p. 55). In
condizioni disumane, sia psicologiche che sanitarie, l’unica dimensione dell’uomo che non
può essere imprigionata è quella spirituale: infatti lo spirito di Frankl viaggia, torna all’amore
della moglie, ai momenti felici del passato (ibidem pp.76-77). Frankl, quindi, fa esperienza, in
prima persona, che l’uomo rimane uomo finché mantiene viva la sua dimensione spirituale
(Frankl, 1990a, pp. 28-30).
«Prima di essere un medico, un terapeuta, un ricercatore di chiara fama, Frankl è stato
un uomo e un consacrato agli altri» (Fizzotti, 1998, p. 9). Ha quindi incarnato e vissuto lui per
primo l’autotrascendenza, impegnandosi costantemente nella sua vita a comprendere
profondamente le persone, portandole ad una progressiva educazione alla responsabilità
(ibidem). Significativo è il “motto” della sua psicoterapia: «Non ti lascio fin quando non sei
diventato te stesso» (Frankl, 1998, p. 23). Anche nel campo di concentramento, la sua

49
disponibilità ad ascoltare gli ha fatto guadagnare qualche “privilegio” (Frankl, 2011, pp. 57-
59).
Torniamo ora a Van Thuan (1997) che, parlando dei momenti più bui della prigionia,
dei momenti di massima solitudine, afferma che lui cerca di vivere il momento presente
colmandolo d’amore. Come? Durante il primo periodo di arresti domiciliari si preoccupa di
scrivere un libro che dia speranza agli altri (p. 13); oppure, durante il viaggio con gli altri
prigionieri verso il Vietnam del Nord, si preoccupa di consolarli, di dargli forza (Van Chau,
2004, pp. 269-271); e, ancora, appena liberato pensa più alla preoccupazione dei suoi cari che
a sé (ibidem, pp. 307-310). Questa è la vera autotrascendenza. Una persona oppressa da
ingiustizie e soprusi che riesce ancora a credere nell’amore e nella speranza, infondendo
questo agli altri.
La scoperta del senso della propria esistenza, anche nelle situazioni limite (Frankl,
1990b, pp. 40-41): Van Thuan l’ha trovato in Gesù. Fizzotti (1998) afferma che «una
sofferenza autentica, però, è sempre “per amore di” qualcuno» (p. 6); ebbene, questo
Qualcuno, per Van Thuan, è stato il Signore. Solo per Lui aveva senso quello che stava
facendo, o meglio, non stava facendo ed era costretto a vivere. Solo quando scopre che
l’importante per lui era poter amare Dio, anche se non poteva più compiere opere per Dio, la
sua esperienza acquisisce un senso, tanto che arriva ad affermare: «scegliere Dio e non le
opere di Dio: Dio mi vuole qui e non altrove» (Van Thuan, 1997, pp. 22-23). Van Thuan ha
«scelto Gesù» (ibidem, pp. 70.80-84), ogni ora. Gesù va scelto e questa scelta va confermata
ogni giorno, una decisione libera e responsabile, esistenziale (Frankl, 1990a, p.84). Vediamo
chiaramente in questo esempio di vita che quando la scelta religiosa è libera ed è una
decisione della persona, i frutti sono questi, di amore per gli altri e donazione senza pretese.
Riassumendo, possiamo vedere che sia Frankl che Van Thuan sono sopravvissuti ad
eventi tragici nella loro vita grazie all’atteggiamento che hanno deciso di avere in quelle
situazioni, ed in questo possiamo ritrovare un’esperienza comune. Entrambi, abbiamo visto,
hanno trovato il senso di quello che stavano vivendo nell’amore per qualcuno, o nel caso di
Van Thuan, per Qualcuno. Entrambi hanno vissuto ciò a partire da una scelta, una decisione. 3

3
Frankl la prima notte ad Auschwitz giura a se stesso che non si sarebbe suicidato nel lager (Frankl, 2011, p.
47).

50
Ed entrambi, infine, hanno vissuto prima, durante e dopo la prigionia un atteggiamento di
autentica apertura e donazione verso gli altri.

3.2. Senso della vita ed esperienza religiosa

Vediamo ora come l’esperienza religiosa possa essere un’esperienza di integrazione


della vita, alla luce del senso che può dare alle esperienze che ogni persona fa.

3.2.1. La risposta della fede alla domanda di senso

Come evidenziato nelle testimonianze di Frankl e di Van Thuan, l’uomo può


trascendersi sia verso un altro essere umano che verso un significato. L’amore è quella
capacità che permette all’uomo di aggrapparsi ad un altro essere umano, mentre la coscienza è
quell’organo che gli permette di cogliere il significato di una situazione nella sua unicità
(Frankl, 1977b, p. 34). La vita ha sempre un significato, nessuno può pretendere di sapere
quale sia ma avere tale certezza fa sì che l’uomo si senta sempre chiamato alla ricerca del
significato (ibidem, p. 82). All’interno di quest’ottica, possiamo vedere come la fede possa
suggerire una strada da percorrere all’interno di una ricerca di senso della propria vita.
Proponiamo qui un atteggiamento possibile in un’ottica cattolica, consapevoli che è un
atteggiamento tra tanti (ibidem, pp. 84-85).
Per la logoterapia, la religiosità è un fenomeno che va preso seriamente e che, in
questo caso, permette di far leva sulle risorse spirituali della persona (ibidem, p. 149),
rappresentando un’ancora spirituale, capace di dare un senso di sicurezza non trovabile
altrove (ibidem, p. 153). La fede in un significato ultimo, che chiameremo sovra-significato,
come può essere la fede in Dio, è in grado di riempire di senso un’esperienza, anche quando
caratterizzata da una sofferenza molto elevata. Inoltre, Frankl (1978b), citando Paul Tillich e
parafrasando un’espressione di Einstein, afferma che essere religioso vuol dire ricercare un
senso nella propria vita ed anche, prendendo in prestito le parole di Ludwig Wittgenstein, che

51
credere in Dio vuol dire vedere che la vita ha un significato (p. 100). Alla luce di tutto questo,
possiamo affermare che Frankl condivide l’idea che l’esperienza religiosa e la ricerca di senso
siano strettamente collegate. Infatti, nella stessa opera, poco più avanti, afferma che «la fede
religiosa, nella sua essenza, è fede in un significato superiore, un atto di fiducia radicale nel
sovra-significato» (ibidem).
Aprendoci ad una dimensione più alta, quella del sovra-significato, possiamo
comprendere che qualcosa che sembra essere impossibile in una dimensione inferiore, è
perfettamente possibile in una dimensione superiore. Frankl, ricorrendo a un’analogia (figg. 4
e 5), dice che solo in quest’ottica possiamo capire la classica affermazione per la quale “Dio
scrive dritto su righe storte”: finché la nostra ottica è bidimensionale, per esempio il foglio di
una pagina, scrivere dritto vorrà dire disporre delle lettere parallele rispetto al rigo, ma così
facendo risulteranno storte. Se l’ottica invece è tridimensionale, allora è possibile disporre
lettere parallele su linee storte (Frankl, 1977b, pp. 154-157).

Figg. 4 e 5 (da Frankl, 1977b, p. 156)

Concludiamo dicendo che «ciò di cui hanno bisogno i pazienti è una fede
incondizionata in un significato incondizionato della vita … perché questo può trasformare
un completo fallimento in un eroico trionfo» (Frankl, 1977b, p. 164) e, come abbiamo
accennato all’inizio, riteniamo che la fede in Dio possa essere una delle strade possibili che la
persona può intraprendere per illuminare di senso la propria vita.

52
3.2.2 Proposta di un’educazione (o formazione) integrale

Ci siamo concentrati finora sulla visione di Viktor Frankl. Sentiamo ora la necessità di
vedere come alcuni autori contemporanei stiano portando avanti le intuizioni frankliane e altre
simili, nell’ottica di una visione integrale della persona umana.
Abbiamo visto come la crescita integrale della persona implichi una crescita che sia al
contempo umana e spirituale (Crea, 2014, p. 28). Quindi a livello educativo, in un contesto
religioso, sarà importante promuovere uno sviluppo armonico delle diverse potenzialità del
soggetto, integrandole in un progetto di vita che apra la porta al Trascendente (ibidem).
La Conferenza Episcopale Italiana (2010), nel documento “Educare alla vita buona del
Vangelo”, sottolinea prima come non sia possibile una formazione integrale se si separano a
livello antropologico le dimensioni costitutive della persona (n. 13) e poi specifica che
«impegnandosi nell’educazione, la Chiesa si pone in fecondo rapporto con la cultura e le
scienze, suscitando responsabilità e passione e valorizzando tutto ciò che incontra di buono e
di vero. La fede, infatti, è radice di pienezza umana, amica della libertà, dell’intelligenza e
dell’amore. Caratterizzata dalla fiducia nella ragione, l’educazione cristiana contribuisce alla
crescita del corpo sociale e si offre come patrimonio per tutti, finalizzato al perseguimento del
bene comune. Le virtù umane e quelle cristiane, infatti, non appartengono ad ambiti separati.
Gli atteggiamenti virtuosi della vita crescono insieme, contribuiscono a far maturare la
persona e a svilupparne la libertà, determinano la sua capacità di abitare la terra, di lavorare,
gioire e amare, ne assecondano l’anelito a raggiungere la somiglianza con il sommo bene, che
è Dio Amore» (n. 15). Da questo stralcio del documento, possiamo cogliere che la Chiesa è
disponibile e attenta alla crescita, prima di tutto umana, delle persone.
D’altra parte, come abbiamo visto lungo tutto il lavoro, anche la psicologia oggi si
pone in una posizione di apertura verso la spiritualità e l’esperienza religiosa.
Vediamo allora come e cosa intendere per formazione integrale.
Il canossiano Cencini, psicoterapeuta e dal 1995 consultore della Congregazione per
la vita consacrata e le società di vita apostolica, afferma che «l’integralità è dunque
caratteristica della formazione, nel senso che dovrebbe esser completa o rispondere a tutti i

53
livelli della persona, da quelli più evidenti ed elementari (fisico e comportamentale) a quelli
più alti complessi (spirituale e trascendentale/religioso) se davvero si vuol formare una
persona nella sua propria integrità. Come dire, occorre l’attenzione al tutto (a tutte le parti) per
formare la persona nella sua integrità e unità» (Cencini, 2014, p. 4).
Stiamo quindi parlando di una forma di educazione che sappia integrare la realtà
psico-sociale con la prospettiva trascendente dell’esistenza umana, attraverso un cammino che
coinvolge sia le dimensioni umane che i vissuti di fede (Crea, 2014, p. 29). Ovviamente, si
tratta di un cammino che dura tutta la vita, nell’ottica di una formazione permanente (ibidem).
In tale visione formativa, riassumendo, vengono considerate due dimensioni: quella
temporale, in quanto è un continuo cammino formativo lungo tutta la vita, e quello
antropologico, perché per essere integrale deve prendere in considerazione tutte le dimensioni
dell’essere umano. E tutto ciò viene tenuto insieme da un centro unificatore, un punto centrale
che tiene insieme tutte le polarità della vita (Cencini, 2005, p. 113), quello che Frankl chiama
“senso” (Frankl, 2005a, p. 172). Infatti, lo psichiatra viennese, nel dialogo con Lapide ‒ alla
domanda di questi circa l’esigenza che i medici considerino l’essere umano in modo olistico,
comprendendo in questa visione la ricerca di Dio e la volontà di trovare un senso ‒, risponde
che il compito primario dell’educazione dovrebbe essere: «mettere in moto nel giovane il
processo di scoperta di senso» (Frankl e Lapide, 2006, pp. 35-36).

3.3 Piste di dialogo e collaborazione tra psicologia e spiritualità

Vediamo ora un’ulteriore ipotesi di collaborazione tra psicologia e religiosità/spiritualità.

3.3.1. A ciascuno il suo: rispetto e collaborazione

Il teologo contemporaneo Rupnik afferma: «bisogna cercare la via nella quale la


psicologia e la vita spirituale non si combattano né si confondano, ma si integrino» (Rupnik,
1996, p. 28). Rispetto a questa affermazione, vale la pena fare due precisazioni: innanzitutto,

54
l’intenzione di questa affermazione non è quella di promuovere una fusione tra psicologia e
vita spirituale. Frankl a questo proposito afferma che «troppi psichiatri sguazzano nel campo
della teologia e, viceversa, troppi teologi sguazzano in quello della psichiatria» (Frankl,
1977b, p. 151). La fusione tra psicoterapia e religione genera confusione perché confonde due
dimensioni, quella antropologica e quella teologica (ibidem, p. 153).
La seconda precisazione, d’altra parte, vuole specificare che in questa sede non si
vuole creare una separazione tra le due sfere ma cercare una via di autentica collaborazione.
(Cencini, 2005, p. 103).
Pertanto, il clima nel quale vogliamo collocarci è un clima dialogico tra due parti,
dove entrambe, psicologia e vita spirituale, sanno e riconoscono chi sono e, proprio grazie a
questa consapevolezza di diversità, si mettono in dialogo per apportare ciascuno quanto può ai
fini del benessere integrale dell’uomo.
La prima cosa da fare a questo punto è quella di delimitare i confini, aspetto per il quale
possiamo fare riferimento a Cencini. Consapevoli che è solo una delle possibilità, passiamo
ora a esporre la soluzione proposta da questo autore contemporaneo. Egli propone tre macro
classificazioni di problemi: quelli di natura clinico-psichiatrica, quelli di natura psicologica e
quelli di natura spirituale (Cencini, 2010, p. 43).
Nella prima categoria troviamo le problematiche psico-patologiche ossia quei «problemi
derivanti da disturbi o sintomi psichici strutturali e di natura clinica, d’origine remota,
riguardanti l’area del pensiero (schizofrenia, paranoia…), quella dell’affetto (depressioni,
isterie…) o dei comportamenti (ossessioni compulsive, manie, fobie, trasgressioni
incontrollate…)» (ibidem, p. 22). Sono disturbi strutturali, quindi non saltuari e di natura
clinica, non controllabili dal soggetto con le sole sue forze.
Nella seconda categoria, relativa alle problematiche di natura psicologica, rientrano tre
tipologie di problemi: d’impedimenti allo sviluppo, di non formazione permanente e
d’inconsistenza vocazionale. I problemi evolutivi sono manifestazioni di fragilità legate al
primo sviluppo e alla preadolescenza, come per esempio traumi o deprivazioni affettive. I
problemi legati all’indisponibilità di formazione permanente, poi, sono quei problemi che
nascono dalle situazioni della vita che risvegliano un’immaturità psicologica o spirituale del
soggetto e a causa di questa immaturità il soggettò non saprà sfruttare queste situazioni come

55
occasione di maturazione. Il termine “inconsistenza” invece indica un’immaturità, una non
compattezza. Sono per lo più legati a bisogni inconsci che assorbono o distraggono le energie
dall’interno dell’individuo e lo spingono a cercarne la soddisfazione tanto da condizionarne il
modo di vita e le scelte esistenziali (ibidem, pp. 23- 29).
Infine, nella terza categoria, troviamo le problematiche di tipo spirituale, ossia quei
problemi legati «alla normale fatica di vivere il Vangelo e le sue esigenze, il rapporto con Dio
e le sue pretese sul cuore umano, o gli impegni connessi alla propria scelta vocazionale»
(ibidem, p. 29).
Secondo l’ottica adottata lungo tutto il lavoro, si può concordare con queste tre
categorie di problemi proposte da Cencini. Quindi, in quest’ottica, cogliamo che per quanto
riguarda le problematiche di natura clinica e di natura psicologica non ci sia discordanza: sono
materia della psicoterapia e della psicologia. Questo non toglie che, con un intervento
psicologico, ci siano delle ricadute per effectum e non per intentionem anche nella vita
spirituale della persona (Frankl, 1990a, pp. 90-91).
Non possiamo però fare a meno di evidenziare che per problematiche spirituali
Cencini e Frankl non intendono la stessa cosa. Per Cencini il significato è prettamente
religioso, mentre per Frankl, come abbiamo già avuto modo di approfondire, la spiritualità è
un’apertura a un di più, ad un livello trascendente ma non necessariamente religioso in senso
stretto. In ogni caso, alla luce del nostro obiettivo d’integrazione, qui esponiamo le due
proposte come parallele, pur se non perfettamente sovrapponibili.

3.3.2. Ciò che la psicologia può dare e ciò che non può dare

Abbiamo evidenziato come sia fondamentale delimitare i confini e riconoscere a


ciascuna disciplina le sue possibilità e i suoi limiti.
Una prima precisazione, innanzitutto, riguarda il fatto che piuttosto che far riferimento
alla psicologia in generale  infatti, anche l’oggetto di studio varia nelle diverse epoche
storiche, dai diversi orientamenti, dalle diverse visioni di uomo di partenza, dai diversi
contesti nei quali viene applicata , andrebbe di volta in volta chiarito a quale indirizzo

56
psicologico si fa riferimento. Tuttavia, possiamo dire che, in questo lavoro, per psicologia
intendiamo quella scienza che si occupa dell’uomo (Gambini, 2004, pp. 13-28) e in
particolare, come già specificato nel primo capitolo, una scienza positiva che ha per oggetto
dati osservabili ed empiricamente rilevabili della condotta umana (Fizzotti, 2008, p. 15).
Fatta questa premessa, andiamo a vedere cosa la psicologia può apportare in funzione
al benessere dell’uomo e quali sono i suoi limiti.
A livello educativo, la psicologia può offrire una descrizione esatta dei fenomeni
permettendo alle scienze teoriche un aggancio più diretto con la realtà (Gambini, 2004, p. 28).
Per esempio, per strutturare un intervento educativo all’interno di una classe con soggetti
problematici, sarà di grande aiuto conoscere certi meccanismi evolutivi sani e saperli
distinguere da meccanismi disfunzionali.
Un altro aiuto che può dare la psicologia in ambito educativo è quello, a livello
pratico, di indicare i “fini prossimi” per lo sviluppo sano dell’educando e aiutare l’educando a
raggiungerli (ibidem).
A livello di psicologia clinica, invece, in un contesto di situazioni problematiche,
come indicato da Cencini, dove la persona presenta sintomi o disturbi psichici strutturali che
non può controllare (Cencini, 2010, p. 22), la psicologia è abilitata e ha gli strumenti per
aiutare le persone anche se va specificato che i metodi e le modalità saranno le più diverse in
base all’orientamento di partenza.
In generale, si può dire che il metodo clinico, nel concreto ambito della psicologia
clinica, è quello che cerca di affrontare la realtà nel modo più globale possibile, anche in
relazione al passato, al presente, alle aspettative future, ai valori, per promuovere un
cambiamento nel soggetto (Gambini, 2004, p. 38).
Inoltre, lo psicologo è abilitato all’uso di strumenti psicometrici, i test. Questi sono
«reattivi psicologici elaborati scientificamente e costituiti da una serie precisa di stimoli in
grado di quantificare una o più caratteristiche della persona» (ibidem, p. 41). A questo
proposito, Gonzàlez Silva (2013) afferma che il merito più grande della psicologia è quello di
«aiutare il soggetto ad essere vero» (p. 9), ossia di essere consapevole (Crea, 2005, p. 39) e di
conoscere quanto succede dentro e imparare ad affrontarlo e/o gestirlo.
Non basterebbe un manuale di psicologia generale per identificare nel concreto tutti gli

57
aiuti che la psicologia è in grado di dare all’uomo. In questa sede, abbiamo semplicemente
cercato di toccare le due macro aree più grandi, ossia quella dell’educazione e quella clinica e,
riassumendo, potremmo dire che la psicologia offre delle conoscenze e degli strumenti che
possono aiutare alla conoscenza e alla consapevolezza dei meccanismi psichici propri
dell’essere umano. Una volta conosciuti, poi può aiutare il singolo, secondo le modalità
proprie di ogni orientamento, a gestirle o cambiarle.
Vediamo, invece, quali sono i punti deboli della psicologia, in relazione al nostro
tema, iniziando da un’immagine. Durante il dialogo tra Frankl e Lapide (ma si capisce chi
sono i due?), Lapide, usando un’immagine di Martin Buber, chiede al suo interlocutore se lui
sentisse che la logoterapia in ultima analisi sia un prendere le persone per mano per condurle
davanti a una finestra e mostrargli il mondo a occhi spalancati (Frankl e Lapide, 2006, p. 17).
Forse è un po’ questo il compito della psicologia: portare ad una finestra, accompagnare la
persona affinché possa raggiungere la sua finestra e poi da li prenda, in libertà, le decisioni
esistenziali per la sua vita. Infatti la psicologia non è competente né abilitata a stabilire i fini
per i quali l’organismo debba funzionare; si limita a rilevare l’efficienza o meno
dell’organismo psichico (Ronco cit. in Crea, 2005, p. 40) e, una volta stabilito ciò, stabilire i
passi concreti da fare per accompagnare l’uomo verso il fine da lui scelto.
In particolare, proponiamo anche alcune critiche mosse da un teologo in particolare,
nei confronti della psicologia. Il teologo è quel Rupnik già incontrato lungo il nostro lavoro, il
quale, in un convegno al Claretianum nel 2012, era stato invitato a parlare rispetto a “Quello
che la psicologia non può dare” (Rupnik, 2013, p. 15). In effetti, già il titolo lascia intuire la
sfida complicata che il teologo deve affrontare. In questa sede, non cercheremo di creare
dibattiti ma di rispondere a delle affermazioni con altre argomentazioni, il tutto funzionale
all’obiettivo del nostro lavoro: è possibile una collaborazione tra vita spirituale e psicologia?
Riassumendo il pensiero di Rupnik, possiamo dire che il limite più grande da lui
esposto della psicologia starebbe nel rischio di circoscrivere la persona alla psiche, mentre 
sostiene Rupnik  è dallo Spirito che si comprende l’uomo (con la S maiuscola, quindi qui il
teologo si riferisce allo Spirito Santo). Infatti, sostiene ancora il teologo, in nessun dizionario
la psiche viene intesa come anima vivificata dallo Spirito Santo (Rupnik, 2013, pp. 15-16). La
psicologia non ha gli strumenti per cogliere lo Spirito Santo (ibidem, 16-17).

58
A questa critica, potremmo rispondere riprendendo l’immagine della finestra, proposta
da Lapide a Frankl. In tal senso, la psicologia non esclude che ci sia un di più, un oltre rispetto
alla “finestra”, però non è di sua competenza analizzarlo, se non come esperienza dell’uomo
credente (o non credente). E in ogni caso, non con l’approccio tipico della teologia (Gambini,
2004, pp. 27-28). Per questo è importante che i due ambiti collaborino.

3.3.3. Ciò che la fede può dare e ciò che non può dare

Premesso che l’intenzione in questa sede non vogliamo affermare che la grazia di Dio
abbia limiti, ma semplicemente chiarire ambiti di competenza e cosa, in quanto psicologi, si
sia chiamati a fare, dando il meglio di sé per aiutare le persone. A questo riguardo, ad
esempio, Frankl (1977b) sostiene che quanto più siamo “uomini”, tanto più si può essere
strumenti degli scopi divini (p. 151). Questa frase, in effetti, fa pensare ad una frase di Papa
Francesco di qualche mese fa, quando disse che il Signore cura le nostre ferite ma per farlo
utilizza mani umane. Questa potrebbe essere la chiave di volta di tutto questo discorso. Certo,
se Gesù ha risuscitato Lazzaro che era morto da tre giorni e il Vangelo ci dice che già
emanava cattivo odore (Gv 11, 1-53) sicuramente non avrebbe problemi ad occuparsi di un
borderline o di uno schizofrenico. Però Gesù non funziona così, le cose non funzionano così,
soprattutto nel senso che uno psicologo non può funzionare così. Un medico può sempre
credere e sperare nel miracolo, ma farà tutto il possibile per salvare la vita del suo paziente.
Frankl dice che non si può contrattare con Dio. Non si può avere fede fino a 526.000
di ebrei morti nelle camere a gas ma se ne muore uno in più non si ha più fede: «La fede, la
vera fede, resta» (in Frankl e Lapide, 2006, p. 34). Molti sostengono che Dio è morto ad
Auschwitz; ma lo psichiatra viennese sostiene che non si dovrebbe più parlare di fede dopo
Auschwitz, ma bisognerebbe invece parlare di fede nonostante Auschwitz, perché secondo la
sua esperienza sono state di più le persone che ad Auschwitz hanno acquistato la fede di
quelle che l’hanno persa (ibidem). La fede, da quanto si può cogliere da questo dialogo con
Lapide, per Frankl è un incontro, l’incontro con «il partner dei più intimi soliloqui» (ibidem,
p. 31). Infatti, non si può ordinare a qualcuno di avere fede come non si può obbligare

59
nessuno ad amare qualcun altro (ibidem, p. 47). Inoltre, Frankl sottolinea che per lui la fede è,
da un punto di vista psicologico, un pensiero al quale è stata aggiunta l’esistenzialità di chi lo
pensa, che l’atto di fede è sostanzialmente un atto esistenziale. E questa decisione non viene
da una legge puramente logica ma dal profondo del suo essere (ibidem, pp. 47-49). Quindi,
come abbiamo già detto più volte, l’esperienza religiosa, se autentica, è un’esperienza
unificatrice della vita delle persone (Cencini, 2005, p. 113), capace di dare senso,
orientamento, direzione esistenziale.
Riprendendo quanto detto all’inizio del paragrafo, di per sé, non si può dire che la fede
abbia dei limiti. Forse è meglio parlare, come abbiamo fatto finora, di esperienza religiosa
matura e immatura, ma anche di ricerca, di dubbi e di precarietà, in una parola, la fede è
sempre umana, in quanto umano è il protagonista dell’atto di fede e, in questo, la psicologia
può essere di grande aiuto. Quando l’atteggiamento religioso è immaturo, se diventa rifugio e
alibi per non prendersi le proprie responsabilità oppure esclude tutto il resto dalla vita
dell’uomo e quindi non è autentica e porta a “spiritualismi”, allora diventa deleterio,
addirittura pericoloso.

3.4. Rilievi conclusivi

Durante tutto il capitolo abbiamo cercato di dimostrare come psicologia e spiritualità


non siano due antagonisti, bensì siano entrambe indispensabili per il benessere dell’uomo.
Concludiamo, quindi, con questa precisazione di Lapide, che afferma che la scienza, in
generale, studia la materia e prende in esame l’opera di Dio; la fede invece cerca Dio stesso. E
Frankl completa: «Ciascuno dei due occhi vede le cose diversamente dall’altro. Ma proprio
grazie a questa diversità si guadagna una dimensione completamente diversa, vale a dire la
dimensione dello spazio: la visione spaziale è possibile soltanto grazie alla divergenza» (p.
61). Quindi non c’è antagonismo ma complementarietà.

60
CONCLUSIONI
Durante tutto il lavoro è stata compagna una domanda: è possibile una collaborazione
autentica tra psicologia e spiritualità funzionale alla crescita integrale della persona?
Bene, alla fine di questo viaggio sembra che la risposta possa essere affermativa.
Nel primo capitolo abbiamo visto come, a livello storico, si sia sviluppata la relazione
tra queste due dimensioni.
Nel secondo abbiamo visto quale è stata la risposta dell’autore di riferimento, Viktor
E. Frankl.
Infine, nel terzo capitolo, abbiamo visto come concretamente ci sia una via attraverso la
quale è possibile un’autentica collaborazione. La collaborazione tra scienze psicologiche e
vita spirituale è quindi possibile quando l’obiettivo comune è il benessere e la crescita
integrale dell’individuo e quando si conoscono e rispettano le proprie specificità e i propri
limiti. Se l’obiettivo viene quindi condiviso da entrambe e ognuna sta nella sua corsia, si può
procedere insieme su due corsie della stessa strada che porta alla stessa destinazione.
In sintesi, la proposta è quella di mantenere ognuno il suo approccio avendo sullo
sfondo però la consapevolezza di una prospettiva di integrazione.
Sono cosciente che più che un punto di arrivo è un punto di partenza, una domanda
aperta. Lo spazio limitato non ha consentito un’analisi completa e totale: ci si è limitati ad uno
degli approcci psicologici, pur tentando di dare prima un visione di insieme e, visto il focus
psicologico del lavoro, anche la visione teologica è stata limitata.
È però vero che l’obiettivo era quello di rispondere a una domanda, se fosse possibile
una collaborazione tra le due. Credo che l’obiettivo sia stato raggiunto, pur consapevole che è
solo un primo passo, un decidere la traiettoria verso cui camminare, perché il cammino è
ancora lungo.
Mi permetto quindi di fare mie le parole di Giovanni Paolo II (1998) che,
nell’introduzione all’Enciclica Fides et Ratio, paragona fede e ragione alle due ali con le quali
l’uomo può volare verso la verità (p. 47). Riprendendo l’immagine usata dal Santo, alla fine
di questo lavoro, credo si possa dire che possiamo vedere così anche la psicologia e la
spiritualità: l’uomo che si dimentica dell’umano non è uomo e l’uomo che esclude l’Altro o

61
comunque non lascia aperta una finestra a un di più, si perde un’ala sulla quale poter fare
riferimento, soprattutto nei momenti più difficili della vita.
Mantenendo l’immagine delle ali, concludiamo allora con una preghiera di don Tonino
Bello:
“Voglio ringraziarti, Signore, per il dono della vita. Ho letto da qualche parte che gli uomini
sono angeli con un'ala soltanto: possono volare solo rimanendo abbracciati. A volte, nei
momenti di confidenza, oso pensare, Signore, che anche Tu abbia un'ala soltanto. L'altra la
tieni nascosta: forse per farmi capire che Tu non vuoi volare senza di me. Per questo mi hai
dato la vita: perché io fossi tuo compagno di volo.
Insegnami, allora, a librarmi con Te. Perché vivere non è "trascinare la vita", non è
"strappare la vita", non è "rosicchiare la vita". Vivere è abbandonarsi, come un gabbiano,
all'ebbrezza del vento. Vivere è assaporare l'avventura della libertà. Vivere è stendere l'ala,
l'unica ala, con la fiducia di chi sa di avere nel volo un partner grande come Te (…)”

Detto ciò, mi sento di poter dire che questo lavoro ha voluto essere un tentativo di
volo, un provare a spiccare il volo facendo affidamento a tutte e due le grandi ali che l’essere
umano ha a disposizione.
Concludo allora ringraziando tutti i compagni di viaggio e di volo, che mi sono stati
accanto in questa sfida e nella sfida più grande che è la vita di ogni giorno. Dai miei genitori
alle mie “sorelle”, dai professori a chi mi accompagna e mi guida e un grazie speciale a chi,
con la sua vita, mi dimostra che vale la pena volare alto con le ali ben spiegate.
Auguro a tutti di avere il coraggio di spiccare il volo e di puntare alto per raggiungere
le Alte Vette.

62
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68
INDICE
INTRODUZIONE 4

Capitolo 1
PSICOLOGIA E SPIRITUALITÀ: UNA RELAZIONE DIFFICILE? 6

1.1. L’importanza di alcune definizioni e chiarimenti 6


1.1.1. Chiarificazione dei termini dell’ambito psicologico 6
1.1.2 Chiarificazione dei termini dell’ambito della vita spirituale 8
1.1.3 Psicologismo e spiritualismo: entrambi contro la verità della
persona 9

1.2. Excursus storico sulla relazione tra psicologia e spiritualità 10


1.2.1 Excursus storico: focus psicologico 10
1.2.2 Excursus storico: focus spirituale 17
1.2.3 Verso una mutua collaborazione 21

1.3. Rilievi conclusivi 21

Capitolo 2
PSICOLOGIA E SPIRITUALITÀ:
LA VISIONE DI VIKTOR E. FRANKL 23

2.1. Quale visione di uomo: L’Ontologia Frankliana 24


2.1.1. Viktor Frankl: cenni biografici e contestualizzazione
del suo pensiero 24
2.1.2 La persona integrale: le tre dimensioni dell’individuo integrale 27
2.1.3 Concetti fondamentali dell’Analisi Esistenziale 30

2.2. La visione di V. Frankl nei confronti dell’esperienza religiosa 32

69
2.2.1. Una religiosità inconscia: l’inconscio spirituale 33
2.2.2. Scopo del cammino psicologico e di quello religioso 34
2.2.3. Ricerca di Dio e domanda di senso: il dialogo tra Lapide e Frankl 37

2.3. Rilievi conclusivi 38

Capitolo 3
PSICOLOGIA E SPIRITUALITÀ IN RELAZIONE AL BENESSERE
DELLA PERSONA: È POSSIBILE UNA COLLABORAZIONE? 40

3.1. L’apporto della fede alla maturità umana alla luce di una prospettiva
interpersonale 41
3.1.1. Il processo di maturazione nella relazione con gli altri 41
3.1.2. Il processo di maturazione nella relazione con l’Altro 44
3.1.3. Testimonianze di vita concrete: V.E. Frankl e N. Van Thuan 47

3.2. Senso della vita ed esperienza religiosa 51


3.2.1. La risposta della fede alla domanda di senso 51
3.2.2. Proposta di un’educazione (o formazione) integrale 53

3.3 Piste di dialogo e collaborazione tra psicologia e spiritualità 54


3.3.1. A ciascuno il suo: rispetto e collaborazione 54
3.3.2. Ciò che la psicologia può dare e ciò che non può dare 54
3.3.3. Ciò che la fede può dare e ciò che non può dare 59

3.4. Rilievi conclusivi 60

CONCLUSIONI 60

70
BIBLIOGRAFIA 63

71

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