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manuale storia delle religioni Giovanni Filoramo

History Of Religions (Sapienza - Università di Roma)

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G. FILORAMO, M. MASSENZIO, M. RAVERI, P. SCARPI, “MANUALE


DI STORIA DELLE RELIGIONI”

XXII.
Storia delle religioni e antropologia
I. Premessa

1. Religione, religioni

Un manuale di “storia delle religioni” non può eludere il problema della definizione della religione. A
ciò si aggiunga che la Pina comprensione richiede proprio l’assunzione critica del problema, da
valutare all’interno di una prospettiva culturale di ampio respiro. Lo sguardo storico religioso non si
appunta soltanto a quella che è considerata la religione per definizione, perchè esso possiede
un’estensione, ben più ampia, che permette di abbracciare le formazioni religiose delle più varie
civiltà.

Esso prende avvio nel momento in cui la civiltà occidentale decide di aprirsi alla conoscenza delle
civiltà extra-occidentali; si tratta del momento che vede la genesi dell’etnologia, la scienza dedicata
allo studio delle umanità “altre”.

Di riflesso ci si interroga, più in generale, sul ruolo dell’Occidente all’interno di uno scenario
culturale enormemente dilatato. Quanto alla religione, si pone un quesito di fondo: è sufficiente, è
adatto il bagaglio concettuale forgiato prevalentemente in funzione del cristianesimo per venire a
capo di altri universi religiosi?

La pari dignità delle culture e, quindi, delle religioni costituiscono uno dei punti fermi dell’odierna
coscienza umanistica, la quale va consolidata operando in tutte le direzioni possibili. Dal momento
ci è sembrato doversoso ripercorrere alcuni momenti salienti della riflessione maturata nei settori
confinanti dell’etnoantropologia e della storia delle religioni per portare alla luce le progressive
trasformazioni che hanno investito il concetto di religione.

2. Storia delle religioni e antropologia culturale

Denomineremo convenzionalmente “antropologia religiosa” tale settore, caratterizzato dall’incontro


tra storia delle religioni ed antropologia culturale.

Il tratto distintivo dell’”antropologia religiosa” dipende dalla qualità dell’oggetto d’indagine, che
rinvia all’orizzonte religioso delle civiltà extra-occidentali, spesso ancora etichettare dall’opinione
corrente come “primitive”. Dai rapidi cenni fatti emerge un dato degno di nota: al centro del settore
in discussione sta il problema del “diverso culturale”, valutato sub specie religionis.

Si può quindi affermare che la correlazione storia delle religioni/etnoantropologia è funzionale


all’arricchimento di entrambe le discipline

3. Dalle premesse teoriche al piano operativo

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L’”antropologia religiosa” richiede uno sforzo, vale a dire la capacità di mettere temporaneamente
tra parentesi le categorie interpretative alle quali siamo soliti far ricorso. La novità, la rottura con la
tradizione sta essenzialmente nel fatto di considerare i nostri sistemi di valutazione validi non in
assoluto, ma soltanto in relazione al mondo che li ha prodotti nel corso della sua storia: il mondo
occidentale.

Una tale consapevolezza critica dei limiti inerenti all’applicazione dei nostri criteri interpretativi non
basta a promuovere la conoscenza del culturalmente alieno: essa deve essere accompagnata
dall’elaborazione di strumenti conoscitivi adeguati all’oggetto che si vuole indagare.

Per quanto riguarda lo specifico religioso, è necessario concentrare l’attenzione su un’altra


condizione a priori dell’analisi. Si tratta non solo di guardarsi dall’assumere quale immediato polo
di riferimento e di giudizio la categoria occidentale di religione, ma i sottoporre ad una radicale
revisione critica tutta una serie di nozioni basilari onde poterle applicare con cautela e
discernimento a contesti religiosi “altri”.

4. Problemi epistemiologici: un modello di riferimento

La polemica religione/magia, la svalutazione del magico e la sua conseguente emarginazione


rappresentano alcuni dei momenti più significativi del suddetto processo. Di conseguenza, un
qualsiasi prodotto culturale, una qualsiasi nozione non sono esportabili al di fuori del contesto che
ha contribuito in maniera decisiva a conferire loro una fisionomia ben determinata. In concreto,
analizzare le culture “altre”, per mezzo del concetto di magia rappresenta un’incongruenza
epistemiologica.

L’operazione intellettuale quindi non mira a mettere in discussione la validità di tale visione, ma
tende a fare assoluta chiarezza sui limiti all’interno dei quali essa possiede un senso preciso,
radicato nella storia.

Dopo questo momento propedeutico si pone il compito di stabilire nuovi presupposti teorici in
grado di mediare l’accesso ad una diversa visione del magico. Un modello operativo del tipo
appena descritto può vale anche in rapporto alla dimensione del mito. Il mito risente del
condizionamento esercitato dall’opposizione del logos, nei confronti del mythos. In estrema sintesi
tale contrasto ha fortemente contribuito a modellare l’immagine del mito che ci appartiene, ma che
non esaurisce di certo tutte le potenzialità del fenomeno.

Le present riflessioni si riallacciano al pensiero di uno studioso italiano che ha compreso la vastità
delle implicazioni teoriche connesse al problema della comprensione del “diverso culturale”. Si
tratta di Ernesto De Martino che afferma che la scoperta dell’alterità è mediata dalla continua ri-
scoperta di noi stessi.

L’obiettivo di partenza è stato quello di motivare le ragioni dell’incontro tra storia delle religioni e
antropologia. Da qui è scaturito il rimando a De Martino, il quale è riuscito a dare a tale problemi
una sistemazione teorica rigorosa, ancora oggi in grado di orientare il lettore.

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II.
Evoluzionismo e funzionalismo: cultura, magia e religione

1. I presupposti dell’antropologia religiosa

Le origini dell’antropologia religiosa sono inseparabili da quelle dell’etnologia; è consegue partire


dall’esame dei tratti salienti dell’evoluzionismo culturale inglese, assumendo come punto di
riferimento il fondamentale testo di E. B. Tylor, Primitive Culture.

Secondo Tylor, i popoli considerati selvaggi esprimono cultura, una cultura qualificata come
primitiva, che rappresenta la forma embrionale della cultura in quanto tale. Per indagine scientifica,
poi, si deve intendere un modello di analisi, mutato dall’evoluzionismo biologico di Darwin, in grado
di delineare il processo di evoluzione graduale di un certo fenomeno, dai primordi fino al
raggiungimento della compiutezza passando attraverso tutte le tappe intermedie. L’idea di
casualità risulta completamente posta al bando in questo tipo di impostazione che tende a far luce
sulle leggi universali che presiedono allo sviluppo della cultura.

Va ribadita l’importanza che assume il momento dei primordi della cultura, testimoniato
attualmente dallo stile di vita proprio di quei popoli che, nell’ottica dell’evoluzionismo culturale,
sono da denominare “primitivi” piuttosto che “selvaggi”.

In conclusione, i primitivi finiscono per essere caratterizzati in modo ambivalente: per un verso si
situano alla massima distanza rispetto ai popoli considerati più evoluti; al tempo stesso, però, la
distanza si attenua, se si considera che essi ci rimandano l’immagine viva di un passato
appartenuto anche ai popoli più civili.

È possibile quindi prendere coscienza del salto di qualità compiuto da Tylor nel caratterizzare lo
stadio primitivo-originario: Tylor individua in quest’ultimo tanto le forme elementari
dell’organizzazione sociale, quanto quelle della produzione cultuale.
Per Tylor i primitivi sono inclusi nel circuito della cultura: ne consegue che la differenza tra “loro” e
“noi” non corrisponde più all’antinomia natura/cultura, dal momento che essa si stabilisce
all’interno di una dimensione comune, quella della cultura.

Il fattore di novità più rilevante consiste nel vedere nel fenomeno della convivenza sociale una
delle cause fondamentali che determinano la produzione di cultura.

2. La dottrina dell’anima: valori e limiti

La ricerca del dominio della religione primitiva, tende conseguentemente al recupero dello stadio
originario della religione in quanto tale.

In sintesi, l’anima è concepita come la causa stessa della vita; essa, inoltre, è valutata come una
sorta di “doppio” dell’individuo in cui alberga. Un “doppio” dotato anche di un proprio grado di
autonomia, in quanto può staccarsi temporaneamente dal corpo dell’individuo cui è legato per
insinuarsi nella dimensione dei sogni.

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Un altro elemento costitutivo dell’animismo: il possesso dell’anima non rappresenta una


prerogativa esclusivamente umana, ma una qualità che si estende agli animali, alle piante, agli
oggetti.

L’anima, inoltre, sopravvive alla morte. A partire da questo presupposto si compie un passo
ulteriore che porta alla credenza negli spiriti: ciò accade, in concreto, allorché le anime di
determinati antenati sono concepite come entità sovrumane, elevate al rango di spiriti personali.

La ricostruzione di Tylor si fonda su ipotesi astratte più che su ricostruzioni storicamente attendibili.
In breve, Tylor opera sulla base della nozione di anima maturata all’interno della cultura
occidentale e che, viene intesta implicitamente come un universale umano, posseduto in principio
in forma rozza e ingenua e da ultimo nei modi più colti e consapevoli.

In questo atteggiamento si palesa con evidenza il limite più rilevante dell’evoluzionismo culturale,
che si concretizza nell’etnocentrismo, il quale si fonda sul riconoscimento esplicito della superiorità
assoluta della propria civiltà. Proprio per questi caratteri l’immagine del primitivo che ci trasmette
l’evoluzionismo è quella di un individuo che ha bisogno di essere guidato dall’esterno, da chi si è
portato al vertice del processo evolutivo.

Tylor ha saputo scorgere la valenza culturale delle credenze religiose dell’umanità primitiva contro
chi le riteneva soltanto “un mucchio di spazzatura di svariate follie”.

3. “Il Ramo d’oro”: magia, religione e scienza

Il Ramo d’oro di Frazer rappresenta non solo il prodotto probabilmente più alto dell’evoluzionismo
culturale, ma anche uno dei testi-chiave della cultura del Novecento.

Si presta ad essere letto da varie angolazioni, tra le quali prevale la ricerca del tipo di religione
proprio delle origini dell’umanità. La religione fa la sua comparsa in uno stadio più progredito dello
sviluppo evolutivo, raccogliendo per certi versi l’eredità della magia e staccandosi, da quest’ultima.

Il termine di riferimento che condiziona il giudizio di Frazer è costituito dalla scienza moderna, la
sola in grado di spiegare compiutamente la realtà. La magia tenta di fare altrettanto, ma non è in
grado di tradurre le sue aspirazioni in risultati solidamente fondati. In questa prospettiva la magia
finisce per essere considerata per ciò che non è, piuttosto che per ciò che è; il massimo
riconoscimento che le si può fare, in quanto “scienza” sia pure “falsa”, è di attribuirle dei principi
generali in grado di orientare le operazioni.

L’accento quindi è posto sull’aspetto “positivo” della magia, di cui è messa in risalto, non senza
finezza, la coerenza interna. Per Frazer, al centro degli interessi dell’umanità primordiale vi è la
cura per la vegetazione arborea, dalla quale dipende la sopravvivenza dell’umanità. La magia nel
suo insieme tende a favorire la crescita e la permanenza della vegetazione: in questa ottica un
ruolo determinante spetta al re-mago, un sovrano assai peculiare, il cui significato trascende la
sfera del politico. In definitiva, la prerogativa essenziale del re-mago è quella di esercitare, a

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vantaggio della collettività umana, potere sulla pioggia, potere sul sole, potere sul vento. L’integrità
fisica del sovrano diventa, conseguentemente, una delle maggiori preoccupazioni sociali.

La forma più insidiosa di morte è costituita dal rapimento dell’anime; per tenere lontana
un’eventualità del genere è necessario separare l’anima del sovrano dal suo possessore e
nasconderla nella parte più inaccessibile del bosco legandola al ramo di un albero dove essa vivrà
come “anima esterna”. L’anima esterna si presta ad essere intesa come una sorta di “doppio” del
possessore.

La morte del re rappresenta una minaccia talmente drammatica da richiedere contromisure in


grado di fugarla. Perciò, prima che si prestino i sintomi della decadenza, egli viene sottoposto ad
uccisione rituale: quest’ultima lo pone drasticamente al riparo della realtà dell’invecchiamento e
della morte naturale, che è propria dei soli uomini “normali”.

L’elemento comune alla magia e alla religione è lo sforzo di orientare a favore dell’uomo i fenomeni
naturali.

La religione, rispetto alla magia, fa la sua comparsa in una fase più avanzata dello sviluppo
umano, il cui culmine è rappresentato dall’avvento del pensiero scientifico.

La presa di coscienza di questa contraddizione avrebbe potuto indurre Frazer a rivedere lo


schema teorico che è a fondamento della sua opera, al fine di renderlo meno meccanico.

Frazer tra religione e magia riscontra un legame di continuità, il quale risulta particolarmente
evidente in relazione ai tentativi dell’una e dell’altra di sottrarre alla pura casualità il fondamentale
dominio della vegetazione. Il modo più diretto d’intervenire sugli dei è costituito dalle procedure
rituali: nel caso considerato, la massima attenzione è riservata a quei riti che sono in grado di
allontanare dalle divinità il rischio della morte.

4. “Il Ramo d’oro”: metodo e bilancio critico

Merita un cenno a parte il metodo adottato da Frazer: si tratta di una forma particolare di
comparazione che non può essere compresa adeguatamente senza tener presenti due postulati
propri dell’evoluzionismo culturale.

A questa modalità della comparazione si sovrappone un’altra tendenza comparativa che trae
impulso dal concetto di sopravvivenza, che rende più mosso ed articolato il quadro dell’evoluzione
delle culture.

Il Ramo d’oro si apre con un episodio spiegato in chiave di sopravvivenza: mi riferisco alla regola
che disciplinava l’accesso di Rex Nemorensis nella religione politeistica dell’antica Roma.

In tema di sopravvivenze occorre terre presente, in particolare, che nella civiltà europea
industriale, la cultura delle classi popolari è intrisa di elementi arcaici, alcuni dei quali rimandano
addirittura alla fase magica, della quale possono essere considerati, per l’appunto sopravvivenze.
Sulla base di tali premesse si apre la possibilità di praticare un tipo di comparazione che segue un

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itinerario diverso rispetto a quello considerato precedentemente, in quanto permette di istituire una
serie di nessi che attraversano i diversi stadi dell’evoluzione culturale.

Occorre rilevare innanzitutto che Il Ramo d’oro, in virtù della sistematicità dell’analisi congiunta alla
fluidità della scrittura, ha contribuito fortemente a plasmare l’opinione comune occidentale per
quanto concerne tanto il modo di concettualizzare l’alterità culturale extra-occidentale e pre-
moderna, quanto il modo di prospettare i rapporti tra l’Occidente “progredito” e l’alterità.

Tra gli elementi positivi può ben figurare il modo di Frazer di porsi di fronte al rito, di cui risulta
valorizzata l’efficacia creativa, come è dimostrato dall’analisi dell’uccisione rituale.

Va considerata, infine, un’ulteriore prospettiva che rende stimolante la lettura del Ramo d’oro: il
contrasto riguarda un punto carine, in quanto il principio evoluzionistico di progresso viene abolito,
per far posto ad una visione della storia culturale dominata, in prevalenza, dall’idea di
“involuzione”.

La tesi sostenuta da Schmidt è quella dell’Urmonotheismus: in sintesi, la fase più antica


dell’umanità sarebbe stata contrassegnata dal monoteismo, vale a dire dalla formazione religiosa
più “alta” e compiuta. Ma una traccia dell’ideale del dio in senso monoteistico è riscontrabile nella
figura dell’”Essere Supremo” che occupa una posizione di rilievo nell’orizzonte religioso di
numerose culture primitive.

5. Dall’evoluzionismo al funzionalismo: B. Malinowski

È certo che con Frazer si chiude la fase fondante dell’antropologia culturale, mentre una nuova
fase si prospetta all’orizzonte. Nel saggio citato c’è un passaggio che da il senso pieno della svolta
impressa alla ricerca antropologica.

Nella prospettiva di Malinowski l’ordine di successione frazeriano non viene invertito o comunque
alterato: ciò che conta è che, in luogo dello scarto temporale tra i tre termini viene affermato il
principio della loro contemporaneità.

In tal modo viene liquidata l’idea della fase primitiva interamente posta sotto il segno del magico e
per nulla rischiarata dalla scienza.

A questo punto, occorre risalire alle radici del pensiero teorico di Malinowski, al fine di
comprendere il complesso delle innovazioni enunciate.

6. B. Malinowski: cultura e bisogni umani

Al fine di avviare la riflessione su Malinowski può essere utile assumere come primo oggetto
d’esame le due tesi esposte di seguito: la prima si sofferma sul rapporto società e cultura; la
seconda affronta il problema basilare concernente il nesso che lega la cultura al piano dei bisogni
umani.

7. Religione e magia: la sistemazione teorica in B. Malinowski

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Le considerazioni sulla religione costituiscono un aspetto rilevante della visione teorica di


Malinowski, anche se non è sempre agevole ricondurle a un denominatore comune. In tale
prospettiva la linea interpretativa più fertile, tra le molteplici prospettive dell’Autore, è quella che
riconduce la religione al bisogno umano di fronteggiare le numerose situazioni di crisi sparse lungo
l’arco dell’esistenza umana, individuale e collettiva.

Tra le crisi, la più inquietante è quella connessa alla morte, l’evento che sconvolge e vanifica i
calcoli e progetti umani.

All’interno della relazione religione-crisi, vi è un tema particolarmente fecondo che Malinowski


lascia in eredità alle future generazioni di studiosi: quello della “standardizzazione tradizionale
dell’aspetto positivo” del conflitto. La forza del concetto di Malinowski dipende dalla ricchezza dei
contenuti che lo sostanziano: per limitarci alle componenti più importanti, da un lato troviamo
espressa l’idea della religione come parte viva ed essenziale del patrimonio culturale di una
società.

Malinowski prospetta una sostanziale rivalutazione del magico, la quale scaturisce dal rifiuto
teorico di accettare due imperativi dell’evoluzionismo culturale. Per Malinowski non c’è società
primitiva o progredita, che non abbia a un suo fondamento, per lo svolgimento delle attività umane,
la scienza e la conoscenza razionale. La magia è considerata dunque non come un sostituto della
scienza ma come una realtà sui generis che trae la sua ragion d’essere culturale dal fatto che le è
socialmente riconosciuta la facoltà di sottoporre a disciplina umana tutto quanto rientra nella sfera
dell’imponderabile e del non controllabile per vie normali.

In questo approccio al problema del magismo non vi è spazio per soluzioni ibride, in quanto la
magia esplica la sua funzione senza invadere territori che non le appartengono e senza sostituirsi
ad altro.

Malinowski si sofferma anche a riflettere sulla differenza tra i due ambiti; differenza dovuta al fatto
che la magia si risolve unicamente in atti dotati di utilità pratica, laddove la religione si segnala
anche per la prerogativa di creare valori.

8. B. Malinowski: un esempio di indagine etnografica

Malinowski ne La vita sessuale dei selvaggi nella Melanesia nord-occidentale, riferisce di un


materiale etnografico che tratta del sistema di vita degli indigeni delle isole Trobriand, la cui
economia fa leva essenzialmente sulla coltura dei uteri e sull’allevamento dei suini.

Ci limiteremo a considerare un aspetto particolarmente significativo della cultura trobriandese


concerne il piano religioso, con la consapevolezza di dover poi leggere il frammento in rapporto
all’insieme.
Merita un’attenzione a parte il sistema di idee relativo alla procreazione e alla gravidanza, questi,
che risultano accettati non per quello che sono sul piano natura, ma in quanto risultato di una
profonda manipolazione culturale.

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Quando un uomo muore, il suo spirito lascia il corpo e si trasferisce a Tuma, l’Isola dei Morti, dove
conduce un tipo di esistenza non dissimile da quello dei vivi. Quindi deve sottostare anche
all’invecchiamento; tuttavia il baloma non subisce fino in fonda tale processo, perchè
periodicamente ringiovanisce. Quando è stanco di ringiovanire, egli diventa un embrione umano e,
via mare, torna nel mondo dei vivi per iniziare un'altra esistenza. L’embrione viene poggiato sulla
testati una donna appartenente alla stessa linea di discendenza della persona morta, il cui baloma
ha subito la metamorfosi qui descritta per sommi capi.

La peculiarità più sorprendente dell’edificio culturale appena esaminato consiste nella totale
negazione della paternità fisiologica. Ci si chiede quale possa essere l’utilità di una simile
credenza, per rispondere alla domanda occorre guardare oltre il piano ideologico e prendere di
mira l’organizzazione familiare e sociale cui collegata la costruzione culturale. Una società così
strutturata, in cui i figli appartengono al clan o al sub-clan della madre, trova la più efficace
sanzione in un’ideologia religiosa del tipo di quella descritta. Una ideologia il cui versante negativo
è compensato da quello di segno opposto.

Il problema non è quello di non conoscere un certo processo, ma è quello di non conoscere un
certo processo, ma è quello di non riconoscere valore a quel processo, di non assumerlo
culturalmente, tenendo conto dell’insieme dei valori socio-culturali.

Questo modo di intendere la dinamica della procreazione risulta una stravaganza difficile da
comprendere se l’interprete occidentale non è in grado di emanciparsi dal proprio modo di
pensare. L’etnologo ci da notizia della circostanza, in quanto apre uno squarci sul problema
dell’incontro/scontro tra mentalità diversamente orientate.

Resta da capire la ragione che spinge una donna ad avere un marito nella società trobriandese.
Esiste anche il lato “negativo” del ruolo del fratello, sanzionato da un tabù che impedisce in modo
assoluto al fratello di “occuparsi, e addirittura pensare a qualche cosa che sia in rapporto con il
sesso della sorella”. È proprio in relazione a questa sfera che si rende necessaria la figura del
marito, provvisto di compiti ben precisi. In breve, una donna che diventa madre prima del
matrimonio è colpita dal disprezzo sociale. La funzione del marito è di imporre una disciplina alla
vita sessuale della moglie e di difenderla, di farne valere i diritti.

I dati etnografici ci prospettano una situazione dotata di senso perfettamente compiuto, anche se
ai nostri occhi essa può sembrare paradossale: i Trobriandesi considerano l’uomo indispensabile
dal punto di vista sociale, pur ignorando qualsiasi necessità fisiologica di un uomo.

Fornisce un esempio di ciò che Malinowski intende quando parla di modo culturale di soddisfare i
bisogni elementari o fisiologici, quale il bisogno di procreazione umana o di continuità della specie.
La peculiarità della teoria della cultura di Malinowski consiste nel fatto che il pieno riconoscimento
della materialità dell’esistere umano è tutt’uno con la reinterpretazione degli impulsi fisiologici in
termini di regole sociali, avvallate dalla tradizione.

III.

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Il sacro di Rudolf Otto

1. Il sacro: alterità e paradossalità

L’opera di R. Otto Il sacro. L’irrazionale nell’idea del divino e la sua relazione al razionale occupa
una posizione molto rilevante nel panorama della cultura europea contemporanea, per unanime
riconoscimento degli studiosi

La svolta alla quale si è fatto cenno può essere sintetizzata nei seguenti termini: l’opera in
discussione contiene l’atto di fondazione della religione come categoria autonoma. Secondo Otto,
l’essenza ultima della religione risiede nella complessa realtà del sacro.

Il sacro non costituisce una realtà “a parte”, isolata in sé, preclusa al polo umano; al contrario, il
sacro interferisce con la dimensione umana o profana. Il sacro è una categoria a priori,
inconcepibile nominalmente, ma afferrabile dal sentimento. Gli strumenti conoscitivi appaiono
inadeguati di fronte alle manifestazioni di ciò che è “totalmente altro”.

L’esperienza umana del sacro reca in sé i segni del paradosso, poiché paradossale è la realtà
stessa del numinoso, in cui si realizza la coincidentia oppositorum.

2. “Primitivi” e sacralità

In questa sede tenteremo di procedere lungo una strada non molto battuta, assumendo come
punto d’avvio l’interrogativo seguente: che rapporto esiste tra la categoria del sacro, individuata in
precedenza nei suoi tratti essenziali, e l’universo religioso dei “primitivi”?

La testimonianza più diretta dell’interesse per la dimensione religiosa in etnologia è costituita


dall’ampio e articolato capitolo del Il sacro dedicato all’analisi degli inizi dello sviluppo storico-
religioso. Innanzitutto R. Otto individua una sequenza di temi costitutivi che comprende: la
credenza nei morti e il loro culto, credenza e culto degli spiriti, magia, ecc.

Ciò che stimola Otto non è la curiosità per l’esotico, ma un forte interesse teorico, che si
concretizza nel tentativo di valutare le singole “voci” elencate alla luce della categoria del sacro.
Per Otto la magia non è nella sua sostanza più profonda, altro dalla religione, perchè anche nella
magia la nota dominante è costituita da una singolare esperienza del sacro.

L’ultimo periodo del brano citato accenna ad una distinzione sottile tra magia in quanto fenomeno
“alto”, partecipe del momento del numinoso, e magia degradata. L’intera sequenza dianzi riportata
rappresenta il “preambolo della storia religiosa”: ci si chiede ora quale sia il criterio che permette di
operare la distinzione tra la religione o primitiva intesa da Otto come l’”atrio della religione”. La
risposta è che il sacro viene esprimo in una sola delle sue polarità, quella che fa capo al
tremendium, al terrore demoniaco —> “sentimento dell’inquietante”.

Un secondo criterio distintivo rimanda al piano dell’elaborazione razionale, morale e culturale, che
è assente in quello che Otto chiama lo stato “grezzo” della religione. È necessario quindi riempire il
sacro di contenuti etico-razionali, altrimenti non sarebbe possibile dirne qualcosa.

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I momenti razionali sono da intendere come raffigurazioni schematiche dei momenti irrazionali, che
sono quelli originari.

3. Verso il superamento dell’etnocentrismo

Ricapitolando, nello stadio primitivo della religione l’esperienza del sacro è parziale e non
elaborata in senso razionale. Non a caso l’Autore sottolinea in un passaggio importante il
“sconfinata ricchezza delle potenzialità e delle capacità del genuino sentimento numinoso
primitivo”.

La puntualizzazione appena fatta serve ad introdurre un problema che presenta risvolti


interessanti, R. Otto ci papale partecipe della visione evoluzionistica umana. Eppure Il sacro rompe
con l’imposizione evoluzionistica: come può essere oggettivata tale rottura e di quali conseguenze
essa è foriera?

Per rispondere all’interrogativo risulta illuminante il confronto tra l’opera di R. Otto e Il Ramo d’oro,
limitando il discorso al binomio magia-religione e alle chiavi interpretative scelte nei due casi per
penetrarne il significato. Dall’analisi dei volumi di Frazer si evince che magia e religione non hanno
valore in sé, ma hanno valore nella misura in cui riempiono un vuoto che esiste per forza di cose: il
vuoto non ancora colmato dalla scienza.

R. Otto, che ha individuato nell’esperienza del sacro la radice dell’autonomia del fatto religioso, è
in grado di gettare un altro tipo di sguardo sull’universo religioso primitivo e di riflesso, i fenomeni
riconducibili al magico e al religioso cessano di essere considerati altrettanti surrogati di
qualcos’altro, ed acquistano un significato in sé, che permette di collocarli in un ambito autonomo,
dalle caratteristiche ben definite.

La categoria del sacro, nella misura in cui aspira ad avere una portata non limitata ad un ambito
determinato, è plasmata in modo da non risentire unilateralmente del peso di un certo
condizionamento culturale. Resta il fatto che l’atteggiamento intellettuale che domina ne Il sacro è
ispirato piuttosto ad un criterio di equidistanza nei confronti delle varie formazioni religiose.

Non vi sono i presupposti per sostenere che il quadro d’insieme dell’opera di Otto sia privo di zone
d’ombra e di ambiguità. Del resto manca a Il sacro una presa di posizione teorica nei confronti
dell’eurocentrismo, sia perchè è del tutto estranea allo spirito dell’opera, sia perchè essa richiede
una diversa temperie culturale.

4. La fenomenologia religiosa: G. van der Leeuw

Esiste un consistente legame tra la proposta teorica di R. Otto relativa all’essenza del sacro e
l’interpretazione della religione che prende forma nell’ambio della fenomenologia religiosa.

L’autore che nella sua produzione esprime emblematicamente lo spirito che anima la
fenomenologia religiosa è senza dubbio Gerardus van del Leeuw, la cui opera principale,
Fenomenologia della religione, sarà assunta in questa sede come guida.

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La via che permette di afferrare la realtà dei fenomeni religiosi non è quella dell’intelletto, ma quella
dell’esperienza in atto che comporta, al contrario, la necessità di immettersi nei fenomeni stessi al
fine di riviverli.

È fin troppo agevole scorgere il carattere sostanzialmente irrazionalistico della proposta


interpretativa di van der Leeuw. Gli studiosi tuttavia, pur evidenziando i motivi del contrasto
scientifico, hanno mostrato di preferire alla logica dell’opposizione frontale la prospettiva più
stimolante del confronto dialettico. In tale prospettiva va segnalata prima di tutto l’affermazione del
valore autonomo della religione che permea di sé l’opera di van der Leeuw; in secondo luogo deve
essere messa in risalto la polemica ingaggiata dalla fenomenologia religiosa contro l’orientamento
positivistico, fortemente riduttivo nei confronti del religioso.

5. G. van der Leeuw: la “condotta magica”

L. Lévy-Bruhl ha orientato van der Leeuw più di ogni altro. La diversità tra le leggi che governano
la mentalità primitiva e quella occidentale moderna, diventa esaltante se si considera che il
principio d’identità e di non contraddizione è estraneo alla mentalità primitiva, condizionata com’è
dal principio della partecipazione, che implica, in sostanza, l’abolizione dei limiti che, per noi
occidentali, tengono distinte tra loro le diverse realtà che costituiscono il mondo.

Alla luce di quanto è stato detto si può desumere che l’uomo primitivo non concepisce il mondo
come un dato esterno, ma come qualcosa che coesiste con sé medesimo e che, di conseguenza,
è dominabile dall’interno. È grazie alla magia che si concretizza la dominazione del mondo. Nella
protesta l’uomo esprime la tensione culturale che lo spinge ad opporre la propria volontà al dato
naturale: l’uomo magico indirizza la sua protesta alle potenze “altre”, sia quando si oppone
all’istinto animale per innalzarsi al di sopra di esso, sia quando opera per trasformare l’ambiente
naturale.

La condizione preliminare risiede nella capacità dell’operatore magico di incorporare il mondo, di


trasferirlo al suo interno.

Accanto esiste un ulteriore piano all’interno del quale si manifesta l’esperienza religiosa primitiva:
si tratta della “condotta formativa (di figure) in miti (configurazione mitica)”. La sostanziale affinità
tra le due condotte è data dal fatto che entrambe mirano alla padronanza del mondo, intesa come
dominazione creatrice. Nel caso presente l’Autore arriva a considerare la magia come religione nel
senso pieno del termine.

IV.
La scuola sociologica francese e l’ambito magico-religioso

1. E. Durkheim: la ricerca dell’essenziale

L’opera che più di ogni altra esprime il punto di vista di Durkheim sulla religione è senza dubbio
Les formes élémentaires de la vie religieuse. L’opera un questione affronta una questione

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metodologica rilevante, che concerne il ruolo dell’etnologia nell’impostazione di un’indagine a


carattere storico-culturale. Più precisamente Durkheim s’interroga sul significato da assegnare allo
studio delle forme elementari della vita religiosa.
In generale, l’analisi delle forme elementari di un dato fenomeno dischiude possibilità conoscitive
inesplorate e di grande momento, in quanto essa consente allo studioso di cogliere quanto di
essenziale vi è nel fenomeno stesso.

Si tratta ora di cercare di capire le implicazioni sottese a questa prospettiva di ricerca. La nozione
essenziale nn presenta quei risvolti di stampo metafisico che sono presenti nei casi in cui il mondo
primitivo viene idealizzato in quanto sede di valori originari. In Durkheim si fa strada una
prospettiva diversa: le società primitive risultano caratterizzate da una uniformità intellettuale e
morale di ben maggiore intensità.

L’omogeneità così enfatizzata esclude la presenza di interessi economico sociali divergenti. In


sostanza, l’uniformità sociale e culturale garantisce delle deformazioni dovute al prevalere di
interessi di parte; si ricava che la religione dei primitivi è al riparo dalle alterazioni che solitamente
sono ascrivibili agli interventi sacerdotali o, al polo opposto, all’immaginazione popolare. Nelle
società non complesse (o primitive) la religione mostra, dunque, i suoi caratteri costitutivi allo stato
puro.

L’Autore assume come dato evidente il fatto che essa possegga dovunque i medesimi caratteri
costitutivi di fondo e la medesima funzione; ciò che varia riguarda soltanto il mio immediato o
mediato attraverso cui l’essenza comune del fenomeno si palesa nelle diverse forme di
organizzazione sociale. In definitiva, l’approccio di Durkheim ai primitivi risente di un duplice
condizionamento: da un lato è avvertibile influenza esercitata dall’evoluzionismo cutlurale, dall’altro
lato occorre rilevare che la nozione “elementare” occorre rilevare che essa non sembra del tutto
adeguata ai fenomeni culturali e alla vita religiosa in particolare.

2. I prodotti del pensiero religioso: le rappresentazioni collettive

Durkheim affronta il problema delle forme originarie della religione; egli evidenzia la propria
diversità rispetto ai vecchi modelli: diversità che dipende dal metodo d’indagine e soprattutto dal
tipo di sguardo che proietta sulla religione e che è in grado di cogliere valenze inedite del
fenomeno.

La ricerca dell’originario nella religione si intreccia inestricabilmente con la ricerca del senso
autentico del fenomeno religioso. Le due prospettive finiscono con l’identificarsi nella misura in cui
l’autenticità in questione si rende pienamente palese proprio nelle forme socioculturali originarie.

Secondo Durkheim i primi sistemi di rappresentazione del mondo elaborati dall’uomo sono
d’origine relisioga. La rappresentazione del mondo costituisce il contenuto autentico del
simbolismo religioso, percepibile più dall’uomo di scienza che dall’uomo di fede. Le nozioni di
tempo, di spazio, fi genere, di numero, di causa, ecc, ossia le credenze religiose primitive
racchiudono le principali tra queste nozioni.
Il tempo diventa concepibile a condizione di poter distinguere in esso momenti diversi, di poterlo
misurare ed esprimere per mezzo di segni oggettivi.

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Durkheim si avvale non soltanto delle proprie ricerche, ma anche di quelle di studiosi operanti nel
medesimo settore, H. Hubert e M. Mauss in particolare. Se la società si fonda su individui che
condividono le medesime rappresentazioni fondamentali ne deriva che la preroativa essenziale di
questa risiede nella capacità di aggregare, di concorrere a creare le basi dell’esistenza collettiva.

Secondo Cantoni uno dei fondamenti su cui poggia il sistema teorico di Durkheim risiede nel
principio che stabilisce la sostanziale continuità del pensiero umano nella sua struttura categoriale.
3. L’opposizione sacro/profano e la definizione minima di religione

Il pensiero religioso possiede una prerogativa del tutto peculiare che permette di distinguerlo dalle
altre forme di pensiero: esso implica la divisione del mondo in due sfere distinte:
1. la prima comprende tutto ciò che è sacro
2. Include in sé tutto ciò che è profano
Nella visione di Durkheim il contrasto tra sacro e profano è assoluto: e forme di tale contrasto
variano a seconda dei contesti, ma il contrasto in sé è concepito come un fatto universale.

Tanto la dimensione del sacro quanto l’insieme dei rapporti che intercorrono tra sacro e profano
sono socialmente istituzionalizzati: in questa ottica va inquadrata la funzione delle credenze e dei
riti. le prime sono rappresentazioni collettive che definiscono la natura delle cose sacre e la qualità
dei rapporti tra cose sacre e cose profane.

Ciò che colpisce è la similarità tra i due fenomeni in discussione: dal punto di vita squisitamente
teorico non sembra possibile stabilire una netta linea di confine che isoli la religione della magia.

4. L. Lévy-Bruhl: la dimensione etnologica come alterità radicale

Una delle caratteristiche salienti dell’ampia produzione scientifica di Lucien Lévy-Bruhl è che si
richiama a un consapevole e radicale relativismo culturale. Ha un atteggiamento di deciso rifiuto
nei riguardi di ogni approccio di tipo eurocentrico ai primitivi e nel conseguente tentativo di
elaborare una originale griglia interpretativa, capace di restituire il senso di un sistema di
dinamiche culturali quanto mai lontane dalla nostra esperienza e dalle nostre abitudini mentali.

Lévy-Bruhl nega validità al postulato basato sul carattere unitario della forma logica che
accomunerebbe il pensiero dell’uomo colto occidentale a quello dei primitivi. La mentalié primitive
è ormai considerata un classico e che fornisce un’efficace sintesi del pensiero dell’autore, il cui
interesse per l’etnologia non è meno inteso di quello nutrito nei confronti della filosofia.

Occorre partire dalle rappresentazioni collettive altrui, le quali racchiudono in sé i presupposti sui
quali si fondano tanto l’altrui visione della realtà, quanto i modelli d’interazione con la realtà stessa.
Possiamo allora affermare che il mondo primitivo individuato da Lévy-Bruhl ha come prerogativa
essenziale la fluidità. Si può quindi intendere il principio basilare della “partecipazione mistica”, in
virtù del quale l’individuo umano non è isolabile e isolato dal resto così come noi lo concepiamo,
ma si configura come un’entità ben più complessa ed estesa. A ciò si aggiunga che tra la
dimensione umana e l’ambiente circostante si stabilisce una comunione segreta, giustificata dal
fatto che l’uno e l’altro sono animati dalle medesime forze vitali.

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Il principio di “partecipazione” permette a noi di percepire il ruolo e la peculiare incidenza del


soprannaturale nell’orizzonte dei primitivi.

5. L. Lévy-Bruhl: l’orizzonte sovrumano

Il primo e il più importante dei punti nodali citati riguarda il piano sovrumano d’impronta magica, la
cui nota saliente concerne la sua intima fusione con il piano umano. Per Lévy-Bruhl la categoria di
sacro non si oppone a quella di profano nelle rappresentazioni collettive dei primitivi. Il quadro che
ci prospetta rinvia ad una religiosità di stampo mistico, dato il prevalere di temi quali la permanente
ricerca dei segni del soprannaturale, l’incessante proiezione dell’uomo verso l’alterità non umana, il
disinteresse verso il mondano congiunto al sentimento di subordinazione di cui si è appena
parlato.

Da un lato, è da sottolineare con grande interesse lo sforzo di Lévy-Bruhl teso ad elaborare un


modello “alto” di magismo primitivo. La mentalità primitiva segna un importante punto di svolta nel
campo degli studi antropologici e storico-religiosi. D’altro canto, però, non può non essere
segnalato come un limite il fatto che, nella visione di Lévy-Bruhl, l’uomo primitivo in quanto
soggetto tout-court e, più precisamente, in quanto soggetto di cultura finisca per sparire del tutto.
Come conciliare, infatti, la produzione di cultura con il mancato riconoscimento di ogni autonomia
al piano umano e con la permanente subordinazione alle “forze” soprannaturali della quali l’uomo
finisce per essere totalmente agito?

Ritorna il tema delle rappresentazioni collettive: per Lévy-Bruhl l’elemento caratterizzante è dato
dalla loro capacità di esprimere la particolare temperie spirituale che sta alla base dei
comportamenti e delle reazioni affettive di gruppo. Questo tipo di rappresentazione comporta,
come inevitabili conseguenze, l’indifferenza nei confronti del principio di non contraddizione e
l’impossibilità di ascrivere interamente alla dimensione mondana la dinamica della relazione di
causa ed effetto.

6. M. Mauss: teoria generale della magia

Il nucleo della proposta teorica di Mauss, comprende, in successione logica, i seguenti punti:
- individuazione del valore fondamentalmente sociale della magia
- analisi della nozione di mana
- esame della relazione che lega il côté sovrumano della agia a un determinato assetto sociale
- ricerca delle convergenze e delle divergenze tra magia e religione

Il secondo punto, riferito alla dimensione sovrannaturale, merita una considerazione molto attenta.
Va detto preliminarmente che L’Esquisse nasce non dall’osservazione diretta dei fatti etnografici,
ma dall’utilizzazione “a tavolino” di monografie etnografiche. Questa celebre monografia ha
introdotto nella storia degli studi storico-religiosi il termine-concetto di mana, del quale si è molto
discusso, soprattutto da parte degli studiosi interessati al problema della prime forme di religione.

La nozione di mana risulta particolarmente complessa, in quanto essa si riferisce ad una forza, ad
un essere, ad un’azione, ad una qualità, ad uno stato. L’accesso a questa prospettiva unificante è

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dato dalla valutazione del mana come qualità straordinari che si sovrappone alle realtà più
disparate proiettandole in una dimensione che sta oltre il livello normale del reale.

La nozione di mana che si rivela profondamente affine a quella di orenda propria degli Irochesi e a
quella di manitu degli Algonchini, è reinterpretata da Mauss come categoria del pensiero collettivo
e come fondamento del sistema magico. L’elemento distintivo più importante del mana riguarda la
sua alterità, il suo essere separato dalla vita ordinaria.

Una volta individuata la qualità intrinseca del mana, si pone il problema di valutare le modalità del
suo rapporto con la sfera sociale. A partire da tali premesse, Mauss, riconsidera due relazioni
particolarmente pregnanti: morti e magia; donne e magia. Qual è la logica interna?
Nell’ambito dell’esperire umano, i morti sono l’espressione più tangibile, forse, della condizione
“altra”, della diversità totale: ciò li sposta dalla parte della magia, il cui fondamento, si ricorderà,
risiede nel fatto di essere separata rispetto alla esistenza ordinaria.

Nell’interpretazione di Mauss i due esempi dimostrano che il valore magico attribuito a persone,
cose dipende dalla relativa posizione che ciascuna categoria occupa nella società o rispetto ad
essa.

7. M. Mauss: magia e società

M. Mauss si spinge oltre il livello d’analisi appena descritto, facendo derivare lo stesso principio
soprannaturale, non trascendente, della magia, evocato dal termine mana, dalle differenze
esistenti in seno ad una determinata formazione sociale. Si tratta di valori sociali e non
sperimentali, come sintetizza efficacemente Mauss. Gli elementi di spicco presenti in tale
impostazione metodologica risiedono nella presa di distanza nei confronti di sistemazioni teoriche
troppo generiche ed ispirate alle categorie occidentali.

M. Mauss attribuisce alla magia la prerogativa di formulare giudizi di valore che concernono i più
vari aspetti del reale e che mutano da società a società. Il tratto saliente consiste nel riconoscere
tanto alla magia quanto alla religione anche una funzione logico-classificatoria. Coerentemente, i
principi costitutivi della magia e della religione privati di ogni connotazione in senso metafisico,
appaiono ricondotti al piano del pensiero collettivo.

Nella proposta avanzata da M. Mauss s’inserisce un ulteriore e rilevante fattore, quello dei bisogni
collettivi, i quali condizionano il carattere proprio dei giudizi magici. I giudizi magici sono altrettanti
preconcetti imperativi generati dalla convenzione sociale, la quale stabilisce pregiudizialmente, ad
esempio, che il segno crea la cosa, che la parte crea il tutto.

L’ultimo punto da affrontare riguarda la definizione completa del rapporto che intercorre tra magia e
religione. Secondo Mauss la religione tende alla creazione di immagini ideali, laddove la magia
mira al concreto, al pino immediatamente operativo.

Per verificare im relazioni a situazioni concrete le linee teoriche formulate da Mauss nel Saggio di
una teoria generale della magia, ci accosteremo brevemente al Saggio sul dono, in cui intraprende
una ricerca, badata sul metodo comparativo, nel coso della quale analizza, nell’ambito delle civiltà

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d’interesse etnologico, alcuni sistemi di scambio, accumunati dal fatto di presentarsi come sistemi
di prestazioni totali. I tratti caratteristici di questi ultimi sono i seguenti:
A) il soggetto dello scambio è rappresentato da determinate collettività
B) l’oggetto dello scambio trascende il livello puramente economico e si estende alla totalità dei
fattori che costituiscono la realtà culturale di un certo gruppo umano

Gli istituti sui quali si è maggiormente soffermata l’attenzione di Mauss sono:


1) il potlàc appartenente alle tribù amerindia del nord-ovest
2) il sistema commerciale intertribale detto kula
Il dono contiene qualcosa del donatore, un elemento che appartiene alla sua sostanza spirituale,
grazie al quale il donatore stesso può far presa sul beneficiario. Ciò che qualifica lo hau è il
desiderio incessante di “tornare al luogo della sua nascita, al santuario della foresta e del clan e al
proprietario”.
In altri termini, la magia con le sue rappresentazioni dà un contributo decisivo alla realizzazione
della dinamica dello scambio sociale.

8. C. Lévi-Strauss e l’eredità della scuola sociologica

S’impone innanzi tutto una premessa: una premessa che vale per tutti gli studiosi presi in
considerazione e che vale per Lévi-Strauss: in questa sede saranno esaminati soltanto gli aspetti
del pensiero riferiti all’ambito magico-religioso, trascurando, per forza di cose, altri aspetti non
meno essenziali.

Durkheim prosegue sottolineando il carattere non naturale delle suddette divisioni, in quanto lo
spazio in sé non è articolato in alto e basso, destra e sinistra, ecc; lo spazio culturalmente
differenziato è funzionale al soddisfacimento di un’esigenza umana “elementare”: assoggettare i
dati dell’esperienza sensibile ad un preciso criterio d’ordine.

La specificità del sacro, la sua alterità rispetto al resto, non chiama in causa in questo caso qualità
innate tanto misteriose quanto straordinarie; il sacro deve il suo carattere peculiare al fatto di
essere socialmente valorizzato come l’ambito in cui ha preso forma la cosmicizzazione del reale.

Di riflesso, le cose qualificate come sacre rappresentano altrettanti punti fermi sui quali poggia
l’ordine universale e senza i quali non resterebbe che l’ingovernabilità del caos. Lévi-Strauss
riconduce la sfera del sacro al piano delle funzioni sociali, lasciando da parte tanto le valutazioni di
stampo ontologico, quanto i rimandi costanti alla dimensione affettiva.

9. C. Lévi-Strauss: il tabù dell’incesto e lo scambio sociale

Del tabù dell’incesto, Lévi-Strauss mette in luce il carattere dinamico, analizzando in che modo
l’aspetto negativo del fenomeno si funzionale alla individuazione del comportamento sessuale
positivo da perseguire. Ricorrendo ad un esempio elementare, il soggetto che vieta a sé il
consumo sessuale della propria sorella, fa questa scelta in vista di un fine preciso: quello di cedere
in moglie la consanguinea ad un altro soggetto sociale, a condizione che quest’ultimo lo risarcisca
mediante un “dono” del tutto equivalente a quello ricevuto.

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Proiettando tale schema su ampia scala, si può ben dire che, per effetto della proibizione
dell’incesto, si mette in moto il meccanismo dello scambio sociale, all’insegna della regola della
reciprocità. Risultano altrettanti stimoli fecondi l’idea-guida secondo la quale nello scambio c’è
modo di più delle cose scambiate e, quindi, la visione dello scambio com fatto sociale totale per via
delle sue implicazioni psicologiche, sociale ed economiche.

C’è di più: la proibizione dell’incesto non solo appartiene alla cultura ma la fonda, essendo
valorizzata da Lévi-Strauss come “il passo fondamentale grazie al quel, per il quale e soprattutto
nel quale si compie il passaggio dalla natura alla cultura”.

10. C. Lévi-Strauss: magia e mitologia

Uno dei bersagli principali della critica lévistraussiana è costituito dalla interpretazione
evoluzionistica dei fatti culturali e dalla maniera d’impostare il rapporto magia/scienza. Ci si chiede
quale sia il criterio che permetta di differenziare scienza e magia. Tale criterio sembra chiamare in
causa al diversità dei piani in cui il pensiero magico e quello scientifico si collocano per
raggiungere le rispettive finalità. Lévi-Strauss parla di due livelli strategici in cui la natura si lascia
aggredire dalla conoscenza: l’uno, prossimo all’intuizione sensibile; l’altro appartiene al pensiero
scientifico moderno.

Va detto che Lévi-Strauss lega in secondo piano la funzione fabulatrice dei miti, per concentrare il
proprio interesse sulla complessa articolazione interna di questi ultimi, sulla logica che regola le
connessioni tanto all’interno dei singoli miti, quanto all’interno delle formazioni mitologiche più
complesse.

Il mito è caratterizzato dalla presenza di unità costituire complesse. Prendendo come paradigma
orientativo la lettura strutturale del mito di Edipo, la prima operazione messa in atto, riguardo la
scomposizione della trama narrativa in relazioni “minime”.

Si evince che il significato dei miti non affiora direttamente alla superficie, essendo situato ad un
livello ben più profondo rispetto quello in cui si snoda la fabula. Un’ulteriore peculiarità del mito
risiede nel fatto di consentire un duplice piano di lettura: quello diacronico e quello sincronico. È la
lettura di tipo sincronico che porta al significato nascosto dei miti.

Lévi-Strauss sottolinea il legame di continuità esistente tra l’indagine sulla mitologia e quella
compiuta nelle Strutture elementari della parentela. La finalità cui risponde l’analisi del materiale
mitologico è analogia: mettere in luce le leggi che operano dietro il piano dell’apparenza arbitraria
ed analizzare, quindi, i princìpi logici che presiedono ai processi di trasformazione che si verificano
quando si passa da un contesto mitologico ad un altro.

La mitologia ci media l’esprit colto nella sua concretezza di “cosa tra le cose” e, al contempo, libero
da ogni condizionamento storico culturale, che ne limiterebbe la portata universale. In definitiva, il

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sistema teorico-metodologico messo a punto da Lévi-Strauss per lo studio dei miti ha impresso
una svolta per nulla trascurabile anche in questo campo di ricerca. L’individuazione dello specifico
linguaggio dei miti; la distinzione tra lettura di tipo diacronico e lettura di tipo sincronico; la scoperta
di un solido impianto razionale fondato sulla logica delle qualità sensibili costituiscono alcuni dei
risultati dai quali l’analisi dei miti difficilmente potrà prescindere.

V.
La storia delle religioni in Italia

1. R. Pettazzoni: l’universalità dell’indagine storico religiosa

Nel presentare la figura e l’opera di Raffaele Pettazzoni prenderemo le mosse da uno scritto, molto
denso, che appartiene alla fase ultima dell’attività dello studioso: l’onniscienza di Dio.

Le origini più lontane risalgono ad un remoto piano di studi parzialmente attuato con la
pubblicazione del volume L’Essere celeste nelle credenze dei popoli primitivi. I cenni relativi alla
laboriosa gestazione dell’opera servono ad illustrare la particolare fisionomia della Prefazione.
Questa si presenta come una riflessione a posteriori che fornisce a Pettazzoni l’opportunità di fare
il punto su alcuni nodi teorici e sul suo modo di procedere nel lavoro.

L’elemento che più di ogni altro merita una riflessione riguarda il “progressivo farsi di un pensiero”.
Il brano citato contrappone implicitamente un sistema di pensiero già fatto, preesistente all’analisi
dei documenti, fatalmente incline alle tentazioni del dogmatismo, ad un pensiero che gradualmente
si realizza come sistema nella concretezza stessa del lavoro scientifico, nel rapporto con i materiali
di studio, i quali stimolano l’elaborazione concettuale.

In riferimento a quanto è stato appena detto, appare comprensibile la posizione di privilegio da noi
accordata agli scritti dell’ultima fase scientifica, nei quali Pettazzoni può tirare le somme della sua
intensa attività di ricerca.

Il concetto tradizionale di religione non può rimanere ancorato ad uno specifico modello, ma deve
essere riformulato in modo da poter costruire la chiave d’accesso a tutti i sistemi religiosi esistenti,
nessuno escluso. Uno dei meriti principali di Pettazzoni è aver messo bene a fuoco la straordinaria
complessità della disciplina storico-religiosa.

Ogni religione è un prodotto storico, culturalmente condizionato dal contesto e, a sua volta, in
grado di condizionare il contesto stesso in cui opera. Il dato essenziale che si evince da quanto è
stato appena detto è che ogni religione testimonia in modo inconfutabile del pieno inserimento
nella dimensione storica dei gruppi umani che l’hanno forgiata o che la professano.

Il metodo d’indagine delle religioni così concepite si fonda ovunque sul comparativismo storico, il
cui obiettivo è la ricostruzione del processo di formazione di un dato prodotto religioso o di una
data religione nel suo insieme.

La piattaforma teorica e metodologica che si risolve totalmente nella storia i fatti religiosi e che si
ripropone di risalire alle origini integralmente umane dei medesimi. In concreto, la polemica di

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Pettazzoni ha per oggetto la teoria del “monoteismo primordiale” formulata dal padre W. Schmidt
della Scuola storico-culturale viennese. Lo studioso italiano demolisce l’intero edificio del
“monoteismo primordiale” che tentava di conciliare la dottrina della rivelazione con i dati della
ricerca scientifica.

Affiora anche in questo rilievo la preoccupazione di non estendere arbitrariamente i nostri prodotti
religiosi e gli schemi di pensiero che li sostengono ad altri contesti, siano questi riferiti ai primordi,
al mondo “primitivo” o ad altro ancora.

2. Il rapporto Pettazzoni-Eliade

È rimasta ancora in sospeso la questione della ulteriore definizione dei predicati che fanno della
religione una realtà culturale autonoma. Un interrogativo può orientare la ricerca che ci sta davanti:
in quale ambito specifico si colloca la religione?

Essa appartiene elettivamente alla sfera dello straordinario, anche se può partecipare
episodicamente del mondo della norma. La dimensione dello straordinario è propria di quelle
particolari circostanze della vita collettiva che richiedono un grado di tensione ben più elevato di
quanto di solito accada.

Il fatto che il mondo della religione sia posto sotto il segno della rottura degli equilibri che
sostengono la vita di routine non è condizione sufficiente per proiettarlo oltre i confini dell’umano.
Mondo della religione e mondo della norma risultano, in definitiva, opposti e, al tempo stesso, simili
in quanto entrambi classificabili come prodotti storici.

Ad Eliade va riconosciuto, tra l’altro, il merito di aver contribuito, in misura non trascurabile, a
sensibilizzare la cultura occidentale contemporanea alle problematiche proprie della scienza delle
religioni. Va detto, a mò di premessa, che per Eliade la nozione di religione fa perno sulla
dicotomia sacro/profano.

Questi due in definitiva si oppongono radicalmente tra loro, come il valore si oppone al disvalore.
Pettazzoni assume criticamente tali premesse teoriche e tenta di ribaltarle, almeno in parte: il suo
“elogio del quotidiano” ha il sapore di una pacata quanto netta risposta polemica. Persegue
l’obiettivo di riconoscere a ciascuno dei due temini un proprio ambito specifico e un proprio grado
di realtà.

3. E. De Martino: divenire e presenza umana

Un elemento della teoria eliadiana sul quale vale la pensa di soffermarsi riguarda il carattere che
assume la relazione sacro/profano. Secondo Eliade nelle società arcaiche e tradizionali rivale la
tendenza a consacrare l’intera sequenza dei momenti profani. Polarmente opposta alla fuga del
sacro è la “resistenza al sacro”, la quale riposa su vari ordini di motivazioni.
1. la prima ragione è da ricondurre all’essenza del sacro che è visto come una realtà ontologica.
2. la seconda motivazione chiama in causa le autonome manifestazioni del sacro: la resistenza in
questione rappresenta una forma di difesa che l’uomo fa valere di fronte a quelle sollecitazioni
del sacro che sporgono ad “abbracciare completamente e irrevocabilmente i valori sacri”

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3. un terzo fattore: la resistenza al sacro è anche il frutto “dell’importanza crescente che tendono
ad acquistare i valori della vita umana”.

La relazione sacro/profano è vista, in ogni caso, come una relazione in cui uno dei due termini
tende ad escludere l’altro. Il contrasto De Martino-Eliade rappresenta un caso di polemica feconda
e ricca di stimoli, il cui significato, riguarda due orientamenti di pensiero ancor oggi ben presenti
nella nostra cultura.

Per Eliade l’immersione nel sacro offre l’occasione di compiere una fuga salvifica dell’irrealtà della
durata profana. De Martino assume come presupposto della sua riflessione teorica particolari
segmenti del divenire, definiti come “momenti critici del divenire”.

Entra poi in considerazione un fattore che gioca un ruolo-chiave nel sistema teorico messo a punto
da De Martino: il soggetto umano, inteso in senso prevalentemente collettivo. Si tratta di presenza
umana nel mondo: in tale nozione si concretizza l’”esserci”, inteso nell’accezione heideggeriana,
criticamente mutata da De Martino.

La presenza è, dunque, dinamismo culturale in virtù del quale l’uomo non si limita a subire le
situazioni in cui oggettivamente si trova coinvolto, ma è in grado di conferire loro un significato
compiutamente umano. Quindi si arriva alla destorificazione religiosa.

4. E. De Martino: il problema della destorificazione

Destorificare vuol dire semplicemente negare, occultare la storia. Nel caso in cui sia assunta e
disciplinata culturalmente, nonché socialmente istituzionalizzata, la destrorificazione svolge un
ruolo positivo di grande portata. Per distinguere le modalità del fenomeno si parla di:
- destorificazione istituzionale
- Destorificazione irrelativa
La destorificazione che ha luogo nell’ambito della religione e che si esprime attraverso il linguaggio
simbolico dei miti e dei riti è di tipo squisitamente culturale e serve a proteggere coloro che vi
fanno ricorso dal pericolo della destorificazione irrelativa che si manifesta nelle situazioni rischiose
per la presenza.

Gli attori umani, dal canto loro, si celano dietro la maschera delle figure mitiche che hanno vissuto
la vicena di crisi-riscatto collettivamente rievocata, comportandosi come se fossero essi stessi i
protagonisti del mito, di cui ripetono parole e gesti. Il fattore che unifica i vari livelli presi in esame è
costituito dalla dinamica del “come se”: il “come se”, indice del superamento culturale
dell’esistente, può essere considerato quale segno distintivo della destorificazione religiosa.

Riprendendo il confronto Eliade-De Martino, la differenza tra i due studiosi non può essere
banalizzata, affermando semplicemente che il primo sopravvaluta e il secondo sottovaluta la
dimensione del sacro. La differenza di fondo risiede nel fatto che per Eliade la proiezione nella
sfera mitico rituale possiede un valore in sé, laddove per De Martino essa ha validità non in
assoluto, ma solo in rapporto alla situazione angosciante, cui si è fatto cenno.

5. Il problema della istogenesi in E. De Martino

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Si può parlare di un fondamentale funzione protettiva esercitata nei riguardi della presenza umana
dagli istituti magico-religiosi. Nei quadri teorici demartiniani la sfera del sacro, la quale permea di
sé tanto la regione quanto la magia, ha tutti i requisiti del prodotto culturale, collettivamente
modellato per rispondere alle esigenze umane basilari.

Il sacro è un fenomeno culturale creato allo scopo di arginare, da angolazioni diverse, il rischio
della perdita della presenza. A queste considerazioni si aggiunga quanto è stato detto a proposito
della destorificazione religiosa e della conseguente trasfigurazione magico rituale. Quest’ultima ha
un’importanza cruciale perché la cristi riplasmata nei modi del mito e del rito comporta il riscatto. In
definitiva, il pericolo che la presenza umana possa perdersi non viene rimosso dalla coscienza
collettiva, ma viene assunto danno vita ad una serie di istituti religiosi che offrono l’opportunità di
agire sulla crisi.

L’alterità di cui parla De Martino non è concepita come una realtà ontologicamente data, del tutto
autosufficiente, dotata del potere di agire sull’uomo, attraendolo e respingendolo: essa è valutata
come un prodotto sui generis di cui è possibile ricostruire l’origine: più precisamente è il risultato di
un peculiare processo di trasfigurazione simbolica.

6. E. De Martino: magia e religione

Alla definizione dei caratteri distintivi del maoismo in quando fenomeno culturale De Martino ha
dedicato un’opera che alcuni studiosi considerano il suo capolavoro: Il mondo magico. Tra i primi
nodi teorico-metodologici affrontati c’è quello riguardante l’atteggiamento mentale da assumere nei
confronti del magismo, che si presenta a noi occidentali con i segnali più vistosi della diversità
culturale. L’alternativa è chiara: o si resta prigionieri delle categorie interpretative occidentali, o si
tenta di forgiare, a partire dai documenti osservati, altre categorie del giudizio, tali da costruire
altrettanti chiavi di lettura del mondo magico.

In questi guadagni culturali si concretizza il superamento della forma mentis rigidamente


eurocentrica, il cui punto d’approdo consiste in un radicale rinnovamento dello storicismo
tradizionale. De Martino avverte con chiarezza che le forme tradizionali, in generale, non possono
costituire un interesse dominate quindi ogni giudizio storico che impieghi esclusivamente tali
categorie è destinato a non essere individuante.

Ci si chiede allora quale sia il criterio in grado di mettere in risalto la specificità del magico in
quanto orizzonte di cultura e di storia. Esso risiede, per De Martino, nel dramma della presenza
teso tra il polo della crisi e quello del riscatto. Per misurare la produzione di cultura e di storia
propria del maoismo non bisogna mai perdere di vista, quale fattore individuante, il processo in
virtù del quale la presenza e, con essa, il mondo tendono a consolidarsi.

Nei saggi successivi a Il mondo magico l’apparato concettuale elaborato in funzione della
sistemazione culturale del magismo è fatto oggetto di ulteriori riflessioni e divine il nucleo intorno al
quale gravita la definizione della nozione di sacro. In sintesi, il problema della presenza in crisi e la
ricerca della risoluzione collettiva della crisi costituiscono le due polarità del dramma che può
essere definito magico-religioso.

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Per concludere, nel pensiero di De Martino magia e religione sono accomunate dalla fondamentale
funzione di elaborare strategie culturali di carattere simbolico destinate a garantire l’esserci nel
mondo.

7. A. Brelich: l’ambito della religione

Nei suoi Prolégomènes Brelich cercata di rispondere a una domanda: esiste una disciplina che
non si configuri come la semplice somma delle storie delle religioni più svariate e che, quindi,
sappia fornire i criteri teorici e metodologici tali da integrare in un disegno culturale omogeneo i
molteplici contributi monografici?

Rappresentano quindi per Brelich un’occasione per tornare a riflettere sui caratteri salienti della
storia delle religioni: si presenta problematica già la definizione del suo oggetto - la religione. La
scelta di un’impostazione critica di questo tipo potrebbe avere come risultato l’impossibilità di
disporre di criteri generali in grado di individuare le qualità specifiche della religione nel quadro
delle manifestazioni della cultura.

Brelich passa in esame gli elementi il cui insieme costituisce l’ambito delle religioni. Oggetto di
credenze religiose sono le entità sovrumane, i cui caratteri dipendono dal tipo di civiltà in cui
risultano organicamente inserite. Le divinità politeistiche, l’”Essere supremo”, oltre alle già citate
sono altrettanti esempi di entità sovrumane che rientrano nel quadro delineato.
Una seconda categoria di esseri sovrumani comprende quelli che esercitato una funzione
protettiva nei riguardi del gruppo umano, quando quest’ultimo si trova al cospetto di fenomeni
salienti della vita reale che, sfuggono al potere decisionale dell’uomo.

8. A. Brelich: religione e storia delle religioni

Il rito svolge una funzione non dissimile da quella esercitata dalle credenze religiose, in quanto
esso è destinato a sottrarre al piano della pura contingenza fenomeni d’importanza esistenziale al
fine di conferire a questi ultimi un significato culturale.

L’istituto del tabù ha in comune con altri fenomeni riconducibili all’ambito della religione la
prerogativa di promuovere l’attività profana, di creare le condizioni che permettono a quest’ultima
di esplicarsi liberandola da tutto ciò che minaccia di soffocarla.

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