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HEIDEGGER

Martin Heidegger nacque a Messkirch nel 1889 da una famiglia cattolica e si iscrisse nel 1909 all’università
di Friburgo alla facoltà di teologia, abbandonata due anni dopo per la facoltà di filosofia, dove si laureò nel
1913. In seguito, ottenne, sempre presso la medesima università, la libera docenza fino al 1923. In questa
università dapprima fu assistente di E. Husserl e, in seguito, ne prese il posto fino a divenirne rettore nel
1933. Per via della sua iniziale adesione al nazismo Heidegger si dimise in quanto il governo hitleriano gli
impose di rimuovere due colleghi contrari al regime. Negli anni di Friburgo pubblicò il suo capolavoro, Sein
und Zeit (Essere e Tempo) nel 1927. Martin Heidegger aderì inizialmente al nazismo ma, come accennato in
precedenza, se ne distaccò ben presto per via di alcune divergenze non del tutto chiarite. La pretesa del
filosofo di far passare il proprio progetto di riforma universitaria e di fare da guida culturale al
Nazionalsocialismo trovò delle resistenze e delle opposizioni da parte dei gerarchi. In seguito al suo
allontanamento dalle posizioni naziste Heidegger si ritirò nella sua residenza nella Foresta Nera, dove si
dedicò quasi interamente alla ricerca e alla didattica. Nei sui Contributi alla filosofia (1935) fece una severa
critica al nazionalsocialismo che trovò piena realizzazione in una serie di lezioni tenute tra il 1936 e il 1940
su Nietzsche: qui non esitò a criticare le interpretazioni nazionalsocialiste del filosofo. Nonostante
l’allontanamento dal Nazismo, alla fine del secondo conflitto mondiale fu chiamato a pagare per il suo
intermezzo politico. Fu costretto a subire una serie di umiliazioni e allontanato definitivamente
dall’insegnamento dal Governo Militare Francese. Questo fatto gli provocò una serie di problemi e lo mandò
in una crisi profonda, da cui si risollevò a seguito del ricovero nel sanatorio di Badenweiler, fino alla
pubblicazione della Lettera sull’umanismo (1946). Furono proprio gli anni dell’isolamento che provocarono
un radicale ripensamento della sua filosofia spingendolo a meditare su tematiche come l’essenza della
tecnica (Ge-Stell), sul pensiero dell’essere in quanto “evento” e sui rapporti tra pensiero, poesia e
linguaggio. Restò celebre la sua intervista rilasciata al più diffuso giornale tedesco nel 1966 intitolata Ormai
solo un dio ci può salvare con la condizione che sarebbe stata pubblicata solo dopo la sua morte. In tale
intervista il filosofo intendeva chiarire i suoi rapporti con il Nazionalsocialismo e i lunghi anni
dell’isolamento volontario. Dopo la sua morte, il 26 maggio 1976, la discussione attorno alla vita e al
pensiero di Heidegger improvvisamente si rianimò e già l’anno precedente iniziò la pubblicazione delle sue
opere complete (prevista in circa cento volumi) per rendere pubblico, al di là delle appartenenze politiche e
dei coinvolgimenti personali, un immenso lavoro di confronto teorico-speculativo, di scavo teoretico e di
riflessione sui grandi problemi della tradizione filosofica.

LA CURA

L’uomo, dunque, nel suo esserci è l’interlocutore privilegiato della domanda e colui attraverso il quale si
indagano le modalità dell’essere, quelli che Heidegger chiama esistenziali. Le modalità passate in rassegna
sono numerose ma quella su cui gravita l’attenzione, la chiave di volta dell’intero Essere e tempo, è la cura,
che – con il linguaggio criptico che nel corso della lettura diviene familiare – viene definita l’essere
dell’esserci, la sua componente fondamentale. Per spiegarla in termini immediati viene recuperata una bella
favola di Igino di sapore didascalico: la Cura dà forma all’uomo con del fango e Giove gli dona il soffio vitale,
ma arrivati al momento di decidere che nome dare a questa creatura si scatena una lite, cui partecipa anche
la Terra, rivendicando il fatto di aver anch’essa partecipato donando parte del proprio corpo (il fango) per
dar vita a questo nuovo essere. Giudice equo della diatriba sarà Urano: di Giove sarà lo spirito, della Terra il
corpo, ma l’esistenza intera dell’uomo sarà preda della Cura.La cura (preoccupazione e sollecitudine in
senso latino), dunque, è struttura stessa dell’esistenza. È ciò che sta sotto l’ansia di possesso, il desiderio,
l’andare verso le cose e gli altri. Dice Heidegger, tuttavia, che esistono due modi di prendersi cura ed è in
questa osservazione che si coglie l’importanza del messaggio del filosofo per la vita: da una parte c’è una
cura che ci fa sostituire all’altro, agevolandolo di fronte alla sua difficoltà, quello che viene chiamato un
saltar dentro al suo posto; dall’altra c’è una cura che, invece, è un saltar avanti, quasi un proporsi come
modello, aiutando l’altro a diventare sé stesso. La prima porta, inconsapevolmente, ad una situazione di
dominazione e di dipendenza, sottrae all’altro la sua stessa cura. Significa, di fatto, impedire all’altro di
prendere su di sé la responsabilità della vita: è equiparabile ad una menomazione o alla relegazione in
quello che Kant definiva “stato di minorità”. Riportato ad una dimensione prosaica e quotidiana la cura
inautentica è allacciare le scarpe ad un bambino ormai grande invece di insegnargli a farlo da solo o dare
denaro a qualcuno che è in difficoltà economica, invece di avviarlo verso un lavoro che gli consenta di essere
autonomo. La "cura" è un termine che potrebbe essere interpretato in modi diversi all'interno del contesto
del pensiero di Hegel. Tuttavia, in generale, Hegel non sviluppa un'elaborata teoria della cura nel suo
sistema filosofico. Nel pensiero di Hegel, l'attenzione è rivolta principalmente all'analisi della conoscenza,
della storia, della moralità e della politica. Le sue opere, come la "Fenomenologia dello Spirito" e "La scienza
della logica", si concentrano sulla comprensione dell'evoluzione dello spirito umano e delle strutture
concettuali che guidano il pensiero e l'esperienza umana. Tuttavia, Hegel riconosce l'importanza della sfera
etica e dell'interazione tra gli individui all'interno della società. La cura potrebbe essere considerata un
aspetto dell'etica hegeliana, in quanto coinvolge l'attenzione e la responsabilità verso gli altri. La dimensione
etica per Hegel si sviluppa attraverso il riconoscimento reciproco e l'interazione tra le singolarità autonome,
portando a un'etica della libertà e della realizzazione individuale all'interno di una comunità. Tuttavia, è
importante notare che Hegel non ha sviluppato un trattamento sistematico o dettagliato della cura come
concetto autonomo nella sua filosofia. Alcuni studiosi hanno interpretato il suo pensiero alla luce delle
dinamiche di cura e reciprocità sociale, ma queste interpretazioni possono variare e non sono direttamente
tratte dalle opere di Hegel.

LA PAROLA E LA CHIACCHIERA

Il termine «chiacchiera» non ha qui alcun significato «spregiativo». Esso non fa che designare
terminologicamente un fenomeno positivo che costituisce il modo d’essere della comprensione e
interpretazione dell’Esserci quotidiano. Perlopiù il discorso si esprime, e si è già sempre espresso, a parole. È
linguaggio. E ciò che è espresso presuppone sempre la comprensione e l’interpretazione. Il linguaggio, in
quanto espressione, porta con sé inscritta una interpretazione della comprensione dell’Esserci. Questa
situazione interpretativa non è qualcosa che si presenta occasionalmente alla portata del discorso, come
non lo è il linguaggio: il suo essere è conforme all’Esserci. L’Esserci, innanzi tutto ed entro certi limiti, è
completamente rimesso a questa interpretazione inscritta [nel linguaggio], che regola e ripartisce le
possibilità della comprensione media e della relativa situazione emotiva. […] Il discorso è comunicazione. La
tendenza del suo discorrere è a coinvolgere nel senso del suo scorrere coloro che lo sentono, a renderli
partecipi dell’attenzione a ciò di cui il discorso discorre. E poiché il linguaggio espresso porta con sé anche la
sua stessa comprensione «media», il discorso comunicante può essere compreso anche senza che colui che
ascolta si collochi nella comprensione originaria di ciò sopra cui il discorso discorre. Più che di comprendere
ciò di cui si discorre, ci si preoccupa di ascoltare ciò che il discorso dice come tale. L’oggetto della
comprensione diviene il discorso, il «su che cosa» lo è solo approssimativamente e superficialmente. Si
intendono le stesse cose, perché ciò che è detto è compreso da tutti nella stessa approssimazione media. Il
sentire e il comprendere sono anticipatamente già vincolati a ciò che il discorso dice. La comunicazione non
«partecipa» il rapporto originario all’essere di ciò di cui si discorre; l’«essere assieme» si realizza nel
«discorrere assieme» e nel prendersi cura di ciò che il discorso dice. Ciò che conta è che si discorra.
L’«essere stato detto», l’enunciato, la parola, si fanno garanti dell’esattezza e della conformità alle cose del
discorso e della sua comprensione. E poiché il discorso ha perso, o non ha mai raggiunto, il rapporto
originario con ciò di cui il discorso discorre, ciò che esso partecipa non è l’originaria appropriazione di
questo «ciò», ma la diffusione e la ripetizione del discorso. Ciò che è stato detto, si diffonde in cerchie
sempre più larghe e ne trae autorità. Le cose stanno così perché così si dice. La chiacchiera si costituisce in
questa diffusione e in questa ripetizione del discorso, nelle quali l’incertezza iniziale in fatto di fondamento
si aggrava fino a diventare infondatezza. Essa trascende il campo della semplice ripetizione verbale, per
invadere quello della scrittura sotto forma di «scrivere pur di scrivere». In questo caso, la ripetizione del
discorso non si fonda sul sentito dire, ma trae alimento da ciò che si è letto.
La capacità media di comprensione del lettore non sarà mai in grado di decidere se qualcosa è stato creato e
conquistato con originalità o se è frutto di semplice ripetizione. La comprensione media non sentirà mai
neppure il bisogno di una distinzione di questo genere, visto che essa comprende già tutto. La totale
infondatezza della chiacchiera non è un impedimento per la sua diffusione pubblica, ma un fattore
determinante. La chiacchiera è la possibilità di comprendere tutto senza alcuna appropriazione preliminare
della cosa da comprendere. La chiacchiera garantisce già in partenza dal pericolo di fallire in questa
appropriazione. La chiacchiera, che è alla portata di tutti, non solo esime da una comprensione autentica,
ma diffonde una comprensione indifferente, per la quale non esiste più nulla di incerto. […] La chiacchiera
non è il risultato di un inganno voluto. Essa non ha il modo d’essere della consapevolezza. Le basta dire e
ridire perché si determini il capovolgimento di un buco aperto in un buco otturato. Infatti, ciò che è detto
viene senz’altro assunto come «dicente qualcosa»: basta aprire la bocca per chiacchierare. La chiacchiera,
rifiutandosi di risalire al fondamento di ciò che è detto, è sempre e recisamente un procedimento di
chiusura. Questa chiusura è ulteriormente aggravata dal fatto che la chiacchiera, con la sua presunzione di
possedere sin dall’inizio la comprensione di ciò di cui parla, impedisce ogni riesame e ogni nuova
discussione, svalutandoli o ritardandoli in modo caratteristico. La frase "L'essenza della parola è la
chiacchiera” è attribuita a Martin Heidegger, un filosofo tedesco del XX secolo. Secondo Heidegger, la
chiacchiera (Gerede in tedesco) rappresenta un'esperienza comune e quotidiana del linguaggio,
caratterizzata da un uso superficiale e inautentico delle parole. Egli sostiene che nella chiacchiera le parole
vengono usate come semplici oggetti di consumo, senza una comprensione profonda del loro significato e
senza una connessione autentica con la realtà. Heidegger sottolinea la necessità di superare la chiacchiera e
di riscoprire l'essenza autentica della parola. Per lui, la parola autentica (Rede in tedesco) è un'esperienza
più profonda e autentica del linguaggio, che coinvolge un'apertura verso l'essere e una connessione
autentica con il mondo. La parola autentica permette di svelare il significato più profondo delle cose e di
manifestare la nostra autenticità come esseri umani. Heidegger critica l'uso banale e inautentico del
linguaggio nella società moderna, sostenendo che ciò contribuisce all'alienazione e all'oblio dell'essere.
Invita le persone a riflettere sulla propria relazione con le parole e sulla possibilità di usare il linguaggio in
modo più consapevole e autentico. In conclusione, secondo Heidegger, la chiacchiera rappresenta
un'esperienza superficiale e inautentica del linguaggio, mentre la parola autentica permette una
connessione più profonda con l'essere e una comprensione autentica del mondo. Le parole, così, nel
secondo Heidegger costituiscono non meri strumenti denotativi, ma realtà capaci di portare alla luce ciò che
è nascosto, ovvero l’essere stesso. E proprio il problema dell’essere è il fulcro del pensiero heideggeriano sia
prima della “svolta”, nell’opera “Essere è tempo” (1927), che dopo di essa. Eppure, se da principio il filosofo
si preoccupa d’inquadrare l’errore fondamentale della metafisica occidentale in quanto appiattimento
dell’essere all’ente (entificazione dell’essere), nel periodo successivo alla svolta, Heidegger approfondisce,
con maggiore incisività, il tema del linguaggio, sostenendo che l’uso assertivo di esso (uso tipico della
metafisica e della scienza) non è in grado di cogliere l’essere e finisce a propria volta con il reiterare l’errore
di fondo dell’ appiattimento dell’essere (entificazione di esso). La ricerca è dunque ora rivota alla parola
poetica, la sola capace di sottrarsi alla tendenza metafisica alla riduzione e alla nomenclatura
categorizzante, che limita “l’orizzonte di senso” appiattendolo effimeramente alla mera presenza. Il potere
evocativo della parola si identifica, così, col linguaggio poetico -né quello metafisico, né quello scientifico
possono ormai bastare-, poiché solo la poesia riesce a portare alla luce l’essere dell’ente, senza tuttavia
ridurlo a qualcosa di definitivo, bensì avvicinandolo e cantandone al tempo stesso l’assenza. La poesia rende
sempre nuovo ciò che nomina, in quanto il suo nominare non è un definire ma un e-vocare, “un chiamare
sacro”, simile alla preghiera, che mette in comunicazione la realtà degli enti e quella dell’essere. La poesia è
difatti il modo originario con cui il mondo viene ”battezzato” dall’uomo e con il quale esso prende
vita.Questa revisione del linguaggio, che lo riveste della capacità di dischiudere i significati, viene elaborata
da Heidegger a partire dalla svolta (Kehre) delineata nel saggio “L’essenza della verità” (1943). A partire
dalla “svolta”, l’autore utilizza la poesia -specie quella di Holderlin, grande visionario- come emblema della
possibilità di accedere all’essere degli enti e all’essere in sé. La parola poetica si fa difatti ponte tra enti ed
essere, tra immanenza e trascendenza, in virtù del proprio “potere” evocativo: attraverso di essa il
linguaggio non si applica ai significati, ma li genera. La poesia non è dunque derivabile dall’esperienza, ma è
l’esperienza a collocarsi nella parola, poiché solo a partire dal linguaggio essa prende forma. Mediante la
parola è resa possibile l’esperienza degli enti e l’esperienza dell’essere, qualcosa che tuttavia non si fa mai
cogliere in modo definitivo e che resta, in ultima istanza, comprensibile solo tacendo e svuotando il proprio
ego. È in questo giaciglio di silenzio che l’essere si rivela e nel linguaggio poetico, nel vivere poeticamente,
lascia la traccia più vivida. Con la sua analisi, Heidegger intende così spalancare la porta all’essere proprio a
partire dalla poesia, via privilegiata e attività deputata a “portare alla luce ciò che è nascosto”, come
l’etimologia della parola – poiein – indica. Per Martin Heidegger, la parola (Wort in tedesco) occupa un
ruolo centrale nella sua filosofia. Egli considera il linguaggio come il luogo in cui l'essere si manifesta e
l'essere stesso viene compreso. Heidegger ritiene che la parola non sia semplicemente un mezzo per
comunicare concetti o trasmettere informazioni, ma abbia una dimensione più profonda e ontologica. Ecco
alcuni punti chiave sulla concezione della parola da parte di Heidegger:
1. La parola come luogo dell'essere: Per Heidegger, la parola è il luogo in cui l'essere si fa presente e si svela.
Attraverso il linguaggio, l'essere trova la sua espressione e possibilità di manifestarsi nella realtà. La parola
non è solo uno strumento, ma è la casa dell'essere stesso.
2. La parola come veicolo di significato: Heidegger sostiene che la parola non sia solo un segno
convenzionale, ma porti in sé un significato ontologico più ampio. Ogni parola ha una radice etimologica che
rivela il suo legame con l'essere e con il mondo. L'uso autentico delle parole può condurre a una
comprensione più profonda dell'essere.
3. L'importanza del silenzio: Per Heidegger, il silenzio è strettamente collegato alla parola. Il silenzio non è
un'assenza di parole, ma un'apertura per l'essere stesso. Nel silenzio, l'essere si manifesta in modo più
originario e autentico. Il silenzio prepara il terreno per l'emergere delle parole significative.
4. La relazione tra parola e mondo: Heidegger considera la parola come un ponte che collega l'essere
umano al mondo. Le parole non solo rappresentano il mondo, ma partecipano attivamente alla sua
costruzione e comprensione. La parola è l'evento in cui il mondo si rivela e l'essere si manifesta.
5. L'interpretazione come processo di comprensione: Per Heidegger, l'interpretazione è essenziale per la
comprensione autentica del mondo. Attraverso l'interpretazione, le parole rivelano il significato e l'essenza
delle cose. L'interpretazione coinvolge l'ascolto attento e il rispetto per l'apertura del mondo. In sintesi, per
Heidegger, la parola è più di un semplice mezzo di comunicazione. Essa rivela l'essere stesso e porta con sé
un significato ontologico profondo. La parola autentica e il silenzio sono intimamente collegati e giocano un
ruolo fondamentale nella comprensione dell'essere e del mondo. La filosofia dell'esistenza. In Essere e
tempo (1927) Heidegger si propone di rifondare il problema ontologico, affrontandolo non più con
l'obiettivo tradizionale di afferrare concettualmente l'essere, ma nell'ottica fenomenologica rivolta a
esplorare "il senso dell'essere", così come si manifesta nell'esistente. Ora per Heidegger il luogo privilegiato
di disvelamento del senso dell'essere è l'uomo, che è quell'ente in grado di porsi il problema dell'essere.
L'uomo è chiamato Esserci, o Dasein, perché è fondamentalmente un'esistenza gettata nel mondo. Quindi
per l'ontologia risulta essenziale l'analisi del "modo di essere" dell'uomo che è l'esistenza: l'ontologia sarà
innanzi tutto "analitica dell'esistenza". L'esistenza è caratterizzata essenzialmente dall'oltre passamento,
dalla capacità dell'uomo di andare oltre se stesso verso il mondo e perciò l'uomo è anche un "essere-nel-
mondo". Il mondo diventa l'ambito dei progetti e delle azioni dell'uomo, il luogo in cui si "prende cura" delle
cose (utilizzandole, comprendendole, interpretandole) e "ha cura" degli altri uomini. L'uomo può decidere
per una forma inautentica dell'esistenza, governata dall'anonimato del "si dice", "si fa", lasciata alla
"chiacchiera", alla "curiosità", all'"equivoco". Oppure può scegliere una forma autentica dell'esistenza, in cui
"coesiste" con gli altri e decide le proprie possibilità e in primo luogo quella "incondizionata e certa": la
possibilità della morte, di fronte a cui l'uomo si sente nell'angoscia, esposto alla presenza del nulla, radicato
nella nullità dell'esistenza. Proprio perché è possibilità, l'esistenza si determina e progetta nella dimensione
temporale del futuro: perciò l'orizzonte in cui si inscrive l'ontologia, ossia il problema che l'analitica
dell'esistenza deve risolvere, è la temporalità. Il tempo si rivela allora come l'orizzonte, il "senso",
dell'essere. La crisi dell'analitica dell'esistenza. Una serie di opere successive a Essere e tempo ratifica la crisi
dell'analitica dell'esistenza, perché questa non riesce di fatto a impostare il rapporto fra tempo ed essere e
perché l'essere di cui si ricerca il senso non è l'essere dell'ente e quindi non lo si può raggiungere
interrogando un ente, neppure quell'ente privilegiato che è l'uomo. Soprattutto La dottrina platonica della
verità (1942) e la Lettera sull'"umanismo" (1947) attestano l'insufficienza del linguaggio razionale nel
determinare la "differenza ontologica", ossia la differenza tra ente ed essere. La metafisica occidentale ha
infatti ridotto l'essere a semplice presenza, a ente tra enti, a oggetto. L'impostazione metafisica va perciò
sostituita da un itinerario di pensiero in cui l'essere non è più pensato a partire dall'ente e alla stregua di
ente, ma a partire dal luogo d'origine dello stesso essere, che mentre si rivela si nasconde nell'ente. Il
problema della differenza ontologica è ora collocato in un "evento appropriante" (Ereignis), la cui
caratteristica consiste nel sottrarsi in se stesso mentre dona essere e tempo, nel nascondersi nello stesso
tempo che rivela le cose nella loro verità.

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