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COLLANA NUOVO UMANESIMO

Psicologia

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Collana «NUOVO UMANESIMO»
A cura di Emilio Bettini e Cesare Mirabelli

Volume introduttivo. Una cultura per un nuovo umanesimo. A cura di EMILIO


BETTINI - CESARE MIRABELLI.
1. Filosofia. Natura umana, persona, libertà. Prospettive di antropologia filosofica ed
orientamenti etico-politici. A cura di TOMMASO VALENTINI - ANDREA VELARDI.
2. Scienze Umanistiche. Linguaggi per un nuovo umanesimo. A cura di MARIA
CARMELA BENVENUTO - PAOLO MARTINO.
3. Storia. La Chiesa nel cambiamento d’epoca: percorsi di un nuovo umanesimo.
A cura di PAOLO CARUSI - MARCO PAOLINO - UMBERTO ROBERTO.
4. Scienze educative. Diversità e inclusione: le sfide dell’università per un nuovo
umanesimo. A cura di ANNA MARIA FAVORINI - PASQUALE MOLITERNI.
5. Psicologia. Qualità dell’esperienza mentale e qualità della vita. Intersoggettività, con-
testi e valori. A cura di GENNARO ACCURSIO - FRANCO LUCCHESE.
6. Scienze Biomediche. L’umanizzazione della medicina globalizzata. A cura di
SEBASTIANO FILETTI - SERGIO MORINI.
7. Scienze Sociali. Persona e società per un nuovo umanesimo. A cura di ROBERTO
CIPRIANI - ANTONIO COCOZZA.
8. Bioetica. Proposte per una biopolitica personalista. A cura di ANTONIO G.
SPAGNOLO - VITTORADOLFO TAMBONE.
9. Geografia. Geografia di un nuovo umanesimo. A cura di GINO DE VECCHIS -
FRANCO SALVATORI.
10. Ambiente e servizi ecosistemici. La cultura ambientale per la salvaguardia della
persona e delle società umane. A cura di FAUSTO MANES - GIGLIOLA PUPPI.
11. Diritto. Cultura giuridica per un nuovo umanesimo. A cura di EMANUELE BILOTTI
- DARIO FARACE - MARIA CHIARA MALAGUTI.
12. Economia. L’umanesimo nell’economia globalizzata. Visione, strumenti, responsa-
bilità. A cura di FABRIZIO D’ASCENZO - GIOVANNI FERRI - MARIO RISSO.
13. Scienze della comunicazione. Famiglia e comunicazione. A cura di SIMONA
ANDRINI - GIANPIERO GAMALERI.
14. Scienza. Scienza e fede nel nuovo umanesimo. A cura di GIANDOMENICO BOFFI
- BRUNO BOTTA.
15. Tecnologia. Nuove tecnologie e nuovo umanesimo. A cura di FILIBERTO BILOTTI
- ALESSANDRO TOSCANO.
16. Arte. Il nuovo umanesimo rappresentato e annunciato. A cura di BARTOLOMEO
AZZARO - CALOGERO BELLANCA.

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Qualità dell’esperienza
mentale e qualità
della vita
Intersoggettività, contesti e valori
A cura di
GENNARO ACCURSIO
FRANCO LUCCHESE

LIBRERIA EDITRICE VATICANA

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© Copyright 2015 – Libreria Editrice Vaticana – 00120 Città del Vaticano
Tel. 06.698.81032 – Fax 06.698.84716

ISBN 978-88-209-9651-2

www.libreriaeditricevaticana.va
www.vatican.va

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INTRODUZIONE

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Le condizioni della nostra vita psichica sono sempre più
caratterizzate dall’esigenza di valorizzare le nostre potenzialità
al fine di promuovere la qualità della nostra esistenza. L’espe-
rienza culturale, scientifica ed umana, come si declina nei con-
testi sociali e nei diversi ambiti scientifici, richiede oggi un
rinnovato umanesimo come fondamento del nostro essere
nel mondo.
Questo volume per più versi tende a collocarsi in questa
prospettiva e i contributi degli autori tendono a convergere
su questa linea.
Lo studio di A. Siracusano e di E. Bianciardi tende a va-
lorizzare l’idea elettiva di una salute mentale che recupera la
dimensione umana anche nelle sue parti sommerse.
La salute è la tensione verso l’armonia fisica, psichica, spirituale e
sociale della persona che capacita l’uomo per adempiere la missione che
Dio le ha affidato nella sua vita” (Giovanni Paolo II, Giornata
del malato 2000).
Gli autori sottolineano come la definizione di salute, come
assenza di malattia, che per anni è stata divulgata e condivisa
appaia oggi antiquata. Nelle parole di questo lavoro si può
ravvisare l’espressione, l’emanazione di un cambiamento, gra-
duale ed epocale ad un tempo, della consapevolezza sociale
nei riguardi di questo fenomeno.
Viene evidenziato come lo stigma della malattia mentale
releghi la persona affetta in un posto fatto di solitudine, det-
tata dall’incomprensione della “diversità” e da ciò che viene

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ritenuto normale. Per troppo tempo il concetto di normalità
è stato equiparato a quello di salute, considerata quale feno-
meno universale. Fortunatamente ci si è affrancati da tutto
questo ed ora possiamo affermare che “La salute è uno stato
di completo benessere fisico, psichico e sociale e non sempli-
cemente l’assenza di malattia o di infermità” (Organizzazione
Mondiale della Sanità 1948). In questa prospettiva la sola di-
mensione della cura non è allora più contemplabile e lascia il
posto ad una politica sanitaria e sociale tesa anche alla pro-
mozione della salute e del benessere. Il benessere non ri-
guarda quindi solo il corpo, ma un’entità complessa, la psiche,
e questo pone la salute mentale al centro, in una posizione
determinante rispetto al buon funzionamento di ogni indivi-
duo e della comunità. Gli autori in modo chiaro e incisivo
danno risalto ai molti fattori che la influenzano: fattori gene-
tici, le modificazioni epigenetiche, l’ambiente lavorativo ed il
supporto sociale e familiare, i cambiamenti sociali, la capacità
di chiedere aiuto, l’esposizione a traumi recenti o infantili, l’es-
sere vittima di violenza, le discriminazioni, lo status econo-
mico, la scolarità, lo stile di attaccamento, le malattie fisiche.
In questo senso la malattia mentale potrebbe essere il risultato
di un fallimento dell’adattamento psichico dell’individuo alle
sollecitazioni dell’ambiente. In quest’ottica in un programma
di prevenzione dei disturbi psichici e di promozione della sa-
lute mentale, oltre ai progetti di prevenzione, risulta di fon-
damentale importanza l’incremento degli strumenti che
consentono l’intervento terapeutico agli esordi della malattia.
Un intervento precoce, o ancora di più la prevenzione nei
soggetti a rischio, favorisce l’efficacia delle cure sia in termini
di riduzione dei sintomi, sia come miglioramento della qualità
della vita. Risulta allora indispensabile una relazione medico-

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paziente tale da garantire un’accettazione delle cure, dunque
un’aderenza al trattamento prescelto, sia esso farmacologico
che psicoterapeutico. Questa accuratezza e l’aver cura del pa-
ziente, come ci ricorda Winnicott, rende lo studio degli autori
particolarmente rilevante perchè permea, da qualsiasi punto
di vista clinico lo vediamo, la possibilità di stare pienamente
nella vita, ossia attraverso itinerari possibili di benessere.
L’intento di una psicologia fondata sul benessere anima
anche lo studio di A. Gennaro e Paola Di Persia. La costru-
zione del benessere soggettivo ed intersoggettivo è ormai una
meta alla quale si deve costantemente tendere e l’approccio
alla psicologia della salute è in questo senso assai significativo
in ambito teorico e clinico. Gli autori sottolineano come i
contributi della psicologia umanistica e della psicologia posi-
tiva siano necessari per orientare le metodologie e gli inter-
venti clinici sulla cura della persona nella sua totalità. Ciò ha
molto rilievo e costituisce attualmente una necessità impre-
scindibile per tutelare e promuovere le risorse dell’individuo,
se consideriamo soprattutto come la cultura collettiva ed il
fenomeno della deindividuazione generano processi di sper-
sonalizzazione psicologica e crisi d’identità.
La psicologia positiva è interessata alla promozione della
salute e a sostenere le potenzialità dell’individuo. L’ottimismo
può essere considerato il nucleo di questa prospettiva psico-
logica e le virtù le determinanti psicologiche ed esistenziali
che modulano il divenire della personalità. La costruzione del
benessere in questo senso costituisce la finalità fondamentale,
il senso di un nuovo progetto della psicologia attuale. L’otti-
mismo è un’esperienza positiva quando è flessibile e aderente
al reale, perché in questo modo la persona può effettivamente
autoregolarsi e trovare le sue risorse personali concrete per

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ottimizzare i suoi stati mentali. Per quanto concerne le virtù,
possiamo affermare che esse costituiscono una forte forza
costellante del nostro divenire psichico. Esse modulano in
modo pregnante la proattività e le trasformazioni positive
delle persone, rappresentano le matrici su cui si può innestare
la vita mentale, consentono di far maturare concretamente le
aree della nostra vita psichica finalizzate alla realizzazione sog-
gettiva ed intersoggettiva del benessere. È necessario acquisire
una possibile fiducia: l’apprezzamento della realtà di come
siamo valorizzando le ‘cose semplici’, può divenire uno stile
di vita psicologico ed esistenziale che ci consente di illumi-
nare, in modo anche tenue, la nostra vita. Riscoprire l’ovvio
permette di avvertire sensazioni nuove riguardo alla nostra
affettività e alle nostre caratteristiche di personalità. Il benes-
sere inizia da questa possibile apertura verso la vita: è lo stato
di un chiarore potenziale che può sempre sorprenderci e rin-
novare la nostra esistenza. Qui gli autori sottolineano in modo
chiaro, senza trascurare le condizioni situazionali che possono
ostacolare la direzione verso il benessere, come le emozioni
e le motivazioni positive e la modulazione delle virtù possono
divenire le forze motrici della nostra vita psichica.
In questa direzione lo studio di Javier Fiz Perez, Paolo
Musso e Gabriele Giorgi apre un interessante spaccato sul
mondo del lavoro in cui ci sembra di cogliere come esso si
fondi su un’etica della responsabilità e conseguentemente
sull’adeguata valorizzazione della dimensione umana. In que-
sto studio viene evidenziato in modo incisivo come nell’epoca
della costante e inesorabile accelerazione del progresso tec-
nologico, dell’estrema intensificazione dei ritmi di vita e di la-
voro, l’uomo prende sempre più coscienza dei propri limiti
biologici che lo pongono in costante irrecuperabile ritardo

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evoluzionistico. Il tempo per pareggiare il divario cronologico
scorre diversamente per l’uomo e per il mondo tecnologico
fatto di web, smartphone e ambiente virtuale del quale si è
circondato. Tutto cambia velocemente, anche nel mondo del
lavoro e delle organizzazioni e le persone devono con rapidità
adeguarsi a coprire nuove professionalità, capire le fluttuanti
necessità delle richieste di mercato per essere sempre com-
petenti e quindi appetibili, sviluppando la cosiddetta “emplo-
yability”, cioè una spendibilità sul mercato del lavoro,
attraverso quelle capacità trasversali di gestione delle difficoltà
e di stress management necessarie per fronteggiare la nuova re-
altà lavorativa. Gli autori sottolineano in modo pregnante
come, a fronte di una realtà così incerta e variabile, si impone
la necessità di principi etici per la regolazione del comporta-
mento al fine di ricercare una certa stabilità nei rapporti tra le
aziende e gli individui che vi lavorano. Oggi le persone nel
mondo del lavoro devono necessariamente essere più “resi-
lienti” e capaci di fronteggiare le nuove difficili situazioni e
allora si pone sempre più l’accento sul processo formativo,
non inteso solamente a livello strettamente tecnico, ma anche
alla “ricerca di una crescita più integrale, più umanistica e di maggiore
eccellenza”. Quindi i modelli di sviluppo devono tendere a con-
ciliare la promozione di ogni persona e la conservazione del
sistema della natura e la qualità della vita.
Anche il saggio di F. Lucchese e F. V. Castro valorizza
l’ambito del contesto in cui l’intersoggettività assume dimen-
sioni più estese, come quello universitario. Lo studio ci coin-
volge direttamente e al tempo stesso produce riflessioni di
rilievo sull’università come luogo del sapere e dell’umano. In
un momento storico immerso nella globalizzazione in cui il
valore dell’avere e del possedere è assai più presente di quello

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dell’essere, l’istruzione universitaria deve necessariamente es-
sere costantemente attualizzata e soprattutto in grado di for-
mare persone capaci di analizzare i fenomeni in maniera
critica. Lo “Spazio Europeo di Istruzione Superiore” (EEES) è un
esempio di cambiamento significativo nel paradigma dello
sviluppo del processo di insegnamento-apprendimento. L’in-
segnamento incentrato sui contenuti ora si focalizza sullo svi-
luppo delle competenze. Lo studente che si forma in questo
contesto è messo in condizione di applicare le sue conoscenze
nelle situazioni di vita quotidiana e nell’esercizio della sua pro-
fessione futura. Il docente, in qualità di formatore di compe-
tenze, non si limita alla mera somministrazione dei contenuti,
ma diviene formatore di risorse e metodologie volte a rendere
gli studenti capaci in più ambiti. L’università, entra quindi
nella vita delle persone che forma e diviene, come sosteneva
Ignacio Ellacuría, un vero “laboratorio della realtà”, in cui
quest’ultima è la risultante della tensione di prassi e teoria,
cioè “investigazione e docenza”. Il docente accompagna gli
studenti nel loro gioco di prassi e teoria finalizzato ad una
vera realizzazione personale e sociale.
Il senso dell’umano e il risveglio di un nuovo umanesimo
si colgono efficacemente nel contributo di F. Pesci.
Quanto finora ha evidenziato ha un significativo riscontro,
per più versi unico, nella visione frankliana incentrata sulla
questione del significato, in particolare sul senso della vita nel
suo complesso e sul senso che ciascun individuo coglie nella
propria esistenza personale. La volontà di significato è se-
condo Frankl la prima e più importante motivazione del-
l’agire, e l’uomo, quale essere spirituale, non ha quale fine
primario il piacere freudiano, né la volontà di potenza di
Adler, ma l’intensa e completa comprensione della propria

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esistenza, soprattutto quando viene invasa dal dolore e dalla
sofferenza. Nella realtà ravvisiamo una dimensione di senso
(il “logos”) attraverso segni e simboli in base ai quali la realtà
stessa si “amplifica” rispetto alla materialità e alla nostra com-
ponente biologica. Questa dilatazione dell’esperienza produce
l’ampliamento della sfera psichica e pone le basi per una ri-
flessione in ambito spirituale. Lo scopo della vita è per l’essere
umano trascendere, superare, andare al di là di e oltre se
stesso, nella tendenza tipicamente umana, a trascendere i li-
miti della datità del reale. L’uomo ha bisogno che la propria
vita abbia un significato, anche se occultato dallo scorrere
degli eventi, soprattutto quelli più incomprensibili e difficili
da accettare come la malattia, la morte, il distacco dalla per-
sona amata, prendendo coscienza che tutto ciò che risulte-
rebbe privo di senso sul piano esclusivamente materiale e
psichico, può averlo in una dimensione “spirituale”. La vi-
sione frankliana, straordinariamente attuale, mette in guardia
dalla perdita della consapevolezza della pluridimensionalità
dell’uomo che conduce ad ambiguità nella visione di sé e alla
visione dell’essere umano e della vita che utilitaristicamente
pone come obiettivo primario la mera ricerca del piacere e
l’evitamento del dolore e della sofferenza.
A. Malo ci propone una riflessione sulla coscienza e sul-
l’esperienza soggettiva particolarmente significativa sa per la
chiarezza concettuale sia per la qualità dell’elaborazione. A
partire dalla definizione di coscienza come presenza imme-
diata a un essere vivente di un contenuto, e da quest’ultimo,
legato a diversi tipi di atti in senso ampio, dipenderà appunto
la distinzione fra tipi di coscienza. La coscienza dell’azione
conduce quindi al nucleo dell’integrazione dei diversi tipi di
coscienza. L’atto umano in questo senso sarebbe “l’ambito in

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cui la persona, nell’attualizzare le potenzialità che le sono proprie (di-
namismi fisiologici ed emozionali, pensiero, volizione, ecc.), vive se stessa
internamente come agente, costruendo così il suo carattere. La persona
che agisce conosce se stessa come soggetto agente, perché nell’atto scopre
dei fini con cui s’identifica giacché li riconosce come propri. In definitiva,
la persona si scopre nell’atto perché in esso si realizza la sua intenzio-
nalità”. Si può quindi sostenere che l’intenzionalità è il nucleo
sia dei processi cognitivi, sia di quelli metacognitivi, sia della
funzione riflessiva: essa è nell’alterità, è fondativa della rela-
zione intersoggettiva, è la possibile inesauribile risorsa della
coscienza.
Anche lo studio di J.F. Perez mette in rilievo l’esistenza di
elementi di congiunzione inattesi tra comportamento econo-
mico, meccanismi cognitivi e funzioni cerebrali, nonché tra
processi di scelta, emozioni e motivazione. Da diversi studi
emerge come gli individui, di fronte a scelte economiche,
adottino atteggiamenti e strategie di ragionamento assai più
complesse del semplice calcolo utilitaristico. L’economia co-
mincia sempre più ad essere vista come una disciplina da col-
legare alle scienze sociali. Il vecchio approccio economico, che
aveva a che fare con la razionalità delle scelte, in qualche modo
viene meno, perché il comportamento umano non è sempre
razionale. Le indagini di mercato sono sempre più simili ad
indagini psico-sociologiche, centrate sugli stili di vita dei con-
sumatori, sui comportamenti e sugli atteggiamenti degli inve-
stitori e dei risparmiatori e come tali evidenziano che la
domanda di prodotti e di servizi, e quindi l’evoluzione dei
consumi, è rivestita sempre più di componenti psicologici e
culturali, cioè di aspettative, di emozioni, di desideri, di mo-
tivazioni diverse ed in continuo cambiamento. Si fa avanti in
questo contesto la psicologia economica come disciplina che

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studia i meccanismi e i processi psicologici che sottostanno al
consumo e ad altri comportamenti economici, la quale si oc-
cupa delle preferenze, scelte, decisioni e dei fattori che le in-
fluenzano, come delle conseguenze, decisioni e scelte rispetto
alla soddisfazione dei bisogni. Inoltre essa tratta dell’impatto
degli eventi economici sul comportamento e sul benessere
delle persone. Risulta quindi evidente come il rapporto tra
economia e psicologia riguardi alcuni dei cambiamenti più ra-
dicali del mondo di oggi: il rapporto uomo-mondo, la nuova
piramide dei bisogni, la resistenza di certe culture ad acquisire
il modello economico dominante, la compenetrazione tra ric-
chezza e povertà, la crescita dell’incertezza, la funzione del ca-
pitale intellettuale rispetto al capitale finanziario e a quello
produttivo.
Lo studio di C. Fiorilli e J. Falchi è particolarmente illumi-
nante in quanto attraverso un’inedita ed appassionante ricerca
di comparazione di opere d’arte tra le più significative del pa-
trimonio pittorico mondiale illustra come si sia evoluta la vi-
sione della relazione madre bambino. La grande importanza e
la concezione del benessere del bambino, che poggiano sul-
l’idea di una relazione di cura e accudimento non centrate
esclusivamente sul garantire cibo e sicurezza, ma anche sulla
qualità della relazione di accudimento, oggi non sono scontate,
ed inoltre appare condiviso come il contesto in cui cresce un
bambino e la relazione affettiva che sviluppa con i genitori
siano importantissimi per la sua salute psicologica. Tuttavia ad
una più accurata indagine storica si approda con sorpresa al-
l’ipotesi che la maternità e l’istinto materno siano una costru-
zione dell’epoca moderna poiché per diversi secoli i bambini
furono definiti addirittura “fonte di peccato e pieni di male”.
Viene inoltre evidenziato in modo chiaro la fecondità di una

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relazione oggettuale permeata di esperienze possibilmente
“buone” che possano far transitare la relazione e lo sviluppo
del bambino verso una condizione di sicurezza emozionale e
di integrazione, come evidenziano la teoria dell’attaccamento
e più in generale una psicologia dinamica delle relazioni og-
gettuali fondata sulla promozione della salute psichica.
Lo studio di R. Mocciaro è centrato sul fenomeno del-
l’adolescenza e quindi sulle modalità particolari attraverso cui
si declina questo periodo critico del divenire della personalità.
L’autore illustra chiaramente come il fenomeno dell’adole-
scenza nella nostra società globalizzata risulti sempre più ca-
ratterizzato dall’efficienza, velocità e profitto. In questo modo
esso rischia di cristallizzarsi in un percorso che si prolunga
sempre più, finendo per trasformare quello che dovrebbe co-
munque essere una fase della vita, fatta di rivoluzioni biolo-
giche e grandi cambiamenti, in un processo “indefinito” come
aveva già sottolineato Sullivan. L’allungamento delle prospet-
tive di vita congiuntamente all’incertezza del futuro portano
a progetti di esistenza più rallentati e più meditati. Allo stesso
tempo lo stile di vita consumistico, anche in relazione ai sen-
timenti e ai valori umani esorta alla ricerca della soddisfazione
immediata dei bisogni. La velocità dei mezzi di comunica-
zione, la realtà virtuale, l’immediatezza dei rapporti sociali at-
traverso i social network, possono in pratica condurre ad un
impoverimento del progetto di vita a lungo o medio termine
privilegiando ciò che si può ottenere nell’immediato. In ag-
giunta si assiste alla crisi crescente dell’istituzione matrimo-
niale con calo di matrimoni, aumento delle convivenze, delle
separazioni e dei divorzi; e alla famiglia come simbolo di sta-
bilità e fonte di sicurezza, sembra gradualmente sostituirsi un
concetto di famiglia “liquida”.

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Lo studio di G. Nicolais affronta un tema particolarmente
delicato con rigore e accuratezza. Sebbene il tema delle dif-
ferenze anatomo-funzionali tra maschile e il femminile sia
davvero affascinante, esso in psicologia costituisce ancora un
terreno assai delicato. La psicologia e la psicopatologia dello
sviluppo descrivono oramai da decenni il bambino come com-
petente e resiliente, ma nonostante questo la nostra società sem-
bra attraversata dalla cosiddetta “sindrome del bambino di
cristallo” particolarmente indifeso, bisognoso ed incapace di
affrontare le conflittualità. Nei primi anni diverrebbe cruciale
che il genitore fornisca stimolazioni ed opportunità appro-
priate, pena la perdita definitiva della possibilità di crescita ed
arricchimento del bambino, se non addirittura la presenza di
danni irreversibili.
Le autrici S. De Stasio, I. Buonomo, S. Grilli, D. Fazio
nel loro lavoro evidenziano in modo approfondito le pro-
blematiche dell’insegnamento. Questo, come le professioni
che rientrano nelle helping professions, cioè quelle mediche e
psicologiche nelle quali la cura dell’altro è parte integrante
del proprio ruolo professionale sono esposte al rischio di
burnout. Sembrerebbe che gli insegnanti siano più vulnerabili
allo sviluppo di questa sindrome (Maslach e Jackson, 1981)
caratterizzata dall’incapacità del soggetto di adattarsi a situa-
zioni di stress emotivo continuo derivato dall’ambiente di
lavoro. Tra i fattori di rischio comunemente associati all’in-
sorgenza di questa in ambiente scolastico vi sono dimensioni
come le caratteristiche degli studenti, il clima relazionale ne-
gativo tra colleghi, uno scarso riconoscimento economico.
Lo stato di esaurimento emotivo che coinvolge l’insegnante
in questi casi ha effetti negativi non solo sul suo stato di be-
nessere, ma anche sul clima emotivo di classe, sulle perfor-

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mance degli alunni, e in generale, sul clima relazionale tra
insegnanti e studenti. Di qui l’esigenza di aver cura non solo
degli alunni, ma anche dell’insegnante e delle possibili stra-
tegie che le autrici evidenziano chiaramente, intese a ridurre
l’accumulo di tensioni ed una nuova acquisizione motivazio-
nale volta a promuovere l’insegnamento come processo edu-
cativo fondamentale.

ACCURSIO GENNARO
FRANCO LUCCHESE

ACCURSIO GENNARO, Sapienza Università di Roma.


FRANCO LUCCHESE, Sapienza Università di Roma.

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STIGMA, SALUTE, SALUTE MENTALE

Alberto Siracusano - Emanuela Bianciardi

A differenza della malattia fisica, la malattia mentale è tut-


tora considerata una condizione deviante e pericolosa. Chi è
affetto da un disturbo psichico viene in molti casi colpevo-
lizzato, guardato con sospetto ed è oggetto di gravi pregiudizi.
Lo stigma viene concettualizzato come un difetto di co-
noscenza (ignoranza o disinformazione), un’attitudine (il pre-
giudizio) ed un comportamento (la discriminazione).
Lo stigma nasce quando, senza una conoscenza specifica
riguardo la malattia mentale (ignoranza), gli stereotipi cultu-
rali ed i falsi miti provocano disinformazione che, combinata
con la paura della diversità, può dar luogo all’attitudine al
pregiudizio.
Lo stigma comporta la discriminazione dei malati psichici,
l’alienazione dal contesto sociale e l’impoverimento delle re-
lazioni umane. La perdita del valore sociale dell’individuo mi-
naccia anche la sua integrazione nel mondo lavorativo,
compromettendo il decorso della malattia.
Il peso delle discriminazioni legate alla malattia mentale
ricade soprattutto negli ambiti relazionali.
I pregiudizi causano la discriminazione e l’isolamento so-

ALBERTO SIRACUSANO - EMANUELA BIANCIARDI, Università degli Studi di Roma


Tor Vergata.

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ciale di chi è affetto da una malattia mentale. Questo processo
determina un circolo vizioso: l’individuo evita la discrimina-
zione attraverso il rifiuto della relazione con l’altro.
Le conseguenze emotive per chi viene stigmatizzato sono
la perdita di sicurezza e di autostima.
Una ricerca pubblicata su Lancet (Henderson, 2009) ha
riportato gli esiti di una delle più importanti campagne inter-
nazionali per la prevenzione e la lotta allo stigma, “TIME TO
CHANGE”, che è stata promossa nel Regno Unito nel 2009.
I messaggi chiave erano tre: le malattie mentali hanno
un’altissima prevalenza ma non impediscono di condurre una
vita soddisfacente; la malattia psichica è uno degli ultimi tabù,
lo stigma che la caratterizza può causare una sofferenza mag-
giore della malattia stessa; combattere lo stigma significa aiu-
tare coloro che soffrono di un disturbo mentale.
Lo stigma rappresenta dunque un’emergenza mondiale.
La malattia mentale rende la persona che ne è affetta poco
comprensibile agli altri, questa incomprensione è all’origine
della “diversità”.
Il concetto di stigma trae origine dall’idea di una diversità
del malato mentale rispetto alla normalità di chi, per esempio,
è affetto da una malattia fisica.
La maggior parte dei medici equipara la normalità alla sa-
lute e considera quest’ultima come un fenomeno universale.
Questa definizione di normalità equivale a benessere o ra-
gionevole stato funzionale.
Dare una definizione di normalità risulta piuttosto difficile.
La normalità si può inquadrare come media statistica: si
basa sul principio matematico della curva gaussiana in cui la
normalità è ciò che corrisponde alla porzione intermedia e i
due estremi come devianti.

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Il termine “normale” ha in medicina un doppio signifi-
cato: è normale ciò che funziona bene ma anche ciò che è più
frequente nella popolazione. Il limite principale di questo cri-
terio di morbilità è che non tiene conto della possibilità che
una condizione mentale statisticamente rara sia un pregio e
non un difetto tale da configurare una patologia.
Secondo le teorie psicoanalitiche, la normalità è conside-
rata un’utopia o come l’ha descritta Freud “un ego normale
è come la normalità in generale, una finzione ideale”.
Un’altra prospettiva del concetto di normalità, la inquadra
come un processo, ovvero il risultato finale di diversi cambia-
menti o processi che avvengono nel tempo.
Per gli psichiatri è fondamentale la valutazione del “con-
testo”, ovvero ciò che può essere normale in un dato contesto
in un altro non lo è.
Un comportamento viene dunque considerato nei limiti
della normalità quando non sono presenti segni manifesti di
psicopatologia.
Per quanto riguarda il concetto di salute, va sottolineato
come negli ultimi decenni ci sia stata un’evoluzione, per cui
si è passati dal considerare la salute come l’assenza di malattia
fino alla definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sa-
nità (1948) secondo la quale: “La salute è uno stato di com-
pleto benessere fisico, psichico e sociale e non semplicemente
l’assenza di malattia o di infermità”.
L’impatto della nuova concezione di salute si è tradotto
in una politica sanitaria e sociale volta non solamente alla cura
delle malattie ma soprattutto alla promozione della salute e
del benessere.
“La salute è la tensione verso l’armonia fisica, psichica,
spirituale e sociale della persona che capacita l’uomo per

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adempiere la missione che Dio le ha affidato nella sua vita”.
Queste parole, pronunciate da Giovanni Paolo II, nella gior-
nata del malato dell’anno 2000, testimoniano l’evoluzione
del significato di salute, intesa come armonia, equilibrio e
benessere.
Il benessere coinvolge tutti gli aspetti dell’essere umano.
Rappresenta lo stato emotivo, mentale, fisico, sociale e spi-
rituale di ben-essere che permette all’individuo di raggiungere
e mantenere il proprio, specifico potenziale nella società. Que-
sti cinque aspetti devono tra loro essere equilibrati, per con-
sentire agli individui di migliorare il loro benessere.
Quando il concetto di salute, che solitamente si riferisce
al corpo, viene applicato ad un’entità complessa come la psi-
che, si aprono diverse dimensioni: cervello-mente-ambiente.
La salute mentale include l’accettazione del proprio sta-
tus, la curiosità, l’iniziativa, la capacità di cambiamento, la mal-
leabilità e la resilienza. L’individuo può così fare delle scelte,
esprimere la sua creatività, adattarsi all’ambiente, attingere alle
proprie risorse, adempiere un ruolo nella società.
La salute mentale può essere paragonata alle fondamenta
del benessere e del buon funzionamento di ogni individuo e
della comunità.
I determinanti di salute mentale sono molteplici, tra questi
sono di notevole impatto i fattori genetici, le modificazioni
epigenetiche, l’ambiente lavorativo ed il supporto sociale e fa-
miliare, i cambiamenti sociali, la capacità di chiedere aiuto,
l’esposizione a traumi recenti o infantili, l’essere vittima di
violenza, le discriminazioni, lo status economico, la scolarità,
i fattori personologici come lo stile di attaccamento, le ma-
lattie fisiche.
La malattia mentale potrebbe essere definita come un fal-

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limento dell’adattamento psichico dell’individuo alle solleci-
tazioni dell’ambiente.
La malattia mentale è caratterizzata da alterazioni diretta-
mente e/o indirettamente osservabili, ed è sempre correlata
ad una eziopatogenesi.
Nel DSM-5 il disturbo mentale viene definito come: “una
sindrome caratterizzata da disturbi clinicamente significativi
della cognitività, della regolazione emotiva e del comporta-
mento individuale tali da riflettere una disfunzione nei processi
psicologici, biologici o dello sviluppo che sottendono il fun-
zionamento mentale. I disturbi mentali sono di solito associati
con un grado significativo di sofferenza soggettiva o di disa-
bilità sociale, lavorativa o in altre aree del funzionamento”.
Diversi elementi presenti in questa definizione riflettono
la difficoltà di distinguere la salute dalla malattia mentale. La
sindrome (cioè l’insieme dei sintomi e dei segni) deve essere
“clinicamente significativa” ma la definizione non fornisce un
metro di misura oggettivo per decidere quale sia la soglia di
tale significatività.
Il concetto della sofferenza associata al disturbo mentale
è altrettanto dibattuto. Nel senso comune l’elemento cruciale
della malattia è la sofferenza nelle sue varie forme, dal males-
sere generale al dolore intenso.
In molte lingue europee la radice etimologica della parola
“malattia” rimanda a un significato di sofferenza. L’equiva-
lenza tra malattia e dolore, oltre ad essere sostenuta dal senso
comune, è ben fondata biologicamente. Il dolore si è evoluto
come segnale di allarme per l’organismo. In presenza di un
danno tissutale, si attivano meccanismi neurofisiologici che
causano una sensazione spiacevole e scatenano, quando pos-
sibile, una risposta compensatoria.

23
Eppure la sofferenza è un criterio debole per definire la
malattia mentale per due differenti ragioni. Primo, alcuni di-
sturbi psichiatrici non fanno soffrire. Per esempio, le persone
affette dal disturbo schizoide di personalità non soffrono per
l’isolamento sociale e affettivo che rappresenta l’aspetto psi-
copatologico centrale della loro patologia. Inoltre ci sono di-
sturbi neuropsichiatrici nei quali è il piacere, e non il dolore,
lo stato emotivo prevalente. L’estasi di alcune forme epiletti-
che o i deliri mistici di certe psicosi vengono descritti dai pa-
zienti come esperienze di godimento inarrivabile per una
persona sana. In queste malattie l’intenso piacere si alterna
comunque con esperienze spiacevoli o dolorose. Ciò non ac-
cade però nell’ipomania.
L’ipomania è un disturbo psichiatrico in cui il tono del-
l’umore è caratterizzato dall’euforia e il paziente sperimenta
una condizione di totale benessere fisico e mentale accompa-
gnato da una grande capacità d’iniziativa e di realizzazione.
Agli occhi di chi non lo conosce, il paziente ipomaniacale ap-
pare come persona dotata di grande vitalità e invidiabilmente
allegra ed espansiva. Se alcune malattie mentali non fanno sof-
frire, è anche vero che alcune condizioni psicologiche che si
accompagnano a un’intensa sofferenza soggettiva non sono
malattie mentali, sebbene possano diventare terreno di vulne-
rabilità per lo sviluppo di vere e proprie sindromi cliniche. Per
esempio, il dolore mentale causato dalla rottura di un legame
affettivo o dalla perdita di una persona cara può assomigliare
a quello che caratterizza le sindromi depressive ma in realtà è
una reazione psicologica, transitoria e del tutto normale.
Il DSM-5, ha cercato di chiarire le differenze tra i sintomi
propri del lutto e quelli della depressione. Nonostante dopo
un lutto si possano sviluppare reazioni emotive che includono

24
sentimenti di intensa tristezza, simili a quelli della depressione,
la possibilità di una diagnosi psichiatrica di depressione, deve
essere valutata con attenzione. Tale giudizio è inevitabilmente
vincolato alla storia individuale e al contesto culturale in cui
la persona ha manifestato il disagio.
Per concludere, oggi in psichiatria, più che in altri campi
della medicina, la definizione di malattia non è fondata su basi
scientifiche solide che la preservino da indebite influenze di
pregiudizi culturali. Lo psichiatra deve avvicinarsi al problema
della malattia mentale consapevole di quanto le differenze in-
dividuali siano importanti nel comportamento umano e di
come la storia remota e recente della nostra disciplina sia co-
stellata di dolorosi esempi di impropria medicalizzazione della
diversità.
Nel gennaio 2005, l’Organizzazione Mondiale della Sanità
ha organizzato a Helsinki una Conferenza europea sulla salute
mentale. Alla fine dei lavori, i ministri della salute di cinquan-
tadue paesi, hanno approvato all’unanimità un documento di
fondamentale importanza. Il documento è stato concepito
con la collaborazione di medici, psicologi, ricercatori, insieme
a persone con l’esperienza del disagio e i loro familiari.
Nel documento di Helsinki si sottolinea che “non c’è sa-
lute senza salute mentale”.
La salute mentale e il benessere mentale di una persona
sono fondamentali per la salute fisica e anche per la qualità
della vita. Incidono sulla produttività degli individui, delle fa-
miglie, delle comunità e delle nazioni. Rendono le persone
capaci di partecipare agli aspetti della vita.
Secondo quanto enunciato nel documento è prioritario
promuovere il benessere mentale, contrastare la discrimina-
zione e l’emarginazione sociale, prevenire i disturbi mentali,

25
fornire servizi efficaci e adeguati, favorire il reinserimento in
società delle persone affette da disturbi mentali.
La dichiarazione dell’OMS considerara la salute mentale
alla pari della difesa dei diritti umani, dell’educazione e dello
sviluppo.
Un recente editoriale pubblicato su Lancet, riprende il
concetto espresso dalla dichiarazione di Helsinki, sottoline-
ando come la salute mentale rappresenti un pre-requisito fon-
damentale per la salute in generale; inoltre, viene messa in
luce l’inadeguatezza delle risorse economiche messe finora a
disposizione per la promozione e la tutela della salute mentale.
Perché dunque, non c’è salute senza salute mentale?
La psichiatria attraversa in modo trasversale tutti i campi
della medicina. Malattie psichiatriche, mediche e chirurgiche,
non solo possono coesistere, ma anche contribuire al loro re-
ciproco sviluppo, peggioramento o possono mimetizzare
l’una le manifestazioni dell’altra.
Agli albori della medicina, gli aspetti biologici della malat-
tia erano fortemente intrecciati a quelli psicologici e sociali.
Ippocrate (460-377 a.C.) insegnava ad avere una visione oli-
stica, globale dell’uomo. Con Cartesio (1596-1650) ravvisiamo
la prima teorizzazione della dicotomia fra anima (res cogitans)
e corpo (res extensa). Più recentemente, Engel, in accordo
con la moderna concezione multidimensionale della salute,
ha promosso un nuovo modello di medicina, denominato
“bio-psico-sociale”. Al determinarsi della malattia, dovreb-
bero contribuire aspetti biologici, come il substrato anatomico
e fisiologico; psicologici, come l’influenza psicodinamica della
personalità e dell’esperienza di malattia individuale; e ambien-
tali, ovvero le influenze culturali, familiari e sociali sull’espres-
sione della malattia.

26
Data la complessità del rapporto tra salute e malattia,
Engel ha proposto un modello di riferimento ampio, inclu-
dendo la valutazione degli aspetti biopsicosociali, ogni volta
che si formula una diagnosi.
Il compito del medico sarebbe quindi quello di valutare il
peso dei vari aspetti biopsicosociali sulla malattia.
Uno degli scopi della pubblicazione dell’ultima edizione
del manuale diagnostico dei disturbi mentali, il DSM-5, è stata
quella di favorire l’integrazione della psichiatria nella medicina
generale. È necessario che anche gli specialisti delle diverse
branche della medicina, sappiano riconoscere e si possano
occupare dei pazienti con disturbo mentale, valutando le pos-
sibili implicazioni dei sintomi psichiatrici nei diversi contesti
clinici.
Un aspetto critico della relazione tra la salute e la salute
mentale è quello della comorbidità medico-psichiatrica.
Nei pazienti psichiatrici è riscontrabile un’elevata prevalenza
di malattie somatiche (circa il 50%), ed è stimato che la dia-
gnosi di comorbilità medico-psichiatrica venga effettuata solo
nella metà dei casi.
Un articolo pubblicato su JAMA (Kupfer, 2010) riporta
che dal 30 al 50% dei pazienti che accedono ai servizi di me-
dicina generale, presenti sintomi psichiatrici significativi o
una diagnosi psichiatrica che, se non trattata, incide sulla pro-
gnosi medica. Anche nelle branche chirurgiche, gli eventi
pre-chirurgici e le complicanze post-intervento si possono
associare a disturbi psichici. La comprensione dei rischi e
delle finalità di un intervento, così come l’aderenza alle
norme post-operatorie, risentono inevitabilmente di even-
tuali disturbi psichiatrici.
Da un punto di vista metodologico clinico, ci sono cinque

27
possibili modelli di relazione tra disturbi psichiatrici e disturbi
fisici: 1) il disturbo psichiatrico può determinare o attivare
una patologia medica (un episodio depressivo precede l’in-
sorgenza di una malattia cardiovascolare); 2) i sintomi psichia-
trici sono l’espressione fenomenica di una malattia fisica
(disturbi della tiroide si possono presentare come sintomi an-
siosi); 3) il disturbo psichiatrico è conseguenza di una pato-
logia medica (diagnosi di carcinoma seguita da depressione);
4) il disturbo psichiatrico amplifica il sintomo di una malattia
medica (l’ansioso sopporta di meno la presenza del dolore);
5) la patologia psichiatrica si presenta con prevalenza di sin-
tomi fisici senza base organica dimostrabile (ad esempio, gli
attacchi di panico o i disturbi somatoformi).
La diffusione dei disturbi psichiatrici ha raggiunto pro-
porzioni allarmanti. Almeno 450 milioni di individui nel
mondo soffrono di disturbi mentali. Nel 2005, le stime del-
l’Organizzazione Mondiale della Sanità calcolavano che nel
2020 la depressione sarebbe stata la seconda causa di anni di
vita persi per disabilità e mortalità (Prince, 2005). Nel 2010,
la rivista Nature ha pubblicato un editoriale nel quale si pre-
vedeva che i dieci anni successivi, sarebbero stati la decade
dei disturbi psichiatrici (Campbell, 2010).
Queste previsioni sono state confermate. Secondo i risul-
tati del Global Burden of Disease Study (GBD 2013) pub-
blicati su Lancet (Vos, 2015), la depressione è la seconda causa
di disabilità e mortalità per malattie croniche e non trasmis-
sibili (Non-communicable disease, NCD).
Rispetto alla popolazione generale, i pazienti con malattia
psichiatrica hanno un tasso di mortalità annua aumentato di
2-4 volte. Secondo una recente metanalisi, gli individui con
disturbo mentale hanno un rischio di morte doppio e, ogni

28
anno, circa otto milioni di morti sarebbero attribuibili ad un
disturbo mentale (Walker, 2015).
In particolare, per la schizofrenia, i tassi standardizzati di
mortalità (morti per anno rispetto alla popolazione generale)
variano da 1,6 a 3,4. In generale, nei pazienti psicotici l’aspet-
tativa di vita è ridotta di un quarto, a causa soprattutto del
suicidio fra i giovani e di patologie cerebrovascolari negli an-
ziani. L’incremento di mortalità è particolarmente evidente
subito dopo la diagnosi di schizofrenia, durante o subito dopo
un ricovero psichiatrico, nei pazienti di età inferiore ai 40 anni
e nelle donne. Anche nei disturbi affettivi maggiori si riscon-
trano tassi di mortalità aumentati di 1,5 volte. La maggior
parte degli studi suggerisce che l’eccesso di mortalità sia
spesso causato da problemi misconosciuti di carattere medico,
fra cui emergono le infezioni complicate, le malattie respira-
torie, cardiovascolari, metaboliche e neoplastiche. Nel caso
del disturbo bipolare, ad esempio, è assai frequente l’associa-
zione con malattie cardiovascolari e metaboliche, fra cui l’obe-
sità viscerale, l’iperinsulinismo, il diabete mellito tipo II e le
disfunzioni tiroidee (tiroiditi croniche autoimmuni, ipo- e
ipertiroidismo). Questi pazienti presentano un rischio medico
globalmente aumentato anche a causa della sedentarietà, del-
l’eccessiva abitudine tabagica, dell’uso di alcol o di altre dro-
ghe, e della dipendenza da farmaci fra cui spiccano ansiolitici
e anoressizzanti. È infatti nota la comorbidità fra disturbo bi-
polare, disturbi d’ansia e disturbi del comportamento alimen-
tare. Non è ancora chiaro se la “sindrome metabolica”
associata al disturbo bipolare sia una conseguenza diretta della
malattia psichiatrica o del trattamento con psicofarmaci.
Un’ampia varietà di malattie somatiche si può presentare
con sintomi psichici. Storicamente, la neurosifilide, ormai

29
scomparsa dallo scenario clinico, era responsabile della mag-
gior parte dei ricoveri psichiatrici. Vanno ancor oggi menzio-
nate differenti patologie metaboliche, fra cui la porfiria acuta
intermittente (“la pazzia di re Giorgio III”), le deficienze vi-
taminiche, alcune condizioni endocrine come gli ipotiroidismi
non trattati; alcune malattie neurologiche fra cui le malattie
cerebrovascolari e degenerative, l’epilessia, le vasculiti, nume-
rose neoplasie e altre condizioni mediche che possono ma-
scherarsi sotto forma di disturbi psichici. È dimostrato come
una valutazione clinico-medica inadeguata o ritardi e man-
canza di trattamenti terapeutici efficaci, possano portare il pa-
ziente a serie complicanze e a disabilità permanente. Anche
se gli esami di laboratorio, eseguiti di routine all’atto del rico-
vero o al momento della “prima visita”, portano a una ridu-
zione degli errori, nel corretto ragionamento diagnostico
medico ipotetico-deduttivo è essenziale escludere, di volta in
volta, che i sintomi psichici non costituiscano un epifeno-
meno della malattia fisica. Come già accennato, molte malattie
mediche rappresentano, peraltro, delle complicazioni meta-
boliche o “iatrogene”, e possono coesistere con il problema
psichiatrico di fondo.
L’abnorme vulnerabilità per patologie “mediche” che ca-
ratterizza i pazienti psichiatrici è multifattoriale e riconduci-
bile, oltre che a meccanismi patogenetici diretti, anche a
meccanismi che ostacolano alcune delle strategie di preven-
zione. In quest’ambito, è particolarmente importante tornare
nuovamente sul concetto di stigma.
La patologia mentale è gravata da un forte stigma che
molto spesso coinvolge anche gli stessi professionisti della sa-
lute. A oggi, il 70% dei pazienti non è in grado di comunicare
adeguatamente con il proprio medico di base, spesso per sem-

30
plici pregiudizi da parte dello stesso medico. Inoltre, il pa-
ziente psichiatrico può evocare sentimenti negativi nel me-
dico, che conduce ad una visita medica talvolta poco accurata.
È necessario prendere in considerazione alcuni aspetti le-
gati all’era moderna che incidono sul rapporto tra la salute e
la salute mentale.
Il primo è rappresentato dall’aumento della diffusione
delle malattie croniche. Si calcola che negli Stati Uniti ed
in Inghilterra, quasi la metà della popolazione al di sotto dei
65 anni, sia affetta da almeno una malattia cronica. Inoltre, il
65% degli individui nella fascia di età compresa tra i 65 e gli
84 anni, presenta più di una malattia cronica. Nelle persone
al di sopra degli 85 anni, il fenomeno della multimorbidità si
riscontra nell’82% dei casi. Negli individui con multimorbi-
dità, il rischio di avere un disturbo mentale è di 3-7 volte su-
periore rispetto ai controlli (Eaton, 2015).
Un secondo aspetto di criticità, legato alla società mo-
derna, riguarda il peso dello stress. Molti studi hanno dimo-
strato che lo stress mette a rischio il benessere soggettivo e la
salute mentale dell’individuo, innescando una sorta di circolo
vizioso. Lo stress, non solo potrebbe favorire l’attribuzione
di significati sfavorevoli, ambigui o minacciosi a stimoli altri-
menti neutri, ma attiverebbe una risposta di stress che incide
negativamente su disabilità, salute e salute mentale (Egeland,
2015).
Infine, negli ultimi anni, c’è un’attenzione crescente al pe-
riodo perinatale come fase cruciale, determinante la salute
mentale della madre e della prole. Secondo molti ricercatori,
“non c’è salute senza salute perinatale”. (Howard, 2014).
La maternità e l’arrivo di un figlio rappresentano un mo-
mento di cambiamento, di progetti e speranze per il futuro.

31
Tuttavia, nel 10-20% delle madri, durante il peripartum (inteso
come periodo che comprende la gravidanza e si protrae fino
ad un mese dal parto) insorge un disturbo mentale, spesso ta-
ciuto per vergogna e stigma. Non c’è periodo del ciclo vitale
in cui l’affermazione “non c’è salute senza salute mentale” sia
più significativa. Durante la gravidanza e dopo il parto, si pos-
sono manifestare diversi disturbi psichiatrici: dalla depressione
ai disturbi d’ansia, al disturbo ossessivo-compulsivo, fino alla
mania e alla psicosi nelle primissime fasi dopo il parto. Il rico-
noscimento ed il trattamento dei disturbi del periodo perina-
tale è fondamentale specialmente quando si considera che il
suicidio è la causa più frequente di morti materne nelle società
occidentali (Cantwell, 2011). Trattare esclusivamente la depres-
sione materna non è comunque sufficiente a mitigare l’effetto
che la patologia può esercitare sulla prole, già nella fase fetale.
Lo stress materno moderato-lieve (non necessariamente
quello grave o la presenza di un disturbo psichiatrico) deter-
mina un aumento dei livelli di cortisolo materno e una down
regulation dell’11β - idrossi-steroido-deidrogenasi placentare,
enzima deputato alla conversione del cortisolo in una forma
inattiva; questo processo causa un aumento del cortisolo nel
liquido amniotico. Il cervello fetale viene così sovraesposto
al cortisolo, con conseguenze negative sul neurosviluppo
(O’Donnell, 2012).
La presenza di sintomi depressivi o ansiosi in gravidanza,
non trattati, sembra compromettere il neurosviluppo fetale
fino al 15% dei casi (Glover, 2014). I figli di madri depresse
avranno un rischio aumentato di disturbi affettivi durante
l’infanzia, come ansia e depressione, disturbi temperamentali,
disturbi della condotta, disturbi del sonno, deficit dell’atten-
zione o iperattività, deficit cognitivi.

32
Ci sono evidenze che mostrano che la depressione peri-
natale aumenti il rischio di depressione nella prole fino alla
tarda adolescenza e alla prima età adulta.
A questo proposito ha avuto un’enorme risonanza un re-
cente articolo pubblicato sul New England Journal of Medi-
cine (Meltzer-Brody, 2014), che ha richiamato l’attenzione
della comunità scientifica internazionale sul periodo perina-
tale, come momento di particolare rischio per lo sviluppo di
psicopatologia, sia della donna che della prole.
Per concludere, in tema di prevenzione dei disturbi psi-
chici e promozione della salute mentale, è doveroso menzio-
nare l’importanza sia del riconoscimento dei segni preclinici
di malattia, come i soft neurological signs, che consentono l’indi-
viduazione delle categorie di individui ad “alto rischio” di svi-
luppo psicopatologico, che l’incremento degli strumenti
diagnostici e terapeutici sofisticati, da utilizzare agli esordi
della malattia. La prevenzione nei soggetti a rischio e l’in-
tervento precoce, possono avere un impatto decisivo sul-
l’efficacia delle cure, sia in termini di riduzione dei sintomi,
sia come miglioramento della qualità della vita.
Occorre infine ricordare come, un elemento imprescindi-
bile per la promozione della salute mentale e per la preven-
zione e la cura dei disturbi psichici, sia da ricercare nella
relazione medico-paziente.
Per sviluppare un efficace ed adeguato rapporto medico-
paziente, il medico e ancor di più lo psichiatra, deve essere
cosciente di lavorare non con un insieme di sintomi ma con
un essere umano, dotato di personalità, di sentimenti, di sen-
sibilità e di intelligenza. In questo senso, il contributo dei di-
versi modelli di psicoterapia è fondamentale, in quanto
fornisce, da diverse angolature, cornici tecniche di riferimento

33
per la relazione terapeutica. Negli anni il concetto di relazione
medico-paziente si è però evoluto: l’elemento principale della
cura sembrerebbe risiedere nella qualità della relazione tera-
peutica, più che dalla tecnica in sé. A questo proposito, è utile
citare il lavoro del gruppo di ricercatori: “The Boston Change
Process Study Group”. Questi autori hanno proposto un
cambiamento delle teorie psicoanalitiche classiche, alla luce
delle ricerche più attuali. La psicoanalisi tradizionale poneva
l’accento sul contributo del paziente alla relazione terapeuti-
ca, come se il terapeuta compiesse un intervento più “dal-
l’esterno”. I teorici attuali propongono una riconcettua-
lizzazione dell’alleanza, come il “continuo processo di nego-
ziazione intersoggettiva”. Per il gruppo di Boston il processo
centrale nel trattamento è proprio la negoziazione nella dire-
zione congiunta. La relazione terapeutica sarebbe un processo
continuo tra terapeuta e paziente, che crea direttamente un
cambiamento e di conseguenza un cosiddetto processo dia-
dico. Nella misura in cui questi processi diadici vengono com-
presi, dovrebbe emergere nella relazione terapeutica un
sentimento di fiducia e di collaborazione. Il cambiamento di
uno stato diadico sarebbe infatti ricollegabile ai “momenti di
incontro” tra medico e paziente. Il fine ultimo della creazione
di una buona relazione medico-paziente è la condivisione e
l’adesione al progetto terapeutico, dunque un’aderenza al trat-
tamento prescelto, sia esso farmacologico che psicoterapeu-
tico, aspetto tanto fondamentale quanto problematico in tutta
la medicina, e in psichiatria in particolare. In quest’ottica, una
previsione di aderenza al trattamento potrà essere possibile
solo se il medico conosce o riesce a inquadrare le diverse
variabili in gioco: la storia del paziente; le sue capacità di in-
sight; il suo atteggiamento nei confronti dei farmaci in gene-

34
rale e di quelli psichiatrici in particolare; l’idea che si è fatto
del suo disturbo e di come questo abbia modificato la sua
vita; la sua idea di stare meglio; la rete familiare e sociale che
ha intorno; le modalità con cui stabilisce e mantiene le rela-
zioni interpersonali.
«L’aderenza è un fenomeno multidimensionale che si co-
struisce attraverso l’interazione di diverse variabili. Ciascuna
di queste dimensioni - individuali, familiari, ambientali, della
malattia, terapeutiche - influenza in varia misura il raggiungi-
mento di un’adeguata alleanza terapeutica, elemento che, a
sua volta, incide in modo determinante sull’aderenza» (Sira-
cusano, 2005).
In conclusione, né la corretta diagnosi né la terapia ade-
guata garantiscono la tutela della salute mentale, quando non
sono accompagnate dall’instaurarsi di un’adeguata alleanza te-
rapeutica.

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37
38
DALLA PSICOLOGIA UMANISTICA
ALLA PSICOLOGIA POSITIVA:
LA COSTRUZIONE DEL BENESSERE

Accursio Gennaro - Paola Di Persia

In questo studio ci proponiamo di evidenziare come l’ap-


proccio alla psicologia della salute risulti un ambito teorico e
clinico significativo per la costruzione del benessere soggettivo
ed intersoggettivo. In tale ambito i contributi della psicologia
umanistica e della psicologia positiva si sono rivelati necessari
per orientare le metodologie e gli interventi clinici sulla cura
della persona nella sua totalità. Ciò ha molto rilievo e
costituisce attualmente una necessità imprescindibile per
tutelare e promuovere le risorse dell’individuo, se consideriamo
soprattutto come la cultura collettiva ed il fenomeno della
deindividuazione generano processi di spersonalizzazione
psicologica e crisi d’identità. Per questa ragione, inizialmente
ci soffermeremo su queste dimensioni per poi trattare della
psicologia umanistica e di quella positiva e della loro concreta
influenza nel valorizzare la qualità dell’esperienza psichica
nelle sue diverse configurazioni. Il contesto sociale di questi
ultimi anni ha reificato le necessità individuali, favorendo
l’emergere di un alto tasso di disagio. Con il mutare delle cir-
costanze storiche, economiche e delle convinzioni generali

ACCURSIO GENNARO - PAOLA DI PERSIA, Sapienza Università di Roma.

39
che caratterizzano la nostra cultura, il disagio psicologico
non appartiene più al singolo che vive semplicemente in un
contesto, ma al “singolo” confinato in quella dimensione
della soggettività che oggi non può prescindere dalla consa-
pevolezza sociopolitica e dalla riscoperta e affermazione di
valori che consentano una maggiore connessione efficace tra
benessere personale, relazionale e collettivo. (Gennaro A.
R.G. Scagliarini 2011). In questo senso si rivela utile lo
sviluppo di nuove componenti e potenzialità soggettive e
psicosociali, sovente imbrigliate nel tessuto dei nostri contesti
culturali. In particolare riteniamo, seguendo le elaborazioni
di Fromm da un lato e di Jung dall’altro, di evidenziare come
la dimensione culturale – aggregato di processi sociali, eco-
nomici, di stili di vita e modi di essere nel mondo – impedisca
la possibilità di esperire le nostre risorse soggettive ed inter-
soggettive. L’attuale dimensione collettiva è certamente
amorfa, spesso fredda, fonte di elusioni e di mistificazioni.
Questa considerazione, a nostro parere, è valida se ci mettiamo
in un’ottica realmente autoriflessiva, ossia se assumiamo un
posizionamento non soltanto critico ma capace di vedere i
fenomeni di cui siamo attraversati in modo eidetico, cioè
semplice ed essenziale. Questi termini “semplicità ed essen-
zialità” sono oscurati dalla cultura collettiva, gli scenari che
crediamo di conoscere sono frequentemente fittizi e permeati
dalla chiacchiera. La prevalenza di un pensiero supponente a
sua volta genera frammentazioni cognitive ed emozionali,
esito certamente di una società in crisi. Ciò crea forti
limitazioni a chi non vuole stare in un processo di autoinganno
collettivo che si riflette sulle menti individuali (cf. Gennaro
A. Di Persia P. 2015). Studiosi di grande spessore, qui citiamo
soltanto Jung e Freud (cf. Gennaro A. 2014) hanno messo in

40
luce come sia fondamentale cercare di adattarsi all’ambiente
pagando quei “costi” che questo adattamento comporta.
Oggi, non si tratta soltanto di adattarsi all’ambiente in modo
sano o come diceva Adler “attraverso l’alimentazione, la mo-
dulazione del sentimento di comunità”, ma di adattarsi co-
strittivamente a un ambiente spesso vuoto ed effimero ma
soprattutto, come dicevamo prima, elusivo. Progettare le
nostre soggettività su modalità basate sull’essere è partico-
larmente problematico, perché le attuali condizioni sociali
sono così robotiche e automatizzate che impediscono reali
transizioni mentali e sviluppo del pensiero riflessivo. Questa
realtà, così come ci appare, di fatto è conflittuale e spersona-
lizzante. Spesso sembra essere distante e caratterizzata da
una identità indipendente rispetto alla nostra esperienza sog-
gettiva. Diventano quindi gli stessi contesti in cui viviamo
fonte di significati per le azioni dei singoli attraverso le
regole e la cultura che le caratterizzano: non essendo vissute
più, nel tempo del loro svolgersi, come produzione umana
ma come un qualcosa di dato e di indipendente. Tuttavia ri-
cordiamo che la realtà che ci circonda è prima di tutto una
nostra estensione e proiezione, una “costruzione mentale”,
in quanto siamo noi stessi a generarla pensandola, e a
protrarla nel tempo vivendola. Le sue caratteristiche quindi
ci somigliano e ci appartengono: la società siamo noi e, come
sostiene (Di Maria F. 2000) “il Noi abita l’Io”. Eppure ce ne
distanziamo, ce ne dissociamo, ci allontaniamo da ciò che il
mondo è diventato, nostro malgrado, non riconoscendoci
più nella nostra realtà. L’atteggiamento dell’uomo si è nel
tempo omologato, si è “prostrato” alla realtà stessa, ovvero
si sono in essa persi quei filtri personali, quelle posizioni
soggettive che delineano i vissuti connotandoli di vitalità: si

41
creano processi per cui l’uomo aderisce acriticamente al
reale, facendo sì che il reale stesso lo privi della sua più vera
e profonda “verità”. Si è pertanto assistito, e si assiste
tutt’oggi, al nascere di fenomeni sociali allarmanti, come
quelli del conformismo ipertrofico, del disimpegno morale,
della anomia, della deresponsabilizzazione, della deindivi-
duazione. In tali fenomeni vediamo concretizzarsi le parti
più distruttive dell’uomo e le vediamo confluire nella
dimensione della vita collettiva. Il lasciarsi assorbire comple-
tamente dal “come va il mondo” non permeandolo più,
restare sulla sua superficie senza provare a scalfirla, a com-
prenderla e poi cambiarla è indice di un adattamento dogmatico
e supino, un’integrazione ed assimilazione asfittica che non
lascia spazio a reazioni autentiche di una coscienza morale
che resta inascoltata. L’assoluta indifferenza, la non parteci-
pazione civile e politica, l’incapacità di divenire una collettività
coesa e consapevole, sono il risultato di anni senza forma e
senza sostanza istillando in chi la vive l’esperienza di passività
e di vuoto emozionale, cognitivo e progettuale. Il desiderio
di impegno, di consapevolezza e di creatività sembrano
essersi persi e appiattiti, hanno realmente difficoltà ad
emergere se non in condizioni particolari e con il contributo
di persone che, al di là del ruolo nel mondo, testimoniano la
qualità dei sentimenti e il valore delle azioni autentiche, pro-
muovendo una fenomenologia dell’incontro realmente coe-
sistentivo. In tale prospettiva è sicuramente plausibile trattare
dello stato mentale della deindividuazione, il processo per cui
gli individui di un gruppo coeso tendono a perdere l’identità
personale, la consapevolezza, il senso di responsabilità, fino
a sviluppare impulsi e comportamenti antisociali. La deindivi-
duazione è la condizione di chi subisce passivamente la pressione del

42
gruppo, di cui condivide acriticamente orientamenti e valori. La persona
non si sente più pienamente responsabile delle proprie azioni
e la sua condotta viene ad adattarsi alle norme della situazione
specifica del gruppo, anziché attestarsi sulle norme morali
interne all’individuo stesso. Festinger (1952, 1957 cit. in Fer-
rovecchio E., A. Gennaro 2015) definisce la deindividuazione
come la “perdita di identità dovuta alla immersione nella
folla, con l’emergere di comportamenti devianti”. Ha analizzato
le modalità di “riduzione delle limitazioni interne” che soli-
tamente inibiscono i comportamenti “illeciti” quando un
soggetto è “immerso” in un gruppo. Lea e Spears (1990,
1992 cit. in Ferrovecchio E., A. Gennaro 2015) sostengono
invece che il fenomeno di deindividuazione possa verificarsi
anche all’interno di uno specifico gruppo sociale: in questo
caso l’identità personale risulterebbe indebolita mentre
l’identità sociale sarebbe rafforzata. Le basi concettuali della
deindividuazione sono rintracciabili già a fine Ottocento, in
particolare, nello scritto “Psicologia delle Folle” di Gustave
Le Bon (1895), in cui vengono argomentati gli elementi che
possono concorrere a determinare tale stato psichico. Le
ricerche effettuate da Zimbardo (1969) e Bandura (1975),
oltre all’esperimento di Milgram del 1961, hanno evidenziato
in quale misura possa essere parziale il tentativo di spiegare
le cause del comportamento violento o deviante messo in
atto dalla persona nel contesto di una folla, ricorrendo esclu-
sivamente ad un approccio di tipo “disposizionale”, cioè ad
una prospettiva secondo la quale la disposizione biologica e
genetica è in grado di spiegare il fenomeno nella sua totalità
e complessità. In tal senso Zimbardo, Milgram, e Bandura
studiano in quale misura le condotte individuali siano
influenzate da specifiche caratteristiche della situazione am-

43
bientale. Ad esempio situazioni sociali di anonimato, norme
coercitive, disumanizzazione e garanzie di impunità rappre-
sentano circostanze che possono scatenare episodi di vera e
propria violenza anche in soggetti con un livello di aggressività
nella norma. Tuttavia, l’uomo nasce ed è intrinsecamente
portato ad “essere con gli altri”, può positivamente essere
“uno fra molti” ed “uno di molti”. Sa creare e dare vita ad
una “comunione” e vivere la dimensione del gruppo come
moltiplicatore di quanto ha di nobile e vitale. Gli individui,
per quanto diversi tra loro, possono tuttavia riconoscersi
come parti integranti di una totalità collettiva, di un organismo
sociale. In tal senso è da considerare inoltre come una
Psicologia che prenda in carico la dimensione sociale non
può non considerare ed avvalersi delle possibilità risanatrici
del gruppo e della socialità, attraverso un investimento sulla
collettività, come «contesto e dimensione» in cui l’uomo può
canalizzare le sue energie e le sue motivazioni più profonde e
positive. La presa in carico del malessere e delle problematiche
sociali sembra dover passare, “transitare” attraverso le forme
e le strutture in cui essi prendono corpo e significato ed
operare sugli stati psicologici e sulla personalità dei “cittadini”,
sulla loro peculiare e così influente modalità di sentire i
propri valori in interazione congruente con la cosa pubblica.
L’obiettivo ultimo ed importante resta certamente un rag-
giungimento sempre maggiore e accessibile a tutti di modalità
di benessere interpersonale e sociale. (cf. Ferrovecchio E., A.
Gennaro 2015). Particolarmente adeguata a rispondere a questi
bisogni, in un momento di crisi per il sistema di valori e di-
sconoscimento dell’identità, è La Psicologia Umanistica. Rap-
presenta uno degli orientamenti più originali emersi in campo
psicologico, non solo per quanto riguarda la riflessione

44
filosofica sull’“essenza dell’uomo”, di matrice fenomenolo-
gica-esistenziale, ma anche per gli innovativi apporti nell’ambito
della pratica clinica. L’interesse per lo studio dell’essenza del-
l’uomo viene mutuato dalla fenomenologia di E. Husserl e
dall’esistenzialismo di Heidegger, che all’interno del movimento
esistenzialista, si concentrò su questi temi e sull’ontologia
fondamentale, aspetti che influenzarono significativamente
la psicopatologia fenomenologica di Biswanger (cf. Gennaro
e Scagliarini 2014). La psicologia umanistica mette in primo
piano l’immagine dell’uomo in quanto attivo e positivo che
esperisce la propria esistenza. Il ruolo dell’esperienza può
essere compreso solo a partire dalla rinuncia alla reificazione
della soggettività. Tra i principali sostenitori della psicologia
umanistica ricordiamo: C. Rogers, A. Maslow, R. May, E.
Fromm, e V. Frankl, che attraverso teorie cliniche diverse tra
di loro, ma unite da un comune intento, hanno enfatizzato
l’esperienza soggettiva e intersoggettiva nelle sue diverse de-
clinazioni, evidenziando le qualità distintamente umane, il si-
gnificato proattivo della personalità e soprattutto la tendenza
alla realizzazione dell’identità (Gennaro, 2014). Questi studiosi
sono stati tra i primi a sottolineare la necessità di considerare
l’essere umano come un organismo bio-psico-sociale, pro-
muovendone così una visione olistica, in cui le componenti
biologiche, psicologiche e sociali dell’esperienza umana
abbiano pari dignità. Sulla base dell’influenza della fenome-
nologia e dell’esistenzialismo, la psicologia umanistica pone
in primo piano la riconsiderazione della soggettività e le
modalità che determinano il benessere ovvero l’attenzione a
processi quali:
il Mutare dei sentimenti dall’ottimismo al pessimismo, l’Amore, la
Solitudine, l’Identità, la significanza.

45
Nella prospettiva umanistica l’esistenza umana è alla base
della teoria della tecnica e della pratica terapeutica.
L’apice dell’esperienza, secondo Maslow (1954), rappre-
senta in realtà l’apice della consapevolezza, attraverso cui i
meta-bisogni o bisogni di autorealizzazione possono espan-
dersi e realizzarsi. In questo senso costruire il benessere si-
gnifica fondamentalmente promuovere la gratificazione dei
bisogni fondamentali in cui l’ambiente costituisce una deter-
minante cruciale. L’esperienza soggettiva è fortemente in-
fluenzata dalle relazioni, da quelle familiari a quelle dei
contesti sociali. La soddisfazione dei bisogni di base non è
sola una prerogativa dell’individuo: i bisogni fisiologici, di si-
curezza, di affetto e di stima sono processi in divenire che
rafforzano l’identità e la regolazione emozionale. Tale divenire
può arrestarsi quando l’ambiente interpersonale ed i contesti
sociali sono deprivanti ed eludono le esigenze della soggetti-
vità. Qui l’altro non è considerato un’appendice o un tassello
da includere nella relazione, ma costitutivamente permea la
nostra soggettività. In questo modo è possibile sviluppare
condizioni di benessere: soddisfare le esigenze elementari, di
sicurezza, di affetto e di stima costituiscono delle pressioni
significative che richiedono di essere realizzate. Quando ciò
trova delle difficoltà individuali e interpersonali si generano
conflitti, stasi e regressioni psicologiche, stati di solitudine che
destrutturano l’identità. Tendere alla costituzione della psico-
logia della salute implica, pertanto, la valorizzazione del be-
nessere come processo in costruzione, di cui i meta-bisogni
ne rappresentano la dimensione elettiva. Questi, fondandosi
sull’autorealizzazione, sono gli ingredienti essenziali di una
psicologia dell’essere, in grado di potenziare l’umiltà, l’ironia,
la creatività, lo spirito democratico, la sollecitudine, i senti-

46
menti di giustizia che, da un lato, hanno la forza di modificare
gli assetti sociali nutrendoli di valori, dall’altro si temporaliz-
zano nella nostra mente per vivere uno stato di benessere o,
ancora più importante, per sperare in un benessere possibile.
In questa ottica, anche R. May(1958) incentra la sua elabora-
zione sul benessere. A questo riguardo, cita la frase di Husserl
“il senso è un’intenzione della mente” che è fondamentale nel pro-
cesso della psicoterapia. Egli fa vedere come la capacità di un
paziente di vedere il suo problema si sviluppi solo fino al
punto in cui il paziente stesso è in grado di fare qualcosa re-
lativamente al problema. In questo senso May cita Merleau-
Ponty (1945) “ogni intenzione è un’attenzione ed attenzione
è io-posso”. Per questa ragione noi siamo incapaci di prestare
attenzione ad alcunché, finché non siamo in grado di esperire
un “io-posso” nei confronti di qualche cosa. Anche il recu-
pero della memoria è visto da May come una funzione del-
l’intenzionalità. La memoria è come la percezione; il paziente
non può ricordare una cosa finché non è pronto a prendere
una qualche posizione nei suoi confronti. Ciò è fondamentale
per mobilitare nell’individuo il desiderio, l’amore e la volontà,
determinanti psicologiche ed esistenziali permeati di benes-
sere e vitalità.
Secondo la psicologia umanistica, il fine della vita è di ser-
virsi della vita stessa per fare qualcosa in cui si crede. Un
aspetto interessante di questa analisi, riguarda la colpa perso-
nale, distinta dai sentimenti di colpa condizionati sia in senso
intrapsichico che interpsichico. Questa colpevolezza perso-
nale può affiorare in un individuo che sciupa la propria vita,
mancando di portare a compimento o sviluppare le sue mi-
gliori capacità. Convinzione condivisa da tutti gli psicologi
umanistici è che i valori e le finalità giochino un ruolo straor-

47
dinario nella vita umana. In tal senso è fondamentale la crea-
tività, “modalità psicologica trasversale” che, come sostiene
Maslow (1954), rappresenta “una potenzialità data fin dalla
nascita a tutti gli uomini”. Generalmente gli uomini perdono
questa caratteristica man mano che sono influenzati dalla cul-
tura e dai condizionamenti sociali, ma alcuni riescono a con-
servare questo modo genuino ed immediato di guardare alla
propria vita. La concezione di C. R. Rogers (1963) è sostenuta
da un’estrema fiducia nelle possibilità dell’uomo di riscattarsi
dai condizionamenti della natura e della società e, per questo,
ambire alla piena realizzazione delle sue diverse potenzialità.
La tendenza attualizzante di cui l’organismo è portatore rappre-
senta il costrutto motivazionale più importante della teoria,
sia per lo sviluppo della personalità sia per la sua importanza
nel processo terapeutico. Imprime allo sviluppo una direzione
costruttiva volta alla differenziazione, all’integrazione, al-
l’espansione, alla piena realizzazione degli aspetti sani e crea-
tivi (Gennaro A. 2014). L’organismo non tende a sviluppare
le sue potenzialità negative e se tale eventualità si verifica, è a
causa dell’esistenza di situazioni contingenti, insolite e anor-
mali, che ne favoriscono l’insorgenza. Fondamentale è stato
il tentativo di definire un nuovo concetto di salute psichica:
l’individuo “sano”, in questa prospettiva, non è più chi sem-
plicemente non presenta aspetti patologici, ma chi giunge alla
propria “autorealizzazione”, ovvero al pieno sviluppo delle
proprie potenzialità; chi diventa ciò che è e non un semplice
“adattato”. L’adattamento vero non è quello passivo, indotto
dai contesti sociali in modo sovente arbitrario, né quello tra-
smesso attraverso l’educazione coercitiva veicolata da comu-
nicazioni incongrue in relazione all’esperienza del proprio Sé.
Ciò potrebbe comportare la perdita della naturale inclinazione

48
dell’organismo umano ad autorealizzarsi. In questo senso lo
sviluppo della personalità sana, pienamente in contatto con
la propria vita, risiede nella possibilità di distaccarsi da forme
costrittive ambientali e interpersonali. Quando queste ultime
si insinuano nella vita psichica, occorre un orientamento cen-
trato sulla persona, volto a scardinare le durezze psicologiche
dovute alle costrizioni e, al tempo stesso, a produrre una ria-
bilitazione emozionale della nostra identità, un nuovo pro-
cesso in divenire in cui il soggetto può ritrovarsi e riprendere
il percorso interrotto: la sua tendenza attualizzante e la co-
struzione graduale del proprio benessere. La psicologia posi-
tiva si è sviluppata in continuità con la psicologia umanistica,
condividendo l’esigenza di valorizzare una psicologia dell’in-
dividuo sano, delle sue potenzialità, della sua tendenza al be-
nessere e alla felicità. Tuttavia, il fattore di maggiore differenza
risiede nel fatto che la psicologia positiva ha introdotto – sia
nel campo della ricerca, sia in campo clinico – metodi empirici
che hanno consentito una valutazione quantitativa delle va-
riabili psicologiche. Ciò ha consentito un maggiore progresso
scientifico e la sua graduale e massiccia affermazione a livello
internazionale. In tale prospettiva, alla fine degli anni Ottanta,
in un progressivo inaridimento della coscienza individuale e
collettiva, nasce la Psicologia Positiva, una corrente di pen-
siero interessata in modo specifico ai temi della felicità, del-
l’ottimismo, al grado di soddisfazione della propria vita e al
benessere. L’intento non era quello di studiare tali aspetti
dall’esterno, quali conseguenze di condizioni sociali, econo-
miche e politiche, (caratteristica dell’approccio umanistico)
ma capire questi processi dall’interno, partendo dalle risorse
personali che ogni individuo possiede. La Psicologia Positiva
può essere considerata una rivoluzione paradigmatica che ha

49
comportato un profondo rinnovamento dei temi e dei para-
digmi di ricerca nei vari settori della psicologia. Ad una psi-
cologia del passato interessata prevalentemente al disturbo,
alla malattia e ai disordini mentali, si affianca una psicologia
focalizzata sullo stare bene, sulla realizzazione di sé, sulla ot-
timizzazione delle risorse personali. Il principale esponente è
Martin Seligman, gli altri studiosi sono Mihalyi Csikszentmi-
halyi e Raymond Fowler, i cofondatori della psicologia posi-
tiva. Il fine ultimo comprende la scoperta, la comprensione e
la promozione delle potenzialità umane che ottimizzano la
qualità delle persone e delle comunità. La psicologia positiva
promuove quindi “non solo lo studio della debolezza e del danno,
ma anche delle potenzialità e delle virtù. L’intervento non consiste sola-
mente nel riparare ciò che è danneggiato, ma anche nel nutrire ciò che è
il meglio di ciascuno” (Seligman e Csikszentmihalyi, 2000). Il
punto di partenza è, infatti, il riconoscimento di un set di ca-
ratteristiche personali, le “potenzialità”, che sono proprie di
ogni individuo e che possono costruire una vera barriera di
protezione contro le difficoltà della vita. Così, aumentando
la consapevolezza e promuovendo queste potenzialità, au-
menta la loro efficacia protettiva nei confronti delle difficoltà
e, di conseguenza, aumentano anche la felicità e la soddisfa-
zione personale. La psicologia positiva e psicologia umani-
stica, come si è già notato, condividono l’interesse su un
ampio numero di argomenti oggetti di studio. Le forti somi-
glianze presenti, tuttavia, non possono occultare i punti di
controversia e le critiche che si sono reciprocamente rivolte.
Un primo aspetto da contemplare è il contesto nel quale si
inseriscono entrambi i movimenti. Psicologia umanistica e
psicologia positiva nascono in periodi non molto distanti, se-
gnati da un inaridimento della coscienza individuale e collet-

50
tiva. Per quanto riguarda la psicologia positiva, sebbene non
sia possibile riscontare eventi altrettanto significativi, sembre-
rebbe comunque esservi un lento ed inesorabile deteriora-
mento dei valori individuali e collettivi, accanto ad una più
silenziosa, ma profonda perdita di senso della dignità umana.
Questi due movimenti hanno posto al centro dei propri inte-
ressi proprio l’individuo; schierandosi “dalla parte dell’uomo”.
L’accento per entrambi è posto sulla soggettività, anche se il
merito spetta alla psicologia umanistica che ha sviluppato una
visione positiva dell’uomo e della sua capacità di autodeter-
minarsi; il suo compito è quello di portare alla luce le migliori
capacità dell’individuo mobilitando le sue risorse individuali
e recuperando la creatività, l’intuizione come capacità squisi-
tamente umane di vivere pienamente la vita. La psicologia po-
sitiva ha egualmente posto l’accento sull’esaltazione delle
potenzialità umane e delle virtù proponendo «La creazione di
una scienza umana la cui missione sarà quella di capire e imparare a
promuovere queste virtù nei giovani» (Seligman e Csikszentmihalyi,
2000). L’iniziale intuizione umanistica è stata avvalorata dalla
successiva ricerca della psicologia positiva, quest’ultima è riu-
scita a sistematizzare e rendere tangibili le migliori intuizioni
che avevano caratterizzato la psicologia umanistica, quali: mo-
tivazioni e punti di forza individuali. Nella psicologia positiva
particolare attenzione merita l’ottimismo, inteso come un at-
teggiamento generale che orienta le risorse psicologiche in
senso positivo e costruttivo nei confronti dei compiti e diffi-
coltà della vita. L’ottimismo di cui tratta Seligman rappresenta
una strategia che può essere appresa ed applicata quotidiana-
mente, permettendo di migliorare le condizioni di vita. A que-
sto proposito tratta di “ottimismo appreso” (Seligman, 2005),
in opposizione al concetto di “impotenza appresa”, derivato

51
dai suoi primi studi. La possibilità di superare l’impotenza ap-
presa risiede nel modo in cui le persone si spiegano gli eventi.
Da qui deriva la convinzione per cui: “se l’impotenza appresa con-
duce alla depressione, l’ottimismo appreso e l’autoefficacia portano alla
salute mentale” (Vaillant, 2002). In questo modo l’ottimismo
appreso è divenuto uno dei concetti cardine della psicologia
positiva. È possibile distinguere l’ottimismo realistico ed ir-
realistico. Il primo è una disposizione globale e relativamente
stabile di una persona a spiegare gli eventi negativi come qual-
cosa di occasionale e ad aspettarsi risultati positivi nella vita.
Il secondo risulta più ingenuo e illusorio, poiché orienta i sog-
getti a stimare, in modo infondato, di avere maggiori proba-
bilità di sperimentare eventi positivi rispetto alla maggioranza
delle altre persone e, nello stesso tempo, a ritenere di avere
minori probabilità di andare incontro ad eventi negativi ri-
spetto alla maggioranza degli altri (cf. Anolli 2005). Ne con-
segue che l’ottimismo realistico svolge funzioni adattive
importanti ed ha rilevanti effetti sul benessere fisico e men-
tale, mentre l’ottimismo irrealistico risulta fortemente disa-
dattivo ed induce effetti negativi sulla salute mentale e fisica
degli individui. Ulteriore distinzione nell’ambito dell’ottimi-
smo realistico è l’ottimismo disposizionale e attribuzionale: sono i
due modelli esplicativi e campi di ricerca prevalenti nel do-
minio scientifico. L’ottimismo disposizionale, studiato e so-
stenuto principalmente da Carver e Scheier (2002), consiste
in una disposizione mentale ad attendersi eventi favorevoli in
futuro, in modo realistico; definito anche come la “motiva-
zione dei modelli basati sul valore dell’attesa”. Il punto di par-
tenza consiste nel riconoscimento che gli scopi di un soggetto
sono desiderabili e auspicabili (da raggiungere) o indesidera-
bili e fastidiosi (da evitare). Per quanto concerne l’ottimismo

52
attribuzionale, Seligman (1990), partendo dai suoi studi sul-
l’impotenza appresa (ossia il fatto che i soggetti che valutano
gli eventi come incontrollabili, sentendosi in loro balia, diven-
tano passivi, rassegnati, ansiosi e depressi) e facendo riferi-
mento alla teoria dell’attribuzione causale di Kelley (1973),
secondo la quale le persone organizzano la loro esperienza
attraverso l’elaborazione di modelli mentali per spiegare gli
eventi e per anticipare le situazioni (valore predittivo). Su que-
sta base ha proposto un modello esplicativo dell’ottimismo
fondato sullo stile cognitivo di spiegazione degli eventi nega-
tivi che fa riferimento a tre parametri:
• Permanenza /temporaneità;
• Universalità /specificità;
• Causalità interna /causalità esterna.
Gli ottimisti, in base a questi tre criteri, sono caratterizzati
da uno stile mentale che fornisce una spiegazione dell’evento
negativo contingente e delimitata nel tempo (temporanea),
con una tendenza, invece, ad attribuire cause permanenti agli
eventi positivi, riuscendo ad impegnarsi maggiormente dopo
aver ottenuto un successo; risultano capaci di individuare
una spiegazione circoscritta e calibrata della specifica situazione
negativa in oggetto e tendenzialmente attribuiscono all’esterno
la causa di quanto di negativo accade . I pessimisti, secondo
Seligman, seguirebbero uno stile esplicativo opposto. In
quanto tale, lo stile esplicativo può essere appreso nella con-
divisione dell’esperienza con i genitori, con gli insegnanti,
con i media in generale. L’ottimismo costituisce un potente
dispositivo mentale che ha rilevanti effetti sul piano biologico,
psicologico, sociale e culturale. Coinvolge l’esistenza degli
individui nella loro totalità e genera un rilevante innalzamento
del benessere soggettivo, inteso come valutazione favorevole

53
della propria esistenza in termini sia di soddisfazione di vita
(valutazione cognitiva), sia di condotte emotive positive (va-
lutazione affettiva) (Diener E. e Diener C. 1995). Fondamentale
affinché l’ottimismo si riverberi positivamente nella costruzione
della personalità è il suo livello di flessibilità. In questo senso
l’ottimismo può anche “nutrirsi” del valore del pessimismo,
in quanto apporta elementi di realtà e affinamento percettivo
che qualifica in modo più significativo e probante la dimensione
ottimistica. Risulta fondamentale anche nella regolazione
delle emozioni, ossia “la capacità di riconoscere, comprendere
e rispondere” in modo coerente e pertinente alle emozioni
altrui e di regolare l’espressione delle proprie emozioni in
maniera appropriata in relazione al contesto di riferimento.
Possiamo pertanto dire che l’ottimismo è un promotore
efficace anche delle emozioni positive. Questa ipotesi è stata
sviluppata da Fredrickson (2001) che ha proposto la teoria
“ampliare e costruire” (broaden-and-build theory). Gli effetti delle
emozioni positive consisterebbero non solo nella creazione
di benessere soggettivo, sicurezza e adattamento favorevole
alla nicchia ecologica, ma servirebbero ad inibire gli effetti
nefasti prodotti dalle emozioni negative. Pennebaker 2004
ha sviluppato il “metodo della scrittura delle emozioni” che
consiste nel raccontare le esperienze emotive della giornata
in un apposito diario personale. Sostiene che la trascrizione
delle proprie emozioni può accelerare i processi di coping
emotivo. A tal proposito questo metodo produce rilevanti
effetti biologici, come il rafforzamento del sistema immunitario,
l’incremento di indicatori di salute fisica e la riduzione dello
stress; inoltre comporta cambiamenti nel tono dell’umore e
sugli stati d’animo, promuovendo le prestazioni e il raggiun-
gimento dei compiti prestabiliti, favorendo una vita sociale

54
più dinamica e intensa. Gli esiti benefici indotti dal metodo
sono collegati a fattori differenti: facilità la rottura di idee
fisse e blocchi emotivi poiché incrementa il flusso della
coscienza attraverso l’operazione semiautomatica della scrittura;
promuove la valutazione di aspetti positivi in situazioni
negative facendo ricorso a processi emotivi positivi; permette
di definire la propria esperienza e storia personale, circoscri-
vendole ed evitando divagazioni in pensieri inutili e sterili;
incrementa l’attività della memoria di lavoro poiché riduce
sensibilmente i pensieri intrusivi, le distrazioni e le divagazioni
nei confronti delle esperienze stressanti, focalizzando le
risorse attentive sul compito (Klein e Boals, 2001). Il metodo
della scrittura delle emozioni rappresenta un valido supporto
per alimentare un atteggiamento ottimistico. Ne consegue
che l’ottimismo ha significative ricadute sul benessere
soggettivo. Seligman identifica il concetto di benessere con
quello di felicità, affermando: “Uso il termine felicità e benessere
in modo interscambiabile come termini generali per descrivere gli obiettivi
generali della psicologia positiva, comprensivi tanto delle sensazioni
positive (come la gioia, il comfort, cioè il sentirsi bene), quanto delle
attività positive prive di componenti sensoriali (come l’interesse e
l’impegno). È fondamentale capire che “felicità” e benessere si riferiscono
talvolta a sensazioni, talvolta ad attività in cui la componente sensoriale
è nulla”. (Seligman, 2005). Gli aspetti che ricoprono un ruolo
fondamentale nella psicologia positiva e nella costruzione
del benessere individuale sono: le potenzialità (il coraggio,
l’originalità, l’onestà e la cordialità) e i talenti. Sono entrambi
oggetto della psicologia positiva e, sebbene presentino diverse
analogie, è importante evidenziarne le diversità (Seligman,
2005). Una prima e chiara differenza è che le potenzialità sono
tratti morali mentre i talenti no. Inoltre i talenti in genere non

55
sono sviluppabili come le potenzialità. Coraggio, originalità,
onestà, cordialità, ad esempio, possono essere sviluppate
anche su fragilissime fondamenta e, con sufficiente pratica e
perseveranza, possono dare buoni frutti. I talenti, al contrario,
sono più innati e meno incrementabili, per lo più si posseggono
o meno dalla nascita. Non è certamente così per l’amore, il
sapere, la prudenza, l’umiltà o l’ottimismo. Se acquisite queste
ultime, avrete qualcosa di reale” (cf. Seligman, 2005). La
volontà è fondamentale per migliorare la qualità della vita
dell’individuo, infatti, le modalità che permettono di sviluppare
potenzialità e virtù e di usarle nella vita quotidiana, dipendono,
in gran parte, dalle scelte che si fanno. Questo processo non
ha a che fare con l’apprendimento, l’allenamento o il condi-
zionamento, ma con la scoperta, la creatività e lo sviluppo di
stati mentali coesi ed integrati. Seligman è stato l’autore che,
più degli altri, si è impegnato nello studio e nella ricerca delle
virtù individuali. Il suo punto di partenza fu l’analisi delle sei
virtù riscontrate nella maggior parte delle culture del mondo.
Essere una persona virtuosa significa mostrare, attraverso
atti di volontà, tutte o almeno la maggior parte delle sei virtù
onnipresenti nelle principali culture: saggezza, coraggio,
umanità, giustizia, temperanza, trascendenza; le virtù sono
state scomposte in potenzialità e in questo modo, sono state
rese maggiormente misurabili. La costruzione del benessere
può essere perseguita attraverso il ruolo fondamentale che
rivestono la gratitudine e il perdono. La gratitudine è una
delle modalità emozionali più importanti della nostra vita
psichica e consente di elaborare e di rafforzare i fenomeni
positivi relativi al passato. Dal momento che i ricordi si con-
nettono al passato, la gratitudine ricostruisce i processi
cognitivi e le emozioni, si volge all’esperienza passata in

56
modo del tutto nuovo ed ha la qualità singolare di mentalizzare
tale esperienza per ricomprenderla ed esperirla in modo
positivo. La gratitudine ripara e genera stati mentali dinamici:
il passato stesso diviene un fenomeno del futuro. L’esperienza
della gratitudine genera una rottura dei fenomeni psichici
cristallizzati, sostiene lo slancio vitale e personale e riveste di
emozioni positive gli aspetti più profondi dell’identità.
Riparare, aver cura, vivere autenticamente la sollecitudine,
sono alcune delle modalità psicologiche ed esistenziali che
essa imprime e che apportano una qualitativa organizzazione
alla nostra vita psichica. Essere grati è una condizione rela-
zionale: il mondo e l’alterità diventano parte integrante della
personalità, la reciprocità concreta e costante nel tempo
della vita diviene un’area di espansione suscettibile di farci
vivere una condizione di benessere. In questo senso l’esistenza
diviene co-esistenza permeata di libertà, ha la valenza del po-
ter-essere in cui i progetti e le aspettative vengono costantemente
investiti di emozioni positive e di concrete possibilità di ap-
pagamento. Ciò incrementa l’autoriflessione e l’autoregolazione
della personalità che sviluppano mete coerenti e possibili da
realizzare. In questo modo la gratitudine rappresenta una
risorsa cruciale per superare le difficoltà ed inibire l’eventuale
comparsa di processi depressivi. La vera gratitudine non è
mai astratta ed effimera in quanto la sua costante tangibilità
si rivela nelle qualità delle relazioni, nella ricerca coerente di
senso della nostra esistenza, nelle azioni e nei cambiamenti
positivi che realizza. Essa riguarda anche la consapevolezza
personale degli eventi che viviamo, senza darli per scontati
ed ovvi: ciò ci fa esperire quel senso di stupore meraviglioso
e di riconoscenza che segnano i momenti fondamentali della
nostra vita. La gratitudine può essere innalzata verso fonti

57
umane, come verso forme impersonali e non umane: Dio, la
natura... mai verso se stessi. Il perdono non modifica il
ricordo, ma ne rimuove e trasforma le emozioni dolorose.
Seligman(2002), sulla base di risultati sperimentali, evidenzia
come il perdono incrementi la soddisfazione esistenziale:
incide in modo positivo sulla salute, migliora la relazione con
la persona perdonata e modifica l’assetto cognitivo ed emo-
zionale dell’individuo, ri-generando la sua storia di vita e i
suoi percorsi verso l’avvenire. McCullough, Pargament e
Thorsen sostengono che il “Il perdono è un cambiamento intrain-
dividuale e prosociale verso il colpevole, situato in uno specifico contesto
interpersonale”. (2001, cit. in Mancini, Barcaccia, 2013). Il
perdono è un processo che richiede tempo e fatica e implica
una progressiva sostituzione delle reazioni negative iniziali
con altre più positive. Il perdono è pienamente raggiunto nel
momento in cui si arriva a provare amore e compassione per
la persona dalla quale si è stati feriti (Worthington, 2001; cit.
In Mancini, Barcaccia, 2013). Empatia, compassione e sentimenti
positivi in genere favoriscono l’atto del perdono. Le traiettorie
psicologiche ed emozionali del perdono sono molto diffe-
renziate e pertanto risulta necessario cogliere il tema di vita
delle persone, le condizioni dell’esperienza vissuta; ciò implica
che realizzare autenticamente il perdono costituisca un forte
travaglio interiore che va compreso. Le virtù possono effica-
cemente sostenere tale conflitto, infondendo quella forza in-
teriore e trascendente che rappresenta una delle direzioni
psicologiche elettive per vivere l’esperienza autentica del per-
dono. Il perdono verso se stessi costituisce un processo par-
ticolarmente problematico: il conflitto è spesso connesso ai
sensi di colpa, generalmente esasperati dell’individuo e,
perciò, più difficili da ‘sanare’. Perdonare se stessi richiede

58
un lungo processo che può far convergere la dimensione
psicologica con quella spirituale, al fine di abbattere le
fortezze che impediscono la possibilità di riconciliarsi con il
proprio Sé. L’emergere della psicologia positiva è avvenuto in
contrapposizione al modello medico della malattia mentale e
alla forte enfasi sullo sviluppo dei problemi e della loro riso-
luzione, distinguendosi per l’attenzione alle caratteristiche
personali che permettono di vivere bene come ad esempio
emozioni piacevoli, potenzialità e virtù. (Seligman e Csik-
szentmihalyi, 2000). La psicologia positiva oggi vuole superare
l’antitesi tra positivo e negativo, tipica della cultura occidentale, e
proporsi come una prospettiva da cui studiare l’essere umano
in tutte le sue sfaccettature, focalizzandosi sul ruolo fonda-
mentale delle risorse e delle potenzialità dell’individuo, avva-
lendosi di metodologie scientifiche (Delle Fave, 2007). I
primi studi di tipo applicativo per aumentare il benessere
personale risalgono alla fine degli anni settanta, quando
ancora non si parlava di psicologia positiva (Goldwurm,
1995; cit. in F. Colombo 2009). Il programma dei “14 fonda-
mentali della felicità” (Fordyce, 1977, 1983; cit. in F. Colombo
2009) si basa su una definizione ampia di felicità che include
aspetti emotivi, cognitivi, di personalità, attitudini e valori,
stili di vita. L’articolato lavoro di Fordyce dimostra la
possibilità di elaborare programmi di cambiamento personale
non solo in termini terapeutici ma anche per migliorare il be-
nessere. Il suo programma include componenti su come eli-
minare i sentimenti negativi e smettere di preoccuparsi. Più
recentemente gli studi di Fordyce hanno ispirato il “Subjective
Well-Being Training”, un percorso di cambiamento personale
attraverso una strategia di tipo cognitivo-comportamentale
elaborata in Italia e adattabile a differenti contesti quali il mi-

59
glioramento personale, individuale o di gruppo, la promozione
del benessere e psicoterapia (Goldwurm et al. 2004; cit. in F.
Colombo, 2009). Il Subjective Well-Being Training è una
strategia psicoterapica a breve termine che si articola
solitamente in otto sedute della durata di 30-50 minuti, una
volta ogni quindici giorni. Implica l’auto-osservazione con
l’utilizzo di un diario strutturato. Le sedute iniziali sono fo-
calizzate sull’identificazione degli episodi di benessere e del
loro contesto situazionale, indipendentemente dalla brevità
di tali episodi. Viene richiesto ai pazienti di riportare in un
diario strutturato le circostanze all’interno delle quali si sono
verificati episodi di benessere, ricordando loro che questi
momenti esistono per tutti, ma spesso passano inosservati,
ed è per questo motivo che è importante il loro monitoraggio
nel diario. Una volta identificati gli episodi di benessere nelle
sedute intermedie il paziente viene incoraggiato ad individuare
i pensieri. Questa fase è molto importante, in quanto permette
di identificare le aree del benessere più compromesse e
quelle libere da pensieri negativi. Inoltre si possono incoraggiare
le attività piacevoli, che possano favorire l’emergere del
benessere (ad es. ad esempio si può assegnare il compito di
svolgere una particolare attività piacevole per un certo periodo
di tempo ogni giorno, fino ad arrivare anche all’assegnazione
graduale di specifici compiti, come nelle tecniche comporta-
mentali. Questa fase intermedia solitamente dura un paio di
sedute, a seconda delle capacità e motivazioni del paziente.
Dopo aver monitorato i momenti di benessere e i pensieri
che li interrompono, il clinico può identificare i deficit
specifici nei livelli di benessere secondo il modello della Ryff.
Ulteriori informazioni si possono ottenere anche dai punteggi
realizzati dai pazienti al PWB (Ryff, 1989). Questa fase carat-

60
terizza le sedute finali, dove verrà esaminato il materiale del
paziente e introdotte le sei dimensioni, focalizzandosi su
quelle che appaiono maggiormente deficitarie. Vengono
infine discussi con il paziente gli errori cognitivi commessi e
le possibili interpretazioni alternative. In tal senso lo scopo
della terapia è condurre il paziente alle sei aree di benessere
ottimale e attraverso la padronanza ambientale si riscontrano i
deficit più rilevanti. La mancanza del senso di controllo sulla
propria vita porta spesso i pazienti a lasciarsi sfuggire molte
opportunità offerte dall’ambiente lavorativo/sociale in cui
sono inseriti, causando conseguenti rimpianti. Interagiscono
spesso con i precedenti anche i deficit sulla crescita personale, i
pazienti presentano difficoltà nell’attribuire significato e di-
rezione alla propria vita e tendono a svalutare il proprio
ruolo e valore. Inoltre vengono mantenuti atteggiamenti,
comportamenti e stili cognitivi scarsamente assertivi, con
una tendenza a non esprimere le proprie opinioni e ad
adattarsi a situazioni controproducenti che comportano un
sacrificio dei propri bisogni a favore di quelli degli altri.
L’efficacia della terapia può essere considerata alla luce di
due fenomeni clinici distinti, ma correlati tra loro. Il primo
riguarda l’ipotesi che un aumento del benessere psicologico
possa avere un effetto protettivo determinando una minore
vulnerabilità allo stress acuto e quotidiano (Ryff e Singer,
1998). Elevati livelli di benessere e una buona qualità di vita
potrebbero innescare a livello fisiologico vari processi a feed-
back positivo che possono innalzare le prestazioni individuali,
aumentare le difese immunitarie e stimolare i processi di
crescita cellulare (Ryff e Singer, 2000). Il secondo fenomeno
è collegato all’equilibrio tra benessere e malessere. Inoltre la
WBT è associata ad un significativo aumento del benessere

61
psicologico, in particolar modo nella scala di Crescita Personale.
Concludendo possiamo dire che la WBT ha un ruolo
importante nel modificare la definizione e la valutazione
degli esiti delle terapie dei disturbi e degli interventi in
psicologia clinica. Alleviare il malessere, cercare di ripristinare
nei pazienti un senso di soddisfazione soggettiva e di stati
emotivi positivi è importante, ma non è sufficiente a livello
psicoterapico, in quanto questi aspetti tendono ad avere
breve durata e non producono lo sviluppo e l’arricchimento
della personalità. Viceversa, il benessere ed uno stile di vita
sano e ottimale possono essere facilitati solo se ogni individuo
può realizzare le proprie potenzialità, se si sente legato ad
altre persone significative e progettare obiettivi da raggiungere.
Quello che maggiormente occorrerebbe ai pazienti, secondo
gli autori di questa terapia è di pervenire alla piena consape-
volezza della propria felicità, che può essere acquisita tramite
un intervento psicoterapico strutturato e complesso come la
Well-Being Therapy. (Delle Fave A. 2007). Seligman (2005),
a tal riguardo, propone una serie di attività che fungono da
supporto alla terapia standard, prevalentemente volta a
risolvere i sintomi negativi delle patologie, incrementando e
rafforzando le virtù e le potenzialità degli individui, favorendo
in questo modo un bilanciamento dei sintomi negativi legati
alle patologie. In relazione alle potenzialità e virtù sulle quali
lavorare, nel 2004, in collaborazione con Peterson, ha elaborato
il Character Strenghts and Virtues: A Handbook and classifi-
cation (CSV; Peterson e Seligman, 2004); si tratta di un
manuale in cui vengono descritte e classificate le potenzialità
e le virtù possedute dagli individui e il cui rafforzamento fa-
vorisce le condizioni di benessere. Lo schema si basa sulle
sei virtù dominanti individuate da Seligman e descritte pre-

62
cedentemente. Secondo l’autore sono i tre aspetti che carat-
terizzano la felicità:
Le emozioni positive: circa il passato (la serenità, l’orgoglio,
la soddisfazione), il presente (la soddisfazione legata ai pia-
ceri immediati) e il futuro (come la speranza, l’ottimismo
e la fiducia).
L’impegno nella vita: circa il coinvolgimento nelle relazioni
interpersonali, nel lavoro e in ogni genere di attività pia-
cevole.
L’attribuzione di significato alla vita: legato all’utilizzo dei ta-
lenti e delle potenzialità nel servire e nell’appartenere a
qualcosa di più grande in cui si crede, come la politica, la
religione, la famiglia, la comunità.
Secondo Seligman, le persone maggiormente felici sono
quelle che danno la stessa importanza ai tre differenti aspetti,
non sottovalutando l’impegno e il significato della propria
vita. Nel sostenere queste ipotesi l’autore si rifà a differenti
teorie che si sono sviluppate negli ultimi tempi, come quella
di Fredrickson (1998; 2001), che ha condotto numerose ri-
cerche sulle emozioni positive, utilizzando filmati che ne fa-
vorivano l’insorgenza ed evidenziando i loro effetti successivi
sulle prestazioni cognitive. In particolare ha dimostrato che
le emozioni positive facilitano la mobilizzazione delle risorse
personali, la pianificazione di obiettivi e l’investimento di
energie per perseguirli, promuovendo la flessibilità del pen-
siero e la creatività, nonché il comportamento pro-sociale .
Come si è visto la psicologia positiva è interessata alla
promozione della salute e a sostenere le potenzialità dell’in-
dividuo. L’ottimismo può essere considerato il nucleo di que-
sta prospettiva psicologica e le virtù le determinanti
psicologiche ed esistenziali che modulano il divenire della

63
personalità. La costruzione del benessere in questo senso co-
stituisce la finalità fondamentale, il senso di un nuovo pro-
getto della psicologia attuale. L’ottimismo è un’esperienza
positiva quando è flessibile ed aderente al reale, perché in
questo modo la persona può effettivamente autoregolarsi e
trovare le sue risorse personali concrete per ottimizzare i suoi
stati mentali. L’autoregolazione può così supportare e dire-
zionare comportamenti con valenze positive, riuscire a leg-
gere i propri processi mentali in modo autoriflessivo. Ciò
rende possibile l’elaborazione delle difficoltà e perseguibili
le aspettative nelle diverse situazioni di vita. “L’alfabeto delle
emozioni positive può in questo senso divenire patrimonio
dell’individuo, additando soluzioni possibili anche quando
‘le cose della vita’ sono poco propizie o quando i processi
impliciti della cultura collettiva generano false aspettative e
mete fittizie” (Gennaro e Scagliarini 2011). In questo senso
l’ottimismo come processo dinamico e nucleo della psicolo-
gia positiva implica la capacità di generare risorse nei conte-
sti, di apportare cambiamenti e di veicolare le emozioni
positive. L’ottimismo come il pessimismo ed i diversi ed in-
numerevoli modi che si inseriscono tra queste due dimen-
sioni in tutte le loro declinazioni profonde hanno sempre
tratteggiato le nostre esistenze, come è ravvisabile nel pen-
siero filosofico, nella letteratura, nell’arte, nelle esperienze di
vita e nei diversi modi di sentire il mondo. Come psicologi
qui intendiamo sottolineare come la vita psichica possa effi-
cacemente valorizzare l’ottimismo come dimensione psichica
da promuovere nei cicli della vita. In questo senso l’ottimi-
smo è da considerare come stato psicologico di apprezza-
mento della realtà personale e dell’esperienza della nostra
vita. Al di là di ogni valutazione culturale e psicologica, rap-

64
presenta un modo di essere intrinsecamente permeato di be-
nessere, una grande risorsa che concretamente può nutrire e
ri-nutrire il nostro essere nel mondo. Per quanto concerne
le virtù, si può evidenziare come oggi possano essere studiate
scientificamente: oltre che dimensioni connesse ai valori,
sono stati mentali che costituiscono la vera forza costellante
del nostro divenire psichico. Esse modulano in modo pre-
gnante la pro-attività e le trasformazioni positive delle per-
sone, rappresentano le matrici su cui si può innestare la vita
mentale, consentono di far maturare concretamente le aree
della nostra vita psichica finalizzate alla realizzazione sogget-
tiva ed intersoggettiva del benessere. Trattare di benessere
implica anche l’attenzione alle situazioni contingenti, sovente
difficili e fonte di pressioni dolorose. Secondo la psicologia
positiva è necessario acquisire una possibile fiducia, proba-
bilmente mai sperimentata: l’apprezzamento della realtà di
come siamo e di come possiamo essere. Partire dall’apprez-
zamento di come siamo, valorizzando le ‘cose semplici’, può
divenire uno stile di vita psicologico ed esistenziale che ci
consente di illuminare, in modo anche tenue, la nostra vita.
Riscoprire l’ovvio permette di avvertire sensazioni nuove ri-
guardo alla nostra affettività e alle nostre caratteristiche di
personalità. La riscoperta dell’ovvio ha un’importanza radi-
cale: pensare che ci siano cose ovvie significa essere passivi
e mentalmente ciechi. Implica l’erigere una barriera che può
precludere il nostro apprezzamento della vita e delle sue po-
tenzialità. Il benessere inizia da questa possibile apertura
verso la vita: è lo stato di un chiarore potenziale che può
sempre sorprenderci e rinnovare la nostra esistenza. In que-
sto modo, il benessere è una condizione possibile per emer-
gere anche da situazioni difficili e travagliate e sovente

65
invivibili. La ricerca di uno stato di benessere possibile di-
viene in questo senso la dimensione essenziale della nostra
esistenza. È in questa direzione che la psicologia positiva ap-
porta attualmente un rinnovamento significativo: ri-dare al-
l’individuo la possibilità di essere sostenuto anche attraverso
l’apporto delle istituzioni positive. L’interazione individuo
contesto assume così una nuova valenza: aiutare chi si trova
in difficoltà, promuovere condizioni concrete che possono
generare la transizione verso la costruzione di un benessere
possibile.

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69
70
UN NUOVO UMANESIMO NEL MONDO
DEL LAVORO DI OGGI: L’EMPLOYABILITY E LO
STRESS MANAGEMENT COME RIDEFINIZIONE
DELLA DIMENSIONE PROFESSIONALE

Francisco Javier Fiz Perez - Paolo Musso


Gabriele Giorgi

Di fronte all’attuale condizione dell’uomo planetario


caratterizzato da molteplici interdipendenze, fra microco-
smo personale e macrocosmo dell’umanità, diventa una
priorità educare e formare l’umanità alla consapevolezza e
alla responsabilità nei confronti del futuro in tutti i suoi
ambiti.
Tra questi spicca per la sua incidenza nel quotidiano, il
mondo del lavoro e delle organizzazioni. Non possiamo in-
fatti prescindere dallo stretto rapporto tra l’ecologia ambien-
tale, l’ecologia umana, la geoetica e la cultura. Ci sono dei
principi di base che sostengono il vero sviluppo della per-
sona nel suo contesto relazionale e nel suo “habitat”. In
questo senso il mondo del lavoro gode di una prospettiva
più ampia dove parametri riduttivi come il reddito o il gua-
dagno immediato non possono essere più l’unico garante
della qualità della vita dei soggetti interessati e tanto meno

FRANCISCO JAVIER FIZ PEREZ - PAOLO MUSSO - GABRIELE GIORGI, Università


Europea di Roma.

71
l’unico principio di sostenibilità. C’è quindi anche una “eco-
logia” da rispettare nell’ambito del lavoro.
Solitamente, infatti, si ritiene che se l’ecologia è la scienza
che studia le relazioni tra organismi e ambiente, di conse-
guenza l’ecologia umana è la scienza delle relazioni tra gli
umani e l’ambiente stesso. L’uomo è non solo soggetto che
pensa, parla e agisce, ma anche oggetto del pensiero, del di-
scorso e dell’azione. “L’ambiente diventa allora non solo possibilità
di scambio ecologico ed economico, ma anche spazio di condivisione, so-
lidarietà e comunione”. (Pietro Ramellini, Docente invitato di Fi-
losofia, APRA). Nella specie umana si riconoscono pertanto
forme diverse di adattamento: fisiologico, genetico e culturale
in tutte le sue manifestazioni.
Queste forme di adattamento spesso si intrecciano fra
loro o nel senso di rafforzarsi nella loro efficacia o di influen-
zarsi in qualche modo. L’adattamento umano non si attua solo
mediante equilibri raggiunti con meccanismi biologici di ca-
rattere omeostatico, analoghi a quelli del mondo animale, ma
anche attraverso le modificazioni dell’ambiente e la coevolu-
zione genoma-cultura.
Ci troviamo oramai di fronte a un significativo passaggio
storico nel quale attraverso continui cambiamenti sociali
l’umanità è transitata dalla fase moderna scientifica industriale
fino alle ultime scoperte biotecnologiche.
Nell’epoca attuale, i moderni mezzi di comunicazione ac-
crescono le relazioni tra persone e tra popoli realizzando un
ambiente “virtuale” per l’umanità. Le relazioni che si stabili-
scono non conoscono limiti di spazio, si estendono alle diverse
regioni del mondo in tempo reale: le attuali tecnologie, dai
computer agli smartphone, avvicinano le persone e le culture,
diffondono idee e tratti culturali, modi di pensare e stili di vita.

72
È il mondo del web, che dà un volto nuovo alla società e
forma come una rete neuronale che avvolge il pianeta. L’am-
biente virtuale dell’uomo presenta vantaggi e svantaggi; tra i
primi, annoveriamo la diffusione delle conoscenze utili per la
vita dell’uomo, la crescita delle comunicazioni simboliche, lo
sviluppo della scienza e dell’economia, la migliore compren-
sione tra i popoli. Non possono, però, essere sottaciuti svan-
taggi o rischi, quali l’omogeneizzazione delle culture, la
solitudine delle persone, le dipendenze dai mezzi di comuni-
cazione e dai giochi elettronici, la fuga dal mondo reale.
Inoltre lo sviluppo delle biotecnologie, pur con i notevoli
vantaggi che può portare, non è privo di pericoli e gravi rischi
per le future generazioni, non soltanto per l’inquinamento
ambientale che provoca. L’indiscriminato ricorso all’ingegne-
ria genetica nel campo della microbiologia e dell’agricoltura
può avere conseguenze nella formazione di organismi trans-
genici e di nuovi ceppi di virus non controllabili, che potreb-
bero turbare l’equilibrio del nostro ecosistema.
Come dice Papa Francesco nella Sua ultima Enciclica
“Laudato si’” sulla cura della casa comune: “La continua accele-
razione dei cambiamenti dell’umanità e del pianeta si unisce oggi all’inten-
sificazione dei ritmi di vita e di lavoro, in quella che in spagnolo alcuni
chiamano “rapidación” (rapidizzazione). Benché il cambiamento faccia
parte della dinamica dei sistemi complessi, la velocità che le azioni umane
gli impongono oggi contrasta con la naturale lentezza dell’evoluzione bio-
logica. A ciò si aggiunge il problema che gli obiettivi di questo cambia-
mento veloce e costante non necessariamente sono orientati al bene comune
e a uno sviluppo umano, sostenibile e integrale. Il cambiamento è qualcosa
di auspicabile, ma diventa preoccupante quando si muta in deterioramento
del mondo e della qualità della vita di gran parte dell’umanità”.
Di grandi cambiamenti si parla anche nel mondo del la-

73
voro e delle organizzazioni che rappresenta il focus delle no-
stre riflessioni. Oggi più che mai viene richiesto alle persone
che vogliono inserirsi nel mondo del lavoro di capire le nuove
frontiere e i nuovi spazi nei quali agire. Per questo serva una
base di principi per la regolazione del comportamento umano
in una chiave di ricerca di stabilità a fronte di una realtà incerta
e variabile.
Da tempo si parla della “Green Economy” e della “So-
stenibilità del Business”, e si sa bene quanto siano convenienti
sia l’uno che l’altro. Sono stati elaborati diversi criteri tecnici
per garantire la sostenibilità di un’attività umana, ma viene
spontaneo sottolineare che non possiamo semplicemente ri-
durre la sostenibilità a parametri di misura unicamente finan-
ziaria, amministrativa, di marketing e via dicendo. L’impresa
è un luogo comune di produttività e convivenza dove una
delle basi per garantire la stabilità deve essere l’equilibrio nella
convivenza e nei rapporti relazionali e produttivi tra tutti i
componenti umani delle organizzazioni. In questo contesto
è importante una focalizzazione sull’etica e sui valori che a
essa si correlano. Correttezza nei comportamenti e nei prin-
cipi che regolano i rapporti e le organizzazioni sono alla base
di una riflessione sulle diverse tipologie di approccio:
Il primo punto riguarda un’Etica principalista che si rifà
a quattro principi:
1. Beneficialità: in ogni decisione bisogna agire per il bene della
persona
2. Non maleficenza: non fare del male;
3. Autonomia: rispettare l’autonomia del soggetto;
d. Giustizia: non discriminare nessuno distribuendo con giu-
stizia le risorse.
Nell’Etica personalista invece la persona deve essere

74
vista come un essere con valore di soggetto e mai di oggetto. Ri-
valutando, quindi, il corpo non lo si riduce a pura materia bio-
logica, ma lo si comprende nella sua accezione integrale
evitando ogni riduzione spiritualistica o biologistica. Questa
corrente di pensiero supera di gran lunga l’etica contrattualista
secondo la quale ciò che va raggiunto – dinanzi a posizioni
contrapposte – è un accordo comune che stabilendo una
sorta di contratto rischia un palese relativismo sui principi da
applicare. Si potrebbe dire che i principi dell’etica personali-
stica sono un vero motore anche per la motivazione e per la
tutela di tutti i collaboratori di qualsiasi attività umana, se-
guendo i seguenti principi:
1. Difesa della vita fisica nella sua totalità: rappresenta il valore
fondamentale della persona, fondamentale non perché la
vita corporea esaurisca tutta la ricchezza del soggetto
umano, il quale è anche spirito, ma perché il corpo è il fon-
damento per la realizzazione della persona. Si pensi in
questo senso a quanto sia di aiuto questo principio per ga-
rantire la sicurezza nel lavoro e la promozione della qualità
della vita.
2. Libertà e responsabilità: il personalismo concepisce la libertà
come scelta e attuazione di un progetto di vita.
3. Socialità e sussidiarietà:. il principio di socialità esprime espli-
citamente il legame naturale che esiste tra gli uomini. La
persona è per sua natura bisognosa della società ed è chia-
mata a realizzarsi in essa.
Quanto detto finora ci consente di arrivare al punto cen-
trale del discorso, vale a dire il rapporto tra l’azienda e gli in-
dividui che in essa vi lavorano. Infatti in base ai continui
cambiamenti storici in atto e alla conseguente necessità di svi-
luppare dei principi che possano garantire una stabilità nei

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comportamenti tra le persone che collaborano all’interno di
una organizzazione, è importante definire le caratteristiche
professionali e personali, in sintesi le caratteristiche umane,
che permettano un’adeguata risposta alle richieste dell’attuale
momento e che sviluppino un’employability, vale a dire una
spendibilità sul mercato del lavoro, attraverso quelle capacità
di gestione delle difficoltà e di stress management necessarie per
fronteggiare la nuova realtà lavorativa.
Infatti Papa Francesco nella esortazione apostolica “Evan-
gelii gaudium” sottolinea come “Non possiamo tuttavia dimenti-
care che la maggior parte degli uomini e delle donne del nostro tempo
vivono una quotidiana precarietà, con conseguenze funeste. Aumentano
alcune patologie. Il timore e la disperazione si impadroniscono del cuore
di numerose persone, persino nei cosiddetti paesi ricchi. La gioia di vivere
frequentemente si spegne, crescono la mancanza di rispetto e la violenza,
l’inequità diventa sempre più evidente. Bisogna lottare per vivere e, spesso,
per vivere con poca dignità.” E aggiunge nell’ultima Enciclica
“Laudato si’”: “L’uomo è l’autore, il centro e il fine di tutta la vita
economico-sociale. Ciononostante, quando nell’essere umano si perde la
capacità di contemplare e di rispettare, si creano le condizioni perché il
senso del lavoro venga stravolto. Conviene ricordare sempre che l’essere
umano è nello stesso tempo « capace di divenire lui stesso attore respon-
sabile del suo miglioramento materiale, del suo progresso morale, dello
svolgimento pieno del suo destino spirituale ». Il lavoro dovrebbe essere
l’ambito di questo multiforme sviluppo personale, dove si mettono in gioco
molte dimensioni della vita: la creatività, la proiezione nel futuro, lo svi-
luppo delle capacità, l’esercizio dei valori, la comunicazione con gli altri,
un atteggiamento di adorazione. Perciò la realtà sociale del mondo di
oggi, al di là degli interessi limitati delle imprese e di una discutibile ra-
zionalità economica, esige che si continui a perseguire quale priorità
l’obiettivo dell’accesso al lavoro […] per tutti”.

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Una sorta di risposta alla domanda che Benedetto XVI si
poneva nell’Enciclica “Caritas in veritate” parlando del lavoro:
“Che cosa significa la parola « decenza » applicata al lavoro? Significa
un lavoro che, in ogni società, sia l’espressione della dignità essenziale di
ogni uomo e di ogni donna: un lavoro scelto liberamente, che associ effi-
cacemente i lavoratori, uomini e donne, allo sviluppo della loro comunità;
un lavoro che, in questo modo, permetta ai lavoratori di essere rispettati
al di fuori di ogni discriminazione; un lavoro che consenta di soddisfare
le necessità delle famiglie e di scolarizzare i figli, senza che questi siano
costretti essi stessi a lavorare; un lavoro che permetta ai lavoratori di or-
ganizzarsi liberamente e di far sentire la loro voce; un lavoro che lasci
uno spazio sufficiente per ritrovare le proprie radici a livello personale,
familiare e spirituale; un lavoro che assicuri ai lavoratori giunti alla pen-
sione una condizione dignitosa.”
L’employability definita dunque come capacità di diventare
“appetibili” in un contesto lavorativo e professionale in con-
tinuo cambiamento, mette in evidenza la necessità di svilup-
pare adeguate caratteristiche e competenze a fronte delle
nuove esigenze delle aziende e diviene un tema essenziale oggi
più che mai a fronte della crisi in corso.
L’employability è il valore di una persona sul mercato del la-
voro risultante dalla propria preparazione ed esperienza forma-
tiva e lavorativa in una continua crescita. É un processo che
dovrebbe seguire la persona nel suo percorso di carriera, du-
rante il quale si opera una continua riflessione e valutazione delle
proprie conoscenze, capacità, competenze e bisogni/desideri
per renderli adeguati all’evoluzione del mercato del lavoro.
Oggi sono ricercate e apprezzate le competenze cosid-
dette trasversali, cioè, le capacità e le abilità umane, come le
capacità relazionali, il lavoro di squadra, team building, cross
cultural intelligence e soprattutto, come vedremo, la capacità di

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gestire la situazione di incertezza del lavoro e lo stress conse-
guente (distress). Tali capacità vanno comunque legate alle ca-
ratteristiche di base (valori), alle competenze tecniche
(percorsi accademici ed esperienziali) e alle motivazioni che
rimangono di vitale importanza per lo svolgimento dei diversi
lavori e mansioni: il tutto rappresenta il patrimonio e il profilo
dei lavoratori o degli aspiranti all’inserimento nel mondo del
lavoro.
Le nuove caratteristiche delle persone e le nuove compe-
tenze trasversali si collegano alla necessità di gestire la crisi
nel mondo lavorativo e alla ricerca di nuove risorse personali,
più o meno nascoste, di un nuovo equilibrio individuale, di
un’armonia generale e di relazioni interpersonali soddisfa-
centi.
Per cui in sintesi l’employability rappresenta un approccio
resiliente e proattivo che permetta di rispondere in maniera
efficace alle richieste “attuali” della realtà lavorativa.
In un momento di crisi, infatti, si chiede agli individui di
revisionare i propri schemi abituali, consueti, però non più
adeguati al fronteggiamento della situazione presente, e quindi
di superare il conflitto tra la percezione delle cose che non
possono più essere come prima e la difficoltà di mettersi in
gioco e modificarsi anche se c’è la tendenza a mantenere il
proprio “status quo” (1).
Nasce quindi per ciascun lavoratore la necessità di un
nuovo set di abilità che lo renda capace di “difendersi” dalla
mutevolezza del proprio lavoro partendo dalle sue stesse ca-
pacità e risorse personali.
É uno sforzo che va affrontato nella consapevolezza che,
in questi ultimi 30 anni, è avvenuto un cambiamento radicale
che ha sovvertito la realtà esistente.

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Basti pensare come negli anni ’70 le grandi aziende mul-
tinazionali portarono in Italia le nuove tecniche di selezione,
dai test psicologici agli assessment center, per affrontare
“mega” selezioni assunzionali per l’ampliamento delle proprie
filiali, mentre già dall’inizio di questo secolo, la psicologia del
lavoro, sviluppatasi nel frattempo, sia stata utilizzata per in-
dirizzare le direzioni del personale verso il “taglio delle teste”
nei confronti della forza lavoro, o per dirla in modo meno
violento, per indirizzare i collaboratori in esubero verso una
“beautiful exit” o un biblico “esodo”!
Sono andati via via cambiando i parametri di riferimento
che prima si basavano sulla diligenza, la fedeltà, la precisione
e la caparbietà e si sono indirizzati verso nuove caratteristiche
come l’intelligenza emotiva, la creatività e la capacità di gestire
il self, il task, le information e gli others (se stessi, gli obiettivi, le
informazione e gli altri).
Nuovi approcci a fronte di nuove realtà, dove il concetto
di posto “fisso” è stato sostituito da una visione flessibile di
posizioni alternative e dove il contratto a tempo indetermi-
nato non rappresenta più lo spazio di una vita lavorativa ma
un periodo limitato per una necessaria crescita professionale.
Ma questa realtà del lavoro, che per certi versi avrebbe po-
tuto offrire degli spunti positivi, purtroppo si è dovuta scon-
trare con le difficoltà di un’economia in crisi, con la contrazione
dei posti di lavoro e con una disoccupazione dilagante.
Allora assume la sua importanza la capacità dell’individuo di
gestire gli stimoli negativi dello stress, sviluppando il coping (la ca-
pacità di fronteggiamento delle situazioni) e la resilienza, che sul
piano delle caratteristiche disposizionali assumono una valenza di
fattori protettivi e limitano lo sviluppo dei fattori di vulnerabilità.
Infatti come dice Meichenbaum “le persone non sono vittime

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passive dello stress. Sono i modi in cui le persone valutano cognitivamente
e percepiscono emotivamente gli eventi stressanti, congiuntamente ai modi
in cui valutano le proprie risorse psicologiche e le proprie capacità di far
fronte allo stress che finiscono con il determinare gran parte del risultato
finale nei fenomeni di stress.” (2).
Dunque il modo attraverso il quale affrontiamo l’evento
stressante unitamente alle risposte che scegliamo nell’ambito
dei comportamenti, pensieri o emozioni e che finalizziamo
alla riduzione e alla gestione degli effetti di tale evento, rap-
presenta il costrutto del coping (3).
La percezione della propria autoefficacia nel rispondere
allo stimolo attivatore (stressor) dipende dunque dal proprio
sentirsi capace di fronteggiare la situazione in cui ci si trova:
è dunque la consapevolezza del proprio indice di fronteggia-
mento, vale a dire il coping, che determina la predisposizione
ad affrontarlo con uno “spirito” risolutivo o con la “profezia
autoavverante” di un sicuro insuccesso.
Tale meccanismo cognitivo di condizionamento può por-
tare nel caso di un risultato inatteso, negativo o positivo che
sia, ad attivare meccanismi difensivi di negazione, razionaliz-
zazione o intellettualizzazione per non andar incontro alla dis-
sonanza cognitiva che potrebbe creare situazioni di disagio (4).
Collegato con la problematica dello stress c’è un’altra ca-
ratteristica che viene, nell’attuale periodo di crisi. Infatti da
prendere in grande considerazione è la resilienza, definita
come la capacità di fronteggiare e di riorganizzare la propria
vita anche in presenza di situazioni difficili: viene posta l’at-
tenzione non solo sulla capacità di trovare dentro di sé la
forza per contrastare l’impatto negativo delle avversità ma nel
dare alla propria esistenza una svolta positiva.
In particolare l’interesse è di individuare che cosa contrad-

80
distingua le persone resilienti in termini di caratteristiche di
personalità, di contesti organizzativi che possono rappresen-
tare sia fattori protettivi che di rischio, e di meccanismi psi-
cologici che si attivano quando si incontrano condizioni di
vita particolarmente difficili e/o di grande criticità (5).
Queste caratteristiche che affrontano il tema della capacità
di gestire lo stress, soprattutto nel mondo del lavoro, sottoli-
neano l’importanza di una loro presenza per la costruzione
di un’employability professionale adeguata al momento storico
e riconosciuta nel mercato del lavoro.
Non si può infatti dimenticare che l’internazionalizzazione
dei mercati, la forte concorrenza, i frequenti cambiamenti or-
ganizzativi allo scopo di mantenere o aumentare la competi-
tività in uno scenario in continuo mutamento (es. fusioni,
ristrutturazioni, ridimensionamenti e altro), hanno aumentato
la problematica della precarietà sul lavoro o job insecurity.
In genere, le definizioni di job insecurity presenti in lettera-
tura possono essere distinte in due correlate dimensioni: una
affettiva e una cognitiva (6).
La prima fa riferimento al sentimento di ansia e preoccu-
pazione circa il futuro del proprio posto di lavoro, mentre la
seconda riguarda la probabilità percepita che si realizzi la mi-
naccia della perdita del proprio lavoro. Inoltre gli effetti della
job insecurity, sia affettiva che cognitiva, sono deleteri sia per
l’individuo che per l’organizzazione (7) e possono essere
messi sullo stesso piano di quelli derivanti dallo stress.
Inoltre la job insecurity sta già presentando effetti partico-
larmente negativi nel contesto italiano: occorre ricordare
che in Italia, rispetto agli anni ‘80 e ‘90 del secolo scorso, si
è verificato un brusco calo di posti di lavoro a tempo inde-
terminato, che caratterizzavano il sistema socioeconomico

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italiano, e di conseguenza un notevole calo della sicurezza
lavorativa.
Molti giovani oggi vengono chiamati Neet, dall’acronimo
inglese Not in Education, Employment or Training. Giovani fra i
15 e i 29 anni che non vanno a scuola né all’università, non
seguono corsi di formazione professionale e non lavorano,
scivolando inattivi verso lo stress, la rassegnazione e la sfidu-
cia verso il futuro.
L’invecchiamento della popolazione è ormai una certezza
e parallelamente le riforme del sistema pensionistico costrin-
geranno gli impiegati maturi a lavorare più a lungo compor-
tando la necessità di affrontare lo stress lavorativo nel periodo
più “maturo” della loro vita, dove è possibile ipotizzare che
le risorse e le energie siano minori.
Anche il sistema delle libere professioni è in fermento; au-
mentano infatti i “non-standard”, cosiddetti collaboratori per
forza o finte partite Iva, lavoratori che non esercitano in pro-
prio, ma continuativamente per conto terzi, anche se il loro
contratto è quello da libero professionista.
Un altro gruppo è quello dei knowledge workers, portatori
di conoscenza estremamente qualificata (oggi si parla anche
di overqualification e overeducation) che non trovano spazio nel
mercato, in quanto la richiesta delle aziende è sempre mag-
giore per il personale tecnico-operativo.
Anche la crisi economica globale e locale odierna può
avere un potenziale stressante elevato. Oggigiorno siamo
bombardati dai media riguardo alle condizioni economiche
instabili e ciò può sicuramente contribuire a creare emozioni
negative verso il proprio lavoro.
È stato documentato che la disoccupazione si associa
a un rischio aumentato di depressione e disturbi ansiosi.

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Quanto più lungo è il periodo di disoccupazione, tanto mag-
giori sono le conseguenze sulla salute mentale, soprattutto
il passaggio da lavoratore a disoccupato porta l’individuo a
una profonda fase di destabilizzazione.
Recentemente sono stati effettuati i primi studi sulle con-
seguenze della crisi mondiale iniziata nel settembre 2008, a
seguito della bancarotta della Lehman Brothers Holdings negli
Stati Uniti.
Una ricerca condotta a Hong Kong ha confrontato la fre-
quenza della depressione nei seguenti anni: 2005 (8.3%), 2007
(85%), 2009 (12.5%). Il significativo aumento nel 2009 si è
riscontrato in particolare nei soggetti tra i 55 e i 65 anni e in
quelli che avevano famiglia, rendendo lecita l’ipotesi che il ca-
rico di responsabilità dal punto di vista economico-finanziario
possa avere un’influenza importante a fronte del perdurare
delle situazioni di difficoltà.
A questo proposito uno studio, svoltosi in Gran Bretagna,
ha individuato un altro gruppo di persone ad alto rischio di
stress e depressione a causa della crisi: quelle indebitate.
I mutamenti socioculturali sono stati scarsamente presi in
considerazione negli studi scientifici e le organizzazioni sono
spesso state fotografate all’interno (in), ma le ricadute al-
l’esterno (dall’in all’out), così come le influenze di variabili
esterne (dall’out all’in), appaiono ancora oggi inserite in un
campo poco esplorato. Si evidenzia che fenomeni stress-la-
voro correlato non arriveranno soltanto dall’interno dell’or-
ganizzazione, ma un ruolo determinate sarà giocato anche dal
mondo esterno. Ecco perché in questo momento di difficoltà
economica locale e globale, lo stress appare un fenomeno in
crescita nei lavoratori italiani e non solo.
La crisi economica globale erode la motivazione intrinseca

83
e di conseguenza favorisce il prevalere di logiche strettamente
economiche e materiali nonché di pensieri negativi.
È stato evidenziato come le crisi economiche possano
avere effetti altamente negativi sulla salute psicologica degli
individui (vedasi gli effetti della “Bubble economy”, la cosiddetta
bolla speculativa, sulla società giapponese) (8).
La depressione viene rilevata in aumento nel contesto eu-
ropeo e italiano, segno evidente che lo stress si diffonde come
un virus. Problemi di salute mentale sono diventati una delle
principali cause di assenteismo sui luoghi di lavoro e di pensio-
namento anticipato in Europa. A rilevarlo è l’ultimo Rapporto
dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sulla salute mentale
e il benessere nei luoghi di lavoro. Complessivamente i disturbi
mentali ed il malessere, secondo l’O.M.S., comportano costi
elevatissimi per la società, anche in termini monetari e difficili
da evitare considerando che il 25% dei cittadini europei po-
tranno incontrare problemi di salute mentale nel corso della
vita. L’ambiente di lavoro e l’organizzazione rappresentano solo
una parte del problema, ma comunque risultano fondamentali.
Inoltre, fenomeni estremi di stress già presenti in paesi
orientali sembrano oggi apparire, anche se con forme mutate
nel contesto europeo.
Negli anni ‘80 in Giappone si iniziò a usare per la prima
volta la parola “Karoshi”. Karoshi significa “morte da super-
lavoro” e rappresenta lo stadio finale di una “malattia sociale”
che si evolve fino a uccidere, distruggendo l’equilibrio del bio-
ritmo umano: l’eccesso di carico di lavoro e di responsabilità
porta l’organismo a uno sforzo esasperato, spingendo il cuore
a cedere o provocando un’emorragia cerebrale. La letteratura
di riferimento ha individuato un nesso tra karoshi e forme
estreme di stress (9).

84
Negli anni ‘90 insieme al karoshi prese a diffondersi in
Giappone il “Karojisatsu”, anch’esso dovuto allo stress da la-
voro. La morte per questa patologia però avviene per scelta e
dopo un percorso più ambiguo e inquietante: il karojisatsu è,
infatti, una forma di suicidio. Il legame tra karojisatsu e stress
emerge chiaramente nel “caso Dentsu” (10).
Nel 1990 il neolaureato Ichiro Oshima – al suo primo im-
piego – fu assunto dalla compagnia pubblicitaria Dentsu Inc.
Un anno dopo, impegnato in un progetto difficoltoso, il gio-
vane iniziò a prolungare sempre più il proprio orario di la-
voro, restando in ufficio solitamente fino all’alba e quindi
dormendo in media due ore per notte. Ichiro Oshima, inoltre,
subiva azioni mobbizzanti frequenti, come per esempio quella
di essere obbligato a bere grosse quantità di sostanze alcoli-
che. Nell’estate del 1991, una volta portato a termine il pro-
getto che stava seguendo, Ichiro Oshima si suicidò. I suoi
genitori fecero causa alla Dentsu, sostenendo che la morte
del figlio era stata provocata da una depressione dovuta al-
l’eccesso di straordinari. Nel 1996 vinsero la causa presso il
tribunale di Tokyo che condannò l’agenzia pubblicitaria a pa-
gare un risarcimento.
Recentemente ha fatto molto eco in Cina un numero si-
gnificativo di suicidi. Un possibile esempio di karijatsu a ca-
tena, che ha coinvolto una grossa multinazionale hi-tech. Nel
2010, in un periodo circoscritto (gennaio-agosto), ci fu un to-
tale di 13 suicidi, nelle fabbriche-dormitorio dell’azienda,
anche dopo poche settimane dall’assunzione. Le condizioni
di lavoro difficili sia dal punto di vista fisico che psicologico
hanno prodotto un mix letale per i lavoratori. Si ipotizza tut-
tavia anche un pericoloso effetto di contagio psicologico, pro-
babilmente riconosciuto anche dall’azienda, che pare abbia

85
fatto firmare ai nuovi arrivati i cosiddetti patti di non-suicidio:
lettere in cui i dipendenti si impegnavano a non farsi male de-
liberatamente e accettare che le loro famiglie non avrebbero
dovuto rivalersi sul piano legale se i dipendenti avessero de-
ciso di togliersi la vita.
Il karojisatsu, fenomeno confinato prima nei paesi asiatici,
appare tuttavia superare i confini geografici e approdare
anche in Europa.
Il caso recente di una famosa multinazionale nel campo
delle telecomunicazioni in Francia è emblematico del fatto
che i suicidi per motivi di lavoro, dovuti in parte al clima or-
ganizzativo negativo, a un management del terrore e/o a un
sovraccarico di lavoro, non siano argomento di studio e ri-
cerca soltanto in alcuni paesi del mondo, ma che stiano di-
ventando purtroppo un problema globalizzato.
Nel colosso francese delle telecomunicazioni, negli ultimi
tempi, i tentativi di suicidio e i suicidi (superiori a 20) si sono
moltiplicati, tanto da ingenerare scioperi di protesta e mobi-
litazioni pubbliche dei sindacati in alcune città della Francia.
La direzione è corsa ai ripari, confermando indirettamente la
gravità del problema e intervenendo con valutazioni dello
stress lavoro correlato e del clima e, nello stesso tempo, con
interventi nel campo dello stress management.
I suicidi correlati allo stress lavorativo, si verificano anche
per cause più esterne all’organizzazione ovvero anche a causa
del senso di precarietà o alla vera e propria perdita di lavoro.
Il rischio di gesti inconsulti è elevato in un momento di dif-
ficile congiuntura economica, con un significativo tasso di di-
soccupazione.
Anche in questa circostanza, la letteratura di ricerca asia-
tica è stata la prima a essere fortemente sensibile a questa de-

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licata tematica. Uno studio particolarmente interessante è
quello di Inoue et al. “A Correlation between Increases in Suicide
Rates and Increases in Male Unemployment Rates in Mie Prefecture,
Japan” (11). Gli autori hanno studiato i suicidi avvenuti nella
prefettura di Mie negli anni 1996-2002 e li hanno legati all’in-
dice di disoccupazione dello stesso periodo considerato. I ri-
sultati hanno mostrato che da quando si è verificato un
incremento significativo del tasso di disoccupazione, nel 1998,
i suicidi sono aumentati. I suicidi apparivano legati non tanto
allo status di essere disoccupato, quanto al cambiamento di
status da lavoratore a non lavoratore. Inoltre riguardavano la-
voratori con non presentavano elevati livelli di salute fisica e
psichica.
Purtroppo anche in Europa emergono i primi studi a ri-
guardo, e diverse ricerche rivelano un notevole incremento di
suicidi al crescere delle problematiche lavorative legate al per-
durare della crisi economica.
C’è anche chi ipotizza che i suicidi potrebbero essere an-
cora più numerosi di quanto misurato, a causa del senso di
vergogna delle famiglie che cercherebbero di far passare per
incidenti la morte dei loro cari. In particolare gli uomini, in
una cultura a elevata dimensione maschile, rischiano di per-
dere la propria identità e soffrire ancora di più per la situa-
zione che si viene a creare a fronte del “fallimento” del
proprio percorso professionale.
La necessità di rendere quindi le persone all’interno del
mondo del lavoro più “resilienti” e capaci di fronteggiare le
nuove difficili situazioni aprono una riflessione al processo
formativo, non solo legato alla pura formazione tecnica ma
alla ricerca di una crescita più integrale, più umanistica e di
maggiore eccellenza.

87
Oggi serve creatività, flessibilità, grande autonomia e
senso di responsabilità. Possiamo dire quindi che diviene una
priorità educare e formare i nuovi professionisti all’eccellenza
contribuendo così in maniera efficace alla promozione di un
nuovo umanesimo che sarà la base sicura per garantire alla
società un futuro più umano e quindi più rispondente alla ri-
cerca di una piena qualità di vita in tutti i sensi.
Diventa così vitale la elaborazione dei programmi di for-
mazione tenendo presenti alcuni obiettivi:
• insegnare a ricomporre i grandi oggetti della conoscenza
– l’universo, il pianeta, la natura, la vita, l’umanità, la so-
cietà, il corpo, la mente, la storia – in una prospettiva com-
plessa, volta cioè a superare la frammentazione delle
discipline e a integrarle in nuovi quadri d’insieme;
• promuovere i saperi propri di un nuovo umanesimo: la
capacità di cogliere gli aspetti essenziali dei problemi; la
capacità di comprendere le implicazioni, per la condizione
umana, degli inediti sviluppi delle scienze e delle tecnolo-
gie; la capacità di valutare i limiti e le possibilità delle co-
noscenze; la capacità di vivere e di agire in un mondo in
continuo cambiamento;
• diffondere la consapevolezza che i grandi problemi del-
l’attuale condizione umana (il degrado ambientale, il caos
climatico, le crisi energetiche, la distribuzione ineguale
delle risorse, la salute e la malattia, l’incontro e il confronto
di culture e di religioni, i dilemmi bioetici, la ricerca di una
nuova qualità della vita) possono essere affrontati e risolti
attraverso una stretta collaborazione non solo fra le na-
zioni, ma anche fra le discipline e fra le culture.
L’ottica dei valori a cui ci si può ispirare diventa, dunque,
antropocentrica, infatti l’uomo va sempre visto come parte

88
di un sistema destinato a tutti e in relazione con tutti gli ele-
menti dell’ecosistema.
La vera sfida oggi è nettamente umana, antropologica e
non tanto tecnica o tecnologica!
I modelli di sviluppo debbono conciliare la promozione
di ogni persona e la conservazione del sistema della natura,
secondo quanto detto con enfasi da Papa Francesco nell’ul-
tima Enciclica.
Sviluppo compatibile ed educazione ambientale debbono
essere preoccupazioni condivise: la qualità della vita vuol dire
anche sostenibilità – continuità nelle certezze.
Alla base servono principi saldi che regolino e garanti-
scano un comportamento congruo a tale fine. La qualità della
vita, lo sviluppo vero sociale ed economico presuppone nelle
persone un percorso di formazione integrale dove alla neces-
saria formazione tecnica bisognerà aggiungere tutti i conte-
nuti relativi alla crescita della persona, al vero umanesimo
come garanzia di un sano sviluppo culturale.
Non è l’economia a governare l’essere umano ma l’essere
umano a creare i sistemi economici. Serve un umanesimo
nuovo nel campo dell’educazione e della formazione per ar-
rivare così a un “nuovo umanesimo” nel contesto del lavoro
e delle organizzazioni. Ripartire dalle persone per creare i si-
stemi che garantiscano la sostenibilità nella qualità della vita.
La responsabilità e la solidarietà vanno riconosciute anche
di fronte alle generazioni future. Va sottolineato l’invito ad
agire “in modo tale che gli effetti delle tue azioni siano compatibili con
la continuazione di una vita autenticamente umana. Si deve lasciare una
casa abitabile a chi verrà dopo di noi” (Fiorenzo Facchini, Profes-
sore emerito di Antropologia all’Università di Bologna).
In questo contesto di vero sviluppo e di promozione della

89
qualità della vita e della sostenibilità del business risulta evi-
dente come un nuovo umanesimo sia la vera chiave di lettura
per validare i principi epistemologici e operativi che stanno
alla base di ogni organizzazione umana.
Non si può dimenticare la funzione di un approccio etico
sia da parte dell’impresa che dei lavoratori, nel senso di un
rapporto costante tra i valori individuali e quelli globali del-
l’impresa in quanto collegati attraverso un continuo e reci-
proco scambio. Una sorta, quindi, di processo circolare, per
cui “l’etica individuale incide sull’etica dell’impresa che a sua volta può
condizionare e potenziare i comportamenti delle persone, rinforzando i
comportamenti sintonici con l’ambiente, o invece, potenziando azioni de-
vianti che andrebbero, invece stigmatizzate e punite” (12).
Dunque un’etica dell’azienda che diviene coerente con
l’etica nell’azienda, che porta l’azienda etica a essere un luogo
dove i principi di diritto naturale si possono coniugare con la
convinzione di efficacia e di efficienza che deve caratterizzare
il vivere dell’impresa, senza scontri ideologici, ma attraverso
la scelta di valori condivisi che si sviluppano nel feed-back di
un benessere qualitativo, vale a dire nella ricerca di un’elevata
qualità della vita, che non si può ottenere se non con le siner-
gie del gruppo.
Principi e valori come l’equità, la tutela della persona, la
trasparenza, l’onestà, la riservatezza, l’imparzialità, la sosteni-
bilità ambientale, la protezione della salute, la responsabilità,
la fiducia e la collaborazione risultano punti cardine di un ap-
proccio dell’azienda che cerca la conformità alle regole, la co-
siddetta compliance, dei comportamenti e dei processi per
raggiungere la sua legittimazione etica (13).
Per concludere sottolineiamo come la capacità di trovare
in se stessi una chiave di lettura costruttiva, ci appare chiara

90
nell’aneddoto medioevale che, in un’atmosfera simile a quella
creata dalla regista Liliana Cavani, nel suo film “Francesco”,
racconta di un viandante che incontra tre operai che stanno
lavorando con i frati alla costruzione di una chiesa.
Alla domanda “che cosa stai facendo?” il primo risponde “mi
sto guadagnando il pane”, il secondo “sto facendo il mio lavoro”, il
terzo, invece, “sto costruendo una cattedrale”.
Forse il terzo è il più ingenuo o forse ha capito veramente
il valore del suo impegno.
Questo ultimo spunto vuole sintetizzare la necessità di
sviluppare la consapevolezza della necessità di una crescita
integrale della persona e come si debba affrontare la realtà
della vita e il mondo del lavoro, in una prospettiva di continuo
sviluppo e di una crescita adeguata delle proprie caratteristi-
che personali a fronte di quel cambiamento permanente che
è diventato il contesto di riferimento con il quale confrontarsi
quotidianamente.

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5. CAROLI F. - COCCO C., La resilienza, in ANZUINO G. (a

91
cura), Mente e crisi: un percorso verso il cambiamento, Edizioni
Psicologia, Roma 2013.
6. SVERKE M. - HELLEGREN J. - NASWALL K. - CHIRUMBOLO
A. - DE WITTE H. - GOSLINGA S., Job insecurity and union
membership: European unions in the wake of flexible production,
P.I.E. - Peter Lang, Brussels 2004.
7. DE WITTE H., Job insecurity: review of the international literature
on definitions, prevalence, antecedens and consequences, «South
African Journal of Industrial Psychology», 31/4 (2005),
pp. 1-6.
8. GIORGI G. - ASAKURA T. - ANDO M., The unknown side of
workplace bullying research: the case of Japan. «Risorsa uomo:
rivista di psicologia del lavoro e dell’organizzazione»m
XIV/1 (2008), pp. 31-40. (3)
9. GIORGI G. - MAJER V., Mobbing virus organizzativo. Prevenire
e contrastare il mobbing ed i comportamenti negativi sul lavoro,
Giunti Organizzazioni Speciali, Firenze 2009.
10. ASAKURA T. - ANDO M. - GIORGI G., Warkplace bullying in
Japan: an epidemiological study. «Risorsa uomo: rivista di psi-
cologia del lavoro e dell’organizzazione», XIV/2 (2008),
pp. 141-155.
11. INOUE K. - TANII H. - FUKUNAGA T. - ABE S. - NISHIMURA
Y. - KAIYA H. - NATA M. - OKAZAKI Y., A correlation between
Increases in Suicide Rates and Increases in Male Unemployment
Rates in Mie Prefecture, Japan, «In Industrial Health», 45
(2007), pp. 177-180.
12. MUSSO P., I valori etici e le convinzioni personali, in PASTORE
A. - VERNUCCIO M. (a cura), Impresa e comunicazione, Apo-
geo, Milano 2008.
13. MUSSO P., I principi e valori dell’azienda in FELICI G. (a cura),
Dall’etica ai codici etici, Franco Angeli Edizioni, Milano 2005.

92
DI QUALE UNIVERSITÀ
ABBIAMO BISOGNO?

Franco Lucchese - Florencio Vicente Castro

Una riflessione iniziale

Viviamo in un periodo di cambiamento, di evoluzioni ra-


pide, e senza un orientamento molto chiaro.
Agli albori del XXI secolo gli eventi accadono ad una ve-
locità tale che risulta difficile presagire cosa avverrà in un pros-
simo futuro. La globalizzazione ci fa sentire parte di una
comunità universale e cittadini più vicini gli uni agli altri, ma
allo stesso tempo ci fa sentire anche più distanti da noi stessi,
o, come diceva il sociologo canadese Marshall McLuhan vi-
viamo in un “villaggio globale”. A questa situazione di intercon-
nessione planetaria, dobbiamo aggiungere la particolare crisi
economica e sociale che il mondo occidentale sta vivendo e
che è stata preceduta da una crisi di carattere morale che è pas-
sata inosservata1. Una tappa storica nella quale si è affermato
il valore dell’avere e del possedere e poco quello dell’essere.

FRANCO LUCCHESE, Sapienza Università di Roma.


FLORENCIO VICENTE CASTRO, Università Estremadura. Badajoz. Spagna.
1
“Il linguaggio dell’etica può essere il linguaggio comune per parlare di
ciò che si fa e si deve fare in università”, HORTAL A., Ética General de las Profe-
siones, Descleé De Brouwer, Bilbao 2002, p. 19.

93
La situazione non è recente. Più di ottanta anni fa diceva
il pensatore Ortega y Gasset che “l’università deve intervenire
nell’attualità come università in quanto tale, trattando i grandi temi del
momento dal suo proprio punto di vista. In questo modo non sarà solo
un’istituzione per studenti “ad usum delphini”, ma inserita all’interno
della vita, delle sue urgenze, delle sue passioni, deve imporsi come un po-
tere spirituale superiore (…) Allora tornerà ad essere l’università che
fu nel suo periodo migliore: un principio promotore della storia” 2.
Ortega termina l’opuscolo citato con un appello al servi-
zio pubblico dell’università, a non rinunciare al suo ruolo nella
realtà umana in cui è inserita. “Essere promotore della storia” non
è altro che assumere un ruolo di formazione attiva nelle
nuove generazioni cittadine, focalizzare lo sguardo sulle ne-
cessità che il mondo reclama dalle “ferite aperte ”3. Le realtà
della crisi, dell’esclusione, della disoccupazione, della povertà,
dell’ingiustizia e della corruzione sono, in qualche modo, i
temi del mondo che devono interagire e radicarsi come tra-
sversali nell’università. Il desiderio di Ortega di più di ottanta
anni fa è in pieno vigore e, per questo, lo condividiamo.
Se qualcosa caratterizza l’istituzione universitaria è la for-
mazione civica, professionale e scientifica4. Ciò che distingue
l’istituzione universitaria dalle organizzazioni è proprio il la-
2
ORTEGA Y GASSET J., Misión de la Universidad, Biblioteca Nueva, Madrid
2207, p. 142.
3
LOSADA M.J., tesi di dottorato sullo “Estudio con sentido en la Univer-
sidad”. UEX. Spagna 2015. D’ora in poi seguo nella mia riflessione molte delle
linee ideologiche e delle posizioni scientifiche di questo illustre professore.
4
Consiglio editoriale. “...si può dire che il luogo dove ciò potrebbe essere
possibile è l’università, in quanto essa rappresenta la principale istituzione che
si occupa di formazione professionale, civica e scientifica nelle società mo-
derne” Consigli Editoriale (2012) op. cit. p. 194.

94
voro formativo che realizza con gli studenti dei corsi di laurea,
post-lauream e dottorati. La società del futuro dipenderà dalla
piega che prenderanno questa formazione e quella dei prece-
denti cicli scolastici.
Con lo “Spazio Europeo di Istruzione Superiore” (EEES) si sta
producendo un cambiamento significativo nel paradigma dello
sviluppo del processo di insegnamento-apprendimento. L’inse-
gnamento incentrato sui contenuti ora si focalizza sullo sviluppo
delle competenze5. Con questo si cerca di far in modo che lo
studente possa applicare i saperi, intesi nel senso più ampio del
termine, alla sua vita quotidiana e all’esercizio della sua profes-
sione futura. Quindi il lavoro del docente, in quanto sviluppatore
di competenze negli studenti, è un lavoro non solo di esposi-
zione dei contenuti (che metterà al servizio dello sviluppo delle
competenze), ma soprattutto di formazione di risorse e meto-
dologie volte a rendere gli studenti capaci in più ambiti. Dovrà
essere un’istituzione che formi uomini e donne eccezionali e
che, soprattutto essendo attenti alle scienze, si dedichino ad “ap-
prendere ad apprendere”6. Da come verranno gerarchizzati e
5
METEOS V.L., Diseño e implantación de titulas de grado en el Espacio Europeo de
Educación Superior, Narcea, Madrid (2008), intendiamo con il termine compe-
tenza l’integrazione di risorse cognitive (conoscenze), di condotta (abilità) e at-
titudini (valori) per far fronte ad una situazione concreta. Nell’istruzione lo
spostamento dell’attenzione dai contenuti alle competenze costituisce un lento,
ma progressivo cambiamento nell’impostazione tanto dei ruoli del soggetto e
agente del processo di insegnamento-apprendimento, quanto delle proprie me-
todologie di insegnamento e valutazione. Non si tratta più di avere studenti
che “sappiano molto”, ma soprattutto che siano competenti. Cioè, usando la
terminologia anglosassone, passare dal “know” al “know how”.
6
“Apprendere ad apprendere” è uno dei compiti fondamentali dello stu-
dente per diventare una persona autonoma, rispettosa e matura. Frase preferita
da BELTRÁN J., Psicologia ed istruzione, Madrid.

95
strutturati questi campi di apprendimento dipenderà la fattibilità
di una formazione integrata delle competenze7.
Recentemente si è presentato un documento patrocinato
dal Ministero d’Istruzione, Cultura e Sport di Spagna con il
titolo “Proposte per la riforma e il miglioramento della qualità e del-
l’efficienza del sistema universitario spagnolo”8. Sfortunatamente
questo documento non va oltre le questioni operative e non
entra nel dibattito sul modello di università che la società at-
tuale necessita. Quindi, il dibattito su come dovrebbe essere
il “valore interno”9 dell’università continua ad essere in voga.
Condividiamo con autori precedenti che il valore interno
7
LOSADA M., 2015, op. cit.
8
La controversa relazione della “commissione di esperti” su iniziativa del
Ministero dell’Istruzione e Sport ed elaborata da MIRAS PORTUGAL M.T., e altri
(2013) “Proposte per la riforma e il miglioramento della qualità e dell’efficienza del sistema
universitario spagnolo”, con l’addenda firmata dai professori ALZAGA VILLAAMIL
O. - URREA CORRÉS M. (2013), “Addenda dei professori ALZAGA VILLAAMIL
O. - URREA CORRÉS M., ai capitoli I e III della relazione. “Proposte per la riforma
e il miglioramento della qualità e dell’efficienza del sistema universitario spagnolo”, non ri-
sponde, in modo diretto, alla domanda su quale deve essere la funzione sociale
dell’università, ma si limita a proporre misure per migliorare l’“efficacia” del
sistema universitario. Così facendo la proposta non cerca il cambiamento so-
ciale e nemmeno il miglior servizio alla società nella quale si inserisce l’istitu-
zione, ma continua a portare avanti il modello sociale imperante.
9
Utilizziamo questa terminologia dei valori interni ed esterni per elaborare il
discorso etico intorno all’esercizio professionale, come deduce CORTINA DA
MACINTYRE (cf. MACINTYRE A., Tras la virtud, Crítica, Barcelona 2001) e la
prassi di un’etica del buono. In questo senso i valori interni sono quelli propri
dell’attività; pertanto il valore interno dell’insegnamento è l’istruzione efficace
degli alunni, quello della pratica medica è la salute dei pazienti. Al contrario i
valori esterni di ogni attività sono quelli che, essendo necessari, non sono vin-
colati alla finalità che è propria all’attività. Sono comuni fra le varie attività; per
esempio i valori esterni di una professione possono essere il reddito economico,
il riconoscimento ed il prestigio sociale, etc.

96
dell’università e di conseguenza delle professioni che si svol-
gono al suo interno è “porre la conoscenza al servizio dello sviluppo
umano” 10. L’università, nell’esercizio delle sue funzioni, deve
“compromettersi” con la costruzione di un mondo ed una
società più giusti, attraverso l’analisi delle strutture e le con-
dizioni che determinano bene o male la vita delle persone11.
“La verità della realtà non è ciò che è già fatto; questo è solo una
parte della realtà. Se non ci rivolgiamo a ciò che si sta facendo e a ciò che
si sta per fare, ci sfugge la verità della realtà. Bisogna costruire la verità,
il che non suppone eseguire, realizzare ciò che già si sa, ma costruire
quella realtà che alla prova di prassi e teoria si mostra come vera” 12.
10
Cf. MANZANO ARRONDO V., op. cit., si trovano molti riferimenti anche
nel discorso sulla focalizzazione delle capacità di SEN (Cf. SEN A. (2000), De-
sarrollo y libertad, Planeta, Buenos Aires 2012.
11
ELLACURÍA I., nel “Discurso de la universidad centroamericana” SIMEÓN
CAÑAS J., nella firma del contratto con la Banca Interamericana dello Sviluppo
(BID) (1971) negli “escritos universitarios” (1999), San Salvador, pag. 22, af-
ferma che “la forma specifica con la quale l’università deve porsi al servizio im-
mediato di tutti è dirigendo la sua attenzione, i suoi sforzi ed il suo
funzionamento allo studio di quelle strutture che condizionano bene o male la
vita di tutti i cittadini. Deve analizzarle criticamente, deve contribuire alla de-
nuncia e alla distruzione delle ingiustizie, deve creare modelli nuovi affinché la
società (…) possa metterli in moto”. In questo senso molte sono le esperienze
dei centri universitari che hanno saputo realizzare il lavoro di denuncia profetica
che il momento richiedeva. Attualmente gli sforzi si stanno orientando verso la
Responsabilità Sociale Universitaria come valorizzazione della funzione sociale
che i centri universitari realizzano.
12
ELLACURÍA I., La filosofía de la realidad histórica, UCA Editores, San Salva-
dor, El Salvador 1994. Sulla stessa linea dell’università come motore della storia
si esprime Ortega y Gasset nell’affermare che “l’università deve intervenire nell’at-
tualità come università in quanto tale, trattando i grandi temi del momento dal suo proprio
punto di vista. In questo modo non sarà solo un’istituzione per studenti “ad usum delphini”,
ma inserita all’interno della vita, delle sue urgenze, delle sue passioni, deve imporsi come un

97
Ignacio Ellacuría, referente etico universitario, considerava
l’università come un laboratorio della realtà. Una realtà che
deve configurarsi nella tensione di prassi e teoria che nel no-
stro ambito chiamiamo “investigazione e docenza”. Come
professori universitari ci preoccupa la realtà che vogliamo
proporre e costruire nei nostri studenti e nei loro processi di
formazione, l’accompagnarli nel loro gioco di prassi e teoria,
nel proprio corso di studi universitari finalizzato ad una vera
realizzazione personale e sociale. In questo momento, quando
gli studiosi della realtà sociale e culturale ci dicono che non
solo siamo in un’epoca di cambiamenti, ma anche in un cam-
biamento di epoca13, dobbiamo riflettere su due elementi: il
valore interno delle professioni e, concretamente, il valore in-
terno del professore universitario, che devono essere en-
trambe reinterpretati e costruiti con innovazione nella prassi
delle nostre università.
Globalizzazione e crisi attuale, nuovo concetto e nuova
situazione per l’umanità14. Integrare questo concetto e poter

potere spirituale superiore (…) Allora tornerà ad essere l’università che fu nel suo periodo
migliore: un principio promotore della storia”, (Mission de la universidad, Madrid, Bi-
blioteca Nueva, pag. 142).
13
LOSADA M., 2015, op. cit.
14
La letteratura attuale sottolinea la preoccupazione per questo cambia-
mento d’epoca e per tutte le realtà che sono in gioco e che chiedono una ri-
sposta articolata e globale. L’università non può sentirsi indifferente davanti a
tutte queste questioni: GEORGE S. - DUPUY J.P. - COCHET Y. - LATOUCHE S.
(2012), ¿Hacia dónde va el mundo? 2012 – 22, la última oportunidad, Barcelona, Edi-
torial Icaria; NAVARRO V. - TORRES LÓPEZ J., Los amos del mundo. Las armas del
terrorismo financiero, Editorial Espasa, Barcelona 2012; ROCHE M., El banco, Edi-
torial Deusto, Barcelona 2011; Collettivo Economisti di Fronte alla Crisi, Non
es economía, es ideología, Editorial Deusto, Barcelona 2012.

98
prendere posizione davanti a questo fenomeno in un modo
attivo e critico è una sfida per tutti noi esseri umani del XXI
secolo. Ma soprattutto lo deve essere per l’università che
è chiamata ad interpretare e trasformare creativamente la
realtà.

L’università davanti ad una realtà


antropologica essenziale

La nostra attuale realtà antropologica universitaria si strut-


tura su tre assi essenziali: l’apertura al mondo, agli altri e al
futuro. Per questo ci muoviamo sempre su tre livelli fonda-
mentali: la sopravvivenza, da qui il nostro impegno tecnolo-
gico ed economico; la convivenza, non si possono non avere
preoccupazioni di natura sociale e politica; e la cultura, ab-
biamo bisogno di vivere con un senso e un orizzonte, con un
modo di essere e comprendere la nostra esistenza e il nostro
mondo15.
Gli umani non possono vivere come l’animale nella pra-
teria vicino al fiume, che sente soddisfatte tutte le sue neces-
sità e i suoi obiettivi; noi abbiamo bisogno di trascendere la
nostra prateria16 e aprirci costantemente nella nostra esplora-
zione e relazione con il mondo, con gli altri esseri umani e il
senso della vita. In questa curiosità e inquietudine trova le sue
radici questo fenomeno che chiamiamo “globalizzazione”,
che ci ha sommerso in un cambiamento di epoca mondiale.
Attualmente siamo testimoni della trasformazione del
15
Continuiamo in questo punto le linee essenziali e letterali di LOSADA M.
16
LOSADA M., 2015, op. cit.

99
nostro mondo delle relazioni. Ci sono grandi cambiamenti
nell’ambito tecnico-economico: l’introduzione delle nuove
tecnologie e i nuovi mezzi di informazione e comunicazione
applicati ai mezzi di produzione e l’interconnessione finan-
ziaria hanno dato luogo ad una maggiore ricchezza, ad un
altro dinamismo di organizzazione produttiva ed economica,
ad un nuovo modo, una nuova divisione e un nuovo con-
cetto di lavoro e di relazione con la natura. Questa trasfor-
mazione ha possibilità di miglioramento della realtà di tutti
i popoli e gli uomini ma, al giorno d’oggi, da un punto di
vista realistico e critico, capiamo che presenta crepe e lacune
che stanno consumando sempre più persone e settori nel
mondo ricco e popoli e culture nei continenti più poveri. Ci
sono una serie di questioni che ci interpellano circa il feno-
meno della globalizzazione17.
Un esempio paradigmatico: il 12 Ottobre del 1492 Cristo-
foro Colombo scoprì l’isola di Guanahanì; la notizia arrivò ai
Re Cattolici di Spagna solo dopo cinque mesi. Nel 1865 il pre-
sidente degli Stati Uniti, Lincoln, morì assassinato; la notizia
si conobbe in Europa solo e non prima di dodici giorni dal-
l’accaduto. Nel 1954 il Parlamento francese votò il riarmo
della Germania; solo tre ore più tardi e non prima, ne veniva
a conoscenza il mondo intero. Nel 1969 Armstrong mise
piede sulla Luna. Un piccolo passo per l’uomo, un gran passo per
l’umanità. Si disse. Il fatto fu presentato in diretta, semi-passi-
vamente, sugli schermi Tv di tutto il mondo e nessuno era in-
terattivo. 26 Giugno 2015 in una videoconferenza chi ci
ascolta potrebbe interrompere in questo preciso momento
dall’Australia, dalla parte opposta di dove ci troviamo, per
17
AA.VV., Desafíos de la globalización, HOAC, Madrid 2004.

100
condividere o dissentire dalle nostre idee. Il mondo cambia
ad una velocità vertiginosa.
All’inizio, tecnologicamente parlando, ci fu la pietra, poi
gli utensili più elaborati, la ruota, il fuoco, l’elettricità, la tec-
nologia, i motori, i satelliti. In un altro ordine di cose, prima
ci fu la pietra, la roccia e la caverna dipinta (il mito) e la per-
gamena, i codici miniati, poi la stampa, la radio, la televisione,
internet. Le idee viaggiano oggi alla velocità della luce.
D’altra parte, all’inizio ci fu il matriarcato, poi il patriar-
cato, i castelli con i loro signori e le corporazioni con i mae-
stri e gli apprendisti. La nobiltà e il popolo, poi vennero i
poteri legislativo, esecutivo e giudiziario e infine un quarto
potere, le conoscenze e l’informazione. Internet e le reti so-
ciali. La cultura scritta è stata soppiantata dall’impero audio-
visivo.
In poche parole abbiamo ricordato molte pietre miliari del
cambiamento. Cambiamenti scientifici e tecnologici nelle te-
lecomunicazioni, nell’elettronica e nelle scienze informatiche.
Nella micro-genetica, la robotica, la bioingegneria; cambia-
menti nelle nuove scienze sociali, nello studio della comples-
sità umana e sociale, cambiamenti nella nuova psicologia.
Tutto ciò ha fatto sì che la nostra società si sia trasformata
profondamente. Con il cambiamento sociale stanno cam-
biando le strutture sociali e le regole fondamentali della con-
vivenza, delle relazioni di gruppo, della funzione della donna,
della stabilità familiare, delle ideologie, delle gerarchie dei va-
lori, del concetto dell’uomo e del mondo.
Cambiamenti sociali e cambiamenti tecnologici. Sono pas-
sati più di trent’anni dalla prima trasformazione dell’elettro-
nica che, applicata alle telecomunicazioni e ai computer, si è
evoluta al digitale rendendo possibile la società dell’informa-

101
zione come appare in questo momento. L’elettronica digitale.
Le strutture moderne dei computer, il processo digitale dei
segnali, la bioingegneria, le nuove reti sociali, il mondo aperto
a tutti attraverso internet e le reti sociali, le nuove comunica-
zioni attraverso i cellulari, gli smartphone, etc.
Il XX secolo ha visto il cambiamento più importante della
storia scientifica, tecnologica e sociale e già allora l’istruzione
ci esponeva i suoi dubbi e le sue certezze a riguardo. E questo
cambiamento non era solo esterno alle nostre vite, ma di
certo un cambiamento interno a noi stessi: il principio psico-
logico di identità. Stiamo cambiando, ma continuiamo ad es-
sere noi stessi?
– l’accesso alla tecnologia e ai mezzi di comunicazione non
è lo stesso;
– il mondo del lavoro affronta una divisione e un’organiz-
zazione competitiva che non presta attenzione alla dignità
di ogni singolo uomo;
– il pianeta è trattato secondo criteri di produzione e gua-
dagno mettendo in pericolo la natura;
– le grandi decisioni sono più nelle mani di agenti econo-
mici18 – per esempio multinazionali – che della propria so-

18
Cf. MILANOVIC B. , Los que tienen y los que no tienen. Una breve y singular hi-
storia de la desigualdad global, Editoriale Alianza, Barcelona 2012. STIGLIZ J.E., El
precio de la desigualdad, Editoriale Taurus, Barcelona 2012. L’opera descrive come
l’1% della popolazione possiede ciò che il 99% della stessa necessita, e da spie-
gazione di come negli ultimi trent’anni di predominio dell ideologia neoliberale
il potere politico non ha agito in generale con lo scopo di ridurre le disugua-
glianze che crea l’economia di mercato di tipo capitalista, ma al contrario le ha
incrementate con politiche fiscali regressive, con la deregolamentazione del si-
stema finanziario accentuando l’accumulo di rendite di origine speculativo da
parte della distribuzione delle entrate.

102
cietà e delle proprie istituzioni, come sono per esempio
gli stati.
I grandi problemi dell’immigrazione e le nuove povertà
del nostro continente, insieme con la fame e la povertà del
Terzo Mondo e l’inquietudine circa il pericolo dei rischi am-
bientali, ci mostrano che l’economia e la tecnica in questo
mondo globalizzato si muovono e organizzano in base a pre-
occupazioni che mettono in primo piano il mercato in forma
radicale e totale rispetto ad una vera mondializzazione che
mette davanti a tutto l’umanesimo e l’ecologia.
Da un approccio umanista siamo chiamati ad un atteggia-
mento di speranza e di vera militanza19. Possiamo e dobbiamo
credere che la globalizzazione è chiamata a servire e a conse-
gnarsi per la mondializzazione di tutti i suoi benefici, tanto tecno-
economici e socio-politici, quanto culturali. Dobbiamo credere
nella governabilità della stessa, e questo dobbiamo renderlo cre-
dibile nell’ambito della formazione universitaria. Qualche autore
ha invitato a mantenere la posizione delle “termiti” che da den-
tro e a poco a poco si oppongono alla durezza e alla negatività
del sistema per creare spazi di solidarietà e fraternità globale20.

19
ZAMBRANA L., Nuevas militancias para tiempos nuevos, Cuadernos “Cristianismo
y Justicia”, 2002.
20
È fondamentale a questo proposito l’opera di KRUGMAN P., ¡Acabad ya
con esta crisis!, Editoriale Critica, Barcelona 2012. Secondo l’autore persino le
sue proposte non crede possano funzionare “tanto bene come uno vorrebbe”,
ma per far fronte a questa crisi manca una determinazione rooseveltiana per
“promuovere politiche di creazione di impieghi e attuare senza sosta fino a che
non si raggiunge la meta del pieno impiego. (pag. 235). Sulla stessa linea di ri-
sposta alla crisi si pone l’edizione del IX incontro di Salamanca organizzato
dalla Fondazione Sistema: GUERRA A. - TEZANOS J.F., Alternativas economicas y
sociales frente a la crisis, Sistema, Madrid 2012.

103
Tre sono i cammini possibili da percorrere per rispondere
in modo personale e comunitario a questo cambiamento.
Siamo lavoratori e consumatori. Siamo cittadini; siamo pen-
satori originali e creativi. C’è un modo di lavorare, di essere
professionali, di comprare e consumare in modo giusto e
umanitario; c’è anche un modo di essere cittadini partecipativi
ed attivi nella società che genera giustizia e compromesso; e
siamo capaci, senza dubbio, di creare con originalità correnti,
movimenti e spazi che sono segnali di un mondo nuovo che
sta nascendo e che è risposta a tutte le debolezze e mancanze
di una globalizzazione che è tentata dall’esclusione e dalla di-
visione e che chiede segnali di speranza per una possibile
mondializzazione.

Crisi nell’università?

Il cambiamento accelerato, che non dà la possibilità di es-


sere assimilato, produce dubbi e i dubbi producono crisi.
Viviamo in un contesto sociale che attualmente viene
denominato in tutti gli ambiti come una situazione di
“crisi”; crisi che ha iniziato a manifestarsi negli ambiti fi-
nanziari e che nelle sue conseguenze si mostra universale e
abbraccia e riguarda tutte le dimensioni, tanto quella poli-
tica, quanto quella sociale e culturale. Molti studiosi di di-
versi ambiti parlano anche di “crisi dei valori”, confer-
mando ciò che già da molto tempo si va radicando nel
campo dell’istruzione e della formazione delle persone. È
una crisi dove si pensa più all’avere che all’essere. Ad ogni
modo la crisi ci parla di un vero conflitto sociale che siamo
chiamati a considerare ed affrontare per cercare vie per una

104
vera risposta, sapendo che la soluzione non è solo nelle mi-
sure economiche, ma in una nuova impostazione della so-
cietà, che passa per molti vettori e dimensioni, per i valori
essenziali che l’essere umano deve assumere e mantenere.
Tra questi consideriamo fondamentale quello che si riferi-
sce al lavoro e alla professione, e ci preoccupano gli stu-
denti universitari, che si stanno formando nelle nostre aule,
se non assumono questi valori fondamentali e non centrano
la loro formazione su concetti puri.
Ma prima di addentarci nella questione degli studenti e
del loro futuro professionale, bisogna fare una riflessione
profonda sul lavoro umano e sul senso della vita. All’interno
della crisi globalizzata che attualmente viviamo, esiste di
fondo un gran conflitto sociale, determinato dal concetto
di lavoro e di persona che sta alla base della comprensione
del mondo attuale, del professionista e della sua etica, e al
quale siamo arrivati in un processo sociale e culturale e in-
sieme anche economico. Suddetto modello sta influenzando
le motivazioni e gli atteggiamenti che i giovani hanno nei
confronti dello studio universitario e anche le loro future
aspirazioni professionali. Per questo ci sembra pertinente
ed urgente che l’università pensi ad alcune riflessioni sul
senso e la motivazione allo studio nei giovani studenti uni-
versitari. Nell’università si preparano i futuri professionisti
che si occuperanno della realtà sociale, culturale, economica
e scientifica, e nello studio che proponiamo daremo o meno
una risposta ad un modo di interpretare e di costruire la re-
altà. Analizzare ed approfondire questi temi è compito e
responsabilità dei professori universitari. Inoltre, è ciò che
sta richiedendo il processo di Bologna, quando nel sotto-
porci lo sviluppo di competenze trasversali, fa riferimento

105
all’“etica come una di quelle”21. Il desiderio di un’università
legata alla realtà, che sviluppi competenze etiche nei suoi
studenti in relazione alla realtà sociale, come indicano le di-
rettive dello studio superiore, è essenziale.
L’università non può non occuparsi delle attività e dei bi-
sogni sociali. Così potremmo dire che il valore interno gene-
rale dell’università è il “soddisfare le necessità umane con
qualità”; quello dell’ingegneria è “progettare prodotti adeguati
per offrire servizi alla società”; quello della sanità “la salute
umana in generale, la qualità della vita e il bene del paziente”;
quello delle biotecnologie è la ricerca in favore di “una uma-
nità più libera e felice”; quello della politica “il bene comune
dei cittadini”; quello della docenza “la trasmissione della cul-
tura e la formazione di persone critiche”. Chi svolge una di
queste attività non può prefiggersi una meta qualsiasi, ma
quella che gli viene data, la stessa che conferisce alla sua
azione senso e legittimità sociale22.

21
È questione centrale dell’istruzione quella che si riferisce trasversalmente
alla struttura morale della persona – della quale ci parla ZUBIRI – e la stessa
morale come contenuto che deve essere continuamente riflessa nelle variabilità
e nelle problematiche attuali. Cf. ARANGUREN J.L., Etica, Revista di Occidente,
Madrid 1958, p. 63ss e 237 ss. Nello stesso ambito troviamo opere che già con-
sideriamo classiche come le seguenti: ARANGUREN J.L., Propuestas eticas, Tecnos,
Madrid 1983; CAMPS V., La imaginacion etica, , Seix Barral, Barcelona 198; COR-
TINA A., Etica minima, Tecnos, Madrid 1986; FRANKENA W., Etica, Uteha, Me-
xico 1965; SAVATER F., Invitacion a la etica, Anagrama, Barcelona 1982.
22
CORTINA A. - CONILL J. - GARCIA MARZA A.D., Etica de la empresa, Trotta,
Madrid 2003.

106
Il cambiamento

Se l’università non può mettere da parte i bisogni sociali,


ci domandiamo: cos’è l’essenziale che ci permette di rimanere
noi stessi? Oppure: esistono realtà nell’istruzione che deb-
bano rimanere significative nonostante cambi tutto quello che
c’è intorno a noi?
Pensiamo che debba avere valori più o meno immutabili,
ma quali e come esprimerli? Forse abbiamo in mente
un’istruzione legata a valori essenziali e limiti che permetta
di comprendere i cambiamenti ed evitare una pedagogia
dell’insicurezza e del dubbio. Il dubbio è necessario per il
progresso. Scienziati come Copernico e Galileo si converti-
rono in bersaglio sociale della loro epoca perchè misero in
dubbio le certezze del loro tempo, non perchè presentarono
sistemi alternativi di valori, ma perchè presentarono visioni
alternative delle realtà, dei fatti e delle cause. “I valori non
si devono confondere con i significati delle realtà”, diceva
Viktor E. Frankl a questo proposito.
E Karl Popper affermava che: “bisogna passare dal
mondo due al mondo tre”; il mondo “uno” è il mondo fi-
sico, il mondo della realtà. Il mondo “due” è il mondo men-
tale, il mondo delle idee, delle conoscenze, delle esperienze,
delle forze e debolezze personali, dei profitti e delle perdite
che costituiscono il nostro mondo. Il mondo “tre” è il
mondo della scienza, della ricerca, della conoscenza, della
saggezza. Un mondo, questo, a cui solo gli esseri umani
hanno accesso.
Gli esseri umani hanno una ricchezza specifica. A diffe-
renza del resto degli altri animali, siamo non solo biologia,
ma fondamentalmente psicologia e cultura. Siamo ciò che de-

107
nominiamo un tutto bio-psico-sociale. E la Psicologia e la
Cultura (il sociale) modificano la biologia.
L’etologia pronostica, quasi con esatta certezza, tutti i
ritmi e i processi degli animali: il funzionamento istintivo o
condizionato; predice i comportamenti, l’età massima di vita
e il limite della fertilità. Nella specie umana la biologia è at-
taccata alla ruota della realtà, il mondo “uno” di Popper, ma
è una biologia molto condizionata, modificata e cambiata
dalla psicologia e la cultura. E questo è ciò che fa sì che cambi
la nostra previsione della vita.
O, come dice Bruner, “la condizione umana, dato il suo
carattere poliedrico, non risulta facile da comprendere. O
forse sarebbe meglio dire che può essere compresa in forme
molto diverse, modi che spesso appaiono incompatibili fra
loro. Perchè, in un senso profondo, la condizione umana è
plasmata dai limiti biologici che sono inerenti alla nostra na-
tura come organismi di specie che vivono in un mezzo fisico
determinato ma, allo stesso tempo, è plasmata anche dalla
grande ricchezza simbolica delle culture che noi essere umani
costruiamo, e secondo le quali viviamo in comunità.
In realtà siamo l’unica specie che è allo stesso tempo li-
mitata biologicamente e liberata da questi limiti grazie alla no-
stra incredibile capacità di superarli grazie alla nostra capacità
di costruire “mondi possibili” che trascendono queste stesse
limitazioni o, in ogni caso, vanno al di là di quelle che sem-
brano limitazioni. Trascendiamo le leggi apparentemente ir-
reversibili della gravità inventando macchine che volano, o
andiamo più in là dei limiti delle nostre comunicazioni inter-
personali creando internet. In una parola, siamo ristretti dalla
nostra apparente biologia, ma ce ne liberiamo grazie alla no-
stra capacità di creare culture che rendono attuali i mondi

108
possibili che siamo stati in grado di immaginare. Non c’è altra
specie sulla faccia della Terra che viva questo dualismo. Le
nostre vite umane sono una dialettica interminabile tra queste
apparenti restrizioni e le possibilità immaginabili23.

La contraddizione

La metafora o il significato reale del linguaggio, che sicu-


ramente meglio caratterizza questi ultimi momenti del nostro
tempo, passato ormai il XX secolo e pochi anni dopo la fine
della prima decade del XXI secolo, è la contraddizione, l’op-
posizione simultanea tra i principi di certezza e dubbio, di si-
curezza e incertezza nell’istruzione, di valori che si cercano e
valori che si temono o si rifiutano. Tutto ciò che accade og-
gigiorno, possiamo affermare, ha le sue forze e le sue debo-
lezze e vive, quindi, in una possibile contraddizione. Quello
che oggi vale, varrà anche domani? È un dubbio, un’incer-
tezza, una preoccupazione, una contraddizione permanente.
L’idea di progresso, e il progresso di cui beneficiamo, ci
mostrano il lato positivo dello sviluppo e della tecnica, ma
allo stesso tempo, tutto questo convive con il disincanto delle
conseguenze negative che il progresso comporta. Lo scontro
fra ciò che deve essere e ciò che è sembra essere maggior-
mente presente nella nostra epoca che in qualsiasi altra. Se il
merito degli uomini si misura con la loro fedeltà ai valori che
si proclamano, la nostra epoca sicuramente è la più dubbia di
tutte quelle che l’essere umano ha vissuto, poiché tutto cam-
bia costantemente.
23
BRUNER J., Conferencia Congreso INFAD, 2014.

109
5.1 Il mito del progresso

La contraddizione sta nel fatto che credevamo che il pro-


gresso avrebbe risolto tutto e invece non è così, non esiste
l’eterna felicità, né la pillola dell’immortalità. Crediamo che
tutto ci sia possibile e vediamo che invece la realtà non ci per-
mette tutto. È come vivere in un mondo felice; ma il mondo
è felice?
Per dare un senso a quello che accade, narriamo storie e
creiamo miti sull’origine dell’ordine e inventiamo leggende e
credenze sull’integrazione degli esseri umani in questo ordine.
Il mito del progresso è il mito che presenta come migliore ciò
che a volte è secondario e con meno valore reale nella vita
umana. Il mito del progresso sottolinea che i migliori sono
quelli che trionfano, e quelli che trionfano ci impongono i
loro valori , in quanto si distinguono e prevalgono per la loro
vittoria. I buoni trionfano sempre perché quando non trion-
fano sono chiamati cattivi. Così creiamo la leggenda della ri-
cerca della felicità perduta (Lancillotto, Don Chisciotte, etc.)
che adorna con un alone di grandezza l’irrimediabile sconfitta
dell’individuo davanti a se stesso.
Tutto ciò come premessa per presentare i temi della cer-
tezza e del dubbio, del rischio e della sicurezza, di ciò che
cambia e di ciò che deve rimanere, in relazione all’istruzione.
La contraddizione sembra essere il segno distintivo di que-
sto clima culturale di ora e che i tedeschi chiamano “Stim-
mung”. Il tempo delle contraddizioni, degli stati d’animo
confusi, di questa disposizione, spirito, stato d’animo, am-
biente, tendenza di oggi invasa di dubbi e insicurezze.

110
5.2 L’improbabile come probabile

lI nostro ruolo di docenti, il nostro significato, il nostro


impegno, la nostra funzione si sono riempiti di incertezze e
rischi, sebbene siamo alla ricerca di certezze e sicurezza. Non
so se possiamo arrivare a definire la nostra società come una
società liquida dubbiosa, sfuggente, senza punti di riferimento
solidi in grado di mantenerla coerente, stabile, serena e capace
di essere fedele a se stessa. Beneficiamo di una società, quella
occidentale dei nostri giorni, dove quasi tutto è accessibile at-
traverso internet, dove tutti abbiamo un telefono cellulare che
ci dà sicurezze, dove ciò che è simultaneo e veloce è presente
e disponibile per tutti. Dove le reti sociali ci lasciano vedere
quello che chiediamo e desideriamo. Siamo di fronte ad una
società nella quale anche ciò che è improbabile sembra pro-
babile, dove il futuro è già presente, dove quasi tutto è imme-
diato davanti al nostro desiderio.
Siamo di fronte ad una società nella quale anche l’impro-
babile sembra probabile, una società nella quale credere nel
progresso significa credere che il progresso risolverà i pro-
blemi, o risolverà i danni che lo stesso progresso causa. Pro-
prio per questo, ma forse anche senza considerarlo, la nostra
società cerca la sicurezza, da cui è preoccupata ed ossessio-
nata. Intendiamo tutte le forme possibili di sicurezza che la
società desidera, da quelle garantite dallo stato di benessere
(salute, istruzione, lavoro, etc.) alle certezze relative alle norme
che servono a rendere più sicuri la vita, il contesto e il mondo.
Vivere e lavorare con sicurezza. Vivere e beneficiare della si-
curezza è l’obbiettivo di ognuno di noi oggigiorno. Tutto que-
sto coinvolge non solo l’istruzione ma anche la politica,
l’economia, la sanità, il controllo sociale e l’ordine, ma non

111
smetto di affermare che questi esigono sempre la partecipa-
zione e l’apporto fondamentale dell’istruzione.

5.3 Che significa istruire?

Se è così, la questione che ora si pone è: che significa


istruire? Qual è il ruolo dell’istruzione in questa società di
dubbi e incertezze, di cambiamenti accelerati e a volte non
ben controllati, ancora da accettare?
La nostra società moderna, postmoderna, agisce intenzio-
nalmente come una società in lotta contro i vincoli, i limiti,
gli obblighi, le norme, i princìpi, è una società prevalente-
mente di diritti. Mantiene un rifiuto quasi istintivo di qualsiasi
limite e dovere. Abbiamo paura di porre limiti e temiamo che
essi ci creino complessi. Ma forse ora siamo in un punto di
flessione e di fronte ad una possibile nuova riflessione. I gio-
vani vivono una nuova vita. L’uomo di oggi sente una ten-
denza indistruttibile verso l’idolatria del nuovo. Possiede la
facoltà di trasformare tutti i valori in idoli, la scienza in scien-
tismo, l’arte in estetismo, la nazionalità in nazionalismo, la
morale in moralismo. Questo significa postmodernità? Si
stanno oscurando i valori intimi del pensiero e nelle loro
forme annebbiate si scambiano gli uni per gli altri?
Ci tormenta il dubbio, e quasi affermiamo la certezza, che
in una società nella quale, come argomentò Benasayag y
Schmitt, “persino l’impensabile e l’impossibile diventano pos-
sibile”, non sarà necessario forse tornare a scoprire il valore
positivo dei limiti, dei controlli, delle norme e dei princìpi?
La capacità del pensabile come possibile alberga in se’ anche
il dubbio e la proibizione di considerarlo come impossibile.

112
Una società che rende possibile tutto il pensabile può cor-
rere il rischio di sparire per essere e vivere unicamente di il-
lusioni, progetti e fantasie. Come ha detto il grande pensatore
francese Ehrenberg, “se niente è realmente proibito, niente è
realmente possibile” o, che è lo stesso, quando non si ha un
limite tutto è illimitato, o più concretamente quando si ha
tutto non c’è possibilità di desiderare nulla. Questa è una delle
ragioni dell’infelicità e della depressione nelle società opulente
e potenti.
La depressione è la grande piaga del XXI secolo, diceva
alcuni anni fa la OMS (1982) e, se come pensava Freud,
l’uomo diventa nevrotico perché è incapace di resistere al
peso della frustrazione imposto dalla società, forse l’uomo di-
venta depresso e frustrato perché, in questa società di oggi,
deve sopportare l’illusione che tutto sia possibile sebbene lui
non lo raggiunga. La depressione è la patologia caratteristica
di una società nella quale la norma non si fonda sulla colpa o
la disciplina e al contrario l’autorealizzazione si basa sulla re-
sponsabilità e l’iniziativa. Sappiamo che una persona è sana
quando è aperta al futuro (a differenza della personalità de-
pressa, tutta incentrata sul passato e della personalità mania-
cale tutta incentrata unicamente sul presente).

Un’università per istruire


alla speranza e all’iniziativa

Gli educatori, siano essi genitori o i professori, sono i


guardiani della speranza e del cambiamento.
L’istruzione consiste nella discussione delle possibilità e
potenzialità della realtà per estrarre da essa gli apprendimenti.

113
Ma l’istruzione da sempre manca di certezze assolute, fa solo
domande e aspetta risposte. E in queste domande e risposte
l’istruzione corre sempre dei pericoli e deve imbarcarsi in “av-
venture” per affrontare le quali non bisogna viaggiare ad
occhi chiusi o essere soli. In queste “avventure” si deve sem-
pre avere un fedele compagno di viaggio. Il ruolo dell’istru-
zione è accompagnare lo studente in questa avventura di vita
e di crescita in un mondo tanto contraddittorio. Aiutare
l’uomo e avviarlo a questo percorso per trovare se stesso in
un cammino tanto contraddittorio.
Questo è, come abbiamo detto, il compito fondamentale
dell’istruzione, farci aprire al mondo nuovo. Istruire significa
chiarire i dubbi.
Istruzione è apprendere a vivere, apprendere ad appren-
dere, conoscere e imparare a conoscere, dubitare e appren-
dere ad uscire dal dubbio, combattere per la realizzazione dei
propri progetti vitali e per l’accesso alla piena realizzazione.
È necessario credere e creare un’istruzione dove non solo
siamo in grado di essere i custodi e i possessori delle cono-
scenze che creiamo vere, ma anche della speranza di trovare
soluzione alle incertezze.
L’istruzione è un’azione incerta basata su risultati incerti,
un intervento o una ricerca con risultati sconosciuti.
Fu Socrate che disse: “io so di non sapere”. Ma all’affer-
mare di “sapere di non sapere, già si sa qualcosa, perchè so
che non so nulla” – gli risponde Cartesio. Dal dubbio si esce,
con sforzo, verso la certezza. Questa è la saggezza.
La forza dell’istruzione risiede nella stessa capacità umana
che tutti abbiamo dalla nascita di arrivare ad essere. Que-
st’espressione “arrivare ad essere”, molto amata dai filosofi di
tutti i tempi, ci aiuta a definire il nostro compito educativo ed è

114
stata la grande filosofa Hanna Arendt24 a segnalare che
quell’“arrivare ad essere” era l’essenziale dell’essere umano. Seb-
bene “condannato a morte”, come lo definirono i filosofi esi-
stenzialisti, l’uomo ha una facoltà essenziale che è quella di
ricrearsi e arrivare ad essere. Nascere e formarsi. Il formare se
stessi è il principale obbligo che gli uomini hanno e di cui sono
capaci. Un qualcosa a cui siamo obbligati in virtù dell’essere nati
e attraverso il processo di assimilazione dei contenuti, attraverso
l’istruzione. Solo l’esperienza completa della realizzazione, di
questa potenzialità di formare se stessi può dare agli esseri
umani la speranza, la fiducia, la piena realizzazione. Questa ca-
pacità umana di realizzazione personale e mutevole, paragonata
ai processi autonomi, rigidi, freddi e insensibili delle macchine,
ci sembra sia il gran miracolo compiuto dall’istruzione.
Istruire è quindi aiutare ad uscire dai dubbi, dall’incer-
tezza. Offrire un compagno di viaggio. Il miracolo personale
consiste nell’essere se stessi, nell’esprimere il nostro proprio
criterio, nell’arricchirci di nuove conoscenze che, preceden-
temente estranee, facciamo indubbiamente nostre. L’istru-
zione ogni volta fa un miracolo quello dell’uomo che può
sperare l’insperato.

24
ARENDT H., nata come ARENDT J., (Linden-Limmer, oggi quartiere di
Hannover, Germania, il 14 Ottobre 1906, New York, Stati Uniti 4 Dicembre
1975) fu filosofa politica tedesca di origine giudea, una delle più influenti del
XX secolo. Ancora studiata come filosofa, in gran parte grazie alle sue discus-
sioni critiche su filosofi come SOCRATE - PLATONE - ARISTOTELE - KANT - HEI-
DEGGER - KASPERS, oltre a rappresentanti importanti della filosofia politica
moderna come Machiavelli e Montesquieu. In modo particolare grazie al suo
pensiero indipendente, la teoria del totalitarismo (Theorie Der Totalen Herrschaft),
le sue opere sulla filosofia esistenziale e la sua rivendicazione della discussione
politica libera, le conferiscono un ruolo centrale nei dibattiti contemporanei.

115
Maturare significa prendere iniziativa, crescere, essere se
stessi, essere sinceri con se stessi, essere etici. Questa è una
caratteristica iniziale e inerente all’essere umano. Da questo
punto di vista l’istruzione è come una rinascita. Nascere senza
che mi facciano nascere. Biologicamente “mi fecero nascere”,
personalmente “rinasco”, mi formo. L’istruzione come pos-
sibilità di dirigere ognuno la propria esistenza senza essere
marionette degli altri. L’istruzione ci deve aiutare ad acquisire
questa formazione base necessaria per sopravvivere da noi
stessi, ampliare e rinnovare le conoscenze, le abilità e le de-
strezze in modo permanente e a facilitarci l’accesso alle di-
stinte realtà della vita. Ai diversi insegnamenti del sistema
educativo. Ci deve preparare a far parte della società con una
qualifica professionale valida e ad acquisire una preparazione
per l’esercizio di una professione che dovremo svolgere con
rigore e “devozione”. Abbiamo detto “devozione”.
Riportiamo qui la frase di quel premio Nobel al quale gli
attenti studenti universitari chiesero, dopo la sua conferenza,
che cosa bisognava fare per arrivare ad essere Premio Nobel.
La risposta fu chiara e concisa:
1. “scegli un tema a cui sei devoto
2. sentiti forte di fronte a questo tema. Confida in te stesso.
Non essere convenzionale; fai qualcosa di nuovo e posi-
tivo. Inventa.”
L’istruzione ci deve aiutare a sviluppare le nostre capacità
personali negli ambiti espressivi, comunicativi, di relazione
interpersonale e di costruzione delle conoscenze; a rispondere
adeguatamente alle sfide della vita imposte dalla società, assi-
curando a tutte le persone la possibilità di mettere in atto le
proprie competenze. Ci deve aiutare a sottoporre a giudizio
critico quanto letto, ad essere in grado di contrastare quanto

116
ascoltato e persino le nostre stesse certezze con altre fonti
esterne per arrivare in seguito a conclusioni proprie e perso-
nali. L’istruzione ci deve aiutare a comunicare con chiarezza,
efficacia e rigore; ad essere prudenti nell’uso dell’informa-
zione e delle conoscenze che possediamo; ad essere capaci di
presentare le proprie idee ed indagare su quelle degli altri.
L’istruzione ci deve aiutare ad avere una visione non et-
nocentrica del mondo che ci circonda, ad essere creativi, ad
essere esploratori degli ambienti circostanti, in qualsiasi delle
sue manifestazioni. A non essere solo spettatori, ma anche
autori. L’istruzione ci deve portare a non rimanere al margine,
passivi o meri critici di ciò che gli altri fanno. Dobbiamo coin-
volgerci. L’uomo creativo deve uscire dalla massa anonima.
Ha la capacità di dissentire, di accettare le conseguenze del-
l’essere controcorrente, di accettare il fatto di passare per sco-
modo. Non si lascia forgiare, né manipolare. Gli piace
l’impavida avventura. Possiede una personale gerarchia di va-
lori. Mette in discussione costantemente la realtà. Va al di là
delle apparenze. L’uomo non può vivere senza valori, poiché
senza di quelli manca di motivi per scegliere tra un compor-
tamento e il suo opposto.
Nella società di oggi, così mutevole e rapida, inondare di
informazioni gli studenti, non significa aiutarli a fare di loro
menti pensanti. Nell’attuale società la conoscenza rapida e
immediata è a nostra portata grazie ad internet e ai social net-
work, ma queste indeboliscono le capacità di relazione sociale
e gli scambi personali. Vale a dire che sicuramente nella so-
cietà attuale non è tanto importante saper risolvere i problemi,
quanto saper che problemi dobbiamo risolvere.
In passato bisognava essere preparati alla routine, alle abi-
tudine, all’automatizzazione, alla rigidità dei procedimenti e

117
dei processi lenti. Nel nostro tempo sono i processi rapidi, i
cambiamenti in base alle circostanze quelli che predominano,
e che sono molto più difficili da gestire per la loro comples-
sità. Per affrontare questo tipo di sfide c’è bisogno di una ca-
pacità di apprendere lungo tutta la vita, di risolvere problemi
con prontezza e efficienza, di apprendere ad apprendere e
pensare con spirito critico.
Il pensatore critico sviluppa capacità e valori che gli per-
mettono di essere valutato e di autovalutarsi per costruire
nuovi apprendimenti, dare soluzioni alle difficoltà incontrate
e proporre alternative, oltre a possedere un alto livello di adat-
tamento per confrontarsi con questi cambiamenti sociali.
Questo è il ruolo fondamentale dell’università, è aiutare
ed insegnare ad esaminare criticamente l’informazione che
si riceve per decidere liberamente cosa pensare e che fare.
Tutto questo mira ad una prospettiva nuova e diversa nel-
l’istruzione, come è quella delle priorità. Saper distinguere
ciò che è importante da quello che non lo è. Quello per cui
vale la pena e ciò che è solo apparenza; quello che merita
sforzo, da ciò che non lo merita. Ciò che cambia e ciò che
rimane. Questo significa aiutare a maturare da un punto di
vista riflessivo, critico e positivo.
L’istruzione è questo e più di questo. È ciò che ci dà cer-
tezza e forza. Quello che ci fornisce la fiducia base nella vita
per sentirci esseri realizzati. Ci fa essere onesti e giusti con
maturità ed equilibrio. Una persona raggiunge la maturità
quando stabilisce una scala di valori positiva. Questo è, di
conseguenza, uno dei compiti fondamentali dell’università.

118
L’ANALISI ESISTENZIALE FRANKLIANA
E LA PROSPETTIVA PEDAGOGICA

Furio Pesci

Considerazioni introduttive

L’opera di Frankl è incentrata sulla questione del signifi-


cato, in particolare sul senso della vita nel suo complesso e
sul senso che ciascun individuo coglie nella propria esistenza
personale.
La sua opera è raccolta in oltre trenta libri, molti dei quali
furono tradotti in varie lingue. Tra questi, i principali sono
divenuti celebri nelle loro edizioni in lingua inglese: The Doctor
and the Soul, Man’s Search for Meaning e Psychotherapy and Exi-
stentialism. Già dai titoli si può cogliere qualche aspetto signi-
ficativo dell’impostazione frankliana. Il primo testo, nella sua
formulazione inglese, fa, quasi curiosamente, riferimento al-
l’anima, piuttosto che alla psiche, in qualche modo sfidando
le consuetudini del linguaggio scientifico e le convenzioni di
un establishment accademico da almeno un secolo sincera-
mente impegnato in uno sforzo di definizione dell’oggetto
e dell’ambito di ricerca proprio di una scienza come la psi-
cologia, continuamente tesa ad affrancarsi dalle sue origini
filosofiche e volta a delimitare il terreno d’indagine rispetto
FURIO PESCI, Sapienza Università di Roma.

119
a ciò che è osservabile empiricamente e sperimentalmente.
Il richiamo all’anima, per quanto giustificato da una scelta
editoriale che richiamasse l’attenzione del lettore al di là delle
specificità disciplinari, è comunque indicativo del fatto che la
visione frankliana dell’uomo, senza ricadere nei dualismi della
tradizione spiritualistica occidentale, cerca di evitare anche le
aporie della psicologia scientifica, tentando di recuperare una
visione unitaria dell’uomo, più profonda e completa. La sua
posizione, ispirata da una personale rielaborazione del me-
todo e di temi portanti della fenomenologia è, quindi, anno-
verabile tra quelle sostenute nella seconda metà del
Novecento dalla psicologia umanistica e da quella esistenzia-
listica, anche se occorre specificare ulteriormente questi rife-
rimenti e il significato che hanno nell’economia della visione
entropologica frankliana (Bulka, 1979).
Per Frankl l’analisi esistenziale e la logoterapia sono com-
plementi adatti alle terapie di vario orientamento metodolo-
gico, anche di matrice diversa da quella fenomenologica; si
tratta di un aspetto rilevante del pensiero e dell’opera dello
psichiatra austriaco. In effetti, oltre ad aver sempre ricono-
sciuto il proprio debito nei confronti di Freud e Adler, la sua
impostazione non ha mai avuto, a differenza di altre, pretese
di esclusività.
È famosa l’espressione usata da Frankl stesso per situare
la propria posizione rispetto a quelle dei suoi “maestri”: si
definiva come “un nano sulle spalle di due giganti”, con la
precisazione che, tuttavia, pur essendo più piccolo, il nano
in quella posizione avrebbe potuto vedere più lontano degli
stessi giganti. Questa espressione indica chiaramente come
per Frankl l’impostazione freudiana stessa abbia avuto una
sua precisa ragion d’essere e rivesta (ancora oggi, si potrebbe

120
dire) un significato non soltanto storico; lo stesso potrebbe
valere anche per la psicologia individuale di matrice adle-
riana, i cui costrutti teorici ed euristici non sono da abban-
donare, ma piuttosto da integrare, come dimostra la stessa
vicenda di Frankl, che, prima dell’espulsione dalla società
degli adleriani, pensava di poter integrare la psicologia indi-
viduale con quel complemento filosofico che diede alla
“sua” analisi esistenziale.
Con il riferimento all’antropologia filosofica di Scheler,
Frankl intendeva, infatti, “riumanizzare” (per usare la sua
espressione preferita) la psicoterapia stessa; la sua formazione
medica non gli impediva, in effetti, di cogliere i limiti di questa
impostazione e, in genere, della psichiatria del suo tempo, ri-
spetto alla complessità della vita mentale e dei suoi disturbi.
Occorreva, anche in questo caso, non un abbandono dell’im-
postazione medica (pur rifiutando, in sostanza, nei lavori della
maturità, qualsiasi “medicalizzazione” eccessiva della stessa
terapia), quanto, piuttosto, una sua “comprensione” alla luce
di un’antropologia adeguata (Frankl, 1980).
Frankl, al fine di giungere a definire questa impostazione
antropologica e di porla a fondamento di un lavoro clinico
che avrebbe potuto procedere ecletticamente, seguendo me-
todi e pratiche molteplici, purché congruenti con l’imposta-
zione antropologica stessa, pensava che si potesse arrivare a
questo risultato attraverso un lavoro esplicito sulla dimen-
sione “spirituale”, in ciò riconoscendo l’esigenza di una vera
e propria “sfida” nei confronti di impostazioni altrimenti
sorde a qualsiasi dialogo interdisciplinare.
Su questo piano occorre aggiungere che Frankl si trovava
in buona compagnia, all’epoca, dato che altri avevano indivi-
duato lo stesso nodo problematico; si potrebbe citare, qui, Ja-

121
spers, autore di una Psicopatologia generale in cui il dialogo tra la
psichiatria e la filosofia stessa era in primo piano al punto da
rappresentare una costante in due direzioni, nel senso che
non soltanto la filosofia influenza, nell’opera di Jaspers, il la-
voro psichiatrico, ma anche lo stesso lavoro psichiatrico for-
nisce il proprio contributo all’indagine filosofica.
Jaspers, più di altri esponenti della psicologia fenomenolo-
gico-esistenziale, è un utile confronto per comprendere Frankl
anche al riguardo specificamente del riferimento alla dimen-
sione spirituale dell’essere umano e della vita mentale; questa
dimensione consiste e si esprime essenzialmente nella capacità
di decisione, di assumere la propria responsabilità e di trovare
il significato della vita, per usare le espressioni frankliane, in
questo molto affini con le analoghe scelte espressive compiute
da Jaspers per descrivere la realtà psicopatologica evitando i
“riduzionismi” denunciati da questo filosofo tanto sul piano
scientifico quanto su quello antropologico; la sua opposizione
all’impostazione positivistica, allora imperante, ed anche a
quella psicoanalitica, per altri motivi ugualmente incapace di
cogliere l’integrità dell’essere umano, saranno temi che, a par-
tire dall’opera psichiatrica (la prima, in effetti, di Jaspers) per-
correranno tutto il percorso speculativo del filosofo svizzero.

Lo spirito

Come essere spirituale, il fine primario dell’uomo non è il


piacere, alla maniera freudiana, né il potere, come per Adler,
ma una comprensione della propria esistenza, specialmente
nella sofferenza, per riuscire a dare compimento a se stessi
come persone libere (Twedie, 1963) . La volontà di significato

122
è considerata da Frankl la prima e più importante motivazione
dell’agire. L’analisi esistenziale e la logoterapia offrono, con
il loro fondamento filosofico, una concezione antropologica
adeguata e metodi utili per la prevenzione e la terapia di mol-
teplici disturbi.
Il riferimento allo spirito è per lo psichiatra austriaco la
via per descrivere, anzitutto, il fatto che l’essere umano coglie
nella realtà una dimensione di senso (il “logos”, appunto) at-
traverso segni e simboli in base ai quali la realtà stessa, per
così dire, si “amplifica” rispetto alla pura datità materiale e
biofisiologica; anche la dimensione psichica si allarga, allorché
si fa presente questa dilatazione dell’esperienza e del mondo
vissuto alla coscienza del singolo.
Lo scopo della vita non è la realizzazione di sé, o autorea-
lizzazione, secondo una maniera di pensare oggi ampiamente
diffusa, ma piuttosto ciò che nell’analisi esistenziale si indica
con la parola “autotrascendenza”: l’essere umano, quando la
sua formazione e la sua esistenza non sono influenzate nega-
tivamente e, in definitiva, deviate da condizionamenti indesi-
derabili, legati per lo più agli standard della vita associata, dal
consumismo, dal conformismo, ecc. non desidera realizzare
se stesso, cosa che sarebbe, a ben pensarci, una contraddi-
zione in termini, quanto piuttosto trascendere, superare, an-
dare al di là di e oltre se stesso.
La volontà di significato è considerata da Frankl la prima
e più importante motivazione dell’agire; è su questa convin-
zione, suffragata da un’ampia messe di dati che possono es-
sere confermati anche dalla stessa esperienza di vita
quotidiana, che si fonda l’intero edificio teorico dell’analisi
esitenziale ed anche la stessa possibilità del miglioramento e
della guarigione sul piano terapeutico vero e proprio.

123
L’analisi esistenziale e la logoterapia offrono, con il loro
fondamento filosofico, una concezione antropologica ade-
guata e metodi utili per la prevenzione e la terapia di molte-
plici disturbi. L’uomo “vuole” che la propria vita abbia un
significato, vuole trovare questo significato nella propria vita
intesa come un tutto e nei singoli momenti che la costitui-
scono, come anche nelle piccole scelte che colorano la vita di
tutti i giorni; l’uomo è, di conseguenza, definibile come l’es-
sere che cerca il significato, secondo una visione che è certa-
mente comune ai maggiori rappresentanti della filosofia
d’impostazione fenomenologico-esistenziale ed anche di altro
orientamento (si pensi alla riflessione di Charles Taylor sulla
dimensione simbolica della vita mentale e sociale – per esem-
pio nelle parti introduttive di Taylor, 2007).
Da questa veduta antropologica derivano le scelte com-
piute da Frankl e dai suoi seguaci e continuatori in campo cli-
nico; come s’è già accennato, la logoterapia non ha dato vita
ad impostazioni e pratiche specifiche in questo campo, ma
piuttosto ha puntato a costituire lo sfondo, appunto, antro-
pologico entro il quale l’analista può collocare il proprio la-
voro interpretativo e diagnostico ed il suo impegno in vista
del cambiamento auspicato delle coordinate entro le quali il
singolo paziente concepisce la propria esistenza e i propri
problemi, per la loro risoluzione.
Più specificamente, i due metodi elaborati e descritti da
Frankl come apporto specifico della sua impostazione al la-
voro clinico sono l’intenzione paradossa e la dereflessione. La
prima consiste nella ricerca intenzionale, ironica e scherzosa,
di ciò che si teme o che fa paura e si è dimostrata utile nel trat-
tamento della paura e di certe fobie, mentre la seconda è intesa
come concentrazione da parte del paziente sul significato di

124
certi atti, specialmente nella sfera sessuale, invece e in sostitu-
zione dei pensieri che generano ansie e disordini specifici.
L’approccio fenomenologico dell’analisi esistenziale è
stato ulteriormente sviluppato dai continuatori dell’opera di
Frankl, non soltanto nei Paesi di lingua tedesca, così come si
sono aggiunti in anni recenti contributi di carattere pratico e
specificamente metodologico. Si possono ricordare, qui, i
nomi di Eugenio Fizzotti, Elisabeth Lukas, Alfred Langle, che
hanno anche integrato con apporti originali di varia ispira-
zione la stessa visione antropologica frankliana; in anni recenti
sono apparsi inquadramenti complessivi sull’analisi esisten-
ziale tanto sul versante teorico che su quello pratico-clinico,
ad opera di autori come, in Italia, Domenico Bellantoni e Da-
niele Bruzzone.
L’opera di Frankl, collegando strettamente la questione
del significato della vita a quella dei valori, mette in evidenza
il carattere antropologico ed etico della prospettiva analitico-
esistenziale, nel senso che, effettivamente, molto più che qual-
siasi altra tendenza o posizione psicologica e psicoterapeutica,
quella frankliana insiste sul significato esistenziale dello stesso
disturbo psichico. La psicoterapia non è una mera tecnica, né
il paziente, come del resto lo stesso terapeuta, può essere trat-
tato semplicemente come un “caso”; nel rapporto terapeutico
entrano il gioco tutti i fattori dell’esperienza delle relazioni in-
terpersonali e la prospettiva etica appare necessaria per com-
prendere pienamente il dramma in atto in ogni vita umana,
alla ricerca del proprio significato, spesso in bilico di fronte
alla possibilità del “vuoto” esistenziale, che può essere evitato
soltanto rinvenendo nell’esperienza personale quei valori che
la fondano e rispetto ai quali ogni momento trova la sua pie-
nezza e la sua bellezza (Fabry, 1980).

125
Per questa sua intonazione, è lecito sostenere che la logo-
terapia, oggi, nel panorama delle scienze dell’uomo, è molto
attuale e che la riflessione frankliana sull’esistenza sia ancora
pienamente fertile; anzi, l’insistenza di Frankl sull’oggettività
dei valori, ripresa dalla sua lettura di Scheler, con la sua etica
“materiale”, meriterebbe di essere nuovamente discussa per
fornire questi saperi di un fondamento più forte.

Umanità

Occorre, allora, un “tocco” d’umanità che l’opera di


Frankl sembra aver costantemente tentato di rinvigorire tra
gli “specialisti”, spesso sfidando le convenzioni del “politica-
mente” corretto in ambito scientifico. Le teorie variamente
dedicate alla “complessità”, il decostruzionismo che si è af-
fermato nelle scienze umanistiche anche a scapito di orienta-
menti fino alla fine del secolo scorso ampiamente consolidati,
come l’ermeneutica, non sfuggono a questo genere di critica,
perché anch’essi sono responsabili di quella “eclissi del-
l’umano” che sembra oggi voler giustificare teoreticamente
un mondo in cui i valori economici e, quindi, utilitaristici pre-
dominano, oscurando la consapevolezza che la vita umana è
inestimabile e che i principi etici fondamentali non sono ne-
goziabili.
In questi casi è necessario fare riferimento ad una sorta di
“riverenza ai fatti”, a cui si appellava lo stesso Frankl, nel
senso che la realtà è oggettiva e che la soggettività inevitabile
delle singole prospettive, inclusa la stessa analisi esistenziale,
non deve prendere il sopravvento al punto di cancellare la
consapevolezza che la verità non si “costruisce”, come un

126
certo gergo filosofico e psicologico vorrebbe far credere, ma
si “trova”, per usare un’espressione fortunata dello stesso
Frankl; ciò vale, in particolare, per quanto riguarda la morale
e i valori, così di frequente in primo piano nel quadro degli
interventi psicopedagogici.
L’analisi esistenziale è, dunque, adeguata ad affrontare
sfide presenti nel nostro tempo, perché ricorda agli “esperti”
le implicanze metacliniche della psicoterapia; al di là dello spe-
cifico clinico, infatti, le stesse situazioni che si incontrano nella
pratica specifica non possono trovare adeguata risoluzione, e
nemmeno comprensione, senza fare riferimento a dimensioni
ulteriori che implicano assunzioni di principio che, per nulla
aprioristiche, né astratte, servono ad inquadrare la stessa pro-
spettiva del cambiamento desiderato o invocato dai soggetti
interessati e coinvolti. Analoghe considerazioni emergono
nell’ambito educativo e, si potrebbe dire, anche nel più vasto
ambito degli studi umanistici nel loro complesso.
Tra gli assunti frankliani che meritano di essere ricordati a
questo proposito è innanzitutto da ricordare la libertà della vo-
lontà; l’essere umano è, per lo psichiatra svizzero, essenzial-
mente caratterizzato dalla sua libertà (Frankl, 1980) . Questa è
un’affermazione che si scontra con una lunga tradizione an-
tropologica presente nella visione dell’uomo che le scienze
dell’uomo, quando si sono concepite come scienze naturali,
hanno poderosamente affermato tra la fine dell’Ottocento e
tutto il Novecento. L’uomo sarebbe, invece, secondo questa
visione prevalente, frutto dell’interazione con l’ambiente, de-
terminato dalle sue reazioni a stimoli comunque esterni e la li-
bertà, in questo contesto argomentativo, finisce per risultare
un costrutto pressoché incomprensibile e privo di significato.
Tutta la tradizione sapienziale e filosofica dell’umanità è stata,

127
su questo punto, revocata in dubbio da queste scienze, che si
sono arrogate competenze non loro, compiendo un’operazione
epistemologicamente ingiustificata e metodologicamente de-
bole, ma che ha incontrato grande successo anche nell’opinione
pubblica, contribuendo in maniera decisiva alla disumanizza-
zione del mondo contemporaneo attraverso l’uso predomi-
nante delle tecnologie e delle procedure standardizzate.

Il confronto con la psicologia scientifica statunitense

L’analisi esistenziale incontrò sul suo cammino, special-


mente negli Stati Uniti, già al suo sorgere, lo strapotere del
comportamentismo nelle sue varie versioni. Oggi quella sta-
gione della storia della psicologia è tramontata ed il paradigma
comportamentistico è stato sostituito dalla pluralità degli
orientamenti cognitivistici e costruzionistici, ma il clima cul-
turale appare per più versi simile ed il richiamo a questa verità,
tanto evidente all’uomo nella quotidianità dei suoi atti, quanto
guardata con sospetto e considerata pericolosa sul piano po-
litico, richiede di non dimenticare completamente coloro che
con coraggio ne hanno fatto l’oggetto specifico, e talvolta
anche il centro, del loro lavoro di ricerca.
Negli ultimi vent’anni circa si è affermato, grazie all’opera,
già menzionata, di psicologi statunitensi come Martin Selig-
man, un indirizzo di studi che programmaticamente insiste
sulla necessità di superare l’approccio “clinico” alla compren-
sione dell’uomo nella sua totalità e nella sua positività, per
giungere ad elaborare una scienza, appunto, “positiva” del-
l’uomo, quella positive psychology che programmaticamente è
stata posta al centro di un ambizioso programma di ricerche

128
oggi in sviluppo in tutto il mondo. È interessante notare
come, all’interno di questa corrente di studi, sia ben visibile
lo sforzo di ridefinire l’immagine dell’uomo che la psicologia
offre ai suoi cultori ed anche ai cosiddetti “profani”, alla luce
della sua intrinseca “libertà”, senza la quale né il cambiamento
psicoterapeutico, né il comportamento “sano” e “normale”
risulterebbero comprensibili. Per non parlare del carattere au-
tenticamente enigmatico che assumerebbero questioni come
la felicità e la vita buona.
Una delle manifestazioni più chiare della libertà dell’uomo
è, sul piano strettamente fenomenico, il fatto che l’uomo può
distanziarsi da se stesso; questa sua capacità di “osservarsi”,
di mettersi, entro certi limiti, nei panni degli altri, di provare
empatia, di riflettere su se stesso, sulla propria situazione, sui
propri comportamenti, è per Frankl la dimostrazione di una
condizione ontologica che rende l’uomo un essere non assi-
milabile agli animali e la sua vita mentale incomprensibile nel
quadro di una concezione puramente naturalistica.
Si tratta, come si vede, di una concezione esigente che
vuole impedire lo smarrimento della visione scientifica del-
l’uomo sganciata da un’antropologia adeguata; lo specifico
umano consiste nella capacità dell’uomo di trascendere se
stesso, secondo l’espressione frankliana, che usa il termine
“autotrascendenza”, appunto, ad indicare tutta la gamma di
fenomeni che, per un verso, non sono comprensibili alla luce
di una visuale riduzionistica e che, per un altro verso, è ne-
cessario mantenere nel focus dell’attenzione per costruire tanto
una teoria comprensiva quanto per determinare il cambia-
mento terapeutico nelle direzioni auspicate (Frankl, 1985c).
Frankl è attento anche a segnalare i pericoli della genera-
lizzazione, tanto nel senso del riduzionismo naturalistico,

129
quanto nel senso di un’esasperazione altrettanto unilaterale
del ruolo svolto dall’elemento, per così dire, spirituale nel-
l’agire dell’uomo “sano” e nella genesi e nello sviluppo del di-
sturbo mentale propriamente detto. Lo psichiatra austriaco,
in realtà, è alieno da qualsiasi tendenza generalizzatrice e la
sua analisi esistenziale sembra propendere per quell’orienta-
mento “idiografico” che la fenomenologia applicata alle
scienze umane privilegia nella consapevolezza dell’irriducibi-
lità delle differenze individuali, pur nel quadro della necessità
di una visione antropologica complessiva.
In particolare, Frankl insiste sull’esigenza di una nuova
ontologia; certamente, non si tratta di un impegno specifica-
mente filosofico. Si potrebbe dire, anzi, che l’analisi esisten-
ziale, sollecitata da premesse di carattere filosofico, nella sua
concretezza pratica rimanda al lavoro dei filosofi il compito
di approfondire gli strumenti concettuali idonei a questa im-
presa. Frankl parla, dal canto suo, di “ontologia dimensio-
nale”, intendendo con questa espressione la compresenza,
nella complessità dell’essere umano, di una pluralità di livelli,
di una sorta di stratificazione tanto dell’agire, quanto del pen-
siero (Kovacs, 1982).
Nella visione dell’analisi esistenziale frankliana l’uomo è
effettivamente un essere a più dimensioni, ed avrebbe ancora
senso parlare delle dimensioni vegetale, animale, psichica e
spirituale care alla tradizione filosofica occidentale, ad una
parte significativa dei saperi sapienziali dell’umanità nel suo
complesso, e d’altronde non incompatibili nemmeno con l’in-
tento delle scienze umane di comprendere sulla base di un
metodo rigoroso il loro oggetto specifico d’indagine.

130
Consapevolezze perdute

La perdita della consapevolezza della pluridimensionalità


dell’essere umano porta con sé il pericolo di grandi ambiguità
nella visione di sé che l’uomo contemporaneo e, specialmente,
le scienze umane coltivano; alla sua apparizione divenne ce-
lebre il grafico cartesiano su tre dimensioni che Frankl ideò
per spiegare la propria idea, mostrando che la proiezione del-
l’immagine su soltanto due dimensioni inevitabilmente com-
porta un appiattimento complessivo della prospettiva senza
più la possibilità di ricostruirla nella sua interezza e nella
forma vera.
Strettamente connesso a questo rischio d’ambiguità è il
pericolo di una perdita di rispetto per la persona umana da
parte dell’uomo stesso; quanto siano attuali queste preoccu-
pazioni che Frankl formulò circa cinquant’anni fa, è dimo-
strato dalla cronaca pressoché quotidiana delle scoperte
scientifiche, in particolar modo nel campo degli studi sul ge-
noma, delle biotecnologie e delle loro future applicazioni,
oltre che dal dibattito drammatico a proposito delle questioni
più scottanti di bioetica, allorché si fa strada una visione del-
l’essere umano e della vita che utilitaristicamente pone come
obiettivo primario la mera ricerca del piacere e l’evitamento
del dolore e della sofferenza, fino a smarrire il senso di queste
ultime due componenti della vita, che, se non da ricercare –
è chiaro – sono tuttavia anch’esse cariche di significato.
Per Frankl l’autotrascendenza è un fenomeno umano, anzi
è ciò che caratterizza l’uomo in tutta la sua vita e in tutte le
sue azioni. Per autotrascendenza, come ho già accennato, lo
psichiatra viennese intende la tendenza tipicamente umana, e
solamente umana, a trascendere i limiti della datità del reale,

131
lo stesso principio dell’omeostasi, così assolutamente valido,
almeno in apparenza, per spiegare il comportamento animale
e, in genere, della natura, ma che nell’uomo finisce per fallire
miseramente davanti alla complessità delle motivazioni e delle
finalità dell’agire.
Nessun atto propriamente umano si spiega con il riferi-
mento alla ricerca del piacere o dell’alleviamento delle tensioni
vitali. Al contrario, ciascun individuo nella propria vita speri-
menta momenti e situazioni in cui le sue motivazioni e i suoi
obiettivi prescindono addirittura dal piacere ed anche dalla ri-
cerca della felicità nei suoi presupposti materiali. In Frankl,
in realtà, troviamo una profonda consapevolezza al riguardo,
sulla quale è stata in anni recenti imbastita con successo una
teoria dell’educazione (p. es. ad opera di Daniele Bruzzone)
e che è stata ripresa specificamente dalla positive psychology, in-
dividuando proprio in Frankl uno dei principali antesignani
di questo indirizzo di ricerca, ormai tra i maggiori, anche se
gli sviluppi dell’indagine sulla felicità da parte della psicologia
positiva non sempre coincidono con la visione frankliana (cf.
almeno Seligman, 2009).
Sostanzialmente, il lettore può trovare negli scritti princi-
pali di Frankl una costante critica al principio del piacere, che
può essere assunta come il filo conduttore del suo distanzia-
mento dagli altri indirizzi psicoanalitici e psicoterapeutici. La
critica a Freud e ad Adler parte dal presupposto che non sol-
tanto il principio del piacere, ma anche la volontà di potenza
non spiegano il comportamento umano nelle sue istanze più
profonde, peculiari e veritiere.
Già nei suoi scritti sulla vita nei campi di concentramento
Frankl aveva ampiamente denunciato l’incapacità della psico-
logia scientifica nel suo complesso, anche nelle sue versioni

132
americane, in particolare di matrice funzionalistica e compor-
tamentistica, di spiegare fatti evidenti come la persistente vo-
lontà di vivere e di sopravvivere in condizioni assurdamente
disumane da parte dei prigionieri. Se è vero che nell’uomo si
può cogliere un desiderio di affermazione che ogni individuo
prova e che si può riscontrare anche nei gruppi sociali, questi
fenomeni non riescono, tuttavia, a rendere conto di quei gesti
e di quegli atti (come, si potrebbe dire, un semplice dono di-
sinteressato) che riempiono quotidianamente la vita delle per-
sone (cf. Peterson, 2009).
Nel comportamento umano è certamente potente la ri-
cerca di un piacere che si manifesta nelle forme più materiali
e che è legato alle pulsioni fondamentali; sotto questo aspetto
è valida l’analisi freudiana, alla quale si può rimproverare di
essersi troppo concentrata su tali pulsioni, in primo luogo
quelle sessuali, trascurando l’essenziale. Anche ad Adler
Frankl stesso riconosce la validità dell’analisi della volontà di
potere e degli stili di vita, l’ambivalenza tra egocentrismo e
altruismo, ma c’è comunque qualcosa che non si riduce a que-
sta dimensione, sia pure ulteriore rispetto a quella della mera
fisiologia delle pulsioni.

Al di là di se stesso

Ciò che l’analisi esistenziale può offrire alla psicologia, e,


più in generale, ciò che la filosofia fenomenologica (non sol-
tanto l’esistenzialismo) può offrire alle scienze dell’uomo è
una visione d’insieme che, altrimenti, sfuggirebbe alle osser-
vazioni e alle esperienze, anche di tipo sperimentale, che co-
stitutivamente non possono che porsi quesiti di partenza,

133
ipotesi e obiettivi limitati. In questa visione d’insieme uno
dei punti nevralgici è che la volontà di significato non è un
impulso.
Tutta la psicologia e la psicoterapia del secolo scorso na-
scono dalle ricerche freudiane sull’inconscio, e dall’afferma-
zione della dimensione istintuale ed impulsiva dell’agire
umano. Non è affatto così per Frankl, il quale sostiene, invece,
che gli impulsi giochino un ruolo tutto sommato limitato, per
quanto rilevante, nel pensiero e nel comportamento specifi-
camente umani. Ciò che caratterizza l’essere umano, infatti, è
questo vivere in tensione continuamente, che nessuna teoria
omeostatica e nessuna forma di utilitarismo riusciranno mai
a descrivere e a comprendere adeguatamente.
Non è un caso, dunque, che l’attenzione di Frankl si ri-
volse a problemi che rappresentavano in se stessi una decisa
novità; per esempio, Frankl fu tra i primi a percepire il disagio
dei giovani dell’epoca, anticipando considerazioni e consape-
volezze che saranno consolidati ed acquisiti soltanto più tardi.
Gli esperimenti di apertura di consultori giovanili nella Vienna
della crisi degli anni Venti saranno una possibilità ed un punto
di riferimento che per decenni costituiranno una proposta
psicopedagogica fondamentale nell’ambito degli interventi
per la gioventù in difficoltà.
Giova menzionare già qui che l’analisi esistenziale ha im-
piegato pionieristicamente l’espressione “vuoto esistenziale”
per indicare quelle situazioni di profondo turbamento in cui
versano le persone in esse implicate, spesso senza via d’uscita.
La metafora delle “pienezza” e del “vuoto” rende efficace-
mente e plasticamente un contrasto sostanziale che può ca-
ratterizzare esistenze sul piano materiale prive di problemi.
La possibilità o meno che si verifichino le condizioni per

134
lo sviluppo di una vita “in pienezza”, o viceversa per il rivol-
gimento interiore nel “vuoto” dell’esistenza dipende dal sot-
tile equilibrio che in ogni esistenza singola si pone tra libertà
e responsabilità. Frankl fu un fedele erede della tradizione psi-
coanalitica e della psicologia individuale nella sottolineatura
del carattere contraddittorio che contraddistingue quelle esi-
stenze vissute all’insegna della realizzazione di sé, del successo
e, in definitiva, dell’egocentrismo, che già Freud aveva colle-
gato a quella particolare forma di vita “mancata” che chia-
mava narcisismo.
Noi viviamo in una società in cui il narcisismo è incorag-
giato, con tutto ciò che ne consegue sul piano della crisi dei
valori e delle forme di convivenza, a partire dalla dolorosa
condizione delle famiglie oggi, attaccate sul piano ideologico
da una mentalità individualistica che, invece di sostenere una
visione forte e nobile del soggetto ha preferito esaltare quel-
l’io “minimo” che è al fondo di ogni narcisismo.
Se, infatti, il soggetto narcisista afferma prepotentemente
se stessa nelle sue pretese, è proprio l’imperiosità di queste
pretese unita all’incapacità di soddisfarle autonomamente che
rende l’io narcisista un io debole, come sostiene il sociologo
Christopher Lasch, “minimo”, degno abitante di una società
che giustamente un altro sociologo attento alle trasformazioni
del mondo contemporaneo, Zygmunt Bauman, non ha esitato
a definire “liquida” (Lasch, 1984; Bauman, 2000).
La questione fondamentale resta, comunque, quella che
la sensibilità fenomenologico-esistenzialistica aveva indivi-
duato già mezzo secolo fa (a ben pensarci quasi alle soglie di
quei fermenti che avrebbero portato, sempre secondo Bau-
man, al superamento della fase “solida” della modernità e al-
l’avvio della fase “liquida”, coincidente, in fondo, con

135
l’avvento della cultura “postmoderna”), vale a dire cosa si
debba intendere per significato. Una volta raggiunta la con-
sapevolezza che l’essere umano è l’essere che si pone la do-
manda sul senso dell’essere stesso, dell’esistenza, come
vogliono i filosofi esistenzialisti, occorre ancora rispondere
alla domanda su cosa sia il significato stesso dell’esistenza.
Anzitutto, occorre determinare se questa domanda possa
trovare una risposta in termini generali o assoluti, o se piut-
tosto ciascuna esistenza singola richieda sempre e di nuovo
una risposta sul suo senso peculiare, irriducibile a quello di
qualsiasi altra esistenza. I due poli del dibattito epistemologico
e gnoseologico, il soggetto e l’oggetto, sono nella filosofia fe-
nomenologico-esistenziale i poli dell’esistenza, della condi-
zione umana, della vita di un essere come l’uomo nell’in-
terazione continua con la realtà (ai suoi vari livelli, biologico,
sociale, culturale, ecc.). in questo senso si potrebbe dire che
entrambe le forme della risposta, quella generale e quella in-
dividuale, possano godere di una validità almeno relativa e
che non siano incompatibili o contraddittorie tra loro.

Una frattura

Nella cultura moderna si è, d’altronde, creata una frattura,


da quando l’opera dei cosiddetti “maestri del sospetto” (Marx,
Nietsche e Freud) ha revocato in dubbio la validità di qualsiasi
concezione valoriale (religiosa, morale o politica che dir si vo-
glia). Si può affermare oggi che gli intenti di questi grandi
pensatori, che hanno vissuto fino in fondo le conseguenze
delle loro posizioni radicali, accettando una vita fatta anche
di molte e gravi incomprensioni da parte dei contemporanei,

136
siano stati addirittura superati dalla vera e propria “rabbia di
smascherare” le vestigia dell’ideologia, o della cattiva co-
scienza, o dell’inconscio, ovunque.
Il decostruzionismo contemporaneo, con la sua radicalità
iconoclasta, che non pare fermarsi nemmeno di fronte all’evi-
dente pericolo di una disumanizzazione totale del mondo e
della società, attraverso la sopraffazione della natura da parte
delle tecnologie e l’abbattimento delle fondamenta morali che
hanno retto per secoli la convivenza tra gli uomini (in ultimo,
con l’abbattimento dei legami familiari e la legittimazione mo-
rale di comportamenti prima considerati inaccettabili social-
mente e patologici) ha quasi dato il colpo di grazia alla
convinzione, che era anche di Frankl, forse per il retaggio du-
plice della sua origine ebraica e della sua formazione fenome-
nologica, dell’unicità del significato dell’esistenza, ovvero, per
dirla in una maniera più “tradizionale” e di senso comune,
dell’unicità del vero.
Non si tratta di un’esigenza soltanto logica, che chiami in
causa il principio di non contraddizione, né di quell’esigenza
di completezza che animava la gnoseologia e la cosmologia
aristotelico-tomistiche, da Kant revocate in dubbio e non più,
apparentemente, riaffermabili senza un preventivo chiari-
mento sulla natura dell’esperienza umana. Resta, tuttavia, al
di là di queste considerazioni, che richiedono un più ampia
trattazione rispetto alle intenzioni di queste pagine, il fatto
che il fondamento dell’analisi esistenziale è una concezione
realistica della verità e della realtà, che pone la prospettiva
frankliana su un versante distinto rispetto a quello sul quale
si trovano collocati i maggiori rappresentanti dell’esistenzia-
lismo di matrice non religiosa.
Il significato dell’esistenza è univoco e si può, dunque,

137
parlare di una sostanziale convergenza di significati e valori;
se con quest’ultimo termine, “valore”, si intende, anche da
parte del senso comune e prima di qualsiasi approfondimento
filosofico, ciò che vale, ciò che è più importante e positivo
nell’esistenza dell’uomo, è chiaro che ciò che è dotato di que-
sta consistenza e di questo spessore coincida con ciò che dà
significato alla vita (Lukas, 1984).
Si è frequentemente sostenuta, nell’ambito del pensiero
moderno, la soggettività del significato, dato che il lungo per-
corso della cultura moderna è tutto all’insegna della difesa dei
diritti della soggettività e della costruzione di un’immagine
del mondo che reputa l’oggettività, vale a dire la verità, attin-
gibile soltanto indirettamente o secondariamente, come con-
seguenza di una difficile e problematica ricerca sulla
costituzione del soggetto. In questo senso, ogni significato
non può che risultare l’effetto dell’esperienza radicalmente
soggettiva dell’individuo singolo, fino all’incomunicabilità dei
significati, persino delle stesse esperienze. Si tratta di una de-
riva che rispecchia la disperazione nella quale, dopo la fine
della modernità, versa soprattutto l’uomo postmoderno, oggi
privo anche di quell’unica sicurezza che poteva bastare ancora
alla cultura moderna circa il “titanismo” dello sforzo umano
per la costruzione di un cosmo e di un progetto esistenziale
che desse senso al tutto.
È opportuno considerare anche la riflessione frankliana
intorno all’unico autentico “antidoto” alla disperazione: la vita
“buona”, secondo l’espressione inglese (good life) tornata in
voga nel linguaggio scientifico (psicologico) dopo un lungo
oblio; la vita buona non è quella del successo e del primeg-
giare, ma piuttosto quella che rifugge saggiamente da tutto
questo. Si può documentare il disagio psichico che determina

138
questo modo di concepire la vita, il suo carattere diseducativo,
la sua pericolosità come vera e propria “trappola” per le co-
scienze, specialmente per quelle in formazione.
Rispetto a queste problematiche l’analisi esistenziale non
si pone in una situazione di neutralità scientifica, ricono-
scendo che il compito delle scienze umane non può essere
semplicemente quello di registrare descrittivamente la realtà,
ma di individuare anche le strade della crescita dell’essere
umano e dell’umanità nel suo complesso. Rispetto a questo
compito, evidentemente inesauribile e di estrema delicatezza,
la strada proposta da Frankl suggerisce molti spunti rilevanti,
sia sul piano filosofico sia su quello pedagogico (cf. ancora la
grande impresa imbastita dalla psicologia positiva contempo-
ranea in questa direzione: Lopez & Snyder, 2009).

La vita ha significato

La vita ha sempre un significato; questo è il messaggio


fondamentale che emerge dall’analisi esistenziale frankliana;
non si tratta di un’affermazione consolatoria, anche se Frankl
indubbiamente ne coglie, anzi ne sottolinea il valore terapeu-
tico, ma di una constatazione che deriva dall’osservazione
esperienziale possibile a tutti gli uomini. Il valore di questa
constatazione sta nel fatto che rende possibile affrontare l’esi-
stenza con risorse interiori adeguate ai momenti di prova e di
dolore, dando senso anche alla stessa sofferenza.
Quello che si apre a questo punto è uno dei temi più af-
fascinanti della prospettiva logoterapeutica; Frankl, e dopo di
lui i numerosi suoi seguaci e continuatori, hanno sempre in-
sistito sul fatto che uno dei problemi più gravi del nostro

139
tempo (mezzo secolo fa, come ora) è la crescente difficoltà
di accettare la vita in tutto ciò che riserva al destino di cia-
scuno; condizionati come siamo da un’ideologia del successo
e dell’autorealizzazione che è, ormai, l’unica forma di com-
prensione della realtà che trasmette la cultura contemporanea,
nessun uomo è oggi esente dal rischio di perdere il senso della
propria vita o, addirittura, di rifiutarla di fronte all’inaccetta-
bilità di ciò che accade.
L’uomo d’oggi è, così, molto più fragile del passato; se
nelle civiltà contadine, ed anche in quelle industriali sorte sul
fondamento delle prime, i valori ed il senso della vita erano
trasmessi per via di consuetudine, di generazione in genera-
zione, ed accettati in quanto elementi basilari della tradizione
a cui ciascuno apparteneva in quanto membro di una comu-
nità che li professava, la crisi delle tradizioni tipica della mo-
dernità, soprattutto nella sua fase liquida, ha reso la vita un
enigma e un dilemma doloroso.
Frankl riprende l’intento di Scheler di costruire un’etica
dei valori e trasferisce nell’ambito psicologico alcune intui-
zioni del grande esponente della fenomenologia; vi sarebbero
varie categorie di valori, secondo questa analisi, che per lo psi-
chiatra sono osservabili negli atteggiamenti che gli individui
assumono di fronte alla propria esistenza e alle singole vi-
cende che la compongono.
Il grande dilemma a cui nessun uomo si può sottrarre è
quello di assumere un atteggiamento adeguato, coerente, uni-
tario di fronte alla realtà della propria esperienza e delle sue
“provocazioni”. Recuperando la lezione che deriva dal pen-
siero, dalla letteratura e dalle arti dell’epoca, l’analisi esisten-
ziale coglie il senso del tragico presente in questo sforzo di
comprensione e di presa di coscienza, al quale viene in aiuto

140
la visione antropologica globale proposta da Frankl, che parla
di una molteplicità di dimensioni presenti nella costituzione
stessa dell’essere umano e nel significato della sua esistenza
(cf. Seligman, 2009).
Così, l’uomo è chiamato a scoprire il significato presente,
anche se nascosto, nelle vicende della sua vita, specialmente
in quelle in apparenza meno comprensibili ed accettabili,
come la malattia, la morte, il distacco non voluto dalla per-
sone amate, raggiungendo la consapevolezza che tutto ciò che
risulterebbe privo di senso sul piano esclusivamente materiale
e psichico, può averlo su un altro piano, in una dimensione
che Frankl non esita a definire “spirituale”.
Di qui deriva il significato della logoterapia, intesa come,
letteralmente, terapia del significato, ma anche, in senso forte,
come terapia della dimensione spirituale dell’uomo, di quel-
l’istanza viva nella mente che ordina la realtà, che scopre, non
per invenzione, ma per rinvenimento o per rivelazione, signi-
ficati profondi anche dietro l’apparente disordine e l’assurdità.

La frustrazione dell’esistenza

Possiamo oggi accentuare la riflessione frankliana sulla


“frustrazione” esistenziale e coglierne la presenza nella vita
di molte persone; la frustrazione del significato è un concetto
adatto ad una comprensione non banale della condizione di
molti giovani e giovanissimi, i quali sembrano oggi intontiti
dalle risorse tecnologiche a loro disposizione, grazie alle quali
gestiscono, ormai, la gran parte delle loro relazioni interper-
sonali, fino a quando non si rendono conto del vuoto che gli
stessi mezzi di comunicazione generano nelle loro vite, della

141
povertà e della debolezza dei legami che si formano sui social
network.
La crisi che può derivare da questa scoperta è tanto dram-
matica quanto potenzialmente salutare, se vissuta alla luce
delle risorse spirituali che una saggezza ormai effettivamente
non più diffusa come occorrerebbe potrebbe fornire alle ge-
nerazioni più giovani; la consapevolezza del senso della vita
e del fatto che tutto ha significato offre la possibilità di af-
frontare qualsiasi crisi senza smarrire la propria integrità,
anche quando le situazioni non sono altrimenti risolvibili.
Eppure, si va facendo strada, invece, un orientamento op-
posto a questa consapevolezza, al punto che in ambito psi-
coterapeutico alcuni ritengono che porsi la domanda sul
senso della propria vita possa essere di per sé un sintomo di
disagio psichico, evidentemente con un completo fraintendi-
mento di ciò che è autenticamente umano nell’uomo. Può
sembrare paradossale, ma oggi sembrano necessari nuovi
orizzonti per le pratiche terapeutiche e per quelle educative
(due facce della stessa medaglia), che partano dalla riscoperta
della centralità della domanda sul senso dell’esistenza (che è
anche domanda sulla felicità possibile per l’uomo).
Non è qui il caso di approfondire gli aspetti metodologici
e tecnici della logoterapia; come s’è già accennato, la logote-
rapia è meno un indirizzo terapeutico che un inquadramento
antropologico sulla situazione esistenziale dell’uomo; inevi-
tabilmente, dal punto di vista educativo, che qui ci interessa
innanzitutto, le proposte frankliane di carattere precipua-
mente tecnico e clinico finiscono per assumere un carattere
secondario rispetto alle questioni decisamente più centrali ri-
guardanti la dimensione del significato.
Basta, allora, in queste pagine un riferimento alle tecniche

142
logoterapeutiche descritte da Frankl nei suoi libri ed ampia-
mente applicate da lui e dai suoi continuatori fino ad essere
accolte ecletticamente anche da altre scuole psicoterapeutiche:
la dereflessione e l’intenzione paradossa sono, in effetti, en-
trate a far parte, talvolta cambiando nome o magari perden-
dosi anche la consapevolezza dell’origine frankliana, dello
strumentario terapeutico di orientamenti come, ad esempio,
gli indirizzi psicodinamici oggi emancipati dal retaggio del-
l’ortodossia freudiana-adleriana-junghiana e, su un versante
quasi opposto, taluni indirizzi di matrice cognitivistica, oltre
naturalmente le espressioni contemporanee della psicoterapia
fenomenologica.
Un importante orientamento che ha tentato di integrare
le vedute frankliane all’interno di un indirizzo capace di unire
assieme l’analisi transazionale di Eric Berne e la psicoterapia
gestaltica ha dato vita a significative sinergie che si osservano
all’opera in Italia e in altri Paesi, soprattutto in Europa e nel-
l’America del Sud. Senza entrare nello specifico di questo
tema, che merita approfondimenti anche sul piano psicope-
dagogico, vale la pena di segnalare che questo indirizzo appare
il più promettente, almeno a giudizio dello scrivente, per la
sua “ecumenicità” epistemologica e metodologica in ambito
educativo..
Al di là di queste brevi enunciazioni generali, si può de-
scrivere la dereflessione come quella tecnica che consente al
paziente di “distanziarsi” da se stesso, così come l’intenzione
paradossa permette di prendere coscienza dei propri conflitti
interiori, maneggiando con ironia terapeutica quelle circo-
stanze che li scatenano. Ma, come già ricordato, il valore della
ricerca frankliana al riguardo consiste nell’avere colto una
forma di angoscia nevrotica che sfugge alle classificazioni di

143
ordine diagnostico-clinico dello stampo del DSM. La consi-
derazione critica di questo strumento diagnostico da parte di
Seligman è, dunque, accostabile al discorso frankliano – cf.
Peterson & Seligman, 2006).

L’analisi esistenziale e la psicologia positiva

In effetti, manca nella letteratura analitico-esistenziale e


logoterapeutica una discussione sulle potenzialità e sui limiti
del manuale diagnostico standardizzato dei disturbi mentali,
preso di mira, costruttivamente, dalla psicologia positiva
negli ultimi quindici anni grazie agli interventi di Martin Se-
ligman, il celebre presidente della potente associazione degli
psichiatri statunitensi che ha criticamente sostenuto l’esigenza
che la psicologia scientifica non si appiattisca sul versante
clinico, tentando di trarre dall’esperienza diagnostica indicazioni
valide per la vita di tutti gli esseri umani, ma lo spirito della
proposta frankliana, e in genere dell’orientamento fenome-
nologico-esistenziale, va nella stessa direzione.
Il fatto stesso che la psicologia positiva oggi annoveri
Frankl tra i suoi antecedenti diretti e la logoterapia come un
orientamento teorico che sfugge al riduzionismo clinico-dia-
gnostico per raggiungere una conoscenza dell’uomo più
ampia e in grado di indicare, anche sul piano pedagogico, non
soltanto la fenomenologia dei “disturbi”, ma anche le “eccel-
lenze”, di cui l’uomo è dotato, quelle energie tipiche della per-
sonalità sana oggi così necessarie nella nostra società in crisi,
ma anche così scarsamente conosciute e indagate dalle scienze
umane, dimostra l’opportunità di tornare all’analisi dell’esi-
stenza come ad una fonte affidabile per la ricerca.

144
Per quanto Frankl abbia dedicato opere specifiche alla ca-
sistica clinica, soprattutto nell’intento di integrare la diagno-
stica psichiatrica tradizionale e quella di orientamento
psicoanalitico-psicodinamico, è fondamentale cogliere questi
due versanti della riflessione frankliana in proposito: da un
lato, i disturbi mentali sono espressione di un disagio esisten-
ziale più profondo, in molti casi addirittura sono determinati
da questo stesso disagio e la guarigione dai disturbi dipende
dal superamento del disagio esistenziale, piuttosto che dalla
validità degli interventi terapeutici; dall’altro, è a disposizione
di ogni uomo, per la sua stessa costituzione ontologica, la pos-
sibilità di “guarire”, facendo un uso adeguato delle proprie ri-
sorse interiori e, anzitutto, della propria libertà – libertà che
si manifesta particolarmente nella capacità tipicamente umana
di andare al di là dei propri condizionamenti e dei propri limiti
esteriori e interiori.
Un elemento significativo e, nello stesso tempo, originale
della logoterapia è la sottolineatura del legame che unisce la
capacità di distaccarsi da se stessi come segno della libertà
dell’uomo, da un lato, e la capacità di ironia, dall’altro, che per
Frankl è evidentemente un fenomeno esclusivamente umano,
proprio come il saper ridere è una capacità che possiede sol-
tanto l’uomo e nessun animale ne è dotato. Si tratta di una
constatazione che ha echi illustri, a partire dal celebre saggio
sul riso bergsoniano; in tempi molto recenti si sono dedicati
all’approfondimento delle implicazioni di questa intuizione
frankliana alcuni terapeuti italiani (cf. le attività dell’associa-
zione ALAEF).
D’altra parte, Frankl è consapevole anche del fatto che,
oltre ai lati positivi, esistono anche, per così dire, indicazioni
e controindicazioni della logoterapia, ed il logoterapeuta deve

145
agire secondo una deontologia professionale che prevede di
adeguare strettamente le scelte terapeutiche alle esigenze del
singolo paziente (Frankl, 1973).
Se, come s’è detto, vi sono nevrosi “noogene”, vale a dire
che hanno origine nella parte “spirituale” dell’essere umano,
soprattutto come sentimento del vuoto esistenziale, e sarebbe
assolutamente un errore trattarle come manifestazioni secon-
darie di disturbi che riguarderebbero, invece, la sfera psichica,
o psicofisica, è anche vero il contrario, vale a dire che non è
opportuno, pur riconoscendo che la domanda sul significato
della vita è una domanda ineludibile per ogni essere umano,
rimandare a questa dimensione disturbi che possono avere
altra origine.
Per questi motivi Frankl conia un’espressione per definire
la logoterapia, “cura medica dell’anima”, che andrebbe bene
anche per indicare il complesso delle “terapie”, come si suole
definirle in base al paradigma medico che ha orientato la psi-
coterapia fin dal suo sorgere, volte alla cura dei disturbi della
mente umana. Il riferimento terminologico all’anima non
deve essere visto, s’è già detto, né come un ritorno anacro-
nistico ad una forma più o meno aggiornata di spiritualismo,
né come una mera metafora; è indubbio che per Frankl i fe-
nomeni psichici, nella loro dimensione “noologica”, non
possono essere considerati come epifenomeni paralleli del-
l’attività cerebrale.

La dimensione religiosa

Si dovrebbe considerare, a questo punto, quasi in conclu-


sione di una panoramica introduttiva sull’analisi esistenziale

146
frankliana, come quella presentata fin qui, la dimensione re-
ligiosa presente nell’opera dello psichiatra austriaco e fatta
propria da coloro che ne hanno seguito le orme. Ci si può
domandare se un orientamento religioso giovi o sia d’ostacolo
ad una ricerca sull’uomo che vuole essere scientifica. La gran
parte degli psicologi del Novecento avrebbe risposto a questa
domanda sostenendo che nessun legame può vincolare la ri-
cerca scientifica ad un credo di tipo religioso, ma questa non
è la risposta che Frankl porge alla questione.
Senza essere affatto isolato nell’ambito variegato degli studi
sull’uomo ispirati alla fenomenologia e all’esistenzialismo,
Frankl sottolinea che la domanda sul senso della vita implica
intrinsecamente la possibilità di risposte perfettamente sensate
di carattere religioso. In anni più recenti, e al di fuori dell’im-
postazione esistenzialista, la psicologia positiva ha contribuito
fortemente ad una rivalutazione di quella che chiama “spiri-
tualità”, senza alcun riferimento specificamente confessionale,
come elemento positivo nella formazione della personalità e
per lo sviluppo di una vita armoniosa (cf. Frankl, 1985b).
Da questa prospettiva, si può senz’altro dire che Frankl sia
stato davvero un precorritore di questi nuovi orientamenti, più
rispettosi di quello che è il sentire diffuso nell’umanità di ogni
tempo ed anche al presente, nonostante la poderosa propa-
ganda antireligiosa, e specialmente anticristiana, che tenta oggi
di cancellare uno degli elementi più significativi della natura e
della cultura umana. Il riconoscimento che i valori religiosi (per
usare un’espressione generica), invece che un ostacolo, costi-
tuiscano un catalizzatore delle energie positive a disposizione
degli esseri umani nel loro confronto con la realtà e con la vita,
è essenziale per una pratica educativa e curativa adeguata.
Si potrebbe, allora, parlare ampiamente del rapporto tra

147
la logoterapia e la religione; è un dato di fatto che Frankl sia
stato tra gli psicologi del Novecento quello con i legami più
stretti ed assidui con esponenti di tutte le principali confes-
sioni religiose del mondo, dalla sua, l’ebraismo, al cristiane-
simo, fino al buddhismo. La fede è una delle grandi forze
ispiratrici del significato e, nella visione antropologica della
logoterapia, una delle istanze unificatrici ed armonizzanti della
personalità (Frankl, 1984).
Si potrebbe dire, usando un’altra espressione significativa
di Frankl, che oggi sia in crisi il rapporto tra mondo umano
e mondo divino. Le consonanze dell’analisi esistenziale con
altre analisi della società contemporanea, segnata dal feno-
meno della secolarizzazione, sono evidenti. Negli anni della
maturità di Frankl, la secolarizzazione era nel pieno del suo
compimento, ed il dialogo tra credenti e non credenti era uno
degli aspetti più significativi nel dibattito culturale del tempo;
le chiese erano ancora, in quasi tutta l’Europa occidentale,
piene e i problemi del consumismo e della sottocultura gio-
vanile, che cominciava a manifestarsi nelle prime forme di ri-
bellione di fronte al mondo adulto, erano arrivati proprio
allora all’ordine del giorno nell’opinione pubblica.
Il nostro tempo è, evidentemente, ben diverso da quello
di Frankl; la secolarizzazione è un fatto compiuto, al punto
che si parla di post-secolarizzazione e un filosofo, peraltro
credente, come Charles Taylor distingue tra società e cultura
secolarizzate e secolari, intendendo con questo termine il di-
stacco totale dalla sfera del religioso (con i suoi fenomeni e i
suoi simboli) che rende i nostri contemporanei sostanzial-
mente incapaci persino di comprendere cosa sia il divino e
cosa pensassero gli uomini di alcune generazioni fa, quando,
per dirla con Taylor, credere nell’esistenza di Dio era più “fa-

148
cile” che non credere e l’agnosticismo, o l’ateismo, erano atti
di coraggio intellettuale (Taylor, 2007).
Oggi, la situazione si è rovesciata, e l’ateismo appare un
fenomeno di conformismo, mentre l’affermazione della fede
personale richiede in molti contesti socio-culturali un atto di
coraggiosa libertà di fronte ai condizionamenti di gruppo.
Non è un caso che nell’età “secolare”, di cui Taylor ha rico-
struito la genesi, non trovi quasi posto nemmeno la do-
manda sul significato dell’esistenza, da qualche terapeuta
considerata oggi addirittura come un segno di un disagio
psichico da “curare”; occorrerebbe, insomma, estirpare la
domanda e l’esigenza di un senso ultimo della vita per rag-
giungere il benessere.

Un significato ultimo

Eppure, la religione e la sua pratica, sia nelle forme con-


fessionali sia nella forma di una spiritualità personale (per
quanto vaga possa rivelarsi e priva di fondamento), rappre-
sentano essenzialmente la fede dell’uomo in un significato ul-
timo. Si tratta di un tema caro all’esistenzialismo religioso
novecentesco ed ancora attuale nel presente; per dirla con Til-
lich, il teologo che ha avuto il merito, probabilmente, di de-
dicare la maggior attenzione proprio a questo tema, al nesso
tra fede (quella cristiana, in particolare) e senso dell’esistenza,
Dio è l’interesse supremo dell’uomo, e le opzioni di fede sono
una valida testimonianza del modo in cui l’uomo, il singolo
individuo come una società nella sua interezza, intende la pro-
pria vicenda esistenziale.
Per usare un’altra espressione che Frankl utilizza ampia-

149
mente, derivandola da una lunga tradizione sapienziale, “Dio
scrive dritto su righe storte”; nella visione cristiana della prov-
videnza e della storia il tempo della vita di un uomo è il tempo
in cui Dio esercita la sua misericordia, concedendo all’uomo
la possibilità di convertirsi e di camminare fedelmente nella
strada del Signore. Sul piano esistenziale, evidentemente, que-
ste espressioni simbolizzano efficacemente la condizione di
continuo “progresso nella precarietà”, si potrebbe dire, che
caratterizza, da un lato, la ricerca di una coerenza nella vita
vissuta, dall’altro, la situazione autentica in cui l’uomo speri-
menta il proprio rapporto con il mondo.
Nella visione frankliana di Dio e della religione è accurata-
mente evitato il pericolo dell’antropomorfismo, di una
concezione “troppo umana” di Dio stesso; tuttavia, anche
l’antropomorfismo, così presente in tutte le forme di devozione
popolare, ha una sua ragion d’essere proprio per la sua capacità
di orientare la vita delle persone; si potrebbe credere che si
tratta, in questo caso, di persone troppo “semplici”, ma questa
è la forma che da sempre caratterizza la comprensione del-
l’esistenza di quanti non ragionano in termini filosofici e che,
non per questo, possono in realtà avere la vista più lunga di
coloro che possiedono questo genere di cultura (Frankl, 1986).
Se la divinità è una categoria trascendentale, Dio non è,
infatti, lontano dall’uomo e si cala nella concretezza dell’esi-
stenza, manifestandosi in forme che l’uomo può cogliere,
forse, in modi troppo semplicistici, ma non per questo erro-
nei. Soltanto la repressione religiosa oggi voluta tenacemente
dalla cultura atea dominante può far credere il contrario, per-
ché il suo fine è, appunto, quello di estirpare la coscienza, ed
anzi l’esigenza inconscia stessa, di dio nell’uomo d’oggi.
Nonostante la grande offensiva che oggi sembra investire

150
le strutture religiose e morali delle principali fedi mondiali,
l’opera di Frankl sembra quasi voler dire (ed anzi, sostiene
esplicitamente) che Dio non è morto. Se la secolarizzazione
è un fatto compiuto anche in molte culture non occidentali e
persino nel mondo musulmano si colgono i segni di questa
situazione, si può condividere, allora, l’analisi di un sociologo
come U. Beck, il quale sostiene che la confessionalità delle re-
ligioni storiche è stata sopraffatta, nella stessa minoranza dei
credenti delle varie confessioni, da una concezione individua-
listica di Dio stesso.
Di fronte all’orizzonte buio che si apre davanti a prospet-
tive di questo tenore, il messaggio di studiosi come Frankl, e
il senso dell’analisi esistenziale stessa, appare un’esortazione
opportuna a credere nella vita nonostante tutto; in un mondo
in cui lo smarrimento esistenziale provoca ogni genere di ef-
feratezze, l’analisi esitenziale e la logoterapia sostengono an-
cora una visione autenticamente umanistica delle scienze
dell’uomo, utile ad orientare la ricerca e le pratiche anche nel
difficile campo della formazione.
Sotto questo punto di vista, la lezione frankliana è tra
quelle utili a comprendere i pericoli formidabili insiti nel co-
siddetto “post-umanesimo” contemporaneo, che non teme
di definire la nostra epoca già come “post-umana”, inten-
dendo con questi termini il fatto che, ormai, la tecnologia è
in grado di superare la natura e, addirittura, di costruirne let-
teralmente una nuova, costituita da un intreccio mefistofelico
di biotecnologie, cibernetica e ciber-tecnologie varie, di cui la
padronanza del DNA e la fecondazione artificiale palesano
già gli scenari futuri. L’uomo d’oggi sembra accanirsi contro
l’umano che è in lui e la psicologia deve tenere desta la con-
sapevolezza di questo male radicale.

151
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153
LE DIMENSIONI DELLA COSCIENZA
PERSONALE: SENSITIVA, AFFETTIVA,
INTELLIGIBILE E VOLITIVA

Antonio Malo

Parlare di una coscienza personale comporta assumere


due impliciti. Il primo: che esiste una realtà chiamata co-
scienza; il secondo: che essa è determinata e relativa alla per-
sona, cioè non è assoluta. Anche se l’esistenza della coscienza
è riconosciuta dalla grande maggioranza dei neuroscienziati
e filosofi1, non si è ancora giunti a una definizione. Forse per-
ché il modo di concepirla è molto variegato, giacché va da un
riduzionismo di tipo materialistico fino a un antiriduzionismo
che sottolinea la peculiarità della realtà psichica, passando at-
traverso altre posizioni più sfumate2.

ANTONIO MALO, Pontificia Università della Santa Croce.


1
Fra quelli che, per differenti ragioni, la negano si trovano REY G., (cf.
REY G., A Reason for Doubting the Existence of Consciousness, in Consciousness and
Self-Regulation, DAVIDSON R.J. - SCHWARTZ S. - SHAPIRO D.H. (a cura di), Plenum,
New York 1982, pp. 1-39) e RORTY R., (RORTY R., Consciousness, Intentionality,
and the Philosophy of Mind, in The Mind-Body Problem: A Guide to the Current Debate,
WARNER R. –-TADEUSZ S. (a cura di), Blackwell, Cambridge 1994, pp. 121-131).
2
Un esempio di riduzionismo materialistico si trova nelle tesi dei coniugi
CHURLAND (PAUL E PATRICIA), che concepiscono la coscienza in termini di
reti neurali, mentre nel campo non riduzionista ci sono teorie come quelle di
NAGEL T. - SEARLE J., quest’ultimo offre anche un modello della coscienza al-

155
Tenendo conto di questa difficoltà mi azzarderò a dare
una prima definizione di coscienza, come la “presenza imme-
diata a un essere vivente di un contenuto (moto viscerale,
suono, fame, emozione, cosa, animale, persona, azione, rela-
zione)”. La distinzione fra tipi di coscienza dipenderà, dun-
que, dal contenuto che appare, il quale è legato a diversi tipi
di atti in senso ampio che includono le passioni. Perciò pos-
siamo parlare di coscienza sensibile (della propria corporeità
o di oggetti sensibili), affettiva (sentimenti corporei, emozioni,
stati d’animo), intelligibile (concetti, simboli, oggettivazione
di sé e dell’altro), e coscienza dell’azione (volizione, scelta,
atto).
Per capire il significato di “presenza immediata” si può
usare l’immagine, ormai classica, della luce. La coscienza in-
comincia a illuminare la realtà interna ed esterna a partire
dagli organi, il che permette al vivente sensibile di essere in-
formato sia dalla situazione del corpo sia dagli oggetti sen-
sibili e intelligibili, per mezzo delle rispettive percezioni
interne (interocezioni e propriocezioni)3, dei sensi e dell’in-
telligenza. Abbiamo così una struttura della coscienza costi-
tuita dall’emergenza di una realtà immateriale (l’apparire di

l’interno della fisica quantica. Anche se tendono verso il materialismo, le po-


sizioni di DALMASIO A. - EDELMAN G., accettano in parte l’esistenza di
un’esperienza soggettiva. Per un approfondimento delle diverse teorie si veda
PETRACCHI G., Il dilemma della coscienza. Una questione filosofica o scientifica?, Athe-
neum, Firenze 2007.
3
Questi costituiscono ciò che DAMASIO chiama il sentimento di fondo,
che «è la nostra immaginazione del paesaggio corporeo quando questo non è
agitato da emozioni, e non è il concetto di “umore” (mood), che può renderlo
con precisione, anche se ad esso è collegato» (DAMASIO A., L’errore di Cartesio.
Emozione, ragione e cervello umano, Adelphi, Milano 2009, pp. 216-217).

156
quest’informazione proveniente dall’interiorità corporea o
dall’esteriorità) a partire da due poli materiali: il corpo, so-
prattutto mediante quegli organi che colgono gli stimoli ne-
cessari per sentire, e gli oggetti sensibili che corrispondo alla
realtà esterna.

1. Coscienza sensibile

Oltre alle percezioni interne dei muscoli e dei movimenti


del corpo, la coscienza si fonda sulle sensazioni4. Nelle sen-
sazioni i due poli (organi sensibili e oggetti sensibili) si unifi-
cano, per cui non solo si sente, ad esempio, musica e si sente
di sentirla tramite il senso comune che unifica le nostre sen-
sazioni5, ma quel sentire è piacevole, cioè adeguato a una per-
sona capace di sentire.
Man mano che la luce della coscienza illumina il mondo
e le persone si dà una maggiore strutturazione dell’oggetto
sensibile e anche del soggetto. Infatti, alla strutturazione delle
sensazioni esterne o senso comune corrisponde un inizio di
coscienza del proprio corpo come uno, mentre a quelle delle
sensazioni interne (immaginazione, cogitativa e memoria)
corrisponde tramite la memoria un’unità del vivere personale
capace di mantenersi nel tempo nonostante i cambiamenti,

4
Cf. GAZZANIGA ALT M.S., Neuroscienze Cognitive, Zanichelli, Bologna 2005,
cap. 5. Si può anche vedere il capitolo corrispondente di BEAR M.F. – CON-
NORS B.W., Neuroscienze. Esplorando il cervello, Masson, Milano 2007.
5
«Ora non è possibile giudicare per mezzo di sensi separati che il dolce è
diverso dal bianco, ma entrambi gli oggetti devono manifestarsi a qualcosa di
unico» (ARISTOTELE, De anima, III/2 426b, pp. 17-19).

157
che nell’uomo è alla base del vissuto della propria identità6.
L’unione di questi due poli della coscienza sensibile si
manifesta esternamente nei movimenti del bambino – dal
semplice strisciare per terra ai primi passi in posizione eretta
– e soprattutto nella produzione dei primi suoni, nel tendere
le mani verso gli oggetti che sono vicino a lui o nell’indicarli,
il che è una manifestazione del percepirli come realtà da se-
gnalare a un altro. C’è dunque una prima integrazione, ancora
molto grezza, fra coscienza, movimento e azione7. Vedremo
come nella misura in cui si dà una maggiore integrazione di
questi elementi il comportamento umano, oltre a essere più
perfetto dal punto di vista delle tecniche usate e della loro ef-
ficacia, si formalizza in abiti, che a loro volta ricevono una
strutturazione in forme di una sempre maggiore complessità
e raffinatezza (come parlare, camminare, suonare uno
strumento, guidare la macchina) fino a diventare il compor-
tamento pienamente intenzionale e responsabile che caratterizza,
ad esempio, le differenti professioni. Ma per raggiungere un
tale livello di perfezione si richiede, oltre all’uso delle potenze
superiori – intelligenza e volontà –, l’agire e il linguaggio che,
per loro natura, sono interpersonali. Qui si trova, a mio
parere, la caratteristica più essenziale della coscienza umana
nello stato di veglia: la condivisione di uno stesso mondo
con altre persone.
6
Cf. BERGSON H., Matière et mémoire. Essai sur la relation du corps à l’esprit,
PUF, Paris 1997, specialmente capitoli II e III.
7
A favore di questa tesi si potrebbe addurre la storia di Keller H. (1880-
1968), sordomuta e cieca dall’età di 19 mesi, che dopo essere riuscita a cogliere
i primi segni linguistici mediante sensazioni tattili sul palmo della mano diventò
una famosa scrittrice ed insegnante (Vid. HERRMANN D., Helen Keller: A Life,
Knopf A.A., New York 1998).

158
2. Inconscio

Così come la presenza della coscienza è relativa alla per-


sona che l’ha presente, la luce della coscienza è relativa alla
oscurità sia per il suo legame intimo con il corpo sia per l’ori-
gine biografica di ogni persona. Quest’origine prima della pre-
senza è quello che la psicoanalisi chiama inconscio, ossia
l’insieme di esperienze e di ricordi di situazioni d’appaga-
mento che da un determinato momento non furono più di-
sponibili nello sviluppo della persona o lo furono solo in
seguito ad una punizione, e perciò sono stati rimossi8.
A differenza della coscienza sensibile, nell’inconscio non
si dà un’unificazione, poiché in esso la soggettività non è fon-
damentalmente ricettiva di oggetti a partire da organi ma ten-
dente per mezzo del desiderio (fame, sete, l’altro e,
soprattutto, la felicità). È vero che il desiderio tende verso la
luce della coscienza, ma per mancanza di un oggetto adeguato
(il desiderio di felicità è infinito) esso resta nell’ombra, anche
se continua a influire sulla vita emotiva e attiva della persona9.
Nel sonno, la coscienza perde quasi completamente il con-

8
La psicoanalisi freudiana ha mostrato che sono inconsce le esperienze
che non sono più disponibili dalla persona. Il motivo della mancanza di di-
sponibilità può essere duplice: a) perché tali esperienze si trovano nelle prime
tappe dello sviluppo della coscienza o preconscio (das Vorbewußte), ad esempio
le prime esperienze dell’embrione o del bambino; b) perché sono state censu-
rate e respinte attraverso i meccanismi di difesa, e perciò sono in senso proprio
l’inconscio (das Unbewußte), ad esempio, le esperienze individuali traumatiche
(vid. FREUD S., Metapsicologia: La rimozione, in Opere VIII, Boringhieri, Torino
1976).
9
Sul ruolo del desiderio nello sviluppo della coscienza rimando il lettore
al mio saggio Essere persona, Un’antropologia dell’identità.

159
tatto con la realtà sensibile mantenendolo, invece, con la sog-
gettività. Infatti, come spiega Aristotele, il sonno è una neces-
sità per l’animale dotato di sensazione, giacché l’organo non
può trovarsi sempre nella situazione di ricevere stimoli: ha bi-
sogno di periodi di riposo10. Nei sogni c’è coscienza della pro-
pria soggettività: negli animali a livello sensibile, nella persona
anche a livello spirituale. Ad esempio, nel cane che dorme, at-
traverso i movimenti del suo corpo, come l’abbaiare, si mani-
festano diverse emozioni: paura, ira, piacere. Pure noi mentre
sogniamo desideriamo, temiamo, gioiamo, ci rattristiamo,
amiamo e odiamo. Infatti, anche se le leggi dell’identità, dello
spazio e del tempo che reggono la veglia sembrano essere
cambiate, nei sogni è ancora presente la stessa soggettività sia
emotivamente sia nelle relazioni che costituiscono il mondo
onirico. Per ciò, oltre a riposare gli organi, il sogno ha forse la
funzione di aiutare nella strutturazione della stessa soggettività
consentendo di assimilare quelle esperienze importanti per la
costituzione della propria identità che però sono state trascu-
rate o ricacciate più o meno consapevolmente.

3. La coscienza affettiva
Sebbene si collochi spesso dopo la conoscenza, in realtà
come si è visto parlando del desiderio, la coscienza affettiva
precede geneticamente quella conoscitiva. La coscienza affet-

10
Il sonno «è la paralisi dell’organo sensoriale primario che lo rende inca-
pace di agire e che si produce necessariamente in vista della conservazione del-
l’animale (perché non può esistere l’animale se non si realizzano le condizioni
che lo rendono tale): ora il riposo lo conserva» (ARISTOTELE, De sonno et vigilia,
455b, pp. 19-20).

160
tiva nei mammiferi corrisponde allo sviluppo e trasforma-
zione del cervello rettile nel cosiddetto sistema limbico. Re-
centemente, mediante la neuroimmagine, si è visto che le aree
più interessate nelle emozioni sono quelle corrispondenti al
telencefalo, in particolare l’amigdala11. A differenza delle co-
gnizioni che non sono legate a dinamismi fisiologici né a
espressioni spontanee del viso, le emozioni generano gesti ed
espressioni facciali che sono transculturali12. Comunque, una

11
L’amigdala «riceve segnali da un’ampia gamma di elaborazioni cognitive.
Attraverso i segnali in arrivo dalle aree sensoriali del talamo, le sue funzioni
emotive possono essere innescate da stimoli di basso livello, mentre i segnali
provenienti dai sistemi di elaborazione della corteccia sensoriale (in particolare
dalle ultime tappe dell’elaborazione entro detti sistemi) consente a certi aspetti
più complessi dell’elaborazione dello stimolo (oggetti ed eventi) di attivare
l’amigdala. I segnali provenienti dall’ippocampo hanno una parte importante
nello stabilire il contesto emotivo. Inoltre, l’ippocampo e le aree affini della
corteccia (comprese quelle rinali o transizionali) sono coinvolte nella forma-
zione e nel richiamo dei ricordi espliciti e i segnali provenienti da tali aree al-
l’amigdala possono far sì che le emozioni siano innescate da questi ricordi. La
corteccia mediale prefrontale è coinvolta nel processo chiamato “estinzione”,
con il quale la capacità degli stimoli della paura condizionata di suscitare delle
risposte viene indebolita dall’esposizione ripetuta allo stimolo condizionato, in
assenza dello stimolo incondizionato. I segnali inviati dalla corteccia mediale
prefrontale all’amigdala sembrano contribuire a questo processo. Sapendo quali
aree corticali proiettano informazioni verso l’amigdala e conoscendo le funzioni
alle quali partecipano, possiamo prevedere come queste funzioni contribui-
scano alle reazioni di paura. In altre parole, l’anatomia può illuminare la psico-
logia» (LE DOUX J., Il cervello emotivo. Alle origini delle emozioni, Baldini & Castoldi
Dalai, Milano 2003, p. 177).
12
Partendo dalla distinzione fra cognizione e affettività, PANKSEPP J., pro-
pone l’elaborazione di una neuroscienza affettiva (vid. PANKSEPP J., Affective
Neuroscience: The Foundations of Human and Animal Emotions, Oxford University
Press, Oxford 1998, pp. 3-9).

161
volta è stato interpretato e valutato cognitivamente, l’affetto
si trova integrato con la coscienza della realtà, per cui solo
originariamente o in situazioni patologiche è possibile una se-
parazione radicale fra affettività e realtà.
Ciò nonostante, dal punto di vista della coscienza sco-
priamo delle differenze fra l’affettività e gli altri fenomeni fi-
nora visti. Infatti, il desiderio appare nella coscienza senza
oggetto e, quindi, come inconscio esistenziale, le sensazioni
sempre con un oggetto particolare e il pensiero con un oggetto
universale, mentre l’affettività lo fa sempre come un’intenzione
che nasce da un’inclinazione o tendenza del soggetto.
Anche nel modo in cui il soggetto appare nella coscienza
troviamo notevoli differenze. Infatti nelle sensazioni e nei
concetti il soggetto appare solo concomitantemente, mentre
nell’affezione si presenta direttamente, senza però aver biso-
gno di una riflessione. La mancanza di separazione fra l’og-
getto percepito e la sua valutazione propone l’esistenza di una
relazione intima fra realtà e soggettività previa alla conoscenza
oggettiva o se si vuole un rapporto con la realtà che non è
pratico né teorico ma affettivo, sul quale si basa il suo valore
esistenziale. Perciò, prima di essere strumento da manipolare
od oggetto da conoscere, la realtà è amica o nemica, favore-
vole o dannosa.
Per riferirsi a questo tipo di relazione con la realtà, alcuni
parlano di una coscienza originaria riflessa13. Infatti, si tratta
di una coscienza originaria come quella delle nostre sensa-
zioni, ma a differenza di essa il soggetto non è soltanto con-
notato, bensì presente in modo tematico senza però che si dia
13
Cf. MILLAN PUELLES A., La estructura de la Subjetividad, Rialp, Madrid
1967, p. 272.

162
una vera e propria riflessione. Ad esempio, nella paura il sog-
getto sente la situazione come pericolosa; nell’ira, come in-
giusta. La riflessione sull’affettività non origina perciò nuovi
affetti, bensì la possibilità di allentare quella valutazione spon-
tanea della realtà: il soggetto sa di sentire paura, cioè si rende
conto che quella situazione appare come pericolosa per lui.
Attraverso gli affetti, la persona sperimenta in modo unitario
la sua composizione somatico-psichica-spirituale e anche la
sua relazione immediata con il mondo e con gli altri. Di con-
seguenza, nonostante la molteplicità di dimensioni propria
degli affetti, il soggetto degli affetti non è il corpo o la psiche,
ma la persona14.
Anche la coscienza onirica è in grande misura affettiva,
ma qui la soggettività riguarda un mondo creato da essa stessa.
Perciò è possibile distinguere fra il sonno in cui la coscienza
si slega dal mondo reale e il sogno in cui il soggetto dormiente
produce un mondo onirico che ha qualche elemento in co-
mune con il mondo reale: lo stesso soggetto che dorme e
sogna (sebbene l’Io che appare nel mondo onirico sia tanto
irreale quanto il mondo sognato) è protagonista di una storia.
Se la riflessione sulla coscienza affettiva permette al soggetto
di trascendere l’ambito affettivo, nel sogno essa non basta a
liberarci dall’allucinazione. Infatti, è possibile rendersi conto
parzialmente che si tratta di un sogno15 e, ciò nonostante, non

14
Cf. D’AQUINO T., Quaestio De anima, q. un., a. 11, c. 5.
15
Secondo METZINGER il sogno lucido (lucid dream), dipende dall’entrata in
funzione della corteccia prefrontale, che rende possibile la coscienza riflessa
ristabilendo così l’agenzia cognitiva. Com’è noto, quest’autore considera l’Io
un mito (vid. METZINGER T., The Ego Tunnel: The Science of the Mind and the Myth
of the Self, Basic Books, New York 2009, p. 145).

163
svegliarsi. Invece, quando la situazione affettiva si rende in-
sopportabile o non è possibile andare oltre (ad esempio, nella
morte sognata), la coscienza reagisce diventando vigile. La
continuità fra il soggetto sveglio e quello dormiente permet-
terebbe alla persona di continuare a strutturare la sua identità
mediante la coscienza onirica. Ciò è particolarmente evidente
nei sogni che lasciano una traccia nella nostra interiorità.

4. Coscienza della realtà, pensiero e autocoscienza

Nella conoscenza sensibile appare un tipo particolare di


trascendenza della materia. Infatti, negli esseri non viventi ed
anche nei viventi che non sono dotati di conoscenza sensibile,
come la pianta, la relazione con l’ambiente non è vissuta. Ad
esempio, la pianta in un ambiente con una bassa temperatura
non sente freddo, ma diventa fredda. L’animale, invece, oltre
a diventare freddo – cambio fisico – sente il freddo, cioè pos-
siede intenzionalmente la forma accidentale del freddo, per
cui si può affermare che vive psichicamente e non solo fisi-
camente il freddo. Con la sensazione si ha già l’inizio della co-
scienza vigile, che si contrappone al sonno, alla perdita dei
sensi, allo stato vegetativo e al coma. La conoscenza sensibile
è la situazione intenzionale che permette al vivente di entrare
in rapporto con l’ambiente (nel caso dell’animale) e con il
mondo (nel caso dell’uomo) e di avere esperienza del proprio
agire e del rapporto con gli altri.
Man mano che le sensazioni dell’animale sono di rango
superiore il cambiamento fisico è minore e la conoscenza
maggiore. Così davanti al colore giallo, l’animale non diventa
giallo, ma vede giallo. L’animale, però, conosce sempre in

164
modo particolare il suo ambiente: sente questo freddo, vede
questo giallo, ha memoria di questo padrone, ecc. Le persone,
invece, oltre a cogliere i particolari (che sono sempre della re-
altà), possono riconoscere o mantenere una costanza ogget-
tiva, che non è particolare (il freddo, il giallo, l’animale, il
vivente), perché sono in grado di conoscere generalità in
senso proprio; ad esempio, l’animale può riconoscere la pro-
pria madre, ma solo la persona è capace di farle gli auguri per
la festa della mamma. La conoscenza umana non è solo sen-
sibile, ma anche intelligibile o oggettiva. Ad esempio, co-
gliamo l’identità oggettiva dell’albero al di sopra di ogni
individualità e, quindi, possiamo applicare questa costanza
oggettiva a tutti gli alberi, il che non può essere fatto da nes-
sun altro vivente corporeo. L’animale ha la capacità di cogliere
anche una certa identità (ad esempio, determinati cibi) sempre
relativa ai suoi bisogni e, dunque, particolareggiata, mai il cibo
in se stesso, slegato cioè da tutte le sue concrezioni.
Per conoscere i singolari in se stessi, ossia come individui
appartenenti a diverse categorie generali, è necessaria la co-
noscenza intelligibile. Anche se l’unione di sensazione e d’in-
tellezione si dà già nei sensi interni, concretamente in ciò che
San Tommaso chiama cogitativa o ragione particolare perché
partecipa di essa (ad esempio, per fuggire da questo ladro, si
deve conoscere che questo è un ladro, cioè che esso rientra
nell’universale ladro), il modo di conoscere i singolari me-
diante questo senso fa sempre riferimento ai propri bisogni16.
La persona, però, è in grado di andare oltre i bisogni e di co-
gliere la realtà con indipendenza dalle proprie inclinazioni,
giacché non ha ambiente ma mondo. Infatti, oltre a conoscere
16
D’AQUINO T., De Veritate, q. 10, a. 5.

165
il ladro come pericoloso, lo si può conoscere come manife-
stazione di una determinata patologia – la cleptomania –
come violatore della legge, ecc. In tutti questi casi non ab-
biamo a che vedere, per lo meno non direttamente, con un
pericolo, bensì con un oggetto di conoscenza studiato dalle
diverse scienze. La situazione di pericolo – o, in genere, di bi-
sogno – rende difficile, invece, la conoscenza della realtà in
se stessa.
Per arrivare a questo grado di conoscenza è, dunque, ne-
cessario andare oltre la conoscenza sensibile legata ai bisogni
vitali; ciò non significa però non tenerne conto, ma piuttosto
integrarla, purificarla e stabilizzarla in una forma superiore:
la conoscenza intelligibile.
L’esperienza quotidiana manifesta in modo chiaro come
si realizza il passaggio dalla sensibilità all’intelligenza: le per-
cezioni, le rappresentazioni della fantasia e le intenzioni in-
sensate della memoria sono unificate in un’immagine sensibile
o fantasma, che si presenta all’intelligenza perché questa ne
astragga l’essenza. Facciamo un esempio: dal pino, cioè un al-
bero particolare, arriviamo mediante la conoscenza intelligibile
all’albero universale, che può essere predicato di qualsiasi al-
bero. È necessario, però, passare poi dall’albero universale a
quello particolare: infatti, noi non abbiamo solo idee, ma co-
nosciamo i particolari, il pino concreto. Se avessimo unica-
mente astrazione, avremmo solo una conoscenza universale;
invece, siamo in grado di conoscere il singolo pino come al-
bero. E ciò è possibile poiché – come già accennato – c’è una
conversio ad phantasma. Perciò Aristotele e Tommaso sosten-
gono che l’oggetto proprio della conoscenza umana è l’es-
senza degli enti corporei. Qui si può vedere un parallelismo
fra l’intelletto umano come potenza spirituale di un’anima

166
unita a un corpo e la sua capacità di avere come oggetto pro-
prio le essenze astratte delle cose materiali. In altre parole, alla
costituzione ontologica della persona umana corrisponde un
determinato modo di conoscere. Ne deriva che non abbiamo
idee innate ma conosciamo tutto a partire dai nostri sensi poi-
ché cogliamo l’essenza di ciò che è corporeo17.
La conoscenza intellettuale umana non è, dunque, limitata
da una base organica per due motivi: a) perché fa astrazione
da tutto ciò che è materiale ovvero particolare, anche se questi
universali rimandano sempre alle realtà materiali da dove pro-
viene il fantasma; b) perché può ricevere qualsiasi forma,
senza che essa la determini materialmente; infatti, mentre i
rumori, colori, sapori intensi possono impedire la percezione
di altri meno intensi, le essenze anche se percepite con molta
evidenza non impediscono la conoscenza di altre essenze,
piuttosto accade il contrario. La conoscenza intellettuale può
essere determinata parzialmente solo dall’essenza intenzio-
nale, ovvero dalla forma conosciuta, giacché prima dell’intel-
lezione l’intelletto paziente è pura potenzialità passiva
riguardo alle forme intelligibili.
Nonostante i limiti della nostra conoscenza concettuale,
siamo capaci di conoscere gli animali singolarmente e, soprat-
tutto, le persone. Infatti, un tipo particolare di conoscenza è
quello riguardante gli animali che manifestano un’intenziona-
lità e in modo particolare le persone umane. Conosciamo Pie-
tro non solo come individuo della specie umana, ma anche
nella sua medesima singolarità e carattere (desideri, pensieri,
volizioni, progetti). Attraverso l’empatia, siamo in grado di
17.
L’astrazione è, da questo punto di vista, un’operazione interamente spi-
rituale (vid. D’AQUINO T., S.Th., I, q. 85, a. 1).

167
comprenderlo parzialmente nella sua stessa identità, potendo
conoscere i suoi affetti, i suoi pensieri e, soprattutto, l’inten-
zionalità delle sue azioni. Il cosiddetto sistema di neuroni
specchio fa parte della base neurale di questa comprensione.
Esperimenti con macachi hanno mostrato che alcune reti
neuronali della corteccia prefrontale si attivano sia quando
questi animali realizzano azioni con una determinata inten-
zione (prendere, manipolare, separare determinate cose) sia
quando vedono altri congeneri o persone realizzare queste
stesse azioni; invece rimangono inattivi quando l’operazione
è fatta in modo incompleto o quando si trovano davanti a
strumenti che non sanno come usare18. Queste reti neurali,
dunque, aiutano i primati e le persone umane a imitare e ri-
conoscere determinati gesti, azioni e comportamenti, rispec-
chiandoli cerebralmente. Il sistema dei neuroni specchio
potrebbe far parte del fondamento neurologico dell’empatia,
tramite cui siamo in grado di metterci nei panni dell’altro, di
condividere con lui emozioni, desideri e pensieri. Inoltre, co-
nosciamo le persone mediante la rivelazione che esse fanno
della loro intimità attraverso la comunicazione linguistica. Per
questo il nostro modo di conoscere le persone non è come
quello delle cose19. Ciò è particolarmente evidente nella co-
noscenza di sé o autoconoscenza, e soprattutto in quella del-
l’altro. Nella conoscenza dell’altro si coglie sempre un essere
18
Cf. RIZZOLATI G. - FOGASSI L., Physiological Mechanisms Underlying the Under-
standing and Imitation of Action, «Nature Reviews Neuroscience», 2 (2001), p. 662.
19
Invece, secondo Maritain, la nostra intelligenza non è in grado di cono-
scere i soggetti come tali, ma sempre in modo oggettivo «Dovuto al fatto che
questa conosce senza dubbio i soggetti, ma li conosce come oggetti, risulta to-
talmente circoscritta entro la relazione intelligenza-oggetto» (MARITAIN J., Breve
trattato dell’esistenza e dell’esistente, Morcelliana, Brescia 1965, p. 88).

168
che c’interpella eticamente, poiché l’altro è sempre qualcuno
da riconoscere, rispettare e amare.
Uno dei maggiori limiti della modernità è stato quello d’iden-
tificare coscienza, autocoscienza e conoscenza non rendendosi
conto della distinzione fra tre realtà: la luce che illumina il pro-
prio vivere o coscienza, la conoscenza oggettiva o intelligibile e
l’autocoscienza. In Cartesio questa mancanza è evidente in
quanto, secondo lui, l’esperienza del proprio corpo, la sensa-
zione e l’autocoscienza sono la stessa cosa, giacché, sebbene
solo quello dell’autocoscienza sia chiaro e distinto, tutt’e tre sono
pensieri. In Hegel c’è una distinzione iniziale fra la coscienza
sensibile, il concetto e l’autocoscienza, ma alla fine le differenze
scompaiono nella coscienza piena dello Spirito Assoluto.
Wojtyla, invece, distingue con chiarezza fra coscienza, co-
noscenza e autoconoscenza, ad esempio, fra la coscienza di
camminare, il concetto di camminare e il rendersi conto di star
camminando. Proponendo un’interpretazione tomista della fe-
nomenologia della coscienza, egli sostiene che mentre la co-
scienza non è intenzionale, lo è invece la sensazione e il
concetto. Dunque, diversamente da Franz Brentano e Ed-
mund Husserl, l’intenzionalità sarebbe una proprietà essenziale
della coscienza, bensì della conoscenza, perché la coscienza
non conosce ciò che appare in essa, ma solo rispecchia ciò che
è stato conosciuto20. Ciò spiegherebbe perché l’inconscio, il
20.
«Lo specchio della coscienza ci introduce molto più all’interno degli atti
e della loro relazione con il proprio “io” e, inoltre, il ruolo della coscienza ci
permette non solo di osservare interiormente i nostri atti (introspezione) non-
ché la loro dinamica dipendenza dal proprio “io”, ma anche di vivere interiormente
questi atti, come atti nostri», (WOJTYLA K., Persona e atto,in Metafisica della persona.
Tutte le opere filosofiche e saggi integrativi, REALE G. - STYCZEN T. (a cura di), Bom-
piani, Milano 2003, p. 885).

169
sogno e, come vedremo, anche l’affettività fanno parte della
coscienza senza – come l’inconscio tendenziale – essere og-
gettiva, o hanno un’intenzionalità che – come nel sogno – è
puramente soggettiva o – come nell’affettività – è un misto di
soggettività-oggettività. Forse ciò che caratterizza la coscienza
è la sua base organica, soprattutto neurale, la sua capacità di
rispecchiare e, soprattutto nell’uomo, la sua relazione intima
con la soggettività. Infatti, l’esperienza della coscienza umana
è sempre in prima persona, per cui, come afferma Thomas
Nagel, nella domanda che cosa significa essere qualcuno ve ne
è implicita un’altra: che cosa significa avere esperienze?21, o
meglio ancora, rendersi conto di avere esperienze.
Certamente, parlare di una base cerebrale della coscienza
non significa ridurla a un puro correlato neurale, come fa
Francis Crick, per il quale noi non siamo altro che un bunch
of neurons (“fascio di neuroni”)22. In questo modo la questione
della coscienza si “risolve” eliminandola, poiché l’unico pro-
blema sarebbe di natura fisica, riuscire cioè a fare una map-
patura completa del cervello, il che una volta raggiunto
permetterebbe di capire tutti i fenomeni di coscienza. Penso
che si tratti, piuttosto, di cercare che cosa sia un vissuto, cioè
l’esperienza di essere un vivente. Quindi, lo sfondo della co-
scienza è non solo l’organismo, ma anche un organismo vi-
vente che ha vissuti. Infatti, i bisogni, desideri, sensazioni,
affetti e pensieri ci consentono di avere l’esperienza di essere
viventi. È chiaro, però, che i nostri vissuti in un modo o in

21
Cf. NAGEL T., What Is It Like to Be a Bat?, «The Philosophical Review»,
83 (1974), pp. 435-45.
22
CRICK F., The Astonishing Hypothesis: The Scientific Search for the Soul, Charles
Scribner’s Sons, New York 1994, p. 3.

170
un altro si riferiscono al nostro rapporto con il mondo, il
quale non è solo luogo fisico né ambiente, ma soprattutto re-
altà che interpella la nostra soggettività in modo completo,
cioè desiderativo, intenzionale, universale e pratico perché
come vedremo la tendenza, la percezione, la ragione, la voli-
zione e il movimento fisico s’integrano nell’azione. Insomma,
la coscienza non è l’ambito interno dell’organismo, che coin-
ciderebbe con i collegamenti neurali, bensì la relazione viva
del corpo sensibile e spiritualizzato con il mondo e con gli
altri (già nei primati si osserva l’importanza delle relazioni con
gli individui della stessa specie per i processi di sviluppo). Cer-
tamente, il cervello, in modo particolare nei collegamenti fra
le diverse reti neurali, è la condizione organica di possibilità
della coscienza sensibile, mentre l’intelletto agente è la con-
dizione di possibilità dell’autocoscienza.
Nella persona, l’inconscio e la coscienza sensibile nella sua
strutturazione ultima o fantasma sono la base della cono-
scenza intelligibile. La coscienza non sarebbe dunque la causa
formale delle nostre idee, bensì il pensiero, al quale certa-
mente si accompagna la coscienza o coscienza concomitante. L’og-
getto sensibile e intelligibile non è costituito dalla coscienza,
ma dalle sensazioni e dagli atti di pensiero. La coscienza ha
quindi la funzione di rispecchiare e interiorizzare i vissuti e
di conseguenza anche gli atti di conoscenza sensibile e intel-
ligibile. Attraverso l’interiorizzazione, si produce una trasfor-
mazione della soggettività, la quale si vive nella sua passività
(come nell’esperienza qualcosa accade in me)23, ma anche nella
sua attività (decisione, atto, responsabilità, ecc.).
Qualcosa di simile si può dire della conoscenza di se
23
Cf. WOJTYLA K., Persona e atto, o.c., p. 933.

171
stessi e degli altri. Infatti, essa è alla base dell’autocoscienza
e della coscienza dell’altro come essere capace di autoco-
scienza. Oltre ad avere una coscienza concomitante di sé, la
persona è capace di autocoscienza, perché il pensiero umano
è in grado di ritornare su di sé facendosi carico della propria
soggettività conoscente24. L’autoconoscenza è il livello supe-
riore d’immanenza e trascendenza nell’ambito della cono-
scenza, per cui il suo rispecchiamento fa vivere alla persona
il punto più alto della sua interiorizzazione, necessario per
possedersi. Ciò spiega il dominio che, a differenza dell’ani-
male, la persona ha su di sé: non si sente trascinata dai fini
della specie, ma si prefigge i propri fini perché conosce ciò
che essa e ciò che vuole.

5. Coscienza e volontà

L’autocoscienza, o coscienza di se stesso, appare chiara-


mente nell’azione completa della volontà, ossia la voluntas ut
ratio. Certamente qui la coscienza non è quella di un soggetto
che desidera la felicità, poiché ciò costituisce l’orizzonte di
ogni volizione – non l’oggetto intenzionale diretto del volere
–, bensì dell’Io come origine dell’agire ovvero di una realtà
24
Ci sono diverse teorie sull’autoconoscenza. Una è quella riflessiva classica
di SAN TOMMASO (conoscere di conoscere), altre sono oggettiviste in maggiore
o minore misura (ci conosciamo, oltre che sperimentalmente, concettualmente,
questa è la posizione ad esempio di WOJTYLA), altre ancora sono intuizioniste,
come quella di CARTESIO, o abituali, come propone POLO L., secondo cui l’au-
toconoscenza non è un atto della conoscenza ma un abito, concretamente
quello che coglie l’essere personale (Vid. POLO L., Antropología transcendental, II,
EUNSA, Pamplona 2003, pp. 268-273).

172
assolutamente nuova che dipende da me stesso e di cui sono
perciò responsabile. Infatti, non solo nella scelta, nella deci-
sione e, soprattutto, nell’uso volontario delle nostre funzioni
cognitive (guardare, ascoltare, ricordare) abbiamo coscienza
di essere origine, ma già – anche se in modo oscuro – nell’atto
di consentire. Ciò spiega la distinzione fenomenologica ed
esistenziale fra essere tentato, in cui la volontà subisce l’attra-
zione di quel bene finito che si presenta come infinito, e l’ac-
consentire alla tentazione, in cui il soggetto accetta il finito
come infinito. Qui la volontà non è più passiva.
A mio parere è quello che, attraverso il cogito, Cartesio ha
scoperto. Infatti, il cogito non ha – secondo questo pensatore
– niente a che vedere con la razionalità pratica né con quella
teoretica. Esso riguarda la coscienza o, ancora meglio, l’au-
tocoscienza. Secondo il filosofo della Turenna, essere per-
sona equivale a essere conscio di sé, ossia essere un cogito.
L’azione propriamente umana è, dunque, il puro pensiero
o autocoscienza? Se così fosse, la critica fatta da Kant, e poi
ripresa in parte da Husserl, sarebbe valida: Cartesio avrebbe
confuso il pensiero con la riflessione. Infatti, la coscienza che
coglie se stessa come essere pensante è una riflessione, poiché
come ha indicato il pensiero aristotelico-tomista la cono-
scenza è intenzionale: il conoscere è sempre di ‘qualcosa’ e
mai un puro conoscere di ‘conoscere’25.
25
Com’è noto, il punto di collegamento fra scolastica e fenomenologia è
l’opera di BRENTANO F., Psychologie vom empirischen Standpunkt: «Ogni fenomeno
psichico è pertanto caratterizzato da ciò che gli Scolastici del Medioevo chia-
mano la inesistenza intenzionale (o anche mentale) di un oggetto; noi la chia-
meremo la relazione a un contenuto, la direzione verso un oggetto (il quale
non va qui inteso senz’altro come realtà) o anche oggettività immanente» (I
Felix Meiner Verlag, Hamburg 1973, p. 124).

173
La critica a Cartesio di aver scambiato la coscienza per
la riflessione non sembra invece cogliere nel segno, perché
il pensatore della Turenna introduce nel pensiero un ele-
mento che, senza essere tale, lo accompagna sempre seb-
bene spesso non ne siamo consci: la valutazione del
pensiero come bene o, se vogliamo, la sua affermazione
come valore. In altre parole, pensiamo perché apprezziamo
quest’atto come buono.
Cartesio mette a nudo questa struttura dell’azione umana
perché il suo punto di partenza non è la spontaneità del pen-
siero, ma ciò che lo mette in moto: il volere. Il dubbio ini-
ziale serve, infatti, a far venire fuori quest’origine: Cartesio
dubita perché vuole dubitare e lo vuole perché tenta di co-
noscere la verità26. L’introduzione del volere nell’atto del
pensare non è però una forzatura, come se il pensiero non
avesse bisogno di essere affermato. La forzatura consiste
nel non voler riconoscere tale punto di partenza, cioè nel
sostituire il voler conoscere la realtà con un puro atto di pensiero
e questo con l’autoconoscenza.
Molti secoli prima, Sant’Agostino aveva già accennato a
una simile struttura quando sosteneva la necessità di tre prin-
cipi perché si potesse dare qualsiasi operazione dell’anima:
dalla sensazione, alla volizione, passando per il pensiero. Per
conoscere, spiega il vescovo d’Ippona, non basta l’oggetto,
26
«Nell’atto in cui volevo pensare così, che tutto era falso, bisognava ne-
cessariamente che io, che lo pensavo, fossi qualcosa. E osservando che questa
verità, penso dunque sono, era così salda e certa da non poter vacillare sotto l’urto
di tutte le più stravaganti supposizioni degli scettici, giudicai di poterla accettare
senza scrupolo come il primo principio della filosofia che cercavo» (DESCARTES
R., Discours, in Oeuvres de Descartes, VI, ADAM CH. – TANNERY P. (a cura di), Vrin,
Paris 1974-1983, p. 32).

174
né l’attività del conoscere, ma è anche necessaria l’atten-
zione27. A differenza dell’oggetto e dell’atto di conoscere, l’at-
tenzione dipende solo dall’anima, la quale solo conosce
quando l’applica all’oggetto conosciuto.
Ma perché l’anima fissa la sua attenzione? Perché è inte-
ressata, perché quella realtà non la lascia indifferente; in-
somma, perché vuole conoscerla. Certamente, il grado di
volontarietà è differente nell’attenzione prestata alla sensa-
zione (guardare, invece di vedere) e in quella prestata a un ra-
gionamento e ancora di più in quella dell’esecuzione di
un’azione per noi importante.
Ecco perché il pensare, come qualsiasi altra azione umana
(intesa in senso classico, cioè in contrapposizione agli atti
dell’uomo), può permettere alla persona non solo di cono-
scere ma anche di conoscere di voler conoscere, cioè saper di
essere l’origine del proprio atto. È questo, a mio parere, che
viene rivelato dal Cogito ergo sum. La differenza fra l’azione
umana e le restanti azioni si coglie nello stesso atto di pensare:
non per quello che è pensato (oggetto), ma per colui che lo
pensa, poiché pensare è conoscere se stessi come origine del
proprio atto28. Per questo motivo, nel volere c’è la coscienza
di se stessi come origine o libertà (libertà psicologica).
27
«Inoltre, come il volere applica il senso al corpo, così egli applica la me-
moria al senso, e lo sguardo del pensiero alla memoria. Ma lo stesso volere, che
li mette insieme e li combina, li divide anche e li separa» (SANT’AGOSTINO, De
Trinitate, XI, cap. 8).
28
In questo senso, condividiamo la tesi di TAYLOR, secondo cui AGOSTINO
si trova all’origine dell’atteggiamento moderno di portare «in primo piano un
tipo di presenza a se stessi inseparabilmente legato al fatto che siamo agenti di
esperienza, cioè realtà l’accesso alle quali è asimmetrico» (TAYLOR CH., Radici
dell’Io. La costruzione dell’identità moderna, Feltrinelli, Milano 1993, p. 172).

175
6. Conclusione

Con lo studio della coscienza dell’azione arriviamo al nu-


cleo dell’integrazione dei diversi tipi di coscienza: la persona
non è legata solo alle diverse fasi dello sviluppo della co-
scienza e dell’Io (le diverse fasi della libido, come vorrebbe la
psicoanalisi), né si modella solo secondo l’influsso dei condi-
zionamenti socio-culturali (i riflessi condizionati e la situa-
zione, come vorrebbe il comportamentismo), e neppure si
sviluppa solo attraverso un processo di elaborazione dell’in-
formazione nel tentativo di risolvere problemi ogni volta più
complessi (i processi cognitivi, come vorrebbe il cognitivi-
smo), ma cresce come persona soprattutto attraverso il suo
agire e la coscienza che ha di esso.
In conclusione, visto dalla prospettiva della coscienza,
l’atto umano sarebbe l’ambito in cui la persona, nell’attualiz-
zare le potenzialità che le sono proprie (dinamismi fisiologici
ed emozionali, pensiero, volizione, ecc.), vive se stessa inter-
namente come agente, costruendo così il suo carattere. La
persona che agisce conosce se stessa come soggetto agente,
perché nell’atto scopre dei fini con cui s’identifica giacché li
riconosce come propri. In definitiva, la persona si scopre
nell’atto perché in esso si realizza la sua intenzionalità.

176
SVILUPPO INTEGRALE
E QUALITÀ DELLA VITA
TRA PENSIERO E COMPORTAMENTO

Javier Fiz Perez

Introduzione

Un tema così ampio, dove interagiscono concetti del


mondo dell’economia e della psicologia, richiederebbe tanti
distinguo e certamente un maggior approfondimento. Il mio
tentativo è quello di offrire un “filo d’Arianna” che dia una
unità e chiave di lettura a questi concetti di economia com-
portamentale. Questo filo conduttore non è altro che la con-
tinua riflessione sulla natura umana, con la quale dovremmo
sempre confrontarci. Cambiano i tempi, i contesti sociali, pos-
siamo percepire dei cambiamenti negli atteggiamenti delle
persone ma non sarà mai possibile modificare sostanzial-
mente la natura umana.
È da augurarsi che psicologi, sociologi ed economisti, la-
vorino insieme per capire le aspirazioni delle persone ed il
loro vero bene comune, e poter così arrivare ad una cono-
scenza scientificamente fondata dei problemi della società.
Soltanto uno studio interdisciplinare, con una sana filosofia
di base, ci può permettere di sviluppare al massimo le po-

JAVIER FIZ PEREZ, Università Europea di Roma.

177
tenzialità di ogni specifica scienza, per il bene dell’intera
umanità.
Solo di recente i processi di ragionamento e presa di de-
cisione, in ambito economico, sono divenuti oggetto di analisi
da parte della psicologia e delle neuroscienze secondo una
prospettiva integrata. Grazie ai nuovi approcci neuroecono-
mici, psicoeconomici e socioeconomici, è stata evidenziata
l’esistenza di elementi di congiunzione inattesi tra comporta-
mento economico, meccanismi cognitivi e funzioni cerebrali,
nonché tra processi di scelta, emozioni e motivazione. Da di-
versi studi emerge come gli individui, di fronte a scelte eco-
nomiche, adottino atteggiamenti e strategie di ragionamento
assai più complesse del semplice calcolo utilitaristico.
Parlare di comportamento implica necessariamente una
riflessione sull’etica sociale, il che comporta una infinità di
domande le cui risposte dovrebbero presupporre la ricerca
del bene comune. Aristotele, nell’etica Nicomachea, diceva
che “il bene è desiderabile quando interessa a un solo indivi-
duo; ma ha un carattere più bello e divino quando interessa
ad un intero popolo”. In questo modo il bene comune, in
conformità con la natura sociale del l’uomo, sviluppa un ruolo
fondamentale nell’azione politica, perché diretto alla ricerca
dei beni e degli interessi personali e collettivi. L’assunto di
partenza è che i fenomeni economici costituiscono uno degli
aspetti della vita civile, ma questa ha anche altre e più ampie
dimensioni, non si esaurisce nell’economia; … “L’attività eco-
nomica prende consistenza e si sviluppa sempre in un conte-
sto politico civile che ne garantisce la stabilità e la sicurezza”
(A. Fazio 1996). Lo sviluppo socialmente sostenibile è quello
che mantiene la coesione di una società, permettendo ai suoi
membri di collaborare insieme per raggiungere obiettivi co-

178
muni, parallelamente al soddisfacimento dei bisogni indivi-
duali di salute e benessere, di nutrimento e riparo adeguati, di
espressione ed identità culturale e d’impegno politico (F.R.
Lenzi 2010).

L’economia ed il benessere presuppongono


lo sviluppo integrale

Il futuro della nostra società, il vero sviluppo integrale,


implica l’incontro tra i popoli, il dialogo tra le culture ed il ri-
spetto delle diverse identità e delle legittime differenze. Lo
sviluppo e l’economia, quindi, dovranno sempre fare i conti
coi diritti fondamentali della persona, partendo dal vero com-
promesso di responsabilità delle diverse istituzioni nazionali
ed internazionali.
Come ci ricorda il Prof. Daniel Kahneman, la grande no-
vità ed il cambiamento di prua lo si sta notando da quando
l’economia comincia ad essere vista, anche negli Stati Uniti,
come una disciplina da collegare alle scienze sociali. Il Prof.
Daniel Kahneman, psicologo e Premio Nobel in Economia,
ha parlato a lungo di questi argomenti. La base scientifica la
troviamo nel fatto che il vecchio approccio economico, che
aveva a che fare con la razionalità delle scelte, in qualche
modo viene meno, perché il comportamento umano non è
sempre razionale, motivo per cui la politica ha anche la grande
responsabilità di dare un ordine al comportamento delle per-
sone nell’assoluto rispetto della dignità dell’essere umano.
Il potere politico si esercita legittimamente soltanto nella
ricerca del bene comune della società, tramite mezzi moral-
mente leciti. Purtroppo tante volte il bene comune, nel lin-

179
guaggio politico attuale, è considerato come “interesse gene-
rale” o “interesse di tutti”, riducendolo così alla semplice
somma dei beni o degli interessi particolari dei diversi soggetti
appartenenti al corpo sociale. Questa definizione di bene co-
mune nasconderebbe un trasfondo etico di tipo utilitarista
che pretenderebbe giustificare quello che la maggioranza ri-
tiene utile. Facendo così sarebbero le statistiche e i campioni
a decidere il bene della società (cerchiamo di immaginare cosa
succederebbe se un gruppo maggioritario considerasse il con-
sumo delle droghe come un bene per la società) Per questo
motivo la Gaudium et Spes ci ricorda che l’ordine sociale e
lo sviluppo devono subordinarsi al bene delle persone. Questa
potrebbe essere sicuramente un’ottica di lettura sulla corret-
tezza del comportamento umano.

Psicologia, economia e felicità

Economia e felicità vanno insieme nell’analizzare la col-


lettività, perché non si possono studiare seguendo soltanto il
singolo. La scelta rilevata, cosiddetta in gergo economico, è
importante ma superficiale se non cerca di capire più in pro-
fondità, i meccanismi che portano a tali scelte. Le scelte indi-
viduali e le scelte sociali hanno a che fare con l’informazione
percepita e la natura della persona.
Qualità della vita, felicità, well being non sono concetti
che stanno allo stesso livello. Non possiamo certamente ri-
durre il tutto a stati emozionali soggettivi, ne tanto meno mi-
surare ogni realtà con gli stessi parametri. Al di là della
misurazione oggettivista o soggettivista di questo fenomeno,
c’è da dire che serve comunque una scala di valori per capire

180
le priorità e le motivazioni comportamentali dell’essere
umano. Quindi, non contano tanto i beni che abbiamo bensì
le emozioni che percepiamo nel possederli.
Visto che il concetto di benessere e di felicità è comunque
in stretta relazione con il contesto sociale è ancora più im-
portante che ci sia una filosofia di base, nell’essere umano,
ove non sia solo la quantità di beni materiali in possesso
l’unico parametro per la misurazione della felicità e del vero
sviluppo della persona. C’è sempre, alla base, un aspetto re-
lazionale nella concezione del proprio benessere.
Le aspettative, le persone e le relazioni stanno alla base
della felicità (senza togliere importanza ai cosìddetti “primary
goods”: casa, reddito, salute, libertà…). Così la psicologia può
tendere al bene della persona ed al bene comune avendo a
che fare con l’economia e con la politica, non limitandosi alla
cura della persona ma al cambiamento, alla sua autonomia e
allo sviluppo delle sue potenzialità. La psicologia osserva la
persona nel suo insieme non essendo il disagio esistenziale
riducibile all’economia. Per quale motivo oggi constatiamo
tanta insoddisfazione quando abbiamo più beni di quelli che
esistevano negli anni 1950?
Siamo passati dal tempo del gruppo di appartenenza e di
sostegno, all’individualismo che mette tutti in gara per pos-
sedere di più. Felicità e benessere non sono legati soltanto al
soggettivismo delle persone ma, soprattutto, alla relazione
con gli altri e alla condivisione con gli altri. La felicità quindi
esiste se c’è comunione e condivisione con gli altri. Un
mondo dove ci sono guerre, malattie e prepotenze, che im-
plicano grandi differenze sociali, è un mondo che ci deve far
riflettere sulla felicità degli altri, che sarà in qualche modo
condizionata e condizionante della mia felicità.

181
I processi cognitivi

Abbiamo visto come sia stato messo in discussione il po-


stulato che considera i comportamenti e le decisioni degli
operatori economici – consumatori, investitori, risparmiatori
– necessariamente improntati a razionalità, nel senso che ten-
dono a ottimizzare l’utile che si può ricavare dall’impiego delle
risorse; ragion per cui le ‘regole’ dell’economia avrebbero una
loro razionalità intrinseca che comunque oggi va messa in di-
scussione con le nuove teorie della economia comportamen-
tale. Sono proprio le indagini di mercato a evidenziare che la
domanda di prodotti e di servizi, e quindi l’evoluzione dei
consumi, si carica sempre più di componenti psicologici e cul-
turali; si carica cioè di aspettative, di emozioni, di desideri, di
motivazioni diverse ed in continuo cambiamento.
È da tempo che le indagini di mercato si sono trasformate
sostanzialmente in indagini psico-sociologiche, centrate sugli
stili di vita dei consumatori, sui comportamenti e sugli atteg-
giamenti degli investitori e dei risparmiatori. Tutti fattori che
vanno ben oltre la tradizionale misurazione dei rapporti tra
domanda e offerta, da cui si facevano derivare meccanicisti-
camente le scelte economiche dei produttori, di beni e servizi
come degli operatori finanziari e di borsa.

Un excursus storico

La psicologia economica, intesa come disciplina che studia


i meccanismi e i processi psicologici che sottostanno al con-
sumo e ad altri comportamenti economici, si occupa delle
preferenze, scelte, decisioni e dei fattori che le influenzano,

182
come delle conseguenze, decisioni e scelte rispetto alla sod-
disfazione dei bisogni. Inoltre essa tratta dell’impatto degli
eventi economici sul comportamento e sul benessere delle
persone.
Economia e psicologia hanno origini molto antiche e co-
muni. Aristotele propose la famosa distinzione fra economia,
ovvero la giusta cura della casa e della comunità, e crematistica,
ovvero l’attività economica finalizzata ad accumulare ric-
chezza, esprimendo una chiara preferenza per la prima. Ma
fu sempre Aristotele a scrivere il primo libro di psicologia
(Para psykhé), nel quale egli discute molte idee e concetti che
sono tuttora importanti in ambito psicologico.
Passando ad epoche relativamente più recenti ( XVIII e
XIX sec.), nei paesi anglosassoni le radici dell’economia e
della psicologia possono farsi risalire ai filosofi inglesi empi-
risti. Verso la fine dell’Ottocento, economia e psicologia si
differenziarono nettamente in quanto la seconda si avviò a
diventare una disciplina prevalentemente sperimentale, men-
tre la prima restò connotata da una dimensione prevalente-
mente assiomatica ed astratta. Entrambe le discipline hanno
come oggetto di studio l’azione umana e i fattori che la in-
fluenzano, ma adottano approcci sostanzialmente diversi.
L’economia si è preoccupata di definire i fondamenti teorici
della razionalità, elaborando modelli normativi di decisione
basati sul rapporto ottimale fra obiettivi e risorse disponibili,
ovvero tra mezzi e fini, prestando scarsa attenzione alle scelte
individuali concrete. La psicologia al contrario, si è interessata
dell’osservazione empirica e sperimentazione, cercando di de-
scrivere e spiegare i processi di decisione ed azione degli in-
dividui.
Attualmente l’economia e la psicologia economica o eco-

183
nomia comportamentale, che si caratterizza essenzialmente
come una psicologia sociale applicata all’area delle condotte
economiche, divergono anche per gli assunti che esse adot-
tano con riferimento all’azione degli agenti economici. L’eco-
nomia, seguendo il paradigma neoclassico, presuppone che i
decisori economici (singoli, famiglie, imprese), che si suppon-
gono razionali, interagiscano cercando di ricavare la massima
utilità e che i criteri di scelta individuali dell’azione economica
siano pochi, semplici, indagabili scientificamente, matemati-
camente trattabili e misurabili.
Il funzionamento dell’economia, poi, non sarebbe altro
che il risultato della somma delle intenzioni e dei comporta-
menti dei singoli. Nella costruzione di una teoria del com-
portamento razionale del consumatore acquista un ruolo
essenziale il concetto di utilità, sulla base della quale l’uomo,
sostanzialmente guidato dalla ricerca del piacere, si impegna
in uno sforzo (acquisto) solo se questo è debole o se ne ricava
una qualche utilità (Mistri, 1998, 2000). Si tratta di concettua-
lizzazioni che gli sviluppi della psicologia cognitiva, anche in
ambito di conoscenza sociale, hanno messo seriamente in di-
scussione.
Secondo i sociologi economici, la spiegazione del com-
portamento economico va ricercata nella conoscenza econo-
mica a disposizione dell’attore. In altre parole, sono le
conoscenze di senso comune degli agenti che consentono di
capirne il comportamento economico.
La teoria finanziaria classica ipotizza che gli individui siano
perfettamente razionali e agiscano utilizzando set informativi
completi ed omogenei. Per lungo tempo essa è stata impiegata
per trarre implicazioni sul piano non solo normativo ma
anche descrittivo. La ricerca empirica ha, tuttavia, mostrato

184
che gli investitori commettono sistematicamente errori di ra-
gionamento e di preferenze, difficilmente conciliabili con l’as-
sunto di razionalità delle scelte. Tali errori si riflettono in
“anomalie comportamentali” che si traducono in errori di
percezione della relazione rischio/rendimento, scarsa diver-
sificazione ed eccessiva movimentazione del portafoglio
(Convegno CONSOB, presso l’Università LUISS Carlo G., 4
Giugno 2010).
Partiamo dal principio che la psicologia economica studia
il rapporto tra le decisioni e i consumi interessandosi parti-
colarmente dei processi cognitivi che stanno alla base del
comportamento umano. Mi sembra opportuno ricordare
come secondo Keynes i fenomeni psicologici non sono né pre-
vedibili, né controllabili da una teoria economica.
La presa di decisione è una attività cognitiva tra le più
complesse, alla base della quale vi sono processi in larga parte
simili a quelli che entrano in gioco nella soluzione dei pro-
blemi: processi mnestici, inferenziali, di ricerca e di elabora-
zione delle informazioni. Le prime teorie che ambiscono ad
una spiegazione completa ed esaustiva della nostra attività in-
tellettuale e della presa di decisione, si sono affacciate sulla
scena della psicologia non più di venti anni fa .Alle tradizioni
ereditate dal passato, in particolare lo studio delle inferenze
deduttive e dei processi di categorizzazione, si affacciano
nuovi settori. Quello che ha destato più attenzione è la “neo-
nata” psicologia delle decisioni che affonda le proprie radici
nei modelli prescrittivi dell’azione razionale messi a punto
dagli economisti. Non sempre i modelli economici o razionali
corrispondono alla realtà; in questi modelli, infatti, non ci si
può permettere di guardare alle emozioni, elemento essen-
ziale per la scelta e le decisioni quotidiane. Negli ultimi de-

185
cenni preziose indicazioni per migliorare le competenze de-
cisionali stanno emergendo dal marketing in cui le emozioni
si manifestano.
Possiamo anche costatare come, nell’ambito del mercato,
si stiano verificando le teorie sulla passionalità irrazionale del
consumatore. Il termine emotional design indica il complesso
rapporto emotivo che intercorre fra individui e oggetti. Que-
sto rapporto preclude la possibilità che si possano possedere
ed utilizzare oggetti emotivamente neutri. Cioè non in grado
di innescare emozioni nei singoli soggetti. All’interno della
dinamica emozionale, dell’emotional design, possiamo indivi-
duare tre differenti livelli emotivi denominati rispettivamente:
livello comportamentale, riflessivo e viscerale. Ogni oggetto
ha la capacità insita in sé di emozionare almeno secondo uno
dei livelli sopracitati.
Sebbene negli ultimi trent’anni gli psicologi sociali abbiano
dedicato notevole attenzione ai processi attraverso i quali le
persone arrivano a elaborare una rappresentazione della realtà
esterna, nei manuali di psicologia sociale troviamo pochissimi
cenni riferiti alla dimensione economica o, più precisamente,
non vengono approfonditi i meccanismi con cui i soggetti co-
struiscono e aggiornano le aspettative economiche che, pre-
sumibilmente, guidano le loro stesse azioni.
La scarsa considerazione riservata dagli psicologi a tali
temi è risultata “complementare” all’atteggiamento domi-
nante – fino a tempi recenti – in ambito economico. Qui è
prevalsa, come abbiamo più volte detto, la tendenza a pro-
porre modelli astratti che spiegano i fenomeni macroecono-
mici in termini di costrutti psicologici e che potremmo
definire di senso comune, modelli che non si ritiene necessa-
rio sottoporre ad alcuna verifica empirica.

186
In area economica si distinguono tre principali teorie delle
aspettative: quella secondo cui le aspettative sono estrapola-
zioni più o meno sofisticate di esperienze precedenti; quella
che postula che vengano formate “aspettative adattate” te-
nendo conto degli errori di previsione precedentemente com-
messi; quella che fa capo alla teoria delle aspettative razionali.
Le prime due teorie legano, in modi diversi, le aspettative
all’esperienza precedente, mentre la terza attribuisce una fon-
damentale importanza alla nuova informazione. La teoria
delle aspettative razionali – la più recente e quella attualmente
dominante – sostiene che gli attori economici usino le espe-
rienze passate e le nuove informazioni in modo ottimale, alla
luce delle migliori acquisizioni scientifiche. In altri termini,
secondo tale prospettiva, gli attori economici operano come
gli economisti e quindi, in ultima analisi, non c’è alcun biso-
gno di misurare le aspettative soggettive.
Mentre, in ambito macroeconomico, le aspettative sono
considerate in un’ottica matematica assumendo che possano
essere derivate quantitativamente dai dati oggettivi, in psico-
logia col termine “aspettativa” ci si riferisce a una credenza
soggettiva circa eventi e oggetti futuri. Pertanto, dal punto di
vista psicologico, le aspettative sono scenari che le persone
hanno in mente e dei quali sono in grado di parlare.
Se inizialmente la teoria delle aspettative razionali non
contemplava il momento della verifica empirica (molti autori
ritengono addirittura inammissibile tale operazione), più re-
centemente essa è stata sottoposta al vaglio di esperimenti di
laboratorio e di indagini campionarie. Per esempio Brown e
Maital (1981), attingendo ai dati di un panel di esperti in eco-
nomia, evidenziano che anche gli esperti utilizzano in modo
insufficiente la nuova informazione, formando aspettative

187
solo parzialmente in accordo con la teoria. Secondo Lovell
(1986), che passa in rassegna diverse verifiche empiriche della
teoria, non si può fare a meno di riconoscere che le aspettative
sono un fenomeno molto ricco e complesso, non adeguata-
mente spiegato dal concetto di aspettative razionali. In altre
parole, anche se in alcuni casi le aspettative sono razionali, in
molti altri la razionalità è chiaramente violata.
Riflessioni simili potrebbero essere sviluppate sul tema
delle prese di decisioni, le paure, le aspettative e la valutazione
dei rischi. Pensiamo per esempio al costo elevatissimo che la
paura sociale ha in termini di mercato. Il preannuncio di una
crisi vera o immaginaria ha una incidenza altissima sul porta-
foglio dei consumatori, come bene abbiamo potuto costatare.
Parlando di eventi recenti della nostra storia, ancora in atto,
il tema della Grecia risulta un fenomeno con delle conse-
guenze non circoscritte soltanto alla Grecia geografica ma a
tutta l’Europa. La paura e la speculazione potevano dar luogo
all’inizio di una reazione a catena dove, cominciando dai più
deboli, avremmo visto in difficoltà un insieme di Nazioni che
potevano compromettere tutta la comunità Europea. La fi-
ducia è quindi bene pubblico.

I processi affettivi, il mondo emozionale


e le decisioni economiche

Il ruolo delle emozioni, nella condotta umana, non sono


da sottovalutare, tanto meno lo sono nella condotta econo-
mica. Motivo per il quale le emozioni, insieme ai processi co-
gnitivi, hanno un ruolo importante nello studio della
psicologia sociale contemporanea.

188
Il termine emozione può essere usato come termine om-
brello che comprende anche i sentimenti, gli stati d’animo, gli
affetti come componenti integranti della personalità. Questo
perché, tendenzialmente, le persone utilizzano il proprio stato
d’animo come elemento informativo, e quindi valutativo, in-
dispensabile per le proprie scelte scelte.
Ci sono d’altra parte correnti di pensiero all’interno della
psicologia che considerano le emozioni come un aiuto alla ra-
zionalità limitata. Ricordiamo, per esempio, tutto il filone della
cosiddetta intelligenza emozionale. Quello che è chiaro è che
le emozioni hanno un ruolo non indifferente nella scelta delle
decisioni. Tante verifiche empiriche dimostrano la forza delle
emozioni nell’agire umano. Un’emozione potrebbe cambiare,
in un istante, tutte le priorità di una persona.
L’essere umano elabora le sue informazioni attraverso due
canali. Da una parte quello delle emozioni, che è più veloce
ma meno preciso e d’altra quello della ragione, che è decisa-
mente più preciso ma più lento. A questi elementi iniziali bi-
sognerà anche aggiungere la presenza delle credenze, siano
queste positive o negative, che attuano nella persona una spe-
cie di automatismo il quale potrebbe condizionare il compor-
tamento dell’individuo se non si agisce con una certa
riflessione e autocritica personale.
Ci ricorda Keynes nel suo manuale “Spirito Animale”
come tante volte, mancando i dati per poter prendere le de-
cisioni giuste (quindi mancando elementi di informazione ra-
zionale), sono proprio le emozioni e l’intuizione a permettere
che si prendano decisioni e far sì che non si rimanga fermi
nella vita.
Evidentemente il tema delle emozioni nelle scelte di vita
ci porta spontaneamente ad un altro grande tema che studia

189
il mondo decisionale della persona e che mi limiterò ad ac-
cennare per una questione di tempo. Mi riferisco al rammarico
ed alla soddisfazione. Il rammarico si percepisce quando la per-
sona si rende conto che i risultati, ottenuti con la propria
scelta, sono inferiori a quelli che si sarebbero conseguiti op-
tando per una scelta diversa. Il rammarico riguarda soprattutto
la scelta (tra A e B), mentre la soddisfazione riguarda i risultati
(sono soddisfatto da A). Rimane comunque chiaro che nelle
scelte non contano soltanto i fatti materiali (costo/guadagno),
ma anche quelli simbolici (autostima, conferma di decisione
presa bene…) e lo stato d’animo che questi producono.

L’influsso delle motivazioni nei consumi ed investimenti

Inizialmente la teoria economica classica prevedeva, come


unica motivazione degli individui, l’ottenimento della mas-
sima utilità personale, intesa come massimo guadagno. Oggi
sappiamo che non è questa l’unica motivazione visto che si
parla di “valori aggiunti” e di “valori simbolici” (quanto vale
un oggetto per me), quindi il valore della domanda non può
essere misurabile soltanto dal punto di vista materiale.
Questi concetti ci ricordano la teoria della dissonanza co-
gnitiva. Si presuppone, infatti, che l’essere umano tende a cer-
care una coerenza cognitiva ma, allo stesso tempo, è capace
di cadere in inganno (tante volte autoinganno) onde evitare
le dissonanze cognitive o emozionali non piacevoli.
Queste contraddizioni operative e comportamentali con-
vivono nella mente e nel cuore dell’essere umano. Infatti se
da una parte troviamo il bisogno di avere la certezza della co-
noscenza totale della realtà. D’altra il bisogno della cosiddetta

190
“chiusura cognitiva,” per limitare il campo della conoscenza
agli ambiti e campi che sono da noi controllabili ed esclu-
dendo tutto il resto. Questa “chiusura cognitiva” è in stretta
relazione col mondo emozionale dell’essere umano e, contra-
riamente a quanto possa sembrare, non si tratta di non voler
conoscere la realtà ma di possedere delle certezze. Le aspet-
tative (una forma importante di speranza), appaiono nell’es-
sere umano proprio quando esistono delle certezze di base.
Questi temi generali hanno anche una applicabilità nel
mondo del mercato dove, oltre alla ricerca dell’acquisto ra-
zionale, sussistono elementi di impulsività o compulsività (ac-
quisti non pianificati) oggi molto frequenti per le ampie
modalità di pagamento, il marketing e la progettazione scien-
tifica dei punti vendita.

Conclusione

Oggi, sempre più nuovi ed improvvisi timori stanno con-


dizionando il comportamento umano. Per questo diventa in-
dispensabile l’esistenza di una speranza fondata, concreta,
altrimenti la forza della delusione potrebbe improvvisamente
imporsi in una nuova base di valutazione convenzionale, non
sempre positiva.
Soltanto con una giusta gerarchia dei beni umani sarà pos-
sibile capire il tipo di sviluppo necessario da promuovere.
L’obiettivo centrale del bene comune universale, cioè lo svi-
luppo integrale dei popoli, non è soltanto il prodotto finale
della diffusione del mondo dell’impresa o dei beni materiali
cognitivi come la casa e l’istruzione. Sarà più che altro il pro-
dotto di buone decisioni che diventano possibili soltanto

191
quando esiste una nozione di bene comune INTEGRALE,
quando si ragiona quindi in un’ottica comune alla luce della
quale si cerca lo sviluppo.
L’Italia in forza della sua millenaria storia, è posta di diritto
come esempio di saggezza e lungimiranza. L’impero romano
non può aver governato per oltre mille anni senza lasciare il
segno. Anche le origini cristiane dell’Europa e la funzione as-
sunta dall’Italia nel secondo dopoguerra del secolo scorso
nella costruzione dell’Europa Unita, sono elementi difficil-
mente trascurabili.
Il tema dello sviluppo integrale e della qualità della vita
sarà sempre intrinsecamente collegato al tema dell’etica. La
psicologia studia il comportamento umano e cerca di preve-
derlo o, al termine, correggerlo nelle sue devianze, ma sta
anche alla filosofia il delineare i parametri standard di un com-
portamento ritenuto valido universalmente. Pensiamo ai temi
come la relazione fra cultura e comportamenti economici; i
dilemmi sociali fra il bene pubblico, l’altruismo e la concor-
renza; la dinamica della operazione e la lotta per la propria au-
toaffermazione e, parlando di equilibri fra la macroeconomia
e la microeconomia basterebbe pensare al fabbisogno statale,
a quello familiare ed a quello personale, per elencarne alcuni.
Bisogna ricordare che i problemi dell’economia non ri-
guarda soltanto le tecniche ma soprattutto i principi di base.
Serve quindi un’educazione ai valori e all’etica socioecono-
mica, condizione indispensabile per una vera crescita integrale
e sostenibile. Serve, evidentemente, una politica sana e giusta
ispirata ai suddetti principi.
Un capitalismo selvaggio potrebbe anche essere concepito
come una nuova dittatura. Venti o trent’anni fa si parlava del
“trionfo” del Capitalismo. Oggi i toni sono cambiati e, in que-

192
sto momento storico dove sarebbe possibile un’Europa senza
l’euro ma non l’euro senza l’Europa, viviamo addirittura mo-
menti di elevato rischio mondiale ed Europeo. Non è nella
divisione che si vince, ci insegna la storia. La vecchia Europa,
con i suoi problemi anche demografici, se divisa diventa una
piccola regione del mondo. Serve una gestione del capitale
con delle regole che garantiscano l’unità dei popoli e non sol-
tanto la concorrenza sfrenata.
Abbiamo visto come il mercato abbia bisogno di regole
perchè niente si corregge da solo. La nostra stessa storia eu-
ropea (nonchè mondiale) ci insegna che quando non c’è una
base etica nella società (pensiamo all’economia), alla fine c’è
sempre un conto pesante da pagare. Gli squilibri sociali por-
tano alla paura ed all’ansia, possiamo dire che questa è una
realtà fisiologica nella società, ma questi rischi comportano
costi sociali elevatissimi che alle volte implicano anche vite
umane soprattutto quando la violenza sociale o di gruppo di-
venta una terapia sociale.
Risulta quindi evidente come il rapporto tra economia e
psicologia riguardi alcuni dei cambiamenti più radicali del
mondo di oggi: il rapporto uomo-mondo, la nuova piramide
dei bisogni, la resistenza di certe culture ad acquisire il mo-
dello economico dominante, la compenetrazione tra ricchezza
e povertà, la crescita dell’incertezza, la funzione del capitale
intellettuale rispetto al capitale finanziario e a quello produt-
tivo e via dicendo.
Per fare il punto sul futuro bisogna prima farlo sul passato.
La storia si ripete. Storia “magistra vitae”. Cambiano i contesti,
ma non la natura umana. Ecco la vera sfida per il terzo mil-
lennio dove risulterà, quindi, fondamentale ricondurre il di-
scorso dell’economia alla collaborazione con le scienze sociali.

193
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195
196
RECIPROCITÀ E BENESSERE
NELLA RELAZIONE MADRE-BAMBINO

Caterina Fiorilli - Jessica Falchi

La responsività nella relazione madre-bambino

I bambini nei primi mesi di vita dipendono completamente


dagli adulti che li accudiscono, ma non si tratta di una dipen-
denza passiva, essi vengono al mondo dotati di predisposizioni
biologiche per apprendere a riconoscere i loro caregiver e per
indurli a fornir loro le cure di cui hanno bisogno. Allo stesso
modo la madre si dimostra in grado di interagire con il bam-
bino attraverso risposte intuitive anch’esse basate su meccani-
smi di natura neurobiologica. Infatti, fin dai primi giorni dalla
nascita, vi è una socializzazione reciproca da cui emergono le
capacità della madre di comprendere e rispondere immediata-
mente agli stimoli e ai bisogni del bambino. Tale tendenza
viene definita da Mary Ainsworth responsività sensibile e consi-
derata il principale fattore responsabile della trasmissione in-
tergenerazionale dell’attaccamento (Riva Crugnola, 2012). Il
dialogo che costituisce l’interazione diadica appare principal-
mente contraddistinto dalla condivisione di stati affettivi, dalla
possibilità di attivare un rispecchiamento inconscio che si rende

CATERINA FIORILLI - JESSICA FALCHI, Libera Università Maria SS. Assunta –


Roma.

197
visibile con la regolazione di gesti ed espressioni mimiche. In
questa prospettiva assume un’importanza fondamentale la di-
mensione relazionale e comunicativa insita nella responsività
materna che compare senza alcun bisogno di addestramento.
Diversi studi hanno evidenziato come la modalità con cui
una madre rispecchia e regola le sue emozioni in base a
quelle del suo bambino, quanto perciò si dimostra respon-
siva, andrà ad influire sul tipo di attaccamento che il bambino
svilupperà. Secondo quanto afferma Mary Ainsworth, la
prima ad individuare gli antecedenti dell’attaccamento da lei
stessa classificati attraverso la procedura della Strange Situation
sulla base delle ipotesi formulate da Bowlby (1969; 1982), la
forma d’attaccamento dipende dalla responsività dimostrata
dalla madre (Riva Crugnola, 2012). Infatti all’attaccamento
sicuro del bambino corrisponde una madre responsiva ai
suoi bisogni; all’attaccamento insicuro evitante una madre
non responsiva e rifiutante; infine all’attaccamento insicuro
ambivalente si correla una madre non responsiva, intermit-
tente e imprevedibile. Sono molto numerosi gli studi che di-
mostrano che durante l’interazione face to face, la frequenza e
la qualità di alcuni comportamenti del bambino dipendono
chiaramente dalla qualità dell’espressione materna (Tronick,
2008). Gli studi di Tronick e collaboratori (2004; 2008; 2011)
hanno mostrato come di fronte ad una madre con volto
immobile, inteso come la riproduzione sperimentale di mas-
sima trascuratezza da parte di quest’ultima, i bambini hanno
maggiori proporzioni di evitamento dello sguardo, conside-
rato un marcatore fondamentale delle manifestazioni emo-
tive, e altri effetti negativi che diminuiscono il livello di
benessere dato dalla mancata corrispondenza tra le aspetta-
tive del bambino e lo stato dell’interazione del partner.

198
Secondo Gianino il bambino di fronte ad una comunica-
zione negativa mette in atto delle strategie di coping cercando
di concentrarsi su stesso, autoconsolandosi e quando neces-
sario ritirandosi, cercando di sfuggire. È plausibile che dopo
molte esperienze di questo tipo egli tenderà a disimpegnarsi
automaticamente alla madre per ridurre al minimo il suo di-
sagio, questo svilupperà in lui un senso di incompetenza,
d’impotenza (Riva Crugnola, 2012). In questo ambito perciò
risulta fondamentale collocare quella che Emde e Biringen
definirono disponibilità emotiva, concepita come la capacità del
genitore di mostrarsi aperto e pronto a cogliere i segnali del
bambino, inteso come soggetto attivo e responsivo a livello
comunicativo (Biringen, Robinson e Emde, 1998).
La possibilità di sperimentare la disponibilità emotiva ma-
terna e la condivisione degli affetti in modo continuativo, ap-
pare significativa per lo sviluppo del bambino poiché
attraverso l’internalizzazione di tali esperienze, egli riesce a
promuovere, a livello intrapsichico, strutture affettive in grado
di guidare e sostenere al meglio il comportamento e l’espe-
rienza soggettiva (Riva Crugnola, 2008). È ormai diffuso
quanto il ruolo assunto dalla madre e la sua disponibilità emo-
tiva possano fare la differenza nella qualità dello sviluppo so-
ciale e del benessere del bambino.

Visioni antiche e moderne sul ben-essere


nella relazione madre-bambino

Il metodo della ricerca empirica della psicologia dello svi-


luppo deve essere applicata a un esame storico del compor-
tamento dei bambini. Tanto indietro nella storia si va, più

199
appare basso il livello d’assistenza all’infanzia, sono molti i
documenti raccolti dai diversi autori che propongono l’ipotesi
che la maternità e l’istinto materno siano una costruzione
dell’epoca moderna poiché per diversi secoli i bambini furono
reputati fonte di peccato e pieni di male (Koops, 1996, p. 3).
In effetti, come afferma l’autore: «Per la maggior parte delle
persone venivano considerati un fastidio, una disgrazia»
(Koops, 1996, p. 3).
Con l’emersione della moderna visione dell’infanzia, il
bambino non è riconosciuto più semplicemente come un non
adulto, come una fragile creatura, o un peso da cui liberarsi,
ma ricopre e assume un posto sempre più centrale all’interno
della famiglia. Nelle sue ricerche Ariès fece uso di un’analisi
quali-quantitativa di dipinti che raffiguravano bambini
(Koops, 1996, p. 5). L’autore utilizzò l’arte come mezzo d’in-
dagine che, in ogni sua manifestazione è tra le più alte
forme d’espressione creativa e uno dei modi che permette
agli individui di esteriorizzare la propria interiorità e le proprie
rappresentazioni della realtà.
Tra le attività umane ce ne sono alcune, specialmente
quelle con finalità espressive, che operano come mezzo di
comunicazione, in altre parole come linguaggio universale
tra gli individui (Casale, 2012). L’arte, in particolar modo la
pittura, servì ad Ariès per conoscere la realtà attraverso la
rappresentazione che «si esprime con ogni forma che cambia
nel corso del tempo seguendo l’evoluzione dell’uomo e delle
sue percezioni» (Casale, 2012). Egli può essere considerato
uno tra i primi che formulò «teorie psicologiche, che operano
adattando un metodo oggettivamente analitico, ossia che, al
centro della loro attenzione, pongono un’analisi oggettiva
dell’opera d’arte in se stessa, e che poi da questa analisi, ri-

200
costruiscono la psicologia ad essa corrispondente» (Vygot-
skij, 1972, p. 53-54). Secondo l’ipotesi formulata da Ariès,
basata sulla catalogazione di moltissime opere appartenenti
a secoli diversi, fino al Sec. XIV non ci sono rappresentazioni
artistiche speciali di bambini, ma solo immagini di uomini in
scala ridotta. Dal Sec. XV ci sono esempi di bambini, che
spesso corrispondono alla figura di Cristo, con aspetto non
ancora infantile. Solo dal Sec. XVI in poi i dipinti iniziano a
mostrare le prime qualità del bambino moderno. «Per la
prima volta ci sono ritratti di bambini da soli, dove è mo-
strato un intenso interesse per le scene tipicamente infantili»
(Koops, 2004, p. 1-9).

Come cambia la rappresentazione madre-bambino


nel tempo: analisi di alcuni dipinti

Gli studi condotti da Ariès sono stati d’ispirazione per la


realizzazione di una ricerca che ha per titolo “Intersoggettività
madre-bambino nelle rappresentazioni pittoriche dal Medio-
Evo ad oggi” con l’obiettivo di indagare la forma di legame,
la reciprocità tra madre e bambino e la differenza nella qualità
del coinvolgimento nelle rappresentazioni pittoriche dal
Medio Evo a oggi. Ancora più nel dettaglio si è inteso analiz-
zare il cambiamento dell’interazione e verificare come l’inter-
soggettività sia percepibile nelle opere pittoriche, cogliendo in
alcuni dettagli dell’immagine la qualità della relazione madre-
bambino e la sua rappresentazione nel tempo (ad esempio, at-
traverso lo sguardo, la postura o l’espressione del volto).
A tale scopo sono stati selezionati 52 dipinti tra le più im-
portanti opere pittoriche di artisti Italiani dal Medio Evo ai

201
giorni d’oggi (dal 1240 al 1900). Il criterio di inclusione ha
previsto la selezione di opere in cui fosse rappresentata un’in-
terazione tra madre e bambino nel primo anno di vita. Sono
stati perciò esclusi tutti i dipinti in cui non fosse esplicito un
coinvolgimento diretto tra i due. Nel gruppo di opere sele-
zionate compaiono sia rappresentazioni di Madonna e Bam-
bino, in totale 36, sia raffigurazioni di madre e bambino
popolari e quindi non espressamente icone religiose.
È stato prodotto un manuale di codifica in cui si preve-
devano categorie di analisi dei dipinti grazie al lavoro speri-
mentale condotto da Tronick (2004; 2008; 2011) in cui sono
state individuate macro-categorie (es., sorriso, reciprocità
dello sguardo, pianto, etc.) con cui si può descrivere l’intera-
zione faccia a faccia tra un bambino e la sua mamma. Nei
suoi ultimi scritti Tronick (2004; 2008; 2011) reinterpretò il
significato delle reazioni tipiche del bambino, sia nelle intera-
zioni considerate normali, sia di fronte al volto immobile della
madre (Riva Crugnola, 2012). Egli condusse la maggior parte
dei suoi esperimenti videoregistrando con due telecamere,
una diretta verso il piccolo e l’altra verso la madre, gli atteg-
giamenti, i movimenti di entrambi, confrontandoli contem-
poraneamente su di uno schermo. Tronick formulò l’ipotesi
che le fasi diadiche nella tipica interazione tra un bambino di
due mesi e la madre sono le seguenti:
• Avvio: la madre inizia a parlare dolcemente al bambino
serio.
• Orientamento reciproco: le espressioni sono neutre, men-
tre la madre parla dolcemente o mentre il bambino emette
vocalizzazioni.
• Saluto: iniziano i sorrisi e le espressioni di sorpresa.
• Gioco-dialogo: la madre parla in una sequenza di azione-

202
pausa e il bambino emette borbottii o vocalizzazioni con-
tinue.
• Disimpegno: la figura di accudimento passa da un’espres-
sione neutra a una seria, oppure inizia a parlare al bambino
come fosse un adulto, oppure quando inizia a distogliere
lo sguardo da lui.
Nella presente ricerca sono state adottate alcune delle ca-
tegorie individuate dall’autore riadattandole alla codifica di
una situazione non interattiva ma immobile come quella rap-
presentata nei quadri selezionati.
Sono stati scelti due osservatori ciechi che hanno codifi-
cato 10 opere selezionate casualmente dalle 52 totali, indi-
cando con 1 la presenza delle categorie comportamentali
relative alla madre o al bambino e con 2 l’assenza (vedi
schema 1 e schema 2).
Per valutare il grado e la significatività del loro accordo e
per verificare se i loro giudizi fossero affidabili, è stato utiliz-
zato l’indice di Cohen. Per verificare le differenze nella qualità
del coinvolgimento sono state accorpate alcune categorie di
codifica ottenendo quattro macro-categorie 2 per la madre e
2 per il bambino: bambino positivamente coinvolto/negati-
vamente coinvolto, madre positivamente coinvolta/ negati-
vamente coinvolta (vedi Schema 3)

203
Schema 1: Macro-categorie di analisi dei dipinti relative
al bambino

A. Direzione dello sguardo

A.1. Verso il volto della Guarda gli occhi, il volto o


madre parti del corpo della madre

A.2. Verso oggetto non Guarda nel vuoto, verso il


definibile cielo o verso lo spettatore

A.3. Verso oggetto defi- Guarda un oggetto o guarda


nito un oggetto stringendolo

A.4 Occhi chiusi Ha gli occhi chiusi, dorme

B. Postura corpo
B1. Contatto con il corpo Afferra la mano della ma-
della madre dre, è in braccio, tocca il
viso della madre o i suoi
vestiti. Il suo viso è vicino
a quello della madre o la
bacia, allattamento

B.2 Teso verso il corpo Sembra volersi far prendere


della madre imbraccio dalla madre

204
B.3. Tocca se stesso È concentrato su se stesso,
braccia in chiusura o dito
in bocca

B.4. Tocca se stesso e la Tocca se stesso e contem-


madre o teso verso la poraneamente anche la ma-
madre dre o tocca se stesso con il
corpo teso vero la madre

B.5. Tocca oggetti in- Tocca degli oggetti in-


sieme alla madre sieme alla madre o gioca
insieme alla madre

C. Coinvolgimento

C.1. Pianto, tristezza, Ha un espressione triste,


rabbia tesa, che esprime rabbia o
sembra piangere

C.2 Sorriso Ha un’espressione piace-


vole, gioiosa o sorride

C.3 Neutro Ha un’espressione neutra,


seria o indifferente

205
Schema 2: Macro-categorie di analisi dei dipinti relative
alla madre

A. Direzione dello sguardo

A.1. Verso il volto della Guarda gli occhi, il volto o


madre parti del corpo della madre

A.2. Verso oggetto non Guarda nel vuoto, verso il


definibile cielo o verso lo spettatore

A.3. Verso oggetto defi- Guarda un oggetto o guarda


nito un oggetto stringendolo

A.4 Occhi chiusi Ha gli occhi chiusi, dorme

B. Postura corpo

B1. Contatto con il Afferra la mano della


corpo della madre madre, è in braccio, tocca
il viso della madre o i suoi
vestiti. Il suo viso è vicino
a quello della madre o la
bacia, allattamento

B.2 Teso verso il corpo Sembra volersi far prendere


della madre imbraccio dalla madre

206
B.3. Tocca se stesso È concentrato su se stesso,
braccia in chiusura o dito
in bocca

B.4. Tocca se stesso e la Tocca se stesso e contem-


madre o teso verso la poraneamente anche la ma-
madre dre o tocca se stesso con il
corpo teso vero la madre

B.5. Tocca oggetti in- Tocca degli oggetti in-


sieme alla madre sieme alla madre o gioca
insieme alla madre

C. Coinvolgimento

C.1. Pianto, tristezza, Ha un espressione triste,


rabbia tesa, che esprime rabbia o
sembra piangere

C.2 Sorriso Ha un’espressione piace-


vole, gioiosa o sorride

C.3 Neutro Ha un’espressione neutra,


seria o indifferente

207
Schema 3: qualità della relazione/interazione madre-
bambino
Media DS

Bambino positivamente 7,9038 1,10719


coinvolto

Madre positivamente 5,8654 ,95031


coinvolta

Bambino negativamente 6,6346 ,86385


coinvolto o neutro

Madre negativamente 7,1731 ,83363


coinvolta o neutra

Ciascuna macro-categoria è stata misurata secondo il crite-


rio presenza/assenza nel dipinto in esame. Successivamente
sono state suddivise tutte le opere in due categorie, quelle di-
pinte tra il 1200 e 1400 e quelle dipinte dopo il 1500 ed è
emerso che nel tempo la rappresentazione della relazione/in-
terazione tra madre e bambino si è modificata. Per prima cosa
il coinvolgimento emotivo della madre così come del bambino
cambia, in particolare diminuiscono le espressioni che sem-
brano descrivere tristezza, rabbia, pianto e aumentano quelle
piacevoli come il sorriso (Categorie C1 - C2). Questo risultato
è affiancato da altri indicatori che mostrano un maggiore coin-
volgimento tra madre e bambino come l’aumentare della pre-

208
senza delle categorie che esprimono un contatto o un’intera-
zione tra i due: la condivisione dell’oggetto di gioco oppure il
contatto con il corpo della madre (Categorie B1-B5). Le rap-
presentazioni in cui il bambino sembra essere concentrato su
se stesso (Categoria B3), in una condizione di chiusura o quelle
che indicano una tensione verso la madre che simboleggia il
cercare attenzioni di una madre che sembra non coinvolta nel-
l’interazione (vedi Figura 35;2), diminuiscono con il passare dei
secoli. Tra le opere pittoriche che rappresentano la qualità della
relazione/interazione e che sintetizzano l’assenza delle catego-
rie selezionate e perciò mostrano madre-bambino negativa-
mente coinvolti, troviamo ad esempio la numero 35; 2.

Opera 35;2: Lippi, metà 1400; Bellini 1400.

Tra le opere pittoriche che rappresentano la qualità della rela-


zione/interazione e che sintetizzano la presenza delle categorie
selezionate e perciò mostrano madre-bambino positivamente
coinvolti, troviamo ad esempio la numero 18; 42.

209
Opera 18; 42: Da Vinci, 1400/1500; Raffaello, inizio 1500.

Le opere che descrivono il cambiamento in positivo nella


rappresentazione della relazione/interazione tra madre-bam-
bino sono in ordine la numero 20 e la numero 43.

Opera 20;43: Fra Angelico, inizio 1400; Raffaello, inizio 1500.

210
La visione del bambino ha quindi subito un profondo
cambiamento. Si è passati dal bambino-simbolo con l’avvento
del Cristianesimo in cui il ruolo della madre è di profonda ab-
negazione nell’asettico scambio emotivo, alla visione di bam-
bino-precario del Medio-Evo a causa dell’elevata mortalità
infantile e delle condizioni instabili di vita. In questa fase la
maternità e la cura emotiva del bambino è secondaria al ga-
rantire le condizioni di vita materiale e di sopravvivenza. Fino
a quando il bambino non esprime parola, lo scambio affettivo
rimane nello sfondo. Dal Rinascimento, in seguito alla cre-
scente razionalizzazione della scienza Illuministica, il bambino
diviene soggetto dell’osservazione clinica e filosofica, e l’in-
fanzia acquista maggiore attenzione che, tuttavia, non è an-
cora una fase a sé caratterizzata da aspetti specifici e unici,
quanto piuttosto qualcosa da distinguere dall’età adulta. Nelle
parole di Ariès: «il sentimento dell’infanzia non si identifica
con l’affezione per l’infanzia: corrisponde alla coscienza delle
particolari caratteristiche che essenzialmente distinguono il
bambino dall’adulto, anche giovane. Questa coscienza non
esisteva» (Ariès,1960, p. 1945). Successivamente il bambino
lentamente «esce dall’anonimato e dall’indifferenza delle età
remote per diventare la creatura più preziosa, la più ricca di
promesse e di avvenire» (Ariès, 1960, p. 441). Ciò avviene,
secondo l’autore contemporaneamente allo sviluppo del sen-
timento della famiglia. Secondo quanto afferma Ariès l’in-
fluenza di tale sentimento si riconosce nella nuova maniera
di illustrare il matrimonio o il battesimo. Va attribuito un si-
gnificato notevole alla fioritura iconografica che dal Quattro-
cento, e soprattutto dal Cinquecento in poi, succede a lungo
periodo oscuro: si ha la nascita e lo sviluppo del sentimento
della famiglia, non più come qualcosa da vivere nell’intimità

211
ma riconosciuta come un valore ed esaltata da tutte le forze
emotive (Ariès, 1960).
Tra il 1500 e il 1600, soprattutto nelle famiglie borghesi,
l’infanzia viene considerata un periodo di innocenza e di dol-
cezza, i bambini vengono idolatrati e diventano fonte di di-
vertimento. Ma ancora una volta non si può parlare di vera
attenzione alle caratteristiche psicologiche, cognitive ed emo-
tive, del bambino. Si tratta, piuttosto, di un esercizio di pro-
iezione dell’adulto sul bambino che rimane ancora “non
visto”.
Dobbiamo attendere epoche più moderne e, in partico-
lare, a partire dal 1700, data in cui si possono osservare rap-
presentazioni dell’infanzia in cui i tratti somatici, le posture e
le caratteristiche della relazione madre-bambino indicano con
maggiore chiarezza che il bambino inizia ad essere messo al
centro dell’attenzione adulta. Si può dire che in questo pe-
riodo l’attenzione verso l’infanzia è di un periodo dalla cui
qualità di sviluppo dipenderà anche il benessere della vita
adulta. La figura materna che si rappresenta diventa, quindi,
più ricca di atteggiamenti e stati emotivi che esprimono vici-
nanza e interazione reciproca con il piccolo. Il messaggio che
esprimono le pitture del tardo 800 e del 900 sono ormai in
linea con una pedagogia e psicologia che riconosce alla rela-
zione madre-bambino la chiave di volta della salute psico-fi-
sica del bambino.

Conclusioni

A partire dai risultati della ricerca appena illustrata, si può


giungere alla conclusione che la visione della relazione madre-

212
bambino si è modificata significativamente nel corso del
tempo. Il benessere del bambino, oggi, passa attraverso l’idea
di una relazione di cura e accudimento che non solo centrate
solo sul fornire cibo e sicurezza, ma anche sulla qualità della
relazione di accudimento.
La crescita emotivamente equilibrata del bambino richiede
una qualità dello scambio relazionale caratterizzato prevalen-
temente da emozioni positive, disponibilità emotiva e atten-
zione reciproca.
Oggi è noto come il contesto in cui cresce un bambino e
la relazione affettiva che sviluppa con i genitori siano impor-
tantissimi per la sua salute psicologica. Il benessere all’interno
della famiglia è fondamentale per evitare tutte quelle situa-
zioni definite a rischio psicosociale. Secondo il modello dello
“stress familiare” oggi sappiamo che le condizioni di disagio
sociale possono avere conseguenze negative sulla qualità delle
cure parentali (Conger, 1992). Le variabili contestuali giocano
un ruolo importante sulle rappresentazioni mentali della
madre e sulla sensibilità che quest’ultima dimostra nei con-
fronti del bambino (Huth-Bocks, 2004). È ipotizzabile che la
qualità dell’attaccamento madre-bambino risulti compro-
messa dalle variabili di rischio e dall’indisponibilità materna e
che a sua volta possa divenire un fattore di rischio per lo svi-
luppo infantile. Le esperienze passate, la povertà e le condi-
zioni di vita sembrano incidere sulle risorse delle madri,
ridurre la loro capacità di fornire cure sensibili e costruire re-
lazioni positive con i propri figli e cariche di investimento
emotivo (Riva Crugnola, 2012).
In questo senso acquistano particolare importanza i pro-
grammi di prevenzione attuati nei primi anni di vita in contesti
a rischio e mirati a potenziare le risorse relazionali dei genitori.

213
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214
LA SOCIETÀ GLOBALE E IL RISCHIO
DI UNA ADOLESCENZA ILLIMITATA

Rosario Mocciaro

Cos’è l’adolescenza?

Il significato che comunemente i più attribuiscono all’ado-


lescenza porta a definirla come “l’età del cambiamento. Il termine
“adolescenza”, dal latino “adolescere”, che significa crescere, indica
comunque una delicata e irripetibile fase dello sviluppo
umano in cui non si è più bambini, ma non si è considerati
ancora adulti. In questa particolare età avvengono profondi
cambiamenti sia sul piano bio-fisiologico che su quello co-
gnitivo, del comportamento e della personalità. L’età di inizio
dell’adolescenza coincide con la comparsa delle prime me-
struazioni per le ragazze, e con la comparsa della peluria pu-
bica per i ragazzi.
È necessario tuttavia considerare che non in tutte le cul-
ture l’adolescenza è stata riconosciuta come specifica e reale
fase dello sviluppo umano: alcuni tra cui Lutte (1987), ri-
tengono l’adolescenza un’esigenza di determinate società
dall’organizzazione complessa, che sono portate ad un
maggiore controllo sociale sul piano economico, politico e
sessuale.

ROSARIO MOCCIARO, Unicusano.

215
Un primo elemento che fa da supporto a questa tesi è
strettamente legato all’esistenza di modelli diversi di gestione
dell’adolescenza in differenti culture. Ci sono, infatti, culture
in cui il passaggio dalla fanciullezza all’età matura avviene in
modo diretto, senza attraversare età di passaggio. Un contri-
buto sulla concezione dell’adolescenza come fase “non neces-
saria” dello sviluppo umano, fu dato da M. Mead (1928), che
attraverso una ricerca condotta in una società primitiva, tra le
ragazze dell’isola di Taw nell’arcipelago di Samoa nel Pacifico
meridionale ha potuto dimostrare che lo sviluppo delle emo-
zioni in età adolescenziale è condizionato dalla cultura di ap-
partenenza e non esclusivamente dalla concomitanza dello
sviluppo fisiologico.
Attraverso un progressivo succedersi di trasformazioni so-
ciali e culturali che va dal XVI al XIX secolo si è tuttavia strut-
turata l’adolescenza come fase specifica dell’arco di vita
seguendo un percorso che troviamo ampiamente analizzato e
descritto da autori come Ariès (1972), Gillis (1974) e Kett
(1977) relativamente all’Europa ed agli Stati Uniti d’America.

Viaggio tra le teorie psicologiche


dello sviluppo sull’adolescenza

Nel contesto del dibattito generale e della ricerca multidi-


sciplinare che si è prodotta circa l’evoluzione dell’adolescenza,
un ruolo fondamentale assume ovviamente l’approccio psi-
cologico ai fini di una valida comprensione dei processi evo-
lutivi che hanno caratterizzato nel passato e che caratterizzano
anche nell’attuale contesto socio-economico e culturale glo-
balizzato lo sviluppo e la condizione del giovane adolescente.

216
È comunemente riconosciuto che l’inizio della psicologia
scientifica dell’adolescenza risalga alla pubblicazione del vo-
lume “Adolescence” di S. Hall (1904): riprendendo molte idee
di J. J. Rousseau lo psicologo americano colloca l’adolescenza
tra i 12 e i 22 anni circa e la considera come una seconda na-
scita, una profonda crisi provocata dalla pubertà fisiologica
che trasforma radicalmente la personalità attraverso un pe-
riodo di agitazioni e di tempeste, di cambi continui di umore,
di avversione e opposizione verso la scuola e la famiglia.
Secondo S. Hall, dunque, l’adolescenza è dominata da
energie istintuali che devono potersi esprimere per un lungo
periodo di formazione durante il quale il giovane non do-
vrebbe essere sollecitato a comportarsi come adulto in quanto
ne sarebbe incapace.
Successivamente le numerose e a volte contrastanti teorie
dello sviluppo adolescenziale, hanno portato il focus di studio
sui cambiamenti interiori dell’adolescente, sulle modalità at-
traverso le quali egli sente ed elabora i cambiamenti in se
stesso e nell’ambiente sociale che lo circonda, e sulle dinami-
che con cui si relaziona in modo autonomo con l’ambiente
sociale. I diversi modelli di comprensione psicologica si aggi-
rano intorno a due filoni principali:
• il primo è quello psicoanalitico, il quale è propenso ad
evidenziare le dimensioni bio-fisiologiche e inconsce dei
fenomeni legati all’adolescenza.
• il secondo è il filone socio-culturale secondo cui la con-
dizione e la crisi evolutiva degli adolescenti è strettamente
connessa ai fenomeni storici, economici, culturali e socio-
psico-relazionali; e perciò lo stesso soggetto a delinearsi
in relazione ai mutamenti sociali e alle condizioni socio-
economiche della società di appartenenza.

217
L’adolescente subisce, come sappiamo, delle sostanziali
modificazioni fisiologiche che, ovviamente, spingono a con-
siderare l’adolescenza una fase inevitabile. In secondo luogo,
è assolutamente necessario tenere in considerazione che in
questa fase della vita avvengono sostanziali modificazioni co-
gnitive. Ricerche psicologiche hanno dimostrato che, superata
la fanciullezza, il pensiero acquista nuove dimensioni. A tal
proposito molto importante risulta la tesi di J. Piaget (1932),
il quale, limitandosi ad esaminare direttamente lo sviluppo
dell’intelligenza, giunge a teorizzare che lo sviluppo del pen-
siero, nel corso dell’adolescenza corrisponde alla fase in cui il
pensiero si matura e diviene capace di “astrazione”; pertanto
l’adolescenza è la fase di formazione finale dell’individuo sia
sul piano della conoscenza e dell’apprendimento sia sul piano
della personalità.
Anche nel panorama della psicoanalisi si sviluppano nu-
merose teorie sull’adolescenza. S. Freud (1957), incentrando
l’analisi prevalentemente sulla maturazione psicosessuale, svi-
luppa le sue analisi con un senso di notevole continuità dal-
l’infanzia all’età adulta, definendo l’adolescenza come un
“disturbo evolutivo” che determina l’interruzione di una crescita
pacifica e sottolinea il tema dei conflitti di sviluppo. Secondo
lo studioso, inoltre, il periodo adolescenziale è propenso alla
riattivazione dei desideri edipici che creano conflitto e por-
tano all’uso di meccanismi di difesa (rimozione, ascetismo,
intellettualizzazione).
Ma non tutti gli psicoanalisti riconoscono l’adolescenza
come “periodo di crisi”, infatti P. Blos (1962) ha sottolineato gli
aspetti di continuità con il passato, riconoscendo l’adolescenza
come “periodo di evoluzione”. A Blos si deve, inoltre, la suddivi-
sione in preadolescenza, adolescenza e tarda adolescenza.

218
Un contributo molto interessante circa le fasi evolutive,
sempre nell’ambito della psicoanalisi, è certamente quello di
E. Erikson (1950). L’approccio del modello di Erikson si ca-
ratterizza soprattutto per il fatto che nella sua visione include
in modo essenziale le influenze storico-sociali. Per cui lo sviluppo
umano si profila come una sequenza ininterrotta di processi
che intercorrono tra maturazione psicofisica, incidenza del-
l’ambiente culturale e attività del soggetto nell’organizzare
l’esperienza personale. La maturazione fisica, secondo Erik-
son, ha molte implicazioni di natura sia sociale che personale.
Il modello di Erikson individua otto fasi, da cui sembra
scandito l’intero corso di vita. La quinta corrisponde all’ado-
lescenza cui l’autore conferisce un particolare rilievo, in
quanto, a suo avviso, costituisce un momento fondamentale
di passaggio che da una lato appare sensibilmente legato al
passato e dall’altro, risulta determinante per il futuro. L’iden-
tità, che si costruisce attraverso un processo di integrazione
di tendenze e caratteristiche psicologiche e in risposta a ri-
chieste sociali e culturali di varia natura, è una sintesi dei ta-
lenti del giovane, dei suoi interessi, capacità, predisposizioni
istintuali, difese, identificazioni ecc.: una sintesi interconnessa
con gli ideali, le aspettative e le proibizioni dell’ambiente fa-
miliare e culturale.
La ricerca dell’identità implica, infatti, un continuo adat-
tamento delle proprie esigenze e aspettative a ciò che l’am-
biente permette, vieta e incoraggia più o meno esplicita-
mente. Da questo punto di vista, trovare la propria identità
è come un rito di passaggio dilatato nel tempo, un periodo,
definito di transizione, in cui si devono saggiare tutte le pos-
sibili alternative.
Alcuni giovani trovano troppo rapidamente un assesta-

219
mento, precludendosi ulteriori possibilità; in altri casi succede
l’opposto: il giovane è incapace di decidere chi e che cosa di-
venterà, poiché i possibili ruoli che ha a disposizione sono
lontani dal suo sentire interiore, e così il normale periodo di
sperimentazione si prolunga indefinitamente e il giovane ri-
mane incerto, immaturo e dispersivo.
Un’altra teoria che tende a sottolineare l’inevitabilità di
una fase di passaggio dello sviluppo umano è quella di D.P.
Ausubel (1952; 1954; 1958), denominata teoria della “desa-
tellizzazione”. Questa teoria si incentra sullo sviluppo del-
l’Io, nucleo della personalità. L’intento dell’autore era di
elaborare una teoria dello sviluppo normale e anormale che
potesse concorrere con le teorie freudiane riguardo all’am-
piezza dei fenomeni interpretati, tenendo conto delle ricerche
empiriche che le teorie psicoanalitiche non prendevano in
considerazione.
Secondo quest’autore, lo sviluppo psichico inizia con una
fase di onnipotenza, che sarebbe seguita da una prima crisi di
crescita alla quale il bambino può dare varie soluzioni. Quella
più comune e vantaggiosa consiste nel satellizzarsi attorno ai
genitori ossia nel cercare uno status derivato dalla loro accet-
tazione, nel fondare la stima di Sé su questa accettazione.
Questo processo di autonomizzazione, chiamato da Ausubel
(1952) “desatellizzazione”, è il compito principale dell’adole-
scenza. Richiede un capovolgimento della struttura della per-
sonalità e la conquista di uno status autonomo, fondato non
più sull’accettazione da parte dei genitori ma sulla realizza-
zione del giovane. Vari fattori, di ordine personale e sociale,
sono all’origine di questo cambiamento. Alcuni sono già al-
l’opera prima dell’adolescenza: lo sviluppo sociale e cognitivo,
la possibilità di frequentare ambienti diversi dalla famiglia, le

220
richieste di maggiore responsabilità da parte del giovane, lo
portano alla desatellizzazione. Tuttavia la società rifiuta agli
adolescenti lo status autonomo al quale aspirano, facendo di
questo periodo dell’esistenza una fase di instabilità emotiva e
di forti tensioni e spingendo i giovani alla ricerca di forme
transitorie e marginali di status, specie nel gruppo dei pari e
della devianza.

Alla ricerca di uno “status adulto”

In questo periodo del cambiamento gli adolescenti si tro-


vano ad affrontare questioni meno legate alla corporalità e
più legate ad aspetti quali l’autonomia, la conquista di un ri-
conoscimento sociale, la riflessione sulla propria identità con-
siderata sia come dimensione unitaria e in rottura con il
passato sia come insieme di esperienze di una storia di vita
che danno un senso di continuità all’individuo.
Proprio quest’ultimo elemento è cruciale nell’adolescenza;
in questa fase l’adolescente per andare avanti deve fare i conti
con la propria infanzia e fare un bilancio delle privazioni e delle
donazioni ricevute: un eccesso sia di donazioni sia di privazioni
spingerà il ragazzo a non voler crescere perché si sente di
avere un debito nei confronti dei genitori nel caso delle pri-
vazioni, oppure non vorrà affrontare un avvenire ricco di in-
certezze e di frustrazioni e rivendicherà l’eccesso di donazioni
dell’infanzia. L’adolescente si trova così a dover fare i conti
con un passato e un futuro incerto che lo spaventa da cui può
uscire affrontando con motivazione ciascuno dei compiti di
sviluppo, sapendo di poter contare sull’appoggio delle figure
adulte che sono già transitate da questa fase di incertezza.

221
I compiti di sviluppo che caratterizzano l’adolescenza
sono:
• instaurare relazioni nuove e più mature con coetanei di
entrambi i sessi;
• acquisire un ruolo sociale femminile o maschile;
• accettare il proprio corpo ed usarlo in modo efficace;
• conseguire indipendenza emotiva dai genitori e da altri
adulti;
• raggiungere la sicurezza di indipendenza economica;
• orientarsi verso e prepararsi per un’occupazione o profes-
sione;
• prepararsi al matrimonio e alla vita familiare;
• sviluppare competenze intellettuali e conoscenze neces-
sarie per la competenza civile;
• desiderare e acquisire un comportamento socialmente re-
sponsabile
• acquisire un sistema di valori ed una coscienza etica come
guida al proprio comportamento.
L’adolescenza può dirsi conclusa quando l’individuo avrà
affrontato e superato i compiti di sviluppo di questa fase. In-
torno ai 18 anni possono dirsi concluse le principali trasfor-
mazioni corporee e si sono stabilizzati gli schemi del
funzionamento fisico e psichico, tuttavia a quest’età l’adole-
scente è ancora alla conquista della sua indipendenza dai ge-
nitori in quanto è ancora in corso la formazione personale.
In linea generale, l’adolescente diventerà adulto quando si
sarà definitivamente assunto le responsabilità adulte ed in par-
ticolare quando troverà posto nel mondo del lavoro, quando
saprà impegnarsi in relazioni stabili ed intime e quando si se-
parerà dal nucleo familiare di origine.
Il compito evolutivo più importante dell’adolescenza, che

222
occupa un ruolo centrale in cui gli altri compiti sembrano
quasi essere dei corollari, è proprio quello della formazione
dell’identità.
È un compito fondamentale, ma complesso, in quanto
l’adolescente deve elaborare i cambiamenti del corpo, le tra-
sformazioni della realtà interna e di quella esterna ed attri-
buirvi significato emotivo.
Oggi, la formazione dell’identità avviene tramite processi
individuali di elaborazione simbolica a differenza delle società
tradizionali in cui avveniva tramite celebrazioni rituali collet-
tive. Inoltre, le caratteristiche principali della società contem-
poranea, la complessità e la flessibilità, si riflettono sulla
costruzione dell’identità che diviene anch’essa fluida e complessa
per via della maggior articolazione e della minore definizione
dei ruoli affettivi e sociali, spesso fondati su aspettative di
ruolo difficilmente integrabili, se non addirittura conflittuali.
Come ha affermato Bauman (2003), la società post-mo-
derna è una società liquida e questa società fluida e indefinita
non può che determinare identità altrettanto fluide ed inde-
finite; da qui nasce il concetto di identità multiple, espressione
di patologia nell’adulto ma fase transitoria nell’adolescenza,
che nasce da una concezione plurale del Sé nei suoi diversi
ruoli affettivi, i quali devono essere integrati attraverso la fun-
zione riflessiva.
L’identità personale è da considerarsi come l’integrazione
tra ciò che l’individuo è (l’insieme delle caratteristiche che lo
rendono unico) e ciò che pensa di essere (l’idea che un indi-
viduo ha di se stesso): non sempre i due aspetti coincidono.
Secondo Petter (1999) vi sono due modi attraverso i quali
l’individuo attua una conoscenza di sé e consistono nell’idea
di sé cercata e nell’idea di sé riflessa: la prima è frutto delle speri-

223
mentazioni che l’individuo compie nel mondo per mettersi
alla prova, testimoniata dal suo spiccato interesse per la vita
di relazione, per gli amici e per le prime emozioni sentimen-
tali; la seconda consiste nella ricerca di coerenza tra le tante
esperienze compiute e le proprie qualità personali attraverso
un’attività di riflessione. La combinazione tra queste due mo-
dalità di conoscenza di sé permette all’adolescente di costruire
un’immagine di sé fondata sulle esperienze passate investite
di significato e sulle aspettative per il proprio futuro in con-
tinuità temporale, che le dona unitarietà e coerenza.
Il senso d’identità è in continua formazione per tutto
l’arco della vita, ma è nell’adolescenza che avvengono i cam-
biamenti più profondi, grazie alle opportunità offerte dal
“mondo del possibile” che si apre di fronte all’adolescente. So-
stenitore della centralità nella vita psichica del processo di for-
mazione dell’identità in adolescenza è, come abbiamo già
visto, Erikson (1950), il quale evidenzia i rapporti tra le fun-
zioni dell’Io, le relazioni interpersonali, le modalità di alleva-
mento e le caratteristiche socio-culturali dell’ambiente; la
ricerca dell’identità risulta quindi essere un bisogno umano
fondamentale che caratterizza in modo diverso i vari stadi di
sviluppo.
L’identità è quindi per Erikson un’entità dinamica costitutiva
di un sentimento personale di continuità e unità nel tempo e nello spazio,
che collega gli stati del sé infantile con le sue proiezioni nel futuro e che
ottiene riconoscimento da parte degli altri.
Nello specifico, durante l’adolescenza, il soggetto ha il
compito di acquisire una propria identità stabile e coesa, integrata
con le rappresentazioni infantili e con le nuove esperienze
adolescenziali; se il soggetto non riesce ad integrare in una sin-
tesi originale, personale e funzionale le proprie identificazioni,

224
ecco che il compito fallisce e il soggetto si trova a fare i conti
con una confusione dei ruoli, che consiste nel passare da un ruolo
all’altro, con il conseguente sviluppo di un’identità diffusa.
Il traguardo di questa fase di sviluppo dovrebbe essere ap-
punto quello dell’acquisizione di un’identità stabile e coerente,
dell’accettazione dei propri limiti – grazie alla consapevolezza
delle proprie caratteristiche individuali e del senso di recipro-
cità tra la propria immagine e quella riflessa degli altri.
Marçia (1966), a sua volta, proseguendo sulla scia di Erik-
son, afferma che la crisi di identità attiva un processo esplo-
rativo che si conclude con l’assunzione di un impegno da
parte del soggetto nei confronti di una scelta tra le varie al-
ternative disponibili. L’intreccio delle dimensioni dell’esplora-
zione e dell’impegno dà origine a quattro stati d’identità:
• acquisizione dell’identità, quando il soggetto ha esplorato
in modo significativo con l’assunzione di impegni seri;
• blocco, quando l’individuo ha assunto un precoce impe-
gno nei confronti di identificazioni infantili e che quindi
non ha effettuato nessuna esplorazione;
• moratoria, è la condizione di chi è ancora nella fase esplo-
rativa senza aver assunto impegni in modo fermo ma con
la convinzione di volerlo fare
• diffusione dell’identità, è lo stato di chi effettua delle
esplorazioni in modo superficiale e senza impegno.

La società globale e il rischio


di una adolescenza infinita

Abbiamo visto, attraverso questa breve rassegna delle teo-


rie sull’adolescenza come esse, pur oscillando tra la negazione

225
di una vera e propria specificità e necessità di questa fase di
sviluppo e il riconoscimento dell’esistenza di tale specificità
sulla base di motivazioni fisiologiche, cognitive e psicodina-
miche, non abbiano mai tuttavia abbandonato la convinzione
che essa vada intesa come periodo di iniziazione, limitato nel
tempo, ma destinato ad avere uno sbocco irrinunciabile nella
piena assunzione dei diritti, doveri e responsabilità propri del
mondo adulto.
Ma oggi a nessuno sfugge il radicarsi progressivo di un
percorso adolescenziale che si prolunga sempre più finendo
per trasformare quello che dovrebbe comunque essere un pe-
riodo transitorio relativamente breve in un processo di inizia-
zione sine die.
Una delle cause del prolungamento della fase adolescen-
ziale potrebbe anche riferirsi ad una sorta di ridistribuzione
del tempo all’interno di un arco di vita progressivamente più
lungo ed senza dubbio innegabile che il fenomeno della lon-
gevità possa contribuire all’elaborazione più o meno consa-
pevole di progetti di vita più rallentati e più meditati; ma è
altresì innegabile che il vero fondamento dell’adolescenza
senza confini vada, a mio avviso, ricercato nel diffondersi
del complesso fenomeno della globalizzazione portatore di
grandi trasformazioni tecnologiche, soprattutto nel campo
della comunicazione di massa, ma anche di una crescente
omogeneizzazione delle culture e di una certa dissociazione
di ciascun individuo dalle sue solidarietà primarie per spin-
gerlo verso entità sociali più ampie all’interno delle quali cre-
sce l’anomia, e si indebolisce la ricerca dei valori e legami
sociali.
La società globalizzata inoltre chiede efficienza, velocità
e profitto: così il fine dell’agire non è più l’uomo, ma la ric-

226
chezza e il consumo. Lo stile di vita è consumistico, anche in
relazione ai sentimenti e ai valori umani. In questo veloce pro-
gresso l’adolescente viene immerso in questa realtà; così la
soddisfazione immediata dei bisogni, la velocità dei mezzi di
comunicazione, la realtà virtuale, l’immediatezza dei rapporti
sociali, rischiano di essere vissuti senza un progetto di vita a
lungo o medio termine, ma solo nell’immediato.
Sicuramente il progresso tecnologico e informatico ha
prodotto degli elementi positivi per la nostra vita, miglioran-
done la qualità e le condizioni; infatti c’è una maggiore pos-
sibilità di intervenire con la prevenzione, maggiore cura
nell’alimentazione, possibilità di corrispondenza immediata,
ecc.
Ma una società che si è evoluta così rapidamente come la
nostra, non è stata in grado di rendere più innovative ed effi-
caci tutte le strutture altrettanto rapidamente: soprattutto nei
rapporti umani; nei rapporti tra individuo e individuo e tra
individuo e società. Vi è infatti una tendenza sempre mag-
giore da parte delle persone a creare associazioni di vario tipo
(religiose, sportive, culturali…), incentivata dalla sensazione
di solitudine che si sperimenta, soprattutto, nelle metropoli,
in cui l’individuo si sente un numero, un anonimo, una “pe-
dina”.
Consumismo, spersonalizzazione, mass media, sono tutti
ingredienti che contribuiscono all’aumento della massifica-
zione, della “globalizzazione”. In questo quadro vi è la ne-
cessità nei giovani di riconoscersi “persona” parte integrante
della società. Con il crescere della complessità della nostra so-
cietà, i ruoli e i compiti dell’adolescente si sono resi sempre
più complicati: assai spesso l’adolescente si trova a vivere e
convivere in un contesto familiare in crisi o addirittura con-

227
flittuale o inesistente; l’accesso ad una esperienza lavorativa
capace di offrire sicurezza economica e costituire palestra
fondamentale per il raggiungimento di una vera identità risulta
assai complesso e difficile oltrechè precario; le stesse occa-
sioni di uso del tempo libero risultano assai spesso incanalate
nel processo massificante dell’economia globale fino a diven-
tare esse stesse causa di stress anziché di rilassamento e di se-
rena socialità.
Conseguenza di tutto ciò è senza dubbio lo stratificarsi del
fenomeno dell’adolescenza prolungata con conseguente per-
manenza nel nucleo familiare di provenienza fino ad età avan-
zata con effetti spesso devastanti per lo sviluppo della
personalità e per il raggiungimento di un proprio status adulto.

Una generazione senza ‘no’


nel contesto della famiglia ‘liquida’

Secondo recenti ricerche (Tucci 2010), dalle risposte dei


ragazzi e delle ragazze sull’intervento dei propri genitori re-
lativamente alle loro abitudini e stili di vita, è emerso che i ge-
nitori intervengono ancora meno di quanto loro stessi
riterrebbero ragionevole che un genitore facesse in quella de-
terminata circostanza. Tale fenomeno sembra, nel corso degli
anni, allargarsi sempre di più. Una famiglia che “interviene”
nella vita dei propri figli meno di quanto gli stessi figli riter-
rebbero opportuno crea un pericoloso “vuoto di potere”.
Tale vuoto, inevitabilmente, viene compensato dagli adole-
scenti facendo riferimento a modelli esterni e spesso virtuali
(dal gruppo dei pari, ad internet alla televisione, ecc..) che pos-
sono, e spesso lo sono, essere fuorvianti.

228
Ma c’è di più: considerando il rispetto delle regole che i
genitori impongono, il 67% degli intervistati considera che
“vanno bene così”, e solo il 19% le considera “troppe” o
“troppo severe” , mentre per il 14% (dato in crescita nel corso
degli anni) sono addirittura “poche”. Registrare questo dato
di fatto in un’età come l’adolescenza, considerata tradizional-
mente (e naturalmente) di “ribellione”, la dice lunga sul ruolo
di “indirizzo” che la famiglia oggi riesce a svolgere.
Il desiderio di regole non è certo desiderio d’ubbidienza,
ma piuttosto voglia di confronto e di mettere in discussione
quelle regole per il piacere, del quale un adolescente non può
e probabilmente non deve farne a meno, della trasgressione.
Dopotutto è anche voglia di capire “cosa è giusto” e cosa in-
vece è “sbagliato”, perché senza punti di riferimento la diffi-
cile transazione dall’adolescenza all’età adulta rischia di
diventare una sorta di cammino nel deserto.
Ma in questa società postmoderna e globalizzata, la con-
dizione di instabilità e di difficoltà di raggiungimento degli
obiettivi di autoregolazione e di costruzione di rapporti in-
terpersonali gratificanti e portatori di un equilibrio emotivo
non effimero, non caratterizza la vita dei soli giovanissimi:
anche la famiglia si trova dinnanzi a una situazione di crisi e
subisce l’influenza della carenza dei valori.
Assistiamo infatti ad una crisi crescente dell’istituzione
matrimoniale con calo di matrimoni, aumento delle convi-
venze, delle separazioni e dei divorzi: alla famiglia come sim-
bolo di stabilità e fonte di sicurezza, sembra gradualmente
sostituirsi un concetto di famiglia “liquida” che assume mo-
delli organizzativi diversi e articolati che vanno dalla famiglia
monoparentale a quella nucleare e ancora a quella allargata
caratterizzata dalla presenza del “terzo genitore”. Diventa

229
perciò sempre più difficile che il giovane adolescente vi trovi
modelli adeguati che lo supportino nella costruzione della
propria identità.

Adolescenza prolungata e rischio psicopatologico

Se Blos già negli anni ‘50, ha individuato situazioni di ado-


lescenza prolungata, non strettamente legate ai fenomeni
socio-economici, c’è da dire che, oggi, le condizioni di vita
influiscono notevolmente sul futuro dei giovani adolescenti.
Sicuramente, la prima condizione che determina una situa-
zione di adolescenza prolungata è la convivenza che si protrae
all’interno del nucleo familiare.
In questo modo, i giovani adulti, anziché predisporsi nel
fare nuove esperienze si ritrovano a condividere lo stesso tetto
dei genitori, soffocando la necessità di costruirsi una famiglia
e una identità di carattere sociale, trovandosi così in una sorta
di “indefinitezza” identitaria, che purtroppo è causata, il più
delle volte, dalla mancanza di inserimento nella attività pro-
duttive che è la chiave di partenza per la realizzazione dei de-
sideri: il tasso di disoccupazione giovanile in Italia va oggi
oltre il 40% ed è il più alto dell’Eurozona! (Molto più elevato
tra le donne e sale al 50% nel mezzogiorno).
Questo perdurare di indeterminatezza, insicurezza, as-
senza di prospettive, assenza di progetti, di lavoro, carenza di
relazioni di tipo affettivo e via dicendo, può determinare ef-
fetti devastanti e, in casi gravi, vere e proprie patologie di ca-
rattere psicologico, o addirittura, psichiatrico.
La difficoltà dell’inserimento del giovane nel mondo glo-
balizzato diventa tanto più complessa e devastante se questi

230
non trova nella propria esperienza personale e nel proprio
tessuto relazionale nessuna risposta positiva anche ad una sola
delle dimensioni esistenziali: famiglia, scuola, lavoro, tempo
libero: ritengo infatti che ,spesso, uno sbocco positivo anche
in uno solo di questi contesti possa costituire la chiave per la
costruzione della propria identità e per il superamento del
limbo dell’adolescenza.

Le funzioni del rischio

Molti autori hanno cercato di leggere il fenomeno della


ricerca del rischio in adolescenza in una prospettiva adattiva,
cercando di comprendere quale fosse la funzione di questi
comportamenti e a quali bisogni rispondessero.
La funzione principale sembrerebbe essere quella di con-
sentire agli adolescenti di raggiungere obiettivi di crescita per-
sonalmente e socialmente dotati di senso: questi obiettivi
andrebbero quindi ricercati tra i compiti di sviluppo della fase
adolescenziale ed in modo particolare farebbero riferimento
all’acquisizione dell’identità e alla partecipazione sociale
(Bonino et al; 2003). Il differente sviluppo delle capacità in-
dividuali e le diverse opportunità offerte dal contesto sociale
determinerebbero le differenze secondo le quali alcuni ado-
lescenti assumono dei comportamenti considerati normali per
raggiungere tali obiettivi ed altri invece intraprendono la
strada del rischio.
Le funzioni del rischio che consentono di raggiungere lo
sviluppo dell’Identità sono:
• rimarcare la transizione verso l’adultità e l’autonomia at-
traverso l’assunzione di comportamenti tipici dell’adulto;

231
• identificazione di se stesso come individuo e differenzia-
zione dagli adulti;
• affermazione e sperimentazione di sé e delle nuove
possibilità fisiche, psichiche e relazionali rese possibili
dallo sviluppo cognitivo e corporeo;
• proteggere la vulnerabilità del sé nel suo continuo ri-
maneggiamento segreto attraverso una corazza fatta di
brutalità, sfide, spacconeria, ebbrezza, ecc.;
• trasgressione e superamento dei limiti imposti dalle
regole e dalle leggi del mondo adulto per affermare in
modo forte la propria indipendenza e capacità decisionale;
• esplorazione di sensazioni rese accessibili dalle trasfor-
mazioni puberali e da una nuovo modo di vivere la propria
identità;
• percezione di controllo della propria vita nelle novità
sperimentate per superare il timore e le incertezze pro-
dotte dal senso di inadeguatezza;
• coping e fuga come strategie per risolvere i problemi e i
disagi della vita quotidiana attraverso azioni rischiose che
da una parte permettono di fuggire dalla realtà, quindi non
affrontarla, e dall’altra risultano essere una strategia di co-
ping centrata sulle emozioni che consiste nel vivere emo-
zioni forti prodotte dal rischio per eliminare l’ansia,
l’incertezza e la paura.
Ecco, invece, le funzioni del rischio legate alla partecipazione
sociale e alla ridefinizione delle relazioni sociali:
• molti comportamenti a rischio costituiscono, per la loro
concretezza e visibilità, modi facili per vivere la propria
identità e rappresentarla al gruppo attraverso la condivi-
sione di azioni ed emozioni al fine di ottenere ricono-
scimento, reputazione e popolarità;

232
• rito di legame e di passaggio con lo scopo di fondare
il legame con i coetanei attraverso azioni caratterizzate
dalla ripetizione, ridondanza ed esagerazione di particolari
gesti;
• emulazione e superamento dei coetanei in quanto l’ado-
lescente oltre ad avvertire l’esigenza di agire in conformità
con il gruppo desidera misurarsi con i pari per affermare
se stesso, scatenando così una progressiva intensificazione
del coinvolgimento nei comportamenti a rischio;
• esplorazione delle reazioni degli adulti, per verificare se
essi sono realmente interessati al suo comportamento, e
dei limiti per capire se i divieti sono reali e fino a dove ci
si può spingere;
• opposizione agli adulti mettendo in atto comportamenti
rischiosi e contrari a quelli desiderati da essi per soddisfare
la propria esigenza di differenziazione di se stessi dal
mondo adulto, in modo visibile;
• identificazione con la subcultura giovanile e permettere
l’accesso al gruppo dei pari.
Purtroppo, però, la risoluzione dei compiti adolescenziali
attraverso i comportamenti a rischio può aggravare i disagi
che si cerca di combattere, finendo così in un circolo vizioso,
in cui l’adolescente rimane immerso, perdendo di vista la pro-
pria intenzionalità e stima e credendosi capace di compiere
solo azioni dai risultati negativi.
Ciononostante, la predisposizione al rischio sembrerebbe po-
sitiva rispetto alla risoluzione dei compiti fase-specifici adole-
scenziali, in quanto un adolescente che si sentisse vulnerabile si
chiuderebbe in se stesso con la paura di sperimentarsi nel mondo
bloccando così le sue esperienze ed impedendogli di superare in
modo positivo i compiti tipici della fase di sviluppo in cui si trova.

233
Educare al rischio

L’assunzione dei rischi e la sperimentazione durante l’ado-


lescenza sono considerati normali perché aiutano a raggiun-
gere un’indipendenza, un’identità ed una maturità e a
soddisfare le esigenze di sviluppo legate all’autonomia e alla
necessità di padronanza. Inoltre, certi comportamenti a ri-
schio offrono una soluzione rapida e soddisfacente, anche se
solo apparente e temporanea, all’angoscia adolescenziale e
alla ricerca dell’identità, che andranno poi a stabilizzarsi man
mano che l’adolescente maturerà una propria riflessività più
adulta.
Quindi l’assunzione dei rischi è un comportamento tran-
sitorio normale durante l’adolescenza anche se taluni rischi
sono più dannosi di altri dal punto di vista fisico, psichico e
sociale e nonostante alcuni adolescenti riescano a raggiungere
gli obiettivi dell’adolescenza attraverso strade adattive che non
mettono in pericolo il proprio benessere fisico, psicologico e
sociale; altri adolescenti, invece, non trovano altra soluzione
se non quella di assumere comportamenti a rischio.
L’educatore è quindi chiamato ad aiutare il ragazzo a ri-
strutturare questa visione del mondo, a fargli compren-
dere che egli non ha solo possibilità negative ma può
compiere delle scelte in prima persona per far si che si im-
possessi della propria intenzionalità per pensarsi diversa-
mente, al fine di ricostruire la realtà da un nuovo punto di
vista e di prendere in mano la propria vita in modo autentico
e non attraverso comportamenti che danno solo un transitoria
e inconsistente senso di padronanza e controllo.
Inoltre, secondo il concetto di autoefficacia percepita,
introdotto da Bandura nel 1997, coloro che la posseggono

234
sono meno soggetti alla depressione, si pongono obiettivi ele-
vati e si impegnano nel perseguirli sviluppando buone strategie
di coping; l’importanza di ciò sta nel fatto che l’acquisizione
di tale concetto fa sentire l’adolescente sicuro e protetto nei
confronti di specifici rischi presenti nell’adolescenza.
Inoltre, è stato dimostrato che alcune forme di autoeffi-
cacia percepita portano a saper gestire le emozioni, a resistere
alle pressioni dei pari che spingono verso azioni trasgressive
e rischiose e a sapersi relazionare in modo appropriato, favo-
rendo i rapporti prosociali. Con il termine prosocialità si in-
tende un comportamento atto a favorire altre persone senza
la ricerca di ricompense per l’azione commessa; il comporta-
mento prosociale favorisce sia la persona che lo riceve, la
quale deve accettarla, approvarla ed esserne soddisfatta, sia la
persona che lo compie, in quanto consente di fronteggiare lo
stress e la rabbia; in termini sociali, la prosocialità determina
la riduzione della violenza e dell’aggressività.
È necessario educare e sensibilizzare gli adolescenti ad una
corretta percezione dell’esito delle proprie azioni attuando
non solo strategie preventive che coinvolgano la rete di inte-
razione del giovane, ma soprattutto la sua famiglia, la scuola,
il gruppo dei pari e il mondo degli adulti in generale.

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236
ALCUNE RIFLESSIONI
SUL MASCHILE E FEMMINILE
NELLA PSICOLOGIA DELLO SVILUPPO

Giampaolo Nicolais

Introduzione

La psicologia dello sviluppo studia le continuità ed i cam-


biamenti sistematici che avvengono in un individuo tra il con-
cepimento e la morte.
Arnold Sameroff è un esponente di spicco della psicologia
contemporanea, noto per aver elaborato un “modello transa-
zionale dello sviluppo” che descrive le interazioni reciproche
tra il bambino ed il suo ambiente affettivo. In un suo recente
articolo di importanza seminale (2010) l’autore indica come
sia giunto il momento per la psicologia di costruire una teoria
unificata dello sviluppo che renda possibile comprendere ap-
pieno le caratteristiche, i bisogni e le necessità dei bambini
nelle diverse fasi evolutive. Per far ciò, è indispensabile partire
da un’operazione di “decostruzione” della psicologia dello
sviluppo. Tale operazione consente di riconoscere come que-
sta disciplina abbia, nel secolo scorso, oscillato ripetutamente
tra il paradigma “natura” e quello “ambiente” nel tentativo di
individuare le forze determinati dello sviluppo infantile. Dal

GIAMPAOLO NICOLAIS, Sapienza Università di Roma.

237
suo esordio attorno alla metà dell ‘800, la psicologia scientifica
riteneva che le caratteristiche ereditate fossero a fondamento
della natura umana; attorno agli anni ‘30/‘40 del nuovo se-
colo, il comportamentismo americano segnò una decisa in-
versione di rotta verso l’influenza delle forze ambientali;
l’etologia, la rivoluzione cognitiva e la nascita della genetica
comportamentale portarono negli anni ‘60 ad una riabilita-
zione della centralità dei processi maturazionali intrinseci, as-
sieme all’uso di tecniche statistiche che consentivano di
“pesare” separatamente gli effetti dei geni e quelli dell’am-
biente; a partire dagli anni ’80, una più ampia visione dell’eco-
logia sociale come contesto umano e l’emergere di studi
cross-culturali sullo sviluppo determinarono una nuova oscil-
lazione verso la matrice fondamentalmente ambientale dello
sviluppo umano; più recentemente, il progressivo affermarsi
della biologia molecolare e delle neuroscienze a cavallo dei
due millenni ha riaffermato il primato del dato genetico.
Quelli che Kuhn (1962) definisce “cambiamenti di para-
digma” – trasformazioni nella modellizzazione fondamentale
degli eventi – hanno quindi indotto la psicologia dello svi-
luppo del ‘900 a dare via via diverso rilievo a fattori di matu-
razione versus esperienziali come determinanti fondamentali
dello sviluppo umano. Laddove la psicologia dello sviluppo
descrive le caratteristiche ed i bisogni fondamentali di un
bambino in riferimento al suo contesto di accudimento pre-
coce (dal periodo prenatale alla prima infanzia), è difficile non
osservare come l’enfasi si collochi sempre più sulle determi-
nanti esperienziali. Sulla scorta della “rivoluzione relazionale”
della seconda metà del secolo scorso (che ha chiarito come,
diversamente dalla classica impostazione psicoanalitica, fin
dai primi istanti di vita non siamo esseri pulsionali, bensì re-

238
lazionali) è andata affermandosi una lettura secondo la quale
saremmo primariamente il risultato delle nostre relazioni. Ciò
porta con sé due notevoli implicazioni: da un lato, le forze
ambientali che modellano il nostro sviluppo sono sostanzial-
mente ricondotte al contributo delle relazioni interpersonali;
dall’altro, se solo tali relazioni saranno – o potranno essere
modificate in modo tale da essere – “buone”, ne conseguirà
una traiettoria di crescita armoniosa.
Non solo all’interno della psicologia, ma ancor più nel co-
mune sentire, l’esigenza sovraordinata di un bambino viene
fatta coincidere con il diritto ad un’esistenza accanto ad adulti
amorevoli ed emotivamente sintonizzati che si prendano cura
di lui e lo proteggano dalle difficoltà dell’esistenza.

La radice conflittuale dello sviluppo

Nonostante gli uomini abbiano da sempre circonfuso il


periodo della gravidanza di un’aura sentimentale, ciò che ac-
cade nel grembo materno a partire dagli stadi iniziali dello
sviluppo embrionale evoca, piuttosto, scenari altamente con-
flittuali. Ciò è così vero – e reso evidente dal semplice rico-
noscimento che la metà delle gravidanze non giungono a
termine, con la maggior parte di questi arresti che si collocano
nei primissimi momenti senza che la donna stessa ne abbia
sentore – da far ipotizzare che sia proprio la spietatezza di
tali fenomeni ad aver determinato la necessità di compensa-
zione espressasi nel corso della storia umana sotto forma di
idealizzazione del periodo gestazionale.
La biologia evoluzionistica (Trivers, 2002) spiega questo
conflitto alla luce dei principi darwiniani di selezione e tra-

239
smissione della specie. Noi e i nostri parenti più prossimi
non siamo geneticamente identici e quindi, per quanto ciò
possa apparire contro intuitivo, il grembo materno ci mette
alla prova. Sopratutto nelle sue fasi iniziali, la gravidanza co-
stituisce un severissimo stress test per il nascituro, che ha il
compito convincere la parte uterina della sua adeguatezza
allo sviluppo successivo – solo i migliori dovranno soprav-
vivere. L’embrione deve convincere la propria madre di es-
sere forte e in salute. Da un punto di vista evoluzionistico,
ciò avrebbe determinato uno scontro aperto tra le caratteri-
stiche e la relativa ostilità dell’ambiente uterino – con le cel-
lule endometrali strettamente allineate tra loro a formare un
ambiente di impianto relativamente ostile – ed il vigore della
progressione cellulare embrionale. Superato lo stress test, nel
prosieguo di un normale periodo gestazionale tale assetto
conflittuale muta nella forma, ma non nella sostanza. Si
pensi, ad esempio, alla “dialettica ormonale” feto-madre: il
feto innalza la sua produzione ormonale con l’obiettivo di
aumentare la pressione sanguigna materna così far giungere
alla placenta maggiori quantità di elementi nutritivi, mentre
la madre risponde con un aumento della sua propria produ-
zione ormonale volto a ridurre pressione e livello glicemico
sanguigni.
A partire dall’ostilità tra il trofoderma e l’assetto difensivo
delle cellule endometriali, passando per le dinamiche ormo-
nali appena esemplificate, tale conflitto caratterizza lo svi-
luppo embrionale e fetale normali come un insieme di
processi volti ad un corretto bilanciamento tra il genotipo materno e
quello paterno. Entrambi spinti dalle esigenze di fitness riprodut-
tiva ad affermare i propri geni, i genomi paterno e materno
entrano in una competizione che tuttavia non si configura

240
come un gioco a somma zero, quanto piuttosto come una
continua e delicata transazione. A valle di tale processo, con
la sua teoria dell’imprinting genomico Haig (1993) ha mostrato
come l’espressione di diversi geni dipenda dal sesso del geni-
tore da cui sono stati ereditati.
L’invasività delle cellule fetali è testimoniata dal fatto che
colonie di queste cellule vengono normalmente rinvenute nei
tessuti e negli organi materni. La conseguenza è che, a partire
dall’avvio di una gravidanza e per il resto della sua vita, una
madre diviene un vero e proprio “ibrido genetico” – non
sarà mai più ciò che era prima non solo da un punto di vista
psicologico, ma ancor prima genetico. Il grande pediatra e
psicoanalista inglese Winnicott (1965), descrivendo le tra-
sformazioni di una madre nel rapporto con il proprio bam-
bino, affermava che questa è sufficientemente buona quando
“si arrende al proprio bambino”. Possiamo utilizzare questa
felice immagine per ricapitolare le vicissitudini fin qui de-
scritte e che hanno determinato tale ibridazione genetica
della madre, usando l’accortezza di intendere la “bontà” ma-
terna come la capacità di portare a termine la gravidanza.
Come precedentemente notato, però, la nascita è il compi-
mento di un processo che nel corpo della madre vede al-
l’opera un doppio livello conflittuale: non solo quello tra il
bambino e l’ambiente materno, ma anche quello tra il ge-
noma materno e quello paterno.
Avendo fin qui ribadito la radice conflittuale di uno svi-
luppo che per compiersi necessita dell’integrazione tra il ma-
schile-paterno ed il femminile-materno, rivolgiamo ora la
nostra attenzione alle differenze tra maschi e femmine pre-
senti fin dalla nascita.
Queste differenze non si limitano ai cromosomi sessuali

241
e agli evidenti caratteri sessuali primari. Ciò che risulta facil-
mente osservabile e comprensibile da ciascuno in maniera
intuitiva – la presenza di differenze biologicamente determi-
nate nel comportamento maschile e femminile – ha ricevuto
nel corso degli ultimi 20 anni il sostegno di robuste evidenze
empiriche. In una serie di studi mai sufficientemente ricordati
e citati, Simon Baron-Cohen (per una rassegna di ampio re-
spiro, si veda: 2003) ha rotto un vero e proprio tabù presente
nelle scienze sociali e non solo, confermando la presenza di
differenze anatomo-funzionali tra il cervello maschile e
quello femminile. In una sintesi necessariamente approssi-
mativa, tra queste vanno annoverate: la maggiore presenza
media di sostanza grigia (corpi cellulari) e bianca (connes-
sioni tra le diverse aree) nel cervello maschile; maggiore am-
piezza media dell’amigdala (area implicata nella gestione delle
emozioni, in particolare della paura) nel cervello maschile;
maggiore ampiezza media del planum temporale (area impli-
cata nel linguaggio) nel cervello femminile; sviluppo dell’em-
patia più rapido nelle femmine; maggiore propensione a
sistematizzare (comprendere il meccanismo di funziona-
mento degli oggetti e in particolare dei “sistemi” – da quelli
meccanici a quelli naturali, fino a quelli astratti come nel caso
della matematica).
Le ricerche di Baron-Cohen mostrano come tali diffe-
renze sarebbero principalmente ascrivibili all’azione del te-
stosterone, l’ormone sessuale maschile responsabile nella fase
prenatale dello sviluppo del pene e dello scroto, e in assenza
del quale si formeranno gli organi genitali femminili.
Nell’elegante studio che ha dato il via alle ricerche del-
l’equipe di Baron-Cohen sulle precoci differenze comporta-
mentali legate al sesso (Connellan et al, 2000), il campione era

242
costituito da più di un centinaio di bambini nati da circa 24
ore. L’obiettivo era stabilire se fossero riscontrabili nel com-
portamento differenze legate al sesso in una fase della vita
evidentemente ancora non condizionata dall’impatto ambien-
tale-relazionale. Ai neonati vennero mostrati due oggetti so-
spesi sopra la loro culla: un volto umano e un oggetto
meccanico inanimato. Usando il metodo dello studio del
tempo di fissazione, l’equipe di Baron-Cohen trovò che i ma-
schi guardavano più a lungo l’oggetto meccanico, mentre le
femmine fissavano più intensamente il volto umano. Al fine
di verificare l’eventuale correlazione tra i livelli di testosterone
fetale e il comportamento sessualmente differenziato tra ma-
schi e femmine nel corso dello sviluppo (Auyeung et al., 2009)
Baron-Cohen ha in seguito studiato longitudinalmente una
coorte di circa 500 bambini a partire dal loro sviluppo gesta-
zionale – rilevando il dato del livello di testosterone presente
nella placenta attraverso l’amniocentesi – fino ai 12 anni. In
breve, lo studio ha mostrato come il testosterone fetale fosse
predittivo, a diversi anni di distanza, di giochi tipicamente ma-
schili tanto nei maschi quanto nelle femmine.
Questi riscontri indicano come le psicologie maschili e
femminili siano precocemente influenzate, tra gli altri fattori,
anche dai livelli ormonali del testosterone presenti fin dal pe-
riodo di gestazione. Conseguentemente, non è possibile rife-
rirsi ad uno sviluppo infantile precoce senza distinguere tra
sviluppo maschile e sviluppo femminile.
Ricapitolando: quella dello sviluppo è una strada difficile e con-
flittuale che, grazie al contributo di un maschio ed una femmina, prepara
un maschio o una femmina alla vita.

243
Maschi o femmine in relazione speciale
con la propria madre genetica

Quanto accade nel grembo materno nell’arco di quei 9


mesi di “dialogo conflittuale” pone in una relazione già molto
stretta la madre e il proprio bambino. A buon diritto, è quindi
possibile oggi includere nelle discipline psicologiche una “psi-
cologia fetale”. Sono oramai noti veri e propri processi di ap-
prendimento che hanno luogo durante la gravidanza. Molti
di questi sono essenzialmente di natura biochimica – ad esem-
pio, dopo una reazione iniziale di allarme dovuta ad un forte
rumore esterno, il feto impara a non riattivare quella reazione
grazie al meccanismo dell’abituazione. Allo stesso tempo,
però, il feto impara anche a riconoscere una serie di elementi
sensoriali distintivi materni che vanno considerati come pre-
requisiti fondamentali per lo stabilirsi di un legame privilegiato
madre-bambino. Sappiamo, ad esempio, da studi entrati ora-
mai a far parte dei “classici” della psicologia moderna, come
a poche ore dalla nascita il neonato sia in grado di discrimi-
nare e preferire l’odore del latte materno rispetto a quello di
altre neomamme (MacFarlane, 1975); come l’ascolto della
voce registrata della propria madre lo induca a succhiare più
velocemente da una tettarella rispetto a quanto non accada
quando la voce è quella di un’altra neomamma (DeCasper &
Fifer, 1980); come la percezione amodale (Stern, 1985) – ca-
pacità percettiva innata che implica l’attivazione contempo-
ranea di sfere sensoriali diverse – lo metta in grado di
costruire progressivamente un’unità sensoriale integrata rife-
ribile alle diverse caratteristiche della propria mamma (“questa
è la mia mamma, che ha quel tono di voce che è allo stesso
tempo quel modo di carezzarmi la schiena quando piango”).

244
Queste ed altre competenze precoci, alcune delle quali con
ogni evidenza acquisite mediante processi di apprendimento
intrauterino, testimoniano della qualità unica, necessaria e in-
sostituibile del legame gestazionale madre-bambino.
Le tecniche di procreazione assistita (in particolare, ci ri-
feriamo in questa sede alla fecondazione eterologa e alla pra-
tica della maternità surrogata) rendono possibile l’evenienza
in cui un bambino abbia una madre genetica diversa dalla
madre gestante. Susan Golombok dirige il Centre for Family Re-
search dell’Università di Cambridge, e le sue ricerche da molti
anni sono volte ad indagare l’impatto delle nuove forme di
aggregazione familiare (dalla fertilizzazione in vitro alle fami-
glie omogenitoriali, passando per la surrogazione) sullo svi-
luppo dei bambini. Un suo lavoro del 2011 ha riportato i dati
di uno studio longitudinale sullo sviluppo e qualità del rap-
porto con la propria madre di bambini dalla nascita ai 7 anni
di vita, confrontando tra loro tre diversi campioni: 54 bambini
nati da concepimento naturale, 32 da maternità surrogata e
32 da donazione di ovuli. Nei primissimi anni di vita, le valu-
tazioni dei bambini e del loro rapporto con la madre ad 1, 2
e 3 anni hanno indicato positive traiettorie di sviluppo nei
bambini dei tre gruppi, con livelli di calore e qualità dell’inte-
razione percepita superiori nei casi di bambini nati da madri
surrogate. Nel follow-up ai 7 anni dei bambini, però, i dati
non hanno confermato il trend osservato anni prima. In par-
ticolare, il dato più sorprendente ha riguardato la qualità del-
l’interazione madre-bambino, che in questo follow-up è stata
videoregistrata e valutata da osservatori indipendenti (lad-
dove, nelle valutazioni precedenti, questo dato era riferito alla
sola autovalutazione delle madri, e perciò meno oggettivo).
Sorprendentemente, il livello di reciprocità nell’interazione

245
madre-bambino – in altre parole la misura di elementi nucleari
di una ottimale relazione di caregiving quali la responsività, la
reciprocità e la cooperazione diadiche – è risultato essere si-
gnificativamente maggiore nelle diadi con bambini nati da
concepimento naturale tanto rispetto a quelli nati da madri
surrogate quanto a quelli nati da donazione di ovuli. Com-
mentando questo dato inatteso, Golombok ipotizza che “…
la mancanza di differenze tra le famiglie formate da surroga-
zione in cui le madri non hanno partorito il loro bambino e
le famiglie formate da donazione di ovuli in cui le madri
hanno partorito il loro bambino, induce a ritenere che la man-
canza del legame genetico, e non di quello gestazionale, potrebbe essere
associata con quelle interazioni madre-bambino meno positive (…) l’as-
senza di una relazione genetica eserciterebbe un impatto maggiore sul-
l’interazione meno positiva madre-bambino rispetto a fattori
associati con la mancanza di un legame gestazionale” (pag.
10, traduzione e corsivo di chi scrive). Pur non avendo ancora
chiarito i motivi per i quali ciò accadrebbe, la scienza pare
quindi confermare attraverso l’osservazione controllata e in-
dipendente della qualità del rapporto tra una madre e il suo
bambino la natura privilegiata e superiore del legame tra il
bambino e la propria madre genetica rispetto a legami madre-
bambino di natura diversa, compreso quello gestazionale.
Con la sua teoria dell’attaccamento, John Bowlby (1988)
ha portato a definitivo compimento una serie di progressive
revisioni della teoria pulsionale freudiana sulla natura del
comportamento umano. Come ricordato in precedenza, oggi
non è più possibile fare riferimento ad un bambino che sa-
rebbe inizialmente caratterizzato dalla preminente e sovraor-
dinata urgenza di soddisfacimento dei propri bisogni
pulsionali. Per dirla con le parole di Fairbairn (1952), studioso

246
a cui va riconosciuta la primogenitura della svolta del cosid-
detto modello delle relazioni oggettuali in psicoanalisi, il bi-
sogno più grande di un bambino è quello di essere amato dai
propri genitori, al contempo vedendo accettato senza riserve
il suo amore per loro. Già da neonati, dunque, siamo esseri
in relazione che hanno bisogno di relazioni amorevoli per cre-
scere e svilupparsi. Il merito di Bowlby è stato quello di deli-
neare un sistema motivazionale di base per il comportamento
umano – quello rappresentato, per l’appunto, dalla dinamica
del legame di attaccamento – che descrive “plasticamente” la
progressione del primato della relazione oggettuale nel corso
dei primi anni di vita. Il legame specifico che viene a formarsi
tra due persone si avvia, nel linguaggio dell’attaccamento, a
partire dall’incontro tra l’esigenza di protezione in condizioni
di paura, stress e difficoltà (esigenza filo ed ontogenetica-
mente ereditata dal piccolo della specie umana) e la capacità
da parte dell’adulto che se ne prende cura – caregiver – di ri-
spondervi in maniera adeguatamente sintonizzata. Spinto dal
programma innato “attaccamento”, quando si trova in diffi-
coltà il piccolo attiva comportamenti di ricerca di prossimità
fisica alla “base sicura”: il modo in cui il caregiver risponderà
alla richiesta del bambino eserciterà un notevole impatto –
nel qui ed ora come pure nel corso del tempo, attraverso la
progressiva mentalizzazione di questo tipo di esperienze da
parte del bambino – sulla qualità del mondo relazionale del
bambino e del futuro adulto. Dall’iniziale formulazione di Bo-
wlby – il quale espresse fino alla sua scomparsa la profonda
convinzione che le madri dovessero stare vicine ai loro bam-
bini per accudirli continuativamente e stabilmente almeno nei
primissimi anni di vita, pena la crescita di “una gran quantità
di persone disturbate” – i teorici dell’attaccamento hanno am-

247
pliato quello che è parso ai più un riferimento troppo angusto
alla figura di attaccamento materna, non rispondente peraltro
alla sempre più comune molteplicità di relazioni significative
solitamente intessute dal bambino già nella prima fase della
sua vita. Il costrutto di attaccamenti multipli ha perciò più re-
centemente integrato quello di attaccamento al caregiver pri-
mario. Oggi viene riconosciuto come normalmente il
bambino sviluppi già nel primo anno alcune relazioni di at-
taccamento privilegiate – basti pensare non solo, ovviamente,
a quella con il padre, ma anche a quella con i nonni, con le
educatrici del nido, eccetera – che modellano la dimensione
relazionale della sua crescita.
Cionondimeno, pur all’interno di questo allargamento del
costrutto, permane un generale consenso sul concetto di mo-
notropia: la madre biologica viene considerata la figura princi-
pale di attaccamento alla luce di un legame gerarchico
reciproco, laddove viene a realizzarsi una corrispondenza tra
le gerarchie di accudimento (con a capo, solitamente, la madre
biologica) e di attaccamento (del bambino alla stessa).
Ricapitolando: a partire dal concepimento, quella dello svi-
luppo è una strada difficile e conflittuale che, grazie al con-
tributo di un maschio ed una femmina, prepara un maschio
o una femmina alla vita, legandoli per sempre in modo speciale alla
propria madre genetica.

Da 2 a 3, verso la costruzione di un sé morale

Abbiamo visto come, specialmente nelle prime fasi della


sua vita, per svilupparsi il bambino abbia bisogno di cure
amorevoli e ben sintonizzate che soddisfino la sua “pulsione”

248
relazionale. Tale condizione è necessaria per il suo stesso
mantenimento in vita – come testimoniato dalla cosiddetta
“depressione anaclitica” in cui la deprivazione prolungata
della presenza materna nei primi mesi può comportare de-
pressioni gravi con rifiuto dell’alimentazione ad esito persino
fatale. La teoria dell’attaccamento, indicando la validità di di-
verse figure di caregiving nel garantire al bambino un simile nu-
trimento relazionale, conferma quanto questi rapporti diadici
siano fondanti nel corso del primo anno.
Fin dall’inizio, comunque, il bambino è generalmente in-
serito all’interno di matrici relazionali molteplici, in cui fa pro-
gressivamente esperienza di rapporti non esclusivamente
diadici. Più precisamente, a partire dal secondo anno di vita
il bambino vive con sempre maggiore consapevolezza la re-
altà del rapporto con il proprio padre come una realtà a sua
volta inserita nella cornice del rapporto tra i suoi due genitori.
Come è noto, Freud (1924-1929) ha descritto la centralità
del complesso edipico e del suo tramonto nei termini di un
potente processo di organizzazione psichica che fa transitare
il bambino verso l’acquisizione di una capacità adulta di tol-
lerare la frustrazione e la ferita narcisistica derivanti dall’im-
possibilità di possedere l’altro solo per sé. Ad un secolo di
distanza, la teorizzazione del complesso di Edipo rimane un
architrave della psicologia dei processi intrapsichici e relazio-
nali. Descrivendo con esattezza come, assieme a cure materne
amorevoli e continuative, sia parimenti necessario che il bam-
bino faccia esperienze psichicamente dolorose derivanti dal-
l’accettazione del principio di realtà e dalla rinuncia alla
pretesa di onnipotenza, il costrutto edipico pone al centro
della prima fase prescolare la centralità della dialettica padre-
madre (e con il padre e la madre) quale riferimento insostitui-

249
bile per lo sviluppo dell’identità personale del bambino. Il “su-
peramento dell’Edipo”, quindi, è in Freud reso possibile dalla
rinuncia alla pretesa di esclusività nel rapporto con il genitore
del proprio sesso attraverso il riconoscimento di limiti neces-
sari alla propria acquisizione desiderante. L’identificazione
con il genitore del sesso opposto è il punto di non ritorno del
superamento dell’Edipo. Identificazione che costituisce – nei
termini freudiani – “il nucleo del Super-io”. Non è questa la
sede per occuparci degli aspetti controversi del costrutto nel
tempo oggetto di critiche e sottoposti a revisione – ad esem-
pio, declinandosi attraverso il noto mito greco, Freud descri-
veva in modo convincente la dinamica edipica nei maschi
lasciando in una maggiore vaghezza la descrizione dell’ana-
logo processo nelle femmine.
Qui interessa ribadire un punto euristicamente centrale
della teorizzazione edipica: l’acquisizione della piena compe-
tenza relazionale nell’apertura dal diadico al triadico (e quindi
al molteplice) passa per la costruzione di un sé morale. Rico-
noscere ciò che può o non può essere fatto; assumere, dun-
que, in sé il limite che possa arginare la propria pretesa di
onnipotenza, e agire in accordo con i propri standard morali
interni; costruire in questo modo una coscienza morale: tutto
ciò passa per il processo dell’identificazione con un altro da
sé, processo che comporta un notevole costo psichico. Scri-
veva Winnicott (1965) che il codice morale degli adulti è ne-
cessario, perché umanizza ciò che per il bambino è subumano.
Il meccanismo dell’identificazione che rende possibile questa
acquisizione è un processo che George Klein (1976) ha effi-
cacemente descritto come “un’inversione di ruolo nel rap-
porto interpersonale, in cui i valori, le caratteristiche e le
modalità dell’altro sono messi in rapporto con il proprio sé,

250
che li fa propri” (pp. 276). Il dolore della rinuncia insito nella
trama del conflitto edipico trova sbocco fecondo in quella
che potremmo chiamare un’operazione di “antropofagia psi-
chica”. Parti dell’altro vengono assimilate nel proprio sé: va-
lori, come pure “caratteristiche e modalità” – non si tratta,
cioè, di acquisire indicazioni e norme di comportamento in
maniera disincarnata, ma di farlo assumendo in sé elementi
identitari dell’altro cedendo parzialmente (e dolorosamente)
sovranità psichica. Analogamente alla progressione delle cel-
lule fetali nel corpo materno che trasforma irrevocabilmente
la madre facendola divenire altra da sé, il processo di identi-
ficazione implica un’alterazione definitiva dell’identità del
bambino che assume in parte quella genitoriale. La genitoria-
lità ha due modi di esprimersi: quello materno e quello pa-
terno. Nonostante la crescente enfasi posta dalla psicologia
sul costrutto delle “funzioni genitoriali interiorizzate” – con
la conseguente implicazione secondo la quale tali funzioni
“materne” e “paterne” potrebbero essere assunte e agite in
modo indipendente dall’identità biologica del genitore – un
figlio maschio o una figlia femmina attraverseranno in modo
necessariamente diverso e specifico i passaggi di identifica-
zione con le proprie figure genitoriali, anche in ragione delle
specificità legate al funzionamento di personalità maschile e
femminile di tutti gli attori coinvolti nel nucleo familiare.
Ricapitolando: a partire dal concepimento, quella dello svi-
luppo è una strada difficile e conflittuale che, grazie al con-
tributo di un maschio ed una femmina, prepara un maschio
o una femmina alla vita legandoli per sempre in modo spe-
ciale alla propria madre genetica. Il passaggio precoce e necessario
verso l’acquisizione della triangolarità relazionale e dello sviluppo del sé
morale è caratterizzato dal dolore psichico dell’identificazione.

251
Il paradosso del bambino di cristallo

Introducendo queste riflessioni sul maschile e il femminile


nella psicologia dello sviluppo, facevo notare che lo “spirito
del tempo” sembra promuovere tanto a partire da un’ottica
specialistica quanto nel comune sentire una lettura del bam-
bino come essenzialmente bisognoso di cure amorevoli e sin-
tonizzate. Se siamo il frutto delle nostre esperienze ambientali
di relazione, sembra essere il pensiero, ciò che va garantito al
bambino per un sano sviluppo è l’insieme di quelle condizioni
che abbiamo descritto in precedenza come caratterizzanti i
primi mesi di vita – un caregiver affettuoso e presente, e il
pronto soddisfacimento delle sue esigenze. La genitorialità di
cui ha bisogno un simile bambino coincide di fatto tout court
con quella materna, ancor meglio con la genitorialità soffice,
accogliente e sempre disponibile che la mamma esprime con
il suo neonato (il neologismo “mammo”, imperante da ora-
mai quasi un ventennio, descrive perfettamente la tendenza a
schiacciare il ruolo paterno su quello materno così da mettere
al riparo il bambino da eventuali ruvidezze maschili trauma-
tizzanti).
La nostra epoca, quindi, ritiene il bambino troppo fragile
perché possa affrontare esperienze conflittuali e psichica-
mente dolorose senza andare in pezzi.
Come siamo arrivati a questa distorsione?
Da almeno tre secoli la società occidentale appare attra-
versata da una vera e propria “sindrome del bambino di cri-
stallo”. A partire da quella che comunemente viene indicata
come rivoluzione borghese del XVIII secolo, i ruoli familiari
– in particolare quello materno – sono stati profondamente
ridisegnati. Riferendosi alla società europea di allora, Kagan

252
(1998) sottolinea come “l’idea diffusa che alcuni comportamenti
genitoriali garantissero lo sviluppo di tratti del carattere
necessari per il successo futuro, e dunque proteggessero la
famiglia dalla discesa nella scala sociale, fu tradotta razionalmente
in procedure rituali che allontanavano la preoccupazione.
Ma questo significava che anche l’ipotesi complementare
doveva essere vera: se le madri non accudivano i bambini
piccoli in modo adeguato, questi sarebbero potuti diventare
deboli di mente e di animo selvaggio” (p. 115).
L’autore rintraccia all’interno di questo passaggio storico
la nascita di un diffuso “fascino del determinismo della prima
infanzia”: una fede profonda nella continuità tra presente e
passato (si veda il costrutto equivalente di “periodi critici nello
sviluppo” in psicologia) che genera una convinzione radicata
circa il potere assoluto dei primi anni di vita nello sviluppo
psicologico. In questi primi anni diverrebbe cruciale che il ge-
nitore fornisca stimolazioni ed opportunità appropriate, pena
la perdita definitiva della possibilità di crescita ed arricchi-
mento del bambino, se non addirittura la presenza di danni
irreversibili. Basta semplicemente richiamare il dato del crollo
dell’indice di natalità nella società occidentale – nel 1946 in
Italia una donna aveva mediamente 3 figli, a fronte dell’1,4
odierno – per comprendere come l’investimento “ossessivo”
sul (prevalente) unico figlio sia divenuto sempre più caratte-
rizzante la vita delle famiglie. Nella nostra società è in costante
crescita il numero di madri che hanno trascorso una parte co-
spicua della loro gravidanza leggendo fiabe o ascoltando mu-
sica classica con il proprio nascituro; di padri che si preparano
– con malcelata serenità – ad assistere al parto della propria
compagna, certi degli effetti benefici che questa ne deriverà,
e con lei il bambino; di genitori preoccupati perché il proprio

253
piccolo non sembra ancora lallare ai 6 mesi o gattonare ben
prima dell’anno. “Se la futura felicità, le doti naturali e il suc-
cesso si formano nei primi anni di vita, e se l’attenzione pre-
murosa a questo stadio garantisce gioie future, allora i genitori
che compiono coscienziosamente i loro doveri nell’educa-
zione dei figli hanno meno motivi per essere apprensivi”
(Kagan, 1998, p. 116): fare tutto, farlo al più presto, e farlo al
meglio per il proprio bambino alimenta e al contempo tenta
di placare un’ansia dilagante.
Nonostante la psicologia e la psicopatologia dello sviluppo
descrivano oramai da decenni le caratteristiche di un bambino
competente e resiliente, il modello di bambino che sembra ancora
largamente prevalente nelle aspettative dei neogenitori è per-
ciò quello “fragile”. Il destino di un simile bambino si gio-
cherebbe nell’arco di pochissimi anni e parrebbe necessitare,
ai fini di un sano sviluppo, non più del winnicottiano genitore
sufficientemente buono, bensì di un irrealistico genitore caldo
e protettivo.
Un bambino che ha solo bisogno di mamme è un bam-
bino che non necessita di un codice morale umanizzante –
per lui non è neanche necessario ’amore materno, essendo
bastevole “un amore di tipo materno”. Questo bambino
buono e fragile può essere cresciuto, in ultima analisi, da
chiunque se ne prenda cura fornendogli vicinanza e calore
umano.
Concludendo: a partire dal concepimento, quella dello svi-
luppo è una strada difficile e conflittuale che, grazie al con-
tributo di un maschio ed una femmina, prepara un maschio
o una femmina alla vita legandoli per sempre in modo spe-
ciale alla propria madre genetica. Il passaggio precoce e ne-
cessario verso l’acquisizione della triangolarità relazionale e

254
dello sviluppo del sé morale è caratterizzato dal dolore psi-
chico dell’identificazione. La nostra società tende a negare tale cor-
nice di riferimento dello sviluppo infantile, in favore di un modello dello
sviluppo al cui centro è il “bambino di cristallo” e la conseguente necessità
di proteggerlo amorevolmente.

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256
BENESSERE E SODDISFAZIONE LAVORATIVA
DEGLI INSEGNANTI

Simona De Stasio - Ilaria Buonomo


Simona Grilli - Denise Fazio

Il benessere: alcune definizioni

Il benessere è “uno stato in cui l’individuo realizza le pro-


prie capacità, può gestire adeguatamente le normali situazioni
di stress della vita, può lavorare produttivamente ed è in
grado di contribuire attivamente alla propria comunità” (Or-
ganizzazione Mondiale della Sanità, OMS, 2004). Pertanto, il
benessere rappresenta uno stato armonico di salute, forze fi-
siche e spirituali. È importante notare come la stessa defini-
zione di salute proposta dall’OMS ribadisca l’importanza di
una condizione di benessere globale della persona: “la salute
è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e
non la semplice assenza dello stato di malattia o di infermità”
(OMS, 1948). Ci si riferisce, quindi, non solo a una salute di
tipo fisico, ma anche mentale e psicologica. Essere in buone
condizioni di salute psicofisica vuol dire adattarsi meglio al-
l’ambiente, avere un migliore funzionamento psicologico e

SIMONA DE STASIO - SIMONA GRILLI - DENISE FAZIO, Libera Università Maria


SS. Assunta – Roma.
ILARIA BUONOMO, Sapienza Università di Roma.

257
lavorativo (Argentero et al., 2008). Dal punto di vista sogget-
tivo, la percezione di benessere è il risultato di una valutazione
cognitiva ed affettiva della propria vita, altamente influenzata
da disposizioni personali (affettività positiva o negativa, au-
tostima, senso di autoefficacia). Ne deriva che alcuni tratti di
personalità, ma anche le sfide, le opportunità, le risorse of-
ferte dal contesto, possano spiegare le differenze individuali
riguardo il benessere percepito (Delle Fave, 2007).
Con particolare riferimento al benessere scolastico, a par-
tire dal modello sociologico del benessere di Allardt (1989) è
possibile individuare quattro categorie di indicatori di benes-
sere: condizioni e caratteristiche strutturali (having); relazioni
sociali (loving); mezzi per l’autorealizzazione (being); stato di
salute. Nello specifico, l’having riguarda la presenza di un am-
biente sicuro, protetto, non rumoroso che facilita lo svolgi-
mento dell’attività didattica. Anche le dimensioni delle classi,
il tipo di materie e curricola offerti, la presenza di adeguati
servizi per i diversi attori della scuola (mense, servizi sanitari,
servizi di assistenza e counseling, ecc.) sono aspetti che, pur
riguardando principalmente il contesto di apprendimento,
rientrano in questa categoria. Avere un ambiente struttural-
mente adeguato non è però sufficiente per parlare di benes-
sere a scuola. È necessario anche che, in questo contesto, ci
sia un clima “positivo”, dato da relazioni (tra studenti, tra stu-
denti e docenti, tra scuola e famiglia) basate sulla coopera-
zione ed il rispetto (loving), e in cui sia data a ciascun attore la
possibilità di partecipare attivamente ai processi decisionali e
di essere valorizzato per il proprio contributo al processo edu-
cativo-formativo. Tali condizioni favoriscono esperienze di
apprendimento positive e sentimenti di autorealizzazione
(being) (Albanesi et al., 2007).

258
Having, loving e being sembrano essere anche le caratteristi-
che rinvenute da Hall-Kenyon e colleghi (2014) in una review
sulla soddisfazione lavorativa percepita dagli insegnanti della
scuola dell’infanzia. Gli autori, infatti, hanno messo in luce
tre aspetti chiave sulla base dei quali gli insegnanti valutano
il proprio stato di benessere: a) la natura del lavoro, la sua
gradevolezza, i valori associati alle attività svolte; b) la rela-
zione e la comunicazione con i colleghi; c) lo stipendio, le
opportunità di promozione e autorealizzazione lavorativa.
Questo elenco manca di un elemento centrale: la relazione
con gli studenti.

Impatto della relazione studente-insegnante


sulla soddisfazione lavorativa

Diversi contributi italiani mostrano che la soddisfazione


dell’insegnante è influenzata anche dall’instaurarsi di una
buona relazione con il bambino e dalla dimostrazione da
parte del bambino di aver compreso e di saper mettere in atto
gli insegnamenti ricevuti nel contesto scolastico (Wagner et
al., 2010; Albanese et al., 2014; Fiorilli et al., 2015).
La molteplicità dei compiti relazionali ai quali gli inse-
gnanti sono chiamati li espongono al rischio di stress emotivo
che può aumentare nella propria intensità quando essi sono
costretti a gestire situazioni problematiche: vedi per difficoltà
mostrate dalle famiglie dei bambini presenti in classe o per
difficoltà ed aspetti disfunzionali emersi nei comportamenti
dei bambini in classe.
Il gradiente di difficoltà e il conseguente rischio di esauri-
mento emotivo per gli insegnanti risultano fortemente asso-

259
ciati quando non vi è tra colleghi un clima di coesione e di fi-
ducia. Può accadere che i docenti non sempre si sentano in
grado di gestire nei casi più delicati efficacemente la comuni-
cazione con i genitori, riuscendo ad assumere un comporta-
mento cauto e ferma, ma all’opposto possano sperimentarsi
inefficaci e a disagio.
In una recente ricerca sul benessere di insegnanti italiani
di scuola dell’infanzia (Buonomo et al., 2015) è emerso che
insegnanti di età ed esperienza diverse valutano il proprio
stato di soddisfazione lavorativa sulla base di aspetti differenti
della professione. In particolare, mentre i più giovani mo-
strano soddisfazione per aspetti legati alla carriera (promo-
zioni, riconoscimenti), gli insegnanti più esperti hanno più
soddisfazione per gli aspetti sociali e comunicativi del lavoro
(rapporto con i colleghi, comunicazione e natura del lavoro).

Il ruolo dell’autostima e dell’autoefficacia

Tutti gli elementi citati finora influenzano anche la per-


cezione che l’insegnante ha di sé, la sua autostima e la sua au-
toefficacia (Sharma et al., 2012). Tschannen-Moran e colleghi
(1998) hanno elaborato un modello di autoefficacia dell’in-
segnante basato sul livello con cui “l’insegnante crede nella
propria capacità di organizzare ed eseguire le azioni richieste
dal proprio contesto scolastico allo scopo di raggiungere
obiettivi specifici” (p. 232). Come riportato da Hall-Kenyon
(et al., 2014), ad oggi la letteratura sul benessere degli inse-
gnanti dell’infanzia non fornisce informazioni univoche circa
la relazione tra livelli di autostima e benessere lavorativo: in-
fatti, mentre Chung e colleghi (2005) hanno trovato un’asso-

260
ciazione significativa tra i livelli di autostima e alcuni indica-
tori di benessere lavorativo, altre ricerche (ad es., Guo et al.,
2010) non hanno confermato questo dato. In generale, l’au-
tostima e l’autoefficacia risultano a loro volta associate a un
clima più collaborativo in classe, a un maggiore entusiasmo
da parte sia dell’insegnante che degli studenti, a un minor pre-
giudizio negativo dell’insegnante nei confronti degli alunni
(Ross & Gray, 2006). Insegnanti con alti livelli di autoeffica-
cia, infatti, scelgono strategie atte ad incrementare l’appren-
dimento degli studenti e ne promuovono l’autonomia, e
percepiscono di avere un maggiore controllo dei processi di
insegnamento e apprendimento (Cairo, 1999; Goddard &
Goddard, 2001; Skaalvik & Skaalvik, 2007; Tschannen-Moran
& Johnson, 2011). Inoltre, lo stato di benessere e l’autoeffi-
cacia influenzano e sono influenzati dalle emozioni che l’in-
segnante esperisce in classe e, più in generale, in relazione al
proprio lavoro (e.g., Schutz et al., 2002). Le emozioni mo-
strate dall’insegnante in classe, infatti, influenzano non solo
il clima emotivo della classe, ma anche le capacità cognitive
che l’insegnante mette a disposizione del lavoro in classe
(Boekaerts et al., 2000; Efklides et al., 2005), i suoi giudizi e
i suoi comportamenti (Weiner, 2006).

Insegnamento e burnout: l’insegnante


come helping professional

La relazione con lo studente e l’impatto che il benessere


dell’insegnante ha sulla classe e sulla sua efficacia professio-
nale è coerente con l’idea che l’insegnamento rientri tra le
helping professions. Altre professioni annoverate in questa ca-

261
tegoria sono quelle mediche e psicologiche: tutti i contesti
lavorativi nei quali la cura dell’altro è parte integrante del pro-
prio ruolo professionale sono esposti al rischio di burnout.
Diverse ricerche (Kyriacou, 2000; Jones et al., 2003; Johnson
et al., 2005) mostrano che gli insegnanti sono più vulnerabili
allo sviluppo di questa sindrome (così come allo stress la-
voro-correlato e al distress psicologico). Il burnout è definito
da Maslach e Jackson (1981) come l’incapacità del soggetto
di adattarsi a situazioni di stress emotivo continuo derivato
dall’ambiente di lavoro. La sindrome di burnout presenta tre
dimensioni: l’esaurimento emotivo, ossia un disagio dovuto
alla sensazione di essere continuamente in uno stato di ten-
sione; la depersonalizzazione, ovvero un distanziamento
dell’operatore nei confronti dell’utente (o dell’insegnante nei
confronti dello studente); la ridotta realizzazione personale
e professionale, cioè il sentimento costante di non avere
competenze a sufficienza per fronteggiare la propria man-
sione lavorativa. Inoltre, il burnout è associato a sintomi fisici
(irrequietezza, nervosismo, insonnia, cefalee e altri dolori dif-
fusi), psicologici (depressione, bassa autostima, rabbia, irri-
tabilità, depersonalizzazione) e comportamentali (reazioni
negative verso sé e verso il lavoro: assenze, ritardi, isola-
mento) (Maslach, 1992).
Tra i fattori di rischio comunemente associati all’insorgere
di burnout scolastico troviamo dimensioni legate al contesto
professionale, ma anche alle caratteristiche degli studenti che
fanno parte della classe. Infatti, tanto un clima relazionale
negativo tra colleghi e i bassi stipendi ed uno scarso ricono-
scimento economico, quanto problemi legati alla gestione
delle classi costituiscono dei predittori significativi del ridotto
stato di salute degli insegnanti (Kokkinos, 2007; Albanese et

262
al., 2009; Fiorilli et al., 2015). La letteratura riporta dati con-
trastanti circa il ruolo degli anni di insegnamento: mentre al-
cuni autori riportano che all’aumentare degli anni di
insegnamento aumenta anche il rischio di burnout (Fiorilli
et al., 2015), altri evidenziano come questa variabile possa
rappresentare fattore di protezione (Bradley, 2007; Buonomo
et al., 2015).
È importante sottolineare che lo stato di esaurimento
emotivo ha effetti negativi non solo sullo stato di benessere
dell’insegnante, ma anche sul clima emotivo di classe, sulle
performance degli alunni, e in generale, sul clima relazionale
tra insegnanti e studenti. La letteratura infatti mostra come
frequentemente si associno una ridotta soddisfazione lavora-
tiva (Kantas et al., 1997), un alto stress lavoro-correlato (Zapf,
2002), una bassa efficacia nel lavoro con gli alunni (Blase,
1986), ai disturbi mentali e fisici (Kyriacou, 1987) ed a un
esaurimento emotivo (Bauer et al., 2007).

Rispondere allo stress e al burnout:


strategie e fattori di protezione

In un lavoro del 2004, Howard e Johnson riconducono a


due categorie di reazioni le modalità con cui gli insegnanti ri-
spondono al burnout, individuando tecniche palliative e tec-
niche di azione diretta. Nel primo caso ci si riferisce alle
strategie che non si pongono l’obiettivo di gestire la fonte
dello stress, ma sono invece orientati a ridurne l’impatto: fare
esercizio fisico regolarmente, usare tecniche di rilassamento,
avere un hobby, ma anche bere o fumare eccessivamente op-
pure evitare certe situazioni nel contesto scolastico. Alcune

263
di queste tecniche sono disfunzionali per la salute fisica e/o
psicologica dell’insegnante, oppure possono creare problemi
nel contesto lavorativo, con i colleghi, con gli studenti o con
i loro genitori. Quando le tecniche palliative perdono la loro
efficacia, l’insegnante solitamente cerca un aiuto medico o si
orienta verso un periodo di astensione dal lavoro. La seconda
categoria di tecniche, quelle ad azione diretta, sono finalizzate
ad eliminare la fonte di stress. Si tratta di tecniche di controllo
delle emozioni, di azione sul problema, di ricerca del supporto
nel contesto scolastico ed extrascolastico, di organizzazione
del tempo e delle priorità.
Alla luce della centralità della relazione studente-inse-
gnante nello svolgimento delle attività didattiche quotidiane,
è ragionevole pensare che lo stress a cui l’insegnante è sotto-
posto sia soprattutto di natura emotiva. Tra i più importanti
fattori di protezione per la gestione di situazioni emotiva-
mente stressanti troviamo le competenze emotive, con parti-
colare riferimento alla capacità di regolazione delle emozioni.
Sviluppare training che coinvolgano queste dimensioni con-
sentirebbe agli insegnanti di comprendere meglio le proprie
emozioni e i propri livelli di stress, ma anche di gestire meglio
il clima emotivo di classe: alcuni autori infatti hanno mostrato
che gli insegnanti con alti livelli di burnout mostrano meno ca-
pacità di gestione delle proprie emozioni negative nei con-
fronti dei propri alunni, finendo per manifestarle in modo
disfunzionale e inappropriato (Doudin et al., 2011). In questo
senso, è fondamentale che l’insegnante lavori sulle proprie ca-
pacità metacognitive, riflettendo sul proprio funziona-
mento/disfunzionamento a livello emotivo, cognitivo, sociale,
di personalità (Albanese et al., 2008).
Un altro fattore di protezione è il supporto sociale: come

264
riportato da Bassi e colleghi (2006) l’insegnamento è una pro-
fessione relazionale e l’insieme delle relazioni di supporto che
l’insegnante instaura dentro e fuori il contesto scolastico pos-
sono prevenire l’emersione di burnout e promuovere una con-
dizione di benessere. Nello specifico, il supporto scolastico
(relazioni con i colleghi, il preside, gli alunni e i loro genitori)
è di tipo esterno e promuove il benessere e la soddisfazione
professionale; il supporto extrascolastico (relazioni personali)
è una fonte di sostegno interna, che compensa l’emergere di
possibili disturbi legati all’insoddisfazione personale e alla de-
personalizzazione (Halbesleben, 2006). Infatti, insegnanti che
ricevono supporto nell’ambiente di lavoro si sentono più in
grado di gestire lo stress emotivo, individuano più facilmente
strategie di insegnamento e gestione della classe più efficaci
e utilizzano lo scambio di informazioni e opinioni circa le si-
tuazioni lavorative stressanti come un momento di apertura
con i colleghi e, di conseguenza, come una vera e propria stra-
tegia di coping (Grandey, 2000).
La consapevolezza dei propri vissuti emotivi e la possibi-
lità di potersi confrontare con apertura con i propri colleghi
e di beneficiare del supporto di quest’ultimi senza il timore
di essere giudicati, sono fattori fortemente favorenti la ridu-
zione dello stress emotivo sperimentato dei docenti.
Di fronte a situazioni particolarmente impegnative e com-
plesse oltre al sostegno dei colleghi emerge come fondamen-
tale poter usufruire di uno spazio consulenziale con esperti
psico-pedagogici che possano fornire supporto tecnico ed
emotivo alle risorse coinvolte.

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270
INDICE

271
272
Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7
(Accursio Gennaro, Franco Lucchese)

Stigma, salute, salute mentale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 19


(Alberto Siracusano, Emanuela Bianciardi)

Dalla psicologia umanistica alla psicologia positiva:


la costruzione del benessere . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 39
(Accursio Gennaro, Paola Di Persia)

Un nuovo umanesimo nel mondo del lavoro di oggi:


l’employability e lo stress management
come ridefinizione della dimensione professionale . . . 71
(Francisco Javier Fiz Perez, Paolo Musso, Gabriele Giorgi)

Di che tipo di Università abbiamo bisogno? . . . . . . . . 93


(Franco Lucchese, Florencio Vicente Castro)

L’analisi esistenziale frankliana e la prospettiva


pedagogica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 119
(Furio Pesci)

Le dimensioni della coscienza personale:


sensitiva, affettiva, intelligibile e volitiva . . . . . . . . . . . . . 155
(Antonio Malo)

273
Sviluppo integrale e qualità della vita tra pensiero
e comportamento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 177
(Javier Fiz Perez)

Reciprocità e benessere nella relazione


madre-bambino . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 197
(Caterina Fiorilli, Jessica Falchi)

La società globale e il rischio


di una adolescenza illimitata . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 215
(Rosario Mocciaro)

Alcune riflessioni sul maschile e femminile


nella psicologia dello sviluppo. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 237
(Giampaolo Nicolais)

Benessere e soddisfazione lavorativa


degli insegnanti. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 257
(Simona De Stasio, Ilaria Buonomo,
Simona Grilli, Denise Fazio)

274
STAMPA: WWW.PRIMEGRAF.COM

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