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travaglio di quell’area delle discipline della psiche che ha accettato di confrontarsi seriamente e
lealmente con altre discipline, con altre visioni antropologiche, con altri modelli dell’esserci-nel-
mondo e con altri sistemi di presa in carico, cura e terapia. Da questo punto di vista l’etnopsichiatria
è un saper-fare inedito cui concorre la psichiatria nel momento in cui si apre al confronto con altre
discipline e altri sistemi, risultati di altre storie3.
2. CULTURA E COSMOVISIONE
«Cultura è l’acqua in cui si nuota»4. Con questa celebre frase Piero Coppo dà piena dignità e
specificità a quanto appartiene ed è proprio di ogni società. La cultura non è qualcosa di
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universalmente oggettivante ma una dimensione che è circoscritta ad un determinato assetto sociale,
geografico ed etnico; una dimensione che supera l’uomo stesso in quanto fa riferimento a quanto
diversi individui condividono circa la visione del cosmo, i miti ai quali ci si riferisce, l’idea di salute
e di malattia e i corrispettivi modelli di cura. «Cultura è dunque, nel senso forte, l’insieme di
prodotti materiali e immateriali che un gruppo umano esprime nel suo evolvere in un dato
ambiente»5. Tutti i sistemi culturali sono quindi accomunati dagli stessi prodotti quali la lingua, le
credenze religiose, modalità di entrare in alleanza (matrimoniale ad esempio) e strategie di
sopravvivenza.
Tuttavia in ogni specifico sistema sociale la cultura si modifica tentando di trovare (questo
vale per ogni cultura) uno spazio che plasma e fonda l’identità, che separa il cosmos dal caos,
l’ordine dal disordine; diventa quasi una legge che pone confini, che seleziona, «autorizza e vieta»6.
Non solo oltrepassa l’individuo, ma va anche oltre il livello visibile: è produzione degli uomini che
a loro volta di essa stessa divengono produzione. Basti pensare al ruolo che in un sistema culturale
svolgono i miti e gli archetipi personificati, che attraversano le generazioni in un processo di
trasmissione che, anche sfuggendo alla coscienza, influenzano l’agire e il pensare. In questo
scenario emergono anche elementi che possono patologizzare la cultura (e l’uomo di conseguenza)
fino a portarla alla distruzione e neutralizzazione, alla scomparsa. È qui che si collocano in ogni
contesto culturale le terapie, che fanno capo a delle teorie, a strumenti e “operatori specializzati” tra
i quali vi fanno parte coloro che operano nel campo della psyché, che sono appunto deputati alla
cura in una determinata cultura e indirizzata a specifici gruppi, che si fanno carico di una
intenzionalità trasformativa, esperti in determinati aspetti del mondo invisibile e competenti ad
intervenire su di essi.
«É solo la modernità, e poi la postmodernità, a essere universalista»7. Con questa fase che
suona quasi come una sentenza lapidaria, Coppo mette nel banco degli imputati l’epoca moderna
posta in relazione dialettica con un mondo culturale altro (dal punto di vista geografico) e lontano
(temporalmente parlando) che egli definisce luogo dove le diversità coesistevano sebbene non in
maniera idilliaca in quanto segnato da difese, negoziati, azioni diplomatiche il cui risultato si
5 Ibidem.
6 Ibidem.
7 Ibidem, 44.
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concretizzava in relazioni di alleanza, conflitti o indifferenza. Si comprende bene come questa
premessa da un lato faccia immediatamente crollare quell’impianto su cui si fonda l’universalismo
scientifico che sfocia in un’ unica visione dell’uomo nel mondo e dall’altro apra un orizzonte nuovo
inserendo l’essere umano in una storia, in molteplici storie attraversate da sviluppi, anch’essi
plurimi, perché numerose sono le variabili che ne hanno segnato i processi.
Lo stesso Freud (figlio della sua epoca) ha preso parte di questo movimento di pensiero
trasmettendo un modello universale nel tentativo di creare un comune denominatore che
accomunasse tutti gli esseri umani.
Dalle analisi dei dati delle ricerche etno-antropologiche si evince invece, in contrasto con
l’ideologia universalista, che le culture sono specifiche e attraversate da processi di formazione
delle perone anch’esse specifiche, uniche e ciò non solo in relazione alle modalità organizzative
dell’assetto societario o nel sistema di relazioni e alleanze che si vengono a creare con altri popoli
ma anche nello sviluppo delle funzioni percettive e cognitive.
Ci si deve muovere quindi lungo la linea di confine tra la clinica e l’antropologia - entrambe
portatrici di uno statuto epistemologico proprio, e quindi di una loro rispettiva autonomia. In questa
zona di frontiera emergeranno «due registri interpretativi diversi […] il cui studio approfondito può
far approdare a una percezione più integrata della realtà in cui si opera»8.
Tale paradigma non parte pertanto da un unico centro condiviso che condurrebbe ai diversi
punti di una stessa circonferenza: si passa quindi da una visione concentrica ad una multicentrica.
L’etnocentrismo consiste nella convinzione che i propri modelli di comportamento siano sempre
normali, naturali, buoni, belli o importanti e che gli stranieri, nella misura in cui vivono in modo
diverso, si conducono secondo schemi di comportamento selvaggi, inumani, disgustosi o irrazionali.
Le persone intolleranti verso le differenze culturali ignorano, di solito, il seguente fatto: se gli fosse
stata trasmessa la cultura di un altro gruppo, quei modi di vivere ritenuti selvaggi, inumani,
disgustosi o irrazionali ora sarebbero i loro9.
Nella prospettiva di Coppo i centri sono molteplici, tante quante sono le realtà oggetto di
osservazione e dai quali discendono diversi punti di vista in cui l’accento viene posto sulle
differenze piuttosto che sulle analogie. É questo in definitiva il compito di una politica, di una
cultura e di una scienza che si mettono in ascolto di ciò che è distintivo e unico in ogni etnia. Le
8M. R. MORO, Bambini immigrati in cerca di aiuto. I consultori di psicoterapia transculturale, Torino 2002, 43.
9D. COZZI-D. NIGRIS, Gesti di cura. Elementi di metodologia della ricerca etnografica e di analisi socioantropologica
per il nursing, Milano 2003, 36.
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differenze diventano il terreno su cui lavorare, evitando il pericolo di disporle in rigide scale
gerarchiche ovvero all’interno di un sistema valoriale10.
Le molteplicità di cui abbiamo parlato toccheranno allora non solo le culture e le etnie
oggetto di studio ma anche le risorse terapeutiche che dovranno modellarsi alle differenze delle
specifiche tipologie di società.
«La negazione delle differenze e dunque delle identità specifiche fa parte di un preciso progetto che
usa come arma principale la naturalizzazione di ideologie “scientifiche”, che ha come obiettivo
l’uniformizzazione sociale e che lascia come unico legittimo discrimine tra individui l’appartenenza
a gruppi diversi di consumatori»11.
Questa visione non approda in uno sterile relativismo quanto piuttosto in una lucida
consapevolezza che deve accompagnare ogni scienza e soprattutto ciascun terapeuta che voglia
entrare in contatto col mondo della sofferenza, del dolore e del disagio altrui, in modo particolare di
persone con un sostrato evolutivo altro rispetto a quello occidentale. L’etnopsichiatria ha inizio lì
dove il terapeuta prende coscienza di ciò che culturalmente lo scinde dal paziente e mette in pratica
delle manovre che permettano di passare dall’io al noi, inserendo le disavventure individuali
all’interno di storie collettive12.
Non si tratta di strumentare il terapeuta col maggior numero di nozioni provenienti dalle varie
discipline perché saturi di risposte la domanda portata dal paziente e dal suo gruppo; ma di metterlo
in condizione di evocare, o fare parlare, rappresentanti di mondi diversi, in modo che negli interstizi
tra alterità in relazione si possa manifestare la possibile via di uscita13.
È una rivoluzione di mentalità che va dapprima ascoltata, poi elaborata e assimilata, che non
approda immediatamente in disincarnate certezze teoriche ma che nasce dal contatto creativo di
ritrovarsi in luogo nuovo, in una terra di nessuno, nella traità, nello spazio in cui ciò che il terapeuta
è (la sua formazione, il suo modello teorico, la sua storia) si incontra con la società che osserva,
nella libertà di esprimersi per come essa è. In questa terra di mezzo nasce questa «disciplina di
frontiera»14 il «pluralismo terapeutico che vuol dire società molteplice, multicentrica, e cioè un
modello di società che la modernità non ha ancora conosciuto»15.
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BIBLIOGRAFIA
BENEDUCE R., Etnopsichiatria. Sofferenza mentale e alterità, fra storia dominio e cultura, Roma
2007;
COPPO P., Etnopsichiatria dei disturbi depressivi: un aggiornamento, AM. Rivista Della Società
Italiana Di Antropologia Medica, 8, 2003.
COZZI D.-NIGRIS D., Gesti di cura. Elementi di metodologia della ricerca etnografica e di analisi
socioantropologica per il nursing, Milano 2003.